Cesare Secchi
L’infinita sfumatura
Immagini e suggestioni psicoanalitiche
attorno a una versione cinematografica di
Il giro di vite di Henry James
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
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ISBN 978-884671822-8
INTRODUZIONE
Lo spunto per la redazione di questo lavoro risale a una decina
d’anni or sono. In occasione di un convegno a Padova su cinema e
psicoanalisi, dal titolo «Trauma e catarsi», avevo pensato di proporre, per contrasto, qualche considerazione su The Innocents (Suspense, Jack Clayton: UK 1961): una delle traduzioni filmiche di Il
giro di vite di Henry James, in cui la struttura della fabula, come
nell’opera letteraria, si sottrae a qualunque linearità e a qualunque
risoluzione catartica. Non avendo potuto partecipare al suddetto
convegno, mi sono in seguito imbattuto nelle note prese per quella
che doveva essere la mia comunicazione, ritrovandomi a riflettere
più in generale sia sulla novella di James sia sulle specifiche problematiche della trasposizione dal testo letterario a quello filmico:
con riferimento alla mia fruizione di entrambi i testi.
Ricordavo il mio primo impatto, in piena adolescenza, con il
racconto dello scrittore americano. L’incontro, all’epoca particolarmente intenso, – la novella era stata divorata d’un fiato in un’unica tirata notturna, poi conclusasi con un’insonnia – aveva dato
luogo a qualche ulteriore lettura, di James e di altri, ugualmente
istintiva e poco meditata. Il film di Clayton era stato visto alcuni
anni più tardi (in seconda visione e in una pellicola un po’ terremotata) e mi aveva altrettanto colpito: certe immagini continuavano a girarmi per la testa, anche a distanza di tempo, quasi in cerca
di connessioni e di agganci, che le inserissero in altri contesti, in
possibili percorsi.
In entrambe le circostanze mi sembrava che le ipotesi più o meno coerenti fatte con gran fervore sia dai “grandi” sia dai miei pari
intorno alla logica degli eventi rispecchiassero solo molto parzialmente lo stato d’animo in cui la lettura del libro e la visione del
film mi avevano immerso: una strana inquietudine, un sospeso
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coinvolgimento, dove il ricorso a una chiave di decodificazione mi
risultava forzato, estraneo e soprattutto inutile.
In Suspense mi aveva impressionato, ancora di più rispetto al
racconto, l’eccezionale sensibilità della protagonista, che le insospettate risorse medianiche esponevano a un bombardamento di
stimoli così inconsueto e sconcertante. Mi era venuto, allora, da
collegare l’aura percettiva dell’istitutrice a quella, diversamente
configurata, del commediante Jof (Nils Poppe) in Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, Sw. 1956) di Ingmar Bergman oppure ai segnali extrasensoriali colti dal colonnello Aureliano Buendía in
Cento anni di solitudine (1969) di Gabriel García Márquez: una
dote naturale, indecifrabile e perentoria per il soggetto stesso, sbucata dalle latebre del nulla o dell’aldilà, a cui è impossibile dare un
minimo di ragionevolezza, di organizzazione, di continuità.
Mi immedesimavo, dunque, nella personale tragedia di Miss
Giddens, l’istitutrice in The Innocents, che nel corso di tutta la vicenda si trova a subire un afflusso di sollecitazioni tanto terribili
quanto privilegiate, e, nonostante gli esiti infausti di cui risulta
senza dubbio corresponsabile, si sforza costantemente di farvi
fronte con ammirevole determinazione. Poiché ignoravo l’annosa
querelle della critica sullo statuto reale o allucinatorio degli spettri,
mi pareva che le interpretazioni suggerite dai “grandi” sulla follia
della protagonista non ne rispettassero sufficientemente il punto
di vista: come se la governess di Il giro di vite o di Suspense fosse
un essere in carne e ossa, meritevole, quantomeno, di un’equanime difesa d’ufficio. In altre parole, anche se di pazzia si trattava,
l’acuta percettività della protagonista, accompagnata a un metodico lavoro introspettivo e a una fermezza d’animo degni di miglior
causa, non si poteva, a mio parere, liquidare con l’argomento della
sua frustrazione sessuale o del suo infelice amore per l’affascinante
Zio. Per non parlare delle banalizzazioni patofobiche del senso comune. Tanto più che, come osserva Poggi (2001), è ben documentato l’interesse di Henry James per la dimensione del paranormale,
oggetto del sistematico lavoro d’indagine da parte della Society for
Psychical Research, di cui sia lo scrittore sia il fratello William erano membri. Poggi aggiunge che, anche postulando “un’aura isterica” per la governess di Il giro di vite, vanno sottolineate «le facoltà
in varia misura straordinarie… che ne arricchiscono le manifesta-
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zioni [della psiche], non senza sollevare una quantità di interrogativi» (p. 472).
Molti anni dopo, in occasione di uno scritto in collaborazione
con Raul Melandri (1994) sul fenomeno della fascinazione, il racconto di James è stato preso in esame e analizzato sul presupposto
del modello metapsicologico da noi ipotizzato. La nostra lettura
della novella si sforzava di tenere in massimo conto l’ambiguità del
testo e la sua lunga storia critica. In estrema sintesi: i fantasmi sarebbero, sì, una proiezione allucinatoria della protagonista, ma anche il significante di una relazione chiusa e mortifera esistente de
facto all’interno della mente dei pupilli. Questi ultimi la mettono
solidalmente in scena per sopperire a profonde angosce di perdita:
la qualità incantevole di Miles e di Flora, contrappuntata dalle simmetriche e ripetute dichiarazioni di benessere psicofisico dell’istitutrice, sarebbe l’espressione di una capacità dei bambini di indurre, tramite comunicazioni sottili e insature, una violenta risposta
onirica nella protagonista. Dal Sogno Meraviglioso costei è scaraventata nell’Orribile Incubo, nel momento in cui coglie la qualità
distruttiva del segreto funzionamento psichico dei due fanciulli.
Riprendendo gli appunti sul film di Clayton, mi è sembrato che
la suddetta ipotesi fosse solo in parte applicabile a questa traduzione cinematografica, la quale, pur mantenendosi fedele allo spirito jamesiano, enfatizza alcuni aspetti, ne passa altri sotto silenzio
e propone comunque una sua rielaborazione tematico/linguistica
di The Turn of the Screw.
Preso da curiosità, ho cercato di documentarmi meglio su Suspense e ho constatato con sorpresa, anche navigando nella rete,
che le versioni di Il giro di vite in differenti media sono assai numerose: esistono alcuni adattamenti teatrali (William Archibald,
Jeffrey Hatcher, Ken Whitmore, Douglas Jones, Jon Pope, Dagnija Dreika), l’opera lirica di Benjamin Britten, una versione per
balletto, altre tre traduzioni cinematografiche e diverse riduzioni
televisive. È uscito qualche anno fa un nuovo film, prodotto negli
USA.1
1
Si tratta di The Turn of the Screw (USA 2003), diretto da Nick Millard e interpretato da Elaine Corral Kendall nella parte della protagonista. Al momento della ste-
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Il confronto con alcune delle citate “interpretazioni” del racconto di James ha fatto ancor più risaltare la ricchezza e l’originalità del film di Jack Clayton, che, come appassionatamente dichiara Manzoli (2001, p. 20), «resta il capolavoro jamesoniano per eccellenza». Benché nelle diverse pubblicazioni del tipo Guida o Dizionario del cinema (anche in quelle specializzate, come Horror o
Letteratura), Suspense venga sempre nominato ed elogiato,2 si direbbe, secondo l’opinione di chi scrive, che la qualità superiore di
questa opera non sia abbastanza riconosciuta.
Di Jack Clayton, scomparso nel 1995, la critica3 in linea di massima ha parlato con poco entusiasmo, se non con sufficienza. Viene spesso ricordato il suo primo ed eccellente lungometraggio da
regista, Room at the Top (La strada dei quartieri alti, UK 1958: con
Lawrence Harvey e Simone Signoret), un’opera cruda e asciutta,
salutata alla sua uscita, forse impropriamente, come il manifesto
del Free Cinema.
Fino ad allora Clayton aveva svolto varie attività in ambito cinematografico, come aiuto regista e come produttore: per esempio,
di Moulin Rouge (USA 1952) e di Beat the Devil (Il tesoro dell’Africa, USA 1953) di John Huston. Un altro film abbastanza noto
del cineasta britannico è The Great Gatsby (Il grande Gatsby, USA
1974: con Robert Redford e Mia Farrow), che è ritenuto, peraltro,
un lavoro freddo e lezioso.
All’autore viene generalmente obiettata un’eccessiva tendenza a
subordinare il proprio punto di vista registico alle richieste del
materiale da portare sullo schermo: in tutta la sua opera non si trovano un soggetto o una sceneggiatura originali, ma solamente rielaborazioni di testi letterari di varia celebrità (Gogol, James, Fitzgerald, Spark, Mortimer, Bradbury,…). Sarris (1968, p. 191) è arrivato ad asserire lapidariamente che «la sola costante di Clayton è
l’impersonalità».
Vale, inoltre, la pena di notare che sul regista di The Innocents
esiste una scarsissima bibliografia: è uscito pochi anni or sono il
sura di queste note il film non è stato distribuito in Italia né risulta disponibile in VHS
o in DVD.
2
Di Giammatteo (1985); Venturelli (1994); Attolini (1998); Farinotti (1999);
Maltin (2000).
3
Del Vecchio (1984); Perry (1985); Fofi et al. (1988); Martini (1991).
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primo e unico saggio monografico di Sinyard (2000), cui verrà
spesso fatto riferimento.
Mi piace pensare al presente scritto, prevalentemente dedicato a
Suspense, anche come un’occasione per ricordare questo autore, il
cui talento si è forse espresso in modo discontinuo, ma con speciale
intensità in alcuni film trascorsi da una vena gotica e centrati sul
mondo infantile (con una certa predilezione per il tema della morte).
La prima parte del libro riguarda il racconto di James e le sue
vicissitudini, critiche e no. Si apre con una sintetica rassegna bibliografica sulla novella, dalla quale è possibile constatare come
sovente anche lo studioso più composto, pur consapevole dell’annoso dibattito, non resista alla tentazione di compromettersi in
una sua personale decodifica dell’ambiguità di questo testo. Si è
cercato di far emergere il singolare percorso di sfaccettature che
un secolo di critica letteraria ha via via sedimentato, tra brillanti
intuizioni, feroci polemiche, bizzarrie interpretative.
Segue un’analisi di alcune versioni di The Turn of the Screw in
altri media, che il sottoscritto ha avuto modo di compulsare. Ci si
sofferma più a lungo su tre lavori: il primo è il dramma di William
Archibald (1950), intitolato The Innocents, che è stato in qualche
misura utilizzato per lo script del film di Clayton; il secondo consiste in una più recente rielaborazione teatrale di Jeffrey Hatcher
(1996), che ci sembra aver utilizzato numerosi spunti del The Innocents cinematografico. L’ultimo lavoro è l’opera lirica di Benjamin Britten (1955), su libretto di Myfanwy Piper, che, originariamente pensata per lo schermo, costituisce un testo di estremo interesse: sia per le variazioni apportate alla trama della novella, sia
per l’ispessimento drammatico di alcuni personaggi, sia per l’efficace coniugazione di musica e parola.
Nella seconda parte si prende in esame, a tutto campo, il film di
Clayton, cominciando dalla sua genesi e tratteggiando una specie di
scheda della troupe: dagli sceneggiatori, al direttore della fotografia,
agli attori principali, all’autore della colonna sonora, e così via.
Viene, quindi, proposto un commento ravvicinato al film, con
un primo piano di riflessione sulle soluzioni linguistiche e narrative, sugli spunti tematici messi in evidenza, sugli scarti rispetto alla
novella originaria; sono, quindi, individuati e discussi, attraverso
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una sorta di immersione totale (emotivo/associativa), gli aspetti salienti della versione di Jack Clayton. Merita puntualizzare che,
quando si tenta una lettura psicoanalitica di un’opera di finzione,
è sempre presente il rischio di forzare il testo, come è più volte accaduto nella storia critica di Il giro di vite, o di ridurre il tutto a
uno sterile «mero caso “psicologico” moderno», secondo quanto
osserva lo stesso James (1908, p. 212; cfr. anche Mannoni, 1969,
p. 162). Pertanto, in questo capitolo vengono compiute alcune inferenze sul racconto cinematografico abbastanza prossime all’esperienza di fruizione dello scrivente, riformulando, ridistribuendo gli accenti e soprattutto descrivendo possibili azioni drammatiche ivi alluse ed evocate.
Si cerca, poi, di approdare ad assunti più elaborati intorno a Suspense: sono avanzate alcune ipotesi sulle tortuose dinamiche relazionali rappresentate nel film di Clayton, con la loro logica e la loro dialettica espressiva. Si pesca, avanti e indietro, in The Innocents per argomentare meglio il discorso e si ricorre all’analisi dettagliata di certe sequenze centrali, come l’incipit con la canzone
Willow Waly, l’intervista con il Master, la scena del sogno, l’apparizione di Miss Jessel nello studio. Sono successivamente esaminate alcune analogie tematiche e visive, che un altro lavoro cinematografico di Clayton ha in comune con Suspense, onde fornire nuovi
riscontri alla lettura in questione: si tratta di Our Mother’s House
(Tutte le sere alle nove, UK 1967).
Infine, nell’ultima parte la lettura di Suspense è articolata con le
diverse riformulazioni dello scritto di James, già prese in esame,
per pervenire a una riflessione più ampia: ci si trova, infatti, di
fronte a un ricco materiale, dotato di varia coerenza interna, una
summa delle differenti letture che il testo originario ha via via suscitato nel tempo. Si tenta di approfondirne le implicazioni e di evincerne ulteriori congetture, come se le opere derivate da Il giro di vite costituissero una sorta di virtuale percorso libero-associativo,
mediante cui la comunità dei vari autori/lettori ha storicamente saturato le risorse della novella. Su questa premessa, la risposta emotiva di partenza, attivatasi nel gruppo dei lettori di James, resterebbe in una condizione fluida, libera, portata a ondate di spostamenti
e condensazioni, per poi prendere forma in diverse cristallizzazioni
del materiale, quasi le varianti di una fiaba o di un mito.
Introduzione
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Berman (2003), nella deliberata rinuncia all’impostazione positivistica circa l’idea di un “reale” significato dell’opera d’arte, osserva che per lo psicoanalista – come per ogni lettore/spettatore/
ascoltatore – non sarebbe in gioco la scoperta di un qualche contenuto profondo né una mera proiezione, ma piuttosto la comparsa
di un nuovo significato emergente nello spazio di fantasia, apertosi
nell’incontro vitale con il testo stesso. In questo senso, le reazioni
emotive e le personali identificazioni sarebbero «una combinazione di transfert (nei confronti dell’opera d’arte come occasione per
un maggiore insight e per una crescita interiore), di controtransfert (la fantasia sull’artista e sui personaggi rappresentati come
pazienti o perfino come pazienti disturbati) e di interpretazione (la
spinta a comprendere più a fondo)» (p. 122). Perciò, le riflessioni
dei precedenti capitoli, focalizzate sull’individuazione di una scena
portante, inerente il racconto filmico e circoscritta allo spazio intradiegetico, sarebbero ascrivibili all’elemento controtransferale
descritto da Berman.
Nell’ultima parte si suggeriscono alcuni possibili itinerari associativi del gruppo allargato degli autori/lettori, attraverso una serie
di confronti tra le tante trasposizioni della novella: in tal caso sarebbe maggiormente in gioco l’elemento transferale, dal momento
che Berman (ibid., pp. 122-123) paragona il testo artistico a un
analista o a un supervisore immaginari. Come afferma Di Benedetto (2000): «La sua genialità [dell’opera] non consiste solo nella
potenza espressiva con cui dà forma all’inconscio dell’autore, ma
anche nella capacità di innescare nel fruitore la creazione di forme
fantastiche atte a illuminare i contenuti del proprio inconscio» (p.
115). Forse un simile assunto trova nel racconto di Henry James
un’esemplare se non paradigmatica declinazione.
Inoltre, la contiguità, la compenetrazione, l’opposizione, le permutazioni delle varie traduzioni di Il giro di vite sembrano rinviare
a una struttura fantasmatica pluristratificata, irta di echi e di rimandi, che richiama alcuni aspetti del modello di inconscio proposto da Ignacio Matte Blanco (1975, 1988): ci si sofferma sui possibili rapporti interni di detta struttura, attribuendo all’una o all’altra delle sue componenti maggiori proprietà inclusive e/o funzioni di classi di appartenenza più vaste.
Ipotizzando che lo scritto di James contenga virtualmente in sé
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il germe delle sue successive versioni – anche di quelle ancora da
venire, dato che sembra impossibile “lasciarlo in pace” –, si possono ravvisare alcuni filoni privilegiati di rappresentazione scenica
contenuti nella serie delle traduzioni.
È noto come ogni interpretazione di un testo ne riveli nuovi
strati di significazione e produca una sovrabbondanza di senso.
Questo vale in generale per i classici, con la loro storia critica, come per le innumerevoli versioni di essi in altri media: in ambito cinematografico, per esempio, si pensi alle tante traduzioni dell’Amleto o a quelle di I tre moschettieri o di L’isola del tesoro.
Tuttavia, si direbbe che la novella di James abbia una sua singolarità, relativa all’immediatezza con cui è sollecitata la reazione di
chi legge: un’attivazione preconscia che coagula rapidamente in
uno scenario iconico le tensioni promosse dal suo impatto. Ovvero, una tesi di questo libro è che The Turn of the Screw si costituisca agli occhi del lettore come un frammento di inconscio (del suo
inconscio), vividamente mobilitato e drammatizzato, che necessita
di un tempestivo processo di metabolizzazione interna per poter
essere “guardato” e pensato. A tale livello, mosso e intensivo, dell’energia psichica in gioco si ritiene che l’interpretazione di Clayton sia riuscita a dare una forma rigorosa e originale, rilanciando
le potenzialità inquietanti nel registro (visivo e visionario) del cinema e mettendo in moto nello spettatore ulteriori scenari profondi.
Altrettanto varrebbe, mutatis mutandis, per la traduzione di
Britten, che nel linguaggio più mediato dell’opera lirica è, comunque, capace di instaurare una forte presa emotiva sull’ascoltatore/
spettatore, come se, di nuovo, il suddetto frammento di inconscio
venisse direttamente messo in scena.
Da ultimo, si vuole segnalare un proposito che ha animato la
stesura del presente lavoro. Si è tentato di mantenere il taglio del
discorso il più possibile prossimo all’esperienza di fruizione dei
differenti testi esaminati, senza addentrarsi in complesse concettualizzazioni di estetica, ispirate o meno alla psicoanalisi. Psicoanalitica, in questo libro, vorrebbe essere l’atmosfera. Perciò, l’interlocutore a cui L’infinita sfumatura è innanzitutto rivolta non sarebbe lo psicoanalista (magari cinefilo), ma viceversa lo spettatore
(laico) di Clayton, in qualche misura lo spettatore/ascoltatore di
Britten e naturalmente il lettore di James.
RINGRAZIAMENTI
Siccome vengono attraversati campi del sapere dove la competenza dello scrivente è rigorosamente amatoriale, si è fatto ricorso
a un ampio ventaglio di “consulenti”, che qui si ringraziano di
cuore.
Giuliana Montanari e Stefano Bonilauri, per le analisi poetiche
e musicali; Tullio Masoni e Paolo Vecchi, per i suggerimenti e le
indicazioni bibliografiche in campo cinematografico; Arturo Invernici della Lab80 che ha fornito due video introvabili e Sandro
Zambetti della rivista Cineforum che ha messo a disposizione il
suo archivio fotografico per le immagini di Tutte le sere alle nove;
Carmelo De Luca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, che ha
reperito alcuni importanti testi sulla novella di James. Si ringraziano ancora Gael Princivalle e Ivano Miselli per l’assistenza nell’elaborazione informatica delle immagini.
La mia riconoscenza va, inoltre, a Silvia Molinari e Sandro Salvagni della Società Psicoanalitica Italiana, che hanno letto una prima stesura del lavoro: in particolare, Sandro Salvagni ne ha fatto
un’attenta revisione stilistica.
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