Le Storie di
io Racconto
VOLUME B
Premio Nazionale
ioRacconto
3a Edizione 2010
...alla ricerca di nuovi
talenti in città
Narrativa e vita contemporanea
Narrativa, Poesia,
Fotografia,
Autori di canzoni
[email protected]
www.ioracconto.it
ioRacconto
Premio Nazionale 3a edizione
ISBN 978 88 96893 10 4
e 18,00
Le Storie di ioRacconto
alla ricerca dei nuovi talenti in città
Copertina di
Valerio Marucelli
IVA assolta alla fonte
AssoPiù Editore
AssoPiù Editore
AssoPiù Editore
~ Le storie di Io Racconto ~
Le Storie
di Io Racconto
Vita Contemporanea
~1~
~ Le storie di Io Racconto ~
Copyright 2010
Assopiù Editore
Via A. Del Pollaiolo 2/r – 50142 Firenze
www.assopiueditore.com
ISBN 978-88-96893-11-0
Edizione ottobre 2010
Progetto grafico e impaginazione: Furio Raggiaschi
Stampato presso: Copycenter Firenze
~2~
~ Le storie di Io Racconto ~
Non conosco niente di più incoraggiante
dell‟indiscutibile capacità dell‟Uomo
di elevare la propria vita
per mezzo di uno sforzo consapevole
Henry David Thoreau
Conta più una cosa fatta
che cento dette
Antico proverbio toscano
~3~
~ Le storie di Io Racconto ~
~4~
~ Le storie di Io Racconto ~
Elenco, in ordine alfabetico, degli autori presenti nel volume
Ermanno Cottini
Ancora
Maria Serena Covri
Me ne manca una
Anna Maria Cremona
Eternità in loop
Francesca Cremonini
Della mucca e del maiale
Roberta Criscio
La storia di Emma
Giuseppe Cristiano
La danza delle ore contate
Luigi Cristiano
Un nefasto giorno
Daniele Croci
L'abito scuro per il mio funerale
Calogera Cutaia
Sogni in tasca
Francesco D'Agostino
Ristrutturazioni
Beatrice Dalla Volta
Il gioco
Nicola D'Altri
Stare lì, camminare un po', aspettare
Salvatore Davi
Aspettami, vedrai che passerò
Sebastiano Davoli
Era giunta il momento di andare via
Daria De Laurentiis
La balena
Rosy Harielle De Luca
La città scomparsa
Enrica De Luchi
Il maestro
~5~
~ Le storie di Io Racconto ~
Francesco De Masi
Immaginare
Sergio De Salvatore
Tutto è numero
Camilla De Totero
Neve
Martina Dei Cas
L'ombra di Cheng- He
Gianluca Della Monica
All'ombra dei cipressi
Nicola Della Pergola
Un mondo di magia
Marina Demelas
La bambina del fiume
Lorena Demurtas
Belli dentro
Angela Di Capua
Un mese ancora
Roberto Di Giusto
Pregiudizi
Teodoro Di Leva
Iolei
Ruggiero Di Lorenzo
Bagliori intuitivi
Serenella Di Marco
L'inverno. Poesia dimessa
Sara D'Ippolito
Tutto va come dovrebbe andare
Laura Di Rosa
Serafino
Renata Di Sano
L'odore di Te
Stefano Di Stasio
Italian Gypsies/Zigani d'Italia
Titti Di Vito
La prima cosa bella
~6~
~ Le storie di Io Racconto ~
Marco Donati
Nell'alto dei cieli
Monica Donati
Un mondo perfetto
Michele Dri
Snuff Sniff Snoff
Mirko Duradoni
Il giardino
Valentina D'Urbano
Una storia d'amore
Andrea Echorn
Ma al diavolo non piace l'acqua
Marco Ernst
Come ti sei fatta bella
Cristina Esposito
Nei cassetti dei ricordi
Claudio Fabbrini
Christine
Riccardo Fabiani
La processione
Elena Facci
Ormai ci siamo
Fabio Fanfani
Garrisca al vento il labaro...
Alice Fasano
Stampatello e corsivo
Pasquale Faseli
Irredimibile
Mirella Fassi
Gli occhi della gatta
Mario Faticato
L'uomo gemello
Donatella Fava
Chicken or fish?
Alessandro Ferrara
L'isola
~7~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ivana Ferraris
La collina delle betulle
Alessandra Ferrero
L'appuntamento
Rosanna Figna
John
Michele Filipponi
Un sorso di vodka bella fresca
Valentina Fiorini
Senza titolo
Antonella Folchi Vici
80 passi
Daniela Fontana
L'Inferno in Paradiso
Cristina Fontanelli
Se la storia siamo noi ...
Alessandro Fort
Alla vita
Paolo Fortunato
Tandem teaching
Bruna Franceschini
Il bicchiere rotto
Costantina Frau
Le pietre
Sandra Frenguelli.
La nostra mensa
Stefano Frida
Un bel giorno in redazione
Antonio Fruci
Appena in tempo
Michela Gabrielli
Addio
Giuseppe Galato
Pasquale
Michela Gallo
La vita, un giorno
~8~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giuseppe Gallucci
Romanzo incompiuto senza titolo
Chiara Gasparetti
Una palla di racconto
Alessandra Gavassa
Io racconto la vita, io racconto il tempo
Sara Gemignani
23 Aprile
Roberto Gennaro
Il ragazzino senza più sogni
Matteo Gentile
Crepuscolo
Giacomo Gentilomo
Sei abbastanza sveglio? Perchè devi.
Lucia Ghebreghiorges
Già
Manuela Giacchetta
Torno a prendermi
Stefano Giacometti
Il motorino
Erica Giammona
Le stelle non brillano di luce propria
Claudio Gianini
Lo specchio
Isabella Giannini
Di notte, sul mare
Alba Giannini
Ricordi e rimpianto
Orietta Giardi
La voce del vento
Laura Giorgi
Fuori dal tunnel
Giovannino Giosuè
Tre Novembre
Andrea Giovannetti
Dal diario odoroso su di un dignitoso tavolo di ciliegio
di una vecchia signora
~9~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberto Giovannetti
Alice e la faccia invisibile
Claudia Girardi
Mi chiamo Viola
Cristina Giuntini
Balla, balla ballerina
Silvia Gonzato
Racconta.
Alessio Goti
Una notte a Vienna
Cesare Granati
L'amore e lo sconvolgimento
Maria Grandinetti
Scrittrice anomala
Daniela Granieri
Just an illusion
Donatella Grasso
Tutte le volte che piove
Anna Grifoni
Sia radici sia ali
Valentina Grigato
Pietra di luna
Maria Giannetta Grizi
Vita in gabbia
Maura Guarino
Ricetta di famiglia
Fernando Guidi
Taco e Paco
Maria Alejandra Hong
Aria precaria
Arjan Kallço
Il piccolo scoiattolo
Giorgio Iacopini
La strada della vita
Monica Imperato
Uno di meno
~ 10 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Guido Ingenito
Il mondo là fuori
Keti Ippoliti
La lavatrice
Filippo Itolli
Breve storia di uno scrittore e di un gabbiano
Mike Labellarte
In fuga con te
Roberto Lacarbonara
La vita vive se stessa. Eluana mi disse...
Giorgio Lamprecht
Le pizie
~ 11 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
~ 12 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ermanno Cottini
Ancora
Un avverbio risorge dalla memoria della fanciullezza: “Ancoa,
ancoa!”…Lo pronunciavo mentre, sospeso da terra, appollaiato sul
braccio della mamma, volteggiavo con lei sulle note di una canzone
di Giorgio Consolini: non volevo più smettere. La vecchia radio a
valvole costituiva l‟unica fonte di divertimento all‟esordio degli anni
‟60. Il primo apparecchio a transistor lo tenni tra le mani qualche
anno dopo: si trattava di un “bottino di guerra”, il souvenir portato a
casa da mio fratello Dino dopo il congedo dal servizio militare in
marina; faceva ritorno da La Spezia, dove, nel porto militare, era
vivace lo scambio di novità tecnologiche importate dagli Stati Uniti e
dall‟estremo oriente. Quella piccola radio portatile, “made in Japan”,
accompagnò, insieme al pallone, le passeggiate domenicali con papà
Alberto, diffondendo le radiocronache di Nicolò Carosio su “Tutto il
calcio minuto per minuto”; la concitazione coincidente con un‟azione
da goal, m‟induceva alla immediata sua trasposizione sul prato che
stavo calpestando, rinvigorendo i miei quadricipiti e, con essi, il
palleggio che esitava in un tiro carico di velleità realizzative
all‟indirizzo della porta, ahimè sguarnita. Il roboante clamore della
folla esultante sugli spalti diventava tangibile tra le mani: il tatto ne
percepiva la forza grazie alle vibrazioni del piccolo altoparlante,
acquisendo visibilità sullo schermo della fervida fantasia propria
della mia verde età. “ Ancora? Ancora il giornale…? Ancora le
carte…? “ Era la domanda che formulavo, tra me e me, in attesa che
il babbo partecipasse al gioco e mi rinviasse la palla. “ Ne vorrei
ancora!” Esclamavo spesso a tavola, dove non mi mancava mai
l‟appetito, e l‟abilità culinaria della mamma lo stimolava più che
mai. “ Bellissima! Ancora una, ti prego! “ Era la mia esortazione
rivolta allo zio Antonio, quando, nostro ospite, rallegrava il “trantran” familiare con spassosissime barzellette in dialetto veneto. “
Ancora tu…- ma non dovevamo vederci più?-...Ancora tu…non mi
sorprende lo sai?...” - Il ritornello ci frullava nella mente al ritorno
da scuola, quando ci si affrettava a raggiungere casa per sintonizzarci
~ 13 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
su radio due e ascoltare “Hit parade”, il programma di Lelio Luttazzi
con la classifica dei 45 giri più venduti. “ No! No! Noo! Ancora riso?
“ Avrà esclamato più volte il babbo durante il servizio militare in
Africa, stando ai suoi scarni racconti riproposti ogni volta a
giustificare l‟avversione per quel cereale che durò tutta la vita e che,
per una persona originaria del vercellese, sembrava un tantino
stravagante. “ Provaci ancora Sam “ il titolo del film di Woody
Allen diventato un cult in quegli anni di cineforum trascorsi
all‟oratorio salesiano.
“Ancora lì? Anche stasera…ancora! Che fai luna in cielo? “
Esclamavo una sera pervaso dalla malinconia, con il naso all‟insù,
mosso dal disappunto per una serata di calma piatta, uguale a tante
altre e senza prospettive. “ Che fai tondo lampione?…Mi spii? A
rischiarare non ti affatichi, qualcun altro sta lavorando per te;
qualcuno che ora si trova dietro le quinte e di notte ti concede di
rubargli la ribalta. Non riesci a riscaldare il mio palcoscenico, non
disegni ombre, la mia stanza è vuota di presenze; non sveli intrighi:
quelli orditi contro di me dal Fato sono appannaggio delle stelle. Non
sei romantica, ma fredda calcolatrice; ti stendi sul mio letto senza
lasciare impronte, senza sgualcire il candido risvolto del lenzuolo:
bianco su bianco non lascia traccia, come sulla neve, quando ti esalti
in quella vicendevole corrispondenza di luce fredda rotta dal solo,
nero stagliarsi in controluce, del profilo del lupo a squarciare, col suo
ululato, l‟idillio imbastito tra te e il silenzio! E, in ugual misura, non
lasci tracce metalliche nelle acque che impreziosisci di baluginanti
riflessi d‟argento a ipnotizzare gli amanti, e appesantisci, nelle livide
tonalità del piombo fuso, ad angosciare chi è già preda della
solitudine e dell‟abbandono…”. “Andate ancora avanti, svoltate a
destra, poi ancora a destra, poi sempre dritto, ancora per circa un
chilometro…” quasi un navigatore satellitare “ante litteram”; fu la
prima indicazione che ricevemmo al culmine di quel vagabondare
durante la nostra prima vacanza insieme a Bellaria; cercavamo
l‟hotel in cui trascorrere la nostra prima notte di libertà: l‟agognata
prima notte insieme, lontano da casa.
“ Verrei volentieri ma sono ancora in pigiama! “ Suonava spesso
così la mia scusa per evitare di uscire con Adriano, un amico un po‟
pedante che, la domenica mattina, passava sotto casa a citofonarmi
con l‟intenzione di fare il solito giretto ai giardini pubblici e lagnarsi
~ 14 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
tutto il tempo con me del suo eterno amore non corrisposto e dei suoi
fallimentari rapporti con il gentil sesso. “ Licia non si è ancora
ritirata “ rispondeva al telefono la signora Anna alla mia richiesta di
passarmi la figlia; era la “valchiria” adocchiata al primo banco
dell‟aula magna nell‟istituto di anatomia umana dell‟università,
durante le lezioni tenute dal professor Filogamo. La notai subito
entrando nel maestoso anfiteatro ligneo che mi ricordava il senato.
Noi studenti del primo anno di medicina facevamo la coda nel cortile
dell‟ateneo, arrivando alle sette del mattino, quando, d‟inverno era
ancora buio, per riuscire a occupare un buon posto in aula, alle otto,
ora d‟inizio della lezione. I corsi erano tre, raggruppati in base
all‟iniziale del nostro cognome; facevamo parte di diritto del corso
“A”, quello del professor Filogamo, in quanto entrambi in possesso
della “C” come iniziale del cognome; tuttavia, se anche così non
fosse stato, lo avremmo frequentato con pari assiduità, a costo di
doverci alzare alle sei e farci un‟ora di coda in più, pur di assistere a
quelle lezioni magistrali. Esse traducevano un‟ostica e mnemonica
materia in leggiadra e raffinata rappresentazione spaziale di forme
curiose e solidi sinuosi, avvinghiati in un abbraccio degno dei gruppi
scultorei ospitati nella loggia dei Lanzi a Firenze, del Laocoonte nei
musei vaticani, dell‟Apollo e Dafne alla galleria Borghese. Una
“valchiria” virgolettata, perché grande fu la sorpresa che colse sia il
mio amico Claudio sia me, quando, mossi dal mio desiderio di
conoscerla, traslocammo dalla postazione di fronte per occupare un
posto accanto a lei, e, rivoltole la cortese richiesta: “ sono liberi
questi posti? “ , Sorridendo ci rispose: “
Si, certamente,
accomodatevi pure…” con un‟inflessione dialettale da profondo sud
che ci lasciò basiti. E noi che, incuriositi, c‟eravamo interrogati su
quale fosse, tra i paesi a nord delle Alpi, quello di provenienza; ne
facemmo uno spassoso aneddoto che, ancora oggi, a distanza di tanti
anni, ci fa sorridere. Ma la cosa più gustosa è che quella “Valchiria”
è ancora più che mai presente nella mia vita: non s‟è mai più
“ritirata”. Sono nel mio studio medico, l‟orario di accesso volge al
termine, e con esso la mia giornata; chiedo al paziente con cui sto per
accomiatarmi: “ Quante persone ci sono ancora in sala d‟aspetto? “ ,
“ Ancora tre in possesso del numero, dottore; poi c‟è una bella
signora bionda, molto distinta, giunta dopo il ritiro dei numeri
d‟accesso, che, nonostante le avessimo fatto notare di essere fuori
~ 15 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
tempo massimo, si è fermata, negando di essere una paziente! ” Mi
risponde con tono cortese l‟assistito. Sorridendo penso: “ Ancora
mezz‟oretta, trentacinque minuti al massimo, e la stringerò tra le mie
braccia…Ancora, solo pochi minuti…poi, di nuovo, ancora
insieme…Due solidi sinuosi avvinghiati in un abbraccio: due
polmoni stretti attorno al cuore con l‟aorta arcuata a scavalcarlo,
ancora al centro di quel mediastino di tenera, malinconica, struggente
memoria…di un tempo che non può più tornare!” Ancora poche
righe alla fine del racconto; ancora molti flash nella memoria; ancora
tanta nostalgia per coloro che non ci sono più, ma anche
compiacimento per quei momenti permeati di una gioia che ancora
non s‟è spenta, è viva più che mai e, intrisa di gratitudine e speranza,
ci da la forza per continuare lungo il cammino della vita che ancora
ci attende.
~ 16 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Maria Serena Covri
Me ne manca una
Aveva iniziato da piccola, con l‟inserto dei giochi per bambini a
metà del giornale della domenica, non le interessavano i rebus, unire
i puntini, colorare gli spazi, trovare l‟intruso, scovare le
differenze…tutti zuccherini per principianti, la vera sfida era il
cruciverba. Uno orizzontale, nero, due orizzontale, nero, nero, fine
della prima riga. Sette verticale ad incrociare la seconda casella
dell‟uno orizzontale e così di seguito fino ad un massimo di dodici,
quindici definizioni, una griglia piccola per piccoli cruciverbisti. Se
n‟era presto stancata, sempre a chiedere questo o quell‟altro re di
Roma, ed era passata alle parole crociate dei grandi, tutte le pagine di
enigmistica dei giornali, tutte le riviste specializzate in edicola, tutte
le edizioni straordinarie estive per distrarre i vacanzieri annoiati,
erano tutte sue, nessuna casella bianca sfuggiva alla costanza
meticolosa della sua biro.
Negli anni si era guadagnata la fama di grande cruciverbista, come
testimoniava anche la sua carta d‟identità alla voce “professione”;
aveva vinto un televisore, un set di valigie, un viaggio in Tanzania,
era stata più volte campionessa provinciale, regionale, nazionale,
europea e mondiale, era stata insignita del titolo onorifico di
presidente a vita dell‟Associazione Cruciverboidi Riuniti, si prestava
volentieri alle interviste e non mancava mai di rispondere alle lettere
dei fan. Con l‟esperienza era cresciuto anche il suo sapere, ormai
enciclopedico, possedeva una libreria vastissima con una collezione
impressionante di dizionari che la aiutavano a districarsi nel
cruciverba jumbo del Times e in quello gauchiste di Libération.
In tutta la sua lunga carriera era incappata in cinque, forse sei,
definizioni veramente difficili, di quelle che non si risolvevano di
notte in un‟improvvisa epifania prima di addormentarsi, talmente
ardue da darle filo da torcere per giorni interi, l‟avevano costretta a
pellegrinaggi continui alla biblioteca comunale, ore e ore a
scartabellare enciclopedie impolverate; anche adesso, nel
ventunesimo secolo, adottava lo stesso metodo certosino quando si
~ 17 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
trovava in difficoltà e disdegnava l‟aiuto meccanico e impersonale di
Internet. Le sue ricerche erano sempre state premiate dalla soluzione
che le permetteva di chiudere la griglia, la parola magica che si
materializzava nero su bianco, era sempre stato così almeno fino a
quel fatidico giovedì di metà Agosto quando, seduta all‟ombra di un
parasole rosso nella spiaggia che da più di cinquant‟anni la
accoglieva per le vacanze estive, si era improvvisamente irrigidita,
una goccia di sudore era scesa velocemente dall‟attaccatura dei
capelli lungo l‟orecchio destro mentre la biro le tremava leggermente
tra le mani: il 42 verticale, quella sì che era una parola ostica da
trovare, una brutta gatta da pelare, non sapeva nemmeno da dove
cominciare le sue ricerche, una definizione criptica che avrebbe
potuto essere ironica o forse bisognava prenderla alla lettera? E a
quale campo del sapere si riferiva?
Quella sera non era riuscita a mangiare nemmeno un boccone nel
ristorante dell‟albergo, non aveva chiuso occhio per tutta la notte e il
giorno successivo aveva disertato la spiaggia; dopo un fine settimana
vissuto in ansia crescente, aveva deciso di accorciare la villeggiatura
e di fare ritorno al paesello dove si sarebbe lasciata tranquillizzare
dai suoi libri. In agosto la biblioteca osservava orario ridotto, solo
quattro ore a settimana, non abbastanza per trovare la parola che si
faceva sempre più elusiva e si caricava di mistero. Con la riapertura
delle scuole anche la biblioteca era tornata a funzionare a pieno
regime ma le ricerche restavano infruttuose. Nell‟arco di due mesi,
Alina era passata da uno stato di ansia frenetica ad uno di
malinconica rassegnazione, si sentiva sconfitta e in una sera di
scoramento aveva quasi ceduto, aveva aperto la pagina del motore di
ricerca ma si era fermata in tempo, disgustata dalle implicazioni del
sacrilegio che stava per commettere.
La preoccupazione e la tristezza la perseguitavano, mangiava
pochissimo, aveva perso parecchi chili e profonde occhiaie blu le
segnavano il volto scarno. La famiglia era in allarme, nessuno
conosceva la vera natura del suo cruccio e le congetture sul suo
deperimento diventavano sempre più fantasiose, l‟ipotesi più
accreditata era che la lunga vedovanza cominciasse a pesarle, che si
sentisse sola e avesse voglia di un nuovo amore. Per facilitare
l‟incontro con la potenziale seconda anima gemella, sua nipote
Marina aveva preso l‟abitudine di invitarla a cena tutti i venerdì sera
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~ Le storie di Io Racconto ~
quando, immancabilmente, le presentava un vicino di casa di
bell‟aspetto o un collega del marito prossimo alla pensione o un
parrocchiano dall‟aria distinta. Alina accettava quegli inviti per
inerzia, perché non avrebbe avuto la forza di dare spiegazioni su un
eventuale rifiuto ma si interessava poco alla conversazione tra un
soufflé al formaggio e un arrosto con patate e mostrava ancora meno
interesse verso quei pretendenti improbabili. Anche quel venerdì, a
poche settimane da Natale, Alina si ritrovava seduta accanto ad uno
sconosciuto ma questa volta sua nipote si era veramente sbagliata, il
ragazzo doveva avere trent‟anni appena, decisamente troppo giovane.
“Zia, questo è l‟ingegner Bodeluppi, si unisce a noi per cena”, le
aveva detto a inizio serata Marina, una presentazione sommaria,
insolita per sua nipote che generalmente si dilungava sulla carriera,
sugli interessi e sulle mille qualità di questo o di quell‟altro
gentiluomo.
Lauro Bodeluppi, trentadue anni, ingegnere civile, un titolo che gli
aveva portato poca fortuna e molta disoccupazione. Dopo l‟esame di
stato di abilitazione, aveva penato tre anni tra stage non pagati e corsi
di dubbia utilità prima di trovare un lavoro remunerato. Un contratto
di sei mesi, forse rinnovabile, presso la ditta Schiavini; nulla di cui
andare particolarmente fieri o per cui valesse la pena alzarsi alle sei e
sorbirsi quarantacinque chilometri di autostrada all‟andata e
altrettanti al ritorno. Niente a che vedere con i ponti e le dighe che,
giovane studente universitario, aveva pensato di progettare da
grande. No, l‟ingegner Bodeluppi non parlava volentieri del suo
lavoro.
Alina piluccava un grappolo di uva bianca insapore e molliccia, di
quella che la gente si ostina a comprare fuori stagione durante le
feste natalizie, e valutava la possibilità di fare un nuovo tentativo di
conversazione con il suo vicino di tavola, almeno per quietare
Marina che non smetteva di lanciarle occhiate di incoraggiamento.
“Allora, ingegnere eh? E di cosa si occupa esattamente?”
Qualche attimo di incertezza, gli occhi puntati ostinatamente sul
piatto, un leggero colpo di tosse nervosa, poi Bodeluppi si anima,
alza lo sguardo e fissa la sua interlocutrice negli occhi, prende un bel
respiro e spiega senza reticenze, senza vergogna. Il suo lavoro è,
come dire, insolito; non sapeva nemmeno che una professione del
genere esistesse.
~ 19 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Tutte le case hanno almeno un water, un elemento fondamentale che
molti danno per scontato. Ce ne sono di varie forme, misure, colori e
ci sono ben ventinove modi diversi in cui l‟acqua di scarico può
scendere: a vortice in senso orario o antiorario, a cascata dalla parete
di fondo o davanti o un po‟ da entrambe, a rivoli continui dai lati o a
rivoli incrociati e così di seguito fino a un massimo di combinazioni
e permutazioni scientificamente classificate. Nonostante le
differenze, una caratteristica accomuna tutti i water: l‟acqua non
tracima mai, non una sola goccia o un solo schizzo sono ammessi
fuori dalla tazza e il merito di tanta perfezione spetta a quegli esperti
della materia che, come l‟ingegner Bodeluppi, collaudano ogni
singolo cesso tirando la catena, premendo il pulsante o azionando la
levetta.
Un silenzio imbarazzato è calato tra i commensali mentre Lauro si
perdeva in dettagliate spiegazioni, solamente Alina sfoggia un sorriso
di pura, estatica gioia, le brillano gli occhi, le è tornato un sano
colorito sulle guance e presa da un impeto quasi infantile getta le
braccia al collo dell‟ingegnere e lo ringrazia mille volte. Deve
tornare a casa, subito, non può aspettare che il caffè sia pronto, 42
verticale, dieci lettere, “passa di sciacquone in sciacquone”: il
waterologo.
~ 20 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Anna Maria Cremona
Eternità in loop
“Cari mamma e papà,
se leggete questa lettera è perché ho deciso di fare una cosa, una cosa
molto stupida ma, ahimè, necessaria.
Vi ho sempre voluto bene e vi ringrazio per il tempo che mi avete
dedicato, per le attenzioni e le cure che mi avete regalato.
Sappiate che tutto quello che ho fatto non dipende da voi ma solo da
me.
Cercate di andare avanti, fatelo per me e perdonatemi, se potete.
Vi amo.
Lisa”
Da circa 100 giorni ripeteva quel rito con un'attenzione e una cura
maniacale. Si svegliava, presto perché doveva andare in università,
attenta a non fare rumore (la sua coinquilina, quando c'era, aveva il
sonno leggerissimo) si metteva subito alla scrivania e scriveva una
lettera, d'addio. La riponeva in un cassetto e, sospirando, guardava
fuori dalla finestra, giusto il tempo di un sospiro. Poi correva in
cucina a preparare il caffè.
E dire che la mattina era il momento che preferiva di più, quello in
cui tutti i desideri più profondi confluivano, senza esitazioni.
100 giorni erano passati da quando era successa la COSA. Non
poteva né sapeva definirla altrimenti. In realtà non aveva neanche
bisogno di definirla.
La mattina dopo (99 giorni erano passati) si era svegliata, diversa:
“tutto è così rarefatto oggi, quasi surreale...passerà” aveva pensato.
Si era sempre interrogata sulle grandi questioni “perché esistiamo”,
“perché io”, “perché la vita”, ma subito dopo, con una dote che solo
sua mamma poteva averle trasmesso, riponeva questi interrogativi in
un cassetto, stavolta della sua mente, e lo riapriva solo quando
voleva.
Ma qualcosa era accaduto, qualcosa che aveva turbato il suo
equilibrio, precario.
Un ragazzo, un suo caro amico, era morto, improvvisamente,
~ 21 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
portando via con sé tutte le cose non dette, tutte le confidenze che
avrebbe voluto fare, tutto.
Dal giorno in cui l'aveva saputo, Lisa non aveva saputo darsi pace: la
morte anche se traumatica era accettabile (l'uomo era così abituato
alla vita quanto alla morte) era il non detto che la angosciava.
“Chissà mio figlio cosa pensava quel giorno. Sono stato un bravo
genitore? Avrà avuto momenti di felicità?”. Non aver avuto un
ultimo appello con le persone importanti era la cosa che temeva in
assoluto.
Di notte, in sogno, le appariva quel ragazzo, Marco, che con fare
piuttosto scocciato le elencava tutto quello che avrebbe dovuto dire, a
chi dirlo.
E lei ascoltava e tra sé e sé pensava che anche lei, al posto di Marco,
avrebbe voluto dire le stesse cose.
Il ragazzo le aveva strappato una promessa: continuare a vivere
addormentandosi ogni sera senza nessun segreto.
Lei accettò, non poteva fare diversamente. “Questo sogno mi rende
nervosa e questo è l'unico modo per liberarmene”. Non volendo far
agitare i suoi decise di scrivere loro, ogni giorno, una lettera.
Ma il tempo passava e lei si era spinta oltre: “non voglio che la morte
mi colga impreparata. Sarò io a decidere come e quando farla finita”.
In questo modo avrebbe avuto tutto il tempo per congedarsi dalla
vita.
Non che avesse deciso anche il quando: “ci tengo alla vita ma non
intendo essere presa in contropiede”.
L'ultimo, interminabile, giorno.
Risorgeva, con fatica si arrampicava, annaspando si elevava. Sotto, il
nulla. Flash improvvisi le squarciavano la mente. L'ombra sotto la
vite, suo nonno, i giochi che facevano insieme. L'avrebbe fatto per sé
stessa, per loro, per tutti quelli che erano lì.
Un piede, poi l'altro, aveva iniziato la salita.
Lei ERA la forza. Lei ERA la sua IMMAGINAZIONE.
Arrivò in cima, era solo l'inizio. Trovò la gente, ostile, che la
guardava. “voi non capite”, gridava, lacrime agli occhi. “L''ho fatto
per tutti voi”. Vide una scala, buia, non sapeva dove l'avrebbe
portata. La percorse. “Cosa ci faccio io qui”. Lo vide, era arrivata.
Una sala, stretta e lunga, illuminata. Camerieri che servivano
champagne. Nessun volto. Tutto cancellato. Guardò meglio: alle
~ 22 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
pareti i suoi momenti più felici. “Qualcuno li ha saputi catturare. Non
io però”. Gli invitati erano lì per lei.
Capì: la scala e tutto quello che la circondava erano lì per lei. Era la
festeggiata. “Non me lo merito. Non ho mai fatto niente di buono”.
Black out. Per qualche secondo tutte le luci si spensero. Silenzio
inquietante.
Si ritrovò di nuovo davanti alla parete. Stessa situazione. Stessi
pensieri. Cominciò a salire. E mentre si arrampicava, riflettendo,
capì.
“E' questa la mia punizione”. Sospirò.
Un loop, continuo, in cui credeva di risorgere.
“Sono stata beffata ancora una volta. Un'ultima volta. Come ho
vissuto credendo di non morire, ora sono morta e credo di vivere”.
~ 23 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Francesca Cremonini
Della mucca e del maiale
Mai visto tanto sangue. “Vomita, vomita, che tanto ci fa a tutti la
prima volta!”
“Sei sempre il solito fifone Bartolì!” “Ma anche Riso non viene!”
“Riso non viene perché oggi e domani deve lavorare col padre,
scemo, sennò sicuro che ci veniva! Non è mica come te lui!” “Come
me come?” “Fifone, Bartolì, fifone come te! Farai la fine del cunillo,
sempre in gabbia ad aspettare uno con la varechina!” “Non è vero! E‟
solo che domani ci ho da fare anch‟io!” “Ah sì? E cosa?”
L‟indomani, puntuale, anzi, in anticipo come al solito, Cipo era a
casa di Piastra. Piastra, altrettanto prevedibilmente, era ancora a letto.
L‟estate era un ricordo abbagliante, nella nebbiolina di Dicembre.
Fra poco sarebbe stato Natale e la festa la stavano per fare proprio
grossa. Al maiale. Gli odori della campagna cozzavano un po‟ con il
caffelatte e Cipo aveva lo stomaco sottosopra. I muggiti
accarezzavano l‟aria rarefatta. Dal porcile, neanche un gemito, quasi
avesse voluto nascondersi. La ghiaia sentinella avvisava dell‟arrivo
di ogni nuovo ospite. La mattanza richiamava spettatori. L‟ultimo
aveva giusto parcheggiato che il norcino, finito di affilare il
coltellaccio, usciva dalla casupola. I veterani già si disponevano.
Cipo, fingendo indifferenza, imitava il loro contegno. L‟odore acre lo
colpì. Legato per il collo, il porco piangeva. Come un bambino
disperato. Non ci si credeva. Quasi quasi si sorprese a pensare di
graziarlo per quell‟anno Aveva un cuore tenero Cipo, dopotutto.
Spinto e strattonato, è arrivato sul tavolaccio. “Pure la posizione in
cui devi morire ti scelgono, maiale”. “E sennò dopo chi lo sposta
peserà due quintali!” Belò un astante. Sdraiato su di un fianco, con la
gola squarciata, ormai non piangeva più. Solo, aspettava che finisse.
In fretta, per carità. E il norcino gli ruotava la zampetta per accelerare
il fiotto del sangue. “E‟ finita?” Chiedeva Cipo nel conato che lo
sorprese a morte appena constatata. “Tranquillo, ragazzo, succede a
tutti!” Lo accolse nel clan dei testimoni il norcino, con un sorriso
~ 24 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
compiaciuto e benefico che forse un po‟ stonava col cadavere alle
sue spalle, pensò Cipo prima del secondo conato.
Il fieno raccolto mesi prima pungeva attraverso i vestiti pesanti. Cipo
cercava di fare anelli di fumo, Piastra ancora di riprendersi dopo il
primo fallimentare tiro. Non avrebbe riprovato mai più. Stavano caldi
in mezzo alla paglia, vicino alla mucca e al vitellino. Avrebbero
presto fatto la stessa fine del maiale, ma per ora, che il loro turno
ancora non era venuto, ruminavano uno accanto all‟altro riscaldando
la stalla col loro fiato. Non è proprio una buona idea fumare sigarette
stesi in mezzo alle balle.
“Guarda…questo tu lo sai fare?”
Avevano rubato una bottiglia di grappa dallo stipetto del nonno di
Piastra. Gran tipo il nonno: si scolava tutte le sere uno o due cicchetti
di roba e credeva che nessuno se ne accorgesse. Subito dopo cena un
buon toscano appestava l‟aria dell‟ambiente ricavato dalla vecchia
stalla, mandando in delirio la mamma di Piastra. E poi si perdeva nei
suoi ricordi: soprattutto pensava al suo amore: avevano vent‟anni lui
e quattordici lei. Capelli lunghi, mossi. Bel sorriso, con ancora tutti i
denti, perfetti, cosa rara allora, non come adesso che tutti si
mettevano quelle dannate macchinette di ferro. Era bella. E buona.
Non come la sua dannata moglie. Un diavolo di donna. L‟aveva fatto
penare fino all‟ultimo, quando se n‟era andata esalando l‟ultima
imprecazione rivolta al marito. Un infarto, aveva detto il dottore; la
rabbia di non avergliela mai fatta pagare abbastanza, pensava nonno
Gino, di non avergliela fatta mai pagare abbastanza di averla sposata
e averle fatto fare sei figli. Era una grappa buona, una dolce di
moscato. Cipo vi immerse il dito, gli diede fuoco con l‟accendino, lo
fece roteare nell‟aria lasciando una vaga scia di pollo bruciato e se lo
ciucciò per spegnerlo. “Adesso tocca a te”. Ma Piastra, vedendosi il
dito in fiamme, non ci capì più nulla. “Mettitelo in bocca!” Gli
gridava Cipo, cercando a sua volta di ciucciare il dito infuocato
dell‟amico. “Vado a fuoco!” Gridava lo stolto cercando di spegnersi
sulla paglia. Non fu una buona idea. Ricordarono più tardi solo le
lingue di fuoco che salivano lungo i travi della costruzione in legno,
diramandosi così svelte da un cumulo all‟altro di erba secca. Per
fortuna, dopo la pista al maiale, si fa festa con le carni appena divelte
e allora quel giorno c‟erano molte persone a casa di Piastra. Di mano
in mano passarono i secchi gonfi, le fiamme a poco a poco furono
~ 25 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
domate e le carcasse carbonizzate di una mucca e di un vitellino
furono seppellite distanti dall‟orto. Cipo e Piastra li aveva tirati fuori
il babbo di quest‟ultimo che, bagnatosi da capo a piedi con una
secchiata, si era immerso nel fuoco per recuperare i due ragazzini.
Stavano ancora cercando di spegnere l‟incendio con i piedi, mezzo
storditi dal fumo. Inutile dire delle conseguenze: lavate di capo,
pianti, un paio di schiaffi dal padre di Cipo, che tra l‟altro risarcì
anche metà della stalla, e una bella, lunga punizione natalizia che si
protrasse ben oltre le vacanze. Quel giorno morirono tre animali a
casa di Piastra: uno per la carne, due per gioco.
I ragazzini ci rimasero male in effetti. Per gli animali, per i danni, per
la loro stupidità. Ma a tredici anni si dimentica in fretta, per fortuna,
nel senso che comunque la vita tira in avanti con la forza di una
rapida e tornarono i giochi, gli scherzi e le risate sulle loro facce
contrite e tornarono i sogni sereni nei loro incubi popolati da mucche
carbonizzate e lingue di fuoco che parlavano con la voce della madre
di Piastra e della maestra Fiore, buona buona, ma che quando si
incazza è meglio starle un po‟ distanti.
~ 26 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberta Criscio
La storia di Emma
La perdita di una persona cara non la si avverte subito. Passano
istanti, ore, giorni, nei quali tutto sembra irreale e non ci si rende
pienamente conto di quanto è accaduto. Poi, dopo qualche tempo,
avviene qualcosa che rende percepibile la mancanza.
Erano passate alcune settimane dalla morte di Emma e le sue figlie si
erano riunite nella sua vecchia casa per fare l‟inventario della roba.
Ogni cosa veniva riposta con cura in uno scatolone e suddivisa fra le
donne a seconda dell‟affezione o meno a un determinato oggetto.
Isabella non voleva essere lì. Provava un senso di soggezione nel
vedere le stanze ormai quasi del tutto vuote. Sentiva sua madre e le
sue zie discutere su cosa farne della casa e cercò di allontanarsi il più
possibile. Salì le scale e raggiunse la soffitta. Sin da piccola era
sempre stata affascinata da quella stanza. Vi trascorreva giornate
intere, giocando con vecchie bambole o colorando il suo album da
disegno. Amava quel luogo.
Scatole, tappeti, vecchi mobili erano tutti accantonati su una parete.
Sull‟altra una macchina da cucire padroneggiava la scena e accanto a
essa un baule di legno sembrava contenere vecchi stracci, embrioni
dei vestiti nei quali non sarebbero più stati trasformati.
Isabella si avvicinò e cominciò a guardare quei tessuti ricordando di
come suo nonno Emilio, quando era in vita, elogiasse continuamente
il talento sartoriale della sua signora.
D‟un tratto qualcosa colpì la sua attenzione: un cofanetto di velluto
verde scurissimo giaceva abbandonato sul fondo del baule. Su uno
dei lati una chiave era fissata con del nastro adesivo.
Aprì quel piccolo contenitore e vi scorse immediatamente una foto in
bianco e nero, con i bordi frastagliati. Raffigurava una coppia
elegantissima sulla banchina di una stazione. Lei impeccabile con il
suo cappotto lungo e il cappello lievemente inclinato sulla testa. Lui,
avvolto nell‟austero fascino della sua uniforme militare. Sorridevano,
ma nei loro occhi si coglieva distintamente un velo di tristezza. Sullo
sfondo un treno nero e alcune persone che vi salivano.
~ 27 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Isabella riconobbe subito nella donna il volto di sua nonna Emma,
ma l‟uomo non aveva idea di chi fosse. Girò la foto e vi lesse una
dedica:
Alla mia Emma.
Con amore,
Antonio
In basso una data: “Taranto, 1939”.
I suoi nonni si erano sposati nel ‟43.
Determinata nel fare chiarezza sulla storia, riprese tra le mani il
cofanetto e vi trovò anche alcune lettere che Antonio aveva spedito
dal fronte. Le lesse d‟un fiato, ricomponendo i tasselli della vita di
Emma. L‟ultima, però, non era stata scritta dal giovane. In quelle
brevi righe Emma veniva informata che il suo amato era deceduto in
guerra per servire la patria.
Prima di conoscere l'uomo che poi sarebbe diventato suo marito,
Emma aveva vissuto un'altra storia d'amore; una storia finita
tragicamente e che aveva sempre taciuto. Isabella capì che svelarla
dopo tutto quel tempo non sarebbe stato giusto per nessuno.
Ripose il tutto nel contenitore, prese con sé il cofanetto, lo nascose
sotto la sua giacca e se lo portò via, decisa a custodire per sempre il
segreto di Emma.
~ 28 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giuseppe Cristiano
La danza delle ore contate
Il caos avviluppò tutto quanto a poco a poco. Un sogno, poi una voce
di bocca in orecchio fino all'infinito. A Maria-Rosaria Costanzo da
Somma-Vesuviana alle 2 e 40 di notte del 25 dicembre era apparsa in
sogno una scritta rossa a caratteri cubitali su fondo nero che recitava:
"Fine Vita: 12 gennaio 2024 ore 17 e 30". La donna non aveva dato
tanta importanza alla questione ma la mattina dopo decise di recarsi
lo stesso in ricevitoria per tentare la sorte con quei numeri. La fila
agli sportelli era interminabile. L'aria sembrava percorsa da una
strana elettricità, però di quelle che danno la scossa. Attese il suo
turno e aprì bocca.
“Buongiorno..., io praticamente ho sognato”.
“Signora lo abbiamo già ripetuto a tutti quelli in fila prima di lei:
limitatevi a dire esattamente i numeri della data..., il sogno lo
conosciamo già. Stanotte tutta la nazione ha fatto lo stesso sogno” la
interruppe bruscamente l'omino dall'altra parte del vetro.
Si girò di scatto, aprì le orecchie e spalancò i bulbi oculari. Parlavano
tutti della stessa cosa.
“A te quando succederà?”
“28 Novembre 2018”.
“A lei signora?”
“11 Agosto 2020...me ne andrò con quell'afa terribile”.
“..E a te ragazzino?”
“28 Maggio 2050... il giorno del mio compleanno”.
Corse fuori in strada senza nemmeno giocarsi i suoi numeri. Respirò
grandi boccate di aria gelida e cercò di autoconvincersi che stava
sognando un sogno dentro ad un altro, ma ben presto dovette
arrendersi all'incubo di quella realtà. Era proprio vero. Quella notte,
la notte di Natale, tutto lo Stato aveva fatto lo stesso sogno. Le prove
erano dappertutto. Nei discorsi, nei giornali, nei notiziari alla tv e alla
radio, nelle grida, nelle ansie e nei suicidi.
Il tizio mascherato da Babbo Natale all'entrata dei "Magazzini
Impero" piangeva come un bambino mentre singhiozzava una
~ 29 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
cantilena indecifrabile che rallentata e decriptata suonava come:...una ssssettimana...mi rimane una mmmisera settimana...-. In
lontananza si udì un rumore simile a quello di uno sparo seguito da
un urlo di donna.
Il Presidente provava a tranquillizzare la gente a reti unificate:restiamo calmi...sapevamo già di dover morire...non cambia niente se
ora sappiamo anche quando...cerchiamo di impiegare il tempo che ci
resta nel migliore dei modi...continuiamo a vivere le nostre vite come
se stanotte non avessimo conosciuto il momento della nostra
morte...-.
Ma l'urgenza di vivere si fece ben presto strada tra le paure dei
cittadini. Era passata solo una settimana da quel sogno e già il 45%
della forza-lavoro nazionale aveva abbandonato la propria
occupazione. Dicevano di non voler sprecare tempo e che volevano
realizzare al più presto i loro sogni. Così Tristano Bagni,erede di una
ricchissima famiglia umbro-molisana, appena sognato che sarebbe
morto il 4 luglio 2012, chiuse le sue catene di supermercati e bruciò
la sua villa di campagna da 8 milioni di euro per tentare la
circumnavigazione in pedalò del continente americano. Tristano
perse la vita il 29 maggio 2009. Tre anni e trentacinque giorni prima
della data scritta nel sogno. Omar Rucefigli, famoso illusionista
calabrese, sicuro del fatto che avrebbe smesso di respirare il 16 aprile
2031, si fece rinchiudere in un sarcofago di plexiglas pieno zeppo di
tarantole e cobra. Morì dopo pochi minuti in diretta tv, anche lui in
netto anticipo sulla tabella di marcia.
Gesti folli iperrazionali come questi erano ormai impossibili da
enumerare. C'era chi, avendo sognato per tutta la vita di assassinare
qualcuno, trovava adesso il coraggio per farlo, oppure chi vinceva la
timidezza e rivolgeva finalmente la parola alla donna amata. C'era
chi faceva bungie-jumping nei vulcani e chi si sottoponeva a
mastoplastica additiva. In tutte le case ogni individuo scandiva nella
propria testa il suo personale conto alla rovescia. Nessuno guardava
più la tv, nessuno andava più in chiesa, nessuno raccoglieva
l'immondizia, nessuno sottoscriveva mutui o firmava cambiali,
nessuno si preoccupava più del domani. Erano tutti impegnati a
vivere, perchè sarebbero tutti morti. Inoltre il tasso di suicidi toccò
vette mai sfiorate in precedenza.
~ 30 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Gabriel Ortega, analista della "Fish & Shark", passando in rassegna i
dati del primo trimestre del nuovo anno, notò un'anomalia a dir poco
particolare. Al crollo totale di ogni settore economico-finanziario
nazionale faceva da contraltare un'improvvisa e spaventosa
impennata del mercato dei servizi funebri e cimiteriali. La cosa gli
puzzava quasi più dei suoi calzini sporchi, quindi passò ad analizzare
i dati pubblicitari del secondo semestre dell'anno passato. Era
lampante il bombardamento mediatico e l'onnipresenza su tutte le reti
televisive degli spot della "Eterno Riposo", la più grande ditta di
servizi per l'aldilà. Dal 25 dicembre al giorno corrente la "Eterno
Riposo"aveva incrementato il suo fatturato del 700%.
Gabriel aprì la porta dell'ufficio di Claudio Masi, il suo superiore, per
sottoporgli quei dati. Ma non potette sottoporgli un bel niente.
Claudio penzolava con un cappio al collo dal lampadario appeso al
soffitto. Aveva una camicia rosa ed uno strano ghigno sulla faccia.
Dalla tasca destra dei pantaloni sporgeva una cartolina-ricordo di
Capri:"Vorrei che fosse proprio quest'isola il paradiso dove sono
diretto. O l'inferno. Se conosci il giorno della tua morte non ha più
senso sforzarsi di costruire qualcosa. Viviamo e produciamo grazie
all'illusione che vivremo per sempre. Se questa viene a
mancare...allora tanto vale scavarsi la fossa e coricarcisi dentro. Io
non ho mai sopportato le attese. Spiegatelo alla mia ex-moglie". Se
non si fosse ammazzato avrebbe vissuto per altri tredici anni.
Gabriel era dunque costretto a sbrigarsela da solo. Prese in prestito la
spada samurai che Claudio teneva bene in vista sulla sua scrivania e
chiamò un taxi. "Viale dei Cipressi, 38". La sede centrale della
"Eterno Riposo". Un muretto di mattoni rossi circondava il
capannone della ditta. Dall'interno provenivano ininterrottamente
rumori di pialle e seghe circolari. Un centinaio di operai abbigliati
con delle lugubri tute nere erano tutti indaffarati a verniciare e
lucidare il mogano delle bare. Fuori il cielo grigio tuonava guai.
Afferrò saldamente la katana e con un calcio ben assestato buttò giù
la porta di servizio. Gli uomini in nero avanzavano uno ad uno, poi a
frotte. Ma non ebbero scampo. Gabriel Ortega era stato allevato da
Takeshi Atzuàma, il celebre maestro di combattimento dei
personaggi famosi. Così la maggior parte di quei malcapitati perse la
testa, in senso letterale. Mozzò anche un'infinità di nasi e di prepuzi.
Sostò per un secondo a riflettere su quanto quelle tute nere
~ 31 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
risultassero molto più gradevoli adesso che erano macchiate di
porpora. Una scala a chiocciola in ferro battuto saliva verso una porta
con su scritto "Direzione". In un angolo buio un vecchio scheletrico,
pallido e calvo seduto in carrozzella fischiettava "Time to remember"
di Billy Joel mentre pigiava le sue abominevoli dita sui piccoli tasti
di una calcolatrice a nastro. Al centro della stanza era piazzata una
grossa sfera di metallo bianco dalla quale uscivano un'infinità di fili
elettrici.
“Vecchio!..Ci sei tu dietro tutto questo casino?”
“Si...,ho organizzato tutto io!...” rispose fieramente quel relitto
umano. “Ti stai chiedendo a cosa serve la sfera,eh?...L'ho rubata ai
"Laboratori Futech". Non è altro che un'"induttore di
sogni"...guarda,funziona così...si scrive sulla tastiera il tipo di sogno
da indurre e i dati personali del soggetto da colpire...io in
quest'ultimo caso ho attivato l'opzione "tutti”-.
“...Ma perchè l'hai fatto?!...” Lo interruppe Gabriel.
“Beh...mi
sembrava
un'ottima
opportunità
di
crescità
finanziaria...inoltre avevo il magazzino pieno di casse da morto che
dovevo assolutamente smaltire...-.
“E volevi smaltirle facendo ammazzare le persone?!".
“...Cerca di comprendermi!..” farfugliò il vecchio la cui voce si era
fatta adesso alquanto preoccupata.”...Non ho niente contro gli esseri
umani...Si tratta solamente di lavoro...Che c'è di male nel crearsi da
soli la domanda di mercato?!...Lo fanno i produttori di "Jevvy-Cola"
contaminando le cisterne idriche...Lo fanno i gestori di fast-food
rimpinzando hamburger e patatine di tossine "tornaprestoatrovarci"...
Lo fanno praticamente tutti...-.
Furono le sue ultime parole. Senza nemmeno accorgersene venne
trafitto dall'acciaio gelido della lama. I suoi rivoltanti testicoli
sbranati dai suoi stessi gatti persiani. Gabriel Ortega,per quanto
questa smemorata voce narrante riesca a ricordare,si lavò le mani con
una saponetta lilla prima di fare ritorno a casa. Accese la lampada
della cucina,versò due dita di "Glen Grant" in mezza pinta di
"Chimay" e guardò con disprezzo l'umanità dalla finestra del suo
appartamento.
“...Basta un solo uomo per fregarvi tutti...” pensò ad alta voce.
Dopodichè tirò fuori la grossa sfera dal cartone d'imballaggio e col
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~ Le storie di Io Racconto ~
bicchiere tra le mani cominciò a pensare ad un modo semplice per
fare soldi.
~ 33 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Luigi Cristiano
Un nefasto giorno
Oreste Scognamiglio nacque il 29 febbraio 1952. Sotto un cavolo. O
almeno è quello che gli dissero. Ripesandoci ora, forse gli avevano
mentito.
Nonostante la tenera età, non passò molto prima che il piccolo si
accorgesse di deficitare di qualcosa. Secondo la nonna era la santità,
dato che lo riteneva indemoniato. Secondo il calendario, era il giorno
di nascita. E mentre i suoi genitori vedevano scorrere in fretta gli
anni, lui attendeva, ansioso, che l‟almanacco riportasse il 29
febbraio. Ma questi arrivò solo nel 1956.
In prima elementare, il povero Oreste cominciò ad essere escluso dai
compagni: il metro di misura dell‟amicizia era l‟invito alla festa di
compleanno, ma avendo solo un genetliaco ogni quattro anni, in
breve tempo si ritrovò solo. Ma la solitudine lo aiutò a soffrire di
meno in seguito. Nel „58, infatti, la madre fuggì col ciabattino. Erano
tempi duri, e l‟unico modo per compiere una fuga d‟amore era avere
piedi forti e scarpe buone. In alternativa, un calzolaio.
Non passò neanche un anno prima che suo padre riacciuffasse
l‟adultera. Ma nel frattempo era stato aperto il cantiere del Monte
Bianco, e i soldi, ai contadini, facevano sempre comodo. Così
Anselmo partì per il nord. La casa alla madre, la moglie in galera, e il
figlio in collegio.
Il 29 febbraio 1960, Oreste avrebbe dovuto compiere otto anni,
quando giunse ad una sconcertante verità: questo era il suo secondo
compleanno. Nonostante fosse nato nel ‟52, quindi, era solo un
bambino di due anni. Un bambino piuttosto cresciuto.
In molti cercarono di spiegargli la caducità del ragionamento, ma
nessuno riuscì a smuoverlo dalle sue convinzioni. Il collegio era
gestito da preti, e la disciplina era ferrea. Tanto rigida che
sconvolgere l‟ordine cronologico comprendeva punizioni
severissime: “Se non capisci di avere otto anni, resterai nella tua
stanza. Fino al prossimo compleanno, se necessario!”. Il giovane
~ 34 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Oreste vi rifletté un po‟, ma quando rispose che non sarebbe rimasto
in stanza fino al ‟64, segnò indelebilmente la propria vita.
Anche se libero dall‟isolamento, il 1964 giunse mentre Oreste viveva
ancora nel collegio. Compiuto il suo terzo anno, passò quasi tutto il
mese di marzo a pane e acqua, come punizione per aver tolto nove
candeline dalla sua torta di compleanno.
Giunse il 1968, con i suoi moti e le sue rivoluzioni. I padri del
convento erano molto attenti a non far trapelare notizie scomode, ma
la voce della primavera di Praga arrivò anche alle attente orecchie
dell‟ormai quattrenne Oreste che, colto da un sentimento di libertà,
fuggì dal convento per raggiungere i manifestanti. Partì a piedi, solo
con un mantello, due mele e un morso di pane, ma il ‟69 lo colse
quando non era neanche a Perugia.
Visse per strada per qualche anno. Come tetto le stelle e come pareti
lo sconfinato cielo. Casa sua ora era il mondo. Ma cosa poteva fare
un ragazzo di neanche cinque anni, in giro per il mondo? Cercò
lavoro nell‟unico campo in cui era bravo. Si recò a scuola e chiese di
poter insegnare matematica. Il suo teorema sull‟età lo rendeva un
luminare, e nessuno avrebbe potuto rifiutargli un posto. Passò i
successivi dieci anni lavorando come bracciante.
Quando compì sette anni, decise che la scuola di paese dove aveva
cercato impiego era troppo provinciale per cogliere la sua grandezza:
se avesse voluto aver successo, si sarebbe dovuto recare
all‟università. Spese tutti i suoi risparmi per raggiungere, in treno,
l‟università più vicina. Si spacciò per uno studioso di grande
esperienza, incompreso dai suoi colleghi, e riuscì a farsi ricevere dal
rettore in persona con tutti i professori. Anziché riscuotere applausi,
però, fu sollevato e portato via. Dapprima pensò di essere stato
innalzato in trionfo, poi vide l‟ambulanza.
Negli anni ottanta, la medicina aveva rigide teorie sul funzionamento
del cervello, e il povero Oreste fu subito dichiarato pazzo e internato.
Ma questo non lo scoraggiò. Anzi, colse l‟occasione per approfondire
la conoscenza di teorie tanto geniali quanto bistrattate, propostegli
dai molti colleghi scienziati che si trovò accanto. Era così soddisfatto
che, quando gli dissero che poteva uscire, rispose che sarebbe
rimasto volentieri ancora qualche anno. Anzi, chiese di far internare
Paul Erdős.
~ 35 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Rimase in manicomio fino a che non furono obbligati a mandarlo
fuori. Quell‟anno festeggiò il suo decimo compleanno. Ma
nonostante la sua lunga permanenza in clinica, Oreste continuò a
mantenere contatti col mondo esterno. In particolare con la Svezia,
dato che puntava al Nobel. Non ebbe mai risposta.
Così, una volta uscito, decise che avrebbe studiato la lingua
scandinava per farsi comprendere ma, prima che potesse completare
il pensiero, proprio fuori dal cancello, fu investito da un camion:
avendo sbagliato a controllare i giorni, l‟autista era in ritardo sulle
consegne ed aveva accelerato il passo, non riuscendo a frenare in
tempo alla vista dell‟ignaro Oreste.
Sulla sua lapide, oggi, campeggia un ironico, seppur triste, epitaffio:
“Qui giace Oreste Scognamiglio, morto a soli dieci anni per colpa del
calendario.”
~ 36 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Daniele Croci
L'abito scuro per il mio funerale
Un vestito elegante preso in un centro commerciale di quart'ordine
durante i saldi non calzerà mai bene una volta indossato. Quello che
M.P. stava per mettersi addosso non faceva eccezione: il pantalone
era troppo corto e la giacca aveva le maniche di lunghezze
leggermente differenti. Ma d'altronde quello era ciò che poteva
permettersi, e inoltre la giornata sarebbe stata talmente meravigliosa
da mettere ogni altro dettaglio, come l'abito, decisamente su un
secondo piano.
Si vestì lentamente, per lui un rito, in quell'appartamento delle case
popolari che aveva abusivamente (e segretamente) occupato da
qualche giorno e che puzzava di muffa e urina quando andava bene.
Quando andava male, doveva controllare che nessun topo avesse
lasciato tracce di se, sotto forma di buchi o altro, nell'unico paio di
calze che possedeva.
Camicia grigia, cravatta, scarpe a punta, occhiali finti, barba
posticcia e infine parrucca. Completo bizzarro per un funerale,
potremmo dire. Ancora di più se pensiamo che il funerale a cui M.P.
si stava per recare, emozionato come una sposina nel giorno delle
nozze, era il proprio.
Un funerale è una cerimonia passiva, organizzata a favore del caro
estinto da parenti e amici, e generalmente l'ospite d'onore della serata
giace sdraiato per tutto il tempo. M.P. aveva pochi parenti, e ancor
meno amici. Decise così di organizzare egli stesso il proprio
funerale, venendo meno alla regola base di questa funzione religiosa,
cioè che ci sia qualcuno morto o quantomeno disperso.
L'idea gli venne da ragazzino, quando andò con la madre al funerale
di uno zio scomparso per malattia. Rimase assolutamente colpito
dalla valanga di complimenti e elogi funebri che erano stati preparati
a favore del defunto da parte dei presenti. Complimenti e elogi che
mai avrebbero potuto confessare quando era stato ancora in vita; e
così un uomo che il Nostro ricordava come una persona normale, un
essere umano piuttosto modesto, era diventato per un giorno, per
~ 37 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
un'ora, un eroe, un esempio per tutta la comunità. Anche lui stesso si
era sentito decisamente commosso e sul punto di piangere per una
persona che, a conti fatti, non era mai stato nulla di più che un nome
e un cognome.
E così iniziò a sognare riguardo cosa avrebbero detto i suoi genitori e
i suoi compagni di scuola se fosse morto. E li vedeva chiaramente, in
un mare di lacrime, che si struggevano nel suo ricordo enarrando le
gesta di lui consolandosi con abbracci e carezze. Vedeva la madre,
con l'abito nero, che accarezzava la bara, mentre suo padre la
sorreggeva e parlava sottovoce. Pregava, forse, o forse parlava col
proprio angelo, che se ne era andato per sempre. Col tempo questa
idea non lo abbandonò mai. E questa idea lo elettrizzava ogni volta
che gli capitava di pensarci.
M.P. non aveva avuto una vita facile. Da ragazzino era brutto,
asmatico, non particolarmente brillante nello studio o nei rapporti
interpersonali, e finì per chiudersi sempre più in se stesso con
l'avvento dell'adolescenza, prima, e dell'età adulta, poi. Suo padre era
un tassista che rincasava molto di rado; non lo trattava male, ne tanto
meno bene. Si potrebbe dire che non lo trattava affatto. Sua madre
fumava. Un pacchetto, a volte due al giorno; MS, Marlboro, Camel,
Lucky Strike. Non c'era limite alla fantasia.
M.P. crebbe così senza particolari manifestazioni d'affetto, fino a
diventare un fantasma che nessuno noterebbe in una foto di gruppo.
Istituto tecnico, poi professione metalmeccanico. 8 ore al giorno e un
saluto veloce ai colleghi, masturbazione e poi a dormire, ripetere il
giorno seguente.
Una volta si iscrisse a un sito per conoscere altri single online, e fu
contattato da una donna che gli propose di uscire. Ne fu talmente
intimidito da non riuscire a rispondere all'annuncio (forse voleva
farlo. Quando si è deboli come M.P., “volere” è sempre sottomesso a
“riuscire” e “potere”).
Per quanto piatto e inconsistente potesse apparire da fuori, non si
poteva dire altrettanto dei moti dell'animo che albergavano dentro
quel corpo goffo e fragile. Era un concentrato di dolore, sofferenza,
bisogno d'affetto; una sorta di Vaso di Pandora riletto in chiave
depressiva, senza nemmeno la tanto celebrata speranza nascosta sul
fondo.
~ 38 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lui non piangeva mai per il suo dolore, ne sì confidava mai con
amici, probabilmente perché non aveva mai conosciuto persone che
potesse definire tali; rimase infatti durante l'adolescenza escluso dal
giro delle compagnie di giovani, un'emarginazione forzata che lo
tramutò quindi in uno di quei figuri che si aggirano nei bar il sabato
sera, da soli, salutando un po' tutti e un po' nessuno, e che si siedono
poi in un angolo a sorseggiare una birra che non ha nemmeno un
buon sapore e a fumare sigarette di scarsa qualità. Ogni tanto si
avvicina qualcuno, chiede una sigaretta, dice qualche parola di
circostanza, riempie l'odioso silenzio con il rumore della pietrina
dell'accendino, bofonchia un saluto a mezza bocca e se ne va.
Il povero M.P., una volta indossato il suo ingegnoso travestimento,
scese le scale con la leggerezza tipica di chi sa che la vita, in fondo, ti
sorride. Una volta in strada, si avviò a passo leggero verso la fermata
della metropolitana che l'avrebbe portato direttamente alla chiesa
dove si sarebbe tenuta la funzione in suo onore; era riuscito a venire
a conoscenza tramite le affissioni pubbliche del luogo della
cerimonia, e non poté che sorridere nel pensare ai suoi genitori che,
dilaniati dal dolore per la prematura dipartita del suo figlio prediletto,
organizzavano la sua tumulazione. Si chiese, non senza sincera
curiosità, che tipo di bara avessero scelto per lui. Sarebbe stato un
legno pregiato, o un materiale di valore più basso? Poco importava,
anche se sperò timidamente di avere una cassa bianca, nonostante
sapesse benissimo che un simile trattamento veniva riservato a chi
era di trent'anni più giovane di lui.
Mentre si gongolava in queste riflessioni salì sull'affollatissima
metropolitana dove, a un paio di fermate dalla sua destinazione, fu
investito da un getto di vomito proveniente da un infante che veniva
portato in braccia dalla madre e puntato ad altezza d'uomo. Lo
sgradevole inconveniente non fece particolarmente allarmare il
nostro ragazzo, che rimediò al problema come poté asportando la
maggior quantità di rigurgito possibile dalla propria camicia
mediamente nuova con un fazzoletto. Rimase solo una macchia scura
e maleodorante, che proprio lì, sulla metropolitana, seduto tra una
madre con bambino e un vecchio che parlava da solo, riportò M.P a
un increscioso episodio successo solo poco tempo prima.
Dal momento che si sentiva alquanto affranto dall'essere in procinto
di passare almeno ufficialmente a miglior vita senza essere mai stato
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~ Le storie di Io Racconto ~
con una donna, decise di avere il suo battesimo del fuoco prima di
architettare il suo funerale di carta. Una sera prese dunque la sua
malconcia utilitaria e partì per il lungo tour che l'avrebbe portato
lungo le provinciali del vizio, che conosceva molto bene ma su cui
mai aveva osato transitare con l'intento preciso di quella sera.
Le strade brulicavano frenetiche di avventori e signorine, ma la scelta
si rivelò alquanto ardua e portò via all'eccitato M.P molto più tempo
del previsto, dal momento che, come sappiamo, chi ha poche
cartucce da sparare sceglie attentamente la sua preda. Dopo qualche
ora (e una decina di euro di carburante) finalmente si decise per una
biondina dalla probabile origine slava, con la quale ebbe una
travagliata contrattazione che portò a un rendez-vous in un vicolo sul
sedile posteriore della sua auto per la cifra di € 100, pagamento
anticipato.
L'incontro non andò nel modo sperato. Dopo un approccio
fallimentare (provò a baciare la prostituta per sciogliere il ghiaccio)
subì un vero e proprio assalto al pantalone, che ebbe come risultato
una macchia vergognosa sulle mutande decisamente prima del
tempo. La ragazza si comportò in modo veramente gentile con lui, e
lo scherzò solo un poco.
Il rumore del traffico all'uscita della stazione della metro lo riportò
alla realtà, alla meravigliosa realtà. Fingersi morto era stato l'affare
della sua vita: non solo si sarebbe potuto tuffare nell'affetto delle
persone che lo circondavano e che, finalmente, avrebbero espresso a
chiare lettere; ma da lì avrebbe potuto ripartire, come uomo nuovo,
come una tela bianca su cui avrebbe potuto dipingere nuovamente la
propria esistenza. Avrebbe vissuto alla ventura, facendo lavoretti
saltuari e continuando a spostarsi di paese in paese. Poteva girare
persino tutta l'Europa! (Non l'America, non gli era mai andata molto
a genio). E si immaginava già, armato di uno zaino e della sua
chitarra, che avrebbe comprato in seguito, mentre diventava una sorta
di leggenda metropolitana tra gli abitanti dei paesi che visitava, i
quali naturalmente avrebbero fatto a gara per ospitarlo o offrirgli la
cena.
Avrebbe persino osato farsi crescere una barba tutta sua, e smettere
di usare quella sintetica che gli serviva per camuffarsi agli occhi di
chi lo sapeva morto in un terribile incidente, come lui aveva lasciato
intendere con un piano raffinatissimo. Aveva infatti detto ai genitori
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~ Le storie di Io Racconto ~
che sarebbe andato in montagna per una scampagnata e per, magari,
pescare un po' sul fiume. Una volta raggiunto il posto prescelto,
aveva quindi lasciato la propria auto incustodita vicino a un
impetuoso torrente di montagna, dentro cui aveva scagliato qualche
suo vestito insanguinato (dovette pungersi un dito per avere qualche
misera gocciolina) e la sua canna da pesca. Era perfettamente
plausibile l'essere stato portato via dalla corrente e trascinato chissà
dove. Non aveva però calcolato che così facendo si sarebbe trovato a
piedi in mezzo a una strada, per lo più a centinaia di chilometri dal
suo rifugio segreto. Fu costretto a fare l'autostop e poi prendere il
treno.
Dopo aver camminato per qualche minuto riuscì finalmente a vedere
in fondo alla via, come un piccolo miraggio, la chiesa dove stava per
iniziare la funzione. Per lui quell'edificio di mattoni, che prima di
allora non aveva significato assolutamente nulla, assunse una
dimensione tutta nuova.
Con un nodo alla gola coprì gli ultimissimi metri che lo separavano
dal sagrato cercando di dare l'impressione, senza molto successo in
verità, di essere calmo e distaccato. Non vide la calca che si
aspettava fuori dal portone, ma controllando il suo orologio notò che
la cerimonia era probabilmente già iniziata.
Appoggiò le mani sulla fredda maniglia del pesante portone in legno,
e chiuse gli occhi. Rivide tutto ciò che aveva passato per trovarsi fino
a questo punto. Una vita che mai aveva avuto scossoni, che era
scivolata via eterea e pesante, come l'aria sopra la nostra testa. Una
vita nera, fredda come un dolore, e ogni notte tormentata
dall'esigenza di sentire calore, affetto, amicizia. Una vita che era
finita nel modo più appropriato, come una patetica farsa.
Riaprì gli occhi, e aprì il portone.
Potremmo lasciare qui il nostro eroe. Lasciarlo all'inizio della propria
nuova esistenza, e ricordarlo come l'uomo che ha distrutto se stesso
per rinascere come essere nuovo. L'uomo che ha dimostrato la
leggerezza del concetto di identità, che avremmo creduto essere
attribuita solo da qualcosa esterno a noi, ma che invece può essere
plasmata dalla precisa volontà umana. Ricordarci di lui come un
esempio, un profeta, forse un pioniera nella nuova dimensione della
consapevolezza di sé.
Ma questa non è la verità.
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~ Le storie di Io Racconto ~
La verità è che M.P trovò la chiesa deserta, con solo i propri genitori
e un prete in vistoso imbarazzo. La verità è che M.P cadde sulle
ginocchia, e scoppiò in lacrime. Una parodia di se stesso,
un'immagine grottesca con una parrucca vistosamente finta, una
barba posticcia e una maleodorante macchia di vomito sulla giacca.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Calogera Cutania
Sogni in tasca
Una stazione colma di gente e non sentire alcun rumore. Tutti si
muovono, parlano, vivono senza minimamente interferire con quel
che sento e percepisco. Questo perché il cantante di turno mi sta
urlando nelle orecchie le parole che voglio sentirmi dire, quelle
parole che adesso mi fanno scorrere una lacrima sul viso e sembrano
dare un senso, una concretezza ai miei pensieri. Perché è così che
funziona. Un pensiero che ti gira nella testa, una sensazione strana
che ti tormenta alla quale però non sai attribuire un nome e poi dal
niente uno ti canta nelle orecchie quelle parole, magari in un italiano
non proprio corretto, te le piazza lì nero su bianco, e poi mettici che
il cantante ha appoggiato quella poesia su una base niente male, di
quelle che ti entra nel profondo fin dentro alle vene. Un giorno, uno
tra tanti, ma ciò che lo rende speciale è il fatto che non è un giorno
come tanti. Uno zaino pieno di sogni, le tasche quasi vuote, un
freddo che ti entra fin dentro alle ossa, degno del giorno più freddo
della storia e a far da contorno una triste atmosfera natalizia e adesso
nelle orecchie un assolo di piano magistralmente suonato. Tra le
mani una foto da guardare con un sorriso sulle labbra e un senso di
tristezza nell‟anima, per ciò che è stato e non sarà più. Aspettare quel
treno che mi porterà lontano mi fa assaporare il senso del non ritorno,
devo ancora partire e so già che non tornerò indietro per nulla al
mondo, troppe cose le stanno strette di quel paesino che troppe volte
ha fatto solo da sfondo. Quel paese che non è mai stato la sua casa.
I treni sono fatti apposta per gli addii, partono piano, lenti, danno la
possibilità di assaporare ogni singolo momento, gli abbracci, i saluti,
gli sguardi dal finestrino, le mani che si allungano per toccare ancora
una volta chi, invece, è rimasto giù dal treno a guardare quella
ferraglia che si porta via la persona che vorresti stringere tra le
braccia ancora un attimo.
Ma facciamo un passo indietro.
E‟ una notte d‟estate, la prima in realtà di quell‟anno e lui, bello
come nessun altro, non il solito bello e maledetto, ma bello nella sua
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~ Le storie di Io Racconto ~
unicità, nel suo essere un perfetto attore all‟interno di quel quadro
che è la vita, cresciuto a pane, libri e musica è sdraiato sul letto della
sua camera, addormentato finalmente, dopo una notte passata a
scrivere quella canzone che mai nessuno ascolterà, perché troppo
intima, troppo privata, che parla di lui e di come vede il mondo.
Queste sono quelle canzoni che chi le scrive, mentre lo ha fatto ha
tirato fuori l‟anima e l‟ha messa su quel foglio, che adesso deve
proteggere come fosse la cosa più preziosa al mondo. Non può
rischiare che qualcuno decida che quello è solo un foglio grigio da
stracciare e buttar via.
Sta dormendo Nicola. Esausto. La finestra aperta, la dolce brezza
d‟estate. L‟ultima cosa a cui aveva pensato prima di addormentarsi,
non erano state le parole della sua canzone, quelle erano venute
fuori spontanee, da sole, ma piuttosto che il giorno dopo sarebbe
stato uno dei giorni più importanti della sua vita. Il giorno in cui
voltare la pagina e cominciare a riscrivere una nuova storia. Doveva
solo sperare di riuscire a svegliarsi in tempo.
Erano solo le otto del mattino ed era già in ritardo. Probabilmente
erano un miliardo le cose che doveva ancora fare e sua madre non la
smetteva di chiamare per aggiungere elementi alla lista. Avrebbe
cominciato con una doccia, poi una breve colazione, per poi uscire di
casa senza prima, però aver messo quel foglio in un cassetto al
sicuro. Fuori dal portone è invaso da un enorme quantità di suoni,
profumi. Pochi passi ed è in centro, tra la gente che corre al lavoro, o
porta a scuola i bambini, tra i rumori e gli odori della città che ogni
giorno sempre di più fanno diventare quella grande città la sua casa.
Due notti prima camminando avvolto dall‟ atmosfera notturna Nicola
aveva cominciato a fare un bilancio della sua vita. Come quando
arrivi ad un traguardo importante, il matrimonio, una promozione al
lavoro o la nascita del primo figlio ad esempio, e fai una lista delle
cose belle e una delle cose brutte che ti sono capitate, ed è così che
capisci di dover essere grato per le cose che sei riuscito ad ottenere,
per i traguardi che hai raggiunto e per i sogni che hai realizzato. Due
sono le conseguenze che possono capitare. La prima. Ti guardi
indietro ad osservare il passato, ti guardi intorno ad osservare il
presente e ti senti realizzato, felice, ti rendi conto che di errori ne hai
fatti ma anche quelli sono serviti ad andare avanti e ad arrivare fin
qui, e la cosa più importante è che realizzi di essere l‟uomo che
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~ Le storie di Io Racconto ~
avresti voluto essere e che se tornassi indietro faresti tutto
esattamente allo stesso modo. La seconda conseguenza. Ti guardi
intorno e ti senti un fallito. Ti rendi conto che ce l‟hai messa tutta per
cambiare le cose, per creare qualcosa, per far diventare realtà quei
sogni cresciuti dentro giorno dopo giorno, per essere orgogliosi di se
stessi ma purtroppo tutto non è andato per il verso giusto. Ma in ogni
caso credi che questo momento sia solo il giro di boa. Ti prometti di
continuare a lottare, di continuare a provare a cambiare le cose
perché se lo hai fatto fino ad adesso non vedi il motivo per cui da
oggi, giorno in cui le cose cambiano davvero, dovresti smettere di
provarci. Ecco il caso di Nicola, ovviamente è il secondo. Nicola da
bambino, insieme ai suoi genitori era partito da un paesino della
Sicilia verso quella che era l‟America per i meridionali, il nord Italia
per cercare fortuna, per provare a cambiare. Subito era stato difficile
ambientarsi, crescere in un posto diverso e aveva odiato suo padre
per la decisione presa, per quella decisione che gli aveva portato via
tutto, parenti, amici, la quotidianità di quel bambino di dieci anni
cresciuto fino ad allora senza troppe preoccupazioni e coccolato e
viziato da quei nonni fin troppo presenti. Ma un giorno di Novembre
tutto era cambiato. Doveva farsene una ragione e soprattutto doveva
abituarsi. Con gli anni crescendo aveva capito e quando venne a
sapere delle motivazioni che costrinsero suo padre a prendere quella
decisione, si vergognò profondamente per averlo odiato. Adesso
vedeva tutto in un‟ottica diversa. Ogni giorno cresceva la stima che
aveva per suo padre, era orgoglioso di lui. Un giorno ha perfino
scritto nella sua agenda tutto quello che avrebbe voluto dirgli ma che
per orgoglio non sarebbe mai riuscito a dire. Ogni tanto riprende in
mano quell‟agenda e rilegge quelle parole, quando finisce di leggerle
corre da suo padre e senza dire una parola lo abbraccia forte, suo
padre capisce che quelle sono una valanga di parole che non
usciranno mai dalla bocca di quel figlio amato profondamente. Ma va
bene così, per entrambi.
E‟ il fatidico giorno Nicola adesso è sul tram, si è già vestito per
l‟occasione e sa che tutti lo stanno aspettando. Quindici minuti e
sarebbe arrivato. L‟ansia cresce. Fatica a respirare e prova a ripetere
tra se il testo della sua tesi. Prova a fare dei respiri profondi. Deve
essere calmo e lucido davanti alla commissione che lo esaminerà.
Ecco è arrivato. Quelli che lo stavano aspettando si sono già accorti
~ 45 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
di lui e stanno urlando il suo nome indicandolo. “Nicolaaaaa……!” ,
“Nicooooo..dai muoviti che è già tardi!”. Arrivato da un abbraccio
veloce a sua madre, saluta tutti distrattamente, non si è ancora reso
conto che quelli che gli sono intorno sono gli amici che non vede da
mesi, che si sono fatti delle ore in macchina per assistere alla sua
laurea, ma non riesce a pensare a niente tranne che alla sua tesi.
“L‟economia mondiale tesa al superamento delle diversità con
obiettivo supremo la ricerca della felicità dell‟individuo”. Ma gli
amici questo lo sanno, devono solo aspettare. Nicola era un‟artista,
un sognatore. Scegliere la facoltà di economia era stato difficile, lo
aveva fatto per i suoi genitori. Era l‟unica volta in cui aveva messo
da parte i sogni e affrontato a muso duro la realtà, la vita. Si, perché
sapeva che sarebbe stato meglio così. Era ora. Entrato in quella
stanza enorme la prima cosa che ha notato che il sole che prepotente
entrava dalla finestra e si schiantava contro quel pavimento non
troppo pulito; subito aveva buttato un occhio alla commissione già
schierata, la quale sfoggiava la faccia più austera degna
dell‟occasione.
“Nicola Frollino”, dice qualcuno da un microfono. Già Frollino,
quante volte l‟avevano preso in giro, ma questa volta non c‟è tempo
per scherzi e risate. Timido e quasi spaventato si avvicina al
microfono posizionato davanti alla scrivania. Dopo un paio di
secondi di silenzio, che a lui saranno sembrati un‟eternità, uno dei
professori decide di rompere il ghiaccio. Mai l‟avesse fatto.
Esordisce leggendo il titolo della tesi, e il commento è stato “ecco,
abbiamo qui davanti un altro rivoluzionario, figlio di papà che vuole
cambiare il mondo, e fare felice ogni singolo essere vivente. Povero
illuso.” Segue una sonora risata e sguardi compiaciuti verso i suoi
colleghi. Gli altri non dicono nulla, ma si vede perfettamente che lo
stanno compatendo. Dopo circa venti minuti tutto era finito. E‟
inutile sprecare delle parole per dire che nonostante le ostilità di quel
coglione, Nicola è riuscito a strappare un 110 a quella commissione.
Orgoglioso e soddisfatto, uscito dall‟aula magna, si rende conto di
tutti coloro che si stringono intorno a lui. Abbraccia tutti, uno per
uno. E‟ un abbraccio sincero, di quelli in cui stai zitto, perché ogni
singola parola sarebbe superflua. Durante i festeggiamenti, Nicola si
era allontanato da tutti per un paio di momenti, doveva solo far
chiarezza su tutti quei sentimenti che sembravano quasi per fargli
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~ Le storie di Io Racconto ~
scoppiare il cuore da un momento all‟altro. Era felice, certo, ma
sapeva che già il giorno dopo gli sarebbe toccato lasciare tutto quello
che adesso, fino a questo momento lo aveva fatto sentito bene. Suo
padre, era riuscito, grazie ad un suo “carissimo” amico
banchiere/consigliere comunale, con le mani in pasta un po‟
ovunque, a fargli avere un posto in una filiale della banca più
importante del paese. A Milano.
Aveva festeggiato per tutta la notte. Erano le 5 del mattino quando i
suoi amici lo avevano riaccompagnato a casa un po‟ barcollante,
appoggiato a quei dubbi che diventavano sempre più consistenti.
Quel treno partito alle 14:45 da Roma Termini è il simbolo della sua
nuova vita. Di una vita ancora tutta da scrivere.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Francesco D‟Agostino
Ristrutturazioni
Era consuetudine, nella sosta della colazione, che Primo intrattenesse
i suoi operai con dei racconti, aneddoti di storie vissute,
compiacendosi nel destare interesse ed attenzione religiosa al punto
da rallentare il ritmo dei bocconi dei commensali. Quasi a far
dimenticare di non stare in gran comodità, seduti alla meno peggio su
delle cassette o materiale di risulta di un cantiere edile.
“Oggi vi racconto una storia accadutami qualche anno fa, durante la
fase di ristrutturazione e ampliamento di Palazzo Bellocchio, quel
monumento che sorge in pieno centro, ricordate? Al fianco del
mercato vecchio, no?”
Cercando con lo sguardo un cenno di assenso di chi lo ascoltava, ed
una volta assicuratosene, proseguì il racconto.
“Si proprio quello, completato con il nuovo corpo aggiunto in vetro
ed acciaio che accese tante polemiche! Se ne parlò a lungo sui
giornali. Ma non è della diatriba tra gli intellettuali che vi voglio
parlare”, ridendo aggiunse: “Sapessero a cosa ho assistito avrebbero
di sicuro ben altri argomenti su cui litigare”. Ebbene, per farla breve,
fino a quando le due strutture, nella fase dell'opera di sutura che
comportava una diversa destinazione d'uso rispetto a quella
domestica di nobile origine, vi erano ancora gli ultimi tompagni
fittizzi che impedivano la comunicazione fisica con il nuovo. Fin lì
non succedeva nulla di strano, ma andiamo al momento in cui
aprimmo tutti i collegamenti, perfezionando le dovute giunzioni
come il progetto istruiva, più l'opera doviziosa di pulitura e
liberazione di tutti gli arredi e dei suppellettili dalle loro custodie
che, man mano, dopo un po', tra uno scroscio e stridii vari, notammo
che qualche mobile si trovava spostato dalle adiacenze dei nuovi
ambienti, come se qualcosa o qualcuno rifiutasse la nuova realtà
tenendo le dovute distanze. Alcuni uomini della squadra, verso sera,
consegnandomi le chiavi, mi segnalavano che nei silenziosi saloni,
all'orario in cui si apprestavano a chiudere gli ambienti, mentre si
allontanavano alle loro spalle sentivano strane voci, sommesse
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~ Le storie di Io Racconto ~
imprecazioni di disappunto in chiacchiericci che si perdevano lungo i
corridoi con qualche colpo sordo provenire dal soffitto ligneo.
Ebbene, subito dopo, che posso dirvi... due o tre giorni scarsi, un
mattino riaprivo per le ultime operazioni di collaudo, che trovai non
vi dico! Tutto un gran disordine, mobili spostati, sedie capovolte
disseminate nei saloni, lumi ciondolanti dalle pareti, quadri sbilenchi,
insomma, come se la notte prima vi fosse stato un gran litigio.
Disperato, anche perché non sapevo quale spiegazione avrei potuto
dare all'ingegnere di quell'atto vandalico avvenuto sotto la mia
responsabile custodia di capo cantiere, ad alta voce incominciai ad
imprecare verso coloro che avevano compiuto tale scempio. Una
voce all'improvviso interruppe il mio lamento, proveniva
indistintamente da un angolo del salone in mezzo al disordine lì
dietro ad un secretaire:
“Di che ti lamenti tu! Anche per causa tua noi Penati dopo tanti anni
di dolce oblio nel custodire queste nobili mura siamo stati invasi da
quei barbari che osano presentarsi come nuove divinità, ignari di
qualsiasi galateo vengono ad imporre il loro linguaggio, uso e
costume sotto la bandiera della modernità! Modernità? Ma che se ne
stiano in mezzo a quei freddi e squallidi oggetti privi di significato e
di alte memorie storiche. Dio che disgusto!”. Neanche il tempo di
individuare chi fossero e quali sembianze avessero, che alle mie
spalle un urlo, proveniente dai nuovi ambienti in mezzo alle
scrivanie, poltroncine e monitor, replicò secco all'accusa – “Coosa!
barbari nooi! Incivili loro, con la puzza sotto il naso, asociali! Il tanfo
di muffa viene ad infastidirci fin qui!”. Subito un oggetto scagliato
con precisione balistica arriva rotolando ai miei piedi, lo raccolgo ed
era un flacone contenente un antinfestante profumato.
"Ora basta!", grido io, vedendo che la situazione poteva volgere al
peggio "È mai possibile che per causa di qualche progettista senza
talento e lungimiranza nel calcolare pure tale rischio, preso solo dalla
fama, pervaso dai pruriti di nuove teorie tecniche e formali
applicabili dappertutto, le debba pagare un povero Cristo come me!".
Detto questo ripresi lentamente a sistemare ed aggiustare gli arredi,
fin quando vennero in aiuto i miei uomini e con un solo cenno
ordinai loro di aiutarmi velocemente a rimettere tutto a posto.
Fu così che, con gran stupore dell'ingegnere che da lì a poco stava
preparando festa per ingraziarsi del buon esito lavorativo, affrettai,
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~ Le storie di Io Racconto ~
nello stesso giorno, sotto la sua visione, la consegna definitiva del
cantiere e delle chiavi prendendo le scuse di una partenza per un
impegno preso ed inderogabile.
“E cosa successe poi?” Chiesero i commensali, “non ne so più nulla,
però adesso... sì... mi sembra che sia stato una sera d'estate, quel
giorno nell'antica Roma credo si celebrasse festa a dei Numi, adesso
non ricordo la ricorrenza. Ero di gran fretta di rientro a piedi, mi
trovai a passare sotto il palazzo e, prestando orecchio ad un vocio
festante sopra la mia testa, guardai in alto. Attraverso i vetri
illuminati si stagliavano le ombre di gente che tenevano bottiglie e
bicchieri ricolmi in mano, persino un tappo scappato fuori per caso
piombò sul marciapiede. Dopo i suoi rimbalzi notai che apparteneva
ad una bottiglia di champagne... be', cosa volete che vi dica? Forse
erano proprio loro, avranno fatto pace”.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Beatrice Dalla Volta
Il gioco
Mentre le stringeva la mano, sul parapetto del Belvedere, lei
sorrideva nel buio. Le luci che illuminavano San Niccolò impedivano
di vedere l‟Arno e le stelle, ma in effetti, a loro bastavano i fari,
perché non serviva la vista, se le sue mani scivolavano lungo i suoi
fianchi, e rimaneva lo scalino invalicabile della vasca piena d‟acqua,
con la quale lui la schizzò. Lei continuava a sorridere, cercando
Fiesole che non si vedeva.
Ripresero il cammino lungo la strada sinuosa, ed andarono a casa di
lui.
La mattina dopo lei si svegliò con un malumore d‟abbandono che
l‟assemblea scolastica non riuscì a domare.
L‟altra era già tornata.
A volte, quando la sua coscienza rischiarava l‟insolubilità del
sentimento, quel piacere sereno che era il suo pensiero si trasformava
in ansia d‟astinenza, ed allora si scoraggiava nella sua solitudine,
come si esaltava durante le ore che passavano insieme (si fa per dire).
Certi abbracci sfioravano la densità dello sconforto, sfondando il
tempo che non avevano voluto avere, per rabbia di lei verso lui,
perché lui non aveva la profondità che lei gli attribuiva, e
fondamentalmente, senza prendersi troppo in giro, lui se la sarebbe
presa subito, senza troppi rimorsi, ma era lei a costruire sistemi
morali inconsistenti e sentimenti trascurabili che consistevano il
limite che poi si rifiutava di valicare.
E allora lei lo provocava, entro quelli che per lei erano limiti
appurati, perché non esistevano per loro le restrizioni della moralità
vigente, se lo abbracciava lungo il confine, pensando a come sarebbe
stato, e così era soddisfatta.
Quando lo incontrava con l‟altra, che ora era partita, ed era già
tornata, si trovava a chiedere se il suo rapporto con lui non fosse una
semplice amicizia, se s‟inventasse tutto, e allora era gelosa, ed odiava
quella che se l‟era preso, e lui sadicamente la salutava con
un‟occhiata consapevole, una provocazione che sottolineava come
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~ Le storie di Io Racconto ~
stavano effettivamente le cose. Ma lui non sapeva che le bastava
così, non l‟avrebbe mai voluto ufficialmente perché semplicemente si
annoiava, passato il limite della provocazione. Si limitava ai
momenti in cui era libera di estenuarlo e fargli vedere cosa aveva
perso, anche se l‟aveva lasciato e ripreso sempre da sola, perfino due
anni prima, quando lui si era messo con l‟altra. Lui capiva e non
capiva, ma fondamentalmente non era nemmeno interessato a capire
tutto, approfittava delle zone franche che lei gli lasciava con sguardi
infatuati, cercava di spostare sempre più avanti il confine, sfruttava
gli stessi giochi perversi di lei, accettandoli con la sicurezza da uomo
fatto che a lei mancava. Fino a che le situazioni rischiavano di
oltrepassare la linea retta del NO, e lei si offendeva e prometteva di
non rivederlo. Ma lui sapeva come giocare con lei.
Lui era paranoico riguardo la sua vita sessuale, pretendeva che lei gli
raccontasse se aveva altri, cosa faceva, dove, come, quando, e poi
tornava a casa e si rivedeva al loro posto, e s‟immaginava il viso di
lei nel riflesso dello specchio, spaventata, spogliata, decostruita,
nuda.
Invidiava nel silenzio del non averla, loro che l‟avevano per così
poco, gli sconosciuti che cadevano nei suoi giochi, dove non si
capiva chi vinceva e chi era vinto, perché lei concedeva loro quello
che a lui non dava, e poi tornava da lui con tutto il resto. Avrebbe
fatto volentieri a cambio, alla faccia di tutta la profondità delle sue
passioni da romanzo. Ma anche questo era un gioco.
Quella sera, dopo la copertina patinata del Belvedere, erano andati a
casa di lui ed avevano ballato stretti “I can get no satisfaction” ed era
stato uno dei momenti di maggior sincerità tra loro. Lui l‟aveva fatta
bere, sperando che fosse finalmente la volta buona per cominciare
qualcosa di diverso e costruttivo, ma lei l‟aveva intuito e si limitava a
fare la stupida, dandogli corda fin dove sapeva che lui non avrebbe
osato. Lei gli cantava sulle labbra “I can get no satisfaction”, ma poi
si allontanava cantando per se stessa, come un mostro fantastico
creato da lui, ed oltre lui ed i suoi stupidi abbracci indolenti. Ballava
e cantava per sé e per la sua insoddisfazione, perché lei voleva picchi
di passione ed otteneva la banalità della clandestinità non consumata.
Si avvicinava, si allontanava canticchiando, sempre più vicina e
lenta, arrendevole a quegli slanci estenuanti, e finalmente si arrese
quando lui la distese sul letto e le si buttò accanto, sfiorandole piano
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~ Le storie di Io Racconto ~
le gambe. Lei era come lui l‟aveva sempre immaginata contro lo
specchio, lo sguardo spaventato ed un po‟ fangoso, finalmente
indecisa. Alla fine dischiuse le labbra e si baciarono piano, con un
brivido caotico dal fondo. Allora lei si alzò e si mise a sedere dietro
di lui, poi gli passò le braccia sul petto, con un sospiro stretto tra i
denti, e spinse la testa tra i suoi capelli scuri. Mentre lui la cercava
con le braccia, gli occhi sbarrati verso la testiera per fissare ogni
secondo, lei gli baciò piano la nuca, poi sempre più forte al crescere
degli abbracci di lui, che continuava a fissare il muro bianco, come
sempre immaginando ogni curva e retta senza poterla vedere.
In realtà, quella posizione retrovisiva lui non l‟aveva molto afferrata,
e ci rimase discretamente male, perché la scena che si era
immaginato era piuttosto diversa, ma averla lì davvero era un modo
come un altro, forse l‟unico, per vincere. Ed una parte di lui
l‟avrebbe fatto a sfregio, avrebbe aspettato di prendere in mano le
redini del gioco, e poi sarebbe rimasta distaccata a sentirla
contorcersi spogliata, ed avrebbe gioito, aspettando in silenzio. Ed
avrebbe trovato un modo per guardarla.
Era finalmente pronto per arrivare al punto della situazione, per
lanciarsi definitivamente nell‟ attacco frontale che non aveva mai
sferrato, quando lei cominciò a scivolare in avanti, stringendosi forte
contro il suo corpo, e sussurrò con un sorrisetto sadico contro la sua
guancia
“Andrà meglio la prossima settimana, caro”.
Senza aggiungere altro, si alzò con un gesto fluido, si ricompose,
prese la borsa ed uscì da casa dei suoi genitori, triste ed non sazia
nella notte dei fari.
Lei non lo sapeva, ma lui aveva sempre pensato a lei mentre baciava
l‟altra, e si era sentito triste, e aveva chiuso gli occhi per non vedere,
non per altro. L‟aveva fatto come un dispetto a lei, eclissata alla luce
dei fari. Ed era il termine di paragone. E aveva rotto il vetro piano
del suo rapporto tendente ad un infinito negativo col gentilsesso, con
un singhiozzo apoplettico di amarezza e banalità che non gli aveva
dato niente, se non l‟ansia frigida del banco di prova.
L‟altra lo stava pettinando piano, mentre lei fissava la pioggia
dell‟assemblea, e lentamente gli sfilava il maglione da dietro. Lui
cercava i suoi occhi nel riflesso dello specchio.
“Sei contento sia tornata, amore?”
~ 53 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Certo, dai, vieni qui.”
Le mani di lei si bloccarono sul colletto della camicia.
“Stefano, è cos‟è questo? Chi te l‟ha fatto?”
E nella mente di lui si materializzò un enorme scritta rossa: GAME
OVER.
~ 54 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Nicola D‟Altri
Stare lì, camminare un po‟, aspettare
Mi ha portata là presto. Era già buio, ma saranno state appena le nove
e mezza o le dieci. Non ho guardato l‟orologio. Non guardo mai
l‟orologio. Non ce l‟ho neppure, a dir la verità.
Spero sempre che tutto duri il meno possibile, che tutto passi rapido e
indolore. Che la notte non lasciasse tracce sul giorno a venire, questo
sarebbe il mio sogno. Quando ho cominciato a fare questo lavoro,
l‟ho gettato per precauzione l‟orologio, perché lo sapevo che di
lancette non ne avrei voluto sapere, una volta cominciato. E così è
stato.
Insomma dicevo che mi ha portata là molto presto, il capo. Il capo mi
tratta molto bene. Il suo nome non lo posso dire, altrimenti se la
prende con me, e io di grane ne ho già abbastanza per sette vite, però
posso assicurare che mi tratta molto bene. L‟altro giorno mi ha
accompagnata in ospedale per fare un controllo, una roba di routine,
e poi mi ha portata a fare colazione.
È gentile con me, anche se qualche volta finisce che va in magra e
non porto a casa nulla, come si dice in questi casi. Capisce come
vanno le cose, che ci sono delle sere in cui non passa nessuno.
Ma torniamo a noi. Ho aspettato nel viale della stazione un‟ora.
Passeggiavo avanti e indietro con la mia borsetta e queste maledette
calze strette che mi lasciano il segno sulle gambe. Ogni tanto passava
qualcuno per chiedermi il prezzo, le prestazioni, eccetera. È
straziante, lo devo ammettere. Stare li, camminare un po‟, aspettare.
Sai che prima o poi dovrai fare quello che non vuoi. Però sai anche
che quello che non vuoi è in realtà quello che vuoi, perché sai che è
quello che ti permette di portare qualcosa a tavola e che permette a
tuo figlio di vivere sereno. Quindi finisce che vuoi quello che non
vuoi, e non ci si capisce più niente.
Il tuo corpo vuole una cosa, e tu ne vuoi un‟altra perché sai che non
troverai niente di meglio da fare nemmeno stasera.
Quindi speri che prima o poi qualcuno si fermi. E così facevo io.
Quando un‟auto accostava lungo la strada, che in quel punto è lunga
~ 55 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
dritta e larga, io mi affrettavo a raggiungerla per informarmi se non si
trattasse di clientela. Ma quasi mai si tratta di clientela, è solo per star
sicura che mi avvicino. Tanto lo so che la clientela è sempre la
stessa.
C‟è un uomo di mezz‟età che passa in scooter avanti e indietro
controllando se ci sono. Lo so perché a volte non mi vede e ripassa
diverse volte finché non mi nota. So che dovrei farmi vedere io, ma
ho paura. Non so che fare del mio corpo.
Lui è piuttosto normale in fin dei conti. Mi carica sullo scooter, mi
porta a casa sua, mi offre da bere e mi dice di svestirmi. Io però non
bevo mai nulla e parlo pochissimo, perché mi sento molto in
imbarazzo. Mi tolgo i vestiti, lui fa quello che deve fare e poi quando
ha finito mi rivesto. Non vuole nulla di più. Ci vorranno, che so,
dieci quindici minuti. In tutto una mezzoretta, contando anche il
viaggio di ritorno.
Poi, un altro che si fa vedere di frequente è un vecchietto sulla
settantina. Lui guida una Punto bianca e non si ferma mai davanti a
me, ma un po‟ prima, così devo essere io a raggiungerlo. Penso sia
un fatto psicologico o cose del genere. A parte questo, anche lui è un
tipo normale, anche se qualche volta mi ha fatto un po‟ male.
Quando mi fanno male le alternative sono due: o lo dico al capo, o
me lo tengo per me. Ho il terrore che se lo dico al capo lui possa
prendersela troppo con i clienti, o anche peggio. Una volta, senza
volerlo, ho visto una pistola in un vano dell‟auto, e devo dire la verità
mi ha fatto una certa paura. Ovvio, mi ha anche messo sicurezza, ma
prima di tutto paura. Fatto sta che io di guai ne ho abbastanza, e
preferisco tenere la bocca chiusa, perché la vita di una persona sulla
coscienza per qualche livido di troppo non la voglio avere. E
comunque il guaio me lo sono cercato, alla fine dei conti. Avrei
potuto evitare, forse, ma me lo sono cercato.
Insomma, l‟altra notte sono rimasta li per un‟ora circa ad aspettare
qualcuno. Era lunedì quindi pensavo che venisse quello del motorino,
come al solito, ma non arrivava. Pensavo a mio figlio Marcos a casa
con sua nonna, mia madre. Con me mia madre non parla, parla solo
con mio figlio. Però una cosa buona è che con lui non parla mai male
di me. Credo che mi voglia ancora bene, tutto sommato, però quando
ha scoperto che lavoro faccio ha iniziato ad odiarmi, e da allora non
ha ancora smesso.
~ 56 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Passeggiavo avanti e indietro, con la maledetta borsa piena di roba
inutile, puro elemento di riconoscimento. Difatti quando uno cerca
qualcuna come me cerca una ragazza o una donna con la borsetta o
cose del genere. Dopo un po‟ hanno cominciato a farmi male le
gambe, e mi sono seduta nel marciapiede per un po‟ di tempo. Devo
dire però che quando passava qualcuno mi alzavo in piedi sperando
che fosse un cliente.
Ad un certo punto in lontananza ho avvistato un luccichio, come un
faro di motorino, ma era un gatto nero che attraversava la strada. Mi
piacciono molto i gatti, hanno un bel portamento, fiero come un
principe. E poi piacciono molto anche a Marcos, infatti il Natale
scorso gli ho regalato una gattina tutta bianca e con le macchie,
davvero carina, e lui la ha chiamata Gocciola. Mi è sempre sembrato
un nome carino.
A Natale siamo stati da mia madre, ed è stato molto bello, abbiamo
pranzato tutti insieme e ci siamo fatti pure una partita a carte dopo il
caffè (Scala Quaranta) . Lei ancora non conosceva il mio lavoro, ed
andava tutto molto meglio. Quando ho riportato a casa Marcos mi ha
detto che era felice. A sette anni è facile essere felici, e poi lui non sa
ancora nulla. So che non capirebbe, e poi non voglio dargli questo
peso per qualche anno ancora. Glielo dirò, prima o poi, questo è
certo.
Comunque, improvvisamente nella strada è arrivata un‟auto sparata,
avrà fatto i cento o qualcosa del genere, e quando mi stava per
superare il guidatore mi ha vista ed ha inchiodato di colpo. Poi ha
abbassato il finestrino ed abbiamo contrattato brevemente, lui mi ha
detto che era disponibile a pagare ogni cifra e io ho accettato per non
finire in magra anche stasera che poi il capo chi se lo sente.
Già quando sono salita ho notato che c‟era qualcosa che non andava
perché l‟uomo al volante continuava a guardare lo specchietto
retrovisore come se avesse paura di essere inseguito. Mi ha chiesto il
mio nome, ma si vedeva che con la testa era da un‟altra parte. Non
che a me dispiacesse questa cosa: per una volta non ero l‟unica a
tenere la testa fuori dal mio corpo.
Si è infilato in una stradina stretta e corta, di villette residenziali ed
ha accostato quasi subito. È uscito e mi è venuto ad aprire lo
sportello, ma non mi guardava nemmeno in faccia, teneva gli occhi
fissi all‟imbocco della strada. Ci siamo sbrigati ed entrare e mi ha
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~ Le storie di Io Racconto ~
detto che non voleva fare niente, che non aveva voglia. Io mi sono
avvicinata un paio di volte ma mi ha respinta, allora gli ho detto che
doveva pagarmi comunque ma che non c‟era nessun problema, che
per me era meglio così.
Stavamo fermi immobili nel salotto, subito dopo l‟entrata, in una
casa bella e nuovissima, di quelle per famiglie. Io lo sapevo che stava
per succedere qualcosa. Mi ha offerto da bere e invece di una coca mi
ha portato del vino rosso che sapeva di tappo, ma l‟ho bevuto
comunque per non offendere la sua ospitalità, pensando che si fosse
sbagliato.
Un‟automobile è entrata nella strada e il mio cliente si è alzato a
vedere alla finestra. Ha visto chi era ed ha abbassato al massimo la
tapparella, poi ha spento la luce così, per un po‟. Ho provato a
chiedergli che cosa stesse succedendo, un paio di volte, ma mi ha
sempre zittito. Ha suonato il telefono e lui non ha risposto, e poi sono
venuti al campanello, ma lui è stato fermo e zitto, seduto su un
gradino con la testa fra le mani.
Si sono messi a bussare e a chiamare, dicendo che avrebbero
sfondato la porta perché avevano visto la macchina e lo sapevano che
dentro c‟era qualcuno. Allora lui ha aperto, e un uomo grasso ha fatto
irruenza nella casa con una pistola in mano facendo cadere a terra il
mio cliente. Io mi sono nascosta alla buona ai piedi del divano,
impaurita come un ratto, cercando di respirare il meno possibile.
L‟uomo grasso si vedeva che aveva cattive intenzioni, io lo sapevo
che avrebbe fatto qualcosa.
Gli ha urlato qualcosa riguardo a della cocaina non pagata, cose del
genere, ma non ho sentito bene perché mi ero coperta la testa con un
cuscino. Poi gli ha sparato un colpo di pistola, ha preso su la sua
borsa ed è uscito sbattendo la porta. Qualche secondo dopo, l‟auto è
ripartita con l‟uomo grasso dentro.
Ho aspettato un minuto prima di alzarmi. Sono andata dal mio cliente
e ho visto che lo aveva preso alla gamba. Un avvertimento, funziona
così. La prossima volta lo ammazza di sicuro. Allora non sapevo
cosa fare. Se avessi chiamato la polizia avrebbero scoperto il mio
lavoro e mi avrebbero portato in questura mettendo nei guai il capo e
tutta la compagnia, e tra l‟altro la babysitter per Marcos la pagavo
fino a mezzanotte. Se lo avessi lasciato li ancora per molto sarebbe
~ 58 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
morto dissanguato nel giro di poche ore, ci potrei scommettere l‟oro.
E come ho già detto, una morte sulla coscienza non la voglio avere.
Allora ho deciso di chiamare l‟ambulanza e di andarmene in fretta,
prima che arrivasse e così ho fatto.
Poi ho cominciato a capire come sono andate veramente le cose.
Quel tizio che mi ha preso su era già nei guai, stava scappando da
quello grasso. Mi ha presa su come testimone o qualcosa del genere.
Ho capito pure perché mi ha chiesto il nome. Infatti qualche giorno
fa, non so come, un‟ avvocato mi ha chiamata per testimoniare
l‟accaduto in tribunale davanti ad una giuria il giudice e tutto il resto.
Ho spiegato come sono andate le cose, tutta la vicenda dentro la casa,
il comportamento del mio cliente eccetera, le grida. Ed hanno
condannato solo quello grasso, il che mi è sembrato molto ingiusto,
visto che quell‟altro aveva avuto storie di droga e oltre a tutto mi
aveva messo in grave pericolo. Ma diciamolo pure come va detto,
delle puttane e dei loro figli non importa niente a nessuno. Tutto ciò
che ci circonda è un ammasso di puttanate. Quando sono uscita dal
tribunale, l‟altro giorno, mi sono chiesta quale sia il confine tra
affittare il corpo e noleggiare la testa e non ho trovato una risposta. E
non ho trovato una risposta nemmeno quando mi sono domandata
che cosa ho imparato da questa storia. E nemmeno quando mi sono
chiesta se effettivamente si impari sempre qualcosa dalle storie. Fatto
sta che ora ho smesso di vendermi al prossimo.
Quando ero bambina, mia nonna me ne raccontava sempre una, di
storia ma devo ammettere di non averla capita fino ad ora. La storia è
questa:
Una ragazzina un giorno d‟estate si sveglia a metà mattino, e avendo
molto caldo decide di andare al mare a prendere il sole e a
rinfrescarsi un po‟. A casa sua c‟è un bel sole terso, e il mare non è
per niente lontano, allora prende la sua bicicletta, e si avvia per lo
stradello polveroso che conduce alla spiaggia. Quando arriva al mare
però, si è tutto annuvolato e nel giro di un paio di minuti comincia a
piovere, e piove così forte che non si distingue più il cielo dal mare e
il mare dal cielo e grandi mostri marini navigano per le acque e così
via. Allora la ragazzina si protegge sotto un albero, e quando finisce
il temporale è molto più fresco, e non c‟è più bisogno di fare il bagno
per stare meglio. E così decide di tornare a casa, e quando sua madre
le domanda che cosa ha fatto la ragazzina le risponde
~ 59 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Sono andata al mare a rinfrescarmi”.
Forse è così che vanno le cose?
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~ Le storie di Io Racconto ~
Salvatore Davì
Aspettami, vedrai che passerò.
Di Marcello alcuni dicevano fosse pazzo, altri dicevano invece fosse
un genio. Difficile capire chi avesse ragione e chi no, tuttavia,
facendo una media matematica della opinioni della gente, Marcello
risultava, quantomeno, strano. Strano. Era una parola, un aggettivo
meglio, che Marcello aveva sentito ripetere tante volte in sua
presenza e si era pertanto abituato ad essere considerato così. In
realtà, non è che capisse bene, dentro di sé, per quale motivo gli altri
pensassero di lui che fosse strano, quello che faceva, infatti, per lui
era, per così dire, normale.
L‟unica persona che non lo aveva mai considerato strano era stato
suo nonno Saro. Professore di storia e filosofia in pensione, nonno
Saro, dalla figura slanciata e ossuta, era stato sempre il suo punto di
riferimento, gli bastava uno sguardo di quegli occhi neri, profondi,
per capire se quello che stava facendo era giusto oppure sbagliato.
Quasi mai, nonno Saro era in disaccordo con quello che faceva,
diceva sempre che non esisteva un modo solo di fare le cose, e che
ognuno avrebbe dovuto farle a modo suo, secondo le proprie
capacità. Per questo motivo, prima di andarsene, gli aveva lasciato
un biglietto con scritte due sole parole: “ Bravo Marcello!”. Il
biglietto lo teneva sempre con sé, dentro al portafogli, così, quando
era nel dubbio se quello che stava facendo fosse giusto o sbagliato,
gli bastava mettere una mano in tasca, tirarlo fuori e farsi coraggio.
Tante volte quel biglietto gli era servito, e tante altre volte ancora,
era sicuro, ne avrebbe avuto bisogno.
Una volta, per esempio, il biglietto gli fu utile dal gelataio. Marcello
infatti, mangiava soltanto gelato al gusto zuppa inglese e soltanto
quello di una determinata gelateria, quella con l‟insegna verde e
gialla che si trovava subito dopo l‟edicola, a destra di piazza Strauss.
Il gelataio, ormai, conosceva bene i gusti di Marcello e sapeva cosa
preparagli già prima che entrasse in negozio, gli bastava scorgerlo
dalla vetrata, sul marciapiede, oltre l‟edicola. La scena, che si
ripeteva con cadenza bisettimanale da diversi anni, era sempre la
~ 61 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
stessa. Marcello entrava, salutava e chiedeva se vi fosse della zuppa
inglese, il gelataio rispondeva sempre di sì. Allora Marcello, non per
apparire sgarbato, ma per essere proprio sicuro, chiedeva se la zuppa
inglese che avevano fosse buona; il gelataio, le prime volte aveva
storto un po‟ il naso, ma col tempo si era abituato e rispondeva
sorridendo che sì, la loro zuppa inglese era molto buona. Marcello a
quel punto comunicava la propria ordinazione, una coppetta media di
gelato alla zuppa inglese, senza panna, con due biscotti ed una
palettina blu. Il gelataio gli porgeva il gelato, lui pagava due euro e
cinquanta centesimi, ringraziava e andava via salutando e sorridendo
felice per il suo nuovo acquisto. Un giorno però le cose andarono
diversamente. Attraversata la strada ed entrato in gelateria, si sentì
dire che la zuppa inglese era finita. Il problema era serio, più che
altro irrisolvibile. Per un attimo Marcello credette che il gelataio
stesse scherzando, ma quando guardò la vaschetta sotto la scritta
“zuppa inglese” vide che effettivamente era vuota. Che fare? Andare
via? Marcello aveva caldo, aveva percorso un bel po‟ di strada, a
piedi, sotto il sole, pregustando il gelato che avrebbe comprato. No.
Non poteva andare via a mani vuote, ma cosa scegliere? Il bancone
del gelataio era pieno zeppo di gelati dai gusti per lui sconosciuti;
stracciatella, banana, fragola, nocciola, cannella… la testa iniziò a
pulsargli per la confusione. Il gelataio, da parte sua, lo osservava
imbarazzato in silenzio. Trascorsero così circa cinque minuti, poi il
gelataio vide che Marcello, con l‟aria di chi, sollevato, si renda
conto di avere la soluzione davanti gli occhi, mise una mano in tasca,
tirò fuori il portafogli e da questo un biglietto e guardandolo gli
disse: “Una coppetta media, fragola e pistacchio, senza panna, con
due biscotti e una palettina blu”. Il gelataio, più dubbioso che
persuaso, lo servì senza fiatare, e da quel giorno, Marcello, non
ordinò mai più, per due volte consecutive, lo stesso gusto di gelato.
A Marcello piacevano molto le attrici che vedeva in televisione, ma
per una in particolare, aveva letteralmente perso la testa. “Mia
Sorrentini, la nuova diva del cinema italiano” esordiva una rivista,
che teneva in camera sua, come fosse una reliquia. Marcello, amava
la Sorrentini, come i bambini amano le loro maestre di scuola, di un
amore semplice e senza malizia che si traduceva, perlopiù, in una
sorridente contemplazione di riviste e programmi televisivi che la
vedevano protagonista. Una sera, la famosa attrice, fu ospite d‟onore
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~ Le storie di Io Racconto ~
di un programma che Marcello stava guardando distrattamente, quasi
sonnecchiando, disteso sul divano. Il presentatore, d‟un tratto,
sorridendo annunciò: “Siamo onorati di avere qui con noi, stasera,
Mia Sorrentini!” Lei entrò in scena, bellissima, fasciata d‟un vestito
rosso acceso che risaltava i suoi capelli e gli occhi neri, sulla pelle
bianca come il latte. Marcello, da disteso, balzò in piedi e ad alta
voce si chiese: “Mia, quand‟è che ti incontrerò?”. Terminata la
trasmissione, come di consueto, bevve un bicchiere d‟acqua, si mise
il pigiama e andò a dormire.
La mattina dopo, si svegliò di buon‟ora e come sempre, dopo aver
atteso alle abluzioni quotidiane, fece colazione con mezzo bicchiere
di succo di frutta e tre biscotti al cioccolato. Si vestì, si pettinò e uscì
di casa per andare a comprare il giornale. Fu proprio dieci passi a
sinistra oltre il portone di casa che vide Mia Sorrentini, o meglio, il
messaggio che lei aveva lasciato lì, apposta per lui. Il cartello diceva:
“Aspettami, vedrai che passerò.” Marcello si bloccò per qualche
minuto, a bocca aperta, a fissare il cartellone. Era possibile che Lei,
la sera prima, lo avesse sentito e preso sul serio? Sì, era vero, un
pensiero gli era sfuggito e lo aveva espresso a voce alta, davanti alla
televisione, ma le persone che ci stavano dentro, erano solite
rispondergli immediatamente e non il giorno dopo, appiccicando la
risposta su un cartellone lungo la strada! Sì perché, in effetti,
Marcello, non aveva mai capito, del tutto, come funzionasse questa
televisione. Spesso, infatti, gli sembrava che le persone che ci
stessero dentro, parlassero proprio con lui, rivolgendogli delle
domande dirette, faccia a faccia. L‟ultima volta accadde, per
esempio, mentre guardava una televendita di pentole. Beninteso, a lui
non è che interessassero tanto quelle pentole o gli oggetti da cucina
in generale, restava tuttavia affascinato dagli omaggi che venivano
offerti insieme a tutti quegli arnesi per massaie. Televisori,
telefonini, biciclette, impianti hi-fi, viaggi per due persone, macchine
fotografiche e videogiochi. Così un giorno, il signore ben vestito che
reclamizzava le pentole, sembrò, secondo Marcello, rivolgersi
direttamente a lui. “A te che ci segui da casa, caro amico, quale di
questi oggetti vorresti ricevere in omaggio?” “Tutti.” Disse ad alta
voce Marcello. “Non puoi, di certo, averli tutti, ma acquistando la
nostra batteria di pentole, due oggetti a scelta saranno tuoi”, “solo
due?” Riprese titubante Marcello. “Proprio così, amico a casa, due di
~ 63 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
questi fantastici oggetti saranno tuoi se correrai a chiamarci”. Allora
Marcello, deluso ringraziò e cambiò canale, ma da quel giorno, ebbe
il fondato sospetto che tutto quanto venisse detto a voce alta davanti
la televisione, potesse, in qualche modo a lui poco chiaro, essere
sentito da chi ci stava dentro. Ora, però, la donna dei suoi sogni gli
aveva risposto in una maniera diversa da quella che si sarebbe
normalmente aspettato, e non sapeva quindi come regolarsi. Che
fare? Si guardò in giro confuso, sperando di scorgerla tra qualche
passante, ma niente, non riusciva a vederla. Magari era già passata e
lui non l‟aveva vista. O forse No. Forse il cartello lo avevano appena
affisso ed era quindi ancora in tempo. Chissà. In preda
all‟indecisione, cominciò a camminare nervosamente, avanti e
indietro, sotto al cartellone. I pensieri correvano più veloci dei suoi
piedi e lui faceva una gran fatica a stargli dietro. Un uomo di
passaggio, incuriosito, si soffermò silenzioso ad osservare tutta la
scena, poi vide d‟un tratto, che il turbamento sul volto di quel
giovane, che sino ad un attimo prima camminava avanti e indietro, si
tramutò un sorriso largo e luminoso. Il giovane smise di agitarsi,
parve leggere un biglietto che teneva in tasca, dentro al portafogli e,
dopo averlo riposto con cura, sedette, quieto, su una panchina lì di
fianco, a osservare, beato il manifesto del nuovo film che aveva
come protagonista Mia Sorrentini, intitolato: “Aspettami, vedrai che
passerò.” “Strano”, commentò il passante sottovoce e riprese
silenzioso la sua strada.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Sebastiano Davoli
Era giunto il momento di andare via
“Di prima mattina, sentendo la brezza del respiro del mare, mi
avvolsi tra le mie braccia nel tentativo di imprimere nella pelle il
ricordo della freschezza del mio corpo, che da un momento all‟altro
sarebbe stato conquistato dal calore invadente del sole. Incrociando
gli arti superiori riuscivo a distendere i nervi delle spalle, tenendole
in tensione fino a quando il sollievo diventava dolore. Allungavo il
mento, appoggiandolo perfettamente nel punto in cui si incrociavano
i due gomiti e nascondevo il viso facendo cozzare il mio respiro
contro il bicipite sinistro. Le mie palpebre si chiudevano e
schiudevano ad intervalli regolari. Mi abbassavo lentamente
piegando le gambe, fino a pormi in posizione supina. Con gesti
meccanici raccoglievo gli arti inferiori, diretti verso le braccia
incrociate.
Il sole tardava ad arrivare, e leggere nuvole avvertivano il mattino
che le aveva portate che non se la sentivano di andare via. Ma era
solo questione di attimi, di silenzi, che incombevano a tarpare le ali
ad ogni flusso che potesse disturbare l‟entrata del dio della luce.
L‟onda di fronte ai miei occhi, come tutte le mattine, cominciava a
sussurrare alla sabbia asciutta la fine del loro idillio, scusandosi per
aver esteso troppo più in là il proprio territorio. Intanto i miei capelli
avevano smesso di muoversi al ritmo delle folate, e ricadendo,
attorcigliandosi tra di loro mi accarezzavano le guance, come solo
qualcun altro aveva saputo fare. Sentivo i peli delle gambe, delle
braccia e del petto abbassarsi dolcemente e posarsi finalmente nel
loro cuscino naturale, reso tiepido e confortante dall‟imminente
arrivo. Scorgevo in lontananza due pini che avrebbero continuato a
sentirsi infastiditi dal venticello solo per pochi istanti.
Calava il sipario. Riuscii ad intuire i primi raggi luminosi dietro la
collina, scorgendomi quel che bastava. Essa fungeva quasi da
impedimento alla realizzazione di un nuovo giorno, come se ogni
volta quello precedente recasse qualche diritto per resistere almeno
un soffio di fiato in più di tutti gli altri. Tenendo ritto il capo,
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~ Le storie di Io Racconto ~
osservavo quel momento con gli occhi socchiusi, aspettando il solito
bruciore che il sole improvvisamente recava alla retina oculare. Con
mia sorpresa invece questa volta esso fu benevolo, si mostrò molto
lentamente dandomi il tempo di aspettare il momento più opportuno
per ammirarlo. Come se volesse concedersi un poco per volta in dosi
dense e consistenti, neanche fosse una avvenente donna alla ricerca
di rassicurazioni.
Mi alzai abbandonando la mia posizione supina, allargai le braccia
concedendomi alla luce ed al calore. Il suo ingresso fu come sempre,
un‟alba priva di sbavature. Quello che minuti prima sembrava un
immenso ammasso di catrame prese il colore di mille riflessi,
diventando in un colpo solo una distesa d‟acqua calma, ragionata ed
accogliente. Solo guardando il mare si poteva intuirne il fondale,
abitato da chissà quante specie e da quanti segreti, tutti ancorati nei
solchi più profondi della sua anima. Quanti nella loro vita avevano
avuto la possibilità di godersi questo spettacolo di avvenente
misticità? Iniziai a camminare, e con un mezzo sorriso mi voltai
verso i due pini. Sembravano due bimbi mansueti e riconoscenti. La
mia giornata era finita, era giunto il momento di andare via...”
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~ Le storie di Io Racconto ~
Daria De Laurentis
La balena
Me lo ricordo perché l‟ho vissuta centinaia, migliaia di volte nei
racconti di mio padre. Ogni domenica, ogni festa, ogni santissima
ricorrenza dell‟anno, in ogni favola della buonanotte e ad ogni
persona che per qualunque motivo entrava in casa nostra, ogni volta
questa storia è entrata nelle orecchie sempre e insistentemente
ancorati alla stessa frase-calamita: “la volete sentire la storia della
balena?”. Non mi stancavo mai di riascoltarla. A 5, 10 o 35 anni
quella storia aveva sempre quel fascino, quella malìa che si attaccava
alle budella e che ti faceva smettere, qualsiasi cosa tu stessi facendo,
per riviverla, ancora e ancora. Se chiudo gli occhi la vedo così quella
storia, in bianco e nero dentro una foto, con gli orli ingialliti dal
tempo e mio padre con le mutande di lana al posto del costume che
sorride felice sul dorso di una balena morta sulla spiaggia. Era
l‟estate del 1960. Forse i colori erano gli stessi delle fotografie
sfocate di adesso o forse sono io che ho la memoria sbiadita. Tutti
avevano fame e tutti si spaccavano il culo per trovare ogni giorno
qualcosa da fare e da mangiare. Col caldo la fame diventa perfino più
aspra. Perché l‟estate e il mare hanno quei colori così vivi e succosi
mentre il fondo della pentola era invece sempre così nero e sciapo.
La fame era la prima cosa che sentivamo al mattino e l‟ultima
quando ci rotolavamo di sera tra le lenzuola di lino grezzo che
graffiava le guance e le braccia. Quella mattina di agosto del 1960
mio padre e Nicola, detto “lu cioppe” per l‟andatura altalenante a cui
lo costringeva una gamba leggermente più corta dell‟altra, erano
usciti tardi per mare. Tutto il giorno avevano bighellonato tra il porto
e la piazza, la piazza e il porto, il bar, la stazione e ancora il porto,
alla ricerca di qualcosa da fare e da riportare alle mogli attaccate ai
tinelli o ai nostri sederi arrossati dalle tante botte che ci davano al
rientro a casa sporchi di terra e coi calzoni strappati. “Stanno sempre
incazzate le donne – si dicevano passandosi l‟unico mozzicone di
sigaretta della giornata – tali e quali alle loro madri, sempre incazzate
e feroci come gatte in calore”. E ridevano mostrando la fila scura e
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~ Le storie di Io Racconto ~
storta di denti di ragazzi-padre, trent‟anni e già tre figli a testa da
sfamare. Il sole era alto nel cielo e scottava più del solito. Fu proprio
guardando in alto che Nicola vide uno stormo di gabbiani che
puntava dritto verso una macchia scura nell‟acqua. “Mamma, lu
pesce!” gridò nell‟aria tersa di agosto. Con mio padre non ebbe
bisogno di dirsi niente quando all‟unisono cominciarono a correre
verso “Reginella”, la barca che dividevano in due, un remo a testa e
qualche goccia di carburante spiluccata qua e là. La massa scura
procedeva verso riva. Da lontano, tra i risvolti d‟argento che
increspavano il mare, quella chiazza sembrava bella grossa: “una
partita di pesce che risolve la mesata” pensavano i due mentre
remavano e remavano col fiato che si spezzava per l‟emozione.
Nicola teneva tra le gambe la polvere di tritolo che poco tempo prima
aveva ritrovato in una bomba inesplosa dei tedeschi. Era così che si
pescava quando non c‟erano soldi per le reti e le canne da pesca non
avevano tutte l‟amo buono. Si costruivano delle bombe rudimentali
nelle scatolette di latta della carne americana e le si facevano
esplodere nel mare con micce improvvisate sfilacciando le corde. I
pesci pescati così li riconoscevi perché avevano un colore
leggermente più livido e la spina dorsale spezzata. Ma si mangiavano
lo stesso e si vendevano come quelli pescati con l‟amo e le reti.
A Nicola il lancio riuscì male. Si era bloccato perché guardando oltre
l‟orizzonte ipotetico del tiro, si era accorto che quella massa non
erano pesci, ma un unico, gigante, nerissimo mostro mai visto
nemmeno sui libri di scuola, quando la maestra Rita indicava “leoni”
per la elle e “bacche” per la bi. E di pesci così non ne avevano
incontrati, sicuro, nemmeno i loro padri e i padri dei loro padri che
arrivavano a volte fino in Puglia per una battuta di pesce. La bomba
esplose tanto vicina a Reginella che lo spostamento d‟acqua per un
pelo non fece cadere i due in acqua. Mio padre era rimasto terreo ai
remi. Per lo spavento, diceva, non sentiva più le dita delle mani che
si erano aggrappate al legno come le cozze sotto le pance degli
scogli. “Sta venendo verso di noi!” gridò Nicola col poco fiato che
gli era rimasto sotto il palato asciutto. E fu così che la gente dalla
riva, attirata dal forte scoppio, si era trovata improvvisamente davanti
a una scena che nessuno in paese dimenticò più. Un‟enorme mostro
nero che inseguiva Reginella e i suoi scalcinati pescatori a bordo che
remavano a fatica verso la salvezza. Quando arrivarono a riva,
~ 68 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
bianchi bianchi e con il sudore ghiacciato sulle spalle spellate dal
sole i due non fecero in tempo neanche a crollare sulla rena che il
mostro si incagliò a riva con un orrendo suono che sembrava arrivare
direttamente dall‟inferno.
“Diciannove metri!” raccontarono fieri alle mogli a casa che già
sapevano tutto e avevano acceso un lumino sotto la statuetta della
Madonna del Porto. Prima dei mariti era arrivata la notizia che
sarebbero diventate ricche perché Nicola e Umberto avevano pescato
un pesce grande come una casa e bastava a sfamare tutto il paese per
una settimana. E la notizia era arrivata anche al giornale locale, e dal
giornale locale a quello nazionale e da quello nazionale al treno della
ferrovia che passava poco distante dal mare e che si era fermato tre
volte a far vedere ai passeggeri lo spettacolo della “balena assassina
che era morta prima di inghiottire la barca di due giovani pescatori”.
E in migliaia si erano appollaiati sul porto con la mano sugli occhi a
proteggersi dal sole a vedere il mare tingersi di rosso. I più
coraggiosi passeggiavano sul ventre gonfio della balena e i bambini
toccavano quella pelle liscia e tesa che puzzava di pesce andato a
male, ma che sembrava ancora viva sotto le dita tremanti. Come fu e
come non fu, ricchi Nicola e Umberto non lo diventarono mai. Si
erano fatti pure un giorno in caserma scortati dal sindaco del paese
che li aveva difesi con un‟accorata arringa dall‟accusa di pesca
illecita e uccisione di un animale protetto. “Questi due giovanotti si
sono trovati a combattere a mani nude un mostro degli abissi e
invece di premiarli li volete carcerare!”. Di tutta quella carne, finita a
marcire sotto il sole per una settimana con una puzza che faceva
rivoltare le budella, non se ne fece mai nulla. La Capitaneria di porto
aveva avuto ordine di liberare il porticciolo dalla carcassa e di
seppellirla al largo della costa. Mio padre si è segnato il punto esatto
di quella sepoltura. Ogni estate con Reginella ci portava fino a lì a
lasciare un fiore, una conchiglia, un pugnetto di sassi. Ricordo che
tremavo pensando alla balena assassina che risaliva dagli abissi per
inghiottirci tutti. E in quel punto preciso nel mare, mentre la barca si
faceva sballottare docilmente dall‟acqua, faceva sempre un gran
freddo mentre mio padre raccontava la storia e noi la ingoiavamo
ancora e ancora con gli occhi sbarrati. E poi ci dava un buffetto sulla
testa e biascicava il suo personale paternostro: “Al mare ritorna il
frutto del mare, proteggici signore per terra e per mare”.
~ 69 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Rosy Harielle De Luca
La città scomparsa
Eravamo nascosti all‟angolo della strada, tesi e pronti a scattare.
Attenti alla minima distrazione del fruttivendolo del quartiere dei
ricchi, pronti a correre e senza farlo notare arraffare una mela,
un‟arancia e di nuovo correre, prima di arrivare a scuola, dove
nell‟intervallo delle lezioni avremmo avuto qualcosa da barattare con
i nostri annoiati compagni stufi di merende confezionate e di panini
superimbottiti. Per me e mio fratello, quelli erano invece un cibo
prelibato: al mattino, dopo averci servito la colazione, la mamma non
sempre ci dava lo spuntino. Sempre però ci raccomandava di stare
attenti mentre attraversavamo le strade, di mostrarci obbedienti e
rispettosi verso gli insegnanti, di non litigare con i compagni e di
farceli amici. Quest‟ultima cosa ci riusciva più difficile, perché da un
anno a questa parte, cioè da quando avevamo lasciato il nostro
villaggio natale e ci eravamo trasferiti su un continente diverso, in
una città sconosciuta, nessuno aveva mostrato desiderio di sedersi
spontaneamente accanto a noi. Qualcuno arricciava il naso ed una
volta io, da sempre più sveglia di quello zuccone di mio fratello
gemello, avevo percepito dalle frasi pronunciate sommessamente
“ma puzzano” diceva storcendo il naso e roteando gli occhi Alice, la
bambina più bella della classe, bionda con iridi verdi, che mio
fratello, come tutti i compagni di scuola, mangiava con gli occhi.
L‟ insegnante la guardò severamente ma non disse niente quando
Alice si accomodò al suo solito posto, lasciandoci confinati al primo
banco laterale. Solo durante l‟intervallo alcuni tra i ragazzi,
incuriositi della nostra frutta, proponevano silenziosi scambi,
soddisfacenti per entrambe le parti. Dopo la scuola tornavamo a casa,
noi due soli, tra scherzi e battute nella nostra lingua, ridendo
dell‟altezzosità compassata dei nostri compagni e prendendoci gioco
degli indigeni dimoranti nel quartiere residenziale in cui era situata la
nostra scuola. Il nostro rione, invece, era abitato da tante persone del
nostro stesso paese, e lì era facile e rilassante ritrovare la nostra
lingua, il dialetto, persino gli alimenti cui eravamo abituati.
~ 70 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Compravamo pane e verdure come ci avevano ordinato mamma e
papà, poi restavamo soli in casa fino a sera, aspettando che
tornassero i nostri genitori, guardando il tramonto sulla grande città
tra i piloni d‟acciaio di un ponte dalle finestre del nostro minuscolo
appartamento.
Arrivava prima la mamma, che subito liberava i capelli e cominciava
a cucinare cibi saporiti, che spandevano per l‟appartamento un odore
di aglio e spezie. Poi giungeva il papà, sempre stanco e corrucciato
appena arrivava, poi rasserenato dalle canzoni che mamma cantava
mentre friggeva e subito metteva in tavola. Spesso ci chiedevano di
mostrare loro i nostri quaderni, di far vedere i voti. Io, che ero più
svelta del mio gemello ad apprendere la lingua nuova, gongolavo
nell‟ascoltare le lodi con cui mio padre mi elogiava: “voglio che tu
sia brava, che vada all‟università” ripeteva, ed io mi sentivo felice e
sgomenta allo stesso tempo nel sentirmi investita da una tale
responsabilità.
Di domenica seguivo mia madre in chiesa, ascoltavamo la funzione e
dopo ci recavamo in sacrestia, dove alcune donne ci regalavano dei
pacchi per bisognosi. A casa li aprivamo con vergogna: contenevano
generi alimentari, a volte vestiti, in genere troppo grandi o troppo
stretti per noi ragazzi, ma bisognava adattarseli addosso. Mio fratello
e mio padre badavano alle galline, confinate in un piccolo spazio nel
comune cortile, adibito anche a piccolo orto, dove, resistendo al gelo
invernale, crescevano stentatamente alcuni vegetali.
Era proprio il clima freddo a cui non riuscivo ad abituarmi, più che la
nuova città dalle dimensioni gigantesche, dall‟odore perenne di gas
di scarico e di benzina. Nei miei momenti di ozio fantasticavo di
tornare dalla nonna materna, nella vecchia casa dalle porte sempre
aperte, dove giocavamo a rincorrerci con i nostri cugini con i piedi
nudi sulla sabbia. Con mio fratello, mentre andavamo o tornavamo
da scuola, avevamo inventato uno strano divertimento, in cui vinceva
chi si ricordava più cose del nostro paese natale.
A scuola ci impegnavamo al massimo, e dopo qualche mese di
completa immersione in un idioma del tutto sconosciuto, un giorno
scoprimmo che riuscivamo ad afferrare sempre più quello che i
professori dicevano. Eravamo meno bravi a parlare quella lingua
nuova così complessa, anche perché, ogni volta che venivamo
interrogati, sentivamo le risatine di scherno dei nostri compagni per il
~ 71 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
nostro strano accento. Fu proprio Alice, però un giorno, quando vide
mio fratello in lacrime, ad andare incontro al gruppo di ragazzi più
accaniti e a intimare al loro capo di smetterla. Tornata da mio
fratello, gli offrì poi la sua merenda e lui le diede in cambio la
piccola mela che mamma ci metteva in borsa ormai ogni giorno, da
quando il fruttaiolo si era lamentato con lei delle nostre incursioni
mattutine. Quanti scapaccioni avevamo preso per quella piccola
marachella! Da quella mattina a scuola, Alice diventò nostra amica,
ed per noi due da allora la vita fu più semplice, anche perchè di
ritorno dalle lezioni, fino al limitare del quartiere residenziale in cui
Alice abitava, camminavamo insieme chiacchierando e ridendo.
Ma un pomeriggio, mentre terminavamo i compiti, udii il pianto
sommesso di mio fratello.
“Che hai?” gli chiesi bruscamente, sentendomi, come sempre,
nonostante fossimo gemelli, la sorella maggiore, sapendo di essere,
sicuramente, la più alta dei due. Lui continuava a piangere, finché
scuotendolo, mi rispose tra i singhiozzi. “ E‟ scomparsa” ripeteva,
scuotendo la testa. Lo strattonai incalzandolo finchè non aggiunse:
“Non ricordo più la nostra casa, la città, le strade. Sono scomparse
dalla mia mente.”
Allora mi alzai e presi un quaderno dalla cartella, strappai un foglio
dal centro e, munita di due matite, mi avvicinai a lui. “Che sciocco
sei. Non è possibile che tu non la ricordi del tutto, magari l‟hai solo
un po‟ dimenticata. Dai, disegniamola”
Ed ecco, linea dopo linea, tornare a vivere la città scomparsa. Qui
c‟era la marina, lì il castello normanno, vicino al molo dei pescatori.
Più avanti, di fronte alla spiaggetta, la casa della nonna con
l‟aranceto. Sembrava quasi di vederla mentre la domenica impastava
le orecchiette da preparare con le cime di rapa. Qui stava la bottega
dello speziale, lì il forno, qui ancora la casa degli zii, più a destra la
chiesa, dove andavamo a fare catechismo da piccoli, e dove siamo
stati battezzati. Piano piano Giovanni aveva smesso di piangere, e
aggiungeva altri particolari alla nostra mappa. “Ecco, Maria, qui
c‟era la casa di Antonia, te la ricordi quanto era bella?” chiese
.“Antonia somigliava un po‟ ad Alice, vero? Non cambi mai gusti,
vedo” risposi io, strizzandogli l‟occhio, certa che sarebbe arrossito.
Restammo a disegnare la nostra mappa finchè il sole non tramontò,
tracciando mura dopo mura, stradine dopo vicoli, piazza dopo vie.
~ 72 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
E poi ci alzammo, due dodicenni italiani degli anni „50, e ci
affacciammo alla finestra che da lontano mostrava il ponte, nella
prima strada, nel quartiere che i nostri compaesani in dialetto
chiamavano “Brucculìn”, e che nella scuola americana avevamo
imparato a scrivere correttamente Brooklyn. Eravamo emigrati da più
di un anno ormai dalla nostra terra, che ricordavamo calda e
profumata di mare, ma la nostra città adesso non era più scomparsa,
né così lontana.
Chiudemmo in fretta il quaderno mentre sentivamo la serratura
scorrere e la voce allegra di mamma chiamarci, mentre si liberava
della cuffietta da cameriera a servizio. Prima di accorrere e aiutarla,
però, feci in tempo a disegnare in alto sulla mappa un enorme sole
sorridente.
~ 73 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Enrica De Luchi
Il maestro
I bambini gremivano il cortile nel giorno d'inizio della scuola.
Quell‟anno Paola iniziava la seconda elementare ed era felice all‟idea
di ritrovare i compagni e di intraprendere un nuovo anno scolastico.
Aveva scoperto con rammarico che la maestra della prima era stata
sostituita con il maestro Zandomeneghi e questo la incuriosiva molto.
Le era stato detto che il nuovo insegnante era un uomo molto buono
e un po‟ avanti con gli anni. Era stato l‟insegnante della generazione
dei suoi genitori: molto conosciuto e rispettato. Con questa nuova
classe avrebbe concluso la carriera e sarebbe andato in pensione al
termine della quinta elementare. Per lei, perciò, sarebbe stato il
maestro dei quattro anni successivi.
Suonò la campana e si formarono le file ordinate delle classi appena
fuori il portone d'ingresso.
Appena entrati nell‟aula della seconda A, ci fu il momento
dell‟appello. L‟insegnante chiese di fare tutti assieme il segno della
Croce e di recitare il Padre Nostro. Non erano abituati a farlo al di
fuori del catechismo e della messa. Così, lo recitarono a memoria.
Zandomeneghi lasciò che i bambini finissero la recita e poi, disse:
“Così proprio non va. Ripetiamolo ancora finchè non sarà recitato
con la giusta intonazione e il ritmo adeguato”. Frase per frase, il
maestro insegnò come si doveva recitare a voce alta la preghiera al
Padre. L‟avrebbero ripetuta tutti i giorni fino alla fine della scuola
elementare.
Questo Padre Nostro divenne in poco tempo una recita triste per
Paola e per i suoi compagni. Un obbligo che non piaceva a nessuno.
Le pause e l‟intonazione che si dovevano assolutamente rispettare la
faceva sembrare una lenta marcia.
Non c‟era nessun colore nella voce dei bambini. Qualcuno avrebbe
detto “Ma che pappagalli dalla voce metallica!”
Ma il Padre Nostro si recitava così:
Padre nostro – PAUSA
che sei nei cieli - PAUSA
~ 74 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sia santificato il tuo nome - PAUSA
venga il tuo regno - PAUSA
sia fatta la tua volontà - PAUSA
e così via fino alla fine...
Il Padre Nostro e l‟obbligo della recita a macchinetta imparata il
primo giorno di scuola furono il segno netto e sgradevole di come
quell‟uomo sapeva imporre idee e modi ottusi con autorità.
Purtroppo, i bambini credono che gli insegnanti, i genitori, i parenti e
i conoscenti siano buoni e lì per fare del bene. Ma questo maestro fu
una delusione per tutti.
Durante l‟anno della seconda elementare, fece capire che dietro quel
pizzetto pirandelliano e le sopracciglia all‟insù rosse quanto i capelli,
c‟era una personalità ambiziosa e cattiva che aveva costante bisogno
di stendere lodi sulla propria persona di fronte alla classe. I bambini,
si sa, delle vanterie degli adulti non sanno proprio che cosa farsene
ma, oltre a questa abitudine così poco educativa, ne aveva altre ancor
più brutte.
Paola non ci aveva messo molto a decidere di boicottare la gara che
si faceva una volta finito un compito. Sì una gara! Questa consisteva
nel fatto che, una volta che un bambino avesse concluso il compito,
doveva alzarsi e mettersi nell‟ordine di arrivo. Il metodo educativo
divenne chiaro solo in seguito: cercare di arrivare primi per ricevere
le lodi, gareggiare con gli altri, fare presto, schernire l‟ultimo arrivato
o quello che restava immobile sul banco che non riusciva a finire.
L‟ansia e la tensione erano enormi, ingestibili, quotidiane. Cosicché,
qualche bimbo cominciò a farsi la pipì addosso troppo spesso. Paola
decise di non prestarsi a questo gioco cui tutti gli altri partecipavano
senza capire l‟umiliazione imposta. Così, oltre allo schernimento, si
prese anche le botte.
Il giorno in cui il maestro la mise fuori della finestra della classe, al
primo piano di quella scuola imponente, si fece la pipì addosso, non
disse una parola e se ne tornò a casa triste.
Decise che non cedere a debolezze sarebbe stata la sua unica
vendetta per sè e per i suoi compagni. Non un lamento uscì dalla sua
bocca, non una lacrima al colpo della mano sulla testa o sulla
schiena. Sarebbe stata forte.
~ 75 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
E invece, non fu così. La bambina vivace e allegra descritta nella
pagella della prima classe divenne la bambina pensierosa e fra le
nuvole delle altre pagelle.
Sarebbe stata forte se avesse parlato con la mamma e il papà.
Arrivarono gli esami della quinta classe. Erano presenti anche altri
insegnanti. Durante l‟esame orale, Paola fu interrogata dal maestro
Rossi. Prima di cominciare le fece un sorriso. Poi venne la domanda.
Paola ebbe un‟indecisione. Si fermò ansiosa. Colui che la interrogava
attese un momento, titubante. Poi, le diede un suggerimento con
dolcezza e le strappò un sorriso. La risposta arrivò e l'esame finì.
Paola non si ricorda della risposta che diede e neppure della
domanda.
Le parole affettuose e il volto sorridente che aveva davanti furono un
cielo azzurro e un sole splendente: il caro ricordo di come si concluse
la scuola elementare.
~ 76 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Francesco De Masi
Immaginare.
L‟avevano visto nelle acque scure degli indovini, nei lampi del cielo
e nello sbocciare immenso dei fiori d‟autunno,il giorno lucente di
acciaio e bandiere, e volevano viverlo, essere presenti al prodigio per
raccontarlo ai loro figli e agli anziani attorno ai fuochi d‟inverno, per
ricordare, sempre e per sempre,quell‟arrivo preannunciato dalla stella
polare, di uomini lontani con sconosciuti alfabeti, senza immaginare
le filastrocche della storia e le catastrofi di tuono dei giorni a venire.
Avevano camminato per giorni e giorni scendendo dagli altipiani
verso il verde della pianura e poi ancora guadando fiumi dalle acque
gelide, graffiandosi con rovi e dissetandosi con succo di fiori,
inzuppati dalla pioggia tiepida di quel settembre che finiva, ed ora,
mentre l‟alba scoloriva la notte, in lontananza sentivano il rumore
delle onde ed una brezza dolce e tenera di mare.
Insieme videro uccelli bianchi e grigi volteggiare sulla schiuma,
tanti, così diversi dai condor delle alture, a sfiorare le loro teste con
suoni pasquali e vento d‟ali e spruzzi d‟acqua nel becco; non
conoscevano l‟oceano né i gabbiani, né quell‟aria di festa che non
preannunciava il gelo e la nebbia delle montagne ma sapeva di
rifugio sereno e di giorni felici.
E videro pesci volare sulle acque e creature gelatinose nei trasparenti
fondali e conchiglie senza suoni sulla sabbia e tronchi vecchi di
foreste lontane e l‟incessante flusso e riflusso dell‟oceano mare.
E videro alzarsi il sole come sulla loro casa lontana in cui a quell‟ora
ricominciavano i ritmi mattutini, l‟indaffarato andirivieni di giovani e
vecchi e pensarono con nostalgia alle scodelle sul fuoco, ai fumi
tiepidi del risveglio, alla polvere arida che faceva inciampare le
parole, ai canti di preghiere senza eco e senza Dio.
E strinsero gli occhi, per meglio vedere quei puntini strani lontani,
sul mare, che sembravano muoversi e diventare più grandi, sempre
più grandi, e gli occhi che erano stretti, si allargarono e si stupirono
trasformandosi in bagliori di meraviglia, quando nitide e splendide
nel mattino di gloria, con le insegne di Spagna, apparvero,
sull‟orizzonte di smalto, le tre Caravelle.
~ 77 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sergio De Salvatore
Tutto è numero
In un appunto di Albert Einstein, nel periodo durante il quale
conobbe Mileva Marić, la futura madre di sua figlia, è possibile
leggere: “Tutto è numero diceva Pitagora. Noi riusciamo a pensare i
numeri e pertanto a capirli e quindi a concretizzarli in tutto; ma come
è possibile pensare o capire i sentimenti se questi non sono originati
nella nostra testa? I sentimenti non possono essere compresi, ma solo
vissuti, infatti è questa la natura umana; provare a capire ogni cosa,
anche ciò che è incomprensibile. Quindi sono sicuro che Pitagora sia
stato un grande matematico, ma di certo, non ha mai amato”.
Non appena lesse questa frase di Pitagora sul suo libro, il giovane A.
ebbe come una folgorazione e si ritrovò a sottolinearla così tante
volte da creare un solco nella pagina con la sua matita.
Era un pomeriggio soleggiato del 1897 e il giovane si trovava seduto
lungo una sponda del Reno vicino al centro di Dusseldorf. Era lì in
vacanza con suo zio Jacob, che era stato chiamato in città per
incontrare al caffè di Karlsplatz un suo collega; aveva così il
pomeriggio libero. A quel tempo era solo un diciottenne; aveva
deciso di passeggiare liberamente lungo il canale per trovare un
posto tranquillo dove sedersi e studiare il suo libro sui matematici
dell‟antichità.
D‟un tratto il suo sguardo fu attirato da una ragazza girata di spalle a
pochi metri da lui che si divertiva a lanciare dei ciottoli sull‟acqua
facendoli rimbalzare.
Nonostante sia assai facile immaginarsi un giovane occhialuto
impacciato con il genere femminile, A. non rientrava in questo
stereotipo di scienziato: colpito dalla bellezza della giovane decise di
avvicinarsi senza alcun timore. Non appena si avvicinò, la ragazza si
voltò a guardarlo.
In quel momento le certezze del ragazzo e la sicurezza che
accompagnava il suo portamento svanirono magicamente.
~ 78 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Di fronte ai suoi occhi vi era una giovane donna di circa
diciannove/vent‟anni, con una chioma fluente di capelli dorati ed
occhi azzurri come un mare di cristallo.
Un tuffo al cuore, un vuoto allo stomaco, un giramento di testa, il
giovane aveva spesso sentito parlare di queste sensazioni che però
mai aveva provato in vita sua come in quel momento.
“Ciao!” Gli disse la ragazza sorridendo per la faccia completamente
inebetita di A.
A questo punto ci si aspetterebbe che un giovane ricambi il saluto, o
quanto meno faccia un cenno con la testa e poi si allontani sconfitto
dalla timidezza. Ma A. non era fatto così; decise di fare un gesto per
il quale quella donna si sarebbe ricordata a vita di lui.
Scappò.
Girò i tacchi e iniziò a correre per tutto il canale a velocità smodata
travolgendo aiuole, bambini e persone senza distinzioni, rischiando
anche di finire nel fiume per due volte; alla fine gli mancò il fiato,
fumava troppe sigarette; si era anche ripromesso di smettere, senza
risultato.
Cadde a terra. Completamente sfinito si fermò lì, disteso a braccia e
gambe aperte sull‟erba, guardando in cielo con il sole che lo
avvolgeva come fosse un lenzuolo di luce.
Fu solo a quel punto che pensò a quanto era successo e perché fosse
scappato via.
Essendosi reso conto in fretta della stupida azione che aveva
compiuto decise immediatamente di tornare indietro a chiedere scusa
a quella ragazza, “sicuramente mi ha scambiato per pazzo”, si
ripeteva ad ogni passo. Non voleva tornare da lei in fretta perché
altrimenti le sarebbe apparso ancor più strano e nel frattempo, mentre
camminava lentamente, cercava una valida scusa da dirle non appena
l‟avesse vista, ma non riusciva a pensare a nulla, tranne che quegli
occhi azzurri.
Si ricordò anche di aver lasciato il suo libro lì per terra, “così ho un
motivo per tornare lì” continuava a dirsi. Era una sensazione strana
per uno come lui. Una mente così razionale affollata da un solo
pensiero che gli impedisce di elaborarne altri, “è assurdo”, pensava
A.
Appena arrivato in quel punto del canale, vide subito il libro sotto
l‟albero e si guardò intorno con un sorriso speranzoso sul volto.
~ 79 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lentamente però quell‟espressione svanì, per lasciar spazio a labbra
incurvate verso il basso e occhi privi di luce; lei non c‟era più.
A. riprese il libro e disse: “Ma che sarà mai, era solo carina, ce ne
sono tante” A quel punto però si fermò e si rese conto di star
parlando a voce alta completamente da solo, decise di sedersi e
riprendere a leggere. Immediatamente ai suoi occhi balzò di nuovo
quella frase: “Tutto è numero” e pensò: “Tutto è numero cioè tutto
può essere ridotto a un numero quindi tutto può essere matematica e
io? Anche io quindi dovrei essere matematica, ma come faccio a
diventare come un uno o un due o una radice? No, non è sicuramente
possibile; potrei anche diventare qualcosa di numerico, in fondo in
numeri sono razionali e anch‟io lo sono e anche quello che mi
succede.
Potrei essere un numero però dovrei fare una prova. Accidenti aveva
proprio dei bei occhi azzurri, ma che sto dicendo? Quindi io sono
molte ossa, un numero definito, quindi potrei essere 213; certo però
che belli quei capelli… ma quali capelli??? Accidenti allora 213 e
poi potrei vedere quanti sono i miei organi: chissà se la rivedrò più…
ma che dico? Forse potrei rivederla ma quante possibilità ci sono che
la riveda? Molte o poche non so di sicuro dovrei andare a cercarla”
Tutto questo turbinava vorticosamente nella mente di A., pensieri e
azioni danzavano insieme alternandosi di fronte alla sua volontà
incerta.
Fortunatamente, però, essendo una mente scientifica, decise che la
via razionale era la migliore, quindi riflettendo giunse alla
conclusione che non avrebbe avuto grandi possibilità di incontrarla di
nuovo e, se fosse successo, non gli avrebbe fatto alcun effetto.
D‟altronde come poteva perdere la testa, la sua testa, per una ragazza
della quale non conosceva neanche il nome?
Razionalmente parlando sarebbe da stolti decidere di abbandonare un
libro, un buon libro come quello che aveva in mano, per andare a
cercare tra le strade di Dusseldorf una ragazza sconosciuta. In fondo
A. era certo che non avrebbero mai potuto avere niente in comune;
era convinto che a lei non sarebbe mai piaciuta la matematica, la
fisica o la logica.
Eppure un pensiero continuava ad assillarlo; per quale motivo,
nonostante fosse certo della loro completa incompatibilità,
continuava a pensarla ogni momento?
~ 80 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
I giorni seguenti, non appena incrociava per strada una ragazza
bionda, cosa assai facile in Germania, trasaliva non comprendendone
il motivo. Suo zio gli disse, scherzando, che era stato preso da un
colpo di fulmine, ma per A. non era possibile credere a certe cose
perché non erano affatto razionali.
Provò anche un piccolo esperimento: scrisse una formula nella quale
erano compresi tutti i caratteri della sua donna ideale, la confrontò
con i tratti di quella ragazza e dimostrò così a se stesso in maniera
scientifica che lei non significava nulla: solo due parametri
corrispondevano tra la sua donna ideale e la ragazza con gli occhi
azzurri.
Era triste, perché?
A. era sconfortato, aveva provato a razionalizzare questo incontro
tramite un ragionamento logico e non ci era riuscito, aveva provato a
matematizzare la causa di questo suo pensiero ricorrente e aveva
ancora fallito, tutti i sistemi razionali che conosceva non servivano
ad eliminare un pensiero, com‟era possibile tutto ciò?
Accortosi dello stato del nipote, lo zio Jacob una sera lo invitò a
prendere una birra in una traversa di Rigtsplatz. Parlando di questo
suo problema A. chiese: “Se è errata e irrilevante, se sono sicuro che
non è razionale, com‟è possibile che non riesca a dimenticarla?”
Lo zio, un uomo di scienza anche lui, ma colpito dall‟amore a suo
tempo, rispose: “io non posso darti una spiegazione razionale a
quello che provi, perché c‟è chi lo chiamerebbe amore, o
infatuazione o in mille modi differenti e pur avendo un nome per
definirlo non riuscirebbero a farlo neanche con mille parole; posso
solo darti una spiegazione logica sul perché alle volte noi uomini, per
quanto possiamo essere razionali, ci troviamo a perdere la ragione a
causa di illogiche situazioni. L‟amore, come i sentimenti in generale
infatti sono le uniche cose che non potremo mai spiegare per via
razionale proprio perché sono per loro natura irrazionali. Non
esistono delle reazioni chimiche o delle formule matematiche in
grado di giustificare e spiegare questo fenomeno, né mai esisteranno
perché esse non hanno origine nella nostra testa, ma nascono e
vivono nel nostro cuore. Puoi vivere l‟amore, non capirlo.”
A. non ritrovò mai la ragazza dagli occhi azzurri, ma riuscì in una
impresa ancora più ardua, si innamorò di nuovo.
~ 81 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Camilla De Totero
Neve
Sedeva rilassata, su una delle due poltrone di vimini. Sedeva su
quella destra, perché così era solita fare da bambina, quando iniziò a
conoscere e ad amare quella casa.
Amava quella poltrona.
Perché distendendosi, riusciva ad appoggiare la gambe su una delle
sedie verdi. Ma soprattutto perché sedeva di fronte alla finestra.
Respirava odore di freddo.
Odore di legno. Le trasmetteva un senso di pace, sicurezza, calore.
Guardava la finestra. Le persiane erano aperte, i vetri erano
appannati, riusciva appena a vedere oltre, eppure sembrava prestasse
attenzione a qualcosa.
Era ormai buio, era molto tardi. Il lampione emanava una luce fioca.
Più fioca del solito, come se anch‟esso soffrisse il freddo e sentisse
l‟inverno.
Non si riusciva a scorgere la cima del Monviso. Da piccola stava ore
ed ore ad osservare il sole tramontare e nascondersi dietro alle Alpi.
Rimaneva spesso incantata da quel meraviglioso quadro, dove il
rosso pastello predominava sugli altri colori, e chiamava i nonni, per
condividere con loro l‟emozione di un tramonto.
La stufa scricchiolò, lei la guardò e notò che le fiamme si stavano
facendo più alte. Segno che la temperatura stava scendendo ancora.
Si alzò. Aprì la finestra. Rabbrividì. I suoi piedi nudi toccarono il
freddo pavimento del balcone. Altro brivido. Respirava aria di
freddo. Si appoggiò alla ringhiera nera. Brivido. Era Fredda. Si
guardò intorno.
Il paese era addormentato. Le imposte erano chiuse, le luci spente.
La nebbia bassa. E densa. La notte silenziosa. Respirava, inalava aria
gelida che penetrava nei suoi polmoni. Aveva la punta del naso
ghiacciata, i piedi ormai non li sentiva più. Altro brivido. Nella casa
di fronte si accese una luce. Dopo poco si spense. Non un rumore.
Solo il sussurro di un vento freddo. Le macchine posteggiate erano
coperte da uno strato di neve. Non immaginava avesse nevicato. Non
~ 82 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
se ne era accorta. Ma ancora non realizzò. La nebbia era densa, c‟era
odore di neve.
Sospirò profondamente, quasi si volesse saziare di quell‟odore. Quasi
volesse custodirlo.
Rientrò. Tornò a sedersi sulla poltrona, quella destra.
Appoggiò le gambe sulla sedia, quella verde.
Riprese a guardare attraverso i vetri appannati. Ma qualcosa nella sua
espressione era cambiato. Lo sguardo .Gli occhi. Erano gli occhi dei
bambini. Quelli sognanti che attendono impazienti la neve. Quelli
innocenti che si emozionano facilmente. Quelli ridenti che si
sorprendono di tutto. Quelli curiosi, che sembrano domandare
sempre “perché?”.
Iniziò a nevicare di nuovo. A lei sembrò di sognare. Pensava fosse
un‟allucinazione. Fosse solo suggestione.
Si alzò di scatto. D‟istinto. Si infilò i calzettoni e le scarpe. Prese una
felpa, le chiavi di casa e uscì. Scese le scale due a due, infilandosi la
felpa. Aprì il portone. Aveva un odore di legno. Forte. Volle saziarsi
anche di quello. Non per gola. Solo per fame di sensazioni.
Uscì, un brivido la scosse. Le percorse la schiena. Non per il freddo.
Per la felicità.
Stette qualche tempo lì. Ferma. Immobile. Quasi rapita da quei petali
bianchi che scendevano, disordinati e fini, da un cielo buio più che
mai.
Li guardava, permetteva loro di posarsi delicatamente, quasi
chiedessero il permesso, sulla sua pelle, di sciogliersi. Di procurarle
un brivido dopo l‟altro.
Ad ogni brivido sorrideva. Ma rabbrividiva.
Sentì freddo.
Decise di rientrare. Chiuse il portone, accese la luce, camminò
infreddolita verso le scale. Esitò un momento. Poi si girò. Sempre lo
stesso odore di legno. Se possibile lo avvertì più forte di prima.
Respirò di nuovo, profondamente. Questa volta per gola.
Salì le scale di corsa, infilò la chiave nella toppa come per aprire la
porta.
Ma non lo fece. Qualcosa la trattenne. Si fermò sul pianerottolo. La
persiana era chiusa, la finestra no. Sentì il sussurrio leggero del vento
trasformarsi in ululato. Si voltò di scatto, quasi spaventata,
dispiaciuta.
~ 83 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Notò la finestra aperta, la chiuse. Il suo sguardo cadde
sull‟armadietto, quello appena sotto la finestra, parte di una vecchia
cucina; era stato sistemato sul pianerottolo, probabilmente per
pigrizia. Istintivamente aprì l‟anta sinistra, e si inginocchiò. Sapeva,
o meglio, ricordava, che da una parte erano custoditi i giochi di
quando era più piccola, e dall‟altra le pitture del nonno. Non
ricordava cosa si trovasse a sinistra, e cosa a destra. Provò ad
indovinare.
Trovò i vecchi giochi da tavolo. Non li aveva mai usati. Chiuse
l‟anta. Aprì la destra.
C‟era il cartone di un vecchio ferro da stiro. Lo prese. Dietro vide un
paio di scatole di latta. Guardò frettolosamente nel cartone, vi trovò
uno spago e qualche pennello. Posò tutto al suo fianco. Afferrò le
scatole di latta. Una alla volta. Erano pesanti. Le aprì, una alla volta.
Curiosa, golosa. Portò la scatola al naso. La pittura era secca, ma,
come aveva letto tempo addietro, «l'odore e il sapore durano ancora
per molto tempo sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro
stilla quasi impalpabile l'edificio immenso del ricordo».
Si sorprese a sorridere. Perché il cuore stava sorridendo. Perché così
sentiva. Udì la stufa scricchiolare, credette di aver freddo.
Un altro respiro, un altro ancora. Ripose tutto nell‟armadietto. Tanto
velocemente quanto disordinatamente. Si alzò di scatto, girò la
chiave ed entrò, come se si fosse svegliata di soprassalto.
Aveva davvero freddo. Credette di non averlo, perché scaldata nel
profondo dai più dolci ricordi. Spense le luci, sgusciò sotto le
coperte, il tempo di sistemarsi comodamente e già dormiva. Un
sorriso sincero, dolcissimo la accompagnò nel regno dei sogni.
Sempre che non vi fosse già.
~ 84 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Martina Dei Cas
L‟ombra di Cheng-He
Una stanza spartana, una penombra crescente, una porta arrugginita,
delle macchie rossastre, circolari, e un uomo che, in piedi davanti al
lavabo sbeccato, fregava un paio di logori pantaloni di jeans. Come
in preda ad una strana sorta di rituale compulsivo, Cheng- He
strofinava il sapone di Marsiglia contro la stoffa scolorita. Aveva le
mani callose, i capelli unti e due occhietti scuri iniettati di
sangue…non era alto, ma emanava una malsana vitalità che faceva
rabbrividire chiunque gli si avvicinasse.
“Al diavolo i pantaloni” pensò l‟uomo gettandoli sulla coperta a
quadri. Poi prese la giacca e uscì. I lampioni erano già accesi sulla
via Pistoiese, il malfamato quartiere di Prato dove abitava, e alcuni
fiocchi di neve turbinavano nell‟aria.
Cheng- He sorrise, pensando che ormai era il suo ventesimo Natale
toscano e per la prima volta dopo anni anche lui aveva qualcosa da
festeggiare.
Poi affrettò il passo verso la bettola più vicina. La strada era deserta,
eccezion fatta per una vecchina che trascinava una pesante borsa
accompagnata dai nipoti. Li-Cheng si avvicinò per aiutarla, ma la
donna lo guardò fisso per qualche secondo, poi sputò a terra e sibilò:
“tieni quelle tue manacce insanguinate lontane da me!”, Poi si rivolse
ai bimbi e in un misto di cantonese e italiano ordinò:”Non dovete
mai avere niente a che fare con quest‟uomo: è il Macellaio, lavora
per Mr Gun!Ora andiamo”.
Lo strano trio si allontanò e Li-Cheng entrò nel suo locale preferito.
Alcune ballerine si dimenavano sui tavoli, mentre una nuvola di
fumo grigio annebbiava i sensi degli avventori. Dei ragazzini
supplicavano i buttafuori di lasciarli entrare, ma non appena videro
Cheng- He scapparono a gambe levate. L‟uomo era amareggiato:
tutti avevano paura di lui.
Si consolò con un paio di birre e l‟indomani, dopo essersi sbarbato e
pettinato si recò al Bar Sport, dove lo aspettava l‟ultimo atto della
sua vecchia vita. Riconobbe quasi subito il suo uomo, un ragazzo con
~ 85 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
la mascella volitiva e la maglia a righe. Cheng- He si chiese ancora
una volta se stesse facendo la cosa giusta, poi si avviò titubante verso
l‟uomo. Si strinsero la mano e si sedettero. Era come se gli argini di
un fiume si fossero rotti all‟improvviso: dopo un momento di
silenzio infatti Cheng- He iniziò a parlare. Raccontò del suo arrivo da
clandestino dentro un container e delle losche attività di Chinatown
passando per il suo impiego presso Mr Gun, il primo produttore
italo-cinese di pellicce contraffatte. Raccontò degli allevamenti in
aperta campagna e del suo compito, che consisteva nello scuoiare gli
animali vivi, soprattutto cani e gatti, e che gli era valso l‟appellativo
di “Macellaio”. Descrisse i versi di quelle povere bestie e l‟odore di
carne putrida che lo avvolgevano perennemente facendogli venire gli
incubi, ma soprattutto giurò che avrebbe testimoniato contro il suo
boss in tribunale. L‟uomo con la maglia a righe, che altri non era che
un poliziotto, gli offrì allora di aderire al “Programma Protezione
Testimoni”, complimentadosi per il suo coraggio. Entrambi sapevano
che la strada sarebbe stata in salita, eppure Cheng- He tornò a casa
sollevato: sul letto lo aspettavano ancora i pantaloni macchiati di
sangue. L‟ex Macellaio li fissò con aria truce e li ridusse a brandelli.
Poi prese la macchina e guidò fino ad uno squallido motel di
periferia: comprò una cartina stradale della zona e si chiese dove
andare.
Alla fine scelse Livorno e la prima cosa che fece quando arrivò fu
recarsi al canile. Adottò un cane e lo portò a fare una passeggiata
sulla spiaggia. L‟acqua lambiva gli scarponi di Cheng- He, ma
l‟uomo non pareva badarci: estrasse dal borsone i brandelli dei
pantaloni e li gettò nel mare. Per la prima volta si sentiva diverso,
libero, non più l‟ombra dell‟uomo che avrebbe potuto essere. Guardò
il cane, che scodinzolava allegro al suo fianco e capì che era ora di
ricominciare a vivere.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Gianluca Della Monica
All'ombra dei cipressi
Ogni volta che lo rivedevo con la forza dell‟immaginazione,
continuavo a sentirmi in colpa, con profondo disprezzo di me.
Se quel giorno avessi potuto spiegargli, mi avrebbe compreso,
giustificato, forse. Gli avrei potuto dire che io… che lui… che le
circostanze…
Avrebbe capito quanto fui combattuto prima di separarmi da lui, che
non avevo alternativa quando presi l‟estrema decisione.
Quel giorno non lo dimenticherò mai.
Un caldo soffocante opprimeva la città quando giunsi alla periferia di
Roma, nelle prime ore del pomeriggio. Non incontrai anima viva in
quel breve tratto di strada che separa la villetta dallo stradone. A
destra e a sinistra solo campi. Il richiamo amoroso di grilli e cicale
sotto il solleone spezzava a tratti quella pace cui non ero più abituato.
Cercai di respirare a fondo quell‟aria calda e leggera per riprendere le
forze e il coraggio.
Mi appoggiai solo un attimo al grosso fusto di un albero, perché il
rumore dei passi e le voci amiche di Luisa e delle sue bambine, che
giungevano dal retro della villa, mi sollecitarono ad affrettare
l‟incontro.
«Ciao! Benvenuto! Finalmente! Ti aspettavamo da stamattina,
avremmo fatto colazione insieme.»
La loro spontaneità mi mise immediatamente a mio agio.
«Qui non gli mancherà nulla», mi tranquillizzò Luisa. «C‟è l‟aria
buona e tutto il verde di cui ha bisogno.»
Nonostante ciò, via via che si avvicinava il momento di salutarci,
cresceva in me una grande desolazione: avrei dovuto separarmi da
lui.
Quella notte non dormii. Anche lui quella notte, e chissà quante altre,
non sarebbe riuscito a dormire.
Non ne parlai più, anzi, cercai in ogni modo di non pensarci. Nel
mondo ci sono problemi più seri.
~ 87 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
L‟estate afosa aveva finalmente lasciato la città cedendo il posto
all‟autunno, intento a distendere ovunque un vasto tappeto dai toni
caldi.
Da una panchina di un parco osservavo le foglie secche e leggere,
che il vento si divertiva a raccogliere intorno a me. Ce n‟erano a
mucchi a ridosso del muro di cinta, ai bordi dei viottoli, ai piedi del
bianco monumento di marmo.
Il viavai dei frequentatori e i colori scintillanti di luce sembravano
usciti dalla mano di Renoir.
A poco a poco lo scenario si diradava e i cipressi del parco
allungavano sempre più le loro ombre, come grigie frecce puntate
verso oriente. Mi ritrovai solo. Allora rividi le corse sfrenate che
facevo con lui sull‟erba di questo grande parco, le calme passeggiate
in sua compagnia, incorniciate da splendidi tramonti, e mi sembrò di
risentire il calore della sua testa, appoggiata affettuosamente sulla
mia spalla, mentre riposavamo su questa vecchia panchina.
Il disco di fuoco, che, basso all‟orizzonte, abbagliava ancora con forti
tinte rosso-arancio, mi fece tornare in mente il giardino di Luisa. Tra
cespugli e siepi aromatiche, Kevin mi rimase sempre vicino. Si
fermava dove io mi fermavo, avanzava quando io avanzavo. Era
felice di stare in quel luogo sereno, ma si capiva che era felice di
starci con me.
All‟imbrunire salutai tutti e mi chinai per abbracciarlo. Era un addio,
ma il piccolo Kevin non poteva capirlo.
Chiusi dietro di me il cancello, senza voltarmi, ma ogni volta che
stavo per raggiungere lo stradone, Kevin usciva di corsa attraverso le
larghe inferriate e mi raggiungeva per seguirmi.
Non so dire quante volte lo riportai indietro e quanto mi costasse
farlo…
Sempre vani risultarono i tentativi delle bambine per distrarlo con
richiami e giochi, affinché io potessi andarmene inosservato. Alla
fine Luisa lo prese in braccio e, salutandomi in fretta, entrò in casa
seguita dalle figlie. Mi misi a correre per raggiungere al più presto la
strada grande, dove un mezzo pubblico mi ricondusse in città.
Da allora non rividi mai più il mio Kevin.
Sulla panchina del parco non riuscivo a smettere di pensare a lui. Fu
allora che sentii un fruscio leggero, diverso dal solito crepitio di
foglie secche calpestate. Incontrai di nuovo il suo sguardo. No, non
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~ Le storie di Io Racconto ~
era più l‟immaginazione! Era lui, era proprio lui! Fermo a pochi
passi da me. Immobile, con gli occhi grandi e scuri che fissavano i
miei. Lo chiamai, certo di non meritare risposta, mentre lui
continuava a guardarmi impietrito.
«Kevin, Kevin!!»
In un primo momento ebbe un sussulto, ma subito dopo prese a
scodinzolare: la mia voce lo aveva emozionato. Incredibile! Non mi
aveva dimenticato.
Mi gettai verso di lui e lo abbracciai stretto stretto. Si lasciava
accarezzare con l‟abbandono di un bambino, sicuro tra le braccia del
proprio padre, con la fiducia di chi non sa tradire.
Chissà quanto mi aveva cercato quel cagnolino fedele!
Lentamente, le lunghe ombre dei cipressi scomparvero, in un
profumo di erbe appassite, e mentre il parco preparava un nuovo
scenario, senza più luci, colori e schiamazzi, noi restammo soli,
stretti in un abbraccio, riprovando una gioia dimenticata.
~ 89 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Nicola Della Pergola
Un mondo di magia
“ Ciao M. “
“ Oh, ciao Raggio di Luna! Ti trovo benissimo. Così pallido, così
delicato... “
“ Ti ringrazio. Tu come stai? “
“ Bene. Sì, abbastanza bene. Stavo parlando con i Sogni dei
Bambini. Mi sorprendono sempre con la loro ingenuità. “
“ Lo dici con una certa nostalgia. “
“ Oh be', sai come vanno queste cose...cominci a parlare e ti tornano
alla mente tante di quelle cose... Hai mai giocato con le nuvole? Sono
così soffici! Da bambino ci passavo le ore. Le modellavo, ci creavo
delle forme strane o qualche animale. Poi mi divertivo a dargli vita e
a vedere se il cavallo che avevo fatto riusciva a galoppare
via…bastava poco per essere felici… “
“ Adesso non è così? “
“ No. Adesso ci sono i Corvi. Mi gracchiano nella testa e il loro
piumaggio nero mi offusca i pensieri. “
“ Sì, mi avevi già parlato dei Corvi, ricordi? No, evidentemente no,
ma non importa. Quando sono arrivati? “
“ Non lo so di preciso. Una mattina mi sono svegliato e ne ho sentito
uno in lontananza. Credevo fosse solo di passaggio e invece si è
appollaiato lì e non se n'è più andato. Poi ne è arrivato un altro e un
altro ancora, sino a quando hanno ricoperto il cielo. Adesso faccio
fatica anche a vedere il sole”.
“ Ora però stai parlando con me “.
“ Sì, oggi non li ho sentiti. Parlare con i Sogni dei Bambini mi aiuta
sempre a stare meglio e mi sento il cuore più leggero. E poi guarda
quelle foglie sospinte dal vento come sono belle... “
“ È una lacrima quella? “
“ Oddio...che stupido che sono. Che figure che faccio. Mi commuovo
proprio per un niente. È che mi ricordano la Brezza “.
“ Immagino...”
~ 90 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“ Era così bella. Ogni volta che veniva da me portava con sé l'odore
del Mare e della Primavera. Danzavamo insieme per ore e poi
facevamo l'amore su di un letto di Note Musicali. Eravamo perfetti e
complementari. Le due facce di una stessa medaglia “.
“ E poi che cosa è successo? “
“ Imprigionare la Brezza è impossibile, lo sai? “
“ Sì, lo so. Tieni, asciugati le lacrime.”
“ Grazie. Odio piangere ma è più forte di me in certi momenti.
Come la volta in cui mi accorsi che ad ogni suo passaggio la Brezza
portava via qualcosa dal mio cuore. “
“ Che cosa? “
“ All'inizio non me ne resi nemmeno conto, ma poi mi accorsi che
tutte le volte che ci vedevamo succedeva qualcosa ai colori.
Intendiamoci: non era una cosa palese. Non mi giravo attorno
vedendo tutto in bianco e nero! No, lei si limitava a sfumare i colori
delle cose. Il rosso non era più così rosso, così come il blu
cominciava a tendere al celeste. Ci amavamo e un colore sbiadiva
leggermente senza che io me ne accorgessi. O forse non volevo
vederlo.
Me ne accorsi il giorno in cui la Brezza non si presentò più.
Aspettavo con ansia il suo arrivo. Mi faceva stare bene. Hai presente
la sensazione che si prova quando ci si sveglia la mattina prima
dell'alba e si è comunque lucidi e pieni di forze? Quando si esce per
strada e la città sta ancora dormendo e le uniche cose che ci sono
nell'aria sono il profumo delle pasticcerie e il cigolio delle catene non
oliate delle biciclette dei postini? Ecco, lei mi faceva sentire così:
padrone della mia vita, libero e felice. Eppure anche terribilmente
solo “
“ Poi non si è più fatta vedere...”
“ Esatto. La aspettai invano ma non venne più. Solo allora mi accorsi
che il mondo che mi circondava era divenuto privo di colori. Tutto
era un'opaca sfumatura grigia.”
“ E non provasti a ricercarla? “
“ E come avrei potuto? Non sapevo dove fosse andata. “
“ Sei sicuro di non averla mai più rivista? “
“ Io...sì, sono sicuro. No. No, non lo so. Non mi ricordo. È tutto così
confuso. E i Sogni dei Bambini stanno cominciando ad essere
sovrastati da quel terribile gracchio dei Corvi.”
~ 91 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“ M. forse dovresti...”
“ Lasciami stare adesso Raggio di Luna. Questi stupidi Corvi.
Andate via! Lasciami stare Raggio di Luna. Portati via i Corvi.
Lasciatemi stare tutti quanti. Ho solo sonno. Nei sogni rivedo anche i
colori. Mi lasci stare per favore. Mi lasci stare. Ho solo sonno. “
“ Va bene M., vado via.”
“ …Ho solo sonno… “
Lo psichiatra del carcere si passò una mano sul volto stanco. Dalla
finestra del suo ufficio si potevano vedere le foglie degli alberi
sospinte dal vento di quella giornata autunnale. Quattro anni addietro
M.C. aveva ucciso la propria fidanzata dopo la loro rottura. L‟aveva
pazientemente aspettata sotto casa per poi accoltellarla decine di
volte, sfigurandola sino a renderla quasi irriconoscibile.
Da allora M.C. vive in un mondo tutto suo in cui è difficile entrare.
Lo psichiatra guardò il proprio riflesso nel vetro. Alto, calvo, pallido
e con un lungo camice bianco, sembrava davvero un tenue raggio di
luna.
~ 92 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Marina Demelas
La bambina del fiume
Vi sono sentimenti che si confondono con una piccola vita gettata
nel fiume dentro ad un sacchetto di plastica legato ad un tronco.
Eppure c'è la fede simile ad una corda qualcuno che sta al di sopra di
noi, che la fa calare laggiù in fondo al pozzo.
Vi sono altri che parlano di emozioni, pulsano in quel piccolo
cuoricino che vive nell'acqua soffocato dalla cattiveria, si burla, ride
e percuote, ma se la senti è stonata come una campana.
Basta attraversare una campagna dove si possono trovare fiori
bianchi, neri o colorati, spetta a noi saperli amare.
Lassù in quella campagna dove madre natura ha appena finito di
dipingere quel ben di Dio, noi stiamo là a camminare sull'erba fresca,
bisogna stare attenti però a non calpestare il fiore della vita, ma qual
è tra tutti quelli che i nostri occhi accarezzano con lo sguardo?
Eccolo lassù il fiore della vita: la bambina salvata dalle acque così,
come un tempo fu salvato Mosè dalle acque del fiume Nilo, tutt'oggi
si ripete la stessa storia.
Vorrei chiamarla così quella piccola creatura nata da chissà quale
madre incosciente e irresponsabile; la chiamerò Emily.
Emily, la bimba di appena due mesi la trovammo dentro le acque di
un fiume, la tirammo fuori ed ecco che appena slegammo il
sacchetto di plastica lei viveva ancora.
Tutto il mondo si prese cura di lei, viveva tra le mura bianche di un
ospedale ed era una bambina nera, australiana, in ottime condizioni
di salute.
Da quel momento la sua famiglia erano i dottori e le infermiere che
la coccolavano e iniziavano a riempire quel piccolo vaso d'argilla
d'amore e d'affetto.
Già, perché ogni vita è come un piccolo vaso vuoto d'argilla creato
da Dio a noi spetta solo di riempirlo con tutti i doni che Lui ci ha
voluto donare per amore fedele.
~ 93 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lorena Demurtas
Belli dentro
So di non essere una gran bellezza e ho certamente una manciata di
chili di troppo, eppure ho sempre odiato il fitness con i suoi annessi
e connessi. Jogging, footing, stretching, tutti questi ing. che mi
inquietano solo a pronunciarli.
Sono dell‟idea che il “bella dentro” alla fine paghi sempre.
Al contrario di Maria, lei è bella fuori e per mesi ha cercato di
convincermi del contrario.
Alla fine ho ceduto e mi sono ritrovata in uno spogliatoio
puzzolente ad indossare una tuta e a darmi della cretina.
La sala attrezzi sembrava il backstage di una sfilata di D&G; fighette
patinate e new Rambo facevano bella mostra di sé appollaiati o
distesi in ogni dove. Mi sentivo osservata anche se nessuno mi
degnava di uno sguardo e per un attimo ho pensato seriamente alla
fuga.
Sei bella dentro mi dissi, tutti questi sono aria fritta.
Comunque mi sistemai in un angolo, meglio non dare troppo
nell‟occhio, noi belle dentro non amiamo esibirci.
Appena lo vidi, come d‟incanto mi sparirono l‟imbarazzo e la
soggezione.
Non era figo, non era scolpito, non sembrava nemmeno felice di
essere lì.
Gianmarco era come me “bello dentro” e diventammo subito amici.
Fisicamente era inguardabile, magro come un chiodo, alto come una
pertica, dinoccolato come Pippo. Impacchettato a dovere in una tuta
stile anni 80.
Eppure, qualcosa in lui mi attirò.
All‟inizio fu senz‟altro un‟ istinto di protezione verso le minoranze,
in quell‟ambiente così snob era chiaramente un pesce fuor d‟acqua.
Quelle lenti spesse, quei capelli crespi sempre attaccati alla fronte
sudata, non gli rendevano giustizia. Ma che importava, noi belli
dentro siamo per le cose semplici, detestiamo metterci in mostra.
Poi, giorno dopo giorno mi ritrovai affascinata.
~ 94 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ci vedevamo tutte le sere, lui instancabile si destreggiava tra
flessioni e addominali, io lo seguivo fedele e ammaliata a contargli i
tempi di pausa o a reggergli i pesi.
Mi piaceva il suo sapermi ascoltare mentre gli raccontavo di me,
della mia giornata e poi dei miei progetti, dei miei sogni. Mi gustavo
il suo sorriso alle mie smorfie, mi divertivano le sue occhiate
prudenti. Eravamo in un posto affollato ma era come se fossimo soli.
Non avevamo occhi che per noi.
Ero sicura di piacergli, sebbene non si fosse ancora fatto avanti.
Sotto quella felpa batteva un cuore timido, dagli tempo mi dissi
convinta.
Una sera non venne in palestra, la prima volta da mesi. Passai in un
istante, dalla apprensione all‟angoscia. Domandai notizie ma nessuno
seppe aiutarmi.
Mi resi conto di non sapere il suo numero di telefono, né il suo
indirizzo, e….e nemmeno il suo cognome.
Per me era solo Gianmarco. Gianmarco a cui pensavo appena
sveglia, Gianmarco troppo timido per dichiararsi. Gianmarco che
riempiva i miei pensieri.
Dio santo, mi ero innamorata!!. Quella certezza mi lasciò senza fiato.
Stavo seduta a terra a fissare un punto indefinito mentre la mia
mente vagava tra emozioni e sensazioni di una dolcezza infinita.
Vedevo i suoi occhi belli, le sue mani grandi, mi pareva persino di
sentirne l‟odore.
Glielo avrei detto, oh sì, non volevo più aspettare. L‟avrei stupito e
sorpreso, gli avrei donato il mio cuore e l‟avrei fatto felice, anche
Gianmarco mi amava, forse non lo sapeva nemmeno ma suoi occhi
parlavano per lui. Questione di segnali, noi belle dentro sappiamo
coglierli al volo.
Sentii la sua voce. Ohhh era solo in ritardo.
Entrò nella mia visuale e l‟espressione ebete che sentivo sulla faccia,
lentamente mutò, diventando prima goffa, poi grottesca.
…….. muscoli guizzanti ….. mise leopardata ….. shorts ….. capello
corto …. gel …….. sorriso accecante.
Quando quello Schwarzenegger dei tempi andati, sollevò
distrattamente la mano, verso di me, in un saluto frettoloso, il mio
cervello si inceppò.
~ 95 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Ohh Giammy”
“ Bella sta canotta Giammy”
“Come va
Giammy?” “Usciamo Giammy? “
Le voci mi giungevano lontane, ovattate, mi pareva d‟essere
sott‟acqua.
Invece ero lì, seduta a terra. Continuavo a fissare un punto
indefinito.
~ 96 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Angela Di Capua
Un mese ancora
Quando capto qualcosa che sta nascendo dentro,
mi fermo e aspetto,
e non ritengo di perdere tempo,
di lasciarla svanire,
ma sento di lasciarle il tempo necessario
per crescere e divenire.
Andrea arrivava il 1° giorno del mese e ripartiva l‟ultimo, e di
mestiere faceva il parrucchiere. Non un parrucchiere qualsiasi, lui
amava le donne. Aveva scoperto per caso che le mani in testa, sui
capelli, sul collo, generavano in loro, e in lui a sua volta, un piacere
immenso. E così, per la gioia di tutte, aveva iniziato a lavorare sodo.
La sua fama si era espansa a macchia d‟olio e il tam tam aveva
raggiunto rapidamente tutte le donne del vicinato. Ma a lui non
bastavano. La passione gli aveva generato una sete di conoscenza
così grande da fargli iniziare per caso quella che sarebbe stata poi
una scelta di vita: ogni mese in un posto diverso del mondo, per
amarle tutte. Così facendo aveva vissuto in 123 luoghi diversi e
aveva amato migliaia di donne. Giovani, meno giovani, alte, basse,
belle, brutte, magre, in carne; erano tutte fonte di piacere e attrazione
per lui; per loro sapeva trasformarsi nell‟uomo ideale. Diventava un
baldo giovane, un attraente vecchietto, un aitante uomo di mezza età;
insomma sapeva trovare dentro di sé quella parte di uomo che
avrebbe amato la cliente di turno.
Dlin dlon.. il suono del campanellino sulla porta accendeva tutti i
suoi sensi preparandolo al nuovo mondo da esplorare.
“Buongiorno, vorrei fare una piega se possibile.” A volte leggeva
negli occhi della nuova cliente l‟aspettativa generata dalle
informazioni di cui era venuta a conoscenza, ma tante altre volte
sapeva che sarebbe stata una scoperta inaspettata e il suo piacere
aumentava a dismisura.
~ 97 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Prego si accomodi”. La faceva sedere con calma, le poggiava
l‟asciugamano sulle spalle e con un primo e leggero tocco iniziava a
saggiare la pelle della nuca. Poi con fare sicuro le prendeva la testa
tra le mani e iniziava a conoscere il cuoio capelluto, il capello, e tutte
le richieste che quella testa emanava, e cominciando a capire, man
mano si trasformava. Il tutto durava una manciata di secondi ma era
un viaggio nell‟intimo della donna e suo.
Una volta finita la fase di conoscenza, con sicurezza saggiava la
temperatura dell‟acqua fino al raggiungimento di quella perfetta,
sceglieva il tipo di shampoo e iniziava ad amare quella donna.
Incondizionatamente. Lavava, sciacquava, massaggiava e ancora
lavava, sciacquava, massaggiava e massaggiava ancora fino a vedere
la donna completamente arresa e incredula nelle sue mani. Quel
connubio di acqua, mani e carezze era qualcosa che riportava a riti
ancestrali, a contatti fortemente viscerali. Durava 15 minuti ma in
realtà era come se la donna ripercorresse tutta la sua vita alla luce di
quello che stava imparando. E quando terminava, gli occhi erano
sempre sgranati e lucidi. Andrea la aiutava ad alzarsi, sapendo di
doverla sostenere con fermezza, e la conduceva alla poltroncina più
riservata e nel guardarla finalmente in viso, coglieva il suo sguardo
pieno di domande e di amore che lo riempivano fino a saziarlo; se
avesse avuto un rapporto sessuale non si sarebbe sentito più
appagato. Lì, mentre con l‟asciugamano le copriva testa e gli occhi
per finire di asciugarla, le concedeva un po‟ di intimità con se stessa.
E lei ne riemergeva diversa, profondamente cambiata.
“Cosa facciamo?” era la domanda di rito che costringeva la cliente a
rientrare in contatto con la razionalità e soprattutto con la voce.
“Lisci spettinati, grazie.” Ma si sentiva la difficoltà ad articolare
parole.
E da lì la storia proseguiva a colpi di spazzola e phon. Amava ogni
ciocca, la coccolava e alla fine tutta la testa rifulgeva dell‟energia
ricevuta. L‟amore era stato dato completamente e ne sarebbe rimasto
il segno nel cuore per sempre. Ogni donna che usciva dal negozio e
dalle mani di Andrea era diversa da quella che era entrata: era
leggera, serena, in pace con se stessa e con il mondo, e completa. Si
sarebbe sentita affascinante per sempre.
Era questa la sua missione, amare per completare.
~ 98 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Il difficile era portare addosso la sofferenza che generava lo strappo
di ogni fine mese. Partiva senza avvisare né salutare e sapeva che il
bagaglio di rimpianti sarebbe pesato sempre di più. L‟unica cosa che
riusciva a mitigare questa amarezza era l‟eccitazione del nuovo che
sentiva nascere dentro appena metteva piede nella nuova città. Le
vedeva passare per strada, inalava il loro buon profumo e sapeva che
molte di quelle donne sarebbero venute da lui nel giro di pochi
giorni. Quindi passava in rassegna tutti i negozi di parrucchieri,
sicuro che, almeno uno, avrebbe avuto bisogno di un aiutante. E una
volta sistemato, iniziava il divertimento. I proprietari dei negozi
rimanevano sempre senza parole, e qualche volta anche molto
infastiditi, per l‟immediata reazione di fidelizzazione che Andrea
generava nelle clienti, ma davanti al grande viavai che nei giorni
successivi si verificava e al conseguente aumento delle entrate,
soprassedevano, persino contenti. Andrea era un vera forza della
natura. Non si stancava mai e la sua passione rimaneva inalterata nel
tempo, prescindendo da tutto e da tutte.
Era il 25 giugno e faceva molto caldo, ma quel giorno c‟era aria di
maestrale e la città, fatta tutta di muri color sabbia, sembrava
prendere vita di nuovo. Il maestrale aveva sempre avuto su di lui
un‟azione purificatrice; portava via l‟aria pesante, sporca e gli
permetteva di respirare, di rigenerarsi fino nell‟anima. Al suono del
campanellino si girò, ma sull‟uscio del negozio non c‟era nessuno.
Andrea sorrise pensando che il vento fosse passato a salutarlo, ma un
attimo dopo entrò Annabella. Era la prima volta che entrava, ma si
vedeva che già sapeva cosa avrebbe trovato. I suoi occhi girarono
rapidamente in tutto il locale finché non trovarono quelli di Andrea, e
lì si posarono stabilmente. Erano occhi penetranti, sorridenti e pronti
all‟esperienza. Andrea si divertì nel vedere tanta sfrontatezza, ma
l‟accompagnò al lavaggio un po‟ meno baldanzoso del solito.
Annabella si sedette e Andrea iniziò lo studio della sua testa.
Tastava, massaggiava e tastava di nuovo, ma non gli riusciva di
trasformarsi. Si attardò ancora ma non riuscì a comprendere cosa
quella donna volesse veramente. Sfinito dalla cosa decise di iniziare
il lavaggio. Ma quel lavaggio, per la prima volta, fu un vero e proprio
viaggio. Viaggiò con Annabella, la conobbe e si lasciò conoscere e
per la prima volta prese almeno quanto donò. La rivisitazione della
propria vita alla luce dell‟esperienza di quell‟incontro stavolta toccò
~ 99 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
ad entrambi. Quando si staccò dalla testa di Annabella entrambi ci
misero un po‟ a rientrare nella realtà. La messa in piega fu molto
lenta e intensa e Andrea faceva fatica a concentrarsi estraniandosi da
se stesso. Ci mise più sé, si diede per la prima volta come Andrea e
basta, consapevole che ciò avrebbe portato per lui quelle
conseguenze che aveva sempre fuggito.
Quando ebbero finito Annabella si alzò e lo guardò negli occhi. Non
disse molto ma si aprì un mondo.
“Posso prenotarmi per la prossima settimana?”
“Si, resto un mese ancora.”
~ 100 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberto Di Giusto
Pregiudizi
La grandine cade a gnocchi ed io trascino un trolley da un quintale e
mezzo, protetto da un patetico ombrellino. Le rotelline strusciano nel
fango e mi fanno sembrare infinita la strada che porta alla stazione.
La giornata è cominciata male. Non bastasse il maltempo, sono
anche stato costretto, diversamente dal mio solito, ad alzarmi alle
sette del mattino, con effetti nefasti sul mio umore.
Io odio alzarmi presto.
Arrivo in stazione e impreco al pensiero delle scale che devo
scendere e salire per arrivare sul binario 3. Ma posso prendermela
comoda, il treno per Milano ha un ritardo di 20 minuti.
Impreco di nuovo.
Quando finalmente il treno si degna di arrivare, un fiume di gente
cerca di salire sui vagoni già affollati. A forza di gomitate mi
guadagno un posto a sedere.
Forse riuscirò a dormi…Non finisco la frase, il neonato in braccio
alla donna che mi si è seduta di fianco comincia ad ululare. Le
imprecazioni si susseguono come in un rosario.
Un‟ora e mezzo dopo, sconvolto, scendo alla stazione di Milano
Rogoredo. Attraverso tutto il sottopassaggio e riemergo presso il
quarto binario tronco, dove mi aspetta l‟altro treno, quello per
Milano Porta Venezia.
“Scusa!”
Mi giro e sul marciapiede opposto c‟è una ragazza che mi grida:
“Scusa, va a Milano questo?” Le faccio gentilmente notare che
Milano è dotata di numerose stazioni ferroviarie, non ultima quella in
cui ci troviamo in questo stesso momento.
“Ah, ma sai se va a Porta Vittoria?” Dopo averle fatto gentilmente
notare anche che non faccio parte del personale di servizio delle
ferrovie, altrettanto gentilmente, la invito a prendere visione del
tabellone luminoso posto all‟inizio del binario tronco, dove saranno
senz‟altro specificate tutte le fermate del treno.
~ 101 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Finalmente salgo. Attraverso la prima carrozza. Non mi fermo,
all‟interno vi sono due donne Rom il cui aspetto non mi piace, sono
sicuramente in attesa che il treno parta per alzarsi e chiedere la carità
ai passeggeri, preferisco tirare dritto. Il treno è semideserto, ma nella
seconda carrozza trovo un gruppo di quattro extracomunitari che
proprio non mi convince, quindi proseguo a trascinarmi la valigia.
Mi lascio indietro un‟altra carrozza ancora, giusto per sicurezza, e
alla fine prendo posto in un vagone vuoto.
Mi sono appena seduto, che mi sento chiamare da una voce esile alle
mie spalle: “Mi scusi, ferma a Bollate, questo treno?” Evidentemente
devo avere l‟aspetto del ferroviere.
O forse l‟anziana signora cui appartiene la voce mi ha scambiato per
l‟oracolo di Delfi. Mentre le rispondo, sempre con la massima
gentilezza, che non sono del posto e non conosco tutte le fermate, la
signora comincia a bisticciare col marito che, alzando gli occhi al
cielo come chi è abituato a sopportare certe tribolazioni, continua a
ripeterle di smettere di importunare gli altri passeggeri e di fidarsi di
lui, una buona volta, che il treno è senz‟altro quello giusto.
Io sono d‟accordo col vecchio, soprattutto per quanto riguarda la
parte dello “smettere di importunare gli altri passeggeri”, ma la
donna è ormai nel panico: “Oddio, e come facciamo se poi abbiamo
sbagliato treno? E se poi ci fanno la multa? E come ci facciamo
venire a prendere se siamo in un‟altra stazione? Ma perché non hai
voluto prenderti uno di quei telefonini? Ma perché non c‟è mai
nessuno a cui chiedere qualcosa?” e via così.
Il marito è ormai allo stremo ed io gli lancio un‟occhiata di
compatimento. Per tagliare corto, mi offro di scendere per andare a
controllare il tabellone luminoso, per assicurarmi che il treno fermi a
Bollate. Dopo i mille ringraziamenti della vecchia, do un‟occhiata
disperata ai miei bagagli. Mai e poi mai mi ritrascinerò dietro la
valigia e il borsello lungo tutto il marciapiede solo per andare a
controllare un orario. Così, anche se non veramente convinto che le
Rom o gli extracomunitari seduti più indietro verranno a derubarmi,
lancio un: “Datemi un‟occhiata ai bagagli, per favore” e scendo dal
treno. A rapidi passi, perché ormai l‟orario della partenza si avvicina,
mi dirigo verso il tabellone. Leggo le fermate: Porta Vittoria, Dateo,
Porta Venezia, Repubblica, Porta Garibaldi, Lancetti, Bovisa, Affori,
~ 102 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Bruzzano, Cormano-Brusuglio, Cusano Milanino ecc. Fino a
Mariano Comense.
Niente Bollate. Quei vecchi storditi hanno davvero sbagliato treno.
Risalgo velocemente. Ormai mancano davvero pochi minuti alla
partenza. Supero nuovamente le due Rom, poi gli extracomunitari,
poi il primo vagone vuoto, poi il secondo vagone vuoto. Al terzo
vagone vuoto sono abbastanza perplesso. Dove li ho lasciati i
vecchietti? Possibile che li abbia superati senza accorgermene? No,
impossibile. Faccio ancora un vagone, in questo c‟è un tizio in giacca
e cravatta e un ragazzino con gli auricolari nelle orecchie. Anche nel
successivo non vi è traccia di quella coppia di vecchie cariatidi.
Provo a tornare indietro. Ragazzino e giacca e cravatta – vagone
vuoto – vagone vuoto – vagone vuoto – extracomunitari – Rom.
Niente. Ora ho un po‟ di ansia.
Il treno parte.
Lo ripercorro per l‟ennesima volta: marocchini – zingari – vagone
vuoto, mentre nella mia mente si susseguono immagini sulle teorie
più disparate. Forse le zingare hanno rapinato i vecchi, forse sono
stati i marocchini.. Forse le nomadi hanno derubato i vecchi e poi
sono state rapinate dai neri. Forse uno dei due vecchiacci doveva
andare in bagno e l‟altro lo ha accompagnato. Non si potrebbe
utilizzare la toilette quando il treno è fermo in stazione, ma dagli
anziani ci si può aspettare di tutto. Se fossero andati in bagno,
troverei comunque i miei bagagli al loro posto. Potrebbero essere
scesi mentre io salivo. No, impensabile che si siano trascinati dietro
quella valigia. A malapena riesco a portarla io. Quindi?
Guardo con più attenzione. La seconda carrozza vuota dovrebbe
essere quella giusta. La esamino da cima a fondo.
Eccola! Finalmente trovo la mia valigia, nascosta sotto ad un
seggiolino.
È aperta.
La controllo. Dall‟interno sono spariti il computer portatile ed il
telefonino di riserva. Del borsello con il mio portafoglio ed il
cellulare non vi è traccia.
Quei vecchi maledetti, mi hanno fregato!
~ 103 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Teodoro Di Leva
Iolei
Io, lei e due sue amiche. Ad un tratto una di queste dà in
escandescenza. Io mi spavento e mi guardo attorno per individuare il
pericolo incombente e parare il colpo mancino che mi sta per
arrivare tra capo e collo; poi finalmente capisco che si tratta di una
sofisticata esibizione di raffinata mondanità: l'amica è tutto un
repertorio variegato di trilli, moine, mossettine vezzose e
complimenti di spudorata esagerazione.
Il fatto è che questi nuovi occhiali a mia moglie le stanno proprio un
amore: le fanno il viso slanciato, davvero, e gli occhi più luminosi; le
danno, infine, un'aria da intellettuale molto, ma mooolto sensuale.
Parole in libera uscita, ci volano intorno garrule come rondini a
primavera. Mi verrebbe da ridere se non avessi i miei guai, ma non
dico niente e mi limito a guardare con reverenza gli occhiali
portentosi appoggiati sul suo adorabile nasino.
"Insomma, - fa l'altra, - adesso ci spieghi!"
E' chiaro come il sole che le due oche giulive sanno già tutto,
compresi i particolari più recessi ed a me ignoti. Lei è raggiante
come ai bei tempi; solo che, questa volta, io non c'entro per niente
con questa felicità tutta nuova come i suoi occhiali.
"L‟oculista dice che è un abbassamento di vista, tem-po-ra-neo, specifica sillabando, - ma normale dovuto alla gravidanza"
Urletti di gioia e di (finta) sorpresa. Abbracci, baci e congratulazioni;
non per la miopia, naturalmente. L‟apoteosi dell‟esultanza è
scoppiata quando lei ha pronunciato la parola “gravidanza” che per
me ha la stessa consistenza di una pugnalata nella schiena.
Dopo il trionfo, quando le scene di giubilo si sono placate, lei mi si
avvicina e mi chiede un massaggio sul collo che si sente tutto
ingrippato. Io non mi muovo; ho le braccia pesanti come due badili e
non ce la faccio a sollevarle.
"Non fare così, vedrai che tutto ritornerà come prima."
~ 104 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
E' incredibile come possa solo pensare una cosa del genere. Come
faccio a crederle? Ma, irragionevolmente, ci spero con tutto me
stesso.
"Prima mi dici chi è, e cosa avete fatto assieme".
Non è possibile! Ho detto proprio così. Lei è incinta di un altro ed io
voglio sapere cosa hanno fatto assieme. Dovrebbero rispiegarmi la
storia delle api e dell'impollinazione a questo punto. Sono proprio
come un bambino che fa il broncio, cerco disperatamente di suscitare
tenerezza: susciterò pena, al massimo. Le donne disprezzano i
perdenti e mica solo loro: guardate i cani che ringhiano a qualunque
straccione. O a quelli in divisa che è una faccia diversa di una
diversa sconfitta. Sono perspicaci i cani. Da quando giro per la città
con quest‟aria abbacchiata qualche mia antica fiamma mi evita come
la morte ed i cani, anche i più piccoli, mi ringhiano e mi abbaiano
dai cancelli. Se volete sapere se siete nei guai fino al collo, quello dei
cani è un metodo infallibile, garantito al limone.
Lei sembra considerare la mia richiesta assolutamente insignificante
e, soprattutto, mi rendo conto, IO sono un particolare assolutamente
insignificante. Il mondo mi sta crollando sulla testa. Ci sediamo ad
un tavolo, all'ombra di un platano. Fa un caldo boia.
Sono solo pochi giorni che le cose sono realmente precipitate,
almeno sono pochi giorni che ne ho la percezione. Ora salta fuori che
è incinta, da quando va avanti questa storia?
Arrivano tre ragazzi con le pizze ed il maggior indiziato si siede
accanto a me e mi dice "salve". Non lo guardo neppure. La mia
indole mi dona questi momenti di audace vigliaccheria.
Eccola là, ilare e felice, che si diverte per cose che un tempo (un
tempo? Ieri!) l‟avrebbero indignata, lontana anni luce dall‟adorabile
rompiballe che disapprovava scandalizzata tutte le mie amicizie. Lei
che adorava l‟ironia impalpabile di certi autori inglesi, lei che aveva
decretato l‟ostracismo perpetuo per un mio amico perché aveva osato
riferire una barzelletta scema sui terroni.
Lei ora se la ride a pieni polmoni.
Sto male. Davvero, non è il mio solito trucco per sviare gli eventi.
Una sequela di battute insulse mi ha dato il colpo di grazia. Mi sento
di troppo, il mondo mi è crollato addosso. Sono superfluo, lo dice
l'evidenza dei fatti ed il numero delle pizze che non corrisponde al
numero dei presenti. Inizia una gara di generosità: uno dei ragazzi ne
~ 105 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
mangerebbe solo mezza, una ragazza solo una fetta: troppa
mozzarella e l'olio poi! Mio Dio la sua dieta!
Ma chi le ha chiesto niente!
"Io vado a casa, non mi sento troppo bene."
Percepisco un sospiro di sollievo multiplo, con la mia ipocondria
rischio di inquinare l'atmosfera lieta. Mi sento ridicolo, non vedo
l'ora di sparire, vedo lucidamente, sotto l'apprensione simulata con
cui mi guardano, i loro sorrisi beffardi.
Adesso salta fuori che non ho le chiavi di casa. Le cerchiamo con
affanno dappertutto, perfino in posti dove non potrebbero mai essere,
per esempio nella macchina dei nuovi arrivati. Non siamo lontani
dalla casa di mia madre, vado là, propongo, e vedo se c'è. Tutti
aspettano che me ne vada per poter mangiare finalmente le pizze che
si raffreddano.
Mia madre non c'è. Suono da un‟ora ma non mi risponde. Sempre in
giro impegnata di qua e di là in qualche comitato pro-qualcosa. Va
bene, si tratta di mia madre e non dovrei esprimermi in cotal guisa,
ma non capisco e non capirò mai come una tale iena possa occuparsi
di beneficenza. Questa è una regola valida sotto tutti i cieli: più sono
perfidi, più ci danno dentro con rosari, novene e pellegrinaggi e più
si impicciano del benessere di sconosciuti che stanno molto meglio
di noi, almeno finché non arrivano i benefattori a rovinare la loro
armonia. A lei e alle sue amiche non affiderei neppure il mio cane se
ne avessi uno. Ci sono stato anch‟io, laggiù, quand‟ero un bambino e
non potevo ribellarmi. Mi ricordo solamente frotte di bambini
razzolare con allegria nel fango, sporchi di terra come cani, felici
come cani e l‟invidia con cui li guardavo. Loro volevano riempirgli
la pancia di latte in polvere e, i più grandi, di merendine
ipercaloriche ammuffite e la testa di fobie assurde. E' la miseria nera
l'ultimo lembo di libertà, altro che storie!
Me ne stavo sul marciapiede a guardare con odio le mie scarpe
lucide. Lontano dalla sporcizia e dai pidocchi. Lontano dalla palta,
dal sudore e dalla cacca. Lontano dalle risse e dal sangue dal naso.
Lontano dai microbi, dalle epidemie, dalle inondazioni, dai terremoti
e dalle guerre nucleari. Lontano da tutto e da tutti, sotto una campana
di vetro. Lontano mille chilometri dalla stramaledetta vita.
Ed ora eccomi qua, ora, che ho bisogno di aiuto - non un alieno: suo
figlio - e lei non c‟è. Questo conferma la mia teoria. Forse sta
~ 106 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
ronfando davanti al televisore. Macché, mi sono consumato il dito a
furia di suonare e già qualcuno, sospettoso, si è affacciato dalle
finestre del palazzo. Tra un po' mi tireranno secchiate d'acqua o
cos'altro. Aprirmi il portone, magari… Non se ne parla nemmeno;
chiedere, non chiedo. Eppure, di vista, mi conoscono… sarà per
questo? Ce l‟avranno ancora per me per quella storia dell‟ascensore.
A furor di popolo fu deciso che ero stato io a sporcare. Hanno la
memoria lunga, da elefante, per i torti, per i favori, invece, nisba.
Non è che gliene abbia mai fatti di favori - ma dico “se” – tutta la
riconoscenza sarebbe già svanita come neve al sole, sicuro come
l‟olio.
Paura. Sono troppo lontano da casa e non ho le chiavi. Da quelli là
non ci torno. Ho uno spiccato senso del pudore che mi impedisce di
morire in mezzo alla strada. Un sole spietato mi spela come carta
vetrata. Mi siedo sulle scale a guardare il traffico. Mi sento uno
straccio. Se si levasse un filo di vento mi porterebbe via come un
foglio di carta straccia. Mi vengono in mente pensieri cupi che non
cerco minimamente di scacciare. Mi verrà il cancro e morirò tra
mille tormenti. Dove scappare? Non esistono più luoghi inesplorati e
selvaggi, non ci sono più rifugi, tutto è omologato. La città mi va
stretta e l'universo intero è una prigione. Non c'è via di fuga. Provoco
astutamente uno dei miei più notevoli attacchi di panico evocando
eventi tragici e luttuosi e mi godo la mia angoscia, mi ci crogiolo con
voluttà come un maiale nel fango: precipito sull'orlo della
disperazione, risalgo appena per poi precipitare nell'abisso. Sudo
come una mortadella. Il sole non si muove.
Ad un tratto, un gatto sfreccia in mezzo alle macchine evitando la
morte. Non hanno nemmeno frenato, i bastardi. Con un salto è nel
cortile, si ferma, guarda verso la strada per vedere se tutto è a posto,
poi va via ancheggiando, come se niente fosse, inconsapevole di
essere un sopravvissuto. E' un gatto bello pasciuto, per niente mal
messo. Sono i gatti così, i più privilegiati, a restarci di solito sotto le
ruote. La fame aguzza gli istinti. Mi dispiace che se la sia cavata,
forse vederlo spiaccicato sulla strada mi avrebbe risollevato il
morale.
Ora mi immagino lui, il procreatore indegno, che attraversa la strada.
Una macchina arriva a velocità folle e lo becca in pieno lanciandolo
contro l'altra che arriva in senso contrario. Ci giocano a ping-pong.
~ 107 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lui rotola elegantemente sull'asfalto, picchia contro il marciapiede
ed il capo gli si apre come un cocomero. Dentro la testa è vuota,
come sospettavo; ne esce solo una fetida scoreggia che sconcerta e
disperde i primi curiosi accorsi a gustarsi lo spettacolo.
Mi sento subito meglio.
Adesso sono tutti e due, insieme, dall'altro lato della strada. Lei mi
saluta da lontano felice come non la vedevo da secoli. Non si
accorgono del camion a rimorchio che arriva e che li stira contro il
muro. Restano attaccati al cemento, sorridenti, come un manifesto
pubblicitario.
Mi sento molto meglio ed allora capisco che se voglio stare bene
loro devono morire.
Sono euforico. Mi alzo. Passeggio avanti e indietro, non posso stare
fermo. La gente mi addita dalle finestre. Per qualche ragione devo
essere uno spettacolo bizzarro; forse perché, ultimamente, ho preso
quest‟abitudine di gesticolare e parlare da solo ad alta voce. Così
m‟han detto, e se l‟hanno detto sarà vero; io, naturalmente non me ne
rendo conto. Non faccio nulla di male, dopotutto c‟è di peggio in
giro. C‟è chi, distrattamente, si infila le dita nel naso, e l‟altro giorno,
con i miei occhi, ho visto un signore distinto, proprio in mezzo al
corso, nell‟ora di punta, che sovrappensiero con una mano si grattava
la testa e con l‟altra gesticolava come un vigile. Se ne stava lì
impalato con i passanti che si voltavano a guardarlo. Pensieri, direte,
sì ma non era uno spettacolo. Per mio conto non ci sono problemi,
non sono di quelli che vanno a cercare il pelo nel pagliaio. Io sono
per il “vivi e lascia vivere”, ma la gente si aggrappa a tutto pur di
denigrarti. Se esci appena dal seminato finisci sulla lista nera e
diventi un individuo pericoloso da tenere sott‟occhio e da evitare
come la peste. Sguardo a terra, muto e rigare dritto, questa è la
regola! Allora mi accuccio contro il palazzo in cerca di un filo
d‟ombra e cerco di assumere un‟aria rispettabile. Lassù c‟è una vera
platea, sento sgranocchiare pop-corn, seriamente, e mi arrivano in
testa bucce di noccioline. Tutti a guardare me come se fossi un
fenomeno da circo. Mi controllo: non muovo le mani e non sto
parlando da solo, ne sono assolutamente certo. Il fatto è che ci sono
persone che si professano perfino amiche, ma parlano tanto per
parlare ed intanto inventano falsità.
~ 108 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
E‟ difficile stare fermo e mantenere quest‟aria rispettabile. Devo
camminare ed allora mi ricordo dove ho lasciato le chiavi. Mi è
venuta fame. Filo verso casa a testa bassa. Qualcuno, dalle finestre,
applaude.
Sono giorni che misuro la distanza enorme, l'abisso che separa il
concetto: "devono morire" dall‟altro: "devo ucciderli".
Ho già immaginato e rivisto in mille modi la loro tragica fine:
inceneriti da fulmini, inghiottiti da una voragine durante un
devastante terremoto, dilaniati dalle belve più esotiche. Li ho fatti
investire ripetutamente da tutti i tipi di mezzi di locomozione
esistenti e non, compreso un'astronave luminosa come un lampadario
e una diligenza trainata da sei lucenti destrieri, neri come la notte
fonda. Sono diventato perfino religioso perché prego giorno e notte:
per la loro morte cruenta. Ma finché prego loro vivono indenni e di
questo passo moriranno di vecchiaia, annoiati e decrepiti; faranno in
tempo a mettere al mondo una nidiata di marmocchi.
Immaginare la loro morte mi fa stare meglio per un po', ma non li
danneggia in alcun modo. Tutto ciò mi porta a prendere in
considerazione l'inevitabile ipotesi - che cerco di scacciare dalla mia
mente - di come ucciderli.
Ci vuole il delitto perfetto - mi dico - e constato che di perfetto non
sono mai stato capace di farmi neppure il nodo alla cravatta. Ho
sempre ritenuto che una certa approssimazione nel realizzare le cose
fosse indice di genialità, invece, evidentemente, era solo sciatteria.
Non posso staccare teste con una roncola, provocare un bagno di
sangue, e sperare di farla franca. Già mi vedo condotto in catene
nelle segrete del castello d'If. Sarò il primo ad essere sospettato. Con
un fanale puntato in faccia mi chiederanno conto di tutto, dov'ero
alla tal ora, il tale giorno e con chi. Ci vuole un alibi. Prendo un
quaderno e scrivo in cima alla prima pagina: “ALIBI”. E nient'altro.
Ho la mente completamente vuota.
Sulle pagine di destra del quaderno ho scritto “LUI” e sotto tutto ciò
che lo riguarda, abitudini, orario e posto di lavoro, ecc. Mi apposto
davanti casa sua o il suo ufficio e segno tutto con meticolosità. Non
so minimamente a cosa cavolo mi possa servire, ma suppongo che si
debba fare così se voglio arrivare ad un risultato. Sulle pagine di
sinistra ho scritto “lei” - ed anche se questo può sembrare indice di
eccessivo perfezionismo dato che abbiamo vissuto sotto lo stesso
~ 109 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
tetto da anni e so tutto di lei, tipo quanto zucchero o che colore - ho
annotato le sue abitudini, spostamenti giornalieri, tutto. Non voglio
lasciare nulla al caso, devo essere rigoroso e preciso, non voglio
avere rimpianti quando mi condanneranno all'ergastolo. Poi penso,
per fortuna, che la prima cosa che troveranno sarà questo quaderno,
allora scrivo sul primo foglio, sotto “alibi”: “ricordarsi di distruggere
il quaderno”.
Sono passati quattro anni da quella domenica d'agosto in cui il cielo
mi crollò sulla capa. Ho accompagnato la bambina a scuola. Alla
fine le ho dato il mio cognome, così anche ai gemelli. Non potevo
fare altrimenti, non devono sospettare di avere a che fare con un
pericoloso criminale, capace di tutto; devono credere che io sia un
perfetto idiota e la maggior parte dei miei conoscenti - parenti ed
amici - la pensa già così. Se te ne stai sulle tue e fai funzionare la
zucca, questo è matematico, alla fine ottieni ciò che ti eri prefisso.
Essersi diplomato brillantemente in ragioneria vorrà pur dire
qualcosa; e quando ho dato io l'esame la promozione mica la
regalavano come adesso. Se hai capito la partita doppia niente ti è
più precluso. Mia madre, la filantropa, si è dileguata nel nulla; se la
conosco – e la conosco – quello che la sconvolge più di tutto è
questa specie di nonnità.
Loro vivono assieme da qualche anno, ma hanno i giorni contati. Gli
appunti per il delitto perfetto procedono a meraviglia. Ho già
riempiti quattrocentoventisei quaderni ed ormai so quasi tutto di
loro. Sull'ultimo scrivo il nome della scuola e l'orario di ingresso
della bambina. Sulle pagine di destra ci sono le notizie dei piccoli;
quante volte si svegliano, quanto e cosa mangiano, tutto insomma.
Non voglio lasciare nulla al caso. Ho imparato ad essere diligente e
preciso. Quando arriverà il gran giorno devo avere a mia
disposizione tutte le informazioni di cui avrò bisogno.
I bambini mi adorano, a me non è che importi molto, ma va a finire
che loro li risparmio.
~ 110 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ruggiero Di Lorenzo
Bagliori intuitivi
Roger viveva solo nella estrema periferia di Londra, in una vecchia
mansarda, anche se a volte si sentiva nel sottoscala di quella
metropoli, ma tutto intorno a lui aveva un certo decoro, tutto nella
sua abitazione ricordava un certo minimalismo giapponese... Era
evidente in quella sua dimora un certo gusto essenziale, la cui regola
era procedere per sottrazione.
Una sera, come ormai spesso gli accadeva, non riuscendo a dormire,
cominciò a rovistare nei cassetti alla ricerca di una traccia di
qualcosa di indefinibile da ripescare nella sua memoria, ma era come
se seguisse un'ossessione della sua mente... Aprì un cassetto nel
quale, con un discreto ordine, erano archiviate fotografie scattate da
lui negli ultimi decenni della sua vita... Improvvisamente affiorarono
ricordi del suo passato, quando ancora studente di architettura la
passione della fotografia si impadronì di lui.
Le fotografie erano quasi tutte in bianco e nero, molte delle quali
realizzate con spericolati processi di stampa, altre rispettavano il
classico processo di stampa di quel periodo... Gli affiorò quel senso
di angoscia che ormai spesso lo pervadeva riflettendo sull'avanzare
della tecnologia digitale ormai diffusa anche nel campo della
fotografia che se anche portava alcuni vantaggi, allo stesso tempo
invadeva, al punto da illudere coloro che ne usufruivano di non
poterne più fare a meno.
Cominciò allora a sistemare le fotografie in un ordine sparso prima
sul tavolo, poi sulle pareti, infine sul pavimento, lasciando soltanto lo
spazio per camminare, facendo comunque attenzione a non
danneggiarle.
Rimase alcuni minuti, nella notte, a contemplarle... In realtà aveva
perso il conto del tempo, rendendosene conto solo quando il sole
cominciò a filtrare attraverso la polvere sospesa nell'aria.
Sembravano in quel preciso momento immagini invecchiate
precocemente, era quasi istintivo togliere il velo di polvere dalla
realtà che esse rappresentavano... Erano immagini estinte come a
~ 111 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
volte lo sono certe parole che nel tempo non vengono più
pronunciate... In realtà rappresentavano una memoria di eventi solo
apparentemente sepolti.
Roger era ormai completamente immerso nel silenzio perso nei suoi
pensieri, era come se lui stesso fosse stato catturato dalla pellicola
per l'eternità, come le sue stesse immagini che sono lì sul foglio
bianco, pronte per essere stampate, ma che fino a quel momento sono
visibili soltanto da colui che le ha scattate che non deve fare altro che
rivelarle.
Il tempo scorreva ed i suoi occhi cominciavano ad accavallare quelle
immagini , perdendone il nesso... Decise allora di concentrarsi su di
esse, ma in un primo momento non fu così facile come pensava... Da
quelle figure consegnate all'oblio sentiva il bisogno di imboccare
altre strade per una reinterpretazione, doveva necessariamente
trovare un'apertura a codici fino a quel momento inesplorati... Aveva
sempre sentito dentro di se la necessità di non sentirsi prigioniero del
tempo, ma di tentare di arrestarlo e di avere quell'attimo fissato
nell'immagine.
Si sentiva immerso in uno spazio muto, ma fitto di dettagli... Alcune
fotografie rivelavano immagini di Londra capaci di svelare una città
bellissima, ma dai colori lividi, come solo quella città poteva
esprimere. Altre immagini, ancora più angoscianti, erano sempre di
Londra nell'immediato dopoguerra dove si scorgevano interi palazzi
bruciati come foglie secche le cui ceneri si disperdevano nell'aria...
Comunque tutto era coerente con un ideale di rispettosa bellezza
anche se venata di malinconia...
Finchè il suo sguardo non fu catturato da una foto di gruppo, sempre
d'epoca, dove i protagonisti erano tutti vestiti con preziosissima
miseria. Gli sembrava, guardando quelle foto, di recuperare la virtù
della civiltà contadina, ritrovare la parsimonia, la sobrietà di un
tempo ormai andato. Ricordava perfettamente il momento in cui la
scattò: gli occhi caldi, scuri, solenni di quei personaggi, ma anche i
volti intensi, serii, gravi, frutto delle loro esperienze appena
trascorse...
Improvvisamente lo sguardo di Roger cadde su una foto che
rappresentava una figura umana leggermente curva... Il viso era
inerte... L'intera figura era di un'eleganza sbiadita, ma era di una
scura soave bellezza... La luce illuminava la nuca lasciando il suo
~ 112 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
volto nell'oscurità, ma il particolare da cui fu più attratto erano quelle
mani che ricordavano le zampe di un uccello, la cui forma sembrava
ideale per lasciare un'impronta fossile nel tempo...
Ma di una cosa Roger si sentiva orgoglioso: grazie a lui quell'uomo
era stato catturato dalla sua pellicola per l'eternità, con tutto il suo
carico di ignoto, di mistero, anche di ombre che solo alcune
immagini sono in grado di trasmettere, col proprio carico di
simbolismo che fanno capire la vita come è e non come dovrebbe
essere secondo i nostri desideri.
Da sempre, per Roger, la fotocamera era stata considerata come un
quaderno visivo di appunti, anche se negli ultimi anni gli sembrava
che questa funzione l'avesse persa... Guardando le sue foto più
recenti scorreva le immagini senza ritenere niente... Fissava lo
sguardo su alcune di esse ma aveva la netta sensazione che negli
ultimi anni i suoi obiettivi fossero diventati come specchi curvi che
danno una immagine ingrandita e deformata di tutto ciò che
riflettono.
Fu attratto in particolare da fotografie scattate pochi mesi prima che
ritraevano alcuni volti, fra cui alcuni primi piani: erano quasi sempre
volti umani senza relazione col proprio passato.
Altre foto recenti ritraevano invece persone riunite in gruppi, ma
erano come circondate dalla propria solitudine, divise e unite dalle
stesse paure. Fra quei volti sorridenti Roger riusciva a cogliere
sempre la stessa espressione, quella cioè di una risata monca frutto di
un'amara interiorità, di una dolente incertezza. Quei bicchieri di
cristallo stretti dalle mani erano il simbolo di un sogno di cui si
conosce la fragilità, ma che ci si ostina a vivere. Il contenuto di quei
bicchieri doveva ottenere il risultato di ottundere l'uso della ragione.
Bere quel liquido era come ingoiare un boccone piccante che doveva
agire da anestetico. Una volta svuotati e posati sul tavolo, quei calici
di cristallo rappresentavano il tempo che scivola via dalle mani
sempre più lieve ed effimero. La luce di quegli ambienti era così
artificialmente intensa che faceva pensare che la propria funzione
fosse quella di dipingere il tutto di vernice bianca come in un rito di
purificazione.
Il risultato di tutto ciò era purtroppo la cancellazione delle tracce e
delle memorie di quei primi piani senza storia, di quei racconti nati
già morti... era la metafora di un mondo che non accetta la storia,
~ 113 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
dove la razionalità sembra bandita, dove si può solo camminare verso
un oblio rassegnato, dove l'influsso del passato sul presente è oramai
solo un utopia.
Non erano poi così tante quelle foto, ma Roger era convinto che si
può leggere molto anche in poche immagini... Era però contento che
ancora una volta aveva colto la certezza che il nuovo non potrà mai
cancellare il passato.
A proposito di passato, Roger rivedendo altre foto scattate quando
aveva solo vent'anni, ricordò quel periodo creativo della sua
esistenza, quando era deciso ad indagare su territori emozionali, a
percorrere traiettorie diverse per quell'epoca, fino ad innescare
curiosità imbarazzanti per i ben pensanti, ma era troppo facile
disprezzare ciò che non si comprende.
Ma il giovane Roger era fortemente deciso a rendere permeabili le
sue frontiere, voleva vivere il suo entusiasmo senza freni, voleva
smettere di far parte di un sogno, per diventare il sognatore...
insomma non aveva più voglia di procedere linearmente, come gli
avevano insegnato fino ad allora...
Erano foto di corpi nudi...
L'ambiente in cui il giovane Roger viveva poneva limiti angusti alla
sua attività creativa... Egli cercava di percepire alcuni enigmi da quei
corpi che ritraeva, a volte attraverso la scelta di un ricercato campo
visivo, in altre occasioni attraverso tagli ed inquadrature particolari...
Quei corpi erano diventati per lui delle icone intorno alle quali
costruire un aura mitica, ma allo stesso tempo provava per essi una
oscura attrazione. Stava, attraverso queste figure, nascendo una
coscienza estetica che lo accompagnò per il resto della sua vita a
dispetto di un certo modo di pensare tipico dell'epoca dove prevaleva
la mentalità di corruttori delle immagini, dove spesso le figure erano
mutilate dalla censura, ma tutto ciò era assolutamente inaccettabile
per il giovan Roger che in qualche modo veniva additato come colui
che era capace di veicolare la perversione delle cose semplici, come
colui che dava spazio a moti d'animo primitivi...
Ricordava perfettamente la sensazione che provava: quella di sentirsi
come un ciuffo d'erba tra le pietre. Egli, semplicemente, attraverso le
figure che ritraeva cercava uno sconfinamento dei linguaggi, cercava
di rappresentare un bagaglio di conoscenze che si andava sempre più
arricchendo di idee da far vivere eternamente e da liberare al
~ 114 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
momento opportuno.
Roger tornò al presente. Si rese conto dello scorrere delle ore, assorto
com'era nei suoi pensieri attraverso quelle immagini che
rappresentavano la mutazione del tempo, la vita che scorreva...
Era caduto ancora una volta nella sua ossessione più ricorrente:
ripensare... spesso assorto in un silenzio inascoltabile...
Rimase a fissare la porta spalancata che aveva di fronte a se, poi il
vuoto che era oltre quella porta per un lungo momento, infine
abbassò la testa... profondamente solo, ma in compagnia dei suoi
ricordi che non erano mai svaniti... se convocati, continuavano ad
obbedire!
~ 115 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Serenella Di Marco
L‟inverno. Poesia dimessa.
19 Novembre
Parigi
E‟ stato un altro cammino, quello che ho intrapreso martedì mattina.
Mi sono sorpreso delle malinconie irrisolte che serpeggiano ancora
per le strade, quando spuntano cunicoli di pioggia da ogni angolo, e
ognuno racconta la sua disgrazia.
Come ombre, i passanti mi circondano e, di volta in volta, spariscono
oltre l‟orizzonte, per poi materializzarsi solo nei miei pensieri.
Stanno in silenzio, ma è come se avessero lasciato l‟impronta ad ogni
mio passo, e così scrivono la loro storia.
Me l‟hanno raccontata a spezzoni, masticando poche parole, solo
immaginate e sussurrate, nell‟inverno che sta solo per iniziare.
23 Novembre
Parigi
Sofia mi ha lasciato un biglietto stamattina sul cuscino.
Solitamente sono io quello che si sveglia per primo, e la guardo
dormire ancora un po‟, con la luce che taglia le persiane alte dalla
finestra, e il cielo di ghiaccio che ci saluta regolarmente. Mi sono
stupito del gesto. Non è da lei, tanto meno lì, sul nostro letto. Il luogo
più insolito per il più peccaminoso dei gesti. Dirsi la verità, tra le
lenzuola, e in più, nero su bianco. Come i miei sogni di Novembre.
“Parto, e mi rinnovo. Seguimi, sarò per sempre tua. Sofia”
29 Novembre
Parigi
Sentirò oggi stesso Giorgio, chiederò di lei. A casa, così come fuori, i
colori non si vedono più.
5 Dicembre
Parigi
Mi hanno chiamato dal giornale, mi hanno rinnovato il contratto. La
notizia è fantastica, nessuno con cui condividerla.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Ho passeggiato a lungo anche oggi, mi sono completamente
dimenticato del tempo. Mi sembrava non finisse più,
quell‟incantevole bianco pomeriggio.
9 Dicembre
Parigi
Nemmeno oggi ho avuto il coraggio di sentire Giorgio. Non ce la
faccio, è più forte di me. Sono troppo concentrato sul mio presente,
offuscato dalla mia stessa penombra. Non voglio sapere di lei, delle
sue smorfie al dolore, della sua saggezza.
14 Dicembre
Parigi
E‟ ufficiale. La mia malinconia produce uno strano effetto per le
strade della città.
Tutto davanti ai miei occhi sta scomparendo o, meglio, sta
acquistando dei contorni meno netti, indefiniti, come la mia
solitudine.
20 Dicembre
Parigi
L‟inverno ha posato il suo sguardo su di me, sulle mie orme. Come
un segugio, mi segue dappertutto. So perché: non si fida di me.
Nemmeno io lo farei, il mio istinto vacilla. Le mie ore continuano a
dipingersi di un pallore monotono e poco rassicurante. Il tempo ha
verniciato lo sbadiglio di questi pomeriggi pesanti.
21 Dicembre
Parigi
Giorgio mi ha detto dov‟è. L‟abbandono non è una circostanza
immutabile, è solo la nostra percezione distorta della distanza.
Parto domani. Ricomincio da capo.
24 Dicembre
Pavia
Benedetta la sua voce e la sua sensibilità.
Benedetta la sua volontà e l‟armonia del suo cielo.
Benedetta la siepe davanti ai nostri occhi, ci nasconde l‟infinito.
Benedetta la grazia del suo portamento, ha la sicurezza del passato.
Benedetto quel nodo in gola, mi ha indicato la via.
Ora, qui, sono a casa.
~ 117 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sara D‟Ippolito
Tutto va come dovrebbe andare
Enorme, questa città. La Capitale. La radio nazionale ha per slogan
“Tutto andrà bene”. Era la prima frase che avevo sentito arrivando in
questo paese. Già... Auguri, pensai. Sono già diversi mesi che vivo
qui eppure non sono ancora uscita da sola per le strade. I primi giorni
tutto mi sembrava così enorme che anche arrivare al supermercato
all‟angolo della via risultava complicato. Ma allora non sapevo
neppure leggere i cartelli delle strade o dei negozi. Ancora oggi non
riesco ad avere una precisa comprensione della geografia del luogo e
dei criteri architettonici, se così posso esprimermi. Da noi le case
sono così minute, ammassate le une alle altre e in un colpo d‟occhio
puoi subito scorgere dove finisce il paese.
Oggi è Domenica e non è ancora così freddo da aver voglia di
starsene tutto il giorno a casa. Mi decido. Esco. Abito in periferia.
Qui i palazzi sono tutti molto alti e questo dà l‟impressione che il
cielo sia più profondo di quello che copriva la mia vecchia terra
natia. Cammino senza cappello, perchè è una giornata di sole. Le
donne tornano dal mercato e i vecchi siedono di fronte al chiosco di
vendita della birra. Mi siedo su una panchina e i cani vengono subito
ad annusarmi. Qui i cani sono oggetto dell‟affetto generale. Si trova
sempre qualcuno che disposto a raccontarti la storia del suo primo
cane, come se si trattasse del suo primo amore. Mi sembra un segno
di buon cuore e un ulteriore testimonianza a sfavore della mia terra
natale. Sulla strada principale c‟è una lunga fila di vecchiette che
vende di tutto: calze di lana, lamponi colti stamattina nei boschi alla
periferia della città, vecchi libri scolastici, fiori che non ho mai visto
prima. Le vecchie vengono ogni giorno da fuori città per vendere
tutte quella merce improvvisata e restano sulla strada fino a sera nella
speranza di esaurirla tutta in giornata. Per questo i migliori affari si
fanno poco prima del tramonto, quando le mercantesse sono disposte
a calare il prezzo pur di non tornare a casa con le sporte piene. Sono
seduta e mi sforzo di osservare, prendere nota di tutto quello che
succede. Il tempo passa. Poi sulla panchina accanto alla mia si siede
~ 118 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
una ragazzina. Può avere circa 15 anni, ed ha lo sguardo doppio di
una fanciulla e di una giovane donna. Tutto in lei è ordinato e pulito.
I capelli ben pettinati, la borsetta dello stesso colore delle scarpe. E‟
tranquilla, seduta col busto ben eretto sulla panchina, e guarda dritto
davanti a se. Mi chiedo se quello che la ragazzina sta aspettando è il
“fidanzato”. C‟è un senso di semplicità e onestà nello sguardo di
quella ragazza. Io non credo di averlo mai avuto, neanche da
bambina. Una sicurezza in quegli occhi, che sembrano dire: tutto va
come dovrebbe andare. Che paese, penso. Dopo pochi minuti accanto
alla ragazzina si siede un altra ragazzina. Ed ecco due amiche sedute
vicine che parlano sottovoce di cose (sembra) molto serie. Tutto va
come dovrebbe andare. I vecchi continuano a bere e si raccontano
l‟un l‟altro storie sul loro lavoro, i loro figli, le loro mogli e le
amanti, reali o no. A volte qualcuno beve una birra di troppo e si
accascia su una panchina, ma nessuno di quelli seduti vicino si
allarma e il vecchio dopo aver dormicchiato un pò si alza e
barcollando si dirige verso casa. Oggi è Domenica, ma so che il
Lunedì si possono osservare gli uomini e le donne che vanno al
lavoro. Tutti di corsa, nessuno guarda nessuno, le spalle si urtano
lungo le strade, ma mai che qualcuno si volti a chiedere scusa o a
sorridere. In generale qui le persone non pronunciano continuamente
le parole grazie, prego, scusi e anche per favore non è una parola così
abusata. Ma non è che non siano gentili. Guarda, mi dico, prova a
capire. Un monaco con una scatola per le offerte è in piedi da ore di
fronte alla stazione della metropolitana. Recita preghiere a voce alta
guardando a terra e nessuno sembra ascoltarlo. I poliziotti giovani
fanno il filo alle ragazze e quelli più vecchi si aggirano alla ricerca di
quei malaccorti che bevono all‟aria aperta. Donne appena uscite dal
parrucchiere sfoggiano unghie molto, molto lunghe e colorate di
rosso. Quest‟anno va di moda l‟azzurro e il violetto. Vedo una
giovane donna che sorride alla fermata dell‟autobus. L‟autobus
arriva. Ne scende un uomo con una birra in mano. Dall‟andatura si
capisce che non è la prima. La donna però è così piena della sua
attesa, la sua gonna è evidentemente stata scelta per andare da
qualche parte stasera, che non si accorge subito che l‟uomo deve
avere cambiato parere. Si avvicina sorridendo all‟uomo e solo alla
fine si rende conto della bottiglia. Vedo spegnersi il sorriso sul volto
~ 119 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
della donna mentre abbraccia l‟uomo e si avviava con lui da qualche
parte. A casa, bisogna credere.
Le automobili sfrecciano sulla strada, la maggior parte sono vecchie
e malandate ma fra queste a un certo punto passa una enorme,
lunghissima limousine dai vetri oscurati. L‟auto si ferma al semaforo.
Proprio mentre le campane della chiesa smettono di suonare e il
semaforo è ancora rosso, uno dei finestrini della limousine si abbassa
rivelando l‟interno della vettura dove siedono delle ragazze asiatiche
evidentemente su di giri. Poi l‟auto riparte, lasciando tutto il resto
dell‟ambiente invariato. Passa un signore con cappello, guanti,
bastone e una barba così ben curata e occhi così intelligenti da
sembrare uno scrittore del secolo scorso. Sono ancora qui sulla
panchina a guardare tutto quello che succede e penso: come vorrei
poter scrivere a qualcuno una lettera e metterci dentro tutta questa
città. Scrivere di quella ragazza che mi aveva raccontato la sua storia.
Era giovane giovane, carina ma aveva i denti storti. Mi disse che era
venuta in città perchè voleva fare la ballerina. Disse che ballava
bene, l‟aveva imparato al suo paese, ma che la vita in città costava
cara, doveva anche mandare dei soldi alla madre che non aveva
potuto seguirla e per questo lavorava in un supermercato e i soldi non
le bastavano per pagare l‟operazione che le avrebbe potuto dare
l‟aspetto adatto al mestiere che sognava. Mi raccontò tutto questo
con un sorriso che scopriva francamente i denti e con gli occhi dolci
mi augurò: buona fortuna! Quando seppe che stavo per recitare il
mio primo spettacolo in quella città. Non l‟avevo più incontrata.
C‟era il mio vicino di casa, a cui tutti davano del tu perchè il Sabato
e la Domenica beveva tutto quello che c‟era nel frigorifero e poi
bussava alle porte dei vicini in cerca di compagnia. Un giorno mi
aveva offerto un hamburger ad un chiosco, io lo avevo abbracciato
per scherzo e lui mi aveva detto: ho vergogna, sei così giovane. Mi
ricordo un giovane poliziotto a cui avevo chiesto aiuto. Quando il
giovane aveva saputo la mia nazionalità il suo volto di funzionario
annoiato e severo aveva lasciato il posto a uno sguardo sognante:
“come mi piacerebbe andarci una volta...” Così mi aveva detto. A
quelli del mio paese non piacciono queste storie e per quelli che
vivono in città non c‟è niente di nuovo in tutto questo. Futilità. Ma in
questo momento mi sembra che siano proprio queste futilità il
segreto che cerco di scoprire. Questo è un popolo particolare. Lui e la
~ 120 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sua terra sono enormi, qui sono vissuti eroi, poeti, uomini geniali e
anche dei pazzi famosi. Ma che cos‟è questa terra, perchè è
smisurata? Perchè sul suo suolo tutto è possibile, tutti convivono gli
uni accanto agli altri e gli uomini accanto agli animali, gli alberi e i
fiori, la Città enorme e i villaggi lontani e sperduti, le icone
miracolose che da sole si manifestano sulle tavole di legno e le
automobili lussuose e le bottiglie vuote che si accumulano ogni notte,
i poveri e i ricchi, i buoni e i cattivi, tutti sono con tutti in misteriosa
armonia. E questo salverà questo popolo, alla fine.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Laura Di Rosa
Serafino
Serafino non voleva andar via.
Se ne stava lì, seduto su una delle scomode panchine in ferro
dell‟aeroporto, con il suo biglietto in mano, sospeso fra la rabbia e il
senso di rassegnazione.
Negli occhi aveva il viso di sua madre, il suo sorriso pieno di lacrime
non ancora versate. Suo padre lo aveva abbracciato forte, senza dire
una parola.
Non c‟erano parole quel giorno, solo speranze incerte e un lacerante
bruciore al cuore.
Seduto con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, Serafino stringeva la
carta d‟imbarco fra le mani, lo sguardo fisso su quella destinazione
priva di senso, lontana da lui, strappo profondo che separava per
sempre passato e futuro.
L‟arco della schiena chinata in avanti lo faceva sembrare più vecchio
della sua età, mettendone in evidenza la magrezza.
I capelli neri e lisci, tagliati appena sopra le orecchie, erano scivolati
giù, disegnando un‟ombra gentile sul suo bel viso.
Sul sedile di fronte un uomo in giacca e cravatta gracchiava al
telefono di contratti da firmare e clienti da incontrare. Il suo
atteggiamento sicuro, quasi arrogante con quel modo sgraziato di
appoggiarsi e accavallare le gambe, mostrava l‟abitudine al viaggio,
fatta di bagagli sempre pronti e funzionali, di note spese gonfiate per
pagarsi le serate al pub, e di quella specie di indifferenza annoiata di
chi vede tanto senza guardare nulla, perché in fondo gli alberghi sono
un po‟ tutti uguali, così come l‟asfalto delle tangenziali sotto le ruote
dei taxi. Dopo un po‟, le città vissute per lavoro si assomigliano tutte,
scenario anonimo per la monotona messa in scena della vita.
Serafino ogni tanto lo guardava coi suoi occhi neri e inquieti, attratti
da quella vivacità sfacciatamente esibita, ma con il distacco di chi,
non facendo parte di quel mondo, non ne conosce le regole e non si
pone l‟obbligo del giudizio.
~ 122 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Erano in molti in quella sala d‟attesa, il solito brulicare di uomini e
donne in transito. C‟era la giovane donna intenta a leggere un
romanzo giallo, ragazzi eccitati pronti per la gita dell‟ultimo anno,
famiglie rumorose e un po‟ intontite che tornavano a casa dopo una
vacanza, hostess profumate e truccate per nascondere la stanchezza
di un‟esistenza passata a servire acqua e biscottini a sconosciuti che,
per quel poco che ne sapevano, potevano essere alieni, terroristi,
maniaci o semplici ignoti che non avrebbero mai più incontrato,
destinati anche loro ad un pellegrinaggio eterno nel nome della
nuova economia e dei suoi discepoli, chiamati mobilità, flessibilità e
precarietà.
Gli altoparlanti, anima metallica di quel limbo affollato, davano
l‟ultima chiamata per Londra, ammonendo i ritardatari a tagliar corto
con i saluti e a correre verso l‟uscita.
Appoggiato allo schienale, Serafino si guardava intorno, nell‟attesa
che quell‟invisibile Caronte chiamasse il suo turno, dando il via,
come lo start ad una gara di velocità, all‟improvviso rollio delle
valigie sul nastro bagagli e alla frenesia delle signore di trovare i
biglietti e i documenti nelle borse sempre troppo piene o troppo
piccole.
La decisione era arrivata dopo un periodo di grande affanno per lui,
laureato con lode, figlio di quella che una volta era stata la media
borghesia, madre insegnante e padre impiegato, e che ora si trovava
confusa in uno stato appena al di sopra del livello di povertà
ufficialmente riconosciuto dallo stato.
Come tanti altri della sua generazione, aveva accettato mille
compromessi per lavorare, sottostando a capi ignoranti e orari nonstop, pur di potersi dire indipendente. Ma quando anche l‟ultima
possibilità era svanita, non era rimasto che partire.
Il fatto di sapere che gli esuli come lui fossero tanti non faceva che
acuire il suo senso di disperazione latente, non c‟era consolazione in
quella consapevolezza, ma solo la triste visione di una vita che
doveva ricostruire la propria ragion d‟essere e ritrovare il suo
significato, ormai smembrato e privo delle necessarie radici umane.
Un piccolo tonfo al cuore ed ecco le hostess annunciare l‟imbarco.
Da quel momento tutto finiva, tutto doveva ricominciare.
~ 123 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Renata Di Sano
L‟odore di te
Ho riconosciuto il tuo cappotto beige, quello con il collo di pelliccia
marrone. L‟ho visto nella vetrina del fioraio. Era ieri. Eri tu e stavi
scegliendo i fiori per la domenica.
Ti piace avere in casa i fiori freschi, la domenica mattina. E‟ per fare
festa, dicevi, regalandomi un sorriso piegato, le pupille che fuggono
altrove.
Ti ho vista, dal fioraio. Indossavi il tuo cappotto beige e la sciarpa
lilla, lunghe file di frange ordinate sulle spalle. Ti ho vista, eri
proprio tu, sceglievi le tue rose bianche una per una.
Non potevi essere tu, lo so, eppure ti ho vista.
Stamattina ti ho sentita singhiozzare, rovesciata sul letto in camera
tua. Tutto il tempo ti ho ascoltata, dietro la porta chiusa, accovacciata
sul pavimento come sempre, ad aspettare la quiete. Non sei tu, lo so
che non puoi essere tu, mamma, ma io ho sentito il tuo dolore di là.
E‟ il tuo pianto questo, la strana stanchezza che versi dagli occhi,
eppure non è il tuo. Non puoi essere tu a chiamarmi di là.
Perché tu sei morta. Sei morta sette anni fa, mamma, e io non ho
ancora cacciato una lacrima. Tu sei morta, lasciandomi da sola con le
cose. Le cose tue, rimaste vuote intorno a me. Le tue pantofole
vezzose, la tua tazza della colazione con la scritta “buongiorno”, i
tuoi trucchi nel bagno usati a metà. I tuoi sforzi per andare avanti.
La morte è entrata, ti ha preso in braccio e ti ha portata via.
Portando via te, ha portato via tutto. E‟ rimasto solo un odore crudo,
che prima non c‟era e che è diventato per me il ricordo tacito della
tua assenza. L‟odore che mi accoglie quando apro la porta di casa,
che mi abbraccia quando rabbrividisco, rimpicciolita dalla solitudine
acuta. Nel fiato esalato dalla morte ti riconosco, mamma, ti vedo, ti
sento, ti parlo, corrosa dal dubbio indicibile: che sia morta anch‟io?
Sarà per questo che ho voglia di annusare tutto, perché non posso
correre il rischio di trovarmi faccia a faccia con la morte, un‟altra
volta disarmata. Non è una voglia, è una necessità: debbo farlo.
Annusare l‟aria invece di respirarla. Annuso le chiavi, sanno di
~ 124 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
metallo. Annuso la vestaglia appesa, sa di sigarette, annuso il
bicchiere, le pillole, annuso l‟inchiostro della penna, le monete del
resto. Mi annuso le mani, in continuazione, spiando l‟odore crudo
della morte sulla mia pelle. L‟odore di te, mamma, delle tue carezze
tese.
Sei morta ma rimani a vivere in queste stanze, al mio fianco in ogni
istante, nell‟odore del lutto. Quando devo cambiare strada
all‟improvviso, quando non posso entrare in ascensore da sola con
quello del terzo piano, quando conto sottovoce ogni passo che
cammino, ogni passo un numero, ogni mattina, fino al laboratorio,
allora, mamma, mi accorgo che non mi hai abbandonato. Perché,
veramente, non si può vivere senza amore, hai ragione tu.
Eri là, sul cemento del vialetto. Ti ho trovata così, all‟uscita da
scuola, un lenzuolo bianco sporcato di sangue.
Mi hanno impedito di guardarti morta, ma io, dentro di me, ho il tuo
ritratto insanguinato. Non ho capito immediatamente che quella roba
schizzata per terra era uscita da te, però, quando una donna che non
conoscevo mi ha chiamata per nome, Claudia, ha detto, e mi ha preso
per mano, in un lampo ho saputo quello che avevi fatto. Quello che
mi avevi fatto.
Ti sei presa la mia vita, persa insieme alla tua in un solo momento,
mi hai tirata giù con te, tenuta là sotto al telo arrossato. Dal tuo
lenzuolo non sono uscita viva, mamma, ce l‟ho ancora addosso con il
tuo sangue rappreso. Insieme a quell‟odore acre posato da allora
nella nostra casa. L‟odore della tua assenza.
Avevi orrore delle avvisaglie della morte sul tuo corpo. Stanotte mi è
passata sulla faccia, sussurravi fissando torbida lo specchio, poi ti
vestivi e andavi dal parrucchiere. Rincasavi con un nuovo paio di
scarpe e m‟invitavi al bar, senza guardarmi.
Io so cosa è successo quella mattina, quando hai aperto il balcone
appena sveglia: hai sentito l‟aria mesta dell‟autunno, che già
sfogliava i primi petali in giardino. Ti ha ghermito la sofferenza del
vivere, ne sono certa , quella mattina quando hai aperto il balcone.
Era un periodo. Temevi anche per me i fantasmi della malattia e la
paura di perdermi ti consumava le forze. Io non c‟entro, non è colpa
mia. Non potevi reggere all‟angoscia del futuro, reggere al di là delle
parvenze. Così hai scavalcato la ringhiera. Senza guardare giù, senza
voltarti, hai chiuso gli occhi e sei volata via. Pensavi di salvarmi?
~ 125 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Figlia di chi? Non sono più figlia, ora.
Mi hanno cresciuta di fretta i due anni trascorsi all‟Istituto, mi hanno
resa un‟altra. Non più adolescente, ma un mare bloccato, senza
un‟onda. Piatto e muto. Raggelato. Ho smesso di parlare, per un po‟,
intimorita da una folla inquietante di sconosciuti sordi alle mie grida.
Una volta a casa, ti ho ritrovata intatta. I tuoi oggetti rassettati sono
te. I tuoi vestiti allineati nell‟armadio, il tuo rossetto vivace per dare
colore a labbra tristi, le calze di pizzo che conservano la forma delle
tue gambe curate.
Ora non vado più via, mamma, resteremo insieme io e te. Hai
fermato il tuo tempo, il mio tempo. Rimarrai quella fotografia che ti
piaceva tanto, per sempre sugli scogli abbronzata, con il tuo cappello
di paglia e gli occhiali da sole. Sei bella, ferma così, bella per
sempre.
Sei bella come tua madre, mi dicono. Sussulto, i conati che vanno e
vengono. Scambio frasi uguali d‟occasione, le fastidiose parole
necessarie, poi stringo la mano di un saluto indifferente. E mi scopro
già vecchia.
~ 126 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Stefano Di Stasio
Italian Gypsies / Zigani d‟Italia
Aeroporto di Gatwick. Tabellone delle partenze. Gate available at
17:45. Un rapido conto. L‟aereo partiva alle 18:25. Le porte di
accesso all‟imbarco aereo erano piu‟ di cento.
C‟era un cartello in alto. A seconda del numero della gate veniva
indicato il tempo necessario al viaggiatore per raggiungerla a piedi.
Un tempo di percorrenza di 10-15 minuti a partire dal salone
principale. Bisognava pensarla bene. Avevo un bagaglio a mano
pesante. Decisi allora di aspettare nei pressi del tabellone posizionato
ad un estremo dell‟immenso salone di attesa. Avevo notato un papà
che giocava con la figlia, una bambina di circa un anno. La bambina
stava imparando a camminare e perciò spesso cadeva sulla moquette
dell‟aeroporto. Il padre la seguiva attento e cercava di insegnarle
qualche parola. Seduto su una poltroncina c‟era il fratellino della
bimba di circa tre anni più grande. L‟uomo se la cavava benissimo in
questo menage, forse accudiva da solo i bambini. Poi all‟improvviso
la scoperta. Da uno dei negozi del salone spuntò una donna e chiamò.
Era la mamma dei bambini. Cercava disperatamente di risolvere il
suo problema del momento. Stava provando dei cappelli di paglia a
falda larga. Voleva l'opinione del marito su quale scegliere.
Chiamava da lontano e a intermittenza cambiava il cappello che
indossava. Il marito non si scomodo‟ e le grido‟: “Take the smaller !”
Continuando a giocare con la figlia.
Mentre aspettavo le fatidiche 17:45 mi guardavo intorno.
“Ciaaooo!” Sentii alle mie spalle. C‟era una donna matura con
accento romano che aveva ricevuto una telefonata. Era in partenza da
Londra e una sua amica con la quale si era intrattenuta,
evidentemente rimasta a Londra, la chiamava per sapere come stava.
La tizia parlava a telefono con foga. Ringraziava la sua amica perché
le aveva fatto dei bellissimi regali. Agenda, penne, rubrica. Ora le
veniva da piangere pensando di dover lasciare Londra. Poi
all‟improvviso si era confidata a voce alta con l‟amica: “C‟era qui
~ 127 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
seduto un signore che parlava italiano. Il fatto di sentir parlare
italiano mi ha fatto subito stare male…”
A quel punto mi rigirai sulla sedia e dissi a me stesso: “Attento a non
farti scappare nemmeno una parola2.
La tizia continuò con la sua seduta di psicoanalisi a voce alta:
“Perché non dobbiamo scoraggiarci…abbiamo fatto tutto questo per
che cosa…e poi molliamo adesso?”.
“Perché se lo decidiamo noi nessuno ci può fermare, si vive una
volta sola”.
Continuava ad urlare nel telefono i suoi incoraggiamenti a sé e
all‟amica. Alla fine, mio malgrado, compresi che l‟amica stava
traslocando. Ma c‟era dell‟altro. La donna che parlava, seduta dietro
di me, aveva un problema molto serio. Aveva perso il lavoro in Italia.
“Non dobbiamo farci impressionare da nessuno, e se poi ti
licenziano, chi se ne frega”.
Continuava a sfogarsi come un fiume in piena:
“E poi…c‟è sempre Londra”.
Era stata licenziata ed era venuta a trovare l‟amica in Inghilterra.
Forse aveva trovato anche un lavoro temporaneo mentre stava a
Londra. Ora tornava in Italia, diceva che andava a stare dai suoi
genitori. Mi sentii profondamente ferito.
Avevo osservato la signora inglese pochi minuti prima. Sembrava di
ceto medio, niente di particolarmente sfarzoso nei modi e negli abiti.
Indossava i cappelli mentre il marito accudiva i suoi bambini. Era più
giovane di questa donna Italiana accanto a me, ma aveva potuto
avere una famiglia, dei figli. Poteva addirittura viaggiare con i suoi
bambini.
Invece la mia vicina, questa donna Italiana, non aveva potuto. Non
aveva una famiglia sua, forse non aveva nemmeno un uomo.
Ringraziava mille volte l‟amica londinese per i regali ricevuti, primo
fra tutti quello di averle ridato la speranza e, con essa, la dignità. Di
averle fatto capire che poteva farcela. Aveva appena tirato fiato e già
si rituffava nella fossa dei leoni. Tornava in Italia. Nel paese dove
l‟assurdo diventava diritto, dove la legge non valeva niente. Dove
era stata licenziata, forse dopo anni di onesto lavoro. Che fare ? Nelle
ultime settimane sui mezzi di informazione avevo ascoltato i
commenti di alcune persone jet-set. Benché appartenenti a vischiosi
~ 128 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sistemi di potere, raccomandavano ai figli di recarsi all‟estero per
poter vivere onestamente. Era irritante. Mi ricordavo dei miei
genitori che avevano fatto tanti sacrifici per fare studiare tre bambini,
dei miei nonni con cinque figli. Del loro entusiasmo quando
calcavamo gli stessi banchi di scuola dei figli dei ricchi e, quasi
sempre, avevamo voti più alti di loro. Adesso alcune persone,
potenti, si ricordavano della vera natura del nostro paese. Del fatto
che stava precipitando. E raccomandavano alla propria discendenza
di lasciare l‟Italia. Ero sicuro che i loro figli non conoscevano
l‟umidità delle stazione di periferia prima dell‟alba e il tanfo delle
carrozze ferroviarie e delle metropolitane. Probabilmente, non
avevano mai preso un treno alle cinque del mattino per andare a
sostenere un esame. Dunque i loro figli non avevano mai sofferto
fino a questo momento. Senz‟altro non erano mediocri, non si poteva
discutere di questo. Dunque solo quando i padri potenti non potevano
più aiutarli, perché non c‟era più nessuno da scavalcare, nessuna
possibilità per nessuno ma solo il deserto, era divenuto necessario
rispolverare le bandiere della lealtà, del merito e del rispetto.
Ripensavo ai miei sacrifici e a quelli di tanti compagni, figli di gente
comune. Dei quali sentivi la puzza del sudore e la barba lunga perché
non c‟era tempo di sistemarsi la mattina prima di prendere l‟autobus,
e poi il treno e poi la metro. E poi a piedi. Tanti di loro erano di
mente acuta, ma soprattutto erano brave persone. Tanti di loro non
erano riusciti a finire l‟università. Qualcuno aveva anche dato di
matto.
E allora mi misi a pensare al mio paese. A come lo volevano quelli
che soffrivano in questo momento, come la donna Italiana seduta
dietro di me. Alle brave persone che, come me e come la mia
sconosciuta vicina di aeroporto, non l‟avevano mai abbandonato
definitivamente perché là avevano i propri genitori e le proprie
radici. Era venuto il momento di urlare “Vergogna!” a quelli che
stavano affondando la nave e ora raccomandavano “Si salvi chi
può!”.
~ 129 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Titti Di Vito
La prima cosa bella
Mi sono svegliato e già sapevo che avrei visto i suoi occhi.
Non so quanto tempo sia trascorso dall‟intervento, ma ricordo
perfettamente dove sono e perché mi trovo qui.
E‟ stata la mano di mia figlia la prima cosa che ho sentito,
mentre tornavo dal sonno profondo, simile alla morte, in cui
sono rimasto sospeso per ore.
Stavo volando, letteralmente nuotavo, io che non so nuotare,
nell‟aria, in cielo. Era simile a quello stile che chiamano “la
rana”, che ho visto fare qualche volta ai miei figli in piscina.
Non me ne intendo di sport, ma mi piace guardare i miei
ragazzi, qualunque cosa facciano.
Così volavo, sopra le città, muovendo le braccia e le gambe.
Sentivo un gran vuoto intorno a me, ma non era una brutta
sensazione. Aria fresca mi scivolava sul viso e sul corpo,
ondate di aria fresca.
Poi ho sentito un leggero tocco sulla fronte, una carezza lieve,
calda che mi sfiorava la testa, le guance e poi risaliva sui
capelli.
All‟inizio non volevo smettere di nuotare, anzi di volare,
volevo raggiungere qualcosa, una meta lontana dove sarei
stato bene, ma il calore di quella carezza mi costringeva a
rallentare e poi a fermarmi.
Lentamente sono diventato pesante, sono sceso dall‟alto verso
quel richiamo, dal tocco di piuma. Ho iniziato a sentire il mio
corpo, le gambe che formicolavano, le mani abbandonate
come piombo sul materasso, la bocca bloccata da tubi e
divaricatori, gli occhi che mi bruciavano, umidi e appiccicosi.
Il dolore fisico del mio corpo che si risvegliava per un attimo
ha cancellato ogni cosa, ogni altra sensazione. Poi mi sono
concentrato su quelle carezze, sulla vibrazione di un suono,
dolce. Sentivo l‟alito caldo di qualcuno accanto a me, che
parlava. Ho riconosciuto la voce di mia figlia che mi chiamava
~ 130 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
e mi tranquillizzava. Ho mosso piano un dito della mano
destra, stretta nella sua, per farle capire che mi aveva
raggiunto, ma non ci ho messo abbastanza forza. Ho
concentrato allora tutte le energie che potevo raccogliere nella
mano e alla fine un fremito ha attirato la sua attenzione. La
voce le si è incrinata, si è fermata per controllare le lacrime o
forse stava già piangendo in silenzio, lei che si commuove per
poco.
Poi ha ripreso a chiamarmi e stavolta il tono era più acuto, più
emozionato.
Quando ho aperto una fessura negli occhi, mi è apparsa la sua
ombra e poi, molto lentamente, ho messo a fuoco la sua figura,
alta, accanto al mio lettino. Lei era là, sudata e stanca che mi
guardava.
E‟ stato come rinascere in mia figlia, io le ho dato la vita e me
la sono fatta restituire con una carezza.
Questa mattina mi hanno svegliato presto per prepararmi
all‟operazione. Sono giorni che mi prelevano sangue, che mi
fanno analisi e che non mi perdono di vista un secondo. Nella
mia stanza c‟è un altro infartuato, un tizio più vecchio,
simpatico anche se un po‟ troppo rumoroso. Non fa che
raccontare di sé e della sventura di essersi ammalato proprio
ora che ha un sacco di cose da fare, così dice. Come se un
infarto possa essere programmato. E‟ già una fortuna se ne
possiamo parlare, anzi un miracolo, da quanto ci fanno capire
gli infermieri che non ci abbandonano nemmeno di notte e
fanno turni brevi per restare vigili e attenti.
Io una settimana fa non avrei immaginato di poter stare male.
Certo negli ultimi mesi mi sono accorto di non riuscire più a
fare alcuni sforzi. Un giorno, mentre stavo portando una
scrivania per le scale, insieme a Fabio, mi è mancato il respiro.
Gli ho dovuto chiedere di fermarsi. In più di quarant‟anni che
faccio il falegname non mi era mai successo di dover chiedere
agli altri di rallentare il ritmo, di aspettarmi addirittura. Sono
sempre stato io a tirare la squadra. Mia moglie dice che forse
ho esagerato. Mi mancano pochi mesi alla pensione, anche se
ad essere sincero non mi rallegra il pensiero di restare a casa.
Se non fosse per il clima di tensione che si è creato
~ 131 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
nell‟azienda dove lavoro come operaio, per colpa di una crisi
che vogliono far scontare solo a noi, poveri cristi, continuerei
a lavorare per altri dieci anni. Faccio il falegname da quando
avevo dodici anni, ho smesso di andare a scuola per imparare
il mestiere e smettere per uno come me, cresciuto con il
martello in mano e la segatura nelle tasche, è un po‟ come
morire.
Il medico mi aveva prescritto alcuni esami da fare in ospedale
e lunedì scorso stavo appunto andando a prenotarli, ero in
macchina, quando mi è scoppiato il petto. E‟ stato un attimo,
ma è durato un tempo interminabile. Non so cosa mi abbia
salvato dall‟accasciarmi sul volante e magari finire contro
un'altra auto. Un briciolo di vita mi ha permesso di fermare la
macchina sul ciglio della strada e di riprendere a respirare. Ero
a pochi metri dal pronto soccorso, ho rimesso in moto e con
forze sconosciute ho guidato fino all‟ingresso. Un infermiere
che stava fumando lì intorno mi ha visto e ha buttato la
sigaretta lontano. Si è precipitato da me e mi ha portato dentro,
facendomi sdraiare su una barella vuota nel corridoio. Non
aveva bisogno di carte o di autorizzazioni mediche per capire
che stavo collassando.
Ho saputo poi che la mia macchina è stata spostata nel
parcheggio delle ambulanze fino a quando è arrivato mio
figlio, pochi minuti dopo essere stato avvisato.
Sono stato portato in rianimazione e da lì non sono uscito. Mi
faceva male anche respirare, ma mi sentivo al sicuro con tutta
quella gente indaffarata intorno al mio letto. L‟infarto ha
compromesso il funzionamento del cuore; mi hanno detto che
dovevo essere operato, che mi avrebbero messo dei by-pass e
che avrei dovuto scegliere tra un paio di cliniche in un'altra
città. Ho lasciato decidere i miei figli, che intanto si erano
consultati con un amico medico al quale ho fatto tante
riparazioni in casa e in ambulatorio. Mi hanno portato con
un‟ambulanza in questo istituto, dove opera un chirurgo di cui
si dice un gran bene. Non ho ancora fatto in tempo a
conoscerlo, perché nonostante io sia arrivato da un paio di
giorni, l‟ho incontrato velocemente solo stamattina, mentre mi
depilavano il torace per l'intervento. Spero di rivederlo prima
~ 132 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
di essere dimesso, almeno per ringraziarlo di essersi occupato
di questo vecchio cuore affaticato.
Mia figlia oggi è partita all‟alba da casa sua, lontana un
centinaio di chilometri da qui, per arrivare in tempo. Ci teneva
a salutarmi prima che mi portassero di sotto, in sala operatoria.
Mi sono emozionato nel vederla entrare in camera, lei ha
cercato di fare dello spirito per farmi coraggio. E‟ stata lei
l‟ultima a baciarmi e poi la mascherina dell‟infermiera mi ha
appannato la vista. Mi sono lasciato andare così, con il ricordo
dei suoi occhi arrossati, ma sorridenti. E i suoi occhi sono stati
la prima cosa bella che ho rivisto, svegliandomi dall‟anestesia.
So che l‟operazione è andata bene e che dovranno trascorrere
diversi mesi perchè mi senta tranquillo. Ma il pensiero della
famiglia, dei miei ragazzi, è sufficiente a riempirmi di forze e
di voglia di ricominciare.
~ 133 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Marco Donati
Nell'alto dei cieli
Se il mondo fosse visto attraverso i miei occhi tutto funzionerebbe a
rovescio. Non sarebbe sbagliato gettare immondizia per terra perché
sarebbe più veloce, non sarebbe punibile liberare gas di scarico
nell'atmosfera perché sarebbe più conveniente, non sarebbe illegale
riversare rifiuti tossici in mare perché sarebbe più semplice. Ma se il
mondo vedesse con i miei occhi non potrebbe incriminarmi per aver
eliminato una persona scomoda, non potrebbe punirmi per essermi
appropriato dei beni altrui che bramavo possedere, non potrebbe
giudicarmi per aver sperimentato le più turpi passioni recondite che
solleticavano la mia curiosità. Se il mondo guardasse attraverso i
miei occhi non vedrebbe nulla perché non esisterebbe più un mondo,
non perché lo avrei già distrutto, ma perché esisterei solo io come
singolo individuo. Se devo chiudere i miei occhi, ed aprire quelli
della mente, è perché il mondo me lo chiede, perché la mia stessa
vita, inscindibile dal mondo, me lo impone. Con gli occhi della
mente non ho una visione soggettiva della realtà: ne ho la visione
corretta. Mi distacco dall'essenza materiale e mi involo nell'alto dei
cieli, ottengo una visione completa, senza alcun gesto eroico. Solo
una piccola presa di coscienza è richiesta, e la voglia di affrontare un
salto nel vuoto, con la certezza che la nuova strada intrapresa non
potrà essere peggiore della vecchia abbandonata. Doppiamo essere
noi a chiudere gli occhi ed aprire i cervelli, sarà comunque
inevitabile, ma quando sarà l'ira del mondo distrutto a svegliarci sarà
ormai troppo tardi.
Con gli occhi della mente non c'è più spazio per malintesi ed errori:
so di sbagliare quando sbaglio, è caduto il muro delle palpebre dietro
cui nascondersi. Non posso più affermare che sprecare cibo ed acqua
senza ritegno non ha conseguenze, non posso più cercare di
convincermi che avrò sempre nuovi fogli a disposizione per scrivere
i miei pensieri e ossigeno fresco per alimentare le mie parole. Perchè
non sono più cieco a quello che non voglio vedere, ma scorgo quello
che deve essere visto, e comprendo le posizioni di chi ha aperto i
~ 134 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
suoi veri occhi, e odo il sussurro della natura. Non posso più
innalzare i miei interessi sopra tutto, perché adesso il mio interesse è
il tutto. Lasciare immondizia nel bosco sporca la mia coscienza,
appiccare incendi mi corrode l'anima, gettare rifiuti riciclabili nei
contenitori indifferenziati ha lo stesso disgustevole sapore di un cibo
marcio assaporato davanti ad una tavola imbandita. Non faccio
direttamente del male a me stesso, e per questo fa ancora più male,
perché è una pugnalata allo spirito. E' calpestare la mia condizione di
essere civilizzato ed evoluto, è provare una terribile vergogna verso
l'intelletto superiore di cui il mondo mi ha dotato. E' sputare nel
piatto in cui mangio.
Non ho più scuse. Il mio contributo non è un'insignificante tassello di
un puzzle incompiuto, che mi autorizza a non far niente. Non penserò
più che spegnere il televisore sia inutile quando ogni industria di ogni
paese consuma risorse in eccesso, perchè adesso sono una della
infinite mani che regge il destino del mondo, sospeso a mezz'aria: per
quanto la mia mano possa essere piccola e gracile, se lascio la presa
il tutto di cui faccio parte si infrangerà, e non mi resterà nessuno
contro cui puntare il dito.
~ 135 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Monica Donati
Un mondo perfetto
La brezza notturna sfiorava quel corpo accartocciato sulla terrazza,
rattrappito, quasi a dargli sollievo ma niente avrebbe potuto lenire il
suo dolore troppo grande per essere contenuto in un cuore solo.
Ormai anche le lacrime erano esaurite e si chiedeva se dopo ciò che
era accaduto sarebbe ancora valsa la pena di vivere, se al mondo
esistesse ancora qualcosa che gli avrebbe dato un po‟ di gioia, o se
la cosa più giusta da fare sarebbe stata varcare il parapetto e porre
fine alla sua esistenza. Era un uomo che aveva tutto: un bell‟aspetto,
denaro, una professione appagante e redditizia ed un intelligenza di
prim‟ordine, ma in realtà non possedeva più niente perché quella
notte era morta la sua capacità di amare. Gliela avevano strappata
brutalmente. Finalmente giunse l‟alba e con essa anche il sonno.
Emma quel mattino si reco‟ all‟impresa di pulizie di sua madre come
tutti i giorni per sapere dove sarebbero dovute andare lei e le sue
colleghe a lavorare. L‟attività, benché aperta da poco, andava bene
grazie anche alle conoscenze di sua madre, ex segretaria di una delle
più famose gallerie d‟arte di Firenze ormai in pensione, conosceva i
vari artisti che vi esponevano e forniva loro i suoi servizi sia negli
studi che nelle abitazioni certi che avrebbero avuto di un lavoro
svolto con la massima discrezione e riservatezza. La fortuna non fù
con lei e le toccò l‟appartamento di un pittore di notevole successo,
ed estremamente arrogante e pretenzioso; sarebbe dovuta andarci da
sola poiché delle altre c‟era bisogno alla galleria a causa di una
mostra imminente.
“ Mi dispiace che tu debba andare da sola, ma non ti preoccupare lui
non c‟è, dovrebbe essere all‟estero e quindi la casa abbastanza in
ordine” .
“Certo mamma non preoccuparti in effetti non è la prima volta che
vado là e raramente si è accorto della mia presenza“.
“Le chiavi sono in ufficio. Ed ora buon lavoro a tutte”.
La cosa che più la disturbava era attraversare tutta la città per
raggiungere l‟appartamento per il lavoro, detestava il caos cittadino
~ 136 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
ma, essendo una delle ultime assunte, l‟auto della ditta l‟avevano
usata le altre, Lei avrebbe preso l‟autobus.
Dopo una quarantina di minuti giunse a destinazione.
L‟appartamento era un attico costituito da un corpo centrale tutto a
vetri e due terrazze una davanti e una dietro con tanto di piscina.
Attraversò il portone e prese l‟ascensore, odiandosi per la sua
claustrofobia, ma stringendo i denti perché otto piani a piedi erano
veramente troppi. Aprì la porta ed entrò. Si tolse le scarpe perché il
proprietario esigeva che nessuno entrasse con esse - una delle sue
tante stravaganze – e, come sempre, la morbidezza della moquette le
accarezzò i piedi. Ma non fu il panorama mozzafiato ad attrarre la
sua attenzione, bensì il caos che regnava in tutta la stanza: bicchieri,
indumenti, piatti sporchi erano sparsi ovunque. Meravigliata,
controllò tutte le stanze, credendo che fossero passati i ladri e pensò
di essere sola fino a quando dalle lenzuola della camera da letto non
emerse una figura maschile. Antonio si guardò intorno e si accorse
della presenza di Emma in camera sua. Lo sguardo limpido di lei,
quasi curioso, gli fece tornare in mente un altro sguardo cattivo e
trionfante, quello di Andreas. A fatica si tirò a sedere sul letto e
senza nessun motivo se la prese con lei.
“Cosa ci fa lei qui, chi è ?” Le chiese rudemente.
“Sono qui per la pulizia dell‟appartamento, non ricorda?”
“La prego di andarsene questo non è il momento migliore”.
Emma ripensò al lungo tragitto fatto per arrivare lì e decise di
provare a farlo ragionare.
“Non crede che probabilmente abbia più bisogno di me oggi che in
altri giorni, viste le condizioni dell‟appartamento?”
Appena sentite le parole “aver bisogno” qualcosa in lui scattò. Si
alzò dal letto come una furia e le urlò:
“Esca immediatamente da casa mia ha capito? Altrimenti la butto
fuori io con le mani!”
Davanti a tanta maleducazione Emma si voltò e corse verso l‟uscita
ma in quel momento il campanello suonò e come un fulmine Antonio
le si parò davanti, superandola la prese per un braccio e, stringendola
con forza le sussurrò:
“Aspetti ad andarsene la prego!”
“Mi sembra un po‟ tardi per chiedermelo non crede?”
~ 137 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lui rimase in silenzio, ma Emma lesse nei suoi occhi tanta angoscia
e disperazione che suo malgrado accettò di restare. Il campanello si
fece sempre più insistente ed Antonio apri la porta .
Sulla soglia apparve un ragazzo talmente bello che ne rimase turbata.
Peccato che quel volto perfetto avesse un‟espressione altera e negli
occhi, i più blu che avesse mai visto, passasse un lampo di disgusto
quando videro sia lei sia l‟appartamento tutto in disordine.
“Cosa sei tornato a fare? Non hai già preso tutto ciò che potevi?”
“Mio caro Antonio non essere ridicolo: l‟arte drammatica non fa per
te! Ho dimenticato il porta sigarette.”
“Devo credere che in questo tuo cinismo ci sia l‟ombra di un
pentimento, oppure pensi che durante la tua breve assenza ci sia già
qualcun altro pronto a prendere il tuo posto nel mio letto?”
“Il tuo amore per me è assolutamente puro, purtroppo e così banale!
In quanto a qualcuno che mi sostituisca” nel dire questo guardò
Emma come se fosse parte dell‟appartamento - non vedo nessuno qui
che possa essere di tuo gusto.
Poi si avvicinò ad Antonio e lo baciò su una guancia a lungo, quasi
volesse imprimergli il suo marchio facendo scorrere le mani con fare
possessivo sul suo bel corpo:
“Ti saluto” gli sussurrò in un orecchio “e cerca di essere meno, come
dire…..serio. Se trovi il porta sigarette, cara, consegnalo ad Antonio:
ci penserà lui a farmelo riavere.”
Dopo questa ultima cattiveria se ne andò.
Antonio, sfinito nell‟animo e nella mente, cadde in ginocchio e si
mise a piangere silenziosamente.
Emma non resistette oltre corse da lui e lo abbracciò stretto,
desiderando solo che si sentisse amato. Lui si irrigidì
immediatamente e cercò di liberarsi ma lei non lo lasciò, decisa a
scaldargli il cuore dopo quelle parole crudeli:
“La prego, nessuno merita di essere trattato così!”
Antonio, vinto, accettò il suo affetto ed il suo conforto. Lei era
morbida calda e profumava di pulito e lui osò appoggiare la guancia
sui suoi capelli. Quanti anni erano che non abbracciava una donna?
Tanti, le uniche che godevano di questo privilegio erano sua madre e
sua zia che lo avevano cresciuto, ma il loro odore di naftalina lo
aveva sempre nauseato facendolo allontanare in fretta. Cosa gli stava
accadendo? Che il dolore lo avesse fatto impazzire? Si perché provò
~ 138 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
il desiderio di corrispondere quel gesto spontaneo. Di colpo un
sospetto si insinuò nella sua mente: quella era solo pietà!
Bruscamente lui la allontanò da se facendola cadere.
“Non ho bisogno della pietà di nessuno. Mi dispiace che lei abbia
assistito a tutto questo. Adesso vada, la prego, e dica a sua madre che
la prossima volta mi mandi qualcuno che sappia stare al suo posto!”
Poi le voltò le spalle in segno di congedo. Emma si rialzò furibonda e
gli urlò:
“Non è mia abitudine intromettermi in faccende che non mi
riguardano, ma è stato lei a chiedermi di rimanere, ed io
stupidamente l‟ho aiutata! Forse il suo “amico” aveva le sue buone
ragioni per parlarle in quel modo. Oddio!”
Gli voltò le spalle, di nuovo decisa ad uscire da quella casa per
sempre. In un secondo Antonio seppe che stava perdendo qualcosa di
prezioso, e senza riflettere la raggiunse e l‟abbracciò da dietro tanto
che lei si trovò a sbattere contro di lui. Lei si voltò e cominciò a
tempestarlo di pugni e con le lacrime agli occhi gli chiese:
“Perché mi fai questo? Lasciami andare !”
“Non lo so perché mi comporto così, ma tu sei l‟unica che in tanti
anni abbia desiderato fare qualcosa per me disinteressatamente e so
che se ti tengo tra le braccia il gelo che è dentro di me si scioglie”
mentre le diceva questo le prese la mano e se la portò al cuore e lei
sentì il suo battito disordinato.
I loro occhi si incontrarono ed anni di sofferenze furono cancellate in
un attimo. La realtà, pensò Emma, è che nessun mortale può gestire i
sentimenti, poiché essi, andando al di là del tempo e dello spazio,
sono immortali e noi ci troviamo ad essere solo dei satelliti nelle
loro orbite. Non sappiamo cos‟è l‟amore o chi ci è destinato,
sappiamo solo amare al momento, senza presente né passato, senza
far caso a chi sarà offerto il nostro totale ed esclusivo interesse .
Però in quel momento, in quel preciso istante, conta solo colui che è
con noi e l‟irrefrenabile desiderio del contatto con la sua pelle, che
ci rende complici in un mondo a sé, dove tutto è permesso, dove tutto
è concesso, dove tutto ha un senso.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Michele Dri
Snuff Sniff Snoff
La maggior parte degli snuff movie è spacciata per video
pornografico.
La qualità di questi manufatti non è data dal numero di uccisioni o
dalla crudeltà di queste come si tende a credere. Un filmato snuff di
qualità è una vera e propria opera d‟arte, la rappresentazione
massima della realtà.
Lo snuff va oltre il cinema perché non ha finzione o trucco e va oltre
il teatro perché supera la recitazione. Chi partecipa a questi eventi
non vuole essere chiamato attore perché non recita e non vuole
recitare un copione. Lo snuff è l‟arte stessa che si manifesta e chi ne
fa parte, la vive e non la interpreta soltanto, come un attore teatrale o
cinematografico.
L‟aspirazione massima di chi ama il genere è entrare a far parte di
una di queste opere per essere il più possibile a contatto con l‟arte e
viverla profondamente, cosa che la semplice visione può dare solo
entro certi limiti, che possono variare secondo quanto l‟osservatore
vuole e riesce a farsi coinvolgere.
Va specificato che in ogni caso vivere l‟arte è un ideale al quale è
impossibile arrivare ma ci si può solo cercare di avvicinare il più
possibile con un livello di coinvolgimento elevato.
Uno snuff man che si rispetti, ossia quello che la gente comune
definirebbe come attore, appena viene a sapere dove svolgerà il film,
si trasferisce sul set accordandosi con gli organizzatori, qualsiasi
questo sia, da una stanza, a una fabbrica, hotel o casolare. Vuole
sentire gli odori, ascoltare i suoni, percepire il calore delle mura in
modo da diventare parte del luogo e far sì che questo diventi parte di
se.
Se è possibile, chiede di poter spiare le future vittime accordandosi
prima ancora che sia stabilito il sito dove sarà girato. Per questo
servizio è necessario pagare una quota aggiuntiva perché siano
filmate inconsapevolmente le persone durante la loro vita quotidiana.
Gli addetti a questa mansione sono chiamati “boogey men” e
~ 140 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
percepiscono la parte più elevata del guadagno dello snuff movie
subito dopo il regista.
L‟organizzazione del film si svolge in una prima fase durante la
quale il regista sceglie, tra chi si è proposto, i partecipanti attivi detti
anche “pazienti”. Il numero dei pazienti solitamente non supera le
cinque persone.
A questo punto viene stabilito un giorno e un luogo dove il regista
s‟incontra con questi fortunati per fare un‟asta sulla base della quale
si decide quanto potrà durare la scena di un paziente rispetto a quella
di un altro. È stabilito un tempo massimo di scena per rispettare la
durata del film che sarà comunicata prima dell‟inizio dell‟asta.
Dopo questa prima fase il regista deve scegliere le vittime di solito
una per paziente salvo che non venga fatta una richiesta di scena
multipla (questa possibilità ovviamente ha un costo aggiuntivo).
Le vittime sono chiamate partecipanti passive o “coniugati” e la
scelta di queste è la parte più importante e difficile per il regista.
Dopo aver analizzato psicologicamente i pazienti, deve capire che
tipo di persona vogliono trovarsi davanti perché siano soddisfatti.
Se un paziente non ha feeling con il suo coniugato, non può esserci
coinvolgimento, e senza coinvolgimento non può nascere l‟arte
rischiando così di creare un prodotto di bassa qualità.
Il regista quindi deve comunicare con la massima precisione le
richieste inconsce dei pazienti ai boogey men che dovranno
immediatamente impegnarsi a cercare dei coniugati adatti in quella
che è detta “pesca a sorpresa”.
I boogey men hanno una scadenza entro la quale se non hanno
successo nella ricerca devono pagare una penale elevata che vale da
rimborso ai pazienti. Il tempo di ricerca solitamente non supera i
trenta giorni di tempo.
È durante la pesca che i boogey men devono filmare le vittime se è
stato richiesto dai pazienti. Il regista fa una copia per loro e tiene gli
originali che vanno a far parte dell‟archivio artistico. Molto spesso
succede che un potenziale coniugato venga filmato e il regista non
ritenga appropriate le sue caratteristiche per il paziente designato. In
questo caso il coniugato si dice “latente” e viene scartato. I latenti
vengono archiviati fino allo snuff successivo, dove saranno analizzati
nuovamente nel caso si propongano dei pazienti con richieste
inconsce che possono essere soddisfatte con uno dei già pescati.
~ 141 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Dopo che è stato definito il coniugato per ogni paziente, si passa alla
scelta del set. Questo deve rispettare l‟armonia dello snuff e quindi
accogliere al meglio i partecipanti in modo da catalizzare il
coinvolgimento e la nascita dell‟arte.
I registi di massimo livello spesso usano un set diverso per ogni
scena e poi effettuano il montaggio pur di soddisfare i pazienti e
assicurarsi che lo snuff riesca al meglio. La nuova tendenza è però
quella di creare una sorta di salotto con i pazienti durante il quale il
regista anticipa le caratteristiche dei set disponibili e influenza le
decisioni dei pazienti senza che se ne accorgano, per far si che
desiderino i set che il regista preferisce, scena per scena.
A questo punto si stabilisce il giorno esatto delle riprese in modo che
i boogey men possano passare alla fase della “caccia” durante la
quale prelevano i coniugati e li mantengono sotto sedativi curandosi
del loro aspetto in modo da avere il miglior impatto possibile sul
paziente.
Sei ore prima dell‟inizio delle riprese i coniugati vengono svegliati e
preparati per essere esposti.
L‟esposizione inizia mezz‟ora prima delle riprese e consiste
nell‟osservazione, da parte dei pazienti, dei loro coniugati, che
vengono legati a una sedia in una stanza alla quale hanno accesso
solo il regista e i boogey men, solitamente separata dai pazienti da
una vetrata anti sfondamento.
Al paziente è vietato toccare il coniugato prima dell‟inizio dello
snuff per mantenere “pura” l‟arte, ma può richiedere qualcosa del
coniugato da annusare o assaporare.
A volte viene dato un pezzo di vestito o una ciocca di capelli, più
raramente qualche paziente chiede un‟unghia.
La regola è che ciò che viene preso al coniugato non deve provocare
dolore, segni sul corpo o sanguinamento per non andare a scapito
dell‟armonia dello snuff e mantenere intatta l‟arte.
Iniziate le riprese il paziente può dare sfogo a tutte le sue necessità
utilizzando un set di attrezzi che troverà sulla scena o altri portati da
casa che devono essere però approvati dal regista prima ancora della
fase di esposizione.
Il paziente rispetta il tempo di durata previsto e alla fine sceglie se
uccidere il coniugato o lasciare “l‟eliminazione” ai boogey men. Il
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~ Le storie di Io Racconto ~
regista apprezza di più se è il paziente a eliminare il coniugato perché
questo mantiene elevato il livello di arte.
Ogni partecipante attivo è a conoscenza di questo, così spesso in
cambio del favore vuole essere corteggiato e soddisfatto nei
“capricci” con qualche minuto in più di scena, un pezzo in più
durante l‟esposizione e magari l‟utilizzo di un attrezzo che ama
particolarmente ma che il regista non apprezza molto.
I corpi dei coniugati dopo l‟eliminazione possono essere riutilizzati
dagli stessi pazienti o da altri offerenti per rapporti di sesso necrofilo
fino a due giorni dopo il decesso, poi sono venduti, interi o a parti,
agli amanti del feticismo estremo che richiedono spesso peli pubici,
dita e tutto ciò che possa provocare eccitazione e gioia.
Gli eliminati che non riescono a essere venduti o “riciclati” sono fatti
in pezzi e bruciati oppure sciolti nell‟acido secondo le abitudini
dell‟organizzazione. Questo compito spetta ai “garbage men” che
sono i meno retribuiti all‟interno di un film snuff e di solito sono
giovani amanti del genere che vogliono fare carriera nel settore.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Mirko Duradoni
Il Giardino
Si poteva leggerglielo in faccia, qualcosa non era andato per il verso
giusto.
Gustavo d‟altra parte riusciva ad essere estremamente eloquente
anche nei momenti di silenzio più assoluto, il suo volto aveva la
capacità di sintonizzarsi perfettamente sulla frequenza del suo stato
d‟animo, catturandone ogni più labile sfumatura.
Veloce scorreva l‟asfalto innanzi a lui e sotto i pneumatici di quella
scassata Fiat panda, una volta appartenuta alla madre, che da anni si
riprometteva di abbandonare per un‟auto sportiva, tuttavia senza mai
dare compimento a quel suo pensiero che di tanto in tanto faceva
breccia nella sua mente e che rapido egli ricacciava al di sotto della
soglia della coscienza, come ne fosse intimorito.
Sulle lenti degli occhiali si riflettevano, susseguendosi velocemente
l‟uno all‟altro, i lampioni di viale Verdi.
Nonostante luci e ombre si alternassero senza una vera soluzione di
continuità lungo il tragitto, la sua espressione rimaneva corrucciata e
lo sguardo fisso, inalterato, algido a dispetto dell‟ardore che portava
nel cuore.
Cedere ad un‟espressione avrebbe significato concedere un‟ulteriore
soddisfazione a quella donna, darle quel piacere demoniaco e del
tutto femminile di veder sanguinare per la propria bellezza.
Sebbene il suo animo fosse dilaniato dal dolore, squarciato, fatto a
brandelli, egli non avrebbe spillato una goccia del suo sangue, questo
era il suo proposito, il giuramento compiuto per mantenere un
briciolo di dignità di fronte a sé stesso.
Senza volerlo si ritrovò a ripercorrere i momenti della serata appena
trascorsa.
Serrò i denti ancora più stretti di quanto non avesse già fatto.
Quel corpo esile fasciato in un leggero abito di seta nera che fino a
qualche minuto prima avrebbe voluto afferrare voluttuosamente e
stringerlo al suo, adesso lo irritava.
~ 144 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Incredibilmente provava repulsione anche per quel seno prominente
che l‟aveva fatto innamorare.
Lo schifava il solo pensiero delle lerce mani che lo avevano palpato e
stretto nella morsa delle proprie dita.
Dalla donna non ci si poteva aspettare che questo, lascivia e
volubilità, andava ripetendosi.
Ogni uomo continuava ad innamorarsi di una donna per necessità,
per quell‟ineluttabile fascino provato per l‟esotica diversità della
donna, la quale lo induceva in molti casi a farsi tagliar di netto la
testa come da una mantide piuttosto che aprire gli occhi sulla loro
natura e risparmiarsi un dolore.
L‟amore non poteva essere la chimica di un feromone, un‟esalazione
che si ficca su per le narici.
Era cresciuto credendo che l‟amore fosse un‟altra cosa, come altra
cosa credeva fosse la donna.
L‟ingenuità dei primi anni di vita aveva dipinto nella sua testa le
persone al pari di esseri perfetti, incapaci d‟ingiustizia alcuna.
Così aveva sempre visto tutti e così guardava ai suoi genitori, prima
che gli venissero strappati il 13 aprile 1986 a causa di un incidente
stradale.
Si chiamavano Margherita e Luciano, 29 e 32 anni.
Il loro rapporto a quegli occhi di fanciullo doveva sembrare qualcosa
di speciale, un‟affezione sincera e disinteressata della quale lui era il
primo a beneficiare.
Si sentiva il compimento e la ragione di quel sentimento.
Quella sensazione era poi andato cercando da adulto, non avendo il
tempo per capire come in realtà quel rapporto fosse diverso da come
l‟avesse elaborato nella testa, ricavandone solo pungente e
tormentosa insoddisfazione.
Un‟insoddisfazione presto diventata cinica e spietata nei confronti
delle donne, che dal canto loro, facevano di tutto per farsi ripagare
con quella moneta.
La loro crudeltà, meschina come quella dei felini che si divertono a
giocare con la preda morente, era per lui insopportabile quanto
inspiegabile.
Aborriva quella perversa propensione al gioco amoroso delle
giovinette, pronte a far forza del loro maggio, per il puro diletto di
muovere il destino dei loro ignari commedianti.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Ignorava che gusto ci fosse nel fare a brandelli il cuore di un uomo
dopo l‟altro, nel torturarlo con l‟ambivalenza dei propri gesti e delle
proprie parole, quando, in realtà, veniva ricercata di sotterfugio
l‟adorazione di molti e non l‟amore di uno solo.
Gustavo, già dopo le prime esperienze, non le poteva più soffrire le
donne, ricercava in loro qualcosa che forse non era mai esistito e
perciò si sentiva tradito sia da loro che dalla propria ingenuità e come
un cercatore d‟oro che sconsolato lascia il greto del fiume, odiandolo
poiché non gli ha concesso la grazia di arricchirsi, così lui provava
risentimento verso colei che in seno avrebbe dovuto portare
quell‟affetto candido tanto agognato.
Tuttavia neppure lui poteva sottrarsi a quelle naturali pulsioni che lo
spingevano a provare attrazione per una donna e qualche volta, con
sgomento, doveva arrendersi, gettare la spugna e fare un tentativo,
pur sapendo l‟esito fallimentare che ne sarebbe derivato.
In questo modo poteva ingannare il proprio desiderio ancora per
qualche tempo.
Sicuramente lo avrebbe fatto, trascorso qualche giorno avrebbe lenito
la sua ferita e trovato un qualche surrogato sul quale riversare le
proprie emozioni, in attesa che questo, ancora una volta, lo stancasse
e lo riconducesse alla donna, ma ora, all‟interno dell‟abitacolo spento
della sua autovettura, era per lui impossibile ignorare sofferenza e
desio.
Impossibile gli era anche scacciare il pensiero di lei.
Senza che lo volesse più volte mormorò il suo nome, Verdiana,
rivolgendosi a quello spettrale simulacro che ancora non lo
abbandonava, forse nella speranza che, accolta quella bisbigliata
supplica, questo potesse riportarla fra le proprie braccia.
Per quanto risentimento covasse verso di lei, non poteva fare a meno
di desiderarla, anzi era proprio il fatto di non poterla avere totalmente
per sé, che alimentava la sua rabbia.
D‟altra parte lo sapeva fin dal principio che non avrebbe potuto
essere sua, già apparteneva ad un altro uomo, ma Gustavo aveva
voluto illudersi e vivere nella convinzione che un giorno le cose
sarebbero potute cambiare, così non era stato, e ora si ritrovava a
provare gelosia verso una donna che lo tradiva con il proprio
compagno. Alle fine si era reso conto di quanto non vi fosse una
sostanziale differenza tra lui e l‟altro uomo, entrambi venivano
~ 146 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
ingannati in un modo o nell‟altro e se fosse per il di lei piacere o per
la sua insicurezza poco contava.
“Marito e amante condividono la stessa sorte, ma spesso la più
gravosa è quella del secondo a causa del suo essere a conoscenza”,
ripeteva talvolta agli amici a mo‟ di aforisma.
Saggezza la sua pagata a caro prezzo, conseguita con esperienze
strazianti e umiliazioni continue, e il poco vanto che poteva ricavare
con le sue esternazioni era ben misero risarcimento.
Verdiana l‟aveva ammaliato, reso schiavo, forse senza che neppure
se ne rendesse conto, il suo aspetto l‟aveva fatto per lei, tuttavia
l‟estasiata devozione servile che questo gli aveva procurato, Gustavo
sapeva bene, al contrario di molti altri che non avrebbero esitato a
farlo, di non poterla definire amore.
In passato a questa strana condizione, che nolente si trovava a dover
affrontare, trovava il nome di allucinazione del raziocinio o di perdita
di coscienza, per la quale, al ricordo delle reiterate volte in cui v‟era
incappato, provava vergogna.
Era a casa, la vista notturna della cancellata in ferro battuto, lo
accoglieva, forse lo redarguiva.
Scese dalla macchina sospirando, testa china da figliol prodigo,
abbattuto ma non più affannato, forte della consapevolezza che anche
questa volta era finita.
Anche questa volta la follia che lo aveva coinvolto e trascinato in una
selva gonfia d‟odori inusuali e femminei, aveva fatto il suo decorso.
Stanco dopo il febbrile slancio, muoveva lento e cadenzato il proprio
passo verso casa.
Ancora un sussulto, non poteva certo coricarsi in quell‟incubo di
lenzuola, colpevoli al pari di tutte le donne che lo avevano ingannato,
di sapere ancor prima di lui. Erano infatti capaci, a suo dire,
d‟interpretare l‟aggrovigliarsi di corpi nudi similmente ad una lingua
incapace di mentire, di udire il più flebile sussurro provenire dalle
labbra vermiglie appena dischiuse in un gemito, loro meschine
infermiere che fra i loro caldi gorghi anestetizzano cuore e cervello.
Chiuso alle sue spalle il cancello si sedette sugli scalini volgendo lo
sguardo verso la vegetazione che, da buona cornice, adornava la
casa.
Da ventidue anni Gustavo aveva premura di ogni primula, germoglio
o piccolo arbusto di quel giardino, non un singolo giorno era venuto
~ 147 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
meno a quel dovere che aveva fatto proprio una mattina di un giorno
d‟aprile quanto sua madre, armatogli la sua mano di fanciullo di una
sistola, gli aveva raccomandato tale incombenza in virtù della sua
assenza.
Di lì a poco, l‟infausto schianto, la causa della sua nevrosi,
l‟accanirsi, come il fato con lui aveva fatto, ma con mano
caritatevole e benevola, ugualmente intransigente.
Questo in fondo era il suo amore, sublime artefatto della propria
memoria al quale quotidianamente donava nuova vita, ciò che
alimentava la tremula fiamma della propria esistenza.
~ 148 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Valentina D‟Urbano
Una storia d‟amore
Scende giù dal paese a folle velocità. Il grosso fuoristrada sbanda e
stride sull'asfalto ghiacciato, ma lui quelle strade le conosce da
quando è nato, non lo tradiranno proprio adesso.
Ha fretta e non vorrebbe averla.
Quella mattina, quando il telefono ha suonato e sul display è apparso
il suo numero, quasi non voleva crederci.
Che faccia tosta, richiamarlo invece di trovarsene un altro.
Ma lei piangendo aveva detto che era di lui che aveva bisogno, che
un altro così non lo trovava, che lui lo sapeva che lei non era una
bugiarda.
Certo, qualche difetto ce l'aveva, però non era una bugiarda.
Stava male, senza di lui c'era un freddo immenso, un freddo che
nessuna coperta poteva scacciare.
“Vediamoci al solito posto”, lo aveva implorato con la voce rotta.
Le aveva fatto pena, era sempre stato un tipo dal cuore tenero.
“Va bene”, aveva risposto. “Ma è l'ultima possibilità che ti do”.
Parcheggia la macchina di fronte ad un negozio di cartoleria con la
saracinesca abbassata, e si incammina a piedi giù per la strada che
sembra sprofondare nel silenzio.
Pini innevati a destra, campi innevati a sinistra, oltre la curva c‟è una
villetta solitaria di quelle costruite appena fuori dal paese, con un
giardino anch'esso ricoperto di neve, uno striminzito albero di Natale
che lampeggia di luci colorate e una bicicletta rossa abbandonata sul
vialetto.
Guarda in alto, verso le persiane chiuse.
Non si muove niente, dalla casa non proviene nessun rumore. Forse
non c‟è nessuno, ed è meglio così, non vuole che la gente lo veda.
Prosegue ancora, finché le case non scompaiono lasciando il posto
alla strada provinciale.
Adesso c'è silenzio e neve immobile e frusciare di foglie morte che si
sbriciolano sotto i suoi piedi con un rumore fradicio.
Pensa a lei, a quella che sta andando ad incontrare.
~ 149 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lei che lo prendeva in giro alle scuole medie (sì, le avevano fatte
insieme, poi però lei era andata al liceo classico in città, e lui era
andato a lavorare giù alla carrozzeria di suo zio, che con la scusa
della parentela spesso e volentieri si dimenticava di pagarlo), lei che
commentava con sorrisetti odiosi quel suo portare i vestiti smessi dei
fratelli più grandi, lei che invece si vestiva alla moda, e come se non
bastasse era anche bella, bellissima, che a 13 anni già si girava tutto
il paese a guardarla, lei che una volta, quando di anni ne avevano già
17, gli aveva chiesto di uscire insieme e lui ci aveva pure creduto e
l‟aveva aspettata per un pomeriggio intero, con le amiche di lei che
passavano e ridacchiavano e solo dopo l‟aveva capito il perché delle
loro risate.
Adesso non funziona più così, adesso l‟ordine si è sovvertito.
Ora è lei che chiama lui, e c‟ha una voce terribile, una voce piena di
male che solo a sentirla ti sale un rigurgito amaro dallo stomaco, sarà
pena, sarà amore stantio, ma che ne sa.
Sa solo che è una vita che Paola si comporta male con lui. Una vita
che promette e non mantiene, che pretende e prende restituendo poco
e male.
Paola è avida e vuole tutto per sé.
Ma questa è l‟ultima volta.
Scavalca il guardrail in un punto in cui il pendio dall‟altra parte non è
troppo ripido e la neve sembra compatta, e scende nel bosco.
Ci sono quegli abeti enormi , quella luce boreale che filtra in lame
lucide attraverso gli alberi, e lui improvvisamente vorrebbe essere lì
da solo, vorrebbe non doverla incontrare, e si permette di sperare che
lei non sia venuta, che in un raro moto di orgoglio se ne sia andata a
casa.
Ma gli basta fare pochi metri che Paola è lì, appoggiata contro un
tronco. La neve gli cade in testa e le bagna i capelli ma lei non ci fa
caso. Ha occhiaie che sembrano ustioni e la faccia lucida e le labbra
secche e screpolate, ma lui quelle labbra le bacerebbe lo stesso, che
Paola è bella anche così, disperata e sfatta.
“Simone, ti prego…” Lei gli tende le braccia, e lui si allontana per
dispetto.
“Per favore…faccio tutto quello che vuoi…” Adesso lei quasi
piange e a lui piace sentirla implorare.
“Prega Paola. Pregami. Male non ti fa.”
~ 150 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Si china a raccogliere un po‟ di neve, se la fa sciogliere in mano.
Guarda quella e non il viso della ragazza. “Come rimaniamo
adesso?“
“Rimaniamo come vuoi tu. Va bene tutto, basta che non sparisci.
Simone ti prego, io sto male.”
Paola sta per mettersi a piangere come al solito, come ogni volta che
discutono, ma qualcosa la blocca.
Spalanca gli occhi, allarmata.
Ci sono delle voci che provengono dal bosco, a pochi metri da loro.
Due voci, forse tre, e si avvicinano.
Probabilmente è qualcuno del paese sceso a farsi una passeggiata
nella neve, qualcuno che conoscono entrambi e lui non ci fa bella
figura a farsi vedere insieme a lei che piange, che le chiacchiere
corrono e poi dicono in giro che hanno visto Simone Troili
maltrattare Paola Perron, che poveraccia, è ridotta uno schifo.
Dicono che si è rovinata a correre appresso a lui, ma non è vero.
Lui a Paola gli vuole bene, anche se è una stronza, anche se sette
anni prima lo ha lasciato un pomeriggio ad aspettarla.
Lui è buono e la gente la perdona.
Non vuole mica vederla soffrire.
Aspetta che quelli delle voci si avvicino così che possano vederli, e
poi fa due passi e la abbraccia, e la sua faccia è calda e bagnata di
sudore, e Paola adesso piange e gli si avvinghia addosso e tira su col
naso in una maniera che fa proprio pena.
“Simone, per favore, Simone, io non so che fare…”
“Stai zitta che c‟è gente, non piangere, va tutto bene” dice lui mentre
quelli passano, adesso in silenzio perché li hanno visti e devono far
finta di non essersene accorti.
Le alza la faccia e la bacia e le sue labbra graffiano e il suo alito è
amarissimo ma continua a baciarla lo stesso, e mentre la bacia glielo
dice che quella è l‟ultima volta, che così non si può andare avanti,
che lui ha tanta pazienza ma così proprio non può funzionare, glielo
dice piano, labbra contro labbra.
Adesso, Paola non piange più, Paola si allontana e si asciuga gli
occhi e il naso con il dorso della mano, e intanto annuisce decisa.
“L‟ultima volta, va bene piccola? Questa è l‟ultima volta che te la do
a credito, dopo mi devi ridare tutto con gli interessi, che se mi
arrabbio sono un sacco di guai per tutti, eh piccola? Lo sai piccola
~ 151 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
come mi arrabbio, no?”
Le fa scivolare un incarto argentato nella tasca della giacca e lei
sospira e quasi trema.
Si volta e se ne va, senza toccarla. Non la saluta nemmeno, che tanto
tra di loro non servono parole. Paola già lo sa da sé, che stavolta
Simone dice sul serio.
Stavolta l‟eroina gliela deve pagare.
~ 152 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Andrea Echorn
Ma al diavolo non piace l'acqua
"Mi riconosci dai capelli rossi". RER B Luxembourg, siedono su un
muretto dal bordo in festa, ne conosco il motivo. Piacere. Arianna ha
i capelli rossi. Altro nome. Aspettiamo altra gente. Ecco, bonjour,
bonjour, piacere Andrea. Non ci siamo già visti? Si, ricordo gli
occhiali. Forse ad una festa in 3 rue Valette? Credo di no. Non saprei
allora. Il capo è in ritardo, aspettiamo. L'altra volta siamo entrati da
un'altra parte, ci sono dei passaggi dove si deve strisciare. E c'è anche
l'acqua. ah! gli stivaletti che alcuni indossano sono troppo bassi.
Eccolo. Buongiorno a tutti, giro di nomi, l'entrata è laggiù, di fronte a
"negozio". Resteremo dentro per venti minuti, inquietudine generale.
Ho capito male, ho capito venti minuti era invece mezzanotte, sono
le sette di sera. pronto, siamo a Luxembourg entriamo tra cinque
minuti, lascia perdere, troppo tardi, beh se ce la fai, sei troppo
lontano, come vuoi, noi entriamo. Il capo va in macchina a prendere i
ferri. Stivaloni fino alle anche. Tutti hanno una torcia? Più o meno
(ho dei led trovati per terra, il mio vecchio nokia che fa un po' di luce
ed una torcia a ricarica manuale). Nessun problema, stai in mezzo.
andiamo. Attraversiamo Boulevard Saint Michel. Aspettiamo poco
lontano dal tombino. Rieccolo. Ci sono tutti? Ma davvero restiamo
dentro fino a mezzanotte? Comprate qualcosa da mangiare in quel
mercatino. detto fatto, ritornano. ci sono tutti? Tombino. Si scende,
14 pioli. Tunnel di servizio EDF, chilometri di cavi posati su
chilometri di mensole in ferro immobili nel buio. Partiamo, direzione
nord. Si cammina. buco tra i cavi, non ci si passa con lo zaino, il
tunnel riprende. Scale che scendono, uno scalino, due, tre, 67.
Crocicchio nevralgico per la rete elettrica. a cinquanta metri l'entrata.
una coppia esce dal buco, ciao, uscite? Si, conoscete un'uscita?
Sempre dritto salite le scale, siamo sotto Boulevard Saint Michel.
Grazie. Buona continuazione. "Carrière des Chartreux": Ci si stende
sui cavi e si entra con i piedi nel buco sulla parete, proni, dall'altra
parte mi guidano, dammi il piede, ora l'altro, sotto di te c'è una fossa,
la vedo. Mi allungano lo zaino. Si continua, devono passare tutti e
~ 153 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
non c'è spazio. Il secondo varco: mettete la mano a conchetta con il
palmo verso l'alto, ecco com'è fatto. Il fantasma del panico danza la
marcia funebre di Chopin. Ma di là c'è spazio? Si, si, è facile.
sepolcro di calce, dita bagnate nei guanti. Striscio, poi rieccomi in
piedi, alla luce delle torce turbina lenta la polvere. Si prosegue per
far spazio a chi ci segue. Siamo nelle catacombe ora? Si. Chi vuole
una birra? ci sono birre? chiaro. Non dico di no. Cin! Alle
catacombe. Arriva il capo, aspettate, ci fermiamo fra cinque minuti.
Si sorseggia la birra in fila indiana. Tutto accade tutt'attorno, dove mi
trovo? Pozzanghere. Cerco di evitarle, ho delle scarpe, cammino
vicino alle pareti. Poi solo acqua, al diavolo. Marcia nelle fredde
acque. Urletti di ragazze. Il capo spiega, questi sono i segni degli
scalpelli, gallerie scavate a mano. Questi sono disegni di un secolo
fa. I nomi delle vie incisi sulla pietra "Saint Jacques". Il tratto rosso
sulle vostre teste è l'asse della via. Pozzi al contrario, in alto l'ultima
ora del giorno sbircia dai fori. Si arriva ad una sala. Candele,
bottiglie vuote, ci si siede. Il vero brindisi, birre, sigarette, marijuana,
piedi bagnati, aneddoti sulle carrières che passeggiano sulle bocche
di generazioni: due secoli fa c'era chi, conoscendo le cave,
conduceva per denari sprovveduti credenti al cospetto del diavolo.
Entravano nelle caverne disegnando cerchi, fulmini e invocazioni,
poi recitando qualche discorso barbaro, nelle profondità dei cunicoli,
complici gettavano resine infuocate e il malcapitato veniva bastonato
tra le urla. Rimontato, poi, credeva d'aver visto il diavolo e faceva
voto di silenzio. Si ride. Due persone escono strisciando da un buco,
saluti. caschetti con torce, si siedono, bevono. Il capo e gli amici del
capo. Il capo è dall'età di diciassette anni che entra, all'epoca entrava
sano ed usciva in acido. Parla arrotolando la cartina. Due ragazze
manifestano disagio. Mi allontano per pisciare, è un labirinto. Vedo
altre sale con altre bottiglie e candele. Mi raccontano che c'è gente
che ci dorme. Durante una discesa hanno trovato un tizio steso su
un'amaca, beveva e ascoltava musica. Ripartiamo. Direzione tomba
di Philibert Aspairt, l'uomo che la leggenda vuole perduto nelle cave.
Testa bassa, calcare, calce, fossili, conchiglie e impronte di
conchiglie, una volta c'era il mare. volte in pietra ed infine la lapide.
E‟ inciso: alla memoria di Philibert Aspairt perduto in questa cava il
III novembre MDCCXCIII ritrovato undici anni dopo e sepolto nello
stesso luogo il XXX aprile MDCCCIV. Direzione bunker.
~ 154 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Compaiono scritte in tedesco, vecchie linee elettriche, porte
arrugginite, i cunicoli usati durante l'occupazione nazista.
Protagonista del luogo un wc chimico dell'epoca. birra? Mi allontano.
La torcia sotto il braccio, piscio in una stanza. Ho paura che il gruppo
parta senza di me, continuo a guardare. Infatti le diramazioni dei
cunicoli nascondono i bagliori. "Rauchen Verboten" il capo arrotola.
"Hinterof, S.Michel, N.Dame-Bonaparte" lasciamo i rifugi in
direzione Fontaine des Chartreux. ancora acqua, arriva a metà
gamba. Poi due varchi stretti obbligano i corpi. Si striscia in una
fessura nella parete, poi eccola. Qualche colonna, alcuni gradini, una
piccola vasca in pietra raccoglie l'acqua filtrata dalla terra.
Galleggiano candele. Una volta quest'acqua si poteva bere. Ancora in
fila indiana. Pausa. Il capo controlla il percorso. Colgo l'occasione
per incollare un monstre rouge. Si riparte. Le monstre rouge mi
trattiene qualche istante di troppo, di nuovo il fantasma di prima. La
mia torcia si ricarica con un movimento equivoco. Bonsoir. Bonsoir.
Incrociamo un gruppo di tre persone con la musica. Attendono il
nostro passaggio. Incredibile. Arriviamo in una sala circolare dalla
quale parte un altro pozzo. Candele. La scala a pioli che scende dal
pozzo tocca terra. 25 metri più in alto c'è l'uscita. Dalla pietra escono
tre teschi manufatti. Bevi? Si, grazie. Si apre un'altra 1664. La
schiuma nasconde il foro, devo osservare la linguetta per capire dove
appoggiare le labbra. Il capo si avventura in altri aneddoti ed io mi
tolgo le scarpe. Poi spiega. Lui scava collegamenti tra i cunicoli, ci si
attacca ad un palo della luce e poi si scende con una prolunga nel
tombino e si martella. Taluni scoprono nuove gallerie e le chiudono
con un lucchetto. Ripartiamo. L'ultimo luogo che visitiamo sono i
rifugi che le persone più ricche potevano permettersi in tempi di
guerra. Troviamo una pavimentazione a mattonelle e dei resti di
controsoffittatura. Tag e affreschi dappertutto. Questo sono io nell'84
circa. Il capo era un vandalo. Questo è "nome" uno dei primi.
All'epoca di Mode2? Si, si conoscevano. Pausa marijuana e frutta.
Leggera sensazione di asfissia. Si decide di uscire. Sulla via del
ritorno passiamo dalla tomba di Philibert Aspairt e proviamo a
spegnere le luci, restiamo in silenzio per qualche secondo. Infine
ecco i due passaggi che collegano le carrières ai tunnel EDF. Il
secondo, quello che finisce sui cavi, si attraversa nella stessa
posizione dell'andata. Mi spingono dai piedi. Contenti di essere in un
~ 155 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
orribile corridoio nero, ormai fuori. Mi permetto di avanzare a
distanza nell'oscurità. Scale. Aspettiamo che ci siano tutti per uscire.
Fuori è notte, sono le undici. Esco e osservo l'uscita degli altri.
Veloci, l'ultimo chiude. Siamo tutti bianchi. Il capo ha gli occhi rossi.
Lo si ringrazia, io di cuore. per tornare a casa scendo ancora
sottoterra. RER, linea 6, linea 9. Se a Parigi vi capiterà d'incontrare
una persona completamente sporca di bianco e con le scarpe fradice
sapete cosa vuol dire.
~ 156 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Marco Ernst
Come ti sei fatta bella
Vi ho mai raccontato del mio primo grande amore? Il primo e anche
l‟unico che io abbia mai avuto.
Quanto ho pianto allora e da allora non ho mai smesso di farlo.
Avevo quindici anni, portavo gli occhiali, ero goffo, imbranato e con
un principio di acne.
Chiara, invece, era la più bella della classe: tutti non avevano occhi e
attenzioni che per lei e lei aveva attenzioni per tutti eccetto che per
me.
L‟ho amata in silenzio, per colpa della mia stramaledetta timidezza,
per tutti gli anni del liceo, vedendola andare alle feste degli altri, in
discoteca o al cinema con altri, vedendola ridere e parlare con tutti.
Eccetto che con me.
Del resto non potevo neppure sognarmi che una come lei si
accorgesse di uno come me.
Mi accontentavo, quindi, di sognarla ad occhi aperti di giorno, di
sognarla la notte e, dovrei vergognarmi a confessarlo, ma è la cosa
più naturale e più diffusa fra gli adolescenti, di eccitarmi
nell‟immaginare avventure con la ragazza che amavo in segreto.
So che molti sostengono che a quindici anni è impossibile amare, che
spesso si chiama amore ciò che è, invece, solo passione, simpatia,
amicizia, l‟orgoglio di vantarsi con gli amici di avere una ragazza,
ma non è così: io so che il mio era vero amore, lo so ora, da adulto,
perché so che l‟amore è sì la cosa più bella del mondo, ma è anche
terribile, ti fa piangere, stare male ed è capace di ferirti ed ucciderti.
Ricordo la gita a Firenze che facemmo con la scuola in terza liceo: il
bello di queste non era certo, per gli studenti, vedere chiese e musei,
bensì staccarsi, per molti di noi per la prima volta, dalla famiglia,
dormire fuori casa per due o tre notti, fare casino fino al mattino, coi
nostri poveri professori costretti a turni di guardia nei corridoi
dell‟hotel che incautamente ci ospitava, per difendere la virtù delle
loro alunne ed evitare che i maschi si ubriacassero, fuggissero per la
città in cerca di notti brave, si rompessero l‟osso del collo
~ 157 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
nell‟intento di raggiungere le camere delle ragazze passando dalle
finestre.
Beh! Per me non fu una bella esperienza il vedere i miei compagni
infilarsi, nonostante le sentinelle armate, armate di numeri di telefono
dei nostri genitori, nelle camere e, talvolta, nei letti delle ragazze,
anche nella stanza della mia dea, ne ero sicuro, mentre io rimanevo
nel letto al buio, con le mani intrecciate sotto la nuca e gli occhi
aperti a guardare la luce d‟emergenza dell‟interruttore diventare una
galassia di stelline, nella scomposizione che le mie lacrime ne
facevano.
La seconda notte, non riuscendo a dormire e visto che il mio
compagno di stanza era fuggito in chissà quale altra camera, uscii nel
corridoio; a metà di questo, seduta su una seggiola di legno, c‟era la
prof. di Greco che, a quasi settant‟anni, quaranta dei quali spesi a
formare la cultura di generazioni di alunni, era costretta, in camicia e
vestaglia, a passare la notte di guardia.
Si era addormentata; mi sedetti accanto a lei, sulla moquette
macchiata che copriva il lungo corridoio della pensione da quattro
soldi che ci ospitava..
Ogni tanto qualche porta si apriva e qualcuno sgattaiolava da una
camera ad un‟altra, ombre irriconoscibili e caute che gettavano una
furtiva occhiata alla nostra sentinella dormiente, ridevano piano e
sparivano e non si accorgevano della mia presenza.
Ad un certo punto la professoressa Tommasi aprì un occhio, mi
guardò e mi chiese: “E tu, Matteo, non ci vai a trovare le ragazze?”
capii che il suo sonno aveva poco del riposo e molto della diplomazia
e della comprensione.
Non risposi, ma chinai il capo e cominciai a piangere pensando a
Chiara che, in quel momento era certamente con qualcun altro.
La professoressa mi pose una mano sul capo, in silenzio, senza dirmi
ne chiedermi nulla: d‟altra parte il paese delle lacrime è così
misterioso! Poi riprese il suo sonno diplomatico.
Povera donna, così fintamente dura e, invece, così umanamente
comprensiva; non arrivò mai alla sospirata pensione: se ne andò
l‟anno seguente, nel sonno, un sonno vero che sarebbe durato per
sempre.
~ 158 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Al suo funerale fu l‟unica occasione della mia giovinezza in cui
mostrai un po‟ di carattere, tanto che litigai con Vincenzo, che rideva
e raccontava storielle oscene in fondo al corteo.
Mentre i miei compagni erano già sul pullman per far ritorno a casa
dopo quelle tre penose giornate fiorentine, di nascosto, m‟infilai per
un attimo nella camera di Chiara e mi sdraiai sul suo letto: era ancora
caldo del corpo di lei e il cuscino portava ancora il suo leggero
profumo di gelsomino.
Piansi di nuovo: praticamente avevo pianto tutto il tempo della gita a
Firenze.
Venne infine l‟anno della maturità: Chiara uscì col massimo dei voti,
io con una valutazione mediocre, ma non era certo il mio periodo
migliore: ero conscio del fatto che dopo pochi giorni non avrei mai
più rivisto il mio amore (oramai mi ero abituato ad accontentarmi di
vederla, di essere con lei nella stessa aula), immutato nel corso di
cinque anni; del resto io non ero il tipo di compagno che s‟invita alle
pizzate e alle rimpatriate fra ex compagni.
Mai più: due parole che mi gettavano nell‟angoscia. Giurai, e sapevo
che avrei mantenuto il mio giuramento, che non avrei mai più amato
nessun‟altra, perché non volevo più soffrire ciò che avevo patito in
quel quinquennio e che avrei completamente cambiato la mia vita,
perché avevo bisogno di trovare quella serenità interiore che la mia
adolescenza non mi aveva concesso..
Ma il destino, a volte, prende strade strane e si diverte a manovrarci
come marionette, così la rividi, la rividi vent‟anni dopo. Io forse non
l‟avrei riconosciuta: da ragazza era carina, ma ora era bellissima, la
più bella donna che io avessi mai visto; volevo dirglielo, ma non
trovai il coraggio e non potevo farlo comunque, nella mia posizione.
In ogni caso fu lei a riconoscermi: “Matteo! Ma sei proprio tu? O
dovrei chiamarti padre Matteo” disse guardando il mio saio, i miei
piedi scalzi nei sandali e soffocando un risolino con due dita portate
alle labbra in un gesto pudico; poi subito si riprese con un colpetto di
tosse “scusami, non volevo mancarti di rispetto, ma non mi sarei mai
immaginata che ti saresti fatto frate. Pensa che c‟è stato un periodo in
cui mi ero presa una cotta per te, al liceo, ma tu eri così chiuso, così
inavvicinabile. Sai che si mormorava, addirittura che tu fossi gay”.
~ 159 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Avrei voluto piangere anche adesso, piangere su tutti quegli anni di
dolore, su una vita sconvolta da ciò che non era stato e che avrebbe
potuto essere, ma le mie lacrime si erano oramai esaurite da anni.
Dio mi perdoni, ma se avevo vestito il saio non era per amore suo,
ma per quello di Chiara, per mantenere il mio proposito di non amare
mai più nessun‟altra. Continuò: “Ricordi la gita a Firenze, in terza?
Speravo che tu mi venissi a trovare di notte, visto che la Tommasi
dormiva come un sasso invece di fare la guardia e non ti avrebbe
visto. Ti ho aspettato per tutti i tre giorni fino al mattino: l‟unica
delle ragazze che ha passato tutte le notti da sola. Chissà, invece tu
dov‟eri, con chi eri... mah! Comunque mi ha fatto proprio piacere
rivederti, ma ora devo scappare, devo andare a prendere mio figlio a
scuola”. Mi sfiorò la guancia con un bacio e volò via, leggiadra.
Avrei voluto fermarla, dirle tutto, dirle del mio amore, dirle che, in
fondo, quella notte eravamo stati veramente insieme, anche se solo
idealmente, ognuno a sognare l‟altra o l‟altro, ma anche questa volta,
come allora, non ne fui capace e mentre cercavo di decidermi lei era
già sparita, questa volta per sempre. Prima, però, sussurrai: “come ti
sei fatta bella”; lei si girò: “hai detto qualcosa?”. “Nulla”, la
tranquillizzai e così se ne andò per la seconda volta e ultima volta
dalla mia vita.
~ 160 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Cristina Esposito
Nei cassetti dei ricordi
Un altro giorno è passato, come ieri, come due giorni fa, come un
mese fa. Appartiene al passato; come due mesi fa, un anno fa, tre
anni fa. Anche questo giorno, è entrato nell'archivio dei ricordi. Così
nitidi ora, così offuscati dopo. Apro la porta dei ricordi, archivio n°1,
cassetto n°8, anno 1989. Un aroma di caffè appena aperto, penetra
nelle mie narici, mia mamma ci vuol tenere “buoni”. Abbiamo già
fatto colazione, mio fratello ed io, ma vogliamo il caffè, come i
grandi.
Eccola! la mia mamma. Senza rughe, senza pensieri per la testa.
Bella, come solo una mamma può apparire. Prende il barattolo di
caffè macinato, ne preleva un po‟ col cucchiaio, lo mette in una tazza
e lo mescola con lo zucchero. Mio fratello ed io la osserviamo
affascinati. Sembra una maga intenta a creare una beverone
incantato. Lo divide in due tazzine da caffè che ci tende insieme alle
posate.
Afferro la tazzina, titubante. La scruto. Osservo la polvere. La rigiro
col cucchiaio, è soffice. Non mi attrae. L'assaggio... è amara! No,
non mi piace! Con una smorfia l‟allontano dalla bocca. A mio
fratello piace, ne gradisce ancora. Lo guardo dubbiosa e mentre lui
aspira gli ultimi granelli della tazza, passando infine la lingua sulle
labbra adagiati in un sorriso soddisfatto, io mi lascio trascinare dalla
voce serena di mamma. Viaggio nei suoi ricordi. Anche lei da
piccola adorava il caffè macinato con lo zucchero. Allora decido di
concedere una seconda possibilità a quel gusto antico che mi lega
all‟infanzia della mia mamma. Mi sembra di vederla, piccola,
paffuta, con quei grandi occhi neri. Ne assaggio un altro po‟... No!
Decisamente non mi piace!
Riluttante devo ammettere che quel legame non regge. Continuo ad
osservarla. La mia mamma. Vorrei rimanere nel passato, prendere
tutto di quei giorni, quegli anni di giovinezza e spensieratezza. Anni
in cui ignori cosa significa crescere, soffrire per le perdite che la vita
ti impone. Venire mutilati nei sentimenti. Nel dolore. Anni in cui
~ 161 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
l‟unica paura sono i compiti del giorno dopo. L‟unica
preoccupazione il gioco che non possiedi. Vorrei toccare quella
bimba ingenua che osserva sognante la sua mamma e pensa “da
grande sarò come la mia mamma”. Vorrei dirle tante cose. Vorrei
metterla in guardia dai pericoli e soprattutto dal dolore. Vorrei dirle
“Sogna Cristina, sogna! Vivi nei tuoi sogni e credici sempre. Non
smettere mai di sognare. Prendi tutto ciò che la vita ti da. Afferralo e
non mollarlo mai. Non perdere tempo in delusioni e rabbia, perché la
vita sai, passa in fretta. Troppo velocemente. Abbraccia ogni giorno
tuo papà, smettila di odiarlo per come tratta la mamma. Digli ogni
giorno ti voglio bene. Spezzagli le sigarette. Nascondile!
Impediscigli di fumare. Amalo per ciò che è. Accettalo. E‟ tuo papà.
E non pensare che un giorno non ti mancherà. Perché è dentro di te.
Ama la mamma. Ammirala e non la rimproverare perché ti lascia
sempre sola. Capiscila. Comprendila. Tutto ciò che fa, lo fa per
amore. Ama tutta la tua mamma. Ama gli ultimi, anche se tu le dici
che siete voi gli ultimi. Ama i miseri, la tua mamma. Ha un cuore
troppo pieno d‟amore, per tutti. È buona la tua mamma e porterà
tante croci sulle sue piccole spalle. Amala. Dalle coraggio, sii sempre
presente e non abbandonarla mai. E lo vedi quel piccolo pargoletto al
tuo fianco? Sarà il preferito di mamma e papà. Si sarà il cocco di
famiglia. Ma tu non soffrirne. Accetta la situazione. Accetta tutto. E
non perdere tempo nelle piccole sofferenze. Gioca. Ama. Sorridi.
Vivi l‟infanzia in tutte le sue sfumature. E non piangere più!”.
Vorrei dirle tante cose per avvertirla che il futuro non sarà roseo. Ma
la visione diventa un po‟ offuscata. Sempre più lontana. Mi vedo
mentre mi allontano dalla mamma per prendere la pallina caduta
dalle mani di mio fratello. Mi vedo cosi piccola mentre voglio fare
l‟adulta, aiutare la mamma a risolvere i problemi. Mi vedo cosi
lontana eppure vicina. Chiudo il cassetto dei ricordi. E‟così pieno di
polvere.
~ 162 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Claudio Fabbrini
Christine
Giulia è stanca, viene da una giornata difficile ma finalmente è a
casa, adagiata sulla sua poltrona preferita.
Guarda un vecchio telefilm e pensa ad altro quando si sente sfiorare
da dietro i suoi capelli ancora lunghi e rossi.
E‟ sola, chi dunque la sta toccando con tanta delicatezza ?
Si volta, sente una fitta al cuore e una smorfia di sorpresa le disegna
il viso “Christine !”
Christine, un tempo la sua migliore amica.
Un tempo, prima che tornasse in Belgio laddove era nata. Giulia era
forse la sola persona che avesse compreso appieno le ragioni di
quella partenza che per molti restava inspiegabile e che invece era
semplicemente una fuga.
Un addio non previsto alla terra che l‟aveva adottata,
agli amici che avevano imparato ad amarla ma anche la risposta a un
destino che le aveva prima regalato e poi strappato il suo amore
italiano.
Adesso Christine è lì e Giulia non le chiede neppure come abbia fatto
ad entrare. E‟ lì e basta !
Nessun convenevole né frasi di circostanza, non servono fra loro.
Giulia rimarca l‟estrema magrezza di Christine ed ella, di rimando, la
ormai prorompente rotondità dell‟amica.
Ridono.
Ciò che Giulia tiene per sé, ciò che le sembra opportuno tacere, è lo
strano pallore che domina il volto di Christine.
I segni di un‟antica bellezza, quelli però si possono ancora
intravedere nei suoi lineamenti sebbene la fronte, un tempo coperta
da boccoli neri come l‟ebano, si riveli adesso agli occhi di Giulia,
eccessivamente alta.
Alta e pallida.
Si ritrovano in giardino.
Christine ricorda assai bene le splendide rose che lo deliziano. Ne
odora alcune, beandosi della loro fragranza.
~ 163 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Anche Giulia ne accosta una al suo naso ma non ne avverte il
profumo, Christine che ha capito le sorride vaga.
Si siedono come un tempo su due sdraio e come un tempo, parlano a
lungo e di tutto bevendo tea freddo.
Poi un sibilo, prima lontano e appena percepito, si fa più vicino. Più
acuto. Stridulo eppure ovattato.
E‟ una sirena e Giulia si sveglia.
Si guarda attorno, è sola.
E‟ stato un sogno.
Lo ripercorre.
Nulla di quanto si fossero dette le ritorna alla mente, neppure un
frammento, magari una parola, una chiave qualsiasi per coglierne il
senso.
Le è rimasta solo la sensazione di un tardo pomeriggio che pareva
eterno e di un sole che sospeso lungo l‟orizzonte, sembrava non voler
calare dietro le basse colline ad ovest del giardino.
Una sottile inquietudine irrompe nell‟animo di Giulia, dei flash non
ancora rimossi abbagliano la sua mente: lo scarno corpo di Christine;
il suo innaturale pallore e poi quel sorriso sfuggente, ineffabile.
“Razionalizza le tue ansie” le ha ripetuto spesso il suo analista “
L‟ansia è sempre un segnale, coglilo !”.
“Se tutto questo fosse un messaggio ? Se Christine avesse bisogno di
me ? “
Il telefono ! Ecco l‟immagine che manda in dissolvenza quei flash
procurandole finalmente sollievo.
L‟avrebbe chiamata, le avrebbe raccontato quel sogno e di certo
assieme ne avrebbero riso.
Giulia fa per alzarsi dalla sua poltrona ma non sono le sue gambe a
muoverla né i suoi passi a dirigerla verso il telefono. No ! No, è la
sua mente. Giulia si libra nell‟aria, Giulia si sente leggera, adesso il
suo corpo sembra sfuggire alla più elementare delle leggi fisiche
perché Giulia adesso è libera dalle leggi fisiche e la poltrona è
sempre più giù, si fa distante, sempre più distante.
Un puntino, poi sparisce nel nulla.
Qualcun altro al suo posto telefonerà a Christine.
~ 164 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Riccardo Fabiani
La processione
Era troppo grande per lui.
Lo sapeva dall'inizio, eppure si era ostinato a trasportarla fino a lì.
Voleva farlo da solo, per dimostrare qualcosa a tutti loro.
A tutti quei figli di puttana che abitavano a valle, che ne sapevano
loro della Madonna di Legno?
Abituati ad agitare le mani festose e sudate in occasione delle feste
comandate.
Nessuno aveva mai passato la notte chiuso nella stalla, con l'odore di
segatura e il fiato che si addensava piano nella pallida luce elettrica.
Solo lui conosceva il tormento nascosto dietro a quelle vesti, dietro
quelle pieghe all'apparenza così semplici, ma così perfette.
La festa del giorno dopo sarebbe stato il coronamento di un sogno,
l'esistenza intera di un uomo chino sulla sgorbia, nobilitata da
quell'unico, trionfante momento.
Così si era alzato prima dell'alba, per gioire dei dettagli di quell'opera
misteriosa, scaturita dal suo scalpello e dalla sua rabbia, ma che
probabilmente era lì da sempre, afona nel legno scuro.
In silenzio aveva ripassato ogni segreto dettaglio, ogni anfratto e
asperità di quel blocco levigato che ora era una donna. Una sacra
immagine di splendida profanità.
La stalla era silenziosa, aspettava il suo respiro, o quello della statua.
Si inginocchiò, consapevole che ciò che aveva creato non gli
apparteneva più; pianse sommessamente. Tutto ad un tratto capì che
nessuno doveva toccarla, non poteva permetterlo. Nessuna mano
meno amorevole, meno sollecita della sua poteva accostarsi a quel
simulacro. Così si avvolse nel pastrano, e preparò il carretto. Il cielo
schiariva e da lontano il campanile scavava una sagoma nera nella
perfezione cerulea del mattino.
Si accostò alla base della statua.
Dopo aver messo dei robusti ceppi di legno sotto le ruote, iniziò a
spingere piano la base della figura, facendola scivolare sul pianale.
~ 165 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Passò un tempo infinito, credette che nulla si sarebbe mai mosso di
lì, ma infine era fatta. La donna di legno era sul carro.
Un riso sdentato impreziosì quei lineamenti trascurati, mentre il
sudore colava copioso sulla fronte del vecchio.
Sarebbero venuti i Portatori, di lì a poche ore.
Volevano rubarla, trascinarla in mezzo alla folla, tra grida e pianti.
Ma lui sapeva che almeno questo viaggio spettava a lui, non poteva
lasciare che la portassero via così.
Si incamminò piano verso il paese, sbuffando sotto il peso del carico.
Gli uccelli si zittivano al suo passaggio; un vecchio e una donna di
legno, solo il cigolio delle ruote ed un respiro affannato.
Per arrivare a valle doveva percorrere una strada in discesa, la sua
bottega era isolata, costruita nel fitto del bosco.
Fu proprio all'ultimo tornante, quando già il sole sorgeva oltre le
montagne.
Il perno gemette, ci fu uno schianto sordo e la donna di legno si
inclinò in avanti, oltre il bordo della scarpata.
Non fu tempo, né pensiero. Il vecchio si parò dinnanzi alla statua,
come se il suo esile sforzo potesse salvarla.
Il mondo si fermò, l'uomo vide quel volto eterno che si avvicinava al
suo, con uno sguardo come di chi ha capito ogni cosa.
E seppe che era la fine. Abbracciò le gambe celate nel leccio, non
fece alcuna resistenza. Sorrise, mentre gli uccelli riprendevano a
cantare.
Scivolarono entrambi, giù nel precipizio.
Li trovarono lì, tra le rocce, che ancora sorridevano.
~ 166 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Elena Facci
Ormai ci siamo
Questo il primo pensiero di quel giorno, al mio risveglio nel letto di
mamma, mentre sento il rumore della pioggia che batte violenta sui
vetri e mi immagino grandi nuvoloni che annebbiano l‟intera città.
Un rumore che sarebbe stato anche rilassante, se ascoltato durante
una mattina domenicale, dove ci si può permettere di sonnecchiare
rimanendo abbracciati alle coperte per ore; una triste
melodia invece, se udita al risveglio del giorno più atteso della vita di
ogni donna: il giorno del suo matrimonio.
Cerco di riprendermi pian piano dallo shock del suono della sveglia e
dalla giornata della vigilia, trascorsa malamente, in compagnia di
nausee e disturbi intestinali che mi hanno lasciato più simile a uno
straccio che a una Cenerentola che deve coronare il suo sogno.
Anni e anni ad attendere l‟uomo giusto, mesi e mesi di preparativi
spesi per organizzare il grande evento, giorni e giorni dedicati ai
dettagli più insignificanti che al mio futuro marito mai sarebbero
venuti in mente… nonostante tutti questi i miei sforzi, la giornata
sembra però non iniziare nel migliore dei modi.
Cerco ugualmente di farmi coraggio, scendo dal letto e mi dico:
“Elena, anche se piove, sarà il giorno più bello della tua vita”. Nello
stesso momento, il vittimismo che fa parte di me affiora
all‟improvviso e mi sussurra: “Che ci vai a fare tre ore dalla
parrucchiera a sistemare capello per capello, riccio per riccio, per poi
scendere dalla macchina sotto un diluvio universale?”
Mi alzo, saluto timorosamente mia madre, il cui umore avrebbe
sicuramente condizionato il mio per l‟intera giornata. Lei, ancor più
pessimista, sconsolata, problematica e difficile di quanto lo sia io,
inaspettatamente sorride e dice: “Coraggio, bisogna prendere quello
che viene”.
Meravigliata, tiro un bel sospiro di sollievo e anzi, sono quasi
contenta, perché conoscendola, poteva andarmi molto peggio.
Infilo una tuta al volo, mangio qualcosina (ora non ricordo cosa) e mi
avvio di corsa verso la macchina, riparata dal mio ombrello rosa a
~ 167 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
pallini bianchi, unica macchia di colore sullo sfondo del cielo nero.
Salgo frettolosamente e mi siedo sul sedile completamente bagnato a
causa di una mia dimenticanza. Ebbene sì, avevo anche lasciato il
finestrino aperto. Fra mille imprecazioni scendo, chiamo mia madre,
chiedo un asciugamano che mi viene lanciato dalla finestra, e metto
finalmente in moto il mio maggiolone nero abbellito con un girasole
giallo, che quel giorno mi ha fatto un po‟di coraggio come l‟ombrello
rosa sullo sfondo del cielo nero.
Se il detto “Sposa bagnata, sposa fortunata” funziona davvero...
allora è sicuro che sarei stata la sposa più felice del mondo!
Dalla parrucchiera vengo accolta con una gioia innaturale, quasi
esagerata. Probabilmente ero una sposa non invidiata e nessuno
avrebbe voluto essere al posto mio con una giornata così.
Mi fanno sedere sopra un vero trono, abilitato anche per fare i
massaggi, davanti ad uno specchio ovale pieno di luci ... la più bella
del reame dovevo essere io quel giorno, tanto valeva farsi passare
l‟espressione da vittima, che dal risveglio non mi aveva ancora
abbandonato.
I preparativi sono frenetici e si susseguono l‟uno dopo l‟altro, il
tempo vola, l‟ansia cresce, e in un batter d‟occhio mi ritrovo in
macchina, nella strada verso casa. Nel frattempo ha smesso di
piovere,dietro le nuvole sembra pure affacciarsi un pallido sole e, da
questo momento in poi, inizio finalmente a godermi la mia giornata e
a sentirmi veramente me stessa.
Al rientro a casa trovo amici, parenti, mi vesto velocissimamente,
mamma e testimone improvvisano ed elaborano un trattato sul giusto
posizionamento del velo sull‟acconciatura, sbagliando probabilmente
qualcosa, anzi sicuramente, a causa dell‟emozione.
Nel frattempo arriva mio padre e mi trova già vestita. Non fa nessun
commento vedendomi con l‟abito nuziale; non è mai stato di molte
parole, ma in questa occasione probabilmente le ha proprio perse
tutte. Il nostro è un rapporto complicato, dovuto alla separazione da
mia madre avvenuta quando ero ancora una ragazzina. Il fallimento
del matrimonio dei miei genitori mi ha sempre rovinato, e continuava
ancora a rovinarmi intere giornate.
Oggi, però, ciò non doveva succedere.
E‟ il momento di partire, abbandono il mio cellulare sul tavolino del
soggiorno, penso che forse sarà l‟unica occasione in vita cui riuscirò
~ 168 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
a farlo, perché a causa dei miei timori e paure, credo sia sempre
meglio essere raggiungibili, ovunque, anche in Polinesia, meta del
mio viaggio di nozze (anche se da laggiù avrei potuto fare ben poco).
Penso che in vita non si ripresenterà mai una situazione simile, dove
siamo tutti presenti e non c‟è da preoccuparsi per nessuno. Quasi
fantascienza per me.
Scendo dalle scale, attorniata da fotografi e dal cameraman addetto
alle riprese. Potessi tornare indietro, farei un matrimonio senza
fotografi ufficiali. Nonostante avessi espresso il desiderio di volere
solamente foto spontanee, loro ti assillano con pose e scene da soap
opera per l‟intera giornata, trasformandoti in Ridge e Brooke del
caso.
Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la chiesa. Nelle mie
fantasie ho sempre sognato e immaginato il momento del mio arrivo
in chiesa vestita da sposa. Ci pensavo anche quando non avevo un
fidanzato, o nei momenti bui della mia esistenza. Oggi quella mia
vecchia fantasia sta per trasformarsi in realtà. Però sono felice, tanto
felice…guardando fuori dai finestrini dell‟auto le scene di vita
quotidiana che si svolgono in un sabato qualunque per molti, ma non
per me, mi godo gli ultimi attimi di tranquillità, prima di scendere
sotto i riflettori…
E ora, quasi quattro mesi dopo, è bello ripensare a quante cose sono
poi successe gli attimi dopo.
Seduta sul sedile posteriore della macchina ultimo modello, che sono
impazzita per trovare, ancora non sapevo come sarebbe stato
emozionante vedere Marco; non sapevo che le uniche due persone
che avrei baciato al mio arrivo sarebbero state i miei suoceri; non
sapevo che la madre di Marco, dalla confusione, avrebbe tentato di
entrare in chiesa da sola, quasi dimenticandosi di accompagnare il
figlio all‟altare. Non sapevo che al momento del mio ingresso, sulle
note della marcia nuziale che da sempre mi aveva commosso ai
matrimoni di amici e parenti, il mio vestito si sarebbe incastrato sotto
la porta d‟ingresso della chiesa, costringendo mio padre ad andare a
liberarmi; non sapevo e non immaginavo lontanamente che il fatidico
velo, troppo studiato ma mal fissato, avrebbe preso il volo, assieme a
tutti i pensieri e le preoccupazioni che avevo avuto fino a quel
momento. E soprattutto non sapevo, che dalla mia entrata in chiesa in
poi, saremmo esistiti solo Marco, io e la nostra unione che si stava
~ 169 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
per compiere. In fondo in fondo, quello che volevo e che conta
realmente, era solamente questo.
~ 170 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Fabio Fanfani
Garrisca al vento il labaro……
Il sole d‟improvviso si oscurò.
Come genitori amorevoli che schermano gli occhi del proprio figlio
per celargli l‟umana violenza, cosi i cirri sembrava stessero
proteggendo l‟aurea verginità. Un‟impresa memorabile si stagliava
all‟orizzonte, nessuno nei secoli a venire avrebbe mai potuto
dimenticarla, obliarla dalla memoria collettiva.
Tutto era pronto per l‟evento, le bandiere garrivano al vento che
veloce fuggiva via per timore di trovarsi coinvolto nella battaglia.
Tutti erano a conoscenza del fatto che quella faida non avrebbe dato
un vincitore assoluto, nessuno sarebbe mai riuscito ad annientare gli
altri se non annientando se stesso. Uno scontro futile allora, senza
senso ma che concedeva ai partecipanti la possibilità di veder
realizzato un sogno, il proprio nemico a terra agonizzante che
chiedeva pietà.
Percepivano già l‟adrenalina scorrere nelle loro vene, percorrere la
totalità del proprio corpo.
Si sentivano leoni chiusi in gabbia, belve fameliche pronte a sbranare
tutto e tutti.
Non esistevano più né paura e né rimorso, le persone care erano
scomparse dalle loro menti lasciando spazio ad immagini di sangue e
morte. La violenza stava prendendo il sopravvento nei loro cuori
oscurando tutto il resto.
Al comando del loro comandante si gettarono all‟attacco come un
unico essere bramoso di sangue e carne. Se qualcuno avesse potuto
guardare nei loro occhi in quell‟istante non avrebbe visto niente, il
loro sguardo era vacuo ed assente, sembrava procedessero
meccanicamente non rendendosi neppure conto di ciò che stava
succedendo.
Il silenzio era stato squarciato dalle roboanti grida di battaglia e dal
rumore degli svelti passi che divenendo corsa gettavano nella
mischia i contendenti.
~ 171 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Il loro capitano alla testa dei suoi uomini brandiva l‟arma menando
fendenti come se quello strumento di morte fosse una protesi del suo
stesso corpo ancora giovane nonostante gli anni trascorsi, reso ancor
più vigoroso dalle battaglie succedutesi nella sua vita.
Non vi era una netta separazione tra le due fazioni, il sangue
sgorgava a fiotti dalle ferite aperte dei caduti, sangue amico o nemico
non importava colava copioso dalle loro mani.
Si contendevano la vittoria avanzando ed arretrando decisi a versare
il proprio sangue per la causa.
Il furto del vessillo aveva scatenato quell‟apocalisse; alla testa di un
manipolo di uomini, il loro capitano invitto, si era diretto verso
l‟alfiere nemico che sorreggeva, con disprezzo, lo stendardo oggetto
della contesa e che doveva essere riconquistato a costo della vita.
Sperduto in quella mischia, il comandante, lasciato solo dai suoi
uomini più fidati e senza protezione, era stato colpito sulla nuca con
un randello in faggio antico. Assassinato come un vecchio
imperatore romano cadde senza rialzarsi più, un bruto contemporaneo aveva compiuto il suo dovere.
Il re era morto.
Un successore si impossessò immediatamente del trono, non
lasciando ad altri la possibilità, arraffando nella confusione il drappo
ormai stracciato e leso.
Nonostante tutto la battaglia era vinta, sino al prossimo scontro erano
loro gli eroi che attraverso mille vicissitudini, si erano rimpossessati
del labaro trafugato.
Sul selciato oramai rimanevano soltanto chiazze di sangue
raggrumato, rimasto lì a ricordo della battaglia.
Lo stadio si era ormai svuotato dei tifosi tornati alle loro calde ed
accoglienti case; al freddo vento autunnale la bandiera schioccava
come a ritmare l‟inno di guerra dei vincitori, misto a lamenti di
anime perdute, che come un sol grido riecheggiava nei secoli
“Garrisca al vento il labaro viola, sui campi della sfida e del valore.
Una speranza viva ci consola abbiamo undici atleti ed un solo
cuore!”
~ 172 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alice Fasano
Stampatello e Corsivo
Quando arriva l‟estate è impossibile non fermarsi a pensare. Sembra
di assaporare ancora il suo odore, provare lo stesso incredibile
stupore alla vista di quel corpo nudo e perfetto, il suono della sua
voce e il sorriso preso da mille canzoni. Un mese passato a sognare,
volare, amare come mai prima e, forse, neanche dopo. Viene in
mente anche l‟anno seguente. Un anno passato a dimenticare per poi
ritrovarsi e scoprire di essere così cambiati da non riuscire più a
toccarsi, parlarsi o semplicemente guardarsi. Il dolore per non aver
saputo vivere il momento fino in fondo, il rammarico di essere stato
meno fortunato di quanto pensava. Poi mentre il sole sorge e la
sigaretta smette di bruciare, ecco che ritornano in mente i ricordi più
belli. Come quel film che pensava fosse il loro, o il bacio sotto la
luna distesi su un prato. Giusto il tempo di una sigaretta, poi deve per
forza ritornare al presente, agli studi che proseguono a rilento, a un
altro amore da curare e da vivere pienamente. Tanto, ogni giorno
d‟estate, ogni alba in riva al mare servirà a ricordare, non c‟è fretta, i
ricordi non svaniranno mai.
Le strade di Lisbona sono affollate e il sole irrompe tra le nuvole
come un fiume nell‟oceano. Con una bicicletta arrugginita ma
altrettanto agile, attraversa le vie del centro cantando una vecchia
canzone degli Stones. Non rifiuta un sorriso a nessuno e si ferma a
salutare tutte quelle persone che, in quegli straordinari mesi
portoghesi, sono state il contorno di una vita nuova e mai banale. Il
banco della frutta su Calle Sant Pere è coloratissimo. In bella vista, ci
sono delle mele verdi succose e saporite solo a guardarle. Mentre si
ferma ad assaggiarle, un sorriso le attraversa il volto. Un ragazzo
tanto dolce non lo aveva più incontrato, nessuno più si era strappato
il cuore e lo aveva lasciato tra le sue mani. Diceva di ricordargli il
sapore di una mela verde, fresca e succosa. Purtroppo il tempo e il
destino non gli aveva favoriti. Avrebbero potuto passare momenti
ancora più intensi, ma entrambi avevano scelto momenti sbagliati,
diversi. Dopo aver pagato il vecchio venditore, e aver sprecato un
~ 173 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
altro sorriso, riprende a pedalare, più veloce però, come a voler
abbandonare quei vecchi ricordi.
Non riesce proprio a dormire. Guarda per tutta la notte quel viso così
perfetto da sembrare finto. Lo guarda più intensamente che può,
come a volerlo fotografare per non dimenticarlo mai. L‟alba ormai
illumina il cielo e qualche vecchia signora raccoglie le conchiglie sul
bagnasciuga. Facendo attenzione a non svegliare il suo angelo, si
alza e attraversa la spiaggia. Cammina lentamente verso il pontile e
giunto alla fine si accende una sigaretta. Rivolto al mare, chiede a
Dio se il suo destino fosse quello di inseguire il suo dolce amore per
sempre. Se così fosse, senza dubbio , non avrebbe mai smesso di
farlo. Dopo qualche minuto guarda la spiaggia. Lo sta chiamando
con la mano, e lui, dopo aver fatto un tiro e aver salutato il mare,
ritorna da lei. Si è appena svegliata e sembra riposata, anche se, come
una bambina, si lamenta di non poter dormire ancora. La bacia sul
collo e l‟aiuta a raccogliere il saccopelo. Tornando verso casa sono
felici, e prima di salutarsi si baciano a lungo, senza parlare, senza
smettere mai di respirare il loro amore.
Mentre lascia la bici a fiori sotto un portico, ripete a se stessa di
essere forte. Deve dire basta quando è ancora in tempo. Voleva
restare sola, libera da alcun legame. Ma appena rivede i suoi occhi
capisce di non poter resistere. Non sa chi sarà a soffrire, sa che ora
non può andare diversamente. Passano la giornata su una panchina,
baciandosi, ridendo, parlando di cose senza senso. Si sente immersa
nel cuore di quel ragazzo innamorato. Le sue braccia la stringono
sicure, il suo respiro si fa affannato ad ogni carezza. Su quella
panchina, senza spogliarsi, hanno fatto l‟amore. Quando arriva la
sera non ha più dubbi. Vive un sogno, vola, come la dea di un poeta
d‟Amore. Il giorno seguente, provano a guardare un film,
inutilmente. Lei lo stringe a sé, lui si perde nei suoi seni, perfetti e
palpitanti. Quando non è con lui pensa al suo corpo forte e
avvolgente, alle sue dolci parole, alla possibilità che possa veramente
durare. D‟improvviso però, una notte, quando la mente è libera dalle
catene con cui la leghiamo, la consapevolezza di andare verso la fine,
attraversando il cielo, ma comunque verso la fine, diventa un terribile
incubo.
Piange. La pioggia cade torrenziale sull‟asfalto. Non riesce ne a
muoversi, ne a pensare. Qualche passante si ferma per dare una
~ 174 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
mano. Lui non risponde. Il suo angelo l‟ha abbandonato. Vorrebbe
poter cambiare le cose, ma ormai non è più possibile. Il portone di lei
è a pochi metri. Si alza e barcollando, stordito dall‟alcol e dal dolore,
cammina verso quel cancello rosso rame che aveva imparato ad
amare. Si distende a terra e quasi sviene, senza smettere di piangere.
Qualche ora dopo un suo amico lo viene a prendere. Se lo carica a
forza sulle spalle e lo fa entrare in macchina. Non piove, non ha mai
piovuto, erano le sue lacrime a bagnare il cielo. Al suo risveglio ha
un gran mal di testa e lo zigomo sinistro è indolenzito. Ripensa alla
sera prima e, dopo qualche istante, impreca contro il cielo. Per la
prima volta in due mesi lei non c‟è più. Il dolore non lo abbandona
neanche dopo diverse settimane. L‟amore di molte donne, le droghe
più seducenti non possono farlo svanire. Su quel pontile, mesi prima,
Dio non gli aveva risposto. Ora capiva: il suo destino era quello di
inseguire un fantasma, una donna che non era mai stata sua e che
aveva sempre e solo sognato.
Finalmente, dopo mesi passati a riflettere su sé stessa, si sentiva di
nuovo viva. Il suo corpo, e il suo bisogno di piacere, iniziava a
conoscerli sempre meglio. Voleva godere pienamente delle virtù di
una vita povera di sentimenti, ma ricca di sensazioni. Ricominciava a
sentirsi leggera. Rovistando tra le tante cose inutili che conservava
nella sua stanza, un giorno le capitò tra le mani una vecchia edizione
de “I fiori del male” di Charles Baudelaire. Una dedica scritta a
matita “per non smettere mai di sognare, amare, volare. Sempre tuo
G”. Dolci ricordi le tornavano in mente. Un pezzo di carta come
segna libro, portava ad una fantastica poesia. “Il Gatto”: era la loro
preferita. Gliela invia col cellulare. Dopo qualche secondo ritorna il
messaggio con la fine della strofa. Quelle emozioni non le
appartenevano più, ma ora che si sentiva pronta, voleva sentire il
corpo di quel giovane innamorato dentro di lei, voleva sciogliersi nel
suo ardore. Non dovette aspettare a lungo. Pochi giorni dopo, un
biglietto scritto a penna su un tovagliolo le chiedeva di ritornare da
lui.
Non riusciva a stare fermo. Il mondo girava intorno a lui
vorticosamente. Finalmente , finalmente è tornata da lui. Quando si
ritrova davanti al portone rosso rame, tenta di calmarsi e suona il
campanello. Gli risponde la voce di un angelo. Sale le scale
lentamente, assaporando quel momento. La sua bellezza è ancora
~ 175 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
folgorante. Il suo sorriso lo illumina come un tempo. Dentro i suoi
occhi, però, qualcosa è cambiato. Quando arrivano in camera sua, gli
sembrano diverse: la stanza, come se quel luogo non fosse più tanto
unico e speciale, e lei. Lo sente sul suo corpo, in quei maledetti occhi
nocciola. Anche se era tornata da lui, lei non sarebbe mai stata sua.
Nonostante la sua incredibile bellezza, non era più quel sogno che
aveva inseguito, quella dea irraggiungibile che aveva magicamente
scelto lui. Era diventata una scopata. Lui parte piano, tutto in
silenzio, e finisce troppo presto. Fumano una sigaretta. Se l‟era
sognato mille volte quel momento, ma certo in maniera molto
diversa. Uscendo nella notte, sapeva che non sarebbe più tornato in
quella casa e che comunque la donna da lui amata era rimasta su
quella spiaggia.
La casa su Central Park si riempie di luce come ogni giorno di
primavera. Una magia quotidiana. Il suo compagno è già uscito, lei è
come al solito in ritardo. Lo studio di architettura dove lavora è un
luogo straordinario, si respira la novità e la voglia di costruire il
futuro. Nella metro legge distrattamente un giornale ascoltando la
musica. Un trafiletto nella pagina di cultura e spettacolo, annuncia
che al Coventry Hotel G.C., uno scrittore italiano, presenterà il suo
ultimo libro. Il nome non l‟ha dimenticato, i libri li ha letti tutti,
ritrovandosi di tanto in tanto tra i suoi versi e nei suoi personaggi. E‟
passata una vita, così si sforza di non darci troppo peso e ritorna alle
pagine di cronaca. La fermata della metro arriva velocemente , lascia
il giornale sul sedile e si immerge in “Simpathy for the Devil”,
cantata a squarcia gola da quel pazzo di Mick Jagger. La sua giornata
ricomincia e suoi ricordi svaniscono tra i tunnel della metro.
~ 176 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Pasquale Faseli
Irredimibile
“Riguardo a questi pregiudizi dei contemporanei ciò che più mi turba
e contrista è la perdita di autorità acquisita in altre maniere”.
“Incredibile!”
“Cosa c‟è di incredibile?”
“Si dice per dire, incredibile: ma ormai è tutto credibile.”.
“Dunque dicevo, dei pregiudizi, per eliminarli basta toglierli dalla
piazza”.
“Ed io che speravo di capirci qualcosa, invece lei divaga”.
“Cosa vuol sapere di preciso?”
“Per esempio, lei nella sua relazione ha fatto l‟esempio del seme, lo
stesso seme, piantato in località diverse. In queste località nasce la
stessa pianta ma poi cresce in modo dissimile, vigorosa se il clima è
adatto, gracile se il clima non le confà. E così sarebbe la scuola,
laddove l‟ambiente è favorevole produce buona cultura e sforna
studenti preparati, dove l‟ambiente è ostile si adatta al clima sociale,
non produce cultura e sforna studenti somari. Questo lei dice nella
sua relazione e questo è ciò che avviene realmente. Dunque il
pregiudizio dove sta?”
“La pianta gracile non sa di essere gracile a causa del clima non
adatto; sa solo che quella è la sua condizione e che, in quel luogo, per
essa c‟è solo quella condizione; e l‟alternativa sarebbe il non esserci.
Noi quindi cosa vogliamo, che non ci sia nessuna scuola, o che
almeno ce ne sia una, anche se non rispecchia la nostra idea di
scuola? Perché il punto è proprio questo: oggi qual è la scuola
giusta? Può esistere ancora un‟idea di scuola calata dall‟alto senza
alcuna attinenza con la realtà locale?”
“L‟idea di scuola deve essere unica per tutti, quando è diversa la si
chiami in un‟altra maniera. Lei sa bene, meglio di me, che quei
somari che escono da certe scuole hanno lo stesso titolo di studio di
quelli che escono preparati, preparatissimi da altre. E questi somari
vanno ad occupare i posti statali, sottraendoli a quelli che li
~ 177 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
meriterebbero, riempiendo di vuoto quei settori della funzione
pubblica che sono a servizio della gente”.
“Su questo siamo d‟accordo. Io però intendevo un‟altra cosa. Se
nelle regioni dove si producono somari l‟idea di scuola è quella,
niente di male. L‟importante che rimangano in quelle realtà senza
uscire dai confini dell‟area che li ha formati, o sfornati. Tu vuoi
diplomati o laureati incompetenti? Benissimo, non ti lamentare se poi
te li ritrovi nelle stesse scuole o negli uffici a gestire la cosa pubblica.
Pertanto io propongo un titolo di studio a validità regionale, che fuori
da quella regione che, lo ha rilasciato, sia solo un pezzo di carta”.
“Sarebbe una buona idea se non fosse contraria alla Costituzione”.
“Su questo punto ho già la soluzione. L‟attuale Diploma di
Geometra, si chiamerà per esempio, in Sicilia, Diploma di Geometra
siciliano, in Lombardia, Diploma di Geometra lombardo e così via
per ogni regione e per ogni titolo di studio”.
“Perfetto, non è ancora la quadratura del cerchio, ma ci è arrivato
vicino”.
Rimasero entrambi in silenzio a guardare il paesaggio. Il sole,
tagliato obliquamente da una striscia di nuvole, sembrava una pupilla
guercia. La vettura, scorrendo lentamente, rientrava in Roma.
~ 178 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mirella Fassi
Gli occhi della gatta
Hans stava dando calci ad una palla quando sentì sua madre che lo
chiamava. Sudato ed obbediente corse verso di lei che stava
preparando i canederli. La cucina aveva un buon profumo di mele al
forno e di brodo di carne. Il ragazzo amava quella mamma bionda e
dalle forme abbondanti. Vicino a lei si sentiva al sicuro. I suoi modi
un po‟ bruschi gli piacevano ed era sempre pronto, meglio quasi
sempre, ad obbedirle.
La donna alzò gli occhi verso il figlio senza smettere di lavorare il
pane ammollato nel latte. “Hans, la gatta è un paio di giorni che è
sparita. Deve aver fatto i piccoli ed averli nascosti. L‟ha già fatto, per
poi riapparire con una nidiata di cinque micini. Dobbiamo trovarla e
toglierglieli. Và a cercarla. Svelto!”
Il ragazzo volse veloce le spalle e si mise a correre alla ricerca della
gatta. Era sottile e biondo come la madre. Sapeva bene i vari
nascondigli di Freya, così si chiamava la micia, che lui amava e con
cui giocava da quando gliela avevano regalata al compimento del
terzo anno. Ora ne aveva otto e quindi il loro legame durava da
cinque anni, tantissimi nella vita di un bambino. Corse per i prati che
ricoprivano la collina ed andò a vedere se Freya si era rifugiata in
una tana naturale fatta di sassi e di radici. Non c‟era. Cominciò a
chiamarla, ma sapeva che non avrebbe risposto. Già una volta le
avevano tolto i micini e lei aveva una buona memoria. Andò nel
casotto degli attrezzi e guardò negli angolini più nascosti. La gatta
non c‟era. Un pensiero terribile gli passò per la mente:”E se fosse
morta? Se se la fosse mangiata la volpe?” Agitato e rosso in viso
continuò la sua ricerca. Forse non si era allontanata troppo dalla
casa. Così pensò di andare a vedere in cantina. Lì si accatastavano
vecchi mobili, valige piene di coperte e vestiti, barattoli di
marmellata, rotoli di spago. Cominciò ad esplorare dappertutto, ma
non la vedeva. Aveva deciso che non era neppure lì, quando sentì un
flebile miagolio. Andò a vedere se per caso non si fosse infilata in un
vecchio armadio. L‟anta era semiaperta e lì stava Freya con tre
~ 179 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
piccolini attaccati alle mammelle. Si chinò verso di lei ed allungò la
mano per prenderla, ma incontrò i suoi occhi verdi disperati. No, non
l‟avrebbe denunciata. Non avrebbe permesso che le portassero via i
suoi piccoli. Non poteva, aveva sentito la sua paura e la sua
angoscia. “Non avere paura, non dirò niente. Appena posso ti porto
da mangiare.” Di nuovo allungò la mano per carezzare la micia e
stringere con lei un‟alleanza.
Mentì, senza sentire il minimo rimorso, a sua madre e per giorni e
giorni nutrì la gatta di nascosto.
Hans era entrato in un incubo che sembrava non avere fine. Divise,
marce, spari, sangue, feriti, morti, paura, sonno, fame, freddo, caldo
e stanchezza, stanchezza, stanchezza. Era stato tutto orribile, ma ora
a Varsavia stava succedendo qualcosa di inimmaginabile. Era
costretto a caricare con la forza, su camion, dei poveri cristi che
erano Ebrei. I suoi compagni si riempivano di birra, ma lui era
sempre stato lo zimbello dei compagni per la sua ripugnanza
all‟alcol. Non lo consolava, in compenso gli dava nausea e voglia di
piangere. Faceva quello che gli ordinavano, perché pensava che non
potesse esistere un mondo dove chi comanda non è consapevole di
quello che intima. Non poteva essere inutile che a diciannove anni lo
avessero strappato alla sua vita di ragazzo per compiere atti orribile
di cui non capiva il senso. Non poteva essere inutile sopportare tutte
quelle fatiche, assistere a tutti quegli orrori, fare cose terribili,
sentirsi distrutto nell‟anima e nel corpo. Per resistere divenne un
automa senza volontà, senza sensibilità, senza giudizio, senza
ricordi, senza speranze.
Poi una sera si trovava con i suoi commilitoni sbronzi in una taverna.
Gli altri erano chiassosi e sbronzi mentre lui non aveva toccato un
goccio di birra. Fu per questo che l‟ufficiale entrato
improvvisamente nella birreria gli ordinò di constatare che nelle case
non si fosse nascosto qualcuno.
Lui scattò in piedi, volse veloce le spalle e corse alla ricerca degli
Ebrei sfuggiti alla retata della mattina. Era lucido e dopo aver
cercato in vari angoli sentì il vagito di un neonato. Si diresse verso il
suono e scostò una tenda dietro la quale si nascondeva una donna
che allattava il suo bambino. Meccanicamente si chinò verso di lei
per afferrarla quando incontrò i suoi occhi verdi. Li aveva già visti e
sentì il dolore e la paura che esprimevano. “Non avere paura” le
~ 180 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sussurrò “Non dirò nulla. Appena posso ti porterò qualcosa da
mangiare”.
Mentì senza provare rimorso al suo ufficiale e per giorni e giorni
portò da mangiare alla donna.
Fu l‟immagine dei suoi occhi grati, quando le portò un po‟ di pane e
di latte, che gli permisero di perire sorridendo, quando morì
dissanguato colpito da una scheggia.
~ 181 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mario Faticato
L‟uomo gemello
All‟impatto con l‟acqua, il sassolino lanciato in superficie, formò una
serie di cerchi concentrici che andarono man mano a sparire.
Un uomo e un giovane lo guardavano mentre lentamente, dondolato
dalle onde del mare, scendeva nelle profondità.
L‟acqua era limpida, trasparente, perché il sole, che splendeva forte,
la penetrava, illuminandone tutto il sottostante.
“Secondo te, quale dovrebbe essere lo scopo di quel sassolino, ora?”
Chiese l‟uomo mentre la pietruzza si incastonava tra alcuni scogli.
“ Mah, forse quello di arrivare in fondo” rispose il giovane
stringendosi nelle spalle.
“Ciò che hai appena detto è una conseguenza inevitabile dettata dal
suo peso, dalla forza di gravità, dalla densità dell‟acqua…il suo
scopo dovrebbe essere quello di restare un sassolino.”
Il giovane aggrottò le ciglia perplesso perché non capiva il senso di
quelle parole e l‟uomo accortosi di ciò cercò di spiegarsi
“Io sono stato il suo destino poco fa. Come si sentirà un sassolino tra
quegli ammassi di pietra bagnata? Inopportuno o viceversa: onorato,
gratificato…”
“Pensa invece ad un sassolino nella sabbia. Può sentirsi enorme
rispetto a un granello di sabbia, così come microscopico rispetto a un
sasso di mare.”
Alcuni uomini sono come quel sassolino né piccoli né grandi.
Il male sta nel rischio di perdere la visione della realtà; la vera paura
è che alla fine ci si crede granello o scoglio. Diceva Kessel che ogni
uomo nasce gemello: colui che è e colui che crede di essere
Ma l‟uomo parlava da solo, non s‟accorse che il giovane si divertiva,
non l‟ascoltava più; indaffarato a lanciare lontano nell‟acqua alcuni
sassolini.
~ 182 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Donatella Fava
Chicken or fish?
Il copriletto cremisi, i cuscini soffici e gonfi, le tende appena scostate
sulla grande finestra. Ci siamo. Lei stava lì, un po‟ ansimante per la
fatica, sulla soglia della camera 416 con la mano ancora ferma
sull‟interruttore della luce, il trolley a bloccare la porta e le carte del
check-in che le scivolavano di sotto il braccio. Entrò trascinando la
valigia che affondava nella moquette soffice. Si mise a sedere sul
bordo del letto e subito si disfece della borsa a tracolla che le aveva
lasciato un grosso segno rosso sulla spalla. La tv era già sintonizzata
e il telecomando aspettava sul comodino, come se quello non fosse
un arrivo bensì un ritorno. Come a casa, quando esci per una spesa
veloce e lasci il televisore acceso.
Lui era ancora al lavoro ed aveva dato disposizione alla reception
affinché le consegnassero una copia delle chiavi cosicché potesse
mettersi comoda e darsi una rinfrescata. Aveva anche scelto una
bellissima stanza del trentaseiesimo piano, probabilmente per darsi
un tono e fare colpo, pensò lei.
Un giubbotto era appoggiato sullo schienale della sedia e così,
d‟istinto, le era venuto di annusarlo, chissà perchè.
Non pensava si sarebbero mai rivisti. Effettivamente nessuno in
ufficio lo pensava, e neppure probabilmente lo sapeva. Non che ci
fosse alcun segreto, si ripeteva. Le era capitata questa occasione
perciò si era presa una settimana di ferie per tornare in una delle sue
città preferite, quella che le alleggeriva l‟anima: San Francisco.
Avevano lavorato assieme due anni su quel noiosissimo progetto ed
ancora, ricordando quel giovane consulente canadese al suo primo
giorno in ufficio, le si piegavano le labbra in un buffo sorriso
sbilenco. Due anni di lavoro meticoloso alla fine dei quali lui era
tornato alla sua vita di consulente, il nuovo pellegrino dell‟era
moderna. Poi, quando il tempo e gli impegni si erano portati via
quasi tutto quello che restava di quell‟ amicizia, era arrivata un‟email. Una di quelle che il destino a volte ti manda quando capisce
~ 183 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
che sei allo stremo, che se non ti ripiglia per i capelli non gli credi
più, che qualche lacrima te la deve anche asciugare.
“ Indovina da dove ti scrivo! “ Diceva l‟e-mail “ Sono in aeroporto
in partenza per una delle tue destinazioni preferite nella patria delle
donuts, San Francisco! ”. Allora si era ricordata delle nuvole candide
e velocissime sulle colline di San Francisco, del negozio di tè in cima
a Columbus Avenue e della baia dove il mare era sempre in battaglia
col cielo. Era troppo stanca per non cedere alla lusinga di una fuga e
per troppo tempo aveva guardato la felicità degli altri dal finestrino
di un treno.
D‟un tratto era in volo sull‟Atlantico, con un texano obeso nel sedile
a fianco e due bimbi urlanti in stereofonia per dieci lunghissime ore.
“ Chicken or fish? “
“ Madam, chicken or fish? “ le chiedeva la hostess.
Ma lei era presa dal suo personalissimo vuoto d‟aria. Aveva davvero
comperato un biglietto aereo per un ammontare pari all‟affitto
mensile del suo monolocale per recarsi all‟altro capo dell‟oceano e
passare quattro giorni ospite in albergo di un collega con il quale
aveva consumato solo qualche pasto frugale in mensa? Lo aveva
fatto davvero? A giudicare dalle nuvole bianche fuori dal finestrino
pareva proprio di sì.
“ Chicken, thanks “. Il pollo era di solito l‟opzione migliore in aereo.
Fatto salvo che si scampasse la temibilissima salsina all‟aglio. E lei
non c‟era riuscita.
Annusare un giubbotto, che ridicola! Lo riappoggiò e controllò l‟ora.
Come lo avrebbe salutato poi? E cosa si sarebbero detti dopo tutto
quel tempo? Queste domande dovevano essere state sempre lì, da
qualche parte nella sua testa, solo che adesso le tornavano su come il
pollo.
Da una piega della tenda occhieggiava San Francisco. Il sole era
sfacciato, ma ancora di più il vento. Così fresco e insistente che ti
puliva dentro anche solo a guardarlo dalla finestra. E lei ne aveva
proprio bisogno. Certo lui non sarebbe tornato prima delle cinque, il
che le lasciava tempo più che sufficiente per un gelato lì sotto in
Union Square. Quasi quasi si portava anche il bagaglio, tanto era
leggero. Borsa, valigia, giacca, aveva tutto. Sul tappeto damascato
dell‟elegantissimo corridoio i suoi passi si facevano sempre più
rapidi. Scansò per un soffio il carrello delle pulizie che
~ 184 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
un‟inserviente aveva lasciato lungo il corridoio e allora si accorse
che stava correndo. Stava davvero correndo. L‟ascensore era già al
piano. Una volta salita chiuse gli occhi per ricordare lo scorcio di
sole che si vedeva dalla stanza 416. Scese al piano terra senza
voltarsi mentre le porte alle sue spalle si richiudevano su una sagoma
scura, un‟ombra che si scorgeva appena. Allora le labbra le si
piegarono in su, in quel solito sorriso sbilenco. Ma ormai era tardi,
già si sentiva arrivare dalla hall il fresco di fuori. Era il fresco delle
cose nuove, l‟umido dell‟oceano che la veniva a chiamare. Era quello
che andava cercando, il vento di San Francisco. Questo le bastava. E
non sarebbe tornata più in quella stanza.
~ 185 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alessandro Ferrara
L‟isola
Una nuvola coprì quasi del tutto il sole.
Il vento monsonico gonfiava il cielo, all'orizzonte, agitando i
pennacchi delle lunghe palme.
Marc era steso sulla sabbia, a pochi metri dal mare. Le onde
lambivano appena la sua gamba stesa, mentre l'altra era piegata;
all'estremità una grezza benda gli avvolgeva il piede.
Aveva gli occhi socchiusi, il viso rivolto al cielo, e con una mano
stringeva la fine sabbia bianca e la faceva scorrere fra le mani.
Sembrava farina.
“Come va il piede oggi?” Chiese la donna.
L'uomo non fece nemmeno in tempo a riaprire gli occhi e a
guardarla: gli stava già accarezzando la gamba ferita e ricambiava lo
sguardo con un'espressione piena d'amore.
“Sembra come ieri. Quanto tempo ci vorrà ancora?” Chiese lui.
“Non lo so, ma devi avere pazienza, te l'ho detto. In fondo, cos'hai da
fare qui?”
Aveva maledettamente ragione: erano finiti laggiù ormai da... non
ricordava più nemmeno da quanto tempo la loro nave aveva
naufragato su quell'isola, di notte. Era tutto scuro, c'era la bufera e
sembrava che il cielo stesse scoppiando, tanto erano brutali i tuoni di
quella tempesta.
Poi si era risvegliato quasi nudo e ferito, sulla stessa spiaggia dove si
trovava ora con la donna. Lui e un altro compagno, pure lui partito su
quella nave d'inverno, dal porto di Saman. Del resto dell'equipaggio
non si rammentava ormai nemmeno i volti, figurarsi i nomi. A mala
pena ricordava ancora il suo.
“Nulla. O meglio vorrei fare molte cose, ma con il piede in queste
condizioni... Dove sei stata prima? Sei arrivata più tardi del solito
oggi”
“Ero in giro, qui vicino. Ti guardavo da dietro le piante, di nascosto:
volevo vedere cosa avresti fatto se non fossi arrivata”.
“E cosa ho fatto?”
~ 186 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Niente. Guardavi il cielo, mentre una nuvola ha coperto il sole. Non
ti sei nemmeno accorto che ti ero già accanto”.
“Già. I giorni sembrano tutti uguali, quaggiù. Chissà quando ci
troveranno”.
Marc finì quelle parole, poi riguardò la donna negli occhi che però
distolse lo sguardo; aveva anche smesso di accarezzargli la gamba.
Lui allora socchiuse le palpebre e rivolse nuovamente il viso verso il
sole: la nuvola passeggera era appena volata via.
“Hai finito di parlare con lei?” Chiese Carl.
Marc riaprì di scatto gli occhi, si voltò verso il compagno ma senza
dire una parola.
“Non hai visto che non c'è più? Con chi dovrei parlare?” Rispose poi
guardando verso il mare.
Le onde sembravano ingrossarsi, e il vento fece svolazzare una parte
della benda avvolta al piede dell'uomo.
“Ho provato ad andare aldilà del torrente, dietro la collina: ma non
sono riuscito a passare oltre i banani. Mi sa che dovremo
accontentarci del solito cibo, per un po'”.
“Verrei con te, lo sai. Ma col piede in queste condizioni... ne avrò
ancora per un po'” gli fece eco Marc.
“Almeno tu hai qualcuno che viene a curarti. Io invece continuo a
restare solo. E non so fino a quando, ancora”. Ribatté Carl.
Marc lo guardò negli occhi: provava compassione per quell'uomo,
mista ad una sensazione di fastidio che gli provocavano gli sconfitti.
Non era nemmeno riuscito ad oltrepassare il fiume, a trovare altri
animali da uccidere e mangiare, oltre ai soliti crostacei e pesci azzurri
che trovavano a mare. Bastava immergersi fino alle gambe che li
potevi prendere con le sole mani. Lui ci riusciva, il suo compagno
no. E lui aveva una gamba e un piede in più, senza ferite. Ma Carl
era fatto così e Marc l'aveva capito fin dai primi giorni sulla nave,
prima del naufragio. Però adesso erano alla pari, se così poteva dirsi.
Sulla stessa isola, maledettamente soli, in mezzo all'oceano, da
giorni, forse mesi. Almeno lui aveva quella donna.
“Quando torna le devi dire che deve prendersi cura anche di me.
Anche se non sto male. Io non so come dirglielo”. Disse il compagno
all'improvviso, fermando la sequenza dei pensieri di Marc.
Forse aveva capito che la donna non era mai esistita. E chissà, forse
nemmeno Carl era mai esistito davvero.
~ 187 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ivana Ferraris
La collina delle betulle
Era strano ritrovarsi in quel luogo dopo tanti anni … I ricordi
l‟aggredirono con la forza dirompente di un uragano e, come un
uragano, la flagellavano senza che per lei ci fosse la possibilità di
trovare riparo.
In quel pomeriggio estivo, neppure troppo caldo ma sicuramente
troppo silenzioso, ripercorreva la stradina polverosa che tagliava in
due la collina.
A destra e a sinistra betulle.
I ricordi più recenti lasciarono spazio a quelli remoti, che non capiva
più se fossero fantasie piuttosto che fatti realmente accaduti.
Lei bambina che si immergeva nel calore e nell‟odore della
campagna estiva, percependo in modo profondo e sensuale i fruscii
di infinite forme di vita…
Aveva sempre amato rimanere immobile, abbandonandosi
completamente, nel piccolo prato, nel fienile, nella cameretta che era
stata di suo padre, sotto il portico degli attrezzi, ovunque, da sola.
Soltanto così le riusciva di vedere il futuro.
Il suo futuro, a seconda dei giorni e dello stato d‟animo o dell‟umore,
era più o meno strepitoso; scienziata, attrice, archeologa…
comunque brava, famosa, avrebbe compiuto qualcosa di importante
e tutti l‟avrebbero ammirata.
C‟erano, nel suo futuro, un uomo, dei bambini, ma non avevano un
aspetto ben definito. Del resto non poteva pensare di avere di fianco
un marito che non avesse il volto di suo padre!
Chissà quanto c‟era di edipico in tutto questo o forse più
semplicemente era l‟idealizzazione di un uomo che era vissuto di
aspettative, di progetti e di emozioni, che non avevano trovato
rispondenza in una vita fatta di fatiche, di rinunce e di compromessi.
Sapeva che suo padre aveva riposto in lei tutti i suoi sogni e voleva
con tutte le sue forze non tradirlo.
~ 188 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
I giorni in campagna passavano molto pigramente e se qualcuno le
avesse chiesto come trascorreva il tempo avrebbe risposto che
“pensava”.
Non sapeva cosa fosse la noia, pensare è un‟attività molto
coinvolgente e occorre molta energia. Infatti dopo alcune ore di
“pensieri” era stanca come se avesse fatto chissà che fatiche.
Quel tempo era felice, perché era tutto solo proiettato nel futuro, quel
futuro che, era sicura, le avrebbe reso merito.
Anche la preadolescenza era stata lieve: le prime cotte, le passeggiate
la mattina della domenica, in inverno, al parco, e se era nevicato
tanto meglio!
Aveva già in parte sviluppato la sua creatività: disegnava, dipingeva,
scriveva commedie e le piaceva cantare.
Era sicura che almeno in uno di questi campi sarebbe stata qualcuno!
Non c‟era niente di razionale e di ben definito nella sua vita,
prevalevano le emozioni, le sensazioni e di nuovo i pensieri.
Poi è cambiato tutto.
Le emozioni sono diventate insicurezze, le sensazioni ansie e i
pensieri dolori.
-Non sarò un po‟ melodrammatica?- Si disse continuando a
camminare su un tappeto di erba bassa, cespuglietti di erica e felci.
No, di lì in poi la sua vita non era stata bella! Per lo meno nel suo
rapporto con i coetanei. Era ancora abbastanza felice quando era sola,
sempre che non ci fosse all‟orizzonte una festa di classe o un
compito di latino, ed era felicissima quando si trovava con la sua
famiglia, ma come usciva di casa era tutto un nascondere: il suo
corpo che non rispondeva agli schemi della moda, i suoi abiti non
firmati, le sue origine piccolo borghesi.
Dove erano finiti i sogni? La creatività? La voglia di fare qualcosa di
speciale? Tutte le sue energie erano impiegate nello sforzo di non
sembrare inadeguata, di essere all‟altezza di un ambiente che non le
passava nulla, da cui si sentiva appena tollerata.
Dopo il primo bacio, ad un compagno di scuola per cui aveva
sofferto, un susseguirsi di flirt e due grandi amori: uno per un uomo
più vecchio di lei, che l‟aveva molto gratificata ma che l‟aveva
lasciata per una più grande con cui fare un figlio per evitare il
militare! Il secondo per uno che cercava in lei la compensazione di
una delusione d‟amore.
~ 189 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Su tutto questo sfasciume c‟era M.
M. per cui ora stava male e che le stava facendo rivedere tutto il suo
passato, alla ricerca del perché di tanta sofferenza.
Allora era stato il suo unico punto fermo. Era facile appoggiarsi a lui,
parlargli per ore…Lo considerava “cosa sua” e aveva creduto che
quello che provava fosse amore; così era cominciato tutto.
Trentacinque anni fa.
In realtà sentiva che c‟era tanta confusione nella sua scelta, nei suoi
sentimenti, ma M. era una roccia, un punto fermo. Non poteva
tradirlo, né tirarsi indietro.
L‟ironia era che anche per lui era stato più o meno lo stesso: lei
“l‟aveva voluto”, malgrado la sua situazione familiare infelice, i
complessi e tutto quello che di negativo, reale o immaginato, c‟era
nella sua vita.
All‟inizio non era stato male, soprattutto i primi anni di matrimonio.
Tra mille difficoltà, la cronica mancanza di denaro erano riusciti ad
avere una casa tanto piccola quanto deliziosa, sempre piena di amici,
in cui lei aveva giocato a fare la signora…
Poi la maledetta crisi depressiva di lui, atroce nella sua
sintomatologia, notti in bianco, a parlare e parlare, senza capire cosa
stesse succedendo. E il suo uomo era diventato fragile, indifeso,
bisognoso di un aiuto che lei non poteva dargli.
E poi la sua analisi… Anni interi in cui era stata estromessa dalla sua
vita, in cui aveva cominciato a sentirsi sola. Un nuovo amore? Forse,
ma l‟aveva lasciato andare.
Da sola aveva affrontato le prove più difficili… Sola come ora nel
bosco delle betulle.
Camminava lentamente per dare spazio e tempo ai pensieri…
Erano reali tutti quegli anni trascorsi a rincorrere un ruolo che forse
non era suo? A far finta di non capire che le stavano scappando di
mano il matrimonio, il marito, le occasioni e soprattutto gli anni?
Le betulle dondolavano i rami, animate da un compatimento
partecipe… Le venne da sorridere… Le piacevano le betulle.
Decise che avrebbe dedicato loro un racconto.
Tornò a concentrarsi sul passato, ormai recente; perché si era lasciata
scappare la vita senza mai cercare di trasformare i sogni in realtà?
~ 190 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
I viaggi sognati, un certo romanticismo sognato, le attenzioni
sognate, una complicità sognata, tutto quello che voleva dal suo
rapporto era solo un desiderio che non si realizzava mai.
E allora l‟aveva punito? Lui affermava questo ed era vero, in parte.
Ma non erano più importanti la condivisione dei problemi, la fedeltà,
una buona gestione della casa, della famiglia, le cene perfette e
curate nei particolari, gli incontri informali pieni di amici e
disponibilità!
Accanto però c‟erano silenzi, serate in stanze diverse, lui sempre più
spesso via “per lavoro”.
Ora la solitudine e l‟ansia di riempire le giornate, fino a tardi, fino ad
essere esausta, in modo che le notti diventassero più brevi, le
passeggiate con l‟amica del cuore, la sua confidente di sempre, fino a
notte in una città che le sembrava oltre che bellissima, in grado di
darle conforto, con un cielo che in nessun‟ altra estate era stato così
cobalto.
Questa era storia presente.
E presente era anche la passeggiata attraverso le betulle.
Stava attraversando il bosco. Il bosco è un luogo mentale, simbolo e
archetipo universale.
Dal bosco bisogna uscire; solo chi è “diverso” può rimanere nel
bosco, trovando un suo spazio, senza esserne inghiottito.
Lei era diversa? A volte le sembrava di sì. Sta di fatto che non sapeva
cosa fare.
Non poteva tornare indietro, questo no. Però aveva paura di andare
avanti.
Quel bosco, proprio quello, lo aveva attraversato alcune volte
insieme a M. ma ora era da sola.
E se fosse rimasta lì? Si mise a sedere ai piedi di una betulla: intorno
c‟erano mirtilli, fragole selvatiche e il sole, tra le foglie, mandava un
tepore…
Non si stava male, era primo pomeriggio e c‟era ancora tempo prima
che scendesse la sera.
~ 191 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alessandra Ferrero
L'appuntamento
Emanuela guidò in silenzio fino alla chiesa, poi decise di lasciare
l'auto al parcheggio e proseguire a piedi fino ai giardini. Era una
bella sera di Maggio, l'aria fresca le accarezzava il viso, mentre
numerose cicale dal grande prato, oltre la strada, coprivano il rumore
dei suoi passi sulla ghiaia. Adesso si sentiva molto più agitata del
previsto, e non poteva trattenersi dal pensare che forse non era stata
una buona idea accettare quell'incontro, in quel posto desolato poi!
Bella non era mai stata, ma ad Enrico era sempre piaciuta, non lo
aveva dimenticato. Forse questa certezza l'aveva spinta a rischiare e
un grande bisogno di riscatto l'aveva portata a comportarsi con
l‟entusiasmo e l‟ingenuità di una ragazzina.
I tacchi altissimi delle scarpe che indossava non le permettevano di
camminare più veloce, come la crescente angoscia che si andava
impossessando di lei avrebbe voluto; di tanto in tanto rischiava di
inciampare nelle asperità del terreno. Anche il percorso della sua vita
negli ultimi tempi si era fatto difficoltoso, ma stava imparando a
tenersi in equilibrio, seppure con fatica. Come sempre ripensando a
suo marito fu aggredita da una soffocante stretta allo stomaco, si
ritrovò in un attimo nella palude della delusione e dell‟umiliazione
che la scoperta del suo tradimento avevano creato in lei e sentì
ancora quel vuoto infinito che la fine del matrimonio le aveva
lasciato nel cuore. Non l'avrebbe ammesso neppure con se stessa, no,
non era per questo che aveva accettato l'invito di Enrico.
Enrico era un suo compagno di liceo, ritrovato per caso una sera tra
le tante in cui, annoiata, trascorreva il tempo su quel social network
diventato un rifugio contro tristezza e solitudine. Enrico le aveva
chiesto amicizia: perchè no? Poi i contatti si erano fatti via via più
frequenti, tra simpatiche battute, racconti e confidenze, fino alla
richiesta di un incontro. Emanuela dopo una breve esitazione aveva
accettato. Non c'era davvero niente di male, in fondo. Ed ecco, era
arrivato l‟atteso giorno.
~ 192 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Emanuela si era preparata con accuratezza, truccata di tutto punto ed
era uscita con largo anticipo. L'appuntamento era concordato per le
nove, ai giardini oltre la chiesa nuova. - Il paese non è grande, tutto
sommato è stato necessario scegliere un posto un po' in disparte… –
pensava adesso, percorrendo la strada alberata illuminata da radi
lampioni. Quell'atmosfera rarefatta e solitaria la inquietava sempre
più. Ma ora non era più il tempo per assaporare certi pensieri, per
dare spazio ai dubbi. Giunta all'ingresso dei giardini Emanuela si
cominciò a guardare intorno in cerca del volto del suo vecchio
amico. Come l'avrebbe trovato? Certamente i suoi trasparenti occhi
verdi non dovevano essere cambiati. Ma mentre pensava, la sua
angoscia aumentava. Intorno a lei un gran vuoto. A quell'ora la zona
era sempre deserta, lo sapeva, non c'era dunque da meravigliarsi.
Un fruscio alle sua spalle la fece trasalire. Si girò con la gola secca e
le mani ghiacciate strette intorno alla borsa. “No, non c'è nessuno”,
pensò, “deve essere stata un'impressione.” In lontananza passò un
anziano signore, con il cane al guinzaglio. Restò ancora in attesa, a
disagio nei pantaloni troppo attillati. Ancora la sensazione di un
movimento alle sue spalle la fece girare di scatto. Nessuno. Il
giardino appariva perfettamente immobile alla luce soffusa di pochi
curiosi lampioni, in attesa di novità. Lentamente Emanuela cominciò
a mettere a fuoco se stessa, sola su quel piazzale, in attesa di un
amico che non vedeva da oltre vent'anni a cui si era ancorata come
un naufrago ad un'asse di legno. Non era quel semplice pezzo di
legno che l'avrebbe potuta salvare dal suo naufragio. Avrebbe dovuto
nuotare, forte, controcorrente, fino a che avesse avuto aria nei
polmoni e vita nelle sue cellule. Emanuela si raccolse i capelli con
un elastico, si sfilò le scarpe dal tacco appuntito e si incamminò
piano, a testa alta, accelerando via via che si allontanava. Poco dopo
la piazza rimase vuota, mentre una pallida luce giocava con le ombre
ondeggianti degli alberi. Emanuela non si voltò più indietro, ma
sorrise avanti al futuro che l'aspettava.
~ 193 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Rosanna Figna
John
Avete presente Bill Gates?
Beh, io sono suo fratello.
Mi chiedono se c‟è qualche parentela tutte le volte che mi presento,
così adesso lo dico subito.
Io sono quell‟altro. Quello non famoso, non stramiliardario, non
geniale… insomma, sono tutto quello che lui non è.
Non è semplice essere il rovescio d‟una medaglia tanto lucente.
Generalmente, quando mi parlano, vogliono sapere di lui, delle sue
proprietà, della sua storia.
Di me nessuno chiede nulla. Se mi contattano per un‟intervista, so
già di cosa vogliono parlare: della Microsoft, di come lui abbia
iniziato nel garage con gli amici, del codice Hammer, che per me
potrebbe essere il titolo d‟un film di spionaggio… a nessuno viene
mai in mente di domandare come ci si sente ad essere il fratello
d‟una celebrità. Eppure sarebbe una cosa originale.
Chissà se Giulio Cesare aveva un fratello… o Galileo, o
Shakespeare, o Che Guevara… e giù fino a Richard Gere. Di tutte le
persone famose vedere chi sono gli altri, quelli lasciati in ombra,
rimasti indietro nonostante abbiano avuto la stessa partenza.
Sono convinto d‟avere avuto un ruolo importante nella sua
formazione, nel suo iter. C‟eravamo solo noi due figli maschi, ed io
ero il preferito di mamma, quindi il rivale da battere, l‟avversario su
cui primeggiare per conquistare stima e affetto… in altre parole, il
deuteragonista senza cui non c‟è nemmeno il protagonista. La
leggenda secondo cui il Re Sole avrebbe tenuto prigioniero il suo
gemello celandone il viso dietro una maschera di ferro, è
emblematica di come il proprio doppio debba essere “oscurato”.
Anche la storia di Caino e Abele, che risale agli albori della nostra
civiltà, spiega bene come si possa essere rivali ed opposti pur avendo
la stessa genesi. Di più: la loro vera natura risalta ed esce solo se
sono insieme, solo se esistono entrambi. Tra i consanguinei di
personaggi famosi, soltanto Paolina Bonaparte riuscì a prendersi la
~ 194 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
propria fetta di notorietà. Ma lei era zoccola, e questo ha sempre fatto
scalpore.
Ci hanno chiamati Bill e John e ci vestivamo uguali. Io, che sono
sempre stato più bello, apparivo di più, mentre lui portava gli
occhiali e aveva un‟aria da mollusco fin da giovane, così giù negli
scantinati e nei garage a fare qualcosa di importante, per attirare forse
quel successo che non aveva di primo acchito, e per schivare il
mondo che intimidiva tanto. Poi ha iniziato a diventare ricco. Sempre
più ricco. Quel denaro, per me, era stordente, imbarazzante.
Successivamente, è diventato famoso. Ciò è diventato ancora più
fastidioso: il fratello affascinante e di successo in società era
divenuto una nullità, una pulce, dinanzi a tale colosso.… insomma,
non è stato facile avere un grande fratello in famiglia.
Per questo lo vorrei spiegare, vorrei spedire queste righe ad una
rivista o ad un giornale che non siano suoi. Ecco ora io mi racconto e
vi racconto Mi piacerebbe farlo sapere, godere d‟un po‟ di notorietà
non riflessa. Ora, poi, fanno notizia anche le vite normali…
Io di computer e di elettronica non so nulla. So a mala pena
accendere un PC. Anche adesso che sono tutti informatizzati, io non
riesco a familiarizzare con queste macchine che mi sono antipatiche,
anche se costituiscono un‟importante fonte del mio reddito. Sì, Bill
mi ha fatto socio per una piccola percentuale della sua società, per
questioni di stile e di decoro: mica potevo essere come Paperino nei
confronti di Paperone e restare il fratello povero dell‟uomo più ricco
del pianeta. A dire la verità, ci sono anche motivazioni di carattere
fiscale: anche se la sua bandierina a quattro colori sventola in tutto il
mondo, lui è profondamente americano, e le tasse, qui da noi, non
sono una bazzecola
Devo ammettere, però, che questo cognome mi ha aperto molte porte
(scusate il gioco di parole), dato che alcuni sperano d‟arrivare a lui
tramite me. Con le donne, poi… io avevo già un discreto successo
anche prima: adesso sono amato e ricercato come pochi al mondo .
Non come lui, che ha dovuto sposare quella racchiona della sua
segretaria perché è l‟unica donna che lo ha frequentato.
Anche il mio rapporto col denaro è più rilassato del suo. Io non
investo: io spendo, e ho il tempo per farlo. Mi concedo lussi, viaggi,
capricci e cotillons, e non ho paura dei ladri, dei rapitori, e non mi
~ 195 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
assilla, di notte, il pensiero degli hackers che potrebbero carpire i
segreti dei miei brevetti.
Tutto sommato, devo riconoscere che, pur vivendo nell‟anonimato, la
qualità della mia vita è migliore della sua, è più libera, più allegra e
godereccia…
Io sono l‟Altro.
Cioè un privilegiato.
~ 196 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Michele Filipponi
Un sorso di vodka bella fresca
Jim. Così si chiamava. E tutti lo conoscevano con quel nome. E tutti
sapevano da dove venisse.
E di chi fosse figlio. E che mestiere facesse. E tutti sapevano tutto in
quel maledetto posto.
I suoi genitori se lo tirarono appresso in Italia all‟età di otto anni. La
madre lo chiamava Jimmy.
Il padre beveva. E alla fine degli anni cinquanta tentarono la fortuna
con un biglietto di sola andata, sperando che in Italia ci fosse davvero
qualcuno che valorizzasse il talento artistico della madre.
Klara. Così si chiamava. E in Germania recitava a teatro. Ed era una
buona attrice da quattro soldi.
Così trovarono una piccola casa fuori Bologna, parecchio fuori
Bologna, e si sistemarono lì.
Klara, Jimmy e il padre. Un americano che finita la guerra non ne
volle proprio sapere di tornarsene a casa. Si affezionò a Berlino,
ingravidò un bel po‟ di donne e sposò quella che partorì per prima.
Adesso beveva fuori Bologna. Henry. Così si chiamava. E girava in
bici. I poliziotti dicevano che così faceva meno danni quando tornava
dai pub, la sera. Perciò un giorno partì con la sua bici e non tornò. O
meglio, tornò spiaccicato sul parabrezza di una 600. Il boom
economico infondo partì così. La gente non ne poteva più di farsi
mettere sotto. Per cui ecco che parecchio fuori Bologna iniziarono
tutti a comprarsi una macchina, e Assicurati & Assassinati
cominciarono pian piano a farsi fuori per la gioia delle case
automobilistiche. Quando Henry morì, morì anche Klara.
Cioè, veramente riuscì a diventare una grande attrice e morì anni
dopo, di vecchiaia, ma non avendo gran che voglia di starvi a
raccontare tutto (e visto che la storia poi riguarda Jim, no?!) li
facciamo morire tutti ora e buonanotte. Quindi, si diceva di Jim. Jim
aveva 52 anni, e nessuno lo chiamava più Jimmy da un bel pò. Ora
tutti lo chiamavano Jim, Jimmy. E credo che questo si sia capito.
~ 197 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Quel che non vi ho ancora detto però è che Jim viveva da solo, e per
mantenersi faceva il giardiniere. Una piccola impresa parecchio fuori
Bologna lo aveva assunto anni fa e adesso non faceva che tagliare
prati tutto il giorno. Tutti i giorni. A tutti. Si, insomma…la vita non
gli filava male. L‟erba avrebbe sempre continuato a crescere. La
pioggia gli avrebbe sempre dato una mano.
E il whisky nel suo bicchiere non sarebbe mai mancato. Era un bel
tipo Jim. Un tipo tosto.
Per cui eccolo là, col suo mezzo secolo sulle spalle, che ce lo
ritroviamo camminare parecchio fuori Bologna ingabbiato nel suo
furgoncino grigio-marrone pieno zeppo di roba da lavoro. Sono quasi
le 5 ormai. Il sole è una volpe infuocata che ride, e lui tira dritto
verso casa di Rita. Una vecchia signora del posto a cui era schiattato
il marito lo scorso anno. Dissero che il caldo gli aveva fatto bollire il
sangue al cervello, così adesso lei si godeva malamente i suoi soldi in
una bruttina casa di campagna e buttava anima e corpo nel suo
giardino. E tempo in ciuffi d‟erba. E cuore in petali di rosa. E cazzo,
è davvero incredibile fin dove può spingerti la morte ad aggrapparti a
qualcosa di stupido. La vecchia sapeva che Jim sarebbe stato lì a
momenti e ogni volta che pensava di saperlo Jim arrivava. Proprio
come adesso. Il furgoncino si spegne. Le siepi saranno cresciute sì e
no di due centimetri. Jim le nota mentre scende. Lui e la sua
sigaretta. Lui e la sua barba parecchio trasandata. Prima o poi poterà
anche quella, se il tempo gli darà tempo.
“Heilà Rita!” dice Jim.
“Heilà Jim!” dice Rita.
La pioggia gli faceva tirare il fiato.
Le vecchie no.
“Ti aspettavo giusto ora. Ma lo sai che dovresti proprio metterti a
posto quella barba, sembri un ebreo!” “Dici eh!?“ “E dico sì!”
“Forza su, tira fuori tutte le tue cianfrusaglie che prima finisci e
prima facciamo sparire quella barbaccia da lì! Ho un bagno con uno
specchio bello grande e puoi fare con comodo”. Jim annuisce e la
vecchia rientra in casa come al solito. Deve appostarsi alla finestra.
Deve seguire sempre tutto da lì. È una sua regola ormai. Una delle
tante che gli ha imposto la morte da un anno a questa parte: cura il
giardino. Rammenda calzoni da uomo. Compra il pane alla stessa
ora. E mangia cavolfiori fritti il venerdì. Rita non sgarra mai. Non
~ 198 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
può e non vuole permetterselo. E Jim sa bene come tenerla a bada.
Eseguire il lavoro e filare.
Unica sua contro-regola. Così, pensando un po‟ a quello specchio
bello grande, apre il furgone.
Tira giù il tosaerba. Un paio di grosse forbici. Un rastrello. Un
sacchetto di plastica nero. E si mette all‟opera. Il giardino di Rita è
una piccola meraviglia. Le siepi tagliate a castello circondano il prato
inglese a forma di rombo. Le rose tutte intorno creano un cerchio
perfetto all‟esterno. Un rombo d‟erba dentro a un cerchio di rose. Jim
lo descrive sempre così. Ma il bello sta al centro. Già. Esattamente al
centro. Una grossa sagoma nera a forma di uomo con un ombrello fa
ombra a una panchina. Nessuno sa il perché di quella roba. Tanto
meno Jim che di quella roba se né sempre fregato. È certo di una
cosa però, che una volta finito il lavoro Rita tornerà a sedere su
quella panchina. E questo lo sa perché glielo ha detto lei. Quella
stupida vecchiaccia ama squagliarsi la vita lì sopra. Non fa altro.
Mattine e pomeriggi e sere a stendere gli anni all‟ombra di
quell‟uomo, i suoi conquistati settantanni abbondanti, abbandonati al
tempo. E a piccoli formicai. E a grandi formicai. E a guerre fra
cavallette. Le nuvole mai nate in riunione da lei. Le piogge perdute
del mondo e l‟ombrello dell‟uomo a ripararla. E a farla nascere. E a
farla morire, splendere e sparire. Rita è un cadavere vivo. Rita È, ed
Era, e Fu. Rita non Sarà mai. Sia chiaro. E Jim tutto questo non lo ha
mai saputo. Lui e la sua inguardabile barba ebrea devono pensare ad
altro. Il whisky conta molto più di Rita. Il whisky più di ogni altra
vecchia. Più di ogni altra storia, si sa. Così mette in moto il tosaerba
e parte a mangiare centimetri, mentre l‟uomo in nero lo guarda senza
sguardo. Porta via i piani alti, Jim. Le terrazze delle farfalle. Gli
autogrill delle api. Le altalene e i ponti dei ragni architetti. E ficca
tutto quello sputo di vita in una sacca gialla, fischiettando canzoni
allegre sopra la base che manda il tosaerba. Rita osserva. La sacca si
gonfia. Tagliare giardini è giocare a fare un vecchio Dio, bisognoso
di sacrifici per poter brillare. E mentre Rita pensa questo, la pancia di
quella macchina si sazia. Si spegne. E s‟addormenta in pace sotto il
sole. Sole ormai cotto che va a scendere. Jim prende in mano le
forbici, livella le siepi, pota le rose. E fa in un attimo. C‟è sempre
poco da aggiustare quando non si fa che aggiustare, e Jim aveva
finito un‟altra volta. Quasi le 7 e i soldi della vecchia gli avrebbero
~ 199 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
riempito un altro bicchiere. Non aveva proprio preso niente dalla
madre, quel barbone di Jim. A parte forse lo sguardo, tutto il resto
era del padre. Così Rita esce di casa e chiama Jim dalla soglia. Lui
rimette a posto gli attrezzi mentre lei se ne sta lì coi i soldi in mano,
contati due o tre volte, precisi al centesimo, che aspetta riconoscente
di darglieli. Il beone la raggiunge.
“Ecco tutto, Jim” “bene. Ci vediamo!” “No aspetta…”
La pioggia gli faceva riprendere fiato.
Le vecchie no.
“Quella barba! Dai entra, ho ancora il rasoio di mio marito, ci metti
un attimo! Hai fatto un gran lavoro oggi, ti prego di accettare…”. Jim
ci pensa su, avrebbe infranto la sua unica contro-regola ma accetta.
Casa sua è troppo lontana da lì e tornare a casa sbarbato per poi
mettersi a letto a bere gli sembra una buona idea. Anche perché
piuttosto che sporcare e dover ripulire il suo cesso preferisce
sporcare quello degli altri e lasciare a loro le pulizie. Mi pare ovvio.
Per cui Rita gli spalanca la porta e lo guida verso il bagno. Entrano.
Lo specchio è davvero grande. Prende quasi tutta una parete. La
vecchia gli mostra il rasoio e la schiuma da barba, sorride e se ne và
chiudendo la porta. Ora Jim è solo con quell‟enorme specchio che
non lo sta a guardare. E lo fissa. E si fissa.
E non sa mica che gli specchi ti guardano quando tu non li guardi,
mentre quando li guardi ci riflettono su. Jim pensa solo a non
tagliarsi. La schiuma è una buona schiuma e sa di menta.
La sua barba folta affogata nel bianco parte a mano a mano che il
rasoio passa, sempre molto lentamente, sempre molto fluido. È un
buon rasoio. Un buon vecchio rasoio, e in 10 minuti Jim si ritrova
tutti i peli della faccia nel lavandino. E sono talmente tanti che
rischia di intasarlo. Apre il rubinetto, spinge giù con un dito la
peluria fradicia. Si sciacqua. Si mette il dopobarba. Si specchia. E
quasi si dimentica che poteva essere anche in quel modo, il suo volto.
Prova per qualche secondo a piacersi, poi ci rinuncia. Infondo non
gliene è mai fregato niente. Rimette a posto la roba, si volta ed esce
dalla stanza. Il grande specchio ha già capito tutto. Così Jim prende
le scale e arriva di sotto, la cucina è vuota, il salotto anche. “Ritaaa!”.
Nessuno risponde. La finestra a fianco del televisore guarda sul
giardino e Jim si accorge che fuori è iniziato a piovere. Vede le
nuvole grigie e la sagoma dell‟uomo con l‟ombrello che ha perso la
~ 200 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sua ombra. La pioggia scaccia le ombre, ma Jim non sa neanche
questo, naturalmente. Lui ha solo bisogno di whisky. Poi vede la
panchina. Rita è seduta lì. Jim la fissa ancora un secondo dalla
finestra e poi esce di casa, si infila tra le rose e gli arriva abbastanza
vicino da poterla vedere in volto. La pioggia intanto aumenta
d‟intensità. Rita ha gli occhi chiusi e la testa chinata all‟indietro. E
cazzo mi è venuta sete! Aspettate un secondo. Dovrei avere qualcosa
di fresco in frigo. Ecco, sì… un sorso di vodka. Dio, quant‟è che non
bevevo vodka alla menta! Ma la fanno ancora? Erano anni che non
vedevo questa bottiglia nel frigo! Mmmm… proprio bella fresca. Ok,
dunque… si diceva della vecchia no?! Bene, Jim vede la vecchia con
gli occhi chiusi e con la testa buttata all‟indietro sulla panchina e lo
so che ho interrotto la storia nel momento sbagliato, ma ormai che ci
posso fare? Ok, sono un rovina-atmosfere, contenti? Bla Bla Bla Bla.
Pazienza. Infondo sono problemi vostri, io la mia storia la so. (Uno
dirà: “ma la tua storia, per me bello, puoi anche infilartela su per il
culo! Che non me ne frega proprio niente, esco e trovo qualcosa di
meglio da fare, non credi?!”).
Già, credo. Per cui ecco che Jim vede le gocce scivolargli lungo il
viso. Le guance e le labbra ferme come la sagoma dell‟uomo alle sue
spalle. Rita è immobile. Libera. Morta. E tutto quello che c‟è lì
intorno comincia a suonare per lei. Jim nascosto dietro le rose si gode
ancora per un momento la scena. E sembra non capire. Poi ci arriva.
A passi indietro veloci si allontana da lì e raggiunge il furgone, salta
su completamente bagnato, mette in moto. E se ne và.
Al centro del rombo c‟è una grossa sagoma nera a forma di uomo
con un ombrello, è lì da sempre, e sotto di essa c‟è una panchina.
Una vecchia bagnata panchina con sopra una vecchia. Bagnata.
Il cielo suona la batteria e le libellule ballano. Rita è già morta una
volta, e adesso seduta su quella panchina si acchiappa la sua tomba e
se la gode. Le rose che la circondano sanno il loro compito.
Sorridono e piangono. E abbracciano. E cantano. Il tempo non potrà
più fargli la guerra, a Rita.
Il tempo getta le armi. Nuvole amiche bagnano carne ferita
finalmente libera e l‟ombrello della grossa sagoma nera non protegge
più nulla. Nessun pensiero. Nessun ricordo. Il prato inglese è un
mucchio di erba in festa che strilla dal fondo della bara. Ed è pieno di
scarafaggi che fanno l‟amore, e di lombrichi ubriachi, e di coccinelle
~ 201 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
che scoloriscono. Nessun essere vivente rinuncia alla sete in quel
piccolo mondo inzuppato. Le lucertole sfuggono alle cerimonie. I
grilli infasciano canti di alleluia. Le zanzare sparano sanguecoriandolo sulla folla mentre il vento pettina la lapide.
Ed ecco che arriva la notte a portare cesti di lucciole pronte a fare la
parte degli accendini in concerto. Veglia urlante di un funerale che
non verrà mai visto. Mai e poi mai. Ed è il non-profumo della morte
a fregare il Mondo. Perchè quando gli odori perdono il controllo
sciolti nella pioggia, si fottono l‟essenza dell‟aldilà. Nessuno saprà
mai che fragranza usa la Signora Morte. Nessuno a parte Rita, che
ora se la respira di gusto. A pieni polmoni. Proprio mentre il buio le
dedica saette e guizzi elettrici. Proprio mentre il cielo le regala il suo
spettacolo pirotecnico. Lo show del trapasso aveva funzionato. Su
quella vecchia panchina bagnata, la vecchia ce l‟aveva fatta. Così.
Finalmente. Parecchio fuori Bologna. Moriva mentre Jim buttava giù
il suo Whisky. Solo, e inebriato dal sapore maligno della solitudine.
Solo, in un letto solo, sistemato a cercar col naso la Fine.
Pensava…
La pioggia gli faceva tirare il fiato.
Le vecchie no.
~ 202 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Valentina Fiorini
Senza titolo
Le persone che capiscono come sono fatte sono fortunate. Quelle
persone che sanno cosa vogliono, sanno come reagiranno agli eventi,
sanno quali sono le proprie capacità, sanno cosa sentono. Persone
sicure, coscienziose di sé. Le ammiro. E le invidio. Mi piacerebbe
essere come loro. Almeno un pochino.
Io volevo andarmene. Volevo andarmene dalla mia città, dagli stessi
posti, dalla stessa vita, dalle medesime azioni. Insomma, cose che si
ripetevano da un tempo e per un tempo infinito. Non comprendo la
gente che cerca stabilità. La stabilità è noia. È alienante e logorante.
Non ne potevo più. L‟avrei data volentieri a uno di quelli che la
bramano. Prenditela e poi dimmi come stai.
Beh, io non riuscivo ad uscire da questa catena eterna. Un ripetersi
infinito. Quando si è inglobati tanto da non riuscire ad uscirne, come
trovarsi in un fiume in piena. La corrente è così forte che non riesci a
metterti in salvo. Io nuotavo, controcorrente, o almeno cercavo di
farlo, così da cambiare il mio destino. Niente. Era colpa mia, certo.
Non sapevo cosa volevo, non mi conoscevo. E questo era un fattore
importante. Sembrano cazzate, non lo sono.
Potevo, sarei potuta uscire dal fiume. Ma poi cosa avrei fatto? Cosa
volevo cambiare? Il non saperlo mi frenava. Davo la colpa di questo
agli eventi. Era facile scaricare la responsabilità. Fra le poche cose
che so fare, piangermi addosso è una di quelle che meglio mi riesce.
Una vita di pratica. Sono forte in questo.
Un giorno mi trovai in mano un biglietto aereo e una promessa di
ospitalità. Non sto qui a dire come mi successe. Casualità. Fortuna, la
chiamerebbero. Restavo a fissarlo per ore. Un‟occasione irripetibile
di cambio vita. Quello che cercavo da tanto tempo, che volevo
intensamente. Ottenuto senza il minimo sforzo. Bastava solamente
fare una valigia. Nulla di più. Semplice. Nessuna scusa poteva
reggere, non quella volta.
Era una cosa che mi rendeva nervosa. Ero molto agitata. Non avevo a
disposizione un tempo infinito per decidere cosa fare. Ma un giorno
~ 203 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
non trovai più il biglietto. E non era un biglietto rimborsabile o
sostituibile. L‟offerta era unica e irripetibile. Persi l‟occasione più
bella della mia vita, perché soldi per riparare non ne avevo.
Reggevo un biglietto in mano e lo persi di mia volontà.
Ebbi il coraggio di piangerne.
~ 204 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Antonella Folchi Vici
80 passi
Mi rendo conto che, mentre salgo le scale lucide di cera per
pavimenti, i miei piedi pesano come rocce di granito; li guardo,
distaccata come se non fossero radici del mio albero, e me li
immagino pieni di quelle piccole perle bianche e nere e a volte anche
luminescenti, sfondare ogni gradino con un tonfo sordo, dirompente.
Nemmeno il corrimano oggi riesce a trascinarmi su, sporco, freddo e
scrostato di vernice beige, beige come la cintura cascante di questo
impermeabile che mi sta appeso addosso, stanco e gualcito.
Lascio cadere le braccia, rassegnata, su un pianerottolo menzognero
che sa di ritocchi rapidi di rossetto e di una lisciata al vestito
all‟ultimo momento, di mani rapide che si annusano l‟alito e di uno
spruzzo di profumo, che non si sa mai. Ripeto gli stessi gesti da due
anni e quattro mesi, e quasi spero tu apra questo portone blindato che
ti protegge dal mondo prima che inizi il rito, prima che io possa
svestirmi della mia franchezza, almeno potrei entrare, ed uscire
finalmente, senza fingere ancora una volta di essere quello che non
sono più.
Tendo l‟orecchio, annullo il respiro e sopisco qualsiasi altro
minuscolo movimento per mettermi in ascolto. Potresti anche essere
dietro la porta ad aspettarmi, come facevi una volta.
Ma il silenzio rivendica tutti gli spazi che mi circondando, e quasi ci
rimango male.
All‟inizio, mi ricordo, mi aspettavi con l‟orecchio incollato al legno,
assaporando la musica dei miei tacchi frettolosi sugli scalini. Ti
sentivo, sapevo che c‟eri, che eri li‟ accucciato con l‟orecchio a
ventosa, per terra, e ti vedevo, persino, sorridente e grato di quella
beatitudine della quale solo gli innamorati godono; aspettavo ad
aprire, allungavo gli istanti mentre assorbivo la gratitudine di poterti
sognare reale a qualche misero centimetro dal mio viso.
Ad un certo punto hai semplicemente smesso di farlo, forse, o forse
sono io che non me sono accorta più, e che non trovandoti piu‟ a
~ 205 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
braccia spalancate appena dietro il portone, abbia rinunciato a
cercarti anche nei miei sogni.
Mi hai regalato la tua solitudine, mentre la tua musica invece, ti
accompagna sempre, e riempie la tua vita degli spazi che piano piano
sono io a svuotare; a volte mi parli canticchiando, con un Do-La-Do,
e io mi fingo compiaciuta ed orgogliosa; altre volte ti immergi nei
tuoi spartiti e nelle cuffie che ti abbiamo comprato per suonare senza
disturbare i vicini, e resti ore, ed ore, consumandoti nella ripetizione
ossessiva di qualche rigo per ottenere una perfezione che non
arriverà mai.
Guardati ora, appollaiato su quello sgabello davanti alle tastiere: sei
trasandato, sporco e consumato, anche. Dove sono finite le tue spalle
larghe e sicure, mascherate in una schiena curva sopra i tasti, com‟è
che si sono scolorati i tuoi riccioli folti e neri e perche‟ non hai più
voglia di curarti e diventare un uomo attraente di mezza età per la sua
donna.
Non quando vai a lezione; allora ti fai una doccia lunga, se non un
bagno caldo, sistemi i capelli, metti gli occhiali, ma solo perché ti
danno un‟aria intelligente ed autoritaria, scegli il gilet o una camicia
pulita e vai a fare il tuo mestiere al conservatorio, dove qualche
ragazza con la gonna troppo lunga e le dita affusolate fa ancora sogni
impropri su di te.
Io, ho smesso di farne da tempo, persa negli orari dell‟ufficio, della
spesa, delle riunioni scolastiche, di pediatri, e di veterinari e di
farmacie chiuse per turno; mi sono diluita in tutto quel circo
ossessivo di tappe ed orari e appuntamenti e ritardi che mi danno
sempre più la sensazione di essere sfinita e comunque inconcludente,
inadeguata.
Quando è arrivato Germano a spennellare il grigiore della mia vita
con la promessa di qualche vivace incontro clandestino, lontano da
sua moglie, da te e dai rispettivi figli, cos‟altro ti aspettavi che
facessi? Che mi dessi un‟aria da personcina perbene e rinunciassi
anche a questo? Che fingessi, specchiandomi, di non avere una
mappa di rughe con territori sempre più emersi e fiumi di lacrime a
prosciugarsi?
No, Michele, non sono questo, non una mediocre sposa insulsa che
abbatte la sua vita del tutto per far posto a quella degli altri.
~ 206 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Bach, Chopin e Mozart hanno preso possesso della tua vita
scorporandoti dall‟uomo che sei stato, prosciugando, se mai ci sono
stati, quei sentimenti che credevo saldi in te e necessari ad una vita
serena insieme. Prova a chieder loro che ne pensano, se sono
soddisfatti dell‟uomo che sei divenuto, se tutti questi anni di studio
testardo ed isolato che hanno sovraccaricato la mia vita con la tua
addosso, hanno reso giustizia a quel ragazzo poetico e stravagante
che mi aveva innamorato.
Esci da questa maschera mal riuscita di te stesso, esci anche dalla
mia testa e dai miei pensieri colpevoli, esci da questi muri che anche
se ti sposti hanno ormai la tua ombra dipinta di fiato addosso. Esci da
questo rifugio nel quale ti sei barricato, ostruendo ogni via d‟uscita, e
d‟ingresso, dietro alla sicurezza illusoria di esserne ancora il solido
capitano eremita, cieco persino al fatto che la tua donna non ti cerca
piu, non cerca conforto nemmeno nel tuo corpo caldo e sudato.
Prova a farti un giro, basterebbe anche solo l‟isolato. Oppure, prendi
anche solo una boccata d‟aria in strada, poi torna su. Sono solo
ottanta lunghi passi, dal portone del palazzo fino alla porta del nostro
appartamento.
~ 207 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Daniela Fontana
L‟inferno in paradiso
Cammino assorta nei miei pensieri sotto il cielo avvelenato
d‟ottobre.
Già so che sarà una mattinata impegnativa, una di quelle mattinate
che ti rendono il fegato poltiglia, immangiabile anche per i gatti; una
di quelle mattinate in cui sai già che avresti fatto meglio a restartene
al calduccio, sotto le coperte, dimenticando per un po‟ di essere
quella che sei: un avvocato, il migliore qui in città. L‟avvocato
penalista più ambito dai lavoratori, quelli che per 1.300 euro al mese
rischiano ogni giorno la vita, a volte anche perdendola, quelli che per
mantenere la famiglia accettano di svolgere le proprie mansioni in
condizioni disumane, privi delle più elementari misure di sicurezza.
Quelli che per un pezzo di pane sono costretti a lavorare anche dodici
ore al giorno e che operano in un ambiente malsano, deleterio per la
salute, che respirano un‟aria sordida.
Un‟acciaieria è stata in grado di provocare centinaia di morti per
incidenti sul lavoro o per tumore; un‟acciaieria ha inferto il colpo
più duro e subdolo ad una città meravigliosa ma già piena di
problemi.
Solo un‟acciaieria.
Travestita da bella donna ha promesso meraviglie ad una città che
fino ad allora aveva vissuto di pesca e agricoltura, di valori legati al
mare, alla semplicità, alle glorie del passato.
Benessere, ricchezza, evoluzione: erano i primi anni sessanta e
questo ci si aspettava da un‟acciaieria, che senza pietà cominciò a
ramificarsi finendo per occupare circa 15.450.000 mq di superficie
vergine e sottraendo ai cittadini una fetta di territorio fra i più belli.
Prospiciente il mare, l‟acciaieria senza riguardo è arrivata ad
aggredire le acque limpide di questa terra decantata da Orazio, le ha
sporcate e rese melmose, impraticabili; senza rispetto è entrata nelle
case infiltrandosi come un male maligno e infido, rubando giovani
vite o incancrenendone altre e senza vergogna alcuna, continua ad
impestare l‟aria: con le sue micidiali emissioni, facendole beccare
~ 208 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
l‟8,8% di diossina emessa in Europa e il 30% di quella emessa in
Italia, e con le sue cokerie a cielo aperto le cui polveri, di soppiatto,
si depositano e si stabilizzano nei polmoni dei malcapitati.
Tutto questo con l‟approvazione dell‟intero mondo politico locale e
statale. La scusante? Chiudere uno stabilimento del genere
significherebbe disoccupazione in una città che di disoccupati ne ha
già troppi; renderlo conforme e innocuo alla salute pubblica
attraverso l‟installazione di adeguati sistemi di sicurezza e di
depuratori, questo peròlo si potrebbe fare. O forse no, forse il tutto è
troppo obsoleto per intraprendere un‟operazione del genere.Tanto se
n‟è parlato e ancora se ne parla, ma le parole si sa, non contano nulla,
ci vogliono fatti e pare che nessuno abbia voglia di prendere
seriamente in mano la situazione e dare una svolta.
E nel frattempo l‟“acciaieria” continua ad incassare cifre
stratosferiche e nel frattempo qui si continua ad annaspare tra fumi e
sterili discussioni e a morire.
E chi avrebbe avuto il coraggio di dire loro che sarei stata il “loro”
avvocato ancora per poco? Chi avrebbe avuto il coraggio di dire loro
che anch‟io li avrei abbandonati al “loro” destino?
Beh, non è proprio così. Sarò sostituita da un altro esimio collega
che, forse, farà meglio di me. Ma loro è di me che si fidano, è con me
che hanno lottato, a volte vincendo, altre perdendo; è me che
vogliono.
Quante volte mi è stato detto: “Avvocato, abbiamo bisogno di te,
proprio di te. Perché tu sai batterti al nostro fianco e non dall‟alto di
una toga.”
Sì, mi hanno sempre vista come una di loro, come una che sa
sporcarsi le mani davvero, che con passione e caparbietà lotta a
favore dei più deboli e che, come un buon capitano, non abbandona
mai la sua nave restando accanto al suo equipaggio fino alla fine.
E adesso? Avrebbero mai metabolizzato l‟ennesima delusione?
Mi soffermo un attimo a guardare il mare e a respirare il suo
profumo, illudendomi che l‟odore di salsedine sia puro,
incontaminato. Un cielo cupo incombe preannunciando pioggia:
l‟annuso, è nell‟aria e quella tipica atmosfera autunnale mi dà il
colpo di grazia.
Questa mattina ho abbandonato il mio solito spirito guerriero e mi
appresto ad affrontare il mio lavoro con estrema fatica. So già cosa
~ 209 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
mi aspetta: l‟ennesimo morto ammazzato dalla cianfrinatrice, un
infernale macchinario atto a smussare le imperfezioni sui tubi e
proprio uno di quei tubi è schizzato fuori ancora una volta, ferendo a
morte il povero Antonio, un padre di famiglia strappato a moglie e
figli in un giorno d‟autunno come tanti. Lo conoscevo Antonio; era
in prima linea con molti altri lavoratori il giorno della
manifestazione, quando, in tanti, si decise di ribellarsi al “padrone”
per ottenere e far ottenere giustizia a coloro che ci avevano lasciato la
vita lì, dentro quel maledetto stabilimento siderurgico, a coloro che ,
anche senza lavorarci, l‟avevano respirata quella dannata industria e
ci avevano lasciato le penne.
Ma il “padrone” era stato sempre insensibile alle loro proteste,
accusandoli di essere loro poco accorti durante il lavoro e
affermando vergognosamente che i malati di cancro erano solo
un‟invenzione.
So già che stamattina mi aspetta un colloquio con i genitori disperati
di un bambino malato di leucemia la cui casa è a due passi dallo
stabilimento mangia-vite; ed infine il peggio mi aspetta: comunicare
la mia dipartita, comunicare che anch‟io ho deciso di abbandonarli
dopo anni di lotte e di duro lavoro nel cercare di riportare dignità e
benessere a questa città e alla sua gente martoriata ormai da troppo,
troppo tempo.
Non avrei mai pensato che sarei arrivata a farlo. Ricordo ancora con
quanto orgoglio, dopo l‟abilitazione nell‟albo degli avvocati,
proclamavo a testa alta che no, non avrei fatto come la maggior parte
dei laureati che avevano preferito scappar via da qui per prestare la
loro opera altrove, dove sarebbe stato sicuramente molto più facile
avere successo e gloria. Io no, io sentivo di dover fare qualcosa per la
mia città che, agonizzante, chiedeva solo di essere soccorsa.
Volevo e dovevo abbracciare la causa della mia gente, una causa
persa in partenza forse, ma ci dovevo provare, dovevo provare a
tirarli fuori da quell‟abisso.
Questa mia decisione stupii tutti coloro che mi conoscevano bene. Da
sempre, al contrario, andavo dichiarando che questa città mi dava
l‟orticaria, che il futuro qui altro non era che fitta nebbia, che
decidere di stabilirsi qui era solo follia pura.
A quei tempi sentivo di odiarla la mia città; ora mi rendo conto che
quello era un odio dettato solo dall‟amore profondo che per essa
~ 210 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
avevo, era un odio provocato dalla sofferenza provata nell‟assistere
al decadimento di un luogo magico a me caro, era un odio dovuto al
sentirsi impotenti e sapere che nulla puoi: solo stare a guardare e
macerarti nella tua incapacità e tormentarti per la tua inettitudine.
Credo che fu proprio questo senso di inadeguatezza che mi spinse a
scegliere
la
facoltà
di
avvocatura,
specializzandomi,
successivamente, in diritto del lavoro.
La mia giovane età, l‟inesperienza mi portavano a vedere tutto rosa e
man mano che proseguivo negli studi andava maturando l‟idea che
molto avrei potuto fare, che se le cose andavano male la colpa era di
chi pensava solo a succhiare quel che c‟era da succhiare senza che ci
fosse un ragionevole e giusto scambio.
Proprio questo era successo alla mia città: tutti avevano preso senza
restituirle nulla, nemmeno il diritto alla civiltà, nemmeno il diritto ad
essere ordinata, pulita, nemmeno il diritto ad essere restaurata nelle
parti più sofferenti e decadenti.
Non abbiamo fatto altro che prendere, denudandola, defraudandola di
tutte le sue ricchezze e lasciandola morire pian piano.
Anche i cittadini vittime del sistema, anche loro sono colpevoli:
colpevoli di essere stati solo a guardare la sua fine… la loro fine.
Ora sono stanca, ho il morale sotto i piedi e dopo molteplici guerre
inconcludenti torno a sentirmi incapace, debole di fronte alle tante
minacce ricevute e alle tante cause perse o rimaste lì, appese a un
sistema burocratico troppo lungo e complicato nella vana attesa di
trovare giustizia; debole di fronte a quei “potenti” che sembrano
appoggiarti, ma che al momento opportuno ti scaricano come fossi
spazzatura.
Ecco sono arrivata: prendo l‟ascensore, ma è come se stessi salendo a
piedi. Scalini alti, pesanti e le gambe mi fanno male.
Lo studio è già gremito di gente. C‟è la moglie di Antonio e uno dei
suoi figli, ci sono i genitori di Alessandro e c‟è anche Alessandro: ha
perso tutti i capelli e mi guarda con i suoi occhioni dolci e sinceri
come solo gli occhi di un bambino possono essere.
Tutti mi guardano e il loro è uno sguardo che ti brucia la pelle che ti
entra nell‟anima: è come se già sapessero che questa sarà l‟ultima
volta che ci vediamo.
Saluto tutti e comincia la mia lunga giornata.
~ 211 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Un ultimo sguardo al di là della finestra: l‟aria è pesante e la pioggia
comincia a battere insistente, mentre uno strano raggio di sole si fa
strada tra nuvole e acqua.
Scolpiti nel mio cervello i loro sguardi… e la pioggia continua a
scendere e quel raggio di sole mi arriva dritto in faccia scuotendomi
dai miei pensieri.
“Avanti il primo!”
Ho deciso: è questo il mio posto.
~ 212 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Cristina Fontanelli
Se la storia siamo noi: sogni, viaggi e conquiste
metropolitane ad occhi aperti
Ci sono uomini che la storia la scrivono sui libri. Altri che invece si
limitano a leggerla o a subirla passivamente. Infine, ci sono quelli
che in maniera solitaria o partecipata decidono consapevolmente di
viverla da protagonisti e di farla con le proprie piccole e grandi gesta
quotidiane. (CRIFONTE, Aforismi sparsi, 2003)
Fin dalla più tenera età, come un Indiana Jones metropolitana, ho
amato avventurarmi a caccia di storia e di leggende sepolte nel
passato nel tentativo di catturare immagini vive ed immortali che
occultate agli ignari passanti si celano nei vicoli, chiassi, piazze,
edifici e giardini fiorentini… Per mia fortuna sono nata ed ho
vissuto in una città come Firenze, che da questo punto di vista è una
miniera ricca di tesori e di cimeli culturali: un patrimonio immenso e
inestimabile che ancora troppo spesso resta però sconosciuto a turisti
e cittadini che abituati a seguire itinerari standard già prestabiliti
dalle mappe e dai manuali in commercio, si accontentano delle
versioni storiche ufficiali. In maniera piuttosto disinvolta, nei primi
vent'anni della mia vita sono così riuscita a perlustrare luoghi
variegati spesso difficilmente accessibili: sotterranei, musei,
biblioteche e stanze segrete di palazzi storici pubblici e privati, ma
anche conventi, cortili, orti, giardini, tetti e terrazzi dai quali ho avuto
modo di osservare, disegnare o fotografare scorci e paesaggi
fiorentini inediti.
Varcando luoghi off-limits, ho visitato gli scavi archeologici romani
nella zona di Piazza Signoria, ho scalato i muri di Palazzo MediciRiccardi, ho visionato i lavori di restauro agli affreschi dello Zuccari
sotto la cupola del Duomo e le stanze più remote di Palazzo Strozzi.
E ancora, da Palazzo Vecchio, attraversando gli armadi della sala dei
mappamondi e percorrendo il Corridoio Vasariano sopra il Ponte
Vecchio, sono giunta nel grandioso Palazzo Pitti, al Giardino di
Boboli, quindi al Forte Belvedere e poi al Museo della Specola di
~ 213 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Via Romana. Seguendo itinerari diversificati e a volte piuttosto
rocamboleschi, con imbarcazioni di fortuna e lottando contro le
correnti, ho navigato il fiume Arno e approdando alla Pescaia di S.
Rosa ho percorso a piedi le antiche mura d'Oltrarno, addentrandomi
nelle vecchie stalle di Piazza Tasso fino ai viottoli ben curati del
fiabesco Giardino Torrigiani. Proseguendo oltre Porta Romana, mi
sono anche inoltrata nelle colline di Bellosguardo per poi discendere
verso il Pignone ed alle Cascine. Nella zona nord della città ho
invece esplorato l'austera Villa la Pietra, il suggestivo Monastero di
Montughi, le sale esotiche del Museo Stibbert, l'adiacente Parco di
Villa Fabbricotti, e risalendo fino alle Ville Medicee nelle colline di
Careggi mi sono immersa nell'immenso Parco di Villa Demidoff.
Nelle notti estive illuminate dalle stelle, ho anche attraversato i
boschi lussureggianti e misteriosi di Settignano e inerpicandomi
lungo il Viale dei Colli ho raggiunto la basilica di San Miniato al
Monte e quindi l'Osservatorio d‟Arcetri da dove ho contemplato gli
astri e la volta celeste…
… Riflettendo oggi su quelle esperienze, devo ammettere che si
trattava ogni volta di una sfida esistenziale personale: riuscire a
penetrare in certi luoghi, spesso irraggiungibili ai comuni mortali,
metteva alla prova la mia abilità ed astuzia nel riuscire a superare
rischi ed ostacoli diversi. Ma soprattutto era un gioco divertente e
stimolante per un'adolescente che annoiata dalle fiction
cinematografiche e dagli svaghi tipici dei suoi coetanei tentava di
accrescere in maniera diretta e non libresca le proprie cognizioni
sulla storia cittadina, alimentando con ciò la propria curiosità,
fantasia ed un insaziabile senso estetico.
~ 214 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alessandro Fort
Alla vita
A dodici anni, in un infuocato pomeriggio di Luglio, mio nonno mi
sorprese in cantina mentre bevevo da una delle botti. Il silenzio della
casa mi aveva convinto che sarebbe stata un‟irrinunciabile avventura
scendere i gradini che conducevano in quel misterioso mondo
sotterraneo.
Il nonno era un tipo strano e aveva delle abitudini assai particolari.
Appena il sole spuntava sul dorso della collina, se ne andava a
parlare alle viti. Attraversava la casa ed il cortile senza che nessuno
lo sentisse, come un fantasma che scivola sul terreno senza mai
toccarlo e senza far rumore. Quando riteneva di aver ascoltato tutto
quello che loro, le viti, avevano da dirgli, e oramai era arrivato il
momento in cui tutti si levavano dal letto, lui sdrucciolava verso il
ruscello ad origliare quella stessa acqua che si usava per la
lavorazione dell‟uva. Verso mezzogiorno appariva nei laboratori
dove osservava le lavorazioni da parte del personale e se qualcosa
non andava bene si metteva a guardare in faccia il colpevole sino a
quando questi non capiva l‟errore e vi rimediava. Mio nonno era
dovunque e in nessun posto, a volte lo cercavi e non lo trovavi sino a
quando desistevi e allora ti appariva all‟improvviso. Durante la
vendemmia scorreva i raccoglitori osservandone i modi con i quali
staccavano i grappoli e anche in quei casi si fermava se le mani
eccessivamente rozze rovinavano un solo acino, un ramo o la pianta
intera.
Anche in quell‟occasione non si fece sentire. Fui colto con la
maglietta inondata dal liquido rosato che sgorgava rimbalzandomi
addosso, ricadendo sul pavimento dove aveva formato una chiazza
colorata che insisteva sulla pietra come se lì vi fosse un taglio. Mi
rassegnai a ricevere un severo rimprovero, ma lui non disse nulla,
richiuse con calma il rubinetto e mi appoggiò un panno sugli
avambracci. Rimanendo in silenzio, si voltò verso l‟armadio, lo
spalancò provocando l‟intenso cigolio tipico dei cardini oramai
vecchi, prese due calici di cristallo e li depose sul tavolo di legno di
~ 215 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
quercia. Riempì una caraffa di vetro e con altrettanta tranquillità, si
sedette.
M‟invitò a accomodarmi, indicando la sedia con quella sua mano
incisa da lunghe e profonde rughe che ricordavano i solchi che il
trattore segna sui campi prima della semina.
“Scusa nonno, non volevo…” provai a giustificarmi. Mi interruppe
alzando quella mano e socchiudendo gli occhi.
“Il vino è un regalo della natura. Non si ruba, non si beve di nascosto
e tantomeno da soli”.
Non trovai il coraggio di contraddire, ero affascinato da gesti con i
quali fece scorrere quel liquido come se si fosse trattato della
sostanza più preziosa della terra. La luce, proveniente dalle lampade
ad olio appese alle pareti, si concentrò all‟interno di quelle coppe
trasparenti spandendosi attorno come gli aromi che sino a
quell‟istante avevo ignorati.
Avvolse le sue dita attorno ad uno dei calici e me lo porse con un
sorriso, poi raccolse l‟altro per sé.
“Alla vita” sentenziò, soffermandosi a gustare due brevi sorsi. Solo
allora capii che cosa significava apprezzare le sfumature dentro le
quali si potevano riconoscere il lavoro e la passione di tante persone.
Sono trascorsi tanti anni da quel giorno e il mio maestro non c‟è più,
ma ancora oggi quando vengo a sfiorare le botti che riposano in
questo luogo silenzioso torno a pensare a lui. Apro quell‟armadio che
continua a cigolare, mi siedo a questo vecchio tavolo con un calice di
vino e mi preparo a gustarlo, e subito mi fermo sapendo che il mio
caro nonno mi guarda e sta per alzare la sua mano rugosa. Allora ne
prendo un altro, lo riempio e come avrebbe fatto lui, brindo… alla
vita.
~ 216 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Paolo Fortunato
Tandem Teaching
Alla fine si è deciso. Alla festa dell'amico di Nico. Si rischia.
Salutiamo i non protagonisti e partiamo. Carichiamo la macchina.
Due bottiglie di vino per non fare brutta figura col festeggiato, due
stampelle per Nico e una buona dose di leggerezza.
Partiamo tardi, ma così funziona. La strada per arrivare al quartiere
Monti è piuttosto lunga e trafficata. Leo, al volante, fa scivolare la
sua vecchia 500 rossa tra le auto incastrate nelle vie della capitale.
Nico, al suo fianco, inizia il suo colloquio, o meglio il suo monologo.
Parla di tutto. Di case, di città siciliane, di amore, di economia e di
dolore. Insomma, un tuttologo. Uno di quelli che frequentano i salotti
buoni o le trasmissioni televisive colme di prezzemolini. Sembra di
essere al Processo di Biscardi. Ogni tanto Leo gli rimanda un "certo",
oppure un "bèh, in effetti è vero". Si vede che è lontano dalla
discussione. Lontano dalle parole del nostro oratore.
Me ne sto sul sedile posteriore in religioso silenzio e vedo la
dinamica da un altro punto di vista. Ascolto ed intervengo poco.
Vedo Leo distratto e stanco, Nico al telefono.
Vedo anche me stesso in preghiera.
Finita la messa, andiamo in pace. In pace verso il Rione Monti.
Attraversiamo la ZTL, rischiando la multa del Grande Fratello. I
cartelli stradali non sono chiari, sono difficili da interpretare.
Le strade sembrano restringersi al nostro passaggio. Un labirinto, su
e giù per il colle.
Nico e un ottimo Tom Tom (è un diffusissimo navigatore satellitare
per auto, per chi non lo sapesse).
Parcheggiamo lontano. Per noi non è un problema, per Nico sì. Lo
steward arranca, fatica e parla.
Troviamo il civico, il portone. Citofoniamo: "Nicola più amici". La
voce di donna risponde: "ah, ciao Nico". Apre il portone.
Non c'è l'ascensore. Per noi non è un problema, per Nico sì. Ma
questa credo già di averla detta. Pazienza.
Saliamo le scale e il povero zoppo continua a zoppicare. Noi, però,
~ 217 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
non seguiamo il famoso detto o proverbio. Quello che fa, "chi va con
lo zoppo, impara a zoppicare". Ne rimaniamo fuori, si tratta di un
gioco sporco. Un gioco di sporca personalità.
La porta della casa è socchiusa. Entro, manco fossi una testa di cuoio
in un'irruzione per liberare ostaggi francesi e rumeni tenuti in
ostaggio in un appartamento romano nel quartiere Monti.
Ci sono persone che se ne vanno. Gentilmente le salutiamo. Ma se ne
vanno. Pazienza.
La casa si apre in diversi ambienti, come dicono i bravi architetti o
quelli della Tecnocasa. Diversi ambienti che contengono altrettante
persone che ascoltano quello che si dicono, la musica che aleggia
nella casa. Respirano i fumi dell'alcol e delle sigarette, normali e
modificate.
Conosco per la prima volta il festeggiato: un bel ragazzo, già storto
mi pare.
Nico e Leo lo salutano con più affetto. Lo lasciamo nel seggio
elettorale. Noi, invece, continuiamo lentamente a scoprire la casa:
siamo un serpente o un drago del carnevale cinese. Arriviamo
finalmente alla sala alcol, la cucina in poche parole. La stanza è
piccola. E' una cucina mista. Cucina e mini saloncino.
La gente mormora, se ne sta tutta appiccicata. Sembra il GRA la
mattina, all'ora di punta. Anzi no. La casa è figlia delle piccole
stradine del Rione Monti.
Salutiamo chiunque ci guarda e non. Siamo esseri gentili, forse
perché imbucati, almeno per quel che mi riguarda.
Nico scende alla fermata "divano con donne". Sue vecchie
conoscenze, mi pare. Io e Leo a quella successiva, "cucina e alcool".
Siamo soli, come canta il buon vecchio Vasco. Non ci rimane che
dare un senso a questa serata. Vasco ritorna anche qui. Meglio così.
Allora iniziamo.
Mentre ci adoperiamo per aprire una bottiglia di vino, facciamo
conoscenza. Chiedo ad una tipa bionda il suo nome. Lei, con aria da
star hollywoodiana, mi risponde "Athena", mi raccomando il th
ragazzi.
Una di quelle che già sanno come funziona la scuola, visto che è
insegnante alle medie, e la Peroni, per cui lavora "grazie all'inglese",
dice. Sì, perchè la madre è irlandese, di Cork precisamente. Il nome
le è stato dato perchè il nonno è greco. Le chiedo "Atena o Atina?".
~ 218 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lei mi guarda, in preda ai fumi della Peroni, fa una pausa e apre le
sue labbra precise ed esclama: "Atena, ma chiamami come vuoi...".
La donna è calda, penso. Continua a bere la birra, ma solo la sua,
quella della sua azienda. Penso quanto sia allineata alla mission
aziendale...Mis??
Atena ci fa da apripista. Ci presenta altre due tipe. Una biondina,
piccola ma con un visetto che farebbe impazzire qualunque amante
di peluche. E' inglese, di un paesino vicino Manchester. Non capisce
nulla di italiano, ma ride. Beve e ride, l'inglesina. L'altra tipa è un
cesso con i capelli neri e mossi. Il suo viso sembra quello di Cassano
prima della cura. E' scura e ha il viso gonfio. "Parente del
compasso?", vorrei chiederle. Ma la mia gentilezza mi rapisce e mi
porta via.
Inizio a fare un po' il cretino. Così il processo di conoscenza tra noi e
loro si alleggerisce e si consolida.
Beviamo e ridiamo tutti insieme. Ogni tanto, le risa o la necessità
patologica di alcol spinge gli altri protagonisti della casa a fare
piccole e rapide escursioni in cucina.
Coinvolgo chiunque passa di lì, manco fossi un doganiere. Pochi
hanno qualcosa da dichiarare.
L'atmosfera sale di tono, l'alcool mi dà la forza per abbattere gli
ultimi filtri, le barriere che avevo messo su prima di varcare la soglia
di ingresso. Inizio a sparare stronzate e, da quel momento, non
smetterò più.
Io e Leo, per un non ben precisato motivo, ci troviamo a
chiacchierare in inglese con l'inglesina. Io le parlo, Leo gesticola e
mi guarda in cerca di aiuto.
Lei continua a ridere alle battute, le mie. Leo sembra deciso. La
vuole far sua. La mettiamo seduta e la interroghiamo. Le facciamo
domande in inglese sui nomi dei nuovi spettatori. Lei ha pochissimo
tempo per rispondere e lo deve fare solamente tirando fuori parole
con un suono a noi più famigliare, insomma in italiano.
Ho fame. Prendo una porzione di tiramisù. Dall'aspetto è troppo
compatto, ma lo mangio ugualmente. Una tipa bionda mesciata al
tavolo dei dolci mi dice che lavora con De Mauro. Tullio De Mauro.
Un po' come la Bond. James Bond. Mi chiede l'etimologia della
parola tiramisù. Le rispondo che viene dal greco, come la maggior
parte delle parole italiane. Imbastisco malissimo, ma faccio ridere lei
~ 219 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
e il suo amico, proprietario del tavolo dei dolci. Mi dà un ottimo 26 e
mi firma il libretto. Anche questo è andato, penso. Quanti me ne
mancano alla laurea? Mi pare 8. Credo in me stesso ed esco
dall'università con aria soddisfatta.
Torno dai miei compagni di serata. Mangio il dolce. E' davvero
buono. Poi ci prendiamo una pausa. Io me ne vado al cesso, Leo no.
La pausa è necessaria in questi casi. Ci vuole tempo e pazienza per
far ridere gli altri, soprattutto le donne. Il nostro Time Out dura il
tempo di votare e di trasferirci nel salone. Il sorriso british ci aspetta
col suo bicchiere semi pieno. Sembra che anche lei sia stata costretta
ad esprimere un preferenza di voto, nonostante non sappia chi sia
Silvio né Romano.
Leo allora coglie l'occasione. Di politica ne sa. Affianca l'inglesina
sul letto e gesticolando le spiega come funziona il nostro parlamento,
la politica italiana. Lo ascolto poco, a tratti. Fumo rilassato su una
sedia barocca. La casa la osservo con maggiore calma e attenzione.
C'è dello stile e ci sono anche dei soldi.
Borghesia, giovane borghesia.
Intanto, Leo viene aiutato da un tipo con la barba e gli occhiali. Mi
somiglia. E' insegnante di Diritto Costituzionale alla "American
University". Un altro insegnante, che palle. Mi giro e sento il suono
della campanella, è l'ora dell'intervallo. Esco dall'aula e saluto il
bidello. Cazzo Nicola è un bidello? Ritorno sulla realtà. Il suono non
esiste, nemmeno la campanella.
Arriva lo spoglio dei voti. Nel salone c'è tensione. Siamo un
campione di votanti. Una tipa con un top rosso e due pere in
evidenza apre le schede e legge ad alta voce il voto. Claudia, una
bionda piuttosto carina, prende nota.
Vince R.C.. C'era da aspettarselo, nonostante La Rosa nel Pugno
abbia dato battaglia.
Si capisce che la serata sta terminando. La gente se ne va. Leo
coinvolge per l'ennesima volta la biondina britannica. Ha intenzione
di fare uno scambio, un baratto come ai vecchi tempi: uno scambio di
lingue. Ma cosa avete capito? L'inglese in cambio dell'italiano. Ma
ha difficoltà di esprimersi nella lingua di G. Best. Le propone un
"Tandem Teaching". La risposta è sì. Le strappa il numero di
telefono e, tornando a casa, si toglie la maschera. Leo è Simone. Ma
Simone non era andato allo Scarabocchio?
~ 220 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Bruna Franceschini
Il bicchiere rotto
Da sei mesi a tre anni, dissero i medici.
Perse la favella. Una lama gli frugò nel petto. Credette di impazzire.
Ma non impazzì.
O forse sì, impazzì d‟amore per lei come il giorno in cui si accorse di
volerle un bene dell‟anima. Sospirò, in mente una ridda. Pensieri no,
sensazioni. Senso di presaga apprensione per qualcosa che doveva
finire. E il vivido ricordo, un pungolo acuto, della creatura dalla
vivacità sorridente che, giovane sposa, sembrava impersonare la
gioia di vivere. Dell‟amore imperioso a cui aveva risposto con
impeto. Della felicità che avevano conosciuta, ebbri, paghi senza
sazietà. Del paradiso che credevano di avere conquistato, con i loro
due figli.
Ma il paradiso è amore che dura. La malattia è l‟inferno, è malamore.
E‟ una freccia spezzata.
Le gettò le braccia al collo e la strinse a sé, fuori si sé. La sollevò da
terra come fosse una bambina.
Da quel momento lui si vietò ogni riposo, ogni stanchezza. Trafisse il
buio di ogni notte per spiare il suo sonno dolente.
Volle costruirle una casa di sogno, un eremo lussuoso e assurdo
come una reggia da fiaba: tutta bianca, con luminose vetrate dalle
tende vaporose come veli di sposa, occhi da cui guardare il lago,
sullo sfondo della collina screziata di verde tenero e di verde grigio
degli olivi, che scala verso l‟altrove, tagliata dalla lingua di una
strada sassosa, inghiottita da un bosco generoso di piccoli frutti.
Ridusse all‟osso il tempo in cui occuparsi di affari, fino a trascurarli,
e si prese l‟infinito, come i bambini, per cui tutti i giorni sono
ugualmente lunghi, ugualmente belli.
Lì avrebbero ascoltato insieme la poesia del silenzio amoroso, in
mezzo alla bella natura in pace. Avrebbero curato i fiori nei vasi
allineati ai bordi della terrazza, che assomigliava piuttosto ad una
stanza con il cielo per tetto. Avrebbero lasciato che la voce di Maria
Callas scorresse nelle loro vene come gocce di mercurio sul velluto.
~ 221 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Le avrebbe dato ciò che nessun altro poteva darle: l‟aura amica, la
calda dolcezza di sentirsi amata, desiderata sempre. Riempì il suo
guardaroba di modelli eleganti e costosi: voleva che andasse incontro
alla morte in abito da sera.
Nella tana della bellezza, chissà, anche le cellule mortifere si
sarebbero assopite, avrebbero saziato la loro voracità.
Si era messo in testa di sfidare il destino, di rubargli ancora del
tempo, e per un po‟ sembrò avere la meglio: superò ampiamente il
limite dei tre anni, frenò la caduta nella voragine del nulla eterno
aggrappandosi alle radici, scorticandosi le unghie per non mollare la
presa.
Un duello con la morte può stremare ma dare anche una sorta di
ebbrezza, l‟illusione di poter vincere.
Come il poeta,lui la schernì per dieci anni: “Non essere superba, se
qualcuno ti ha chiamata potente e terribile... Morte, tu morirai!”
Per dieci anni lei se ne stette acquattata, poi il segnale della riscossa.
Un colpo sferrato con la precisione della spada di un samurai. Negli
occhi di lui lo stupore, l‟incredulità che la partita fosse ancora tutta
da giocare.
Ma non si lasciò abbattere, resistette, e per altri tre anni vide tutto
con gli occhi appuntiti dalla tensione della pena e dell‟insonnia, le
notti rese striminzite dall‟attesa di una telefonata dell‟ospedale che lo
avrebbe catapultato a raccogliere sulla bocca di lei l‟ultimo respiro,
senza un grido.
Quando la morte bussò alla sua porta e con gelida voce gli disse:
“Apri, che ora tocca a me fare l‟ultima mossa!”- fu come ricevere un
pugno nello stomaco della notte, fu come se una bomba esplodesse
nel ventre della guerra che lui e la sua fatale nemica stavano
combattendo.
Credette un‟altra volta d‟impazzire.
Ma non impazzì, anche se per un po‟ portò nel cuore lo sgomento di
tanta nuova arsura di vita, incresciosa agli altri e a lui stesso,
divenuto un uomo dall‟umore ineguale, dall‟allegria che non
convinceva, irrequieta, ombrosa, come se sotto ci fosse qualcosa di
stridente. Gli sembrava che nulla fosse importante o che tutto fosse
troppo importante.
Per la seconda volta, allora, decise di sfidare il destino:
ridisegnandoselo.
~ 222 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Viaggiò, si accompagnò a diverse donne, fece amicizie nuove. Si
prese molte libertà, scalò montagne in cerca della bellezza e dello
star bene. Recuperò il senso nostalgico della pienezza della vita,
della giovinezza rubata e accantonata dalla malasorte.
Gli occhi di muschio, ilari, voraci e sfidanti, il sorriso suadente e
mordente, la parola sempre pronta al frizzo, il fondo di bontà e
schiettezza gli aprirono le strade della simpatia e dell‟amicizia.
Rinacque, rifiorì, facendo di necessità virtù. Una virtù traforata,
poiché niente e nessuno riuscì a far scendere dal piedistallo l‟eroina
del suo amore e del suo dolore.
Lui infatti avvicinava le donne per curiosità, con muta e interrogante
riserva, per fugare la noia, anche per una certa attrazione.
Ma amore! Un‟altra cosa!
Ricominciare! Mai più!
Il suo mondo interiore si era composto e placato in una serenità
riverberata di iridescenze delicate, di smorzati accordi. Forse, in
fondo, anche il timore inconfessato di non riuscire più a ricomporre
una vita intensa, fervida.
A chi gli chiedeva la ragione di quel suo distacco, lui rispondeva con
i versi del poeta:
“On peut casser son verre
quand on a bu de ce vin là.”
~ 223 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Costantina Frau
Le pietre
Nella stanza d‟albergo scrivo su una vecchia agenda con tanti fogli
strappati, tante giornate vissute bene e male. Penso all‟infanzia tra la
gente, alla gioventù, all‟identità ritrovata, all‟amore, alle
incomprensioni, alle promesse non mantenute. Dal giardino
dell‟albergo mi giungono le note della Macarena. È facile da ballare
dicono gli amici, ci riescono anche i vecchi! Gli amici sono qui per
riposarsi per mangiare cibi squisiti serviti da gentili camerieri. Mare
e bosco, gite in barca, giochi in acqua, partite di tennis, a tressette,
tanta chiacchera nelle passeggiate sottobraccio respirando a pieni
polmoni aria pura. Hanno lasciato a casa gli affanni di un anno di
lavoro. Parlano solo del presente dei pranzi e delle cene dei maestri
di ballo e di ginnastica. Sento dancez messieurs e mes dames!
Changez la famme! Sento gli applausi. Sono in camera a scrivere in
un‟agenda aperta a Giugno, a far bilanci, a scavare nel passato. Penso
a mio marito in giro a cercar pietre per finire la casa di campagna,
per rivestire i muri esterni, per il selciato dell‟entrata, per, per..
Sempre a cercar pietre! In inverno piene di muschio, in estate
arroventate dal sole rotonde, ovali, piatte, bombate, piccole, medie,
grandi, delle forme più strane ma solo di basalto chiaroscuro, per non
contrastare col paesaggio. Le trasporta nella casa di campagna
vagheggiata ideata disegnata senza geometri e architetti, costruita
con la buonuscita. Ogni pietra a occupare il posto giusto il più
congeniale, come essere animato. Come le pietre animate delle
leggende. Le pietre fisse, esseri trasformati in pietre protagonisti di
storie liete e tristi, personaggi delle tenebre, banditi, solitari, traditori
degli ospiti, madri pietrificate dal dolore, spose pietrificate
dall‟attesa. Come lo sono io. Le coppie ballano, ridono,
chiaccherano. Mio marito continua a cercare pietre, le scheggia le
squadra le modella, indifferente ai miei bisogni di cambiare aria di
passare otto giorni al mare. Mi giungono le ultime note della
canzone, parla di eterno amore giurato in riva al mare di corpi
abbracciati nella notte. Io sono sola anche di giorno, non riesco ad
~ 224 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
abbattere il muro di silenzio, resiste come le torri di pietra che hanno
sfidato le intemperie millenarie. Le ultime note si perdono nella notte
tacciono gli ospiti dell‟albergo si spengono le luci delle stanze. Mi
affaccio a guardare il cielo. Come da bambina. Allora ignorando cieli
infiniti e costellati di galassie lontane dalla terra milioni di anni luce,
che tuttora non arrivo a capire, chiedevo dove andavano. Se Dio ci
aveva creato per essere felici o cosa voleva da noi. La loro luce
rispondeva che per saperlo dovevo crescere partire per conoscere
altre genti liberamente scegliere e rispondere delle mie scelte.
Scendo a fare due passi nel giardino, gli occhi al cielo, una stella più
brillante mi rincuora abbi fede. Mi siedo su una panchina, la tristezza
del presente supera di gran lunga la speranza nel futuro. Penso alle
pietre. A quelle pietre che mio padre rompeva con la mazza e col
piccone per fare il selciato nelle vie del paese. A quelle pietre
levigate dall‟acqua del fiume dove mia madre stendeva i panni
appena lavati. A quelle pietre a croce su cui era il ritratto sorridente
di chi se n‟era andato. Penso ai gradini di pietra che salivo senza mai
riuscire a raggiungere la meta, alle scale di pietra che tornano
sovente nei miei sogni, al risveglio che mi salva dal cadere tra le
pietre. Torno in camera, ho il cuore stretto da un groviglio di
sentimenti, ora furenti, ora pacati. Mi confondono, non mi fanno
ragionare, intravedere una soluzione. Sento un campanello suonare,
guardo in giardino vedo un‟ombra muoversi con circospezione poi
entrare, l‟ascensore si ferma nel secondo piano, un toc toc lieve alla
porta e mi butto tra le sue braccia. Dimentico le pietre, i sentieri
scoscesi lungo i quali i cespugli di rovi e di biancospino nascondono
i muretti a secco, dimentico i nuraghi e le domus de janas che lui
mostra agli ospiti del continente come roba sua, con l‟orgoglio di un
figlio che ha ereditato un tesoro dai padri. Quei padri che son vissuti
in epoche remote, della loro vita hanno lasciato testimonianze
imperiture, in pietra. Vedo solo mio marito che mi parla, finalmente
è riuscito a trovare l‟albergo dove mi ero rifugiata!
~ 225 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sandra Frenguelli
La nostra mensa
“E‟ finita, ormai siamo alla frutta”.
Hai sbattuto la porta e te ne sei andata.
Sebbene la nostra separazione mi faccia sentire come un avanzo di
limone lasciato a rinsecchire in frigo, non posso non riconoscere la
sagacia della battuta: non potevi trovarne una migliore per piantare
uno chef !
Cinque anni di vita insieme. Cinque anni trascorsi per lo più
vivacemente nella cucina del nostro ristorante a ricercare ingredienti
genuini e gustosi, a sperimentare accostamenti con i vini e ad
accrescere le nostre capacità di accogliere gli ospiti. Successi e
conferme professionali non sono mancati. Ma una ricetta di felicità
per la nostra vita non siamo riusciti a trovarla. Però, se oggi Martina
cara, sono qui a scriverti è perché mi piace impastare la mia vita con
te, mescolare i nostri umori, abbeverarmi al tuo spirito e assaporarti
lentamente.
I sapori della nostra mensa che salgono prepotenti dalla memoria, mi
emozionano ancora.
Il nostro primo incontro durante quel happy hour in un bar del centro
fu un antipasto delizioso. Piccoli assaggi di conoscenza solleticavano
la mia fantasia, accrescevano il mio desiderio di approfondire il
sapore degli stuzzichini delle tue parole, le tue labbra affondavano
nei tramezzini, stillavano piccoli sorsi di prosecco e confondevo le
bollicine con il lucore del tuo sguardo. Tornai lì ogni giorno
sperando di rivederti dandomi del pesce lesso per non averti chiesto
il numero di telefono. Ti ritrovai dopo una settimana. Stavi gustando
dei bocconcini di mozzarella di bufala, non si può interrompere
nessuno quando ci si gusta una meraviglia simile. Da un angolo del
bar, sicuro di non essere visto, spiai la morbida crema bianca che
entrava nella tua bocca e solo quando i tuoi occhi si riaprirono dopo
la soddisfazione dei sensi, mi avvicinai porgendoti la mano. Quel
contatto fu un‟estasi burrosa. Il tuo sorriso una crocchetta calda e la
tua voce una carezza di maionese. Accettasti il mio invito a cena. Fu
~ 226 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
un trionfo di sapori. Il dialogo fluiva come il rosso amabile che
accompagnava l‟arrosto aromatico, appagavi il mio palato oltre la
mousse di cioccolato e solleticavi i miei sensi più dello spumante.
“Voglio cucinare per lei”, non avevo che questo desiderio in circolo
mentre osservavo le tue mani sollevare il calice verso la tua bocca e
sangue e spirito venivano permeati da un‟attrazione definitiva.
Quella stessa sera decisi che ogni mattina, prima ancora dell‟aroma
del caffè, avrei voluto sentire il profumo della tua pelle accanto a me.
Oh Martina, come è accaduto che sia qui da solo, insipido e inodore,
in questa cucina con i fornelli spenti? Ci siamo impegnati a cucinare
per gli altri, mentre i nostri pasti si facevano frettolosi e distratti. Ci
siamo pian piano dimenticati del nostro tavolo che via via è divenuto
disadorno, scontato e senza cura.
Abbiamo cominciato a vivere come mangiavamo: guardando gli altri
farlo.
Il sapore, assieme al nostro spirito, si è fatto aspro, poi stanco e
infine marcio.
Come quella coppia che entrò nel locale qualche tempo fa. Giovani
ed eleganti, mano nella mano. Li accompagnasti al tavolo e
rientrando in cucina mi dicesti “sembrano affettuosi, ma sono spenti
come vino passato”. Offristi loro un bicchierino inebriante di
malvasia ma rientrando in cucina amaramente commentasti “lei non
è più interessata, nemmeno la malvasia l‟ha emozionata”.
Martina mia, tu non rifiuterai di bere al mio calice questa sera, vero?
Questa sera la cucina apre solo per te, per noi. Quando hai accettato
il mio invito a cena, si è sciolto quel boccone acido che avevo nello
stomaco, ho sospirato di gioia e speranza cominciando a cucinare per
te.
Sono qui che ti aspetto. Danzo con gli aromi buoni e familiari che
salgono dalla nostra mensa.
Il rosso sincero e morbido è già posto a decantare sulla tovaglia
candida, i calici bramano le nostre labbra.
Ti aspetto e mi impasto col pensiero di te.
~ 227 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Frida Stefano
Un bel giorno in redazione
Mi guarda dritto negli occhi e mi dice: "Ci sai fare ragazzo con la
penna. Sì, sì....voglio il tuo nome. Ho la netta impressione che sentirò
parlare di te molto presto."
Io ribatto con tono stupito: " netta? Perchè netta?"
"Non so, sembra che vada di moda ultimamente".
Risponde il tizio dal grosso panciotto stringendo tra i denti un sigaro
più grosso di lui. "I vecchi tempi sono passati e non si va più alla
ricerca della bella parola accattivante, si guarda vicino al proprio
naso e...." si lascia cadere il sigaro dalla bocca" eccola qui la parola
dritta dritta a portata di mano" dice mentre afferra il sigaro cadente e
se lo rificca in bocca.
"Perchè non lo accende?" Protesto io.
"Eh, quanta fretta giovanotto, quanta fretta, voi della nuova
generazione siete troppo impulsivi. Un uomo della mia età attende,
pregusta il momento in cui il fuoco andrà a posarsi sul tabacco e
dopo, solo dopo, può dare inizio al suo rito".
"Che inizi il più tardi possibile"penso io "un rito tanto puzzolente".
Scarpe tirate a lucido, vestito quasi nuovo, aspetto florido e
corpulento si infila una mano in tasca, ne tira fuori un accendino e
inizia il suo rito.
"Devo andare" dico io, avvolto in una nuvola di fumo.
"Dove vai?" Mi sgrida al di là della nebbia"è l'impulso, è l'impulso
che vi frega. Chi ti ha detto di staccare le gambe dalla sedia? E con
sguardo inquisitorio "te l'ho detto io forse?"
Mi getta addosso un'altra nuvola di fumo ."Qualcuno mi salvi" penso
"perchè non ce la faccio più a rimanere incollato qui, per via del rito,
chi se lo immaginava che mi sarebbe toccato condividerlo".
"Stai là e scambiamo quattro chiacchere, giusto il tempo di finire il
mio sigaro" dice continuando a sfumacchiarmi in faccia.
Dovunque mi sposti, ecco lui raggiungermi con l'immancabile getto
di fumo.
"Disciplina, ragazzo, ci vuole disciplina".
~ 228 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
"Se non la conoscessi direi che lo fa apposta. Il suo rito mi sta
invadendo i polmoni".
"Non devi preoccuparti di questo, può farti solo bene; lo smog, i fumi
tossici delle industrie sono i nemici del nostro corpo, è lo smog che
ricatta i nostri polmoni. Vuoi vivere? E allora devi respirare. Vuoi
prenderti l'aria? E allora devi prenderti anche me.
Il fumo puoi evitarlo, basta cambiare stanza, sempre che io decida di
rompere il matrimonio tra le tue gambe e quella sedia, ma lo smog
no, lui ormai ha invaso tutto il mondo”.
Ultimi due tiri a quella che in quel momento desideravo fosse una
miccia, ultimi due banchi di nebbia a inondare il mio volto e poi una
scossa di terremoto: mi dà una pacca sulla spalla e ho l'impressione
che la mia faccia stia per fare un bel matrimonio con le mie
ginocchia.
"Ora sì, che puoi andare. Ci vediamo domani a lavoro alla buon'ora e
mi raccomando, disciplina, ragazzo, disciplina".
Mi alzo tutto contento e mi viene una gran voglia di fumarmi un
sigaro.
Afferra l'asta dei miei occhiali, me li toglie e poi me li rinforca e mi
stampa, quasi sei dita sugli occhiali.
"Alle 6.00" mi dice con voce autoritaria e poi ribatte "ci vediamo
domani (puntuale) alle sei della mattina".
"Sì signore, certo signore, come vuole signore" rispolvero il mio
gergo militaresco con il corpo che mi trema non so ancora se per la
felicità derivata da quella sorpresa o per l'effetto postumo della pacca
ricevuta prima.
"Eh, eh, finalmente ci intendiamo" conclude il tizio "Sì, sì
....finalmente ci intendiamo".
~ 229 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Antonio Fruci
Appena in tempo
Sì è vero, sono una di quelle ragazze che, quando un ragazzo chiede
come sono, le mie amiche rispondono “simpatica”.
Alla scuola elementare non ci facevo caso. Certamente i maschietti
non dicevano che ero la più bella della classe, ma a quell‟età i
maschietti sono stupidi. A quel tempo pensavo che con l‟età
maturassero, poi ho scoperto che sbagliavo, tantissimo. Tra l‟altro mi
piaceva molto un mio compagno di classe, ma era proprio il più
stupido di tutti.
Alle medie le prime cotte importanti. E le prime delusioni purtroppo:
fanno ancora male se ci ripenso. Se come me, sei bruttina, hai gli
occhiali, l‟acne e i brufoli, il naso a patata, l'apparecchio ai denti
anche se provvisorio, un orecchio un po‟ a sventola che però nessuno
ha mai notato perché è coperto da un taglio di capelli non alla moda e
in più sei una secchiona, mai nessun ragazzo t‟inviterà ad uscire; si
vergognano. A quel tempo pensavo che fosse normale che i ragazzi
preferissero e apprezzassero maggiormente gli aspetti fisici di una
ragazza. Sì, era una questione soprattutto ormonale. No, poi ho avuto
la conferma che era sempre una questione di stupidità.
Al liceo, finalmente sì! Lì sì che avrei trovato il ragazzo giusto per
me, quello che sto aspettando da anni, quello che avrebbe apprezzato
la mia cultura, la mia ironia, la mia passione per altri interessi che
non siano la discoteca, le scarpe e i reality, ma soprattutto che
avrebbe saputo apprezzare la mia voglia di divertirmi e di stare bene
con lui e di vivere una storia importante, una vera storia d‟amore. Ma
forse a quell‟età hanno già paura di sfigurare, forse la prendono già
come una competizione e sanno di dover ammettere la propria
stupidità, No, ai ragazzi del liceo interessano solamente l‟auto che i
genitori devono comprargli, le canne, bere con gli amici e le ragazze,
sempre quelle, quelle con il push-up, quelle che te le fai e il resto non
importa.
Così ora, proprio in questo momento, mi ritrovo senza un ragazzo.
Fino ad oggi non ho mai avuto un ragazzo, o meglio, un ragazzo non
~ 230 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
mi ha mai voluto, eppure sono simpatica, dicono le mie amiche. Fino
ad oggi non ho mai saputo cosa significa sentirsi dire “ti amo” da un
ragazzo.
Fra una settimana è il mio diciottesimo compleanno. Il Compleanno.
Oggi sono qui, da sola, in montagna, in cima ad una parete a picco su
una valle vicino la mia città. Con le lagrime agli occhi e con questi
pensieri nella mente. Faccio un ultimo respiro, corro veloce verso lo
strapiombo e salto giù ad occhi chiusi e grido forte “Ti Amooo!”.
All‟improvviso, inaspettatamente, come un‟ingenua non ci avevo
pensato prima, l‟eco della valle mi risponde e mi dice: “Ti
Amoooooo!”.
Ecco, l‟ho sentito. Lo ha detto a me! È bellissimo. Nasce in me un
sorriso meraviglioso. Ho fatto appena in tempo ad essere amata dalla
mia vita.
~ 231 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Michela Gabrielli
Addio
Adele si guardava attorno, non poteva pensare che tutto ciò fosse
avvenuto lì, in quella via da cui si trovava a passare ora.
A quei tempi erano tanti: tutti uomini e donne che attraversavano là,
accanto a suo padre e sua madre, ed ancora di più erano i soldati che
li squadravano dall‟alto in basso. Ella era lontana, lontana non solo
dal luogo in questione, ma lontana anni luce dal problema. Pensava
in principio, fosse una fila per procurarsi il pane; poi si rese conto
dell‟aria minacciosa e dei fucili spianati dei soldati su quel gruppo di
persone. Nessuno poteva passare se prima non fosse stato “vagliato e
setacciato” da quegli uomini per lei cattivi.
Nessuno ugualmente, però, sapeva che era la figlia di due deportati, e
mentre il padre le faceva segno di allontanarsi, Adele già cominciava
a pensare dove andare. Si voltò e scorse, spalla a spalla, una ragazza
di non più, (ella credette) di 25 anni, con due bambini accanto: uno in
braccio e l‟altro per mano. Adele si avvicinò subito alla bambina e le
chiese sottovoce: “Siete stati fermati anche voi da quei signori vestiti
da soldati?” La bimba disse: “Sì, ma siamo stati allontanati proprio
ora dal comando, perché non abbiamo i documenti, mi ha detto
mamma”.
E Adele: “ E tua madre ti ha detto anche che scapperete? Sai, io sono
rimasta sola e vorrei fuggire, ma vorrei farlo con qualcuno!” La
ragazza di venticinque anni che aveva ascoltato tutto, allora replicò: “
Se vuoi, non ti preoccupare: puoi venire con noi fino in America: a
Boston, dove raggiungeremo dei lontani parenti che ci aspettano.
Dai: dimmi se devi avvertire qualcuno. Noi ti accompagniamo finchè
sarai pronta a seguirci.”
Adele rispose: “ Va bene signora: io devo solo rintracciare i miei
nonni che sono nascosti qui vicino e che io temo verranno presi!”
Ed è allora che Adele ricorda la via crucis intrapresa dai suoi cari
vecchi parenti, fino alla loro morte, nel campo di concentramento di
Mathausen che vide la fine di molti ebrei d‟Europa.
~ 232 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
L‟olocausto sopraggiunse, il sei ottobre 1942 per entrambi i nonni, e
questa data fissa per Adele anche la fine della sua speranza di tornare
a sorridere e a gioire. Quel 4 Aprile 1941, giorno in cui vide per
l‟ultima volta la nonna Elda e quel saluto le rimarrà per sempre nella
memoria come il primo giorno di una ritrovata origine familiare che
vide, nella madre di sua madre, la sola vera antenata rassicurante a
cui la dolce bambina riusciva a confidare tutto, ancor più che alla
mamma stessa.
La piccola riuscì, con la famiglia Rizzi, a sfuggire alla detenzione;
ma mai potrà dimenticare l‟espressione del volto dei due nonni che
ne scorgono il profilo mentre vengono allontanati con quel carro
bestiame da Roma.
Ecco: la stazione è piena di uomini e donne che vengono spinti e
calciati in carretti da “strapazzo”, dove manca addirittura lo spazio
per respirare. Adele segue con lo sguardo quei quattro occhi che, a
loro volta proclamano un commiato triste e mesto, il quale non
riuscirà a prolungarsi che per altri pochi minuti. Sì e no 120 secondi
per guardarsi e lanciarsi un solo messaggio di arrivederci che,
purtroppo sancisce solo un tenero e sconsolato addio, segnato da due
lacrime sul viso di ognuno dei tre. E quelle lacrime non si
“staccarono” più da Adele che portò con se‟, indelebilmente il
ricordo di un forte e appassionato grido di dolore rivolto ai nonni.
Fu così che andò: un urlo solo da parte di Elda: “Adele, Adele cara, a
presto, a presto! E non ci dimenticare mai, noi non lo faremo! Dai un
abbraccio a mamma e papà , Ilde e Gianni! Ciao amore!”
E Adele rispose con altrettanta veemenza: “ A presto nonna e nonno:
vi bacio e vi abbraccio con affetto! Sapete dov‟è mamma?”
“Non la vediamo, ma crediamo che sia scampata a tutto questo, cerca
di salvarti anche te!
Un abbraccio: i nonni!”
L‟ultima volta che li “vide” risale al 5 novembre 1945, quando potrà
andarli a salutare proprio a Mathausen. Così finisce, con un epitaffio
disposto dalla ragazza, in futuro per i due nonni:
“Dall‟amata nipote agli adorati nonni materni Adele ricorda: avete
salutato e seguito con lo sguardo attento, quel 4 aprile 1941, la
camminata ed il lontano addio della vostra affettuosa e piccola
Adele, restituendole forza e mai dolore!” .
~ 233 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giuseppe Galato
Pasquale
Sono solo tre giorni che sono stata liberata dalla mia prigionia. Voi
non potete immaginare cosa significhi passare una vita tra le sbarre.
Ambiente piccolo, impossibilità di qualsiasi azione. O reazione. Una
vita ad essere nutrita da terzi. Una vita che, di fatto, è dei terzi. Non
tua. Tu sei un automa. La routine fa perdere coscienza del sé. Immola
il libero arbitrio ad un pensiero ridondante. Ed ora eccomi qui, per
strada. In un mondo che non mi appartiene. Il mio mondo personale
era ormai lì, con le sue limitazioni. Io sono una disadattata. Non so
rispondere agli impulsi esterni. Non ho avuto l‟abitudine a farlo.
L‟abitudine che forgia il tuo bagaglio interno a reagire a ciò che ti
circonda. È un‟ingiustizia che mi abbiano liberato. È una finta
libertà. La libertà vera è ciò che tu puoi fare nelle tue limitazioni. Io
non posso fare. Non riesco a fare. E loro, in fin dei conti, lo
sapevano. Sapevano che mi avrebbero mandato allo sbando. Ma non
gliene è importato. L‟importante è il gesto, non le conseguenze di
esso. Progetti di facciata a breve termine contro conseguenze
concettuali a lungo termine. Ed eccomi qui. Sono solo tre giorni che
sono stata liberata dalla mia prigionia. E sto morendo. Non sono
riuscita a trovare un mio posto. Una vita fatta di eremo non ti
permette nessuna sorta di socializzazione. Non ti dà i concetti
necessari per lasciarti comprendere il come. Sto morendo di freddo,
di fame, senza un posto dove andare, senza riuscire a rapportarmi con
i miei simili. L‟unica cosa che ora riesco a fare è cercare di pensare
se mai sono stata libera. Non ricordo. Non ricordo nulla. Né i miei
genitori, né la mia vita precedente la prigionia. Il primo ricordo che
ho sono quelle sbarre. E gente in andirivieni. Ma solo immagini di
persone, non i concetti che essi portano con sé. Non ricordo neanche
il mio nome. Semmai ne abbia avuto uno. Ed ora, eccomi qui. Sono
solo tre giorni che sono stata liberata dalla mia prigionia. E sto
morendo. Ho già gli arti irrigiditi, impossibilitati di movimento,
come quando ero fra le sbarre, ma stavolta immobilizzati
dall‟interno. Sento il battito cardiaco che inizia a calare. Il corpo sta
~ 234 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
cedendo, non reagisce, ed il freddo va a riempirlo. Sento la pupilla,
bagnata dalle lacrime, espandersi. Le immagini si sfocano. Il mio
ultimo pensiero va al giornalista della televisione, che ha parlato nel
momento in cui sono stata liberata. E forse ha pronunciato il mio
nome. Penso alle sue parole: “ecco liberata la colomba della pace,
come buon auspicio per un mondo migliore”.
~ 235 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Michela Gallo
La vita, un giorno
Sedeva in silenzio nella sua stanza, la calda luce del tramonto filtrava
attraverso le tapparelle semichiuse, spingendo i raggi del sole fino
alla parete di fronte alla finestra come fossero nastri velati sospesi
nello spazio e nel tempo. I suoi occhi appena aperti cercavano
un‟ispirazione, una risposta alle tante domande della vita. Chi era
davvero? Quale lo scopo della sua esistenza?
Perché continuare e non farla finita subito? Non riusciva a dare
risposta a nessuna di queste domande. Sapeva tuttavia che erano ed
erano state da sempre le domande di tutta l‟umanità, da milioni di
anni. Quello che non sapeva era se ci fosse mai stato o se esisteva
qualcuno che era riuscito a capire. Capire il senso dell‟esistenza.
Improvvisamente si risvegliò da quel turbinio di incertezze ed inutili
sofismi e si concentrò su se stessa e su ciò che veramente voleva per
sé. Si avvicinò al tavolino, prese un foglio e scrisse: “Non sarò mai
sola”. Lesse e rilesse quella frase, vedendosi in mezzo a tante
persone che l‟ammiravano, sentendosi cercata e amata, finalmente.
Era stanca di quella solitudine. Era sempre stata sola, persa nelle sue
domande, nelle sue risposte. Avrebbe mai condiviso con alcuno le
sue più nascoste paure, le sue illusioni più cristalline? Avrebbe mai
trovato qualcuno che comprendesse fino in fondo i suoi pensieri?
In quel momento cominciò a scrivere, sapendo di trasmettere le sue
profonde emozioni a chi, un giorno, avrebbe trovato quelle pagine.
Messaggi segreti per una se stessa futura, messaggi per qualcuno che
sicuramente avrebbe compreso, messaggi scevri dal timore di essere
giudicata. Chiusa nel suo piccolo mondo, accompagnata dai suoi
ricordi, non si sentiva sola. Lasciava scorrere davanti ai suoi occhi il
tempo che la conduceva fra volti e sguardi del passato, punti di
partenza per innumerevoli viaggi nella memoria e spunti per nuove
illuminazioni. Ricordava il periodo della sua adolescenza, anni
tormentati e felici allo stesso tempo: pura confusione. Non aveva
paura di invecchiare, i ricordi erano semplicemente momenti presi in
prestito da tirare fuori all‟occorrenza, non voleva tornare indietro. In
~ 236 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
realtà non sapeva neppure se andare avanti. A un tratto uno di quei
pensieri scivolò silenziosamente nel suo cosciente: “Sono io
l‟artefice della mia vita.”
Ricordava ancora il libro da cui aveva preso quella frase. Ricordava
bene il periodo in cui l‟aveva letto. Cominciò a ripetere a sé stessa:
“sono io l‟artefice della mia vita” quasi per auto-ipnotizzarsi e
diventare più forte di quanto non era. Si voltò nella penombra e vide
una figura. Se ne stava accovacciata sul suo letto, il viso nascosto fra
le mani, i capelli in uno stato di apparente disordine. Era lì, ferma, in
attesa. “Ciao” le disse, come per smuoverla dal quell‟immobilità
glaciale. La ragazzina rabbrividì nel sentire la sua voce, abbassò
lentamente le mani mostrando il viso cereo e la guardò negli occhi.
Piangeva. Betta notò in quella creatura qualcosa di familiare, quasi
ancestrale. La guardava intensamente, come se cercasse di scavare
nella sua anima per trovare una risposta al suo profondo malessere.
Le si avvicinò con una lentezza che mostrava tutta la paura di
scoprire una verità che ancora non conosceva. “Chi sei? Non ti ho
sentita arrivare.” le chiese la ragazza tremando. “Perché piangi?” le
chiese Betta prendendole la mano. Nello stesso momento fu percorsa
da un brivido lungo la schiena. Si allontanò immediatamente
pietrificata. Quella ragazzina le era familiare, troppo familiare. Le
ricordava...no, era se stessa all‟età di 12 anni! Com‟era mai
possibile? Ricordò all‟istante la tenera adolescente in preda a milioni
di paure e timori, assetata di mille e mille risposte, con le sue infinite
domande. Adulta trattata da bambina. “Sono una tua amica” le disse
guardandola piangere, “sono quell‟amica che hai tanto cercato, che
hai invocato fino allo sfinimento. Ho sentito il tuo grido di aiuto, e
sono corsa qui, a rassicurarti, e a proteggerti” disse, prendendole
nuovamente la mano che aveva lasciato in preda allo sgomento. Si
accorse solo in quel momento che era gelida, tremava, le labbra
livide, il colorito pallido, gli occhi incavati. Era nuda e bagnata. Betta
la coprì con una coperta. “Cosa ti è successo?” le chiese. “Io lo so chi
sei” le disse la ragazza, “tu sei me, vero?” “Sì” disse Betta. “Troppo
tardi, non puoi più aiutarmi”. ”Che vuoi dire?” le chiese, mentre la
ragazza le mostrava i polsi: profonde incisioni orizzontali erano
scavate fino a mostrare le ossa. “Ma che hai fatto? Perché?” le chiese
in preda alla disperazione. “Ricordi quando ti buttavi sul letto
disperata, e piangevi a dirotto? Ricordi quando rimanevi lì da sola,
~ 237 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sperando che qualcuno venisse a darti conforto, ma continuavi a
piangere e a rimanere sola? Ricordi quante volte hai pensato a farla
finita?
Beh…io sono il prodotto di quei pensieri, hai deciso che la vita non è
degna di essere vissuta!”
“Ma, avevi solo 12 anni…la vita per te non era ancora cominciata,
perché l‟hai fatto?”
“Dovresti saperlo meglio di me. Tu sai come mi sentivo in quei
momenti, sai quanto ho sperato che qualcuno decidesse al posto mio
e mi portasse via da quella vita. Nessuno è venuto, e allora sono stata
io a prendere l‟unica decisione che avrei mai potuto prendere
liberamente. Ricordi quel pomeriggio quando, seduta davanti alla
finestra, piangendo chiedevi a tua madre conforto, sperando che lei ti
abbracciasse e ti dicesse che ti amava, e invece avevi ricevuto solo
parole di sdegno? Ecco, io proprio quel pomeriggio ho capito che né
da lei, né da altri avrei mai ricevuto affetto, così ho deciso che una
vita nella tristezza non mi interessava. Sono andata in bagno e ho
riempito la vasca d‟acqua, fra le grida di mamma che diceva che non
era il momento di farsi il bagno, che dovevo aiutarla nelle faccende,
che ero una scansafatiche. Ho cercato nel mobiletto delle lamette,
sapevo che ce n‟erano, poi sono entrata in acqua e mi sono rilassata.
Stavo bene, e sapevo che sarei stata meglio, non avevo paura. Ho
preso la lametta e l‟ho affondata nei miei polsi, non ho sentito nessun
dolore talmente forte era il desiderio di non soffrire più, poi ho
immerso le braccia nell‟acqua . Non so quanto tempo sia passato, mi
sono addormentata, e non mi sono più svegliata.”
Betta rabbrividì a sentire quel racconto, ricordava ancora il suo
bisogno d‟amore, di comprensione, la profonda sofferenza di quei
momenti. Ricordava quanto desiderava morire, quando,distesa a
piangere sul suo letto, invocava Dio perché la prendesse con sé. Si
sentiva un‟aliena in quella famiglia e nel mondo. Pensava che non
avrebbe mai trovato nessuno che l‟avesse compresa per quella che
era. La Betta del passato aveva rinunciato a combattere, aveva
smesso di cercare. Non la considerava una perdente. Perdenti sono
quelli che rinunciano ad essere se stessi. Semplicemente aveva capito
che il mondo non era fatto per quelli come lei, e aveva deciso di
lasciarlo.
~ 238 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Perché piangi?” le chiese. Non ricevette nessuna risposta. Le poggiò
una mano sulla spalla, sorrise timidamente, cercò qualcosa da dire
per consolarla ma i suoi occhi si annebbiarono, cercò di non
piangere, ma così tante e tali erano le lacrime da versare, che non
riuscì a contenerle. Si sdraiò sul letto, come faceva da piccola, e
pianse fino allo sfinimento. Poi ricordò. Ricordò che quando aveva
solo 12 anni era entrata in bagno e mentre riempiva la vasca d‟acqua
aveva aperto l‟armadietto ed aveva cercato delle lamette. Poi era
entrata nella vasca,l‟acqua era calda al punto giusto, come per
racchiuderla in un abbraccio e confortarla. Era stanca, stanca di
soffrire, stanca di piangere e di stare da sola. A un tratto l‟acqua
aveva cominciato a diventare rossa, sempre più rossa, quasi
immediatamente si era addormentata. Aveva dimenticato tutto.
Aveva continuato a vivere nella fantasia fino a quel giorno.
Ricordava sua madre che le si era avvicinata esterrefatta. Ricordava
che aveva cominciato a piangere e lei aveva pensato: “Ora piangi, ora
che non puoi più avermi con te, ora che non ci sono più piangi.
Dovevi starmi accanto quando ero viva.” Voleva punirla per non
averla amata abbastanza e si era tolta la vita. Pianse.
~ 239 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giuseppe Gallucci
Romanzo incompiuto senza titolo
Capitolo 1
Roma, cinque anni dopo.
Era una settimana ormai che una cappa di umidità rendeva ancora più
insopportabile il caldo di quelle giornate di fine Luglio ed il traffico
congestionato del venerdì pomeriggio la rendeva ancora più
insopportabile.
Mi ero trasferito a Roma ormai da quasi cinque anni, dall‟ ottobre di
quel triste 1997… Avevo deciso di cambiare vita e mi fu offerta la
possibilità di lavorare presso una Multinazionale, che operava in
diverse città italiane, come responsabile di area. Scelsi quella sede
perché era la più importante o forse perché era la più vicina al mio
mondo perduto, distante, ed anche se in me c‟ era una gran voglia di
andare il più lontano possibile, ero limitato da una sorta di cordone
ombelicale che mi legava al passato ed ai suoi luoghi.
La vita scorreva abbastanza lineare; il lavoro mi impegnava molto
ma che mi ripagava con grandi soddisfazioni; gli amici o per meglio
dire conoscenti, con cui uscire e magari divertirsi; piccoli viaggi nei
fine settimana e qualche amica.
Non mi ero sposato e nemmeno legato sentimentalmente, per scelta
ovviamente. Vivevo la mia vita sentimentale separando nettamente
l‟amore dal sesso, alla fine era solo sesso senza amore. Intrattenevo
relazioni con tre donne, tutte diverse tra loro in molte cose, un po‟
per scelta ed un po‟ per necessità; necessità di non avere legami, per
non illudere e per non essere illuso.
Da ognuna di loro prendevo qualcosa di buono e sommandole
cercavo di realizzare quella che poteva essere la donna ideale, ma
purtroppo mancava ancora un elemento indispensabile, quasi
introvabile…l‟ amore.
Anna Paola, trentatrè anni poliziotta ( mi aveva sempre attirato l‟
idea di fare l‟amore con una donna in divisa ); una donna energica,
molto impegnata con il suo lavoro, quasi una missione per lei. Aveva
pochissimo tempo libero, diviso tra footing, piscina e palestra, che le
~ 240 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
permettevano di mantenersi in forma strepitosa. Quelle poche volte
che ci vedevamo era solo sesso sfrenato, poi ognuno si voltava dalla
sua parte e riprendevamo la nostra condizione di perfetti estranei.
Giuliana ventinove anni. La classica donna da sposare; buona cuoca,
buona donna di casa, forse anche buona madre, ottima
amministratrice tanto da voler amministrare anche la mia vita: ed io
glielo permettevo fino a quando lo ritenevo un gioco, ma quando la
cosa diventava troppo impegnativa scappavo via e non mi facevo
sentire per mesi.
La terza era una donna sposata con due figli; forse era il rapporto più
equilibrato perchè anche se ognuno di noi voleva avere di più, c‟era
il quel vincolo che lo impediva e che serviva per me come buona
scusa .
In questo modo cercavo di non impegnarmi moralmente con nessuna,
di essere libero di vivere la mia vita, di estraniarmi per staccare la
spina nei miei periodi di riflessione e sparire senza dover dare
spiegazioni… a nessuno.
Nei miei momenti di riflessione mi rifugiavo spesso da un amico,
Pierino, sessantacinque anni, pittore. Era un personaggio unico,
molto riflessivo, bonariamente anche un po‟ strano, come del resto
lo sono gli artisti, ma tutto sommato il più vero. Era un gran pezzo d‟
uomo, il suo fisico ancora possente denotava una gran forza fisica
ma suoi occhi anche se molto vispi ed attenti erano privi di luce,
quella luce che un tempo brillava per la sua povera Consuelo, morta
20 anni prima all‟ improvviso senza una spiegazione e che si era
portata con sé la parte migliore di lui.
Viveva in una grande villa un stile rustico immersa nel verde del suo
parco, incastonato nelle colline. Lo conobbi qualche anno prima al
ricevimento per la presentazione di un libro di un giovane scrittore in
forte ascesa, rampollo di una dinastia di scrittori. Ci trovammo e ci
accomunò subito la nostra totale estraneità all‟ avvenimento, alla
gente presente che si accalcava intorno allo scrittore per poter dire “
io c‟ero”, mentre noi eravamo li per altri motivi , assenti ed estranei a
tutto il resto.
Lui mi invitò per il fine settimana successivo a casa sua; era fine
settembre, periodo di vendemmia e lui e gli altri vicini si aiutavano a
turno in questa operazione, quasi un rito, una tradizione che sfociava
la sera in grandi mangiate e bevute. Era uno dei miei periodi neri, di
~ 241 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
depressione e colsi al volo l‟ opportunità sperando di potermi
distrarre.
Da Pierino ci tornavo ogni volta che ne sentivo il bisogno.
Alternavamo, quando il tempo lo permetteva, lunghe passeggiate nei
boschi , raccolta di ortaggi e frutta nella sua campagna, cene con i
suoi amici vicini, gente normale perlopiù contadini, ma gente vera,
viva. Molte volte rimanevamo a cena da soli, si mangiava e si bevevo
molto, parlavamo per delle ore di svariati argomenti, anche se i
nostri discorsi convergevano alla fine sullo stesso argomento: lui
parlava del suo grande amore perduto, ed io del mio.
Ci lasciavamo travolgere dai ricordi, di come era e di come sarebbe
potuto essere, ed esaurito l‟ argomento ci isolavamo; lui mi diceva
“caro amico mi hai ispirato” ed iniziava a dipingere un quadro dai
nostri ricordi immaginato, mentre io rimanevo a contemplarlo
…avevo iniziato anche a leggere un buon romanzo davanti al
camino acceso. Era ormai un anno che leggevo quel romanzo, una
storia d‟ amore tanto impossibile quanto bella ed eterna, lo leggevo
solo quando andavo da lui e forse il fatto di non finirlo mai era un
modo per far durare quella storia il più a lungo possibile, per sempre
, almeno quella….leggevo alcune pagine e poi mi fermavo, ed il mio
sguardo si perdeva nella fiamma del camino, mentre la mia mente
incominciava il suo viaggio, i ricordi mi assalivano….mi svegliavo
da quel torpore e pensavo che non sapevo ancora se andavo li per
ricordarmi di dimenticare, per dimenticare di ricordarmi o forse solo
per poter ricordare….
Comunque quei giorni mi servivano per ritemprarmi e per ritrovare
la forza per riprendere la vita di tutti i giorni.
Capitolo 2
Erano quasi le otto ,avevo finito il mio lavoro e tornavo a casa;
percorrevo la Tuscolana e la vista di un Ipermercato mi fece ritornare
alla mente la scena del frigo vuoto vista la mattina; entrai nel
parcheggio ed infilai l‟ auto nel posto appena lasciato libero da una
famiglia che aveva fatto scorte per il fine settimana e come al solito
mi mancava la moneta intera da inserire nel carrello. Attesi quindi
paziente che una signora gentile e gradevole svuotasse il suo per
darle gli spiccioli e prenderlo.
~ 242 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mi incamminai verso l‟ entrata, le porte del grande complesso si
aprirono ed entrando provai la piacevole sensazione dell‟ aria
condizionata che creava un muro con il caldo umido di fuori.
Percorsi la galleria più in fretta che potetti evitando di guardare le
vetrine dei negozi come facevo di solito, per specchiarmi dentro e
per vedere le commesse carine che ci lavoravano, ed entrai nella zona
supermercato guardando la merce esposta sugli scaffali per potermi
ricordare quello che mi poteva servire.
Ad un tratto mi fermai; era davanti a me quasi perfetta, forse troppo
uguale; girava la testa verso i due lati del corridoio degli scaffali con
scatti precisi, rapidi che facevano ondeggiare la sua lunga coda che
raccoglieva i suoi capelli biondi seguendone il movimento. Le sue
spalle erano perfette, larghe con quella pronunciata incurvatura sul
fondo schiena, il suo sedere si muoveva seguendo il ritmo imposto
dalle sue gambe lunghe e snelle, mentre il suo busto rimaneva dritto,
quasi immobile. Indossava un vestito blue lungo con bretelle che
lasciava scoperta parte della sua spalla e la fasciava in modo perfetto.
Molte volte mi ero soffermato ad ammirare quello stile
inconfondibile ; credevo di vederlo un po‟ ovunque, nei bar, nei
locali notturni o confuso tra la gente per le vie del centro città, ed
ogni volta cercavo di raggiungerle e di superarle per guardarle in viso
ed avere sempre conferma negativa ai miei pensieri, alle mie
speranze.
Ma questa volta non ci riuscivo, non riuscivo più a muovermi,
qualcosa di straordinario mi aveva letteralmente bloccato; il cuore mi
pompava impazzito il sangue al cervello, tutto intorno a me girava
velocemente come una giostra e le luci facevano dei giochi strani.
Lei ad un tratto si fermò, fece qualche passo indietro e si voltò: tutto
si fermò, compreso il mio cuore….era sempre bellissima, il tempo
non sembrava essere passato per lei; ci guardammo profondamente
negli occhi, ed i miei si persero nell‟azzurro dei suoi …” Ciao,
Grazia …”
~ 243 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Chiara Gasparetti
Una palla di racconto
…sono una palla, sono una palla, sono una palla. E se fossi un uovo?
Splash!!!
Beh, se fossi un uovo potrei raccontare solo pochi giorni di questa
avventura, dopo di che marcirei e mi butterebbero via per l‟odore
acre. Sono una piccola biglia di vetro e mi considero un portafortuna,
altra scusa non c‟è altrimenti per giustificare il mio essere sempre
nelle tasche di questa tipa.
Una giornata grigia e piovosa me ne stavo su un sentiero sperduto,
tra i sassi, con l‟acqua che mi scorreva intorno, una strana sensazione
di solletico. Erano mesi che stavo là, immobile, aspettando che una
pioggia tumultuosa mi trascinasse con sé da qualche altra parte verso
est. Est, perché standomene sulla catena preappeninica marchigiana
l‟acqua alla fine va sempre a finire nell‟Adriatico, a meno che io non
mi trovi nella valle del Nera. Penso di essere finito là dopo essere
caduto dalla tasca di un signore che passava di qua a cavallo. Intorno
a me nubi pesanti, ma pioggia leggera. Il vento freddo dai Balcani mi
tira foglie di faggio addosso. Ecco passa un fagiano che si leva dal
bosco per non bagnarsi troppo con le gocce pesanti che gli cadono
sopra dalle piante. Davanti a me una rupe, scogli nudi a strapiombo
su una piccola gola. Come può un leccio crescere su questa parete?
Lo osservo da quando sono caduto qui per terra. Imperterrito al
vento, alla neve al sole, se ne sta là, ritorto, spezzato. Quasi neanche
gli uccelli vanno a posarsi là sopra, tanto è scomodo il luogo in cui si
trova. Una volta un picchio è passato là vicino strillando. Di fronte a
questa rupe, un‟altra rupe. Le due pareti si specchiano l‟una
nell‟altra, vicinissime, ma separate da una gola profonda. Ricordo
una volta una ragazza che si è affacciata a quella rupe da sola. In
mano un piccolo libro grigio, una matita e un block notes. Sarà stata
là per due ore a fare cosa? Non lo so. Prima si guarda intorno, poi si
siede, si rialza, prende il libro, lo sfoglia, lo richiude. Prende la
matita, la rigira tra le mani. Muove lo sguardo, prima a terra, poi al
cielo, poi a est. Infine guarda avanti e nota il leccio, solitario si
~ 244 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
staglia sulla parete di fronte, così vicino ma così lontano per via della
gola che li separa. Poi si siede, continua a guardare il leccio. Inclina
la testa, prende la matita, con fare deciso inizia a tracciare dei piccoli
segni su una pagina del blocnotes. Finalmente gira il foglio e così
anche io riesco a vedere. Ha disegnato il leccio! Ora scrive sul retro.
Non riesco a leggere.
Cessa di piovere, finalmente. Nuvole lentamente si aprono. Un
raggio di sole trapela e cade esattamente su di me. Strano. Dalla mia
posizione luminosa riesco a vedere peggio tutto intorno a me come se
da una stanza illuminata si guarda verso un corridoio buio. Nel
momento in cui la vista non ci assiste, involontariamente acutizziamo
gli altri sensi, ed esso che sento delle vibrazioni a terra… qualcuno si
muove. Eccola, la ragazza di prima, cammina sul sentiero. Guarda
intorno, come se cogliesse con ogni minimo sguardo un particolare.
Non guarda il paesaggio nel suo insieme, guarda i dettagli, come se
non li avesse mai visti prima. Sembra distratta dai suoi pensieri
eppure guarda, o meglio vede. Con il mio sguardo seguo il suo. I
nostri sguardi si incontrano. Mi ha visto! Quasi senza fermare il suo
passo si china, mi raccoglie e mi mette in tasca. In quella stessa tasca
ritrovo il foglio staccato dal blocnotes e mi metto a curiosare. Il
disegno del leccio e dietro una breve poesia sullo stesso leccio. La
leggo.
Vorrei essere quel leccio aggrappato
in cima a questa montagna
per vivere l‟inverno nascosto
tra la sua nebbia,
scaldato dalla neve:
non vedrei nulla, ma il vento
forte
mi racconterebbe tutto.
d‟estate poi dominare
questa valle
e vedere sempre
quella persona che sale alla rupe.
sentire le capre belare
sulla stessa roccia
alla quale mi tengo
~ 245 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
così sporto all‟infuori
per offrire nidi
a questi falchi.
Ricomincia a camminare, risalendo la valle, Passo deciso che a tratti
si trattiene, quasi come a voler avere più tempo per osservare uno
scorcio. Riesco a sentire inquietudine, pensieri che attraversano la
sua mente. Come se nel pensare a niente si pensa a tutto, allo stesso
tempo. Gli occhi continuano a scrutare e cogliere dettagli. Ecco, si
ferma. Un cespuglio di more. Ne coglie una. Un fruscio dalla siepe,
forse un ramarro. Ricominciamo. Passo dopo passo. Risale la valle,
cambia versante e poi valica. Davanti si apre l‟orizzonte verso est: un
castello fortificato in primo piano e dietro colline. Aspre, le colline
dell‟est sono aspre, non come le dolci colline Toscana. Denotano un
turbamento, un‟anima riflessiva. Pensieri. Scendiamo, un paese
vicino appena alle pendici del monte, tra i tanti camini fumanti,
entriamo in uno di questi. La casa è vuota al momento. Penombra.
C‟è un pianoforte. Si dirige sicura verso questo, si siede e suona a
luci spente. Una musica triste, quasi come i pensieri. Guardo fuori, è
già buio. Tre montagne dietro la schiena e alcune aspre colline avanti
mi abbracciano. Con questa sensazione di sicurezza mi addormento.
Ora mi trovo quassù in alto a destra nella cartina dell‟Europa. Mi ha
portato qui. Perché? Mi piace stare qui. Una posizione geografica
marginale, tuttavia al pieno centro di quella linea immaginaria che
divide l‟ovest dall‟est. Lo stesso ruolo degli Appennini. Dalle
Marche si guarda verso est e il vento freddo ti sbatte in faccia. Da
qua il vento ti spettina da dietro e stranamente si scontra proprio
sugli stessi Appennini. Chissà se qualcuno là riesce addirittura a
sentire il suo odore? O i suoi pensieri. Troppi. O troppi pochi.
Dipende dai punti di vista.
Guarda fuori. Nevica. Una luce percorre i suoi occhi, dopo una
giornata difficile. Uno di quei giorni in cui vuoi stare da solo con te
stesso e soffrire un po‟ per capirti. O per confonderti di più, se è
possibile. La neve mi è sempre piaciuta e anche per questo sono stata
sempre orgogliosa di stare ed est. Se stai a ovest gli Appennini ti
proteggono dal vento dei Balcani. Ah, una goccia in testa. Ecco,
piange. Ancora una volta. Non so, non capisco, a volte inizia a
piangere così. Senza motivo, senza capire il dolore del proprio
~ 246 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
pianto. Ho capito in questi anni in questa tasca che dopo un certo
tempo si capisce perché si è fatto qualcosa. Come un cieco guidato
dal suo fedele cane, lei agisce istintivamente senza ragione delle
proprie azioni. Con passo fermo, sicura che il tempo le rivelerà il
perché di quelle scelte. A volte il pianto è il frutto di queste
rivelazioni, altre volte piange perché perde l‟istinto, altre volte
ancora perché si sente sopraffatta dalle circostanze. Le circostanze
determinano il nostro futuro e le nostre scelte. Poco possono le nostre
decisioni ostinate contro gli eventi che ci circondano. Tuttavia le
nostre decisioni sono così tanto fondamentali e necessarie. Se tutto
fosse così casuale a cosa servirebbe la nostra ragione?
Da quando mi ha trovato, non mi ha più lasciato. Mi ha portato con
sé, sempre, ovunque. Perché? Non c‟è motivo. Mi piace credere che
sia solamente affezionata a me e alle emozioni del momento in cui
mi ha raccolto da quel sentiero.
~ 247 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alessandra Gavassa
Io racconto la vita, io racconto il tempo
Noi, gemme preziose incastonate nel diadema dell‟anima cosmica. Il
nostro respiro si fonde e si amplifica nel vento che fa stormire le
fronde di un pino proteso verso le braccia della Grande Madre. Nella
pace e nel silenzio sento la voce del risveglio di un essere ritrovato.
Eccoti, sei qui, ti prendo la mano per crescere insieme. Sei luce, sei
ombra, sei tenerezza, sei rabbia, ma sei me. Sulle ali di una speranza
senza tempo e senza confini, scriveremo una storia da raccontare a
tutti coloro che la vorranno ascoltare. Da ogni angolo del cuore
diremo “ io racconto “….. e sarà un viaggio, una lacrima, un sorriso;
sarà gioia, sarà dolore, sarà un gelato alla panna, sarà una coperta
colorata. Sarà vita, sarà tempo che….
Scorre inesorabile come le sabbie di una clessidra, può essere rubato
comprato o donato, sta a noi decidere. Siamo i padroni del tempo, se
impariamo a donarlo possiamo spezzare le catene della solitudine
dell‟umanità. Così il tempo estinguerà la sete dei popoli e renderà
fertile la terra del giardino dell‟anima. Una vita senza tempo è
un‟opera d‟arte senza colori. Dipingiamo d‟arcobaleno gli attimi che
fuggono via, così diverranno eternità.
Questo è il tempo del costruire. Facciamo strade, dove le genti
possano camminare respirando il sole e accarezzando il vento.
Facciamo case, dove i bambini possano giocare la loro infanzia
protetti dall‟infamia di una crescita senza domani. Facciamo ponti,
che portino gli uomini a vedere una luce di speranza oltre il buio di
una cieca disperazione. Facciamo aerei, che sorreggano le ali della
libertà di coloro che da soli non possono spezzare le barriere del
dolore.
Facciamo la pace perché venga il regno del giusto.
Facciamo del tempo il nostro tempio.
~ 248 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sara Gemignani
23 Aprile
Anche oggi piove. Lavinia si affaccia alla finestra e sbuffa.
Deve andare dal dentista. Deve fare la spesa. Deve ricordarsi di
passare dalla biblioteca a restituire un libro, è in ritardo di dieci
giorni. Prima però deve recarsi in carrozzeria: come se i problemi
che aveva dovuto affrontare quella settimana non bastassero! Anche
la macchina dovevano sfasciarle!
Meno male non avrebbe dovuto pagare i danni, almeno quello.
Un guaio dietro l‟altro, sempre di corsa, mai un momento per sé. E
non c‟è nemmeno il sole. Uffa!
Sospira e decise di incamminarsi, chiedendosi se e quando avrebbe
avuto un motivo per ridere.
Chissà da quanto tempo non illuminava il suo viso con un bel
sorriso!
Certo anche lei cosa va a pensare? Sei giovane, ci saranno occasioni
per riscattarsi, per trovare un motivo per vivere, continua a sognare..
Uno strombazzare di clacson la distolse dai suoi pensieri. Possibile
che la gente sia sempre così nervosa? Trova il minimo pretesto per
arrabbiarsi.. solo perché quel simpatico vecchietto va a 40 km/h e
non a 60 all‟ora! Ma guarda un po‟.. sembra che il mondo intero ce
l‟abbia con te, non puoi mai stare in pace, gli eventi fanno di tutto
per non farti stare tranquilla; ma cosa hai fatto di male nei tuoi 22
anni di vita? Impreca sottovoce.
Eccoci alla prima tappa. Il dentista.
E ti pareva che non fosse in ritardo! La sala è piena di gente. Non c‟è
nemmeno la possibilità di sedersi, le poltrone sono tutte occupate. E
non puoi neanche dare un‟occhiata alle riviste..
Ma quella là al telefono non può andare fuori? Non si accorge che
disturba con la sua voce?
Lavinia è irritata, basta un nulla per innervosirla.
Finalmente viene chiamata, va tutto bene, si continua così, vedrai che
se tutto si sistema tra qualche mese si toglie l‟apparecchio. Ringrazia,
paga e va.
~ 249 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Piove a dirotto, naturalmente. Si sta bagnando tutta.
Non può certo andare al supermercato con quel tempo! Allora
decide per la carrozzeria.
Seconda tappa. La macchina non è ancora pronta, domani, sì,
domani nel pomeriggio sarà prontissima. Questo è il foglio che mi
aveva chiesto, quindi siamo d‟accordo signorina, arrivederci a
domani. Che viscido!
Sarà vero, ha smesso di piovere. Che si fa? Si rischia o non si
rischia? Intanto avviamoci, poi si vede. Tanto il supermercato e la
biblioteca sono nella stessa zona.
A proposito di rischi.. perché è così abbastanza difficile mettersi in
gioco? Semplice, perché la paura di soffrire fa sempre capolino. Ma
prima o poi bisogna superarlo questo timore, altrimenti puoi giusto
andare a fare l‟eremita. Tutti dicono che la vita riserva delle sorprese,
quindi impariamo a cogliere le occasioni che si presentano, non
chiudiamoci nel guscio.
A che serve rimuginare? Prima o poi troverai la tua strada, saprai
capire le tue capacità, sarai forte..
Ricomincia a piovere. Ora basta, non serve lamentarsi, non ti accorgi
che l‟atteggiamento pessimista non fa per te? Guardati intorno, non
sei la sola ad avere dei problemi.
Fanno parte del nostro quotidiano.. chi sembra non averne in realtà li
affronta in modo diverso, sei sempre così musona. Fai una prova.
Una soltanto. Per qualche giorno cerca di non trovare sempre da
ridire, se qualcosa non va, vorrà dire che andrà meglio qualcos‟altro..
Lavinia si ferma, chiude l‟ombrello, si avvicina alla zona alberata.
Ora chiude anche gli occhi.
Si lascia bagnare dalla pioggia. Finalmente piange, le lacrime si
mescolano alle gocce.
Apre gli occhi e vede tutto come appannato. La spesa può attendere,
non è poi così urgente.
Va verso la biblioteca. Va meglio, non
c‟è che dire. Si è tolta un peso dallo stomaco, cammina veloce, quasi
corre. Aveva dimenticato l‟effetto del vento tra i capelli, l‟effetto del
vento che asciuga gli occhi, che toglie i segni del pianto.
Eccoci alla terza tappa. Tira fuori il libro dalla borsa, la bibliotecaria
le lancia un‟occhiata torva.
Lavinia arrossisce. Ci risiamo. Non riesce a scusarsi come vorrebbe,
balbetta qualcosa. Si scoraggia e invece di chiedere un nuovo libro, si
~ 250 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
gira, saluta a malapena e se ne va, amareggiata.
Vicino
all‟uscita un giovanotto la ferma cordialmente.
Non si era accorta di lui prima. Era presso la porta con un tavolinetto
pieno di libri.
Non capisce cosa le stia dicendo, ma si avvicina lo stesso. Su quei
libri c‟è un biglietto, scritto a mano. Ne prende uno e legge:
“23 Aprile 2010. Giornata mondiale del libro e del diritto d‟autore.
Questo è un regalo per te, chiunque tu sia. Se ti piace leggere,
prendilo.
Se non ti piace leggere, prendilo lo stesso. Puoi regalarlo ad un‟altra
persona.
Ti auguro di scoprire la bellezza della lettura.”
Alza gli occhi. Quel tizio, dice di chiamarsi Leo, le porge un libro.
Crede sia adatto a lei, sembra una ragazza dolce. Legge il titolo:
Momo, di Michael Ende.
Lavinia sorride. Scruta il volto del giovanotto. Ha l‟aria interessante,
un modo di fare affabile.
Chissà, potranno parlare insieme di libri. Chissà, potranno discutere
delle loro passioni.
E chissà, potrà nascere un‟amicizia, oppure.. chissà! Ringrazia, ma
non se ne va.
Torna dentro, cerca un posto e si mette a leggere.
Ora è il momento di prendersi un po‟ di spazio, il resto può attendere.
~ 251 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberto Gennaro
Il ragazzino senza più sogni
“Io lo so, dove ha dormito Hans1. Nella camera dietro a quella
finestra, al terzo piano del palazzo dietro di noi. Vedi? Se alzi gli
occhi quel poco, scorgerai la luce di una candela. Ogni sera una
giovane donna la accende per ricordare alla Baia che l‟anima di Hans
vive”.
E‟ il crepuscolo di una tiepida sera di Settembre, ti sono accanto,
seduti sulla linea curva della battigia, a piedi scalzi. Tu osservi i
granelli di sabbia risaccare tra le onde del mare, il tuo sguardo batte
le ciglia mentre le creste fanno candida spuma. Ritmicamente una
goccia ti scende dagli occhi e cola lungo le guance arrossate dal
salino. Non so distinguere se sia una lacrima tua o del mare, ma il
suo sale brucia nella mia gola, quasi fosse una fiamma di fuoco. Ti
piaceva osservare il fuoco. Venivi a casa mia per i compiti, finita la
scuola, tua madre lavorava fino a tarda sera. Sapevo che non venivi
per me, ma mi sentivo prescelta dalla tua decisione. Altre compagne
si offrivano di ospitarti nel pomeriggio, avevi provato anche le loro
case, ma dopo essere stato nella mia sala tu volevi venire solo da me.
Era per il fuoco del camino, o era per vedermi? Il fuoco nell‟inverno
danzava davanti al tuo sguardo guizzante. Facevamo di corsa le
operazioni, penna rossa, penna blu, per guadagnare tempo e
osservare il ballo del fuoco. Fuori la neve era silenziosa, con lei lo
scorcio di collina su cui sorgeva casa mia. Si sentivano solo il
crepitare dei ciocchi di legna, e i nostri sospiri. Ti piaceva
alimentarlo, sceglievi la legna con cura, quasi con religione. La
accarezzavi, poi l‟adagiavi sugli alari, senza bruciarti, ma rischiando
di farlo. Volevi essere il padrone del fuoco.
Ora sei spento, ed io non ho fiammiferi di zolfo per riaccenderti. So
che l‟aiuto più grande che posso darti è il silenzio, tu vuoi il silenzio.
Lo coccoli, come un batuffolo di cotone lo passi tra le dita,
Hans Christian Andersen, il celebre scrittore e poeta danese, soggiornò a Sestri
Levante nel 1835. A lui si deve il nome della Baia delle Favole.
1
~ 252 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sentendone la morbidezza. Ti esaurisci nella morbidezza del silenzio,
e ti avvolgi nel candore di quel batuffolo. Nessuno può sfiorarti con
l‟urto delle parole. Ogni tanto ti parlo, è vero, come poco fa. So che
mi ascolti quando ti parlo di Hans. Ti è sempre piaciuto leggere le
sue favole. A Natale mi hai regalato un suo libro. E‟ sgualcito, ora,
consumato. Ho passato tante notti a leggere le sue fiabe su quel libro.
In realtà le leggevo perché nell‟averlo tra le mani ti sentivo accanto a
me, ma non te l‟avrei mai detto di persona. Avevi toccato quel libro
per sceglierlo, per me. Parte della tua volontà di regalarmelo si era
cristallizzata in quella carta, e io sfogliavo le pagine per sentirti
vicino, anche quando la sera te ne andavi, finiti i compiti, per tornare
a casa tua.
Ti ho visto esitare, un brivido ti ha percorso quando ho pronunciato il
suo nome. E‟ partito dalla schiena, ha raggiunto i tuoi pensieri, ma è
una scarica lieve, troppo lieve ancora per scuoterti. Vorrei urlarti
quel nome, ripeterti nelle orecchie: “Hans! Hans! Hans!”, ma tu
fuggiresti via, e chissà quanto tempo impiegherei a riconquistare la
tua fiducia. Dodici giorni senza di te, dodici giorni senza di noi
siamo stati, quando quella sera ti ho preso con le mani per le spalle e
ti ho scrollato, mentre le mie, di lacrime, traboccavano dal cuore per
sgorgare dagli occhi. Avrei voluto sentirti urlare, almeno in
quell‟occasione. Ti sei divincolato, sei uscito da casa mia e per
dodici giorni è stato il buio totale. Un silenzio di mesi veniva condito
dall‟avvento del buio. Ti ho riavvicinato nell‟unico modo in cui
potevo, lasciando nel tuo armadietto il libro di Hans, quello che mi
avevi regalato. Mi sono privata di quella sicurezza, pur di ritornarti
accanto, e almeno quella battaglia l‟ho vinta, se è vero che ora sono
qui con te su questa spiaggia della Baia.
Scende il sole, è sempre più rapido man mano che si avvicina
l‟autunno. Le nostre ombre si allungano verso est, e per un gioco di
luce si sfiorano. Si abbracciano? Vorrei abbracciarti. Vorrei essere
quel batuffolo di silenzio. So che provi dolore, ma non so
immaginarlo. Kay2 era tutto quello che pensavi di avere a questo
mondo, l‟unico amico di cui ti fidassi. Era lui ad accoglierti, a tarda
sera, quando rientravi da casa mia, e tua madre non c‟era ancora. Ti
correva incontro, provava a scodinzolare, e tu ridevi, perché la sua
2
Nome di uno dei protagonisti de “La regina delle nevi” di H.C.A.
~ 253 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
coda a ricciolo diventava così buffa in quel tentativo. Ridevano i suoi
occhi bicolore, tu eri il suo musher, la sua guida. Un ragazzino che
aveva domato la fierezza di un lupo e ne aveva fatto l‟amico della
vita. Mi avevi raccontato, un pomeriggio, di quando tuo padre te
l‟aveva fatto trovare, in un cestino di vimini bianco. Desideravi un
amico peloso da tanto, e quello era stato il suo ultimo regalo prima
che lui e mamma si lasciassero, e lui partisse per quel paese lontano
che ora non esiste nemmeno più sulla carta geografica. Eri cresciuto
con lui, il tuo carattere e il suo si erano evoluti in simbiosi. Vivevate
l‟uno per l‟altro. E ora che lui non c‟è più, tu più non vivi. Sei nel
suo silenzio di pace e di paradiso. Come posso spiegarti, come posso
dirti che lui sarà sempre con te, che correrà ancora con te? Non mi
crederesti, non mi ascolteresti. So che non dormi la notte, tua madre
dice che non vuoi più sognare. Così dice anche il medico che ti ha
visitato e che sta cercando di curarti, invano. So che non piangi la
morte di Kay, sei troppo intelligente per presumere che non sarebbe
mai arrivato quel giorno. So che piangi la fine, che non la capisci,
che non la accetti. E stasera, su questa riva, non so darti torto. Mi stai
dicendo: guarda il mare. Il mare vive, le sue onde sono il suo respiro.
Come si può pensare che il mare smetta di respirare, che il mare si
fermi, che il mare abbia fine? Perché il mare non finisce?
Comprendo il tuo silenzio, l‟eco del tuo dolore. Mi sento inerme,
quasi inutile di fronte a quell‟evidenza. Sposto lo sguardo verso gli
zaini dietro di noi, sta suonando il mio cellulare. E‟ tua madre che ci
cerca, le dico che sei con me e che torneremo presto a casa. Scorgo il
libro di Hans spuntare dalla tua sacca, lo prendo e lo riassaporo. Tu
sei lì, con me, due volte. Sei il silenzio e sei il dono, un fiore che
vorrei ravvivare. Hans dice che per ravvivare un fiore e farlo
fiammeggiare serve la vicinanza della poesia. Gonfio il mio cuore,
non conosco ancora la poesia vera ma cerco un verso che si accordi
con il mondo che abbiamo di fronte. Non sapevo di esserne capace,
nessuno sa di essere capace di soffiare respiri vita. Il cielo sopra il
mare si svela, in me nasce un verso. Rompo ancora il silenzio.
“Guarda la stella che sta sorgendo, Giò. E‟ una stella nell‟infinito…”
Poi leggo, da una pagina del libro di Hans: “Quanto è terreno viene
portato via dal vento, dimenticato, solo la stella nell‟infinito lo sa.
Quanto è celeste splende nella fama postuma e quando la fama
postuma si spegne…”
~ 254 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“…Vive ancora la Psiche!”3
Finalmente la tua voce si unisce alla mia, e a quella di Hans, che
dietro l‟ombra della candela ci stava osservando, attendendo che tu
rinascessi.
Tu vivi.
Azzurro e grigio ci guardano, gli occhi di Kay nella stella di fronte a
noi.
La sua Psiche, la sua anima, corre libera sulla rena mentre noi ci
abbracciamo, sulla riva del mare della Baia.
3
Cit. “Psiche” di H.C.A.
~ 255 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Matteo Gentile
Crepuscolo
Tutto è pronto per la grande festa patronale. I vasi di fiori sono
perfettamente allineati lungo la balaustra in marmo che si apre sul
presbiterio della cattedrale e come un abbraccio ideale accoglie i
fedeli raccolti in preghiera. Lino accende l‟ultimo cero ai lati
dell‟altare con l‟accendino nuovo di zecca che suo figlio gli ha
regalato per la festa del papà. Un riflesso argenteo si irradia dal
metallo dell‟oggetto e illumina impercettibilmente lo sguardo
dell‟uomo. Due occhi annacquati da anni di lavoro, sofferenze, dolori
e brevi momenti di felicità. Ma sono stati proprio quei brevi
momenti, intensi e appassionati, che gli hanno sempre dato la forza
per vivere un‟esistenza ricca di avvenimenti e di emozioni forti.
L‟organo a canne comincia a irradiare le prime note dell‟Iste
Confessor, l‟inno al Santo Patrono, mentre l‟aria rarefatta del giorno
che si distende sulla sera come un amante in cerca di carezze filtra
attraverso i vetri colorati della grande vetrata, lassù in alto. Raggi dai
mille colori che si frantumano e si ricompongono come pensieri ed
eventi apparentemente indipendenti l‟uno dall‟altro, ma
inspiegabilmente collegati da una misteriosa trama in cui si
intrecciano come l‟ordito della tela invisibile del tempo.
Quasi quarant‟anni fa, mentre quelle stesse note si libravano nell‟aria
torrida di un‟estate dal clima tropicale, a più di mille miglia di
distanza da lui, Lino si accendeva una sigaretta con un minerva,
piccolo tronchetto di legno ricoperto in cima da una minuscola
testina rossa infiammabile. Le volute di fumo gli circondavano il
capo come un‟aureola profana, mentre qualche metro più in là si
ripeteva ancora una volta quell‟evento unico e misterioso che dona la
vita ad una nuova creatura. Lino era affascinato e impaurito. Stava
per diventare papà e il mondo, da quel preciso momento in poi, non
sarebbe stato più lo stesso. Si rendeva conto che quell‟evento così
eccezionale per lui e sua moglie Carmela si ripeteva dall‟inizio dei
tempi regolarmente e misteriosamente per tutti. Ma per loro era
unico. E forse sarebbe stato irripetibile. Quando gli portarono il
~ 256 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
bambino non sapeva se piangere o ridere, urlare o parlare sottovoce,
saltare di gioia o restare immobile per la commozione. Lo guardò
negli occhi, e in quel preciso istante decise che sarebbe tornato al suo
paese, nel sud dell‟Italia e del mondo, per regalargli ciò che suo
padre gli aveva donato a sua volta. La tradizione, la fede, i grandi
campi coltivati a vite, gli ulivi contorti nello sforzo atavico che li
porta a lottare contro il vento e contro la terra arida e dura, ma allo
stesso tempo generosa di doni preziosi per la sopravvivenza. Il Paese
oltre le Alpi che li aveva accolti quattro anni prima, giovane coppia
di sposi migranti con la valigia di cartone ricca di speranze e di sogni
per un futuro migliore, era stato benevolo ma avaro. Aveva
consentito loro di vivere in maniera dignitosa, privandoli però di ogni
affetto e di ogni slancio di umanità. Dalla mattina alla sera tutto
procedeva regolare e preciso, scandito dai rintocchi del tempo che
segnava i minuti le ore i giorni i mesi tutti uguali a se stessi. Ma ora
sarebbe stato diverso. La vita era entrata nella sua famiglia,
dirompente e prepotente, e allo stesso tempo fragile e bisognosa di
tutto. Quel piccolo essere che agitava già le mani verso di lui,
inconsapevolmente, forse, gli chiedeva di portarlo a casa. E casa sua
era laggiù, in quella terra dove la Murgia si sposa con il Salento,
dove i colori si fondono in una tavolozza che nessun artista di talento
riuscirebbe mai a riprodurre. Il marrone dalle mille sfumature di una
terra che come la donna ti fa faticare per conquistarla, ma che sa
essere prodiga di doni preziosi se la ami con sincerità e la tratti con
rispetto e passione. I verdi dei pampini e dei grappoli non ancora
maturi, presagio di una vendemmia che era insieme una festa, un rito,
un fondersi di anime e corpi nel tramandarsi la vita di generazione in
generazione.
“Herr Cortesi, come lo chiamate il bambino?”
“Il suo nome è Martino, come quello di mio padre e del nostro Santo
Patrono.”
“Una firma qui, bitte!”
La statua argentea di Santa Comasia, martire cristiana dalle origini
misteriose, che la tradizione popolare si ostina a credere sorella di
San Martino, esce per prima dall‟armadio che la custodisce per
buona parte dell‟anno. Lino osserva con malinconia i giovani che la
porteranno a spalle in processione, attraverso le vie e i vicoli della
città, in un rito che si ripete da secoli sempre uguale e allo stesso
~ 257 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
tempo diverso. Fino allo scorso anno era lui a dirigere le operazioni.
Si sentiva invincibile e forte, ma un alieno maledetto si è insinuato in
lui e gli succhia via le forze e la vita. Lotta con fede, ma sa che non
saranno ancora molti i suoi giorni. Prega in silenzio, e una lacrima
cade silenziosa lungo la guancia, sotto gli occhiali che nascondono il
suo sguardo ormai orientato verso l‟eternità. Tra i banchi della chiesa
siedono le sue nipotine, Silvia e Rebecca. Questi giovani che usano
nomi così diversi da quelli delle loro generazioni. Ma va bene così.
L‟amore non si misura con una serie di lettere messe insieme a
formare un suono. L‟amore si misura con i gesti, le azioni, le opere
compiute giorno per giorno a comporre una sinfonia di sentimenti ed
emozioni ineguagliabili. Guarda le due piccoline e tutto gli è così
chiaro da fargli quasi paura. E‟ valsa la pena lasciare quel Paese così
preciso e rassicurante per tornare in questa Terra dalle mille
contraddizioni ma ricca di vita e di fede. Una fede vera, dove la
solidarietà non è una parola vuota, un mantello diviso con il
mendicante da un Santo leggendario, ma è fatta di piccoli gesti
quotidiani che rendono la vita degna di essere vissuta.
“Nonno, come ti senti oggi?”
La voce della piccola Rebecca risuona cristallina nell‟at-mosfera un
po‟ austera e carica di sacralità della cerimonia. E‟ bello sentire
ancora una volta quel suono, sapere che rimarrà con lui per sempre,
oltre il tempo e lo spazio. Lo cattura e lo fa suo, lo imprime
nell‟anima, lo scolpisce nel profondo della sua esistenza che non
cesserà di vivere quando lui smetterà di percorre i sentieri della sua
permanenza su questa terra che tanto ha amato e a volte odiato. Ma
sempre rispettato. Sua moglie Carmela è poco più in là, accanto al
figlio Martino e alla nuora Dora. Nomi antichi in persone nuove.
Sorride.
“Bene, bene. Sono solo un po‟ stanco.”
“Ti accompagniamo a casa?”
“Dopo la processione.”
“Non ti affaticare.”
A che serve ormai tutto questo riguardarsi che il dottore gli ha
ordinato? Vuole vivere i suoi ultimi istanti con tutta la forza e tutto
l‟amore che può. Vuole assaporare ancora una volta i profumi, gli
odori, i colori della sua terra. Guarda il figlio. In un silenzioso
scambio di sguardi e parole non pronunciate si dicono tutto. Un filo
~ 258 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
indissolubile si è creato tra loro dal giorno in cui il piccolo si
affacciava al mondo. Forse non se ne erano accorti prima, ma adesso
è tutto chiaro.
L‟auto si è fermata davanti a un campo di grano. Il mare giallo delle
spighe agitate dal vento ondeggia nell‟aria rarefatta del tramonto.
Girasoli spuntano oltre il muretto di sassi, costruzione antica dove
ogni pietra sostiene l‟altra, in un equilibrio perfetto e delicato. Si
rivolgono al sole in una muta richiesta di vita e calore.
Lino guarda l‟enorme globo rosso che si tuffa aldilà dell‟orizzonte.
Accanto a lui splende la prima stella della sera. Il crepuscolo è solo
un simbolo, un‟idea. La realtà gli verrà rivelata dalla sua profonda
fede. Non piange. Sorride alla vita.
Stringe la mano al figlio.
Guardano insieme lontano, oltre il nulla, verso l‟eternità.
~ 259 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giacomo Gentilomo
Sei abbastanza sveglio? Perché devi.
La telecamera adesso sembra applicata ad un cartello stradale. Entra
nell‟inquadratura la sua nera vettura, sfrecciando. Ruote e carrozzeria
dentro ad una psichedelica sfocatura fatta di zampilli argentati, di
micro gocce sospese, centrifugate dall‟asfalto fradicio. La telecamera
gira. Segue lo spostamento longitudinale.
Rumore sibilante. Un soffio.
Fffffffff.
L‟auto, lentamente, sparisce nella striscia grigia, succhiata.
Adesso, quello che serve è un fottutissimo buco di parcheggio.
Ed è tremendo, come sempre, capire di non potersi illudere che sarà
breve.
Inizio la circumnavigazione dell‟isolato, in ronda estrema: occhi
disidratati. Il solo attimo che occorre alle palpebre per chiudersi e
riaprirsi e lubrificare potrebbe essere fatale, una svista potrebbe
equivalere ad una decina di minuti extra, forse anche ad un ritardo.
Imbarazzante intendo.
Guardingo ascolto, m‟assesto col volante.
Ruoto la manopola: più non spanna.
Vedo una retro, questo è l‟istante,
e questo il gesto che lo condanna.
M‟accaso lì. Nella profezia, adesso confido
che la piccola luce bianca, m‟ha regalato.
Do vita ad un gioco: c‟è un campo, e sfido
anche delle linee, bianche, un campionato.
Sono deliri di un perso quotidiano contatto
uno sport malato, spietato. Un vile concorso,
un tesoro che tutti ammala, con te l‟ha fatto
come con me, adesso, che ogni secondo darei un morso.
Ma guarda! La sfida adesso è convertita! Quel pazzo è uscito!
Spento il vulcano motore, spenta la meravigliosa luce bianca.
Dalla voglia di pianto e dalla voglia di scasso, mi sento rapito!
Eppure né l‟una né l‟altra mi daranno quel posto.
~ 260 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Che mi manca.
Adesso sono dieci minuti dopo. Ho intravisto un signore col mazzo
di chiavi stretto nella mano, con in faccia un‟aria addormentata che
esce dal portone di un palazzo. Lo seguo per circa duecento metri.
Ovvio che ci scambiamo quei due o tre sorrisi che significano: “sì, ho
capito, il posto.” E nello specifico, il suo: “guarda ancora qualche
metro e ci siamo” e il mio: “non si spaventi, la seguo solo per il
posto, non sono un maniaco.”
Arriviamo.
Lo sto aspettando.
Sta uscendo.
È rapido, fortunatamente, moderno.
M‟insinuo con maestria al suo posto.
L‟orologio dice che mancano trenta secondi alle otto.
Mi specchio un attimo nello specchietto retrovisore e scendo.
~ 261 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lucia Ghebreghiorges
Già
Lui. Già, mi manchi, ma intanto rimango fermo. Non c‟è nulla che
riesca a schiodarmi da questa attesa, da questa non azione. Nemmeno
tu. Se solo sapessi, se solo lo sapessi anch‟io. Il cellulare lampeggia e
non so neanche risponderti, così come non so conoscerti, incontrarti
e bloccarti. Perché io vivo fermo ed è solo tutto intorno a girare, a
muoversi, a faticare. Sempre. Io resto al centro, mentre il compasso
spinge e ruota su quest‟asse rigido e immobile dove si aggrappano
disperati i miei soliti occhi.
Ma tu continui a lampeggiare, a tuonare e così giri anche tu, nella
mia testa, tanto che adesso anche la mia testa diventa asse. E non
avrai risposta da lei, le danzerai intorno come un ottovolante
improvvisato, umano, inconsapevole e inerme. E allora fermati anche
tu, impara a far girare anche me: rubami il centro, lasciami pensare a
te senza che la tua presenza si confonda con la ruota che gira. Perché
ci sei cascata anche tu? Eri così bella, lontana, impalpabile, non
vedevi che ho bisogno di un sogno, di un‟emozione da mettere al
posto mio senza graffiarti come le altre? Tu sai che non devi
rispondermi, invece rispondi. E così io non ti aspetto.
Lei. Vorrei vederti, non capisco il tuo silenzio. Ripenso al tuo mi
manchi, allo stupore che mi ha provocato. Perché hai smesso di
rispondere appena ti ho risposto? Eppure sento il tuo tormento, lo
conosco, appartiene anche a me. Per persone come noi non è mai
facile vivere e convivere, così vigliaccamente distratti dal nostro
sopravvivere. Così distratti da noi. Te lo avrei detto, suggerito, urlato
se ti avessi visto senza nient‟altro intorno, senza nient‟altro addosso.
Cambia la reazione ma non la sostanza. Ci manca l‟essenziale e tutto
il resto è solo rumore quotidiano, mezzo, strumento. E allora questo
resto o lo divoriamo o lo guardiamo, rimanendo comunque perduti.
E‟ l‟eterna danza tra il tentare di viverlo e salutarlo da lontano. Sai
qual è la mia paura più grande? Che la disabitudine a quel non altro
mi renda sempre più avara. Ma poi in realtà lo riconosco sempre, che
sia la volta che non sappia afferrarlo che sia quella che non sappia
~ 262 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
trattenerlo. Oggi l‟ho incrociato in te e tu non rispondi perché io ti
aspetto.
Lui. Hai smesso, hai smesso per sempre o solo per questi giorni?
Perché hai smesso? Ora come faccio a dimenticarti? Così mi
costringi a tornare a ripensarti, a sentirmi in colpa magari. Strega che
non sei altro! Ho capito subito che quello sguardo insistente e nero
mi stava attraversando per riempirsi. Non ci credo, ci sono cascato io
e non tu, vero? Spero di sbagliarmi, anzi no, infondo spero di non
sbagliarmi affatto. Violentami di attese, spostami con sagacia,
stupiscimi. Dimmi che sei tu la diabolica, permettimi di spaventarmi
per questa volta e non di spaventare. Brava, continua cosi ti prego,
resisti, lasciami sospirare ancora. Mi sento vivo cosi, lo capisci? Non
lampeggiare mai più, non cercarmi, fermati come adesso. E‟ solo
così che rimani qui. Regalami l'amore pensato.
Lei. Ti capisco, so perché non mi rispondi. Maledizione, ti odio
invece. Odio il tuo dolore, il mio, quello della terra. In silenzio mi hai
chiesto di cercarti e l‟ho fatto, mi hai spinto a liberarci mentre
sceglievi di rimanere prigioniero. Quanto piace a quelli come noi
rimanere prigionieri! Ci rassicura, ci culla e ci protegge. Ma a me
piace anche un po‟ sfidarlo questo spasimo sai? Non credere però,
giusto all‟inizio, quel che basta da far sembrare che ci provo. E‟ in
questo modo che ho imparato a sentirmi libera, senza macchia.
Semplice e perverso: fingo di espormi e nel frattempo nutro i miei
alibi, li alleno a percorrere lo stesso cerchio. Zac, perfetto. La ruota
continua a girare ed io rimango al centro e le emozioni restano mie.
Te lo confesso in silenzio, mentre aspetti la prossima mossa, che è
quella che non ci sarà perché adesso ballo i tuoi ritmi. Ritmi tanto
diversi quanto più figli dei tuoi: quelli che il motore azionato lo
fondono per non ingranare marce.
Oggi ti aspetto perché sono connessa. E lo sono come solo accade
quando l‟altro è nelle corde e con la sua sola presenza ti vomita
addosso la tua stessa colpa. Rimani fermo e avanza con la tua musica
incostante.
Lui. Mi manchi, ecco fatto te lo ridico, dopo due settimane posso
permettermelo. Dieci minuti al massimo e mi risponderai anche tu,
conosco i tuoi ritmi ormai. Non sai ribaltarli. E il giro ricomincerà.
Quello di oggi è il mio ennesimo gettone per la nostra giostra. Fa che
questa volta il moto si confonda e s‟inverta, fa che i suoi cavalli di
~ 263 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
legno vadano contromano. Che sia io a muovermi e non tu. Magari.
Non rispondermi di nuovo per questo giro, non dire niente, cancella
il mio messaggio, subito, adesso! Perditi il cellulare come perdi la
testa. Sentiti delusa piuttosto, arrabbiata, indifesa. Insulta questo
illusionista, dipingimi come mi dipingo io, cattivo, insulso, incapace,
perdente. E fallo senza giustificarmi, senza provare a disegnarmi
diverso. Non ti azzardare a rubarmi la matita, lasciami così come
sono: un tratteggiato. Permettimi di perdermi, di oltrepassarmi in
pace, e forse domani riuscirò a vivere anche te. Già.
~ 264 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Manuela Giacchetta
Torno a prendermi
Nel momento in cui il treno entra nel tunnel, quegli occhi, attraverso
il finestrino, mi guardano.
Mi percorrono come un respiro caldo, sorprendendomi. Ma è solo un
attimo: lo sguardo vira, muta rapidamente.
Ho una fitta al cuore. Da dove viene quell‟espressione da ragazzo,
così leggera, scanzonata?
Mi sposto sul sedile e il riflesso si sposta con me. Sì, sono io. Erano
miei, quegli occhi.
Mi chiedo come può, quello sguardo, essere sopravvissuto ai miei
cinquant‟anni. Dove si è annidato, per tutto questo tempo? Sotto
quale sogno illuso? Dietro quale scelta non fatta? Con quale ossigeno
è riuscito ad arrivare fino a me, oggi, su questo treno per Parigi?
All‟improvviso mi sento in colpa, verso quello sguardo così pieno di
aspettative, di paziente fiducia per il futuro. Mi scruto, adesso, e
rintraccio solo la durezza incisa da troppi sbagli, o forse soltanto da
uno. Perché sarebbe bastato dire “resta”, e lui sarebbe rimasto. Sì, lui
avrebbe voluto che lo dicessi, avrebbe voluto ascoltarmi pronunciare
la mia resa a lui, per la prima volta. A lui che si sarebbe preso cura di
questa mia stupida maschera, in ogni modo possibile, amandola.
Invece i miei occhi si sono posati sulle sue spalle, decise, ma sempre
così timide sotto le mie mani. Ma erano decise, ieri, decise a
lasciarmi solo con il mio orgoglio ispessito dalla paura di soffrire
ancora.
Mi guardo, mi cerco fra le rughe, ma non mi trovo. Eppure c‟ero, in
quel tunnel.
Cerco di distrarmi col fiume di mattoni e di terra che scorre fluido
insieme a me, dietro il finestrino. Tutto sfila colloso, sgranato dalla
velocità.
Cosa ci vado a fare a Parigi, da solo? Non ho bisogno di raggiungere
nessuno. L‟unica persona che devo raggiungere l‟ho lasciata andare.
E‟ la sola che ha saputo trovare quello sguardo che rivoglio indietro.
Lo ha tenuto stretto per tutto il tempo, ha scavato dentro di me, con
~ 265 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
la sua dolcezza, la sua pazienza per la mia diffidenza, l‟ho tirato fuori
da me, lo ha rimesso in sesto, non curandosi di quanto fosse
malandato, di quanta energia avrebbe richiesto.
Ho lavorato per troppo tempo a progetti degli altri senza curarmi del
mio. Il mio progetto era lui e me ne accorgo adesso con una violenza
che non riesco a sopportare.
Sulla porta ha esitato solo un attimo, l‟ho notato, ha aspettato fino
all‟ultimo che gli dicessi di restare. E adesso lo pago il mio silenzio,
fuggendo su questo vagone.
Lo capisco ora, con dolorosa chiarezza: non posso più nascondermi.
Non posso aspettare un attimo di più. Io torno a prendermi.
A Torino scendo.
Chiudo gli occhi per rintracciare quello sguardo, dentro di me, da
qualche parte.
Sono appena le otto di mattina. E‟ troppo presto per telefonare. Ma lo
chiamo lo stesso. Ascolto due, tre squilli. Quattro.
“Pronto?” risponde la sua voce scurita dal sonno.
Sono assalito dal terrore di perderlo.
“Scusa, stavi dormendo?”
Non dice niente. Si sta solo chiedendo il motivo della telefonata.
“Scusa… ma devo dirtelo subito, perché ieri… sì, insomma…”
Esito, ma lui non viene in mio aiuto, mi lascia solo. Ma è giusto, me
lo merito.
“… resta. Resta. Lo so, avrei dovuto dirtelo.”
“Ma non l‟hai detto” mi risponde con voce fredda. Una voce che non
gli appartiene.
“Te lo dico adesso.”
Lui aspetta solo un istante.
“Tu pensi di usarmi come ti pare perché sono innamorato di te, non è
vero?” Mi aggredisce con tono stanco. E‟ la prima volta che ammette
di essere innamorato. Non me lo ha mai confessato. Mai.
Lascio cadere il bagaglio, improvvisamente pesante, insostenibile.
Un pensiero terribile mi spezza l‟anima: non potrò più vivere senza
questo ragazzo.
“Resta, ti prego” ripeto, perché non riuscirei a formulare pensieri o
parole diverse.
“Tu credi sia sufficiente questo? Chiedermi di restare, perché pensi
che io non sono possa immaginarmi lontano da te?”
~ 266 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Ti prego” sussurro.
Non risponde.
Mi siedo sulla valigia, a un tratto esausto. L‟ha sentita la mia voce
diversa, rotta. Anche per lui è la prima volta, questa mia voce.
Aspetta ancora un po‟, poi lo sento solo pronunciare, con dolcezza:
“Certo che resto. Dove vuoi che vada?”
~ 267 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Stefano Giacometti
Il motorino
Era più o meno verso la fine del settantotto quando, come molti miei
coetanei di allora, la smania del motorino iniziò a prendere ogni mio
pensiero. Non parlavo d‟altro non vedevo altro e mi preoccupavo
solamente di raggiungere il sogno non curante delle difficoltà che la
mia famiglia attraversava a quei tempi.
Si sa come vanno queste cose, un solo stipendio, tre figli da
mantenere, baggianate allora, scuse per non comprarlo, verità
sacrosante viste con la maturità di oggi, ma è sempre stato cosi,
generazione dopo generazione le cose si capiscono solo quando ti
attraversano l‟anima e l‟anima attraversa te stesso.
Comunque sia, gli attacchi quotidiani ai miei poveri genitori erano
divenuti una costante, aggravati da una forza e una cattiveria di
espressioni tali che se oggi le sentissi pronunciare dai miei figli,
credo ci sarebbe qualcosa su cui riflettere.(stanno già cominciando
…)
Fatto sta che dopo alcuni mesi di attacchi, presi dallo sfinimento, i
miei genitori cedettero ed ebbe cosi inizio la lunga discussione su
quale motorino e soprattutto su che tipo di costi si potevano
affrontare senza mettere in ulteriore crisi l‟intero gruppo, cosa che
almeno per quanto mi riguardava era di scarsissima rilevanza.
I meno giovani ricorderanno che in quegli anni vigeva uno status
symbol nell‟ambito delle motorizzazioni a due ruote ovvero il mitico
Ciao che doveva essere rigorosamente bianco, quello con il variatore
per andare a manetta e dare fumo ai poveri sfigati che pedalavano e
arrancavano lanciando terribili sguardi di invidia dietro di te e poi
amici, come non ricordare i famosi e mai dimenticati College e
Cambridge, prototipi se non ricordo male a quattro marce, quelle a
pedalino, la prima in basso, le altre in alto verso il cielo, quelle che ti
facevano andare a palla, manubrio allargato, gomma posteriore
esagerata, fanale piatto, grande e… ricordate il baffo sul paraurti
anteriore con la scritta College che sembrava un fendente nell‟aria
dell‟irruente giovinezza?
~ 268 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Non doveva mancare infine un appropriato scarico con silenziatore a
spillo.
Su questo fatto del silenziatore non ci ho mai capito un gran che
anche perchè con questo tipo di scarico si faceva solo un casino
pazzesco, ma forse il bello era proprio li.
Non serviva a un accidenti ma diavolo che meraviglia
sgasare,attraversando le vie della mia città alle undici di sera
raccogliendo le maledizioni dei “matusa”, che poi altro non erano
che normali genitori un po‟ stanchi come noi della giornata
lavorativa e degli impegni famigliari e che in quel momento
facevano di tutto per contrastare l‟acquisto del motorino al proprio
figlio.
Il motorino non era solo “Il motorino”.
Esisteva un atteggiamento programmato, attentamente studiato, nel
cavalcare il Ciao in un particolar modo.
Non era un semplice salirci sopra e no amici miei, sarebbe stato
troppo semplice, esisteva un preciso regolamento, una serie di
posizioni alle quali se si voleva essere “fighetti” non ci si poteva
sottrarre in alcun modo.
Innanzitutto i Ray Ban, rigorosamente piegati su se stessi all‟ingiù,
dall‟esterno verso l‟interno.
Chi li aveva (io no!) lo ricorda bene di come dovevano essere piegati
non appena acquistati.
Si prendevano montatura e lenti fra le mani e si facevano roteare in
senso orario fino a raggiungere la giusta piega, l‟unica consentita.
Non si portavano nemmeno a casa, si piegavano subito.
Scherzerete!.
Gli occhiali nella fase di accensione della belva assistita da una
frenetica pedalata, dovevano essere abbassati e posti sotto il mento,
pronti per essere inforcati nel momento stesso in cui, abbassato il
cavalletto che produceva quel suo meraviglioso “clack” del mollone
di ritorno, il motore emetteva il suo inconfondibile e irriproducibile
fischio.
Fumo dallo scarico, motorino inclinato verso se stessi, dieci sgasate a
fondo, indispensabili prima di partire.
La ruota posteriore impazzita, blocco improvviso al tocco con
l‟asfalto (guai a usare il freno) e via, verso nuovi orizzonti.
~ 269 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
A questo punto si doveva seguire un preciso vademecum della
posizione di guida da assumere, che era più o meno questa: schiena
marcatamente ricurva, spalle chiuse su se stesse, gomiti larghi verso
l‟esterno, piedi appena appoggiati ai pedali e comunque sempre
rigorosamente rivolti all‟interno, insomma uno strazio alla sola vista,
un‟esaltazione dell‟artrosi, una posizione che, se vista oggi mi
verrebbe da dire …”Dio mio quel povero ragazzo, cosi giovane e
così…” ma così doveva essere, così si andava e mai e poi mai si
sarebbe abbandonata la posizione.
Questi erano i sogni, cavalcati per un attimo sul Ciao del tuo migliore
amico.
La realtà, quella vera, era, almeno per me, ben diversa.
E infatti, arrivò il giorno del fatidico acquisto del motorino.
Io e mio padre ci avviammo verso un‟abitazione del centro, dove ci
aveva inviati un amico dell‟amico, collega dell‟amico di un amico di
mio padre, insomma sapete quei giri che già dall‟inizio promettono
una sicura fregatura ?
In ogni caso l‟atmosfera era carica di attese, si percepiva nell‟aria,
nei nostri sguardi.
Arrivati a destinazione, all‟indirizzo segnalato, trovammo una
vecchia casa fatiscente all‟interno del centro storico, potrei dirvi
persino il numero civico, tanto il momento era grave per me.
Tanto importante da portarne ancora oggi il vivo ricordo.
Ci apre la porta un signore anzianotto il quale ci dice, dopo le
doverose presentazioni e i complimenti più o meno veritieri sulla
persona che ci aveva indicato il suo nome, che il motorino in
questione era giù in cantina.
A questo punto le mie speranze e le mie certezze iniziarono a
vacillare in maniera preoccupante, prima di tutto perché mi sembrava
improbabile che un signorotto sui settant‟anni, stecchino in bocca,
con pancetta e canottiera bianca volgarmente esposta potesse avere
un Ciao, per giunta bianco, per giunta con il variatore e poi perché
era assolutamente impossibile nella mia testa, inconcepibile direi,
che un mezzo dal simile valore potesse essere chiuso in una cantina.
Due più due fa quattro e che la matematica non fosse un‟opinione lo
capii quel giorno, in quell‟istante, al momento dell‟apertura della
rugginosa porta di quell'umida e buia cantina di quella fatiscente
casa, all‟interno del centro storico della mia città.
~ 270 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Il motorino, o almeno quello che poteva sembrare essere, era lì
appoggiato a un muro, sepolto da vecchie coperte e quadri di Padre
Pio accatastati per fermare le coperte stesse.
Al muro un immancabile manifesto scolorito dagli anni e
dall‟assenza di luce con la scritta “La Febbre Villeneuve”, e intorno
Santini, quadri di dubbio valore e di altrettanto dubbio gusto
recuperati chissà dove.
Il motorino appunto non era un Ciao e qui il colpo, la terribile
delusione, ma quello che più mi sconfortava e che non sembrava
neppure un motorino.
Il mio concetto di motorino, quello che io avevo idealizzato era
semplice, doveva essere un motorino.
Punto.
Il ferro era lì, in tutta la sua sfolgorante tristezza, azzurro
metallizzato sbiadito dal tempo e dal rimpianto per non essere
riuscito a competere mai, neppure in fresca e giovane età di
immatricolazione con i suo colleghi College, Cambridge e soprattutto
Ciao.
Chi ha mai provato questa sensazione, si fermi con me un momento
in un istante di dignitosa editazione nel ricordo delle angosce perdute
e fortunatamente passate, digerite, metabolizzate.
La bestia, fra i mille difetti, aveva una particolarità.
Un serbatoio di circa due litri, che, udite udite era fissato al telaio
non come tutti i normali serbatoi, ma con una cinghia elastica che ne
esaltava l‟ assoluta precarietà.
Tre marce al manubrio.
Due normali e una ridotta per gli attacchi notturni, quelli di sorpresa,
dove sono necessari potenza, scatto e affidabilità.
Si trattava in fondo di un residuato bellico che tanto aveva dato nel
passato.
Un po‟ di rispetto che diamine.
Nonostante queste immediate e drammatiche verifiche visive, non
sapevo che avrei scoperto più avanti, nell‟uso quotidiano (quando
andava in moto si intende n.d.r.) che queste erano piccolezze in
confronto alla particolarità, peraltro alquanto fastidiosa, che dando
gas a manetta si spegneva, non certo per colpa della gloriosa casa
madre, ma quanto per il pauroso stato di decomposizione che lo
stesso mezzo presentava e un nonnulla a confronto della spaventose
~ 271 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
vibrazioni che il sistema di propulsione trasmetteva allo sventurato
passeggero, infliggendo dai piedi fino ai testicoli insopportabili
torture.
Questo minimo inconveniente produceva la necessità di darsi, di
tanto in tanto una scrollata generale, come quando hai un colpo di
freddo, un brivido improvviso.
Ti scrolli e il freddo se ne va e così pure le vibrazioni.
Nonostante tutto, nonostante le particolari negatività di questo
poderoso ed arcaico mezzo, tutto questo era nulla rispetto al vedere
la fatica di un padre nell‟estrarre da quel portafoglio una carta da
cinquantamila lire, frutto di sacrifico e fatica, un padre che sapeva e
voleva amare il proprio figlio più di se stesso e che probabilmente
avrebbe sacrificato oltre le cinquantamila lire, qualcosa ancora, oltre
quanto già non avesse fatto, per darmi quanto io avevo richiesto.
Nulla, nessuna sensazione negativa che il ferro mi avrebbe senza
dubbio alcuno dato nel tempo, poteva coprire, annientare o
prevaricare sul ricordo di quegli occhi che chiedevano la mia
approvazione, quasi volesse con il solo pensiero dire : “Stefano è
tutto quello che posso”.
E alla domanda fatidica che ogni padre porge al proprio figlio…
“Stefano , allora che dici, non male vero?
Soddisfatto ?”. Io rispondo senza alcuna esitazione…
“Pà è bellissimo, ti voglio bene”.
~ 272 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Erika Giammona
Le stelle non brillano di luce propria
Prendo il resto dalla macchinetta e la sbarra si alza. Non ho mai
guidato in autostrada, questa è la prima volta. Mio padre dice sempre
che in autostrada bisogna avere mille occhi e tanto cervello, peccato
che in questo momento il mio cervello sia impegnato a fare tutt‟altro.
Mi mordicchio il labbro inferiore, le sopracciglia si alzano e la fronte
si corruga nel tentativo di riflettere, ancora un po‟.
Ma chi è davvero così sbagliato, mi chiedo?
Si tratterebbe in fin dei conti di un..baratto, di un equo scambio. Più
o meno.
La strada è lunga e inevitabilmente il pensiero ritorna sempre là, a
come è iniziata, a come sono arrivata a tutto questo. Mi ricordo il
primo giorno, quando l‟ansia di fare buona impressione era la priorità
assoluta. Ripenso ai sorrisi, alle gentilezze, alle chiamate nel suo
ufficio per cose minime, a volte assolutamente irrilevanti. Ripenso ai
dieci, cento mille caffè che mi ha offerto, che poi sono diventati
passaggi a casa, che poi sono diventati permessi per stare a casa
quando volevo.
Le occhiate ostili e cariche di pettegolezzi sussurrati tra una mail e
una fattura dalle colleghe non mi hanno mai disturbato. Ragazzine,
credete davvero che la vita sia facile? Passi una vita nell‟ombra e
quando arriva la tua occasione che fai, lasci che scappi via senza
prendere quello che ha da offrirti? Tutta invidia.
Invidiatemi ragazzi, fatelo, vi prego, perché nessuno l‟ha mia fatto
nella mia vita.
Invidiatemi la mia posizione, posso fare ciò che voglio. Quando
voglio. Invidiatemi la mia borsa costosa, i miei abiti firmati. Il mio
diamante da migliaia di euro. Quello stesso diamante che ora brilla
sulla mia mano, come un costante, splendido promemoria, come a
voler dire:ormai gli appartieni.
Spingo con rabbia l‟acceleratore fino a superare i 130, voglio
arrivare in fretta dal mio benefattore, voglio, devo dare la giusta
ricompensa all‟uomo che mi fa sentire tanto importante. Il sole è
~ 273 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
ormai tramontato da un pezzo ma tra poco arriverò sul luogo
dell‟appuntamento.
Spero solo di trovarlo in fretta questo dannato motel.
I cavalcavia si susseguono regolarmente e su ciascuno troneggiano
tabelloni luminosi e cartelli stradali. Un tir mi raggiunge e sento la
solita scossa di adrenalina che avvertivo anche da bambina, quando
andavo in vacanza con i miei: ogni volta che ci affiancava un camion
non vedevo l‟ora che mio padre lo superasse perché avevo paura.
Pensavo “ e se esplode o ci viene addosso?” E speravo che sparisse
in fretta e non dovessimo più stargli accanto. Per fortuna anche
adesso riesco a seminarlo e mi tranquillizzo. Ma come quando
stuzzichi con il dito una puntura di zanzara e inevitabilmente cominci
a grattarti come un forsennato, quella situazione risveglia in me il
ricordo dei miei e ne nasce un improvviso senso di colpa. Ripenso a
mio padre che si è sempre spaccato la schiena onestamente pur di
non farci mancare nulla; ripenso a mia mamma che ha sempre,
sempre creduto in me e nelle mie capacità. Si vergognerebbero di
me. Li deluderei.
Guardo il mio anello, il suo anello e mi rendo conto che forse li ho
già delusi.
Accendo la radio… non ricordo dove ho sentito che nei momenti bui
la prima canzone che trovi appena accendi la radio è sicuramente
quella adatta a rincuorarti. Il mio primo istinto mi dice che è una gran
cavolata, però già che ci sono power.
Pubblicità di arredamento da giardino.
Al diavolo la radio, so quel che devo fare!
Cerco con lo sguardo il primo cartello che mi dica che da lì posso
uscire e imbocco la strada verso la libertà.
Venti minuti dopo sono nel parcheggio dove lascio la macchina ogni
mattina, svuoto il contenuto della sua borsa e la riempio con uno
degli abiti che mi ha regalato lui che ho portato per l‟occasione, poi
mi sfilo l‟anello dal dito. Ho un attimo di ripensamento mentre lo
guardo: è troppo bello, anche in quel buio pesto risplende, brilla
come una stella.
Ma le stelle, si sa, non brillano di luce propria.
Così getto anche quello nella borsa e corro verso l‟ufficio silenzioso.
Lascio la borsa sulla sua scrivania, la scrivania del Capo.
Dentro ci infilo anche una busta.
~ 274 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Poi ci ripenso e decido di preparare anche una raccomandata A/R,
per essere sicura che riceva le mie dimissioni.
Da oggi niente più errori.
~ 275 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Claudio Gianini
Lo Specchio
Guardo la figura dell‟uomo di fronte a me.
Lo conosco, lo conosco molto bene. Da una vita intera.
Quell‟uomo sono io. Non ho il minimo dubbio.
Eppure non so più dire chi sono.
Avvicino il viso allo specchio e il volto riflesso mi viene incontro.
Quasi a muso duro.
Allora sorrido. Un sorriso storto, beffardo. Come a prendere per il
culo me stesso.
Osservo le pieghe della pelle. Piccole rughe si sono disegnate attorno
agli occhi. A testimoniare che la carne non è più quella di un
ventenne.
Ho trentasei anni. Sono più vicino ai quaranta che ai trenta.
Dovrei essere un adulto, quindi. Una persona matura. Un individuo
responsabile.
Alzo la mano destra verso il volto e l‟immagine riflessa copia il
movimento con il braccio sinistro. Mi strofino il mento e le guance
ricoperti da una corta barba mentre ascolto il suono silenzioso e
morbido delle dita tra i peli.
E mi chiedo una volta di più cosa significhi essere responsabili.
Quali misteriosi contenuti si celano mai dietro questo aggettivo?
Un uomo è responsabile quando è pronto ad accogliere sulle spalle le
conseguenze delle proprie azioni.
Questo è un assioma razionale. Limpido. Cristallino.
Prendere una decisione davanti alle scelte che ci si parano davanti
presuppone l‟analisi delle possibili configurazioni di realtà che
andranno a formarsi, in seguito alle nostre azioni.
Per poi scegliere in base al miglior compromesso tra costi e benefici.
Uno schema logico. Asettico.
Ma il cuore no. Il cuore no.
No.
~ 276 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sposto gli occhi dai miei occhi e li poso sul mio petto, quasi a poter
guardare attraverso la pelle, le ossa, i muscoli. Come se potessi
vedere l‟organo che pulsa sangue e vita nelle vene.
Instancabile anche in quegli istanti in cui vorrei che smettesse di
battere, di gridare la sua voglia di volare. In quegli attimi in cui
vorrei fosse lui a scegliere per me, decidendo di arrestarsi.
Per sempre.
Ma non è così semplice.
Non si può morire unicamente desiderando di morire.
Amo un‟altra donna.
E questo invece è molto semplice.
Amo una donna che non è mia moglie.
Vista così appare già più complicata.
Riporto lo sguardo sul mio viso e mi perdo in dettagli insignificanti.
L‟orecchio destro sporge più in fuori del sinistro.
L‟occhio sinistro vede meglio del destro.
Alcuni capelli sulle tempie sono diventati bianchi.
Sono più vicino ai quarant‟anni che ai trenta.
E sono più innamorato di quanto non lo sia mai stato. Sono più
innamorato di un adolescente che si affaccia timidamente alla vita.
Il cuore vola, vola alto. E la mente, guinzaglio troppo corto per
sentimenti tanto liberi, lo strattona indietro richiamandolo alla realtà
di scelte ormai compiute.
Sarò davvero un irresponsabile se lascio mia moglie, la casa e una
vita talmente quieta da apparire piatta?
Tento di immaginare il dolore di tutto questo.
Come il pezzo di un puzzle che d‟improvviso salta fuori dal proprio
posto e cerca di incastrarsi in una posizione non sua.
Creando scompiglio.
Deformando il quadro nella geometria e nei colori.
Calpestando la perfezione di una figura reale. Ma non più mia.
Giro gli occhi in direzione della finestra e la mia immagine riflessa
sembra farmi il verso.
Una parodia di me stesso.
Guardo fuori, verso il cielo.
È sempre difficile trovare la collocazione corretta degli elementi di
un puzzle con troppo cielo.
O con tanto mare.
~ 277 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
E se io fossi uno di quei pezzi? Se io potessi spostarmi in un‟altra
posizione senza creare troppo scompiglio nelle forme e nei colori?
I miei occhi ora mi fissano. Sono severi e dolci al tempo stesso.
Mi penetrano il cranio e trapassano i miei pensieri.
Posso accettare le conseguenze delle mie scelte.
Posso sopportare il peso del dolore.
Ma non potrò mai, e solo io so quanto lo vorrei, farmi carico di tutta
la sofferenza non mia.
Come quando si ammazza una persona. Si può pagare il prezzo verso
la società, in diversi modi.
Anche con la stessa vita.
Ma niente restituirà ciò che è stato.
Niente.
Ci sarà sempre, da qualche parte, una ferita aperta a spurgare dolore
insieme all‟infezione.
Le spalle dell‟uomo di fronte a me si incurvano lievemente, come
gravate da un peso invisibile e tuttavia insostenibile.
Il viso è triste e stanco. Tirato.
Solo gli occhi mantengono una scintilla di ribellione.
E allora li osservo, quegli occhi. E tento di leggere le parole scritte là
dentro e sbiadite da troppa acqua salata.
Le lacrime sono come gocce di collirio.
Prima annacquano la vista, rendendo i contorni meno netti e precisi.
Poi donano una visione più chiara della realtà.
Osservo i miei occhi riflessi nello specchio mentre piangono.
Si dice che gli occhi sono lo specchio dell‟anima.
E se è così allora anche la mia anima sta piangendo.
~ 278 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Isabella Giannini
Di notte sul mare
“Signore, va bene qui?” “Sì, grazie. Così potrò vedere meglio la fine
del tramonto”. Il bambino si allontanò saltellando allegramente forte
della mancia appena ricevuta dal vecchio signore che si era fatto
accompagnare sulla sua carrozzella.
Il rumore della risacca scandiva lo scorrere del tempo. Sulla spiaggia
ora non era rimasto più nessuno, tranne Nedo: era quasi l‟ora di cena
e mogli affaccendate accudivano figli e mariti preparando un lieto e
lauto pasto.
Nedo, un po‟ pescatore e un po‟ bagnino, era solo anche quella sera e
a casa non lo aspettava nessuno. Se ne stava appoggiato con le
braccia alla ringhiera di legno di uno chalet in riva al mare, con una
bottiglia di birra in mano. Di lui, una cicatrice trasversale sul volto
abbronzato era l‟unico indizio per indovinare un antico passato, e
probabilmente un recente presente, fatto di risse e sciagurati affari.
La pelle, cotta dal sole, emanava un forte afrore che sapeva di mare e
sudore misto all‟odore delle reti dei pescatori. Le spalle e le braccia,
nude e lucide, erano solcate da muscoli compatti e da vene in rilievo:
bastava uno sguardo per capire che quel losco figuro era meglio
lasciarlo stare.
“Cani, siete andati a scodinzolare dalle vostre donne, quando fino a
poco fa avete avuto occhi e bava solo per le donne altrui… Vi ho
osservato, mentre giocavate sulla spiaggia a fare i castelli di sabbia
con i vostri bambini e nel frattempo guardavate a circa un metro di
altezza, incuriositi per i tesori nascosti da questi bikini o come cavolo
li chiamano… Ah, cani, cani sempre in caccia, possiate morire” e
una lacrima amara del vecchio signore in carrozzella scese dai suoi
occhi grigi e velati, percorse piano la ruga che segnava la sua
guancia, piegò verso il mento e cadde sul suo grembo, coperto da un
plaid a scacchi verdi e blu.
Tessa si asciugò le mani col canovaccio, andò alla finestra fronte
mare e spostò la tenda: guardò avanti a sé, a destra e poi a sinistra,
ma non trovò quel che cercava.
~ 279 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Nedo si vide sfilare di fianco il vecchio signore in carrozzella che ce
l‟aveva con tutti gli uomini, lui compreso, posò a terra la bottiglia di
birra e si accese una sigaretta, inspirò a lungo e quando espirò, lo
fece talmente piano che con lo sguardo ebbe il tempo di abbracciare
e contemplare tutto l‟orizzonte.
Si concentrò sulle luci. Da una parte, gli alberghi rilucevano di
piccole luminarie come se fossero state accese mille piccole fiaccole.
Davanti a sé, l‟orizzonte scuro del mare cominciava lentamente a
fondersi con il cielo, e più guardava e più apparivano minuscoli lumi
di navi lontane, pescatori d‟altura col cuore gonfio di speranza per
una pesca proficua. Dall‟altra parte, nuovamente alberghi illuminati a
giorno: si potevano contare le finestre da quanto quella notte era
limpida e tersa, nessuno poteva immaginare che stesse per diventare
buia e fosca come il suo sguardo.
“Cani, se non fosse stato per voi! Cani”, inveiva ancora il vecchio
signore, “Come fanno le vostre donne a non cacciarvi di casa! Sotto
ognuno di voi si cela un lupo affamato, pronto ad assaporare una
preda nuova! Vi odio! Vi odio”. Il vecchio signore, a forza di
agitarsi, faceva ondeggiare la sua carrozzina e in preda al suo delirio
non si rendeva conto che il pontile sul quale era salito sarebbe prima
o poi finito.
Tessa sfilò in fretta le ciabatte e messasi il primo paio di scarpe che
le capitò sotto mano, uscì di corsa dalla casa in riva al mare. Erano
pochi mesi che era in Italia e quel lavoro era per lei vitale: le serviva
per mandare i soldi in Romania a suo marito e alla sua famiglia
d‟origine. Sarebbe stato un disastro se fosse successo qualcosa al
vecchio signore: l‟avrebbero licenziata e di certo mandata fuori
dall‟Italia, considerato che era anche clandestina. Guardando fuori
dalla finestra si era accorta che il suo assistito non era più dove lo
aveva lasciato: doveva assolutamente trovarlo.
Spenta la sigaretta, Nedo riprese in mano la bottiglia, tracannandola
fino all‟ultima goccia. “Vola, bastarda” e la lanciò lontano sulla
sabbia, che ne attutì il colpo tanto da non farla andare in pezzi.
Mentre si asciugava la bocca col braccio, vide un movimento strano
di fronte a lui. Qualcuno correva, si fermava e ripartiva, come se non
sapesse dove andare.
~ 280 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Sotto la luce della luna, i biondi capelli della ragazza formavano un
leggero bagliore. “Uhm…”, pensò, tastando piano la patta dei
pantaloni.
“Maria mi amava, mi amava”, il vecchio signore piangeva, “Se non
fosse stato per voi mi sarebbe rimasta fedele! E‟ colpa vostra che
l‟avete tentata… stavamo così bene insieme… Quel giorno al mare,
lo ricordo ancora, mentre si allontanava mano nella mano con
quell‟uomo così aitante… Maria, perché sei scappata?” Erano passati
molti anni, ma quel lontano episodio aveva talmente impressionato la
mente dell‟uomo da lasciarvi un‟immagine fissa, indelebile. Ogni
giorno riviveva quella scena e quel dolore infinito non riusciva a
trovare sollievo. Una mente impazzita dalla repentina fine di un
amore, il suo grande amore.
“Signor Toschi, Signor Toschi” Tessa chiamava a gran voce sulla
spiaggia, ma il vecchio, in cima al pontile, non poteva né vederla né
sentirla, immerso com‟era nei suoi pensieri. “Signor Toschi, ma dove
è andato a finire?” La ragazza percorse l‟intera lunghezza della
passerella che collegava la zona docce al mare, ma non vide niente,
fino a quando un leggero bagliore in cima al pontile richiamò la sua
attenzione. “Signor… Toschi? Ma che ci fa lì…?” E si mise a correre
a perdifiato sulla sabbia, che ne rallentava la velocità. Il bagliore dei
raggi della carrozzella illuminata dalla luna andava e veniva, come
un piccolo faro, triste e silenzioso.
Nedo raggiunse di corsa i primi piloni del pontile, guardò dov‟era
arrivato il vecchio con la sua carrozzella e fatto un rapido conto capì
che forse non avrebbe fatto in tempo ad afferrarla…
“Maria, Maria” il vecchio intanto continuava, col suo ondeggiare, il
pericoloso avvicinamento al termine del pontile, poi sarebbe saltato
giù, come un fagotto pesante. L‟entrata in acqua avrebbe provocato
ribollir di schiuma, qualche piccolo gorgo, ma il tutto avrebbe avuto
anche un suo risvolto romantico… La bellezza del mare illuminato
dalla luna non ha eguali, specialmente in quelle notti in cui le onde
sono alte e spumeggianti: si può percepirne la forza e la potenza. Il
vecchio forse in cuor suo sentiva che quello doveva essere l‟ultimo
giorno della sua vita. Anni fa il suo cuore era morto, proprio lì, in
quel mare: oggi sarebbe stato tempo per il suo corpo.
Tessa era già sul pontile, correva sentendo il suo cuore battere forte
fin dentro agli orecchi: era un rumore assordante, ma il destino del
~ 281 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
marito e della sua famiglia in Romania la spingeva a correre più
forte, ignorando tutti i messaggi del suo corpo a fermarsi. “Signor
Toschi, si fermi, si fermi!” Lo vedeva ondeggiare e immaginava ad
ogni istante di vederlo scomparire al di là della sagoma del pontile, in
una sorta di nascondino al quale non voleva partecipare. Il conto però
lo stava facendo qualcun altro al posto suo.
“Ferma, non ti muovere” sibilò Nedo parandosi davanti alla ragazza
dopo averla raggiunta da dietro, con l‟ultimo fiato che aveva in gola,
ingoiando la poca saliva che gli era ancora rimasta; mise le mani sui
ginocchi per riprendersi un attimo e la guardò. Fu solo un istante, ma
la luce della luna le illuminava bene il viso e lui poté notare i suoi
lineamenti dolci, in contrasto con i suoi occhi ora assurdamente
spalancati e la sua bocca rosea aperta in un‟espressione di muto
stupore. I capelli biondi, al suo bloccarsi, ripresero immediatamente
la loro linea perfettamente liscia e verticale: solo il suo ansimare e
quegli occhi spaventati facevano intuire realmente lo stato d‟animo
della ragazza. L‟uomo non le permise di passare oltre e le disse:
“Non ti preoccupare, tanto non cadrà in acqua. Non è la prima volta
che fa finta di ammazzarsi, arriva fino al limite ma poi torna sempre
indietro”, si asciugò il sudore con la mano, “Fa così perché spera
sempre che qualcuno lo consideri per quello che è… un derelitto”.
Avanzò piano verso la ragazza e con fare deciso e arrogante chiese:
“Tu piuttosto chi sei? Perché stai correndo da lui?” Tessa, per nulla
convinta dalle parole di Nedo, non rispose e fece per oltrepassarlo
ma venne prima bloccata in un rude abbraccio e poi scaraventata sul
pavimento del pontile. In un attimo Tessa si ritrovò Nedo addosso
con il peso del suo corpo che la immobilizzava.
Tutto si svolse in pochissimo tempo: con una mano Nedo le bloccò
entrambe i polsi mentre con l‟altra si aprì i pantaloni per poi farsi
spazio fra le cosce di lei, che impossibilitata a muoversi continuava a
gridare forte “Signor Toschi, Signor Toschi si fermi, si fermiiiiiiiii”.
Nedo mentre compiva il suo insano atto continuava a chiederle: “Chi
sei tu?”, “La figlia?”, “Una parente?”, “Chi sei… dimmelo!!!”,
“Devo sapere se sei la sua nuova Maria”, “Lei mi amava ed è stata
mia, così come lo sei tu adesso” . Il suo sguardo, da saettante che era,
divenne di ghiaccio.
“Non siamo solo noi uomini a tentarvi”, “Siete anche voi donne che
vi lasciate tentare, vero?”, “Vero???” .
~ 282 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Tessa annuiva a quelle frasi più per paura che la situazione
precipitasse che per altro; nella sua mente, come in un vortice,
pensava a quell‟uomo che le stava facendo del male, sperava che
qualcuno la sentisse urlare e corresse in suo aiuto, si disperava
perché non avrebbe potuto ottener giustizia per quel gesto, in quanto
clandestina: doveva solo subire… Pensava persino al pericolo del
vecchio in procinto di cadere in mare, e non ultimo alla sua famiglia
lontana al quale doveva mandare i soldi ogni mese.
Lo aveva osservato solo per un attimo, nel momento in cui
quell‟uomo l‟aveva gettata a terra, ma tanto le era bastato per
rimanerne impressionata. Spalle ampie, muscoli ben scolpiti, capelli
scuri e scompigliati, in più la rabbia dimostrata nel gesto violento:
tutto ciò aveva fatto breccia nelle sue paure, che ora si stavano
realizzando. Come cenere al vento, le sue urla si perdevano nel buio
della notte: quell‟uomo sopra di lei non ne era per niente intimorito,
anzi, sembrava che il suo piacere crescesse con l‟aumentare del
terrore di lei.
D‟un tratto il vecchio iniziò a tornare indietro, ricominciando la sua
litania che si sentiva sempre più forte e vicina: “Cani, se non fosse
stato per voi…” e mentre Nedo continuava ad usarle violenza, con
ampie spinte rabbiose, a Tessa si schiuse in cuor suo uno spiraglio di
luce. Si sentì un po‟ sollevata nonostante quel che stava subendo; il
Signor Toschi era lì, salvo, immerso nel suo delirio di odio, a pochi
passi da lei: la sua famiglia avrebbe continuato a ricevere i suoi soldi.
Nedo si voltò verso il vecchio e gli disse… “Credi di aver sofferto
solo tu, eh?”, “Beato te che hai perso il capo, vecchio della malora”,
“Io da allora le odio tutte le donne, tutte”, “Sono io che te l‟ho
portata via, ma lei non è voluta rimanere”, “Diceva che amava un
altro… la zoccola!”, “Ti odio perché me l‟hai fatta conoscere!”
Il vecchio pian piano ammutolì, stringendo forte con le sue vecchie
mani i braccioli della sua carrozzella, immobile davanti a quei due
corpi.
“Ci tenevi anche a „sta biondina, eh?”, “O riprenditela ora: vediamo
se scappa anche questa”, terminò il suo insano atto e si alzò dandosi
una spolverata ai calzoni, “Ora che sai, hai un motivo in più per farla
finita e buttarti in mare una volta per tutte, ah ah”. Li lasciò lì, da
soli, abbandonandoli come fossero vecchie cose; la sua risata
~ 283 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
divenne sempre meno percepibile man mano che la sua nera figura si
allontanava sul pontile, fondendosi con la notte.
Tessa, ancora visibilmente scossa, si rialzò, mise un po‟ a posto il
vestito come poteva, si asciugò le lacrime che le avevano rigato il
viso e tremando cominciò a spingere la carrozzella: “Andiamo a
casa, Signor Toschi, fa freddo, qui fuori”.
Le mani del vecchio allentarono la presa sui braccioli, il suo sguardo
tornò a vecchi ricordi. “Cani, se non fosse stato per voi…”
~ 284 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alba Giannini
Ricordi e Rimpianto
Stamani al risveglio mi sono affacciata alla finestra e guardando fra
gli alberi verso Via Forlanini ho notato una luce diversa dal
solito,però non potevo capire cosa fosse: più tardi uscendo ho capito
il perché. Lo stabilimento Fiat non c‟era più, al suo posto un mucchio
di macerie! A quella vista ho provato una grande pena! Sapevo che
doveva essere demolito, ormai ne parlavano da tanto tempo! Forse
inconsciamente pensavo non fosse vero! Allora guardando quelle
macerie, come la sequenza di un film sono riemersi i ricordi della
mia infanzia e adolescenza. Mi rivedo con le sorelle a correre per i
campi del nonno, oppure a cogliere i papaveri in mezzo al grano,
arrampicarmi sugli alberi pieni di frutta che occhieggiava fra le
foglie come a invitarmi a mangiarne a volontà. A volte sdraiata sul
manto erboso del prato mi piaceva ascoltare il frinire delle cicale, e il
cinguettio degli uccelli! Insomma era il mio mondo Fatato! Per la
trebbiatura, rivedo nell‟aia gli uomini con i loro volti abbronzati,
rigati dal sudore mettere i covoni del grano nella trebbia, e intorno
tanta allegria!
La sera nell‟aia tutta illuminata veniva imbandita una tavola per tanti
commensali. Più tardi al suono di una fisarmonica le coppie di
giovani ballavano fino a notte inoltrata, (con la gioia di noi ragazzi
che per quelle occasioni non andavano a letto presto!) Che dire della
vendemmia!
Lungo i filari di viti ricche di grappoli maturi, si sentivano i canti e
le risate dei vendemmiatori che portavano i panieri pieni d‟uva alle
bigonce. Quanta nostalgia!
Poi avvenne l‟esproprio del podere perchè doveva essere costruito lo
stabilimento. Giorno dopo giorno lo vedevamo erigere e noi ragazzi,
lo guardavamo con diffidenza e ostilità. Finchè gli adulti ci fecero
capire, che tutto questo avrebbe portato lavoro e benessere per tante
famiglie! Pian piano, ci accorgemmo che quel complesso di
capannoni, erano divenuti una parte integrante dell‟ambiente che ci
circondava! In seguito, la guerra ci portò le sue spiacevoli
~ 285 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
conseguenze, lo stabilimento fu occupato dai soldati tedeschi che
ogni tanto, invadevano l‟aia per sparare ai pochi polli rimasti,(per
fortuna senza arrecare danni alla persone!) Poi finalmente si
ritirarono, portando via anche le nostre paure! L‟arrivo degli alleati ci
portò la calma e la sicurezza che ci era mancata! La sera sentivamo
sempre musica, perchè facevano delle feste danzanti. Ma la più bella
musica per noi fu quando lo stabilimento riprese la sua attività
lavorativa, finalmente eravamo tornati alla normalità.
Ora, i miei vecchi se ne sono andati e con la Fiat se n‟è andata una
parte importante della vita…la mia Giovinezza! Ciao vecchio
stabilimento! Al tuo posto sorgeranno costruzioni nuove, il progresso
va avanti, nessuno lo può fermare… Ma con questo, io non ti
dimenticherò. Anche il mio tramonto si avvicina e a suo tempo dovrò
lasciare il posto ad altri… Che ci vuoi fare…così è la vita!
~ 286 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Orietta Giardi
La voce del vento
Tornavo ogni anno nella casa dei mandorli per trascorrervi le
vacanze estive. Il viaggio durava alcune ore, ma avevo imparato ad
ingannare il tempo osservando lo scorrere lineare dei paesaggi, fino
alla deviazione per Marsala. Proseguendo, il mio sguardo si sarebbe
perso nel bel braccio di costa a sud-ovest della Sicilia, dove si
affacciano le isole Egadi e lo Stagnone. Lo stesso che ancora oggi
conduce ad una via antica e soleggiata, punteggiata da luccicanti
mucchietti di sale, sui quali paiono vegliare gli ultimi mulini. Infine
avrei nuovamente percorso quella strada fatata, fino alla Casa del
Sale per salutare Peppino.
Lui era sempre il primo a sapere del nostro arrivo. Sostava vicino al
ristorante Mamma Caura, seduto davanti al portabagagli aperto della
sua vecchia utilitaria grigia, sul quale trionfavano alcune scopette
scaccia-guai che nascondevano un museo colorato di sassi incisi. Gli
uni e le altre gli davano da vivere ed io, che collezionavo da anni
sassi dalle fogge più strane, chiedevo sempre a mia madre di
comprarmene uno. Ricevevo, in cambio, un sorriso e se Peppino era
in vena, mi trattenevo per sentirlo recitare una delle sue poesie,
simili a ballate. Diceva che gliele aveva regalate il vento, il vento
dell‟isola, e che bastava saperlo ascoltare per sentirne la voce.
Naturalmente provai più volte a far ciò che il poeta mi aveva
suggerito, ma per me il vento rimase solo un fruscio, che Peppino
continuò a comporre in versi per ognuna delle estati che trascorsi in
Sicilia.
Giunse poi un terribile inverno, più freddo dei precedenti o, forse, fu
soltanto più lungo, e i miei nonni, ch'io ricordavo anziani e rugosi
ma tenaci e forti, come certe piante dai tronchi contorti, ci lasciarono
entrambi.
Chiudemmo la casa dei mandorli e non tornammo più dove eravamo
stati felici. Anni dopo mio padre decise di vendere l‟abitazione. Me
lo disse una sera, e accompagnò le sue parole con un sorriso, lo
stesso di quand'ero bambina.
~ 287 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ero nella casa dei nonni e mi aveva sorpreso mentre impastavo terra,
acqua e gusci di lumache, per preparare un'impossibile pozione.
“Giovanna” aveva gridato allora “vieni a vedere che cosa ci ha
preparato questa piricuddra4 per cena!”
Ripeté quell'invito più volte, fino a quando, la nonna s'affacciò sulla
soglia della cucina, con il grembiule stretto sui fianchi striminziti, e
gettò un'occhiata sui miei pasticci, ridendo a sua volta.
Io li guardai entrambi, mostrando fiera le mani sporche con le unghie
incrostate di terra, finché la nonna, in un barlume di rinnovata
coscienza, esclamò:
“Madre mia, che manuzze!”
E corse in casa a preparare il bacile.
L'abitazione dei miei nonni era una dimora antica, dalle spesse mura
di tufo bianco, posta al centro d‟una piccola contrada della campagna
marsalese. L‟intera frazione era costituita da un mucchietto di case,
quasi abbracciate tra loro, dall‟aspetto pressoché uniforme di zollette
di zucchero. Casa Anastasi, però, si distingueva fra quelle, perché
non aveva subito rifacimenti, tant‟è che conservava due grandi
magazzini con il tetto a punta, destinati al vino. Entrambi erano
serrati da enormi portoni di legno, verniciati d‟un verde squillante
che s‟accendeva sul bianco latte dei muri screpolati.
All‟interno la casa si snodava in un curioso susseguirsi di stanze,
venute su per caso, ubbidendo alle necessità del momento, ma
inglobate in un‟unica pianta a guisa di parallelepipedo. Tra quel
dipanarsi di stanze, io avevo trovato rifugio nel “camerino”, una
stanzina buia che prendeva luce da un piccolo finestrino, posto a
confine con il tetto sul quale si snodavano pesanti travi di legno,
volgarmente imbiancate. Dal camerino era transitata anche mia
madre, come ospite, quand‟era ragazza, e prima di lei mio padre,
dato che la costruzione di quella stanza era avvenuta dopo la sua
nascita. Infine era diventata mia senza che i pochi arredi venissero
mutati. Dormivo in un brutto lettino di ferro, sul quale pendeva un
oscuro arazzo, raffigurante un Cristo dall‟espressione mesta ma, per
fortuna, potevo consolarmi con le lucine sempre accese d‟una
Madonnina dorata posta sul piano di marmo d‟un comodino tarlato.
Non c‟era altro, eppure a me quella stanza piaceva così com‟era,
4
piccolina
~ 288 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
senza armadio, con il cassone color noce posto ai piedi del letto. Lì,
con il permesso della nonna, avevo riposto tutte le mie ricchezze:
alcune bambole con i capelli stopposi, due cavallini dall‟improbabile
colore azzurro, dei tegamini arrugginiti, qualche tazzina sbeccata.
C‟era anche una scatola di latta, di quelle che una volta si usavano
per i biscotti, con il coperchio verniciato di rosso, ed era così simile
ad uno scrigno che un giorno decisi di riporvi i sassi di Peppino:
quindici sassi in tutto, tra i più belli, uno per ogni estate.
Anni fa sono tornata a prenderli e, per non far torto a Peppino, sono
di nuovo andata a cercarlo lungo vicino alla casa del sale. Non l‟ho
visto, eppure era là: me l‟ha detto la voce del vento che sussurra
ballate bellissime.
~ 289 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Laura Giorgi
Fuori dal tunnel
Probabilmente non saprò mai che cosa mi ha spinto a lasciare il
luogo di beatitudine, dove ho vissuto fino ad oggi, per infilarmi in
questo tunnel buio e angusto. Improvvisamente scosso dal mio
torpore, come se avessi ricevuto una chiamata alla quale non mi
posso sottrarre, e sentendo un impellente bisogno di muovermi, mi
infilo dunque nello stretto passaggio, attratto irresistibilmente dalla
fioca luce che sembra balenare sul fondo. A dire la verità, quel
chiarore è la sola cosa che mi permette di andare avanti senza
perdere la speranza, visto che il buio e la scarsa praticabilità del
passaggio quasi mi spingono a desistere; ma tornare indietro non si
può e la mia curiosità vince sull‟indolenza. Con grande fatica
dunque, mettendoci tutto l‟impegno di cui sono capace, mi sospingo
sempre più avanti verso quel chiarore che diventa via via più
intenso…. Ecco, ora distinguo chiaramente l‟uscita… sono fuori…
ma, accidenti, neanche il tempo di dare un‟occhiata, e due mani
robuste mi afferrano, mi strattonano, mi scuotono e mi rifilano un
paio di pacche sul sedere: che maniere sono mai queste? Dove sono
capitato? I miei nemici devono essere in molti, li sento muoversi e
parlare concitatamente, senza ovviamente comprendere una sola
delle loro parole. Uno di loro ha in mano un mostruoso aggeggio e
mi… sì, mi taglia un pezzo e lo getta via, mentre un altro lega
velocemente il pezzo rimasto, prima che mi scappi via la vita.
Incivili! Incuranti del mio poco dignitoso pianto, mi sollevano e mi
rivoltano da tutte le parti, mi infilano le dita nel naso e nelle
orecchie, mi strofinano con panni presi chissà dove, mi misurano con
strani apparecchi prendendo appunti su un libriccino, mi costringono
a camminare sempre appuntandosi tutto quanto. Poi dulcis in fundo
mi punzecchiano con un bell‟ago, e stavolta sì che gliele canto
chiare!
Finitela un po‟, sono appena arrivato, avessi saputo che gente
trovavo non mi sarei mosso affatto… Ma… che succede? Cos‟è
questa roba liquida? Mi lavano e mi strofinano di nuovo, ma ora
~ 290 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sembrano più tranquilli e gentili. Devo anche ammettere che mi sto
abituando alle loro prese e ai suoni che emettono. Che non siano
nemici? Prima che possa sciogliere il dubbio, vengo di nuovo
rivoltato da ogni parte e infagottato in certa roba che hanno loro; io
stavo bene nudo, ma poco importa, è tutto morbido e profumato, poi
mi stava venendo un po‟ di freddo. E adesso, dove mi portano?
Mentre mi stanno avvicinando a qualcosa di morbido e accogliente
che ha le mani come loro, ma infinitamente più gentili, e che sanno
come prendermi e avvolgermi, sento improvvisa una cosa che mi fa
sobbalzare: quel rumore ritmato… che si avvicina sempre più…. Ma
è la mia musica! E‟ quella cosa meravigliosa che ho ascoltato nella
mia tana, in tutti questi mesi! Non so perché, ma mi sento di nuovo a
casa. E mentre felice premo l‟orecchio verso questa cosa misteriosa,
che ha il ritmo e il respiro della mia precedente vita, ecco un‟altra
sorpresa: il contatto con un ammasso grande, caldo e rotondo, che ha
da un lato una specie di escrescenza stuzzicante. Ormai sento di
potermi fidare, e seguendo l‟istinto afferro l‟escrescenza tra le
labbra: miracolo, ne esce un liquido caldo e dolce, che, beh, dopo
una giornata come questa non si può proprio rifiutare! Senza
rendermene conto scivolo in un sonno ristoratore; sto sognando al
suono cadenzato di quel tu-tum che riconcilia con la vita; e sono per
la prima volta tra le braccia della donna che amerò di più al mondo:
mia madre.
~ 291 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giovannino Giosuè
Tre Novembre
Paolo e Giovanni si erano conosciuti, entrambi diciassettenni, al bar
del quartiere Tribunale. Il bar e i campetti di periferia dove si può
giocare a pallone in libertà, sono i posti dove possono nascere le più
belle amicizie.
Il caso volle che la famiglia di Paolo prendesse casa proprio nello
stesso quartiere dove abitava Giovanni, e un pomeriggio, Paolo si
ritrovò, com‟era inevitabile, davanti al bar Tribunale. E Giovanni,
un po‟ perché faceva parte del suo carattere e un po‟ perché quella
faccia gli aveva ispirato subito simpatia, gli si avvicinò tendendo la
mano.
“ Romano?“ gli si rivolse con fare interrogativo. “No, mi chiamo
Paolo“.
“Ah, non ti chiami…Romano!“ fece scherzosamente Giovanni
presentandosi. Seguirono un‟allegra risata e una calorosa stretta di
mano che sancirono la nascita di una profonda amicizia, sincera e
disinteressata.
Da quel momento si sono ritrovati sempre insieme, per vivere le
esperienze di vita dei giovani: le ragazze, le feste da ballo, il cinema,
eventi sportivi da gustare o da praticare.
Giovanni aveva anche avuto la fortuna di incontrare Angela, la donna
della sua vita, mentre Paolo, pur avendo molto successo tra le
ragazze, non riusciva a trovare l‟anima gemella.
La quotidianità del rapporto si interruppe bruscamente quando anche
Paolo, verso i trent‟anni, convolò a giuste nozze con Gabriella. Per
motivi di lavoro, fissarono la loro dimora a Roma, e Giovanni, che in
quella caotica metropoli aveva vissuto da studente senza però
mai…acclimatarsi, provava una sorta di idiosincrasia al solo pensiero
di dovervi tornare. Solo immaginandosi in mezzo al caos del traffico,
veniva assalito da una sorta di depressione: questo il motivo che per
diversi anni ha tenuto lontani i due amici. Solo telefonate, che nel
corso degli anni sono diventate sempre meno frequenti. Senza
cattiveria alcuna, forse solo pigrizia.
~ 292 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Un bel giorno, senza preavviso, Giovanni e Angela ricevettero una
visita inaspettata di Paolo e Gabriella. Baci, abbracci, effusioni di
ogni genere.
“Capisco la tua difficoltà” esordì Paolo “ma non mi arrendo all‟idea
che non possiamo più vederci. Ti ricordi? Io sono tosto, essendo fin
dalla nascita sopravvissuto ai morti del due e ai feriti del quattro, e
quindi non posso, non so arrendermi. Se prendi un po‟ di coraggio,
anche tu puoi sconfiggere il drago!”
Paolo aveva perfettamente ragione, e con questo scherzoso
accostamento alla propria data di nascita aveva colpito proprio nel
segno. Il tre novembre!
La riflessione sul tre novembre fece scattare una molla nella mente e
nel cuore di Giovanni. Era tempo ormai di mettere da parte le proprie
stupide paure. Cominciò quindi a frequentare la capitale, dove con
l‟aiuto dell‟amico cominciò a muoversi senza troppi traumi.
Abbattuto l‟ostacolo, un ostacolo solo psicologico, le visite di
Giovanni a Paolo si sono moltiplicate. Le occasioni sono state le più
disparate: la nascita di un figlio, compleanni, matrimoni, nipotini, un
anniversario particolare.
I due amici hanno saputo così recuperare un rapporto di amicizia
fatto anche di partecipazione e di condivisione, e non soltanto di
buoni propositi e dichiarazioni di affetto a distanza.
Giovanni ha voluto mettere un sigillo su quella geniale trovata
dell‟amico Paolo. In segno di riconoscenza e di affetto, per celebrare
la loro fraterna amicizia, anno dopo anno, il tre novembre, nelle
nuove classi dove esercita la funzione di insegnante, prima di
procedere con la lezione del giorno gli rivolge un pensiero affettuoso.
“Dovete sapere, ragazzi, che una leggenda narra che i nati in questo
giorno sono forti nel carattere e sono amici veri e sinceri. Come è
nata? E‟ presto detto. Il due novembre è il giorno della
commemorazione dei defunti, e il quattro novembre il giorno
dell‟armistizio che pose fine alla prima guerra mondiale: un giorno
dedicato ai tantissimi caduti e feriti di quella terribile guerra. Da qui
ha preso sempre più consistenza la leggenda secondo la quale i nati il
tre novembre, evitando così per un pelo i due eventi luttuosi, sono
persone forti nel carattere, amici stupendi e genuini che ognuno di
noi vorrebbe avere. Io ne ho uno, si chiama Paolo.”
~ 293 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Andrea Giovannetti
Dal diario odoroso su di un dignitoso tavolo di
ciliegio di una vecchia signora
PREMESSA
Quanto segue trae origine dalle immagini evocate da un fatto di
cronaca risalente alle prime giornate estive del duemilasei, all'epoca
avevo diciotto anni. Il suicidio di una vecchia sulla pagina di un
anonimo giornale fu per me il gesto raro e simbolico di una persona
bella e sconosciuta. Decisi, in queste due pagine, di offrire un
modesto tributo alla teoria di sensazioni suscitatemi, evocando fin
dallo stile la parvenza di una giustificazione al gesto tanto sapido ed
inconsueto, ai miei occhi inevitabile segno di una maestosa
disillusione segreta. Per deliberata volontà ho osservato con rispetto
il pudore della persona da me immaginata, lasciando alla fantasia del
lettore l'estrema propaggine dell'ipotetico raccordo tra fatto reale e
narrato, la tragedia, nella parentesi muta che unisce, idealmente, la
mia ultima parola all'ultimo gesto di questa persona. Non ho
rimaneggiato in seguito lo scritto, ritenendolo esatto. All'indirizzo
seguente, la testimonianza storica:
http://qn.quotidiano.net/2006/06/10/5419446-IL-DRAMMA.shtml
Tregozzano, 5 Giugno
Mio caro consunto diario, tu grondi le lacrime di una povera sciocca
vecchia!
Devo essermi rimbambita del tutto, come ha detto la Delia stamane,
ma sono felice... felice, diario! Voglio baciarti, e diamine, lo faccio!
L'ho fatto.
Pensavo d'esser morta con Carlo. Quando lo colpì l'ictus morii
davvero... ma già sai sull'amore mio della mia vita.
Non voglio sembrare una bambina sognante, ma non riesco a
dimenticar l'immagine di lui che vien sotto casa della mamma col
Fiat tutto rombante, urlandomi di scendere con una scusa qualunque.
E io che ero così sciocca e piena d'amore che lo guardavo arrivare dal
balcone mentre stendevo i panni e storcevo il naso come le
francesine dei film della domenica!
~ 294 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
I panni li stendevo per finta, ma lui che era pieno di me non se ne
accorgeva manco, e io aspettavo che spegneva il motore, scendeva
dalla cabina e poi si grattava la testa pensando che non sapeva che
altro dire per farmi scendere. Alla cooperativa così l'avevano
consigliato e basta, che le donne son difficili ad aversi.
Poi scendevo, ogni tanto, col cuore che mi batteva per la gola,
contando i gradini che mi separavano da lui (trentasei erano) e gli
andavo in contro, cercando di moderarmi che una signorina certe
cose non si fanno. Lui mi stringeva le mani con le sue, che erano
tutte callose e sporche (e se ne vergognava, diaro! Quanto!). E si
arrossiva e balbettava. Lui che era grande e grosso e caricava i sacchi
di roba che avrebbero rotto la schiena ai somari.
Poi si andava nei campi, dove ora passa la ferrovia. E stavamo bene
tutti e due, perché la città non ci piaceva tanto a noi che eravamo
contadini prima della guerra. Poi per il buon Dio ce n'eravamo
andati, ancora senza conoscerci, in città, tutti e due, perché lì i
tedeschi rastrellavano meno, che avevano paura dei partigiani. Anche
Carlo ogni tanto nascondeva nel rimorchio un partigiano che portava
il giornale da leggere nei paesi vicini, però non voglio parlare di
questo.
Voglio ricordare il giallo e il blu che ci accoglievano quando
imboccavamo la nostra stradina per i campi. Voglio ricordare le
cicale che ci facevano felici. Carlo diceva sempre che i ricchi
c'avevano le orchestre con le arpe e noi c'avevamo le cicale che era
meglio perchè non dovevamo pagarle e suonavano a loro piacere.
Dove ora passa la ferrovia, che fa una cicatrice per i campi, c'era il
grano, tanto grano. E Carlo che voleva fare all'amore mi diceva
sempre che eravamo nel mare e che io ero una sirena, e che le sirene
erano donne marine bellissime.
Il vento era buono e piegava come onde quell'oceano infinito di
spighe e noi diventavamo seri, perchè ci sentivamo speciali e
piccolissimi. E poi facevamo all'amore baciati dal sole, cullati dal
vento, nel giallo del grano nel blu infinito del cielo...
Quanti anni! Quanto tempo!
E ieri ho riso come una sciocca e dopo tanto tempo ho guardato
l'orologio in sala dando un significato a quelle ore. Aspettavo
qualcuno. Ma è presto, è presto, diario! Perdona questa
vecchia matta, che la primavera non fa sragionar solo le gatte!
~ 295 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
A presto! A presto!
Tregozzano, 6 Giugno
Diario!
Ti confiderò un segreto. L'altro ieri ho preso l'ascensore dopo esser
andata dalla Nella al primo piano che c'aveva delle robe con la
cognata e io l'ho consigliata. Esco dopo una ventina di minuti da casa
sua, tempo che l'uscio si richiude e che mi avvicino all'ascensore che
vedo salire per le scale dell'ingresso Stefano.
E io me lo ricordavo ancora quando la mamma lo sgridava che lo
trovava a prender l'ascensore da solo, che è vietato finchè non c'hai
dodici anni. Era così piccolo e timidello, quando lo guardavi e si
metteva a fissare le punte delle scarpine con gli strap.
Ed era solo ieri, ed eccolo oggi dopo sedici anni da quando l'ho visto
la prima volta salire deciso su per le scale con fare maschio con gli
occhiali da sole del Tom Cruis. L'ho visto che masticava il cicles
rumorosamente, ma mi è piaciuto sentirlo, non mi sembrava
maleducato. Mi si è messo vicino, prendendo per buono che
prendessimo insieme l'ascensore in quanto lui vive al quarto piano. E
io ho sentito un calore dolce nel petto mio, dove c'era posto solo per
Carlo. Mi son vergognata e ho cercato di concentrarmi sul numero
luminoso che segnava i piani dell'ascensore: cinque (ma proprio così
in alto doveva essere?)... quattro... tre... e poi due e poi uno ed eccolo
arrivare silenzioso ai nostri occhi. Ho fatto per aprire la porta ma lo
Stefano è stato più veloce e guardandomi con gli occhiali
distrattamente ha sorriso con una certa stanchezza, come se io avessi
provato a fare con tanta importanza qualcosa che lui invece faceva
semplicemente, come se fosse stato l'ultimo dei suoi problemi. Mi
son sentita sciocca ma non mi ha fatto male. Sono entrata in
ascensore con lui con il calore dolce ancora in petto.
Lui ha premuto il tasto e si è messo a fissare il muro, masticando il
suo cicles. Io allora l'ho guardato rapidamente che non se
n'accorgeva, e ho visto i suoi occhi verdi come l'olio più puro dietro
quegli occhialacci che fan diventare le persone tutte uguali e tutte
arrabbiate, come delle maschere. Erano così belli, però mi son sentita
indiscreta e ho abbassato gli occhi. Che muscoli gli erano venuti, a
lui che gli dicevo di giocare a basket da piccolo quando lo
accompagnavo a scuola a piedi che la mamma lavorava in fabbrica,
che era tutto magrolino come avesse fatto la guerra. Ho tremato sai,
~ 296 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
diario? E mi sono sentito in dovere di dire qualcosa, così gli ho fatto:
"come stai?" Lui si è girato credo sorpreso e mi ha detto "bene,
grazie.. e lei?" Mi da del lei, diario! Perchè? Sono cambiata io o è
cambiato lui? Cosa vede in me, adesso? Ho avuto paura di sbagliare,
così ho detto semplicemente "bene, grazie", senza accorgermi che gli
facevo il verso del pappagallo.
L'ascensore ci ha caricati fino al 4 piano, dove lui è sceso. Ha aperto
la porta con quella sua bella mano forte e pulita e mentre la
richiudeva (perchè io abito al sesto) mi ha augurato buon pranzo e
buona domenica.
Sono così felice, diario! Quelle parole indicavano che lui si
interessava a me e che voleva dirmi qualcosa di importante prima di
lasciarmi, ma che non trovava le parole per dirmelo e allora ha deciso
di riempire il silenzio con una formula che alcuni dicono la
domenica. Gli ha fatto piacere prendere l'ascensore con me, diario! E
io ne sono così felice...
E' il piacere che provavo guardando una bolla di sapone più grossa
delle altre. So che scoppierà silenziosamente tra poco, però non mi
importa. Mi son sentita donna, ancora una volta dopo tanti anni, e ho
deciso di rifarmi i capelli, che erano tanto belli una volta e il
mio Carlo diceva che erano del colore del vino vecchio e delle notti
che fan paura quando ci si perde in mezzo ai campi perché ci son gli
spiriti dei bestemmiatori che chiedono il perdono piangendo far gli
alberi. Ma i miei capelli a lui non facevano paura, e mi diceva che gli
piaceva come le giornate di sole affondare la testa fra i miei capelli,
che si sentiva perso nella gioia, la gioia nera dell'uva buona.
Vedremo! Vedremo!
~ 297 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberto Giovannetti
Alice e la faccia invisibile
Alice non era una connessione internet.
Non era neanche una nuova caffettiera con timer della De Longhi.
Alice era una cascata di capelli scuri, con in mezzo un sorriso che era
estate.
Poco sopra, due fanali con abbaglianti. Due stelle abusive senza
licenza.
Non erano occhi, erano radar che passavano i corpi.
Quella mattina si svegliò prima che il suo cellulare partisse con la
colonna sonora di New Moon.
Fuori silenzio. Era festa per il mondo, ma non per lei.
Alle due, di quel pomeriggio, doveva essere a regalare sorrisi.
Il tempo di collegarsi mezz‟ora al suo profilo fb. In ordine di una
scaletta ordinata.
Prima controlla la posta. Soliti inviti a gruppi improbabili e feste a
mille chilometri da lei.
La lista delle richieste di amicizia è già a tre cifre. Non ha tempo. Tra
le notifiche delle note dei suoi link, delle foto che ha messo, un
curioso commento. Proprio sulla foto dove ha il vestito nero che gli
piace tanto.
Con le scarpe nere con quel tacco infinito che adora. Si era iscritta
anche ad un gruppo sulle scarpe. Non esistevano oltre tacco dodici.
Alice le avrebbe volute fino alla Luna. Non era per compensare
l‟altezza era alta. Erano solo gioia. Fascino per portare a spasso i suoi
sguardi.
Il commento era di uno che non mette la foto. Lei odiava chi si
nasconde. Non lo avrebbe mai accettato uno così. Sconosciuto si, ma
non senza faccia. Forse all‟inizio l‟aveva. Tanto per farsi accettare.
Poi come con una gomma elettrica si era invisibilizzato. Però il
commento era carino. Da leggere due volte. Di quelli che ci pensi
fino al tramonto:
“ ♪♫ Ci sono note che accendono melodie. Ci sono occhi che
fermano il cuore. ♫♪ “
~ 298 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Poi, continuava con un messaggio tra parentesi. Se fosse stato scritto
a mano sarebbe stato traballante.
“Forse oggi non mi fermerò a sfiorarti la mano alla cassa numero
otto. Forse oggi non mi fermerò a scattarti fotografie con gli occhi e
stamparle nel cuore fino alla prossima volta. Forse almeno oggi
troverò il coraggio di dirti grazie. Per accendere sogni che si
coccolano da soli. Dolci come nutella bianca di notte. )
Alice premette F5. Come per ricaricare la pagine e vedere la foto
trasparente. Come leggere un continuo che non c‟era. Senza
accorgersene si stava mordendo il labbro inferiore. Un‟amica, Ilaria,
gli aveva inviato un link musicale. Come per pensare meglio lo fece
partire. Era il regalo più bello, di Tiziano Ferro. Uno dei suoi
preferiti. In quel momento era meglio di un cornetto caldo di notte.
La mezz‟ora web, era terminata. Aveva solo altri venti minuti per
vestirsi e truccarsi. Sperare che l‟auto si mettesse in moto ed i soliti
cinque minuti per andare in apnea, con la radio a palla, fino a lavoro.
Non aveva voglia di lavorare quel giorno di festa. Avrebbe voluto
andare a vedere fiocchi di neve che si rincorrono. Avrebbe voluto
anche lei andare a vedere mercatini di Natale e bere vin brulè.
Scegliere palline di vetro colorate a mano per un albero che non
avrebbe fatto. Alice continuava a vestirsi guardando il monitor del
nokia rosa. Meno dieci minuti al lancio. Pensò che tre minuti
sarebbero andati via per il nuovo tipo di raccolta differenziata porta a
porta. Accidenti. Doveva recuperare sul trucco. Per un attimo pensò
al messaggio dello sconosciuto. Se magari si fosse presentato. Chissà
da quanto tempo la osservava da lontano. Quante volte gli aveva già
detto grazie. Quante buste voleva. Il momento di prendere lo
scontrino e per caso magari sfiorato la mano. Magari un attimo gli
sguardi si erano cozzati. Forse erano celesti.
Alice come al fotofinish si truccava con due mani fosse stato
possibile. Ripassava sorridendo con i pensieri le facce curiose.
Le facce strane. Le domande che la aveva colpita. Quelle sciocche e
quelle con troppo sale.
Il Nokia anche senza sveglia era come se vibrasse per lei. Tempo
scaduto. Adesso toccava alle scarpe.
Avrebbe voluto mettersi quelle da ballerina. Era contenta. Non si
aspettava niente. Ma tra le note distorte degli ultimi giorni, adesso
una almeno curiosa.
~ 299 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Avrebbe voluto accendere la sua Polo bianca con il telecomando e
farla venire davanti alla porta.
Rapido check intorno: sacchetti vetro, plastica presi. Borsa ok. Cel a
bordo. Sigarette non fumo, ok. Ascensore già prenotato. Grrrr si
butta giù dalle scale due scalini alla volta. Tre sorrisi consumati
prima di buttare i primi due componenti. Buogiorno signora Lina.
Buongiorno Marco. Buongiorno Ilaria. Sono in ritardo da paura.
Torni da Rho? C‟è casino in giro? Un Botto? Immaginavo. Mi
servirebbe il teletrasporto oggi.
La Polo sente che non era aria. Si mette in moto precisa. Alice
accende la radio su quella stazione senza pubblicità. Primo semaforo.
Ne mancano altri tre ed un solo minuto per timbrare. Prende il bacio
perugina lasciato insieme al porta cd. Un bacio rosso. Quelli con la
ciliegina liquorosa. Verde. Non lascia il tempo all‟ometto con
cappello dietro di suonare. Prende la scorciatoia. Quella dove deve
fare due puttanate da multa. Forse tre punti sulla patente. Buca due
versi che pensavano all‟arancione. Una senegalese che vende
fazzoletti al semaforo fa un passo indietro. Rimane paralizzato. Forse
per i riccioli della cascata sulle spalle. Forse per il nuovo rossetto.
Forse per la gomma anteriore della Polo che gli passa a dieci
centimetri.
Alice controlla l‟ora mentre riesce a fare quattro movimenti insieme.
Spenge l‟auto, prende la borsa, si guarda allo specchietto e chiude
con il telecomando. E‟ riuscita a prendere due posti, ma oggi va bene
così.
Tempo zero. Ma forse quello della Polo è due minuti avanti sulla
vita. Come uno sprint finale sale gli ultimi scalini. Si toglie lo
spolverino fico. Spegne il cellulare che sembra fargli una smorfia.
Mette la borsa nel suo armadietto. Cambio turno. Ore 14.00.
Una collega la chiama da dietro. Alice è distratta a ricordare se ha
chiuso la porta di casa e se non abbia buttato via nel recupero anche
il gatto.
“Alice, ti hanno cercata alla tua cassa. Forse è ancora li che aspetta”.
Alice riavvolge il nastro. Si ripassa la frase dello sconosciuto.
Specialmente quella fra parentesi.
Non ha il coraggio di andare a vedere chi è.
Solo il tempo di chiedere chi era.
~ 300 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Viene tante volte qui. Lo conoscerai sicuro”. Risponde la collega
leggermente con tono geloso.
Alice entra nella sala principale.
Cammina come su sabbia bollente. Senza toccare in terra. Lancia il
suo sguardo radar per anticipare una voce. Per prevenire cosa fare.
Per una strategia.
Non vede nessuno. Rallenta. Riprende. Striscia il suo budget ed
entra. Si ricorda di respirare. Si sposta una ciocca di capelli in gita su
un occhio.
Si sente sfiorare una spalla da dietro.
Silenzio. Secondi infiniti per girarsi.
Rimane paralizzata.
Un sorriso doppio che esplode come fuochi d‟artificio di giorno.
“Papi!!! Ma eri tu??”
~ 301 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Claudia Girardi
Mi chiamo viola
Mi chiamo Viola ma non profumo come un fiore. La mia pelle ha
l‟odore malsano delle notti buie e randagie in cui mi trascino,
colpevole, perdendo ogni volta qualche pezzo di me.
Sono nata in un piccolo paese di montagna. Troppo piccolo. Troppo
paese
Di quell‟altra me stessa, così lontana oggi, ricordo solo le lunghe,
interminabili giornate trascorse in casa, lo sguardo perso oltre i vetri
della finestra immaginando caos rumore movimento vita.
Ricordo la sua promessa di restituirmi al mondo, di strapparmi
dall‟immobilità dell‟assenza.
Profumava di uomo e di buono. Di piccoli pezzi di delicata felicità.
Poi niente.
Io che cammino da sola a Milano. Intorno a me un tumulto di
solitudini, corpi affannati nella vana ricerca di un senso.
Vorrei tanto capire quale sia il mio senso. Lo cerco tutte le notti,
mentre mi perdo in locali sudati, dal sapore acre.
Mentre sorrido a te che mi guardi, occhi vuoti, mani che corrono.
Federico, il nuovo illusionista che sfiora pochi istanti dei miei giorni,
ha una moglie, due figlie, un‟esistenza ridente di cui io rappresento
solo una banale casualità.
Un numero di telefono composto per errore, una voce leggera, una
giovinezza da cui è ormai lontano.
Per me è l‟espiazione di una colpa. Povera misera donna, relegata ai
margini di un mondo perfetto in cui tutto è bello satinato dorato,
come potevi pensare di avere uno straccio di diritto? E allora prendi
da me quello che vuoi, svuotami liberami assolvimi.
Abito in un palazzone ai confini del creato. Cemento su cemento,
vite su vite. Piccoli e grandi sogni non realizzati seppelliti nella
dignità di quelle esistenze non espresse, nel decoro di quelle facciate
grigie in cui tutto è uguale, perfettamente uniformato.
Lavoro in un call center. Una stanza enorme in cui decine di ragazze
si affannano a vendere cose inutili a clienti ignari, distratti da una
~ 302 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
bella voce, dalla lusinga di un acquisto che migliorerà la qualità della
propria miserabile vita. Non migliora niente, invece.
E‟ un mondo strano il nostro. Perennemente affannati nella ricerca di
un piccolo spazio in cui coltivare le nostre speranze riusciamo solo a
distruggerle, le nostre speranze.
Qualche volta, quando Federico riesce a inventare storie impossibili
alla sua finta famigliola felice, la sera mi porta a cena in uno di quei
tanti posti anonimi con le tovaglie di carta a quadroni e i bicchieri
unti. Mi dice “ Questo è uno dei posti dove si mangia meglio a
Milano, l‟aspetto non è curato ma la cucina è eccellente”. Poi,
contento di aver onorato un suo piccolo sgradito dovere “Dimostrale
che ti piace anche parlare con lei, portala almeno a cena” mi
accompagna, con il sorriso delle grandi occasioni, nell‟albergo da lui
selezionato con cura, una pensione che puzza di rancido e di materia
stantia conservata male in un locale umido e con la muffa, e sempre
sorridente dice di amarmi, di non aver mai amato nessuno quanto me.
Io so cosa è l‟amore. E‟ una musica costante, un soffio vitale, una
febbre che non passa.
Federico ha smesso di agitarsi, è sudato, appagato.
Mi sembra che in questa stanza scura non ci sia niente che possa
somigliare all‟amore.
Ma lui si avvicina sorridendo. Mi dice che con sua moglie non è così,
che io gli restituisco vent‟anni di vita. Che sente il mio odore sulle
sue mani, nella sua bocca, sulla sua pelle spenta.
Che quando è con lei chiude gli occhi e immagina che ci sia io. E
continua a parlare come un fiume in piena, senza rispetto, senza
rimorsi. E capisco quanto male possa fare la mia leggerezza, la
convinzione di vantare un credito sul mondo.
Sono una mina vagante, una piccola folle mina pronta ad annientare
la vita che le corre intorno.
Torno a casa con la bocca impastata, la testa che scoppia, e di nuovo
quel vuoto, quel vortice che dilaga impavido nell‟assenza di senso.
Forse dovrei scrivere la parola fine su questa insulsa commedia.
E‟ un mondo di carta quello che mi sono creata, senza spessore,
sempre uguale. Immobile.
Attori prigionieri delle apparenze inseguono le piccole cose di
un‟esistenza che profuma di poco. E pensano che sia l‟unica vita
possibile. Una vita cristallizzata nel vuoto.
~ 303 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Incontri senza parole impoveriscono l‟anima e costruiscono un muro
d‟indifferenza.
Io mi analizzo indago esploro, ma non ci sono. Non ci sono più.
Tutto questo non ha alcun senso.
Mi chiamo Viola ma non profumo come un fiore.
Un giorno sono stata felice.
~ 304 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Cristina Giuntini
Balla, balla, ballerina
“Com'è triste Venezia, soltanto un anno dopo...”La voce di Charles
Aznavour echeggiò da chissà quale apparecchio radio, coprendo i
soffici passi dell'uomo, che camminava con premura, fendendo la
nebbia. I suoi occhi si alzarono appena. No, non era passato un anno,
rifletté, solamente sei mesi. Non avrebbe mai immaginato di
ritrovarsi così presto a percorrere i ponti e le calli di quella città, che
all'epoca aveva giudicato così scontata. Si alzò il bavero per
proteggere il visto dalle sottili goccioline che lo circondavano e
sembravano quasi volerlo soffocare. Si era lasciato alle spalle Piazza
San Marco, ed i pochi, spauriti turisti che avevano il coraggio di
sfidare il freddo umido di fine Novembre. Procedeva con qualche
incertezza: aveva buona memoria, ma non al punto da ricordare la
posizione precisa di una botteguccia vista una volta per caso.
L'avrebbe trovata sempre al suo posto? Magari non esisteva neanche
più: non sarebbe stato niente di incredibile, con i tempi che
correvano...Si fermò di scatto, trattenendo il fiato come davanti ad
un'apparizione. Girando l'ennesimo angolo, aveva quasi sbattuto il
naso nella minuscola vetrina. E proprio lì, al centro esatto, nella
stessa posizione in cui si trovava sei mesi prima, la vide.Sembrava
risplendere di luce propria. Al centro di un cumulo di oggetti gettati
alla rinfusa e ricoperti di polvere, la ballerina svettava lucida,
preziosa nel suo rifulgere di metallo dorato e cristallo Swarowski.
Così l'aveva vista sua moglie. Chiuse gli occhi e la rivide accanto a
sé, con le braccia piene di shoppers, ferma in un'espressione di
estatica ammirazione. “Che splendido carillon!” aveva esclamato.
“Oh, tesoro, quanto mi piacerebbe...” Lui aveva scosso la testa.
“Cara, non esagerare adesso. Hai comprato due abiti firmati, una
borsetta, due paia di scarpe... Non ti sembra abbastanza?” Sua moglie
si era morsa le labbra, aveva abbassato gli occhi come una bambina
alla quale fosse stato appena mosso un rimprovero. “Hai ragione,
caro,” aveva risposto con un filo di voce, “ho davvero troppe
pretese.” Lui aveva sorriso con indulgenza, le aveva circondato le
~ 305 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
spalle con un braccio e l'aveva allontanata dalla vetrina con un
movimento dolce, ma deciso. L'altra mano, affondata nella tasca
della sua giacca, stringeva una scatolina in velluto. Dentro la
scatolina, due splendidi orecchini di diamanti. Li aveva comprati
mentre sua moglie si provava le scarpe, assentandosi con la scusa di
uscire a fumarsi una sigaretta. Era sgattaiolato nella gioielleria a
fianco, e aveva scelto l'articolo più bello di tutto il negozio. Un
regalo degno di una regina, un regalo per la sua Natasha. La sua
amante.Dovette mordersi le labbra al ricordo. Sua moglie che si
scioglieva davanti ad un semplice carillon da poche decine di Euro, e
lui che glielo negava dopo avere comperato un regalo favoloso alla
sua amante. Sentì una staffilata alla gola, una ferita di rimorso e
vergogna che si apriva una volta di più, una macchia sul suo cuore e
sulla sua anima, che si allargava e sfumava i contorni. Guardò
attraverso la vetrina e la vide: la vecchietta era ancora lì, come sei
mesi prima. Stupito, percepì che lo stava osservando con uno
sguardo tagliente ed un sorriso beffardo, ma subito si riscosse:
assurdo, che motivo ne avrebbe avuto? Non sapeva... L'uomo drizzò
la schiena, si ricompose e si diresse verso la porta della botteguccia:
sua moglie avrebbe ricevuto il suo regalo di compleanno. Mancavano
pochi giorni.Il custode si avvicinò con circospezione, cercando di
assumere un'aria il più possibile tranquilla e casuale. Da anni, ormai,
lavorava nel cimitero, e sapeva che fra le tombe si incontrano spesso
individui molto particolari. Alcuni sono solo disperati, resi quasi folli
dalla sproporzione del loro dolore; altri, invece, hanno veri e propri
problemi mentali, e possono perfino diventare pericolosi. Nel caso,
avrebbe dovuto agire con fermezza e decisione, ma senza violenza o
concitazione, per evitare di scatenare una reazione inconsulta.
Ancora un passo, due, e si fermò dietro l'uomo.Era inginocchiato,
ripiegato su sé stesso, davanti alla tomba di una giovane donna.
Stringeva fra le mani un carillon, una ballerina di metallo dorato e
cristallo Swarowski, perfettamente lucida e pulita. Che strano, si
disse il custode, era convinto di averla già vista su quella tomba il
giorno prima, e durante la notte aveva piovuto a dirotto. Eppure era
così perfetta, quasi fosse stata conservata sotto una campana di
vetro.Prima che il custode potesse dire una parola, l'uomo si voltò a
guardarlo. Non c'era sorpresa sul suo viso, solo uno sguardo spento e
vuoto. Parlò.“Era mia sorella”, disse.“Capisco”, rispose il custode.
~ 306 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Che altro avrebbe potuto dire?“Ieri era il suo compleanno.”“Non ha
potuto venire, ieri?”“Non ho voluto venire. Sapevo che ci sarebbe
stato lui.” Il custode ricordava vagamente l'uomo alto, imponente,
che si era soffermato per qualche minuto su quella tomba, il giorno
prima. “Vede?” continuò il suo interlocutore, sollevando il carillon.
“Le ha portato un regalo. Proprio il regalo che lei voleva...” La voce
dell'uomo si spezzò in una risata dapprima sommessa, poi via via più
intensa, fino a diventare isterica ed a risuonare, tagliente, nel silenzio
di quel luogo di pace, spaventando i pochi visitatori. Il custode si
stava già chiedendo come avrebbe dovuto reagire, quando l'uomo
d'un tratto si calmò, guardò tristemente la ballerina nella sua mano e
riprese a parlare.“L'aveva tanto colpita, questa ballerina. Tanto che
me la descrisse minuziosamente, al suo rientro da Venezia. Era così
rammaricata che suo marito non le avesse permesso di comperarla...
Aveva già speso troppo, diceva...” Il suo viso s'indurì, poi si addolcì
di nuovo. Caricò il meccanismo, posò il carillon sul marmo.
“Ascolta, sorella mia”, disse. ”Ascolta questo suono, l'hai tanto
desiderato.”“Balla, balla ballerino, tutta la notte e al mattino...”Pochi
giri, e la musica morì nell'aria. “Aveva tanto insistito per una vacanza
a Venezia. Lui sbuffava, diceva che era un posto scontato, banale.
Ha!” Si morse le labbra. “Scontato, banale, quando non si ama chi si
ha accanto.” Una lacrima gli solcò una guancia. Il custode fece finta
di non vederla, e continuò a tacere. Quell'uomo aveva bisogno di
forzare le parole per farle uscire dalla sua mente e dalle sue labbra,
per liberarsi. Aveva bisogno di tempo e calma.“Era bella, la loro
casa. Aveva solo un difetto: era proprio davanti alla ferrovia. I treni
passavano, passavano. Mia sorella non ci faceva caso, anzi, diceva
che le facevano compagnia. Adorava la sua casa, la teneva sempre
perfetta, non un granello di polvere. E adorava suo marito. Quando
tornava a casa, la sera, erano abbracci, baci, manicaretti sempre
pronti. Era il suo idolo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Si
sarebbe uccisa.” Un tremito lo scosse, si abbracciò le ginocchia e vi
affondò il viso nel mezzo. Rimase così per diversi minuti, con il
custode sempre vigile accanto a lui, che forse voleva accertarsi che
non gli succedesse niente, forse era solo curioso di conoscere la fine
della storia, malgrado la intuisse simile ad altre cento, mille,
diecimila storie. Rialzò la testa. “Non si dovrebbe mai rientrare a
casa senza preavviso. Almeno, lei non avrebbe dovuto farlo. Lo trovò
~ 307 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
nel loro letto, con quella... Chissà cosa le gridò lui, le solite frasi
patetiche, aspetta, posso spiegare, non è come credi. Mia sorella
corse verso la finestra che dava sul retro della casa, la spalancò, salì
sul davanzale. I treni passavano, sa, passavano, dietro alla loro
casa.”Strinse fra le dita la ballerina. “Il carillon... E' venuto a pagare
il suo debito. Ha visto?” Sollevò un bigliettino chiuso in una busta
trasparente. “Alla stella più bella del cielo!” Un'altra risata, ancora
più dura e terribile della prima, si fece strada dentro la sua gola,
invase le sue labbra, i suoi occhi, tutto il suo corpo. “Crede che si sia
allontanato, da quella? Ha! Fra un mese si sposano, sa? E' andata a
vivere nella loro casa, usa il bagno di mia sorella, siede al suo posto a
tavola, dorme nel suo letto accanto a lui! E gira voce che sia una
pessima cuoca, e che spesso, la sera, lo accolga lamentandosi,
sbuffando, spettinata e in vestaglia, e che la casa sia sporca e in
disordine. A lui va bene così. Credono che non lo sappia?” Strinse i
denti. “So tutto. Neppure la decenza di andarsene, hanno avuto.
Neppure la decenza...” Strinse i pugni. “E sono passati solo due
mesi...”Il custode chinò il capo. Sentiva un groppo alla gola ed il
cuore pesante. Rimase a fissare la terra bagnata per qualche minuto,
prima di rialzare lo sguardo. Stupito, si accorse di essere solo.
Nessun uomo disperato era prostrato sulla tomba, il carillon era
scomparso, e con esso il bigliettino. Preso dalla pena e dalla
suggestione, non aveva sentito l'uomo allontanarsi. O forse si era
solo immaginato tutto? Non si fece domande. Lentamente, ma
decisamente, si voltò e s'incamminò per riprendere il lavoro
interrotto. Da qualche giorno si sentiva sollevato. Il bruciore allo
stomaco se n'era completamente andato, e non passava più notti in
bianco a sobbalzare ad ogni treno che passava. Il suo psicologo gli
aveva dato un saggio consiglio. “Sei pieno di rimorso, è naturale,” gli
aveva detto. “Non c'è qualcosa che sia rimasto in sospeso, con tua
moglie? Che so, un progetto, un sogno, un regalo?” Lui gli aveva
raccontato la storia della ballerina. “Perfetto: cerca di rintracciarla ed
offrigliela in dono. Una volta che lei lo avrà “accettato”, sarai libero
dalla tua ossessione! E ricorda di non colpevolizzarti: sono cose che
succedono...” Quanto aveva ragione, il suo psicologo! Si sentiva un
altro, adesso.
Aprì la porta di casa, si tolse il cappotto. “Natasha!” Si avviò verso la
camera da letto, ma d'improvviso si bloccò. Un suono. Quel suono.
~ 308 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Balla, balla ballerino, tutta la notte e al mattino...”
Incredulo, continuò ad avanzare. Natasha era lì, davanti al cassettone.
Ammirava una ballerina di metallo dorato e cristallo Swarowski,
splendida e lucente.
“Amore!” lo chiamò, correndogli incontro per abbracciarlo. “Oh
amore, grazie! Me l'hanno consegnata stamani, è bellissima! Adoro i
tuoi regali, lo sai.” Lo baciò senza neppure rendersi conto che lui era
rimasto inerme, inebetito e muto. “E che parole dolci! “Alla stella più
bella del cielo”! Oh, tesoro!”. Appoggiò il biglietto al piedistallo
della ballerina. “Sta benissimo nel centro del cassettone: diventerà il
simbolo del nostro amore!” Lo baciò nuovamente. Ma adesso
cambiati, lo sai che stasera abbiamo la cena con i Del Conte...”
Fu dopo mezz'ora che Natasha, perfettamente vestita, truccata ed
ingioiellata, se ne accorse. Lui era ancora lì, non si era mosso.
Continuava a fissare la ballerina con occhi vuoti, vitrei, la bocca
spalancata e le braccia abbandonate lungo i fianchi, e nelle orecchie
il fischio dei treni che passavano dietro la loro casa.
~ 309 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Silvia Gonzato
Racconta.
Racconta. acconta. cconta. conta. onta. nta. ta. a. .
Il ripiano era stato pulito, lustrato, lucidato e reso lindo dalla nuova
inserviente. Che boccoli neri! Praticamente solo capelli. Tendeva a
sorridere quando entravo, anzi lo faceva sempre. Cosa?! Chissà se
fosse il mio golfino verde brillante sgualcito a causarle questa
reazione o se lo facesse con tutti. In realtà, in vita mia avevo visto un
solo altro bambino con un golfino simile, ma a me stava meglio!
Mancina?! La tasca di destra teneva il buco degli spiccioli che la
nonna avrebbe voluto chiudere, ma non le permettevo di toccare la
mia roba mia. Mia! L‟avevo trovato ben steso sopra un filo, tutto
solo, ed era mio. Le monetine, le raggruppavo in mucchietti da 3
sugli scalini della cantina, ma se ne avanzavo una o se mancava, me
ne stavo seduto sulla cisterna dell‟acqua ad imprecare contro il
destino, fino a che non scorgevo almeno le prime stelle.
Ossignoriddio! Prega per noi! Ero solito andare a caccia di lumache
vicino ai tombini del signor Santiddio e quando ne portai alcune
all‟inserviente, rimasi quasi amareggiato per il suo sguardo dolce ed
amorevole verso queste viscide creaturine. La mano del diavolo!
Speravo in qualche grido di terrore, ma questa benedetta mi chiedeva
solo il gusto. Odiavo prenderne uno solo, e odiavo scegliere: questo
il mio più grande problema. Non ci credo! Dalle una penna.
Mettiamola alla prova. Non avendo un colore preferito, non potevo
privilegiare uno all‟altro. Altro che una questione di gusti, di creme o
frutta, il vero problema era il colore! E pure la forma. Altrimenti
dovrò prendere la bacchetta. Non è accettabile! Se era troppo sferica,
la pallina, non la accettavo, ma neanche troppo schiacciata o sfatta.
Ripensandoci, vorrei scoprire il vero motivo del suo sorriso. Magari
le piaccio. Io non bado all‟età. Forse neanche lei. Guarda! La
impugna con la sinistra! Santa Maria, proteggila! Era lei la mia
consigliera e lasciavo a lei il privilegio di assaggiare quelle delizie,
ma non l‟ho mai vista molto entusiasta di ciò. Sono un gentiluomo e
queste cose vanno fatte. Quanto grida inutilmente, non capisce che la
~ 310 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
stiamo salvando?! In miniatura ancora, giovane, ma al momento
opportuno la farò felice. La guarderò negli occhi, le accarezzerò il
viso e le bacerò la sua mano prediletta, nascondendo con le mie
labbra tutti quei lividi.
~ 311 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Alessio Goti
Una notte a Vienna
Aprii la porta numero 123. Era una bella camera con un grande letto,
un piccolo tavolo, una sedia, e una porta che probabilmente portava
al bagno. Presi la mia valigia, la portai dentro la camera e chiusi la
porta d‟ingresso.
Andai subito alla finestra e guardai fuori sui bianchi tetti, sulle
bianche strade e vidi i fiocchi di neve che cadevano sempre più
abbondanti. Le poche persone sulla strada camminavano velocemente verso casa dopo un duro giorno di lavoro.
I giornali avevano detto che avrebbe nevicato per tutto il fine
settimana a Vienna.
Lasciai la finestra e ritornai a guardare la mia camera, andai verso la
mia valigia e la appoggiai sul letto, ora non avevo nessuna voglia di
disfarla.
Era ancora molto presto, sul muro sopra il tavolo era appeso un
grosso orologio, diceva che erano le 21:09.
Lo sapevo che ero arrivato troppo presto, ma non ero riuscito ad
aspettare più a lungo al ristorante, così decisi di camminare
velocemente verso l‟albergo, ed ora aspettavo solo lei.
Molto tempo era passato dall‟ultima volta che ci eravamo visti. Tre
mesi fa dovette andare in Spagna per il suo lavoro, e da allora non
l‟ho più vista. Io stavo ancora in Austria, a causa del mio lavoro.
21:28, “Presto sarebbe stata qui” pensai, ed era bellissimo pensare a
lei.
Mi sdraiai sul letto accanto alla valigia, che velocemente misi giù.
Anche se ero molto stanco dopo aver lavorato tutto il giorno, tuttavia
ero anche molto felice, non poteva ancora durare molto a lungo:
erano già le 21:37. Si, era in ritardo, ma ciò era normale per lei.
Anche al nostro primo appuntamento era arrivata troppo tardi, ma
tutto andò bene quel giorno, e oggi c‟era questa tremenda tempesta di
neve, un po‟ di minuti di ritardo non erano un problema.
21:49, era già un po‟ troppo tardi, iniziai a preoccuparmi, ma cercai
immediatamente di tranquillizzarmi. Non dovevo essere nervoso,
~ 312 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
venti minuti di ritardo erano nella norma in un viaggio in treno con
così tanta neve e con il problema gelo per i motori delle locomotive.
Oltre a ciò la stazione non era poi così vicina all‟albergo.
Mi avrebbe raccontato tutto della Spagna, lì era sicuramente più
caldo e non c‟era certamente una tempesta di neve come questa, nella
solare Barcellona.
21:57, il tempo continuava a passare, ma le mie preoccupazioni non
crescevano, e poi ero così stanco. Pensai che sarebbe stato veramente
bello addormentarsi ed essere poi risvegliato da lei. E in fin dei conti
potevo sognarla...
Un piccolo raggio di luce entrò nella stanza, volevo continuare a
dormire, ma poi saltai su. I miei occhi cercavano solo una cosa: lei.
Ma lei non era qui. Poi ebbi paura, e lentamente il mio sguardo si
poso sul tavolo, poi corse su sul muro, ed io vidi l‟orologio.
Erano le otto e dieci minuti, non era venuta. Mi sdraiai di nuovo sul
letto, e non riuscivo a pensare ad altro, tranne che a lei. Perché non
era arrivata? Forse il treno aveva avuto così tanti problemi? No, fuori
aveva smesso di nevicare. Forse aveva avuto un incidente? Si,
probabilmente era successo qualcosa di brutto, avevo molta paura,
così decisi di andare subito alla stazione per sapere che cosa era
successo quella notte.
Ma poi la vidi. C‟era una piccola bianca lettera per terra vicino alla
porta della camera, come se qualcuno l‟avesse spinta dentro da fuori.
Subito aprii la lettera: sulla carta bianca della missiva riconobbi la
sua scrittura. La lessi una volta rapidamente, volevo sapere tutto, poi
lentamente parola per parola, alla fine della lettera c‟era la sua firma.
Non è semplice spiegare come mi sentivo. Nella missiva lei
raccontava com‟era bello in Spagna, il lavoro le piaceva molto. Era
stata solo una prova finora, solo un anno poi sarebbe tornata in
Austria da me, così aveva detto. Ma in questi ultimi mesi a
Barcellona aveva deciso di rimanere. Perché? Per un uomo.
Lei aveva conosciuto un uomo e più volte erano usciti insieme, tra di
loro le cose andavano bene, perciò non aveva alcuna voglia di
ritornare in Austria. Lei non mi amava più.
L‟avrei dovuto capire già prima, diceva lei, se no non sarebbe andata
via, così lontano dall‟Austria, se mi avesse veramente ancora amato.
Mi sedetti un momento sul letto, poi presi la lettera e la rimisi di
nuovo nella sua busta.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Lentamente mi alzai, posai la missiva sul piccolo tavolo, e sapevo
perfettamente cosa andava fatto.
Andai alla finestra e guardai giù. Tutto era meravigliosamente bello
in bianco, ma dal cielo non scendevano più altri fiocchi di neve.
C‟erano solo un paio di impronte sulla strada da vedere, ma degli
uomini nessuna traccia.
Aprii la finestra, e sapevo che tutto era finito.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Cesare Granati
L‟amore e lo sconvolgimento
Ci sono due tipi di persone che scelgono la Morte, chi non vede la
Bellezza nel mondo e chi invece ne vede così tanta che questo
mondo non può contenerLa.
L‟amore
L‟aria della camera sapeva di sangria e di sesso. La testa pesava più
del normale, ma la vista era come al solito splendida. Il corpo nudo
di Alice lo chiamava a sé senza bisogno di parole. La strinse
dolcemente, facendo esplodere il sorriso più bello che si fosse mai
visto, sul tenero viso della sua giovane donna. Mentre Lola saliva
silenziosa sul letto, risalendo lungo i corpi nudi, i due amanti si
svegliavano, baciandosi e sussurandosi parole al gusto di zucchero e
miele. Quando la gatita, giunta fin sui cuscini, iniziò a miagolare,
chiedendo un po‟ di carezze anche per lei, Cesare ridendo se la potrò
sul petto, mentre osservava Alice che si alzava lentamente. Dopo
aver indossato una sotto veste di seta rosa, spalancò la finestra della
camera che fu riempita dalla calda luce di mezzogiorno.
L‟inconfondibile sapore di Barcellona investì la stanza. Gli occhi del
ragazzo si abituavano poco a poco al sole, e i suoi polmoni si
riempivano dell‟aria fresca della città, che non smette mai d‟essere
mossa dal vento. Accarezzando il piccolo felino, Cesare pensava alla
sera prima. Il piacevole baccano della Ramblas e di Plaça Rejal. La
sangria presa insieme a due tequila nel bar Las Bocas, dove avevano
fumato del buon haschis, seduti al tavolo come fossero in Olanda. Il
cielo pieno di stelle sulla spiaggia di Poble Nou, sfondo perfetto per
lo spettacolo del loro amore. Ormai erano a Barça da più di un mese
e stavano insieme da circa un anno, ma ogni bacio in quella magica
città profumava ancora di sogno.
Il ragazzo spostò delicatamente Lola sul materasso. Dopo averle
passato ancora una volta la mano sull‟elettrico corpo, raggiunse
Alice in cucina. La guardò per qualche secondo, poi le sfiorò
dolcemente il collo e lei cercò la sua mano imitando il movimento di
un gatto. Bevvero in silenzio la tazza di caffè, senza mai perdere gli
~ 315 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
occhi dell‟altro. Sempre in silenzio, lei gli si sedette sopra e fecero
l‟amore sulla sedia e poi nella doccia. I corpi, uniti in un‟estasi di
piacere, erano accarezzati dall‟acqua fresca e purificatrice.
Cesare si vestì in fretta e mentre aspettava che anche Alice fosse
pronta, scese in strada a prendere le sigarette. La Marlboro light
bruciava lentamente. Il fumo circondò magicamente la sagoma della
donna, mentre usciva dal portone di casa. Era bellissima. Indossava
un abito leggero che seguiva le dolci curve del suo corpo. Le
sfumature di verde e d‟azzurro lasciavano, di tanto in tanto, spazio a
segni di rosso vermiglio ed i colori sembravano liberi. La giovane
fece due piroette per mostrarsi al suo uomo, in tutta la sua dolce ed
insieme folgorante bellezza. Cesare la afferrò per la vita, e danzò con
lei seguendo le note delle sue risa. Poi le passo il braccio dietro alla
schiena, e le chiese cose avesse voglia di fare. Lei con voce infantile
gli disse semplicemente frutta.
Tra le strette vie formate dai banconi del mercato, i due assaporavano
quei mille sapori e ammiravano come capolavori di Natura i mille
colori della frutta e della verdura. Cesare comprò una vaschetta di
fragole. Le lavarono sotto l‟acqua e le gustarono in Plaça Catalunya.
Lo Sconvolgimento
Il ritmo incalzante della musica elettronica muoveva il corpo del
ragazzo. Le luci psichedeliche erano sparate nei suoi occhi e si
trasformavano in fiumi di vernice che gli colavano dentro. L‟acido,
preso poco prima di entrare nel vecchio magazzino occupato,
iniziava a fare effetto.
L‟LSD circolava nel sangue fino a giungere al cervello. Attivava
migliaia di recettori sensoriali, che aprivano una dimensione terribile
e fantastica nel suo essere diversa dalla così detta realtà. Mentre
tentava di non sporcarsi troppo con quella vernice, i suoi muscoli
erano agitati dalle anfetamine. Tutto il suo universo era musica,
movimento e colore. All‟improvviso fu sputato da tutto questo e fatto
cadere nel mondo degli umani. Era un suo amico che gli urlava forte
nell‟orecchio parole che non sembravano avere un senso, ma lui
decise di seguirlo, anche per la paura di restare da solo in quel luogo
mostruoso. Facendosi strada tra la folla sembrava di essere giunti in
un girone dell‟inferno. Volti di dannati, che avevano perso le loro
fisionomie umane, erano ovunque. Suoni spaventosi, quasi ipnotici,
erano i loro guardiani. Finalmente usciti, furono investiti dal freddo e
~ 316 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
lui si accorse di non avere la maglietta. Il corpo lo pregava di
coprirsi, ma il freddo era solo un eco del mondo degli umani, che
ancora una volta era riuscito a scacciare. La poca vegetazione che
c‟era intorno al magazzino era diventata un bosco favoloso, nel quale
abitavano creature veloci e luminose, che comparivano nei suoi occhi
pochi istanti, per poi scomparire nuovamente nel nulla. La sua
attenzione fu colpita da una forma mostruosa che lo chiamava a lei
senza parlare, ma muovendo le sue mille braccia. Fu però
bruscamente allontanato da quel suo nuovo dio e si ritrovò in
macchina. Ecco il mondo degli umani. I ragazzi fecero girare un cd e
lui tirò senza neanche pensare la polvere bianca, fortunatamente
caramellata, che gli avevano passato. Il tempo di rialzare lo sguardo e
le visioni di poco prima sembravano semplici luci, persone ed alberi.
Il sole iniziava a farsi vedere. La testa non era pronta a dormire e,
nonostante i fumi nei quali era immersa, si ostinava a restare sveglia.
Il viaggio in macchina fu più rapido e fastidioso di un flash. Giunto
nel parco si distese sull‟erba ancora fresca. Fissando il blu macchiato
del cielo, iniziò a sentirsi sempre più leggero, fino a che,
improvvisamente, il sonno scese su di lui come la più dolce delle
grazie.
~ 317 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Maria Grandinetti
Scrittrice anomala
Il mio nome è Elisa. Elisa Gi.
Nasco femmina, almeno credo, e continuo ad esserlo, con alti e bassi.
Ma degli uomini conservo una blanda invidia; quella che un ormai
dimenticato Freud non esiterebbe a definire “invidia del pene”. Il
loro cervello infatti non mi interessa, che raramente riesco ad
attivarlo anche io e non ho neppure invidia da prestazione perché
come tutte le donne, volendo, mi presto molto meglio di un uomo;
ma vorrei sperimentare il gusto delle "gare di minzione", così diffuse
nello strano universo maschile.
Mi è capitato, del tutto casualmente, di assistervi non vista, perché
lavoro di notte e il mio lavoro è atipico nei tempi e nei luoghi, ma
pur sempre a diffusione progressivamente maggiore.
La caparbia determinazione al mantenimento del mio nomadismo, mi
ha portato ad una variabile solitudine e alla sperimentazione della
vita di artista di strada. Ho provato l‟equilibrismo e nonostante i
primi apprezzabili risultati, ho rimediato in due anni contusioni di
ogni genere e la frattura composta del metatarso destro in una
occasione, e in un‟altra - nella quale mi ero distratta a causa di due
occhi dal colore indistinto ma dal desiderio ben distinto - una
commozione cerebrale che mi ha lasciato esanime per una ventina di
minuti. Nessuno strascico; solo la decisione di dedicarmi a un lavoro
diverso. Così ho provato i trampoli, ma l‟altitudine mi provocava la
nausea. Con la giocoleria ho rotto gli occhiali ad un cieco e per
miracolo sono riuscita a sfuggire alle sue grinfie. Mi aveva quasi
afferrata, ma togliendo le scarpe e non respirando per un buon
minuto, sono riuscita ad eclissarmi! Col fuoco ho carbonizzato il
parrucchino di un passante che indossava uno splendido “panama”:
incredibilmente in cappello si era solo vagamente annerito, mentre i
capelli sintetici avevano preso fuoco in un istante. Per non dire delle
lame: mentre il mio assistente mi introduceva allo sparuto pubblico
di una splendida località turistica, inciampavo nel lunghissimo
vestito che mi ricopriva appena, lanciando del tutto
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~ Le storie di Io Racconto ~
involontariamente un coltello addosso ad un‟elegante anziana signora
che indossava un “caffetano” azzurro intenso bordato d‟oro,
inchiodandola ad un meraviglioso portone d‟ebano in stile
neoclassico; avevo congelato un istante fotografico di indubbia
bellezza e anche la signora ne aveva tratto giovamento apparendo
d‟un tratto ringiovanita. Ma alla fine mi aveva denunciata per tentato
omicidio. Mi restava l‟acqua. E in quello ero e rimango veramente un
portento. Ma quando ho proposto ai miei compagni di lavoro di
trasportare una trasparente piscina semovente larga 2 metri per 2 e
profonda 30, mi hanno abbandonata.
Così ho deciso di scrivere, ma non libri. A volte i libri possono essere
ripugnanti, come chi li scrive. Ci vuole molto coraggio o tanta
vigliaccheria per scriverne uno, ed io che non sono mai stata
coraggiosa abbastanza da essere vigliacca fino in fondo, ho pensato
di scrivere ovunque, purché non fosse su carta. Lo confesso, a volte
ho ceduto alla tentazione insozzando qualche menù , ma non posso
permettermi ristoranti o affini, così ho peccato poco in questo senso;
più spesso ho lasciato qui e là pensieri sparsi tra carte igieniche e
kleenex che, ad onor del vero, pochi avranno avuto il coraggio di
leggere e lascio a ciascuno intuire il perché. A parte queste eccezioni,
i muri sono le pagine dei miei libri. E non scrivo perché voglio essere
potente o famosa. Il fatto è che siamo in troppi nel mio cervello,
perciò ho bisogno che qualcuno esca di tanto in tanto, per non fare
più ritorno. Scrivo dove capita, armata di ogni attrezzo atto al‟uopo,
dal pennarello alla bomboletta in colori di ogni sfumatura, e mi
applico con perizia in una bella e attraente scrittura , stampatello per
lo più, che sia comprensibile anche ai bambini, ai quali spesso dedico
fiabe, quasi mai a lieto fine. Consegno prevalentemente ai muri meno
nobili lo scritto e gli argomenti più raffinati, così chi volesse leggere
il meglio del mio operato letterario, dovrà varcare la soglia di bagni
di stazioni e autogrill, devastati dal puzzo di urina e a volte da
escrementi e carta che intasando il water impregnano l‟aria
rendendola quasi irrespirabile.
Mia somma soddisfazione è attraversare e segnare l‟animo dei miei
occasionali lettori. A questo scopo mi acquatto non vista, per
scoprire le loro reazioni; così mi è capitato, fuori dai bagni di grandi
snodi autostradali di osservare: camionisti piangere come vitelli e
donne incinte sentirsi male a causa delle loro fragorose risate;
~ 319 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
anziane signore fare l‟amore sui marciapiedi col primo passante;
giovani donne abbandonare il loro compagno nel piazzale
dell‟autogrill e fuggire via con la macchina di lui, verso l‟ignoto; e
bambini che uscivano dal bagno dopo un‟ora, felici perché i loro
incubi notturni erano nulla al confronto di ciò che avevano letto.
Per il resto vivo di elemosina. Vado in giro fingendomi cieca, sorda
e muta, ma non sempre. Ed oggi che ho scoperto questo muro
virtuale, più pulito e meno putrescente che un bagno, forse lo userò,
perché qualche signore o signora che abita fraudolentemente nel mio
pensiero si perda in questo universo e mi restituisca un po‟ di pace.
Dopo anni di onorata carriera a qualcuno interesserà sapere quale io
consideri essere l‟opera di maggior valore delle mia modesta
produzione; ebbene: è una poesia. 15 versi color sangue scritti per un
uomo che non ho amato, perché quell‟amore era così totale, violento
e abissale da rimanere annientato al contatto col mondo. 15 versi
composti in un eccesso di follia - come se peraltro fossi sana difficili da decifrare; così dolenti da sciogliere il cuore all'umano più
indifferente. 15 miseri versi nel bagno degli uomini, seconda porta a
sinistra in alto sul cesso, stazione di servizio “Riviera est” , A12
Genova – Livorno.
~ 320 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Daniela Granieri
Just an illusion
L'uomo chiuse lo sportello della macchina.
Rossa, sportiva e lucida di pioggia.
Si mise alla guida e, stando ben attento a non sgualcire lo smoking
preso a noleggio, controllò che il gonfiore sotto il bavero della giacca
fosse sempre lì. Ingranò la prima e la macchina schizzò via nella
notte. I tergicristalli si muovevano avanti e indietro, monotoni e
ripetitivi.
“ La mia vita non sarà mai più come loro, da oggi non può succedere
niente di brutto”.
Squillò il cellulare
“Tesoro ciao! Come è andata?”
“Una meraviglia! Tra mezz'ora sono da te!”
L‟uomo riattaccò il telefono e ripensò a quello che era successo
tempo prima.
Marco Bardi, anni 32, professione illusionista mancato e quindi
operaio part-time.
Sabato pomeriggio, uno dei tanti, tempo uggioso.Un caffé al bar.
“Lucia? Marco?”
“Sei tu? Si sono io. Come stai? Lavoro? Sposato? No, e tu? Ceniamo
insieme? Vecchi tempi… Se ti va c'è una mostra? Monet, Manet,
Caravaggio? Andiamo”.
“Fai davvero l'illusionista?”
“Si, ti sembra tanto strano?”
“Un po', e come te la cavi con i conigli bianchi?”
“Me la cavo”.
“Guarda quel quadro”.
“Caravaggio: I bari”.
“Bello vero?”
“Splendido, lui si che è un maestro”.
“Magari sei un maestro anche tu”.
“Si, ad assemblare componenti elettrici”.
“Stupido! Intendevo con le carte, come nel quadro”.
~ 321 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“So a malapena giocare a briscola!”
“Peccato”.
“Cosa?”
“Non usare le qualità che hai”.
“Qualità?”
“Lascia perdere!”
Intanto continua a dirmi che potrei… ma non è corretto! Però
comincio a pensarci sul serio.
Una mano a poker, giusto per pagare l'affitto, e qualche sfizio. Si,
solo un giro e poi basta.
Per una volta che sarà mai?
In fondo i giocatori sono quasi tutti ricconi annoiati, non si
dispiaceranno per qualche euro in meno.
E da cosa nasce cosa. Non ci faccio nemmeno tanto caso quando
Lucia mi butta lì: “Se ti va venerdì prossimo fanno un giro a casa di
un amico, gente coi soldi veri sai, mica morti di fame (come te, tra
parentesi), potresti noleggiare uno smoking (sì, te l'ho detto: gente
coi soldi veri) io ti faccio avere l'invito, tu vai, vinci e ce ne andiamo
una settimana al mare alla faccia loro.”
In effetti, una settimana con Lucia mi alletta (magari in vacanza
potrebbe concedermi qualcosa di più dei soliti bacetti e consigli), e
mi alletta anche l'idea di mettermi alla prova. Chissà se sono bravo
davvero? Affitto lo smoking, la sportiva rossa, passo dal barbiere.
Profumo come una donna, ma faccio la mia figura.
Presento il mio invito al maggiordomo (sì, proprio un maggiordomo)
che mi accompagna deferente al tavolo da gioco. Carte, fiches, fumo
di sigarette e cognac di ottima marca. I miei compagni di gioco sono
dei pivelli pieni di boria. Comincio a divertirmi sul serio.
E' come sparare sulla croce rossa.
Non riesco a fermarmi: le carte hanno vita propria e a fine serata mi
ritrovo con qualche migliaio di euro in tasca.
Ubriaco e inebriato.
Ho paura che sarà difficile smettere.
“Tesoro sono qui!”
“Ciao! Allora?”
“Guarda qua!”
Le porgo la busta piena di soldi, e lei se la prende tutta soddisfatta.
“Bravo Marco, davvero bravo”.
~ 322 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Grazie”.
Allungo la mano per riprendere il mio avere, ma la signora mi evita
con grande maestria.
“Tesoro,la busta”.
“La busta è mia!”
“Stai scherzando vero?”
Invece non scherza nemmeno un po', e scherza meno ancora
l'energumeno che è improvvisamente spuntato alle sue spalle.
Credo di avere la faccia da idiota (in effetti mi sento così).
“Quindi era tutto studiato?”
“Tutto no, quasi”.
“E io che dovrei fare adesso?”
“Andartene, oppure…”
E indica quel coso grande e grosso che sorride (sorride!) alla faccia
dei cretini come me. Me ne vado come un imbecille detestando la
sportiva rossa, la pioggia che cade incessante, e i tergicristalli che
assomigliano tanto alla mia vita. Stupido, come quello delle favole
che andò per fregare e rimase fregato. Però, ora che ci penso, Lucia
mi ha fatto un favore. Lo so che non è corretto, ma una mano ogni
tanto, così per pagare l'affitto, la vacanza.
In fondo i giocatori sono quasi tutti ricchi sfondati.
~ 323 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Donatella Grasso
Tutte le volte che piove
Non gli aveva chiesto di essere accompagnato e Alberto non aveva
insistito. La decisione di rimanere a casa, sprofondato dentro un
silenzioso pomeriggio di riposo, fu casuale, come tutto ciò che
muove le fisiologiche decisioni di ogni giorno che si sottraggono
all‟azione ragionata del pensiero. La casa si spopolò piombando nel
silenzio. Dalla tenda della grande vetrata, leggermente scostata,
entrava una luce che già cedeva il passo all‟oscurità precoce del
pomeriggio autunnale. Da lì, Alberto, aveva osservato la danza
malinconica delle foglie accartocciate, sollevate, dall‟asfalto del
marciapiedi, dagli echi di una pioggia che cadeva da qualche parte,
minacciando di giungere presto anche lì. Alzò lo sguardo. Sopra la
città, il tramonto non esisteva. Il cielo non aveva mutato colore nella
sua metamorfosi quotidiana, spennellando la sua grande tela solo con
monotone sfumature di grigio, interrotte da qualche accenno di
colore non oltre la vivacità del ceruleo.
Il buio arrivò presto, allorché il cielo si rivestì di nubi gonfie di
pioggia. Le prime gocce caddero come sassi lanciati, il resto esplose
di colpo colpendo ogni cosa in tutte le direzioni. Una musica
disarticolata si sprigionava dalla vetrata, percorsa, come i tasti di un
diapason, da martelletti nelle mani di un bambino e il silenzio svanì.
Ne venne giù tanta da riempire le strade, da inzuppare le foglie
morte, da tirare giù dai rami quelle che resistevano aggrappate ancora
agli ultimi istanti di vita. Tutto sembrò perdere equilibrio e cadere
rovinosamente giù. Alberto lasciò cadere il giornale sulle ginocchia.
Quando lo squillo del telefono ruppe il suono della pioggia, un tonfo
al cuore, inspiegabile e irrazionale, accompagnò il gesto di alzare la
cornetta.
Si ritrovò giù per la strada correndo all‟impazzata tra le automobili
intrappolate in un gorgo. Corse fin quando qualcuno lo caricò sulla
propria automobile, portandolo sul posto. Gli sprazzi intermittenti di
luce dell‟ambulanza guidavano i suoi occhi sbarrati. Una carrellata
fugace sulla ferraglia rossa del motorino, sullo zaino aperto ai bordi
~ 324 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
del marciapiedi e poi un primo piano sul movimento rapido attorno a
un punto fermo. Si fece spazio e il suo sguardo incontrò l‟immagine
scomposta e immobile del figlio sull‟asfalto. Guardò le ferite, linee
geometriche disegnate dal tratto nitido di una matita appuntita, senza
sbavature di colore rosso, accuratamente lavato dall‟acqua che
cadeva perpendicolare sul volto. Un grido strozzato gli salì in gola e
di getto si inginocchiò davanti al corpo. Una corsa in ospedale. E
ancora, una corsa nel corridoio lungo e bianco di luce di neon.
Dunque, un‟attesa lancinante davanti a una porta serrata, come il
silenzio suo e della moglie. E poi, ore intere dietro l‟impenetrabile
vetrata ad osservare un corpo intrappolato in un sonno simile alla
morte. Sospeso, come le loro vite. Bianco intorno, dall‟intonaco delle
pareti alla pelle del figlio, cerea, quasi fosse stata scolorita dalla
quantità d‟acqua che gli era caduta addosso. Da più parti del corpo, si
dipanavano fili, come rami divelti dalla pioggia. Nessun colore nella
stanza, come il cielo di quella giornata. E il silenzio faceva a pugni
col rumore che penetrava dall‟esterno. Dentro, solo il tempo e la
pioggia parlavano di vita. Quel tempo che si lasciava scorrere sulle
lancette dell‟orologio alle pareti e quella pioggia che, inconsapevole
del male fatto, continuava a scendere giù, trasformando la furia che
l‟aveva mossa in un ritmo, monocorde e costante, come a voler
cullare quel corpo addormentato.
Da allora, la pioggia lo scuote profondamente. Tutte le volte che
cade. Gli sembra di udire il tonfo del motorino a terra, all‟interno del
suo pomeriggio di riposo. La pioggia continua a cadere e non si cura
del dolore. E‟ la stessa e bagna lo stesso asfalto su cui Enrico rimase
troppo tempo prima che i soccorsi giungessero. Se avesse smesso, se
non fosse stata così ostinata, maledetta pioggia, o ancora meglio, se
non fosse mai caduta quel maledetto 11 novembre. E se l‟idea,
apparentemente così innocente, di fermarsi un pomeriggio,
sprofondato su una poltrona, non si fosse insinuata nella mente di
Alberto, adesso non ci sarebbe tanto dolore. Ora che, su quella
ferrosa sedia, non si era fermata solo la vita di quel figlio. Questa
volta non per un solo, tranquillo e stramaledetto pomeriggio
autunnale.
~ 325 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Anna Grifoni
Sia radici sia ali
Splendida giornata caldissima in un Agosto qualunque per molti e
speciale per qualcuno. Tante persone sorridono dentro un parco
divertimenti, e ci siamo anche noi: noi che c‟eravamo anche dieci
anni fa. Il parco è cambiato negli anni in modo lento, quasi
impercettibile, ma a guardarlo bene si vede che è diverso: non
migliore o peggiore, semplicemente diverso. Proprio come noi. Non
ci sono già più le montagne russe inaugurate nel 2000 (si, proprio
quelle che davano il benvenuto al nuovo millennio!), e al posto della
pizza ci si ritrova a mangiare Kebab e noi, più mature e più sicure,
ci divertiamo sempre come prima. Poi c‟è Claudia, che ha un velo
bianco in testa: Claudia sta facendo l'addio al nubilato! Claudia si
sposa! Abbiamo fatto tanti passi dentro il parco, scattato tante foto e
ascoltate tante frasi d‟auguri, sempre velate dall‟invito a ripensarci.
Ma nel 2010 c‟è ancora qualcuno che crede nel matrimonio! Questo
va vissuto come il punto di partenza per dimostrare che Claudia ha
ragione perché, si sa, “Scalda più l'amor che mille fuochi”, e se dieci
anni fa volavamo con le ali dei nostri vent‟anni mentre ora stiamo
mettendo radici, sappiamo che si possono avere sia radici che ali,
insieme!
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~ Le storie di Io Racconto ~
Valentina Grigato
Pietra di Luna
Quella notte Elena sentì l‟irrefrenabile bisogno di uscire di casa, non
lo aveva mai fatto prima, ma quella notte scappò dalla finestra.
Aveva bisogno di riflettere, di pensare a quello che sarebbe stato il
suo futuro.
Una volta lo vedeva chiaramente tracciato davanti a se, come se già
lo avesse vissuto, ma ora tutto si era cancellato come le onde del
mare cancellavano le impronte che stava lasciando sulla soffice
sabbia dietro di se.
La luna si rifletteva sulle increspature dell'acqua e la dolce voce del
vento accompagnava il loro infrangersi regolare.
Dei passi alle sue spalle la fecero trasalire.
Appartenevano ad un giovane che si stava dirigendo verso di lei. Non
ne fu spaventata e subito si ritrovò nuovamente a guardare le onde
increspare il riflesso della luna.
“Pensavo di essere il solo ad uscire la notte!» disse il ragazzo poi
aggiunse: «Posso farti compagnia!”
“Certo..”
“Che cosa ci fai qui da sola a quest'ora della notte.. non che siano
affari miei”
“Avevo bisogno di pensare..” disse piano e poi aggiunse “anche tu
sei qui da solo!”
“Per la verità nessuno dei due è più da solo ora!” Disse il ragazzo e
sorrise.
“Perché non mi racconti casa ti preoccupa.. magari posso aiutarti..”
accennò lui
«Sono solo preoccupata per il mio futuro: non ho ancora deciso quale
sarà!” Rispose sorridendo tristemente.
“Non è un problema da poco!”
“No, infatti..”
“Che cosa vorresti fare?”
Elena ci pensò poi disse: ”Quello che vorrei fare.. principalmente
vorrei fare la pittrice..”
~ 327 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
“Trovo che sia un lavoro meraviglioso!”
“Peccato che non assicuri di che vivere!”
Rimasero entrambi pensierosi finché lei disse: “Che cos‟è invece
quello che ha spinto te ad uscire nel cuore della notte?”
Il ragazzo non rispose subito, come per decidere se rivelare il suo
segreto o meno, alla fine disse: “La mia famiglia vuole che mi sposi..
ma la ragazza che hanno scelto per me, diciamo solo che non è il mio
tipo!”
“Ma è orribile! Non credevo che esistessero ancora queste cose..”
“Per questo questa notte sono uscito di nascosto, avevo progettato di
scappare.. ma poi ho visto te e mi hai incuriosito..”
“Cosa credi che farai?” Chiese Elena.
“L‟unico modo è che.. non so.. domani deciderò.. per ora lasciami
godere di questa luna nuova!”
“D‟accordo..”
Improvvisamente un bagliore argentato attrasse la loro attenzione.
Era una piccola pietra colore della luna e della luna rifletteva i suoi
colori.
Elena la raccolse.
Il ragazzo la prese dalle sue mani e disse: “guarda.. è una Pietra di
Luna..
Sai secondo una leggenda le Pietre di Luna compaiono solo cinque
volte l‟anno sulle rive del mare e solo nelle notti di luna nuova, la
fortunata ragazza che ne raccoglierà una riuscirà a sposare un re”.
“E tu ci credi?” Chiese Elena
“Certo! Vuole dire che sarai destinata a sposare un re! Secondo me è
più probabile che sia un principe per il momento, magari diventerà re
più tardi!”
Elena si mise a ridere e disse: “mi stai prendendo in giro!”
Poi guardando la pietra che si rigirava tra le mani disse sottovoce:
“sarebbe un sogno..”
Non credeva che il ragazzo avesse potuto sentirla e invece non si
perse una parola.
“Ora devo andare!” Disse lui colto improvvisamente da
un‟ispirazione.
~ 328 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Quella mattina fu svegliata dalla madre che senza una spiegazione le
fece indossare un bellissimo abito bianco di pizzo e raso, con una
meravigliosa rosa bianca di seta in vita.
“Ma questo è un abito da sposa!”
Sempre di corsa la fecero salire su di una macchina che sfrecciò via e
nel giro di poco arrivarono in un paese che lei non aveva mai
visitato, la macchina si fermò sul sagrato di una magnifica chiesa e
attorno a lei si materializzò una folla festante.
Non appena Elena scese dalla macchina un ragazzo le si avvicinò.
Era il medesimo della notte precedente che facendo un inchino le
disse: “non mi sono presentato.. sono Andrea principe di Licare.
Elena vuoi sposarmi?”
La ragazza rimase allibita e tremando disse “Si” al primo ragazzo che
l‟avesse mai fatta innamorare.
~ 329 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Maria Giannetta Grizi
Vita in gabbia
Simona voleva tornare a Rosora. Un paese incantevole della
Vallesina, con il profumo di pane fresco che usciva dal forno, ai
piedi della costarella,il ronzio delle api sui carri colmi d‟uva davanti
alla cantina. A Rosora aveva conosciuto Clara, una ragazza ,molto
spontanea, che sorrideva prima con gli occhi.. Anche Clara era
diventata cittadina dopo i venticinque anni, dopo aver preso marito.
Di origine contadina, i suoi uscivano in paese per la spesa, la messa,
la benedizione, nelle feste comandate, senza mai mettere piede in un
bar. Tanti i sacrifici, fino a togliersi il pane dalla bocca, per
acquistare il terreno e la casa colonica in contrada Pratelli.
Suo padre, il braccio, suo zio, la mente; con quella cultura di tanta
volontà e di scuole serali per ottenere la quinta elementare.
La zia di Clara, donna dedita al culto, con l‟inutile speranza d‟avere
un figlio prete; sottomessa al marito per il lavoro dei campi, duro e
faticoso, sotto il sole cocente di luglio, a radunare il fieno, forcone in
mano, fazzoletto scuro in testa, legato sotto il mento. Con la schiena
curva…mentre le ragazzine facevano chiasso nei giochi sull‟aia.
Simona stava preparando la valigia, quando squillò il cellulare. Era
Clara. Tra i singhiozzi la pregava di non partire per Rosora. Sua
madre l‟aveva lasciata, a soli 58 anni, nell‟ospedale psichiatrico di
Ancona. Povera donna! Proprio lei che non vedeva l‟ora di diventare
grande!...Clara le aveva raccontato di quando aveva persino sottratto
la veletta alla sorella maggiore per apparire giovane e bella in chiesa,
alla benedizione.
Poi era stata più volte vittima della depressione nelle ripetute
chiusure dentro la camicia di forza, stordita da elettroshock.
Il padre di Clara,viso sporco di verderame, i calzoni logori, mal
arrocciolati sotto il ginocchio, una gamba coperta e l‟altra no,
scalzo,un pasto fatto di fave secche da sgranocchiare; impegnato per
i campi fino a notte, per pagarsi quel debito fatto dal nonno sul
terreno. L‟anziano, d‟altronde, non trovava pace per la sua inutile
presenza nei campi…Soggetto a quella forma di depressione senile,
~ 330 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
il giorno di Pentecoste, aveva affogato la sua vita con una pietra al
collo nella fonte fra il canneto….sembrava non volersi separare dalle
sue radici e non volesse morire di vecchiaia su un letto d‟ospedale.
Molto prima la madre di Clara, dopo essersi lavata in quella fonte, si
era ammalata e ci aveva rimesso la gestazione del suo secondogenito.
Simona lo aveva scoperto da una lettera dimenticata fra le
fotografie. Era d‟un sacerdote che assolveva la madre dal peccato
dell‟aborto, assieme all‟anziana genitrice. La vita semplice dei campi
si faceva allora avara, mentre s‟aprivano le corsie d‟ospedale per
l‟aborto terapeutico. Quella volta Clara aveva circa quattro anni
mentre rigirava fra le mani una boccettina con qualcosa sotto spirito.
Così le aveva sempre raccontato durante i giochi sotto l‟albero, con
un misto di curiosità e paura, tipico dei bambini.
La lettera! Ecco la lettera, Come dirlo a Clara? Quella lettera faceva
luce sulla storia della madre! Come riaprire un dolore tanto grande
proprio ora? Ricordava quando Clara le raccontava:…le mani scarne,
il pallore di sua madre a casa della nonna…E subito voleva tornare
a casa per la paura!
Dopo la zia, quella era la mamma della domenica. Nel tempo Clara
s‟era abituata ad incontrarla. Saliva per le scale ripide e il corrimano
unto, entrava fra il tintinnare dei piatti per il pranzo, il fumo spietato
del camino e l‟odore casereccio della pastasciutta con l‟anatra. Le
piaceva misurare l‟altezza con le sue cugine e segnarla sul muro del
camino, fare i giochi di bambine, sarte con i ritagli di stoffa in
soffitta, d‟estate le corse per i campi a raccogliere le ciliegie e le
scorpacciate!
Poi la gioventù, rapace, come un‟aquila. aveva allontanato l‟unica
figlia dalla donna, per maritarla in città. Intanto ella tornava a
chiudersi nella solita camicia di forza! Ed ora la notizia della sua
scomparsa! Era da diversi anni che Simona non si recava al paese.
L‟ultima volta ricordava d‟essersi divertita a ballare con Clara e gli
amici, alla Pianella fino all‟alba. Un brivido la percorse, ricordando
la bugia di Clara per sfuggire al controllo di sua madre che non
voleva mai mandarla a ballare!
Ed ora non poteva più controllare!
“La gente di campagna è abituata a veder nascere vitelli,al fiorire
delle viti, alla vendemmia, al vino e al ricavato. Ma il nonno viveva
di stenti per possedere la terra…Non poteva pagare, la retta per
~ 331 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
quella nuora malata, ne', tantomeno tenerla in casa!"
Clara si fece una doccia, stracciò la lettera e partì direzione Ancona.
Scelse proprio l‟agriturist della cugina di Clara per passare le sue
ferie:” Le Colline”,dove era nata la mamma di Clara.
Nelle sue passeggiate di primo mattino, Simona s‟inoltrava fra il
canneto vicino alla fonte. Lanciava sassi per non veder riemergere il
volto del vecchio. Finchè fra le canne udì l‟eco delle cesoie e del
trillare d‟uccelli. Presto sarebbe fiorita la vigna. Di corsa fra il fosso
e la fonte, pezzi di carta al vento, fuori da muri, senza odor di
anestesia! Un sms: “Clara, sono a Rosora!”
~ 332 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Maura Guarino
Ricetta di Famiglia
Appena arrivai, poco m‟importava che ci fosse un traffico tremendo,
il mio naso sa ben distinguere e scartare ciò che non gli piace….così
tirai giù i finestrini della mia macchina (quelli a “manovella”
naturalmente…ho a mala pena i soldi per fare benzina, figuriamoci
se posso avere quelli elettrici) e con un gran respiro incamerai tutta
l‟aria che potevo, un respiro intenso ma lento, in modo tale da
percepire il profumo che ha il calore del sole, quando sapientemente
si combina con la brezza marina…..è così, che ritorno bambina…
Parcheggio, e appena arrivo al portone mi “attacco” al citofono, certo
che ho le chiavi, ma è una mia tradizione annunciare così il mio
arrivo e le tradizioni si sa, vanno rispettate. Oggi nel portone di Casa
Mia, fino al primo piano si sente odore di peperoni fritti, i friggitelli,
quelli verdi e saporitissimi (..mmmmmm…ho una fame..); al
secondo piano invece c‟è odore di sugo di carne fatto con salsicce e
costarelle di maiale……, è Casa Mia; già lo sapevo …ziti al sugo,
uno tra i miei piatti preferiti, ricoperto da uno strato di parmigiano e
sopra, tanto perché ancora non è abbastanza condito, uno “
sgomarello ” di sugo. Ho imparato da troppo poco tempo a guardare
con gli occhi di un ladro, osservando ogni dettaglio e ad imprimerlo
nella mia mente, come se fosse l‟unica occasione che ho. Odori;
colori; oggetti; disposizione; luce; suoni; ma soprattutto Parole.
Emozioni. Espressioni. Volti. Rubo tutto, diventa tutto MIO, perché
sono la “ Custode delle Tradizioni ”.
La parola “Tradizioni”, che significato ha per voi? Per me è
sinonimo di cultura, ingloba tutto ciò che viene fatto con saggezza e
amore, e la cultura, il mio Sapere, è Ciò CHE SONO. Nel mio
concetto di Tradizione, non c‟è solo il Natale, Pasqua (o aggiungete
voi qualsiasi altra ricorrenza venga ricordata); ma anche modi di dire
o di fare che riportano alla mente qualcosa di caro e che non dovrà
essere dimenticato.
~ 333 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Un‟altra domanda, se mi permettete: oltre alle proprie esperienze, da
chi avete appreso le prime gocce di Sapere?...Pensateci pure…Poi vi
dirò perché.
Io devo buona parte di ciò che sono, alla mia Famiglia. Con
Famiglia, intendo un intero albero genealogico, comprensivo di rami
secchi e germogli, per cui riassumendo, Io sono la “ Custode delle
Tradizioni ”, frutto delle gesta della Mia Famiglia. IO SONO, LA
FAMIGLIA. So bene che grammaticalmente è scorretto dire che un
solo individuo è ciò che, in italiano, sta ad indicare un insieme con
più componenti…ma vorrei rendere il più possibile figurata l‟idea
che ho in testa. Ho trent‟anni, ho dei progetti ancora da attuare e altri
che sono già in viaggio….ho un uomo, e anche se nella mia mente
continuo a dirmi “ ..non sarà l‟uomo della mia vita.. ”, in realtà la
nostra relazione è tutta improntata come se mancasse solo il
matrimonio a far da suggello. Questo perché alla mia testa piace
sentirsi libera, così le faccio raccontare tutte le bugie che le servono
per stare serena. In pratica, ho tutto ciò che serve e non sento la
mancanza di qualcosa di incisivo….però, perché c‟è sempre un però,
ho una gran paura di non essere in grado di tramandare le tradizioni,
di continuare un nuovo albero genealogico allargato… assicurando
che la mia futura famiglia sia bella intrecciata e ricca in contenuti,
quanto quella che ho ora.
Come si fa a tramandare? Come posso garantire a me stessa che avrò
dei figli che la mattina di Pasqua mi faranno trovare la tavola
magicamente apparecchiata a tema, fingendo di non essere stati loro
bensì i Folletti ( un giorno all‟anno abito in quel famoso
Mulino)..Come potrò assicurare a me stessa che il cerchio non venga
rotto?...Io chiamo Zio, Cugini, parenti di secondo o
terzo
grado…persone con le quali non mi vedo spesso, né sento in altro
modo, ma grazie alle nostre radici così profonde, ci dissetiamo con la
stessa acqua. Anche se a volte qualche ramo sembra non appartenere
allo stesso albero… osservando bene l‟estensione di quel braccio, si
arriva alla base di quelle stesse radici.
Non fraintendete, la mia casa non si trova immersa in un campo di
grano con il mulino che accompagna l‟acqua…dove ci si aspetta per
fare colazione…assolutamente no. Non è il mio genere, né punto a
questo….anzi, ciò che ha cementificato tutto, sono state proprio le
lotte interne, dettate da una famiglia di stampo Patriarcale,
~ 334 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
complessa; però c‟è un ingrediente che ha permesso a questa
splendida ricetta di non impazzire come fa la maionese.
Quest‟ingrediente mi manca, perché non si tratta d‟amore. L‟amore è
un ingrediente a se, funge da farina o da uovo (fate voi!).
Ritornando al mio piatto di ziti al sugo, ora che sapete cosa mi
affligge, posso dirvi che sono a Casa Mia, proprio per scoprire questo
ingrediente segreto.
A Casa Mia, non vivono i miei genitori. A Casa Mia vivono i miei
Nonni. Non dico “mia” perché è realmente di mia proprietà, né dei
miei genitori, è Mia perché ci sono Nata; Cresciuta e Pasciuta!
Anche se fosse stata di “Chissà Chi”, sarebbe sempre e comunque
stata Casa Mia. Ricordate la domanda che vi ho posto prima? Vi
chiesi di pensarci bene, ora vi dirò la mia risposta e da soli arriverete
al perché vi ho detto di farlo.
Ho appreso le prime gocce di Sapere proprio dai miei nonni, mia
madre è sempre stata presente nella mia vita per cui non iniziate a
pensare che mi abbiano cresciuta loro, anche perché con Sapere non
intendo né l‟educazione, né come si fa il ciambellone ( anche se
questo me l‟ha insegnato Nonna ). Da loro ho appreso i profumi della
vita, come l‟odore che ha Nonno nel periodo in cui si deve
sverniciare la barca distinguendolo da quello in cui andava a polpi
(anche se tornava a mani vuote..cosa che è capitata di rado, aveva
quell‟odore di cacciatore del mare ); ho appreso il senso del tatto,
accarezzando le mani di Nonna dopo aver lavorato la pasta ( solo se
le si hanno in quel modo significa che la si è lavorata bene…), ho
imparato a capire come si chiede Scusa senza dirlo direttamente; ho
imparato il sapore del sudore di una giornata di lavoro accorato e di
come dopo, il pane, ritorna ad avere un significato Biblico. Anche
queste sono tradizioni per me, ma la cosa più importante è questa: ho
imparato che la nostra vita va ricordata e narrata perché è dal
racconto di essa che si risale all‟essere di una persona, alla sua
comprensione; all‟amore assoluto che permette di perdonarla, anche
se ci ha fatto del male. Le mani di Nonno tremano mentre regge il
piatto, ma ha ancora la postura di un leone fiero, con quel collo
pronto per una partita a scacchi…è diventato cosi perché nella vita,
per tutta la vita, si è guardato intorno a 360 gradi, nel frattempo mia
Nonna sta lì con quella “faccia da scimmia” pronta a fare dispetti,
sono i suoi occhi a dirlo….”occhi di Pernice”. Se ne sta ferma ferma
~ 335 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
come una chioccia accovacciata su un uovo che non si schiuderà
mai…tanto a lei, non serve muoversi per essere felice; almeno non
più… ma ha il sorriso che viaggia per il mondo, ed una bocca che
non smette di cantare o di mugugnare canzoni inventate…una vita in
un musical.
Ho la pancia che mi scoppia da quanto ho mangiato… il mio
cervello, assuefatto da tanta roba si sta per dimenticare la missione
da compiere….l‟ingrediente segreto…ed ecco che mentre la mela è
Regina della tavola, la butto lì cosi:
“ Nonno, ma ti va se ti intervisto un po‟…voglio scrivere un
libro…voglio scrive la “Bibbia” della nostra famiglia. Dopo che ho
intervistato voi, passerò a tutti gli altri componenti..che ne dici?! ”
Nonno: “ e che sto pe‟morì?..c‟hai paura ehh! ” -è il suo modo di dire
si- e co‟ „na gran risata….iniziammo l‟Odissea, anche se a volte le
domande che mi ero preparata le ho dovute modificare o eliminare,
che risate….la nonna con le mani giunte davanti al viso cercando di
trattenere invano quelle risa, poi momenti detti a denti stretti….poi
gli dico: “ Nonnò, ma ti andrebbe di dire qualcosa per ognuno dei
tuoi figli? Se vuoi ti lascio il registratore e me lo dai quando vuoi tu”
, e Lui: “ Siete tutti miei figli…”. silenzio “ spiegame qua, damme
qua st‟ aggeggio…ma te pare a te, che all‟età mia, mi devo fa
incastrà da sta Scimmia?!? ” “ Dariè famme riposà un pochetto…che
raccontare una vita è lungo e ci devo riflette, ora mi faccio un
quadernetto e ci scrivo le cose che mi vengono in mente ” e io: “ va
bene ”. Anche Nonna va a stendersi un po‟ sul letto ( stendersi è una
parola che mi ha sempre fatto ridere..me la immagino con due
mollette sulle orecchie appesa al filo dei panni ). L‟eccitazione mi ha
fatto digerire l‟indigeribile, quindi ora un gelatino dal surgelatore di
Nonna ci sta tutto, sono le 17:00 e il Nonno ha la tv a tutto volume,
vado da Nonna e le do un bacio su quelle gote che hanno quella
peluria vellutata e profumata di talco, è tiepida e non si sveglia.
….apro il finestrino a manovella, ed ho orecchie solo per il garrire
stridente delle rondini ….è così che ritorno bambina…
“ Dariaaa…la Nonna si mette un po‟ sul divano, quando la lancetta
grande sta qui e quella piccola sta qui, vienimi a svegliare…e se non
mi sveglio, tirami i capelli! o vuol di che so morta!
Ahahahahahahaahah ”
~ 336 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Avevo circa sei anni quando mi disse così. Attenta alle lancette
l‟andai a svegliare, da tante risate che mi feci mentre le stavo per
tirare i capelli, scoppiai a piangere quando non si svegliò per poi
mettermi paura con un‟ inaspettato “ Buh ”!.
Neanche stavolta si sveglia, nè mi mette paura………..il mio
ingrediente segreto si stà perdendo, le radici si stanno disgregando.
Oggi siamo tutti nel salone, la mia testa mugugna canzoncine lievi,
Mamma serra le mandibole come sta facendo il Nonno….e mentre
emergo dall‟apnea, mi accorgo che ci sono delle radici nuove, tutte
avvolte a treccia intorno alle vecchie, come se si stessero fondendo
ad alta velocità le une alle altre. Prendo Zia per mano, e riscopro
quella pelle; mi guardo intorno con occhio attento e capisco che non
sono la “Custode delle Tradizioni”, ma sono solo un filo,
prolungamento di altri…del quale non si vede la fine e che trasmette
con vibrazioni, i nostri racconti. Non so bene se ho scoperto
l‟ingrediente segreto, ma so che mi è stato tramandato, e che lo sto
usando.
~ 337 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Fernando Guidi
Taco e Paco
Stamani Taco si è svegliato con la voglia di rivedere il suo amico
Paco.
Decide di fare un viaggio fino alla città, dove non è mai arrivato
veramente.
Prepara un sacchetto con dei biscotti fatti da mani materne, una mela,
un cappellino di cencio in testa, prende il suo bastone e fischiettando
si incammina giù per il sentiero sassoso ancora umido di guazza.
“Cri, cri, dove vai Taco così svelto?”
“Ciao grillo, a scoprire il mondo, a cercare il mio amico Paco.”
“Da solo? Non sai quanti pericoli ci sono laggiù?”
“Quali pericoli? Io quassù vado sempre da solo: a fare legna, a
raccogliere frutta, sull‟albero a parlare con le stelle, dietro ai ramarri,
in groppa al lupo, a mungere la capra…”
“Io ci sono stato, vedessi!”
Un fiume di scatolette si rincorrono, con un fracasso!
Lunghe dita bucano il cielo, e come fumano!
“Ah, ah, che buffo. Mi accompagni grillo? Dai, salta su!”
“Fossi matto! L‟ultima volta che ci sono stato per poco un bambino
mi schiacciava al muro con una martellata.”
“Allora ciao e aspettami che torno… prima o poi.”
Taco lascia il grillo a grattarsi la testa e inforca il bastone, volando
sugli ultimi alberi del bosco degli elfi.
Il cielo si apre all‟improvviso, esplode una luce estiva, una nuvola
trapassa Taco con uno sberleffo, in basso nastri d‟argento avvolti in
un intreccio infernale.
Inatteso un gracchiare insistente riempie l‟aria, una cornacchia si
avvicina:
“Dove vai piccolo elfo? Laggiù i bambini spariscono, non si sa dove.
Ma chi ti manda in giro da solo, i tuoi genitori lo sanno?“
“Ciao bella cornacchia, io non ho genitori, vivo in comunità, ogni
donna fa da mamma, il babbo non l‟ho mai avuto, tutti gli uomini
~ 338 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
sono padre di qualche bambino. Io vado a cercare Paco, il mio amico.
Allora dici che non lo trovo più?”
“Io dico di no. Quando mi calo in città per raccogliere una perla di
cibo non vedo nessun bambino a giro ma solo automi che inseguono
desideri impossibili.”
“Ciao, ciao bell‟uccello del malaugurio, ora vado e poi te lo dico se
l‟ho trovato.”
Ora Taco inizia la discesa immaginando il mondo strano che troverà.
Egli è abituato all‟universo originario dove ogni essere vivente
prende solo quello che serve, rispettando la legge della propria
specie, dove la natura parla a tutti con lo stesso linguaggio e tutti
capiscono, nessuno pensa di far sparire bambini, linfa del mondo che
cresce.
“Acth, acth, ma che succede!”
Una nube nera e irrespirabile avvolge Taco, la sua macchina volante
fa appena a tempo a scivolare sulla chioma di un albero rachitico, in
un parco desolato. Scende dal tronco e si guarda attorno: toppe
d‟erba per terra, foglie secche dappertutto, uno zampillo d‟acqua in
una fontana sporca, panchine vuote… no, una è occupata da un
fagotto di stracci e borse di plastica. Taco si avvicina e cerca di
capire cosa sia; da sotto le coperte provengono grugniti e sbuffi
irregolari.
“Senti, dove posso trovare Paco, il mio amico elfo?”
L‟ammasso informe continua a rumoreggiare, allora Taco allunga
una mano per scuoterlo ma ecco che all‟improvviso spunta da sotto
la panchina una bestia spelacchiata che dalla voce dovrebbe
assomigliare ad un lupo ma fa più chiasso e ha occhi rossi come
carboni accesi.
“Zitto Argo, fammi dormire!” Dice una voce da sotto i cenci.
Ma il cane continua ad abbaiare ed allora il barbone si alza e scopre
due occhi che lo scrutano curiosi.
“Cosa vuoi, chi sei, da dove vieni, cosa fai qui tutto solo?”
“Sono Taco signore, vengo dal bosco degli elfi, con il bastone
volante e cerco Paco il mio amico, sapresti dirmi dove trovarlo?”
“Puah, ieri sera devo aver bevuto più del solito! Elfi… bastone
volante… Paco. Che razza di sogno mi ronza in testa, eppure sono
sveglio, Argo lo sento abbaiare; zitto Argo!”
~ 339 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Stropicciandosi gli occhi guarda con sospetto quel bambino tanto
allegro che va cercando un amico. Un amico? Una parola ormai
lontana nella sua mente, non si ricorda nemmeno bene cosa voglia
dire. Il vecchio torna a guardare Taco e comincia a pensare al suo
tornaconto: se lo mandassi dal guercio, lui saprebbe cosa farne…
tanto questo bambino è solo, viene da un posto impossibile - il bosco
degli elfi! - E io berrei a ufo anche stasera.
“Sentimi bene piccolino, ci sarebbe un posto dove potresti trovare
un… un coso, un amico; vedi laggiù quella rotonda, passa di lì e
quando trovi un grattacielo di cristallo prendi la rampa del
parcheggio, finirai diritto nel sottosuolo, c‟è una porta rossa, passala
e troverai lunghe scale fino ad un laghetto, sulla sponda c‟è una
barca, chiedi al guercio di traghettarti al di là, nel mondo degli amici
dei bambini, sicuro c‟è anche Zago, Togo, Figo o come diavolo si
chiama!”
“Non andare nel sottosuolo, non torna più nessuno da laggiù”,
uggiolò Argo, scodinzolando controvoglia.
Taco si lascia alle spalle un labirinto di sentimenti contrastanti
affidandosi al suo bastone che lo traghetta verso lidi più sicuri,
librandosi sopra quei tetti senza camini, in cerca di Paco.
~ 340 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Maria Alejandra Hong
Aria precaria
Ramona si svegliò da un turbolento incubo, si ritrovò in un letto, era
il suo? Si sentì come invecchiata di venti anni, meno male è stato
solo un incubo pensò. Tento di riaddormentarsi, ma il letto era duro e
puzzolente, con orrore si rese conto di avere mani e piedi legati. Alzò
un pò la testa, ma non poteva credere ai suoi occhi; era diventata
anziana. Vide un corpo marcio e gonfio, un letto sporco, le mani
grinzose, le gambe ridotte a poco più che ossa; le guance le facevano
male, si sentì il viso pieno di morsi e ricoperto di sangue. Oh dio!
Cosa mi è successo? Pensò.
“Non è stato un incubo”...bisbigliò... la camera non era la sua. La
camera di Ramona era sempre stata umile ma pulita, con tanti mobili
e poche fotografie. Questa invece era un porcaio, le pareti erano
piene di graffiti ma osservando con più attenzione vide che c'era un
nome scritto. Un nome, scritto miliardi di volte sui muri. Chi è
Michele?... La stanza era piena di immondizia, arredata con un letto e
un comodino riempito di fotografie.
Fuori piove. Qualcosa si muove, sentì dei piccoli passi. Non sono
sola, pensò, nella stanza accanto sentì qualcuno piangere. I fulmini
illuminavano la stanza e il panico di Ramona aumentò: “Qui
mancano i miei mobili, tutte le mie cose i presenti dei miei due figli,
le tende che cucii anni fa, mancano tante cose.” poi capì: oh Dio sono
stata rapita!
Magari, se mi riaddormentassi mi risveglierei a casa mia! Pensò.
Dopo ore di tentativi ci riuscì. Poco dopo però si risvegliò di scatto,
ancora nella camera sporca con un forte dolore al viso; aprì gli occhi
e vide un topo che le mordeva una guancia. Nella disperazione riuscì
a slegarsi. L'adrenalina fece sparire i dolori, corse verso la porta,
uscì di camera e si fiondò verso la porta principale; era chiusa,
bloccata. Con una forza paurosa si aprì e Ramona andò a finire in
terra; un adolescente più largo che lungo entrò e con uno sguardo che
sembrava rappresentare ira e noia, disse: “voleva scappare... di
nuovo!”
~ 341 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Di nuovo? Quante volte ho provato a scappare? Chi sono i miei
rapitori? Cosa vogliono da me? Quante altre persone sono state
rapite? Una almeno, l'ho sentita piangere. La testa di Ramona si
annego di domande.
Passarono due settimane; o almeno le era sembrato. La costrinsero a
prendere medicine che secondo il suo parere erano sedativi. Il peggio
degli effetti indesiderati fu l' incontinenza. Non riusciva a svegliarsi
in tempo per arrivare in bagno, non sempre riusciva a urinare dentro
la bacinella, o quando era legata non sempre c'erano i suoi rapitori
ad aiutarla. Pianse amaramente si sentì vecchia, puzzolente e piena di
vergogna tra sconosciuti.
Nella foschia della semi coscienza vedeva un' ombra di forma
femminile, senza faccia, la faceva mangiare due volte al giorno.
Passava il tempo cadenzato da altri tentativi di fuga. Nel mezzo di un
incubo fu svegliata da un urlo proveniente dalla camera accanto.
Quieta Ramona si alzò, dalla porta socchiusa vide la signora
“fantasma”, era girata e urlava al telefono: “se la vuoi devi darmi i
soldi...lo so quanto vale!”
I soldi! Sì! Finalmente chiedono il riscatto! Con il cuore contento
tornò a letto. Ramona era sicura che parlava con i suoi figli, ne era
sicura e loro avrebbero fatto il possibile per ritrovare la mamma.
Erano lavoratori umili ma si convinse che avrebbero potuto ricavare
il denaro... “No, il prezzo non scende!” fu l'ultima cosa che Ramona
sentì della violenta trattativa; poi scivolò dolcemente in un sogno.
Passarono tanti altri giorni. Ramona era tormentata del pensiero che i
suoi figli non avessero pagato. Lei era la mamma, ed era stata una
brava mamma.
Passò un altro giorno a guardare il soffitto. Sentiva rumori di città
fuori dalla finestra macchine gente affrettata anche lei ne aveva avuta
tanta di fretta; ormai no. Sentì passare un' ambulanza... i rapitori non
potevano lasciarla morire senza il pagamento del riscatto. Ramona
ebbe un' idea. Decise di fuggire recitando la parte di una catatonica.
Per dieci notti e dieci giorni recitò magistralmente. Ora, con più
calma vide meglio la signora “fantasma”, non era vecchia ma
invecchiata con grandi occhiaie, secca. La rapitrice fantasma entrava
in camera e provava a farla mangiare due volte al giorno. Ramona
continuava immobile a recitare la sua parte. Nelle ultime 48 ore
digiunò. Ebbe tempo per studiare a fondo la camera. Aveva 4 pareti,
~ 342 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
1 porta e 1 finestra con una grata, un letto singolo morbido,
macchiato, senza lenzuola, putrido. C'erano tante fotografie, molte
della vita di Ramona, alcune ritraevano un bambino che non
conosceva. Poi c'erano i suoi figli, il suo marito, il bambino, i suoi
genitori e il bambino e i fratelli. Provava una grande angoscia nel
vedere i ritratti di questo bambino e non capiva il perché. Era curiosa
di vederlo più da vicino; ma era meglio se restava immobile.
La rapitrice fantasma ritornò e riprovò a farla mangiare. Fu una scena
pietosa e confusa; la rapitrice piangeva perché Ramona non mangiò.
Il pianto diventò ira e la signora cominciò a picchiare Ramona.
Smise solamente quando sentì un topolino sulla spalla. Guardò il
topo, e con grande cura lo avvicinò al viso di Ramona. Il topolino
portava una bottiglietta di vetro attorcigliata nella coda, quando fu
abbastanza vicino al viso di Ramona le morse una guancia; il sangue
uscì e il topolino si apprestò a riempire la fiala con particolare cura.
L' attenzione della signora era catturata dal topo che chiudeva la
bottiglia. In un breve ma violento movimento Ramona prese il topo
e balzò dal letto. Le due donne si contendevano il topo. Ramona lottò
con tanta forza, la bottiglietta volò e si frantumo.
Il sangue diventò un fumo denso colorato che coprì tutta la stanza,
coprì anche i persistenti odori. Ci fu una metamorfosi, era tornata a
casa, la casa della sua infanzia. C'era un profumo buono che veniva
dalla cucina. Si sentiva felice e vitale. Vide della finestra i suoi
fratelli che giocavano. Le sue bambole adesso erano tutte al loro
posto pensò, non senti più la puzza di qualche istante fa e il corpo
non le faceva male.
Dopo qualche minuto il fumo svanì, e con il fumo svanirono i
profumi, casa, bambole, tutto. Ramona si ritrovò dove prima. Era un
ricordo che Ramona aveva perso... Cosa succede? Senza aspettare
risposte prese un ostaggio. La signora fragile sconvolta fissava
Ramona; da dietro un ragazzo gli si catapultò addosso, e nella lotta
rovesciarono il mobile con le fotografie e il topo scappò entrando in
una cavità del muro marcio dietro il mobile rovesciato, dalla cavità
partiva una caverna, una miniera di piccole bottiglie.
Ramona si alzò per catturare il topolino, nell'intento di afferrarlo
ruppe delle bottigliette, dalle quali vennero fuori altri ricordi...
delusioni, fidanzati, liti, man mano che ricordava tutto questo l' ira
cresceva; tante cose dimenticate, ora la voglia di scappare diventò
~ 343 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
voglia di vendetta contro chi le aveva rubato la libertà, l'identità, la
sua storia.
Il topo in lotta contro la morte ruppe tante altre bottiglie. Via via i
ricordi diventavano più tristi, “Mi sembra di morire di crepacuore”
pensò Ramona ricoperta di lacrime.
Un fumo diverso, fetido, fece il suo percorso. Ramona si sentì
inquieta, non era come gli altri, il puzzo della camera cambiò in
formaldeide mescolato con candeggina, le fece girare lo stomaco.
Ramona adesso si trovava con una signora e un bambino in un
ospedale asettico e impersonale in una sala di attesa. Fu difficile
riconoscere i suoi sequestratori, la donna era senza le occhiaie, bella,
il ragazzo era solo un bambino, il passaggio di un ombra interruppe
le osservazioni. Di colpo un dottore con uno sguardo freddo e
impersonale li fece accomodare nel suo ufficio. L' aria, precaria, la
fece innervosire, il dottore parlò, ma il cuore di Ramona batté
talmente forte che non riuscì a sentirlo. Con indifferenza il geriatra
spiegò a Ramona che non ha 60 anni come pensa, ma ne ha 85, che
non vive più da sola da qualche anno perché non può più prendersi
cura di se stessa e ora abita con sua figlia e suo nipote.
... Alzheimer... dice alla fine. Ramona si accorse che la rapitrice era
sua figlia, le lacrime gli correvano a fiumi. Si pentì tanto di tutto
quello che le aveva fatto. Capì che la casa in cui si trovava era quella
di sua figlia ed era stata li da 10 anni perché non avevano soldi per l'
ospizio.
L'ira accecante si trasformo in una incommensurabile tristezza.
Calma e sconfitta gli spiegarono che il topolino Michele non le rubò i
ricordi, quello lo fece l' Alzheimer. Michele invece custodiva i
ricordi dentro le bottigliette per ridarglieli il giorno in cui sarebbe
guarita.
Ora Ramona è seduta sul letto, sconfitta e umiliata.
Il topolino nasconde un' ultima fiala con un contenuto sinistro.
Ramona si scusa con i presenti, le chiede a Michele di riprendere il
suo lavoro, però, le boccette erano tutte rotte. Ramona era disperata
si sentì sbriciolare dal peso dei ricordi ritrovati. Vide l'ultima ampolla
che era cinque volte più grande. E chiese a Michele di fare uno
scambio. Quest'ultimo ricordo, si portava via gli attuali supplizi.
Michele restio accettò di suo malgrado. Ramona sicura che la
situazione non poteva peggiorare si sdraiò.
~ 344 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Che bell'odore, la camera di un bambino, quel profumo di neonato, la
camera è ariosa e fresca, e decorata per un maschietto, quante cosine
belle. Ramona si affacciò sulla culla, voleva vedere il bambino. Il
bambino era fermo, troppo fermo, dormiva?, ma era troppo fermo... e
aveva un colore strano... Ramona si sentì svenire … si sentì dire:
“Michele”, il bambino delle foto era il terzo figlio. Quello che morì
dopo aver fatto un mese di vita, in culla. Morte bianca, nella foto era
lui “l'angelo della mamma”, la ragione della sua felicità era nella
culla immobile così bello, così freddo.
Un mese di vita è troppo corto, 85 anni ormai troppi, per Ramona fu
troppo. Sentì un dolore nel braccio sinistro e una forte pressione sul
petto, “Michele...” chiamò “ Arriva la mamma...”
~ 345 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Arjan Kallco
Il piccolo scoiattolo
Tra i pini del parco, come per dimostrare che l‟anima sia
addomesticata e la pace con la natura sia raggiunta, sono comprasi i
primi scoiattoli. Che bello – abbiamo detto tutti - che anche gli
animali e gli uccelli stiano ripopolando questo posto, dopo i giorni
difficili del 1997, quando, dietro l‟uomo in fuga, fuggirono veloci
anche loro, perche‟ vedevano che il rispetto per gli animali neanche
veniva preso in considerazione, mentre vedevano come si azzuffava
la gente nelle piazze. Gli animali stessi non riuscivano a capire
perche‟ succedesse questo, ma vedendo scappare la gente, facevano
lo stesso pure loro. Alle frontiere altri riti li stupivano, gente che
prendeva pietre e se le tirava dietro la schiena, segno impercepibile
dalla loro intelligenza, ma qualcuno osava esternare, sono finiti i
proiettili e ora tocca alle pietre. Quel segno, dopo aver chiesto cosa
fosse, significava che non ci si ritorna piu‟, diniego per le radici dove
si era nati. Li abbiamo visti per la prima volta, quando stavano
sistemando il boulevard principale della citta‟ e le macchine non
correvano come nelle corse, per percorrerlo dall‟inizio alla fine. E gli
scoiattoli indugiavano nella loro gita, perche‟ sapevano che erano
imprendibili dagli umani per essere rinchiusi nelle gabbie. Sono cosi‟
agili che in un batter d‟occhio li troverai in cima agli alberi quando il
pericolo e‟ imminente. Ma sono anche cosi‟ buoni e carini quando li
osservi mentre mangiano, come veri equilibristi sui rami. Molti anni
fa da bambino, andavamo in vacanza al Campo dei Pionieri di
Voskopoja. Li avevo visti danzare sugli alberi, assomigliavano alle
altalene che la natura stessa aveva costruito, ma mai da vicini. Una
lontananza in cui di mezzo c‟era la paura comprensibile per le
dimensioni nei confronti dell‟uomo e di tutto cio‟ che pone fine alla
loro esistenza nel nostro mondo. Un anno, nel mese di giugno, come
d‟abitudine, andammo con molti compagni e amici della scuola, ma
anche da tutta l‟Albania. Durante le gite giornaliere nel bosco pieno
di pini e nell‟aria fresca, li guardavamo mentre saltavano da un
albero all‟altro, col loro desiderio di giocare con i bambini che per tre
~ 346 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
mesi erano i loro migliori amici, ma a volte pure un tormentone. Li
svegliavano la mattina presto, mentre facevano ginnastica o
correvano sulle colline intorno, li colpivano con pigne, era proibito
portare fionde per cacciare uccelli, così che venissero giu‟, si
avvicinassero, facile preda da catturare, incutevano loro paura
muovendo i rami, ma senza alcun risultato, perche‟ nessuno si faceva
avvicinare. Durante la pausa tutti assieme, stavamo cantando e
divertendoci sotto l‟ombra degli alberi, quando uno scoiattolo cadde
dalla cima dei pini e ferito come era, non pote‟ sfuggire al gruppetto
dei ragazzi che lo circondarono dalla curiosita‟ nei confronti di un
animaletto che sembrava volasse nella sua corsa. Pur cercando di
svignarsela con i suoi trucchi di velocita‟, una mano lo afferro‟ e il
poveretto, fini‟ dentro, come in una trappola preparata apposta per
lui. Dopo averlo preso in mano come un trofeo di gara, non si
accorse che lo scoiattolo non voleva arrendersi, si sforzava di
scivolare dalle sue mani e con un brusco movimento gli graffio‟ una
mano. Dalla mano stillava del sangue e il ragazzo, di colpo, come per
un ordine trasmesso nella mente, la apri‟, liberandolo dalla morsa che
lo teneva stretto. Come un fulmine, si salvo‟, nonostante ferito, era
impossibile incarcerarlo e tenerlo prigioniero nelle mani. Il ragazzo
non sentiva dolore, perche‟ l‟animaletto, il trofeo del quale si
vantava, stava, in un men che non si dica, salendo sull‟albero.
Rimanemmo alcuni minuti in attesa della sua ricomparsa tra i rami,
ma la paura che venisse ancora catturato lo costrinse di allontanarsi,
saltando meravigliosamente tra gli alberi.
Il ragazzo corse dispiaciuto in infermeria per curare la mano graffiata
dalle unghie dello scoiattolo. Anche ora che andiamo spesso a
Voskopoja, un villaggio famoso per il clima e relax, il viavai delle
macchine sulla strada ne parla chiaramente, non abbiamo mai visto
cosi‟ da vicino gli scoiattoli. La magia della pace con la natura ce li
ha portati alle nostre soglie. Dopo aver finito di lavorare
all‟universita‟, sono uscito e vicino al cancello due scoiattoli stavano
camminando piano piano sull‟asfalto, ai cui lati si trovano i loro pini
preferiti e appena hanno sentito rumori e hanno visto gente , si sono
diretti verso gli alberi, temerari. Camminavo lentamente perche‟ non
si spaventassero e scappassero e mi permettessero di mostrare affetto
nei loro confronti, era difficile procurarmi un po‟ di cibo all‟istante,
(ne conosco le preferenze), e anche contemplare quelle creature cosi‟
~ 347 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
scaltre che ti meravigliano con le loro acrobazie cosi‟ perfette, che
ogni acrobata ne proverebbe invidia. E se scattassi una foto ai miei
amichetti inaspettati?- dissi sovrappensiero e ho tirato fuori il
cellulare dalla tasca. Il colore degli alberi e quello simile degli
animaletti non ti permettevano di scorgerli bene, percio‟ ho desistito
dall‟idea di disturbarli inutilmente. Avro‟ modo di rivederli un altro
giorno, quando avro‟ anche la macchina fotografica - mi dissi. Ora
saranno i nostri perenni amici, non invitati, ma non noiosi e
fastidiosi, nelle mattine e sere, quando, stanchi di lavorare davanti ai
computer, la loro presenza ci rechera‟ sollievo. Peccato che non ho
potuto fotografarli e metterli sul mio sito e face book, come esseri
viventi che meritano tutta la nostra compassione. Nei giorni seguenti
la loro presenza ci rendeva i minuti piu‟ belli e il sorseggiare del
caffe‟ o di un bicchiere di birra, in compagnia dei colleghi, piu‟
allegro. Uno spettacolo che cominciava dal momento che
scendevano, per le brevi camminate sui prati, le arrampicate e i salti
come se fossero in una arena di un circo dove i biglietti erano gratis.
Dopo qualche giorno, ( non avevo mai pensato che una simile storia
avesse una fine cosi‟ triste) mentre stavo andando al lavoro, di
domenica, (giorno in cui a quanto pare, la vigilanza degli scoiattoli
cala e le vicende, volendo non volendo si ripetono), era di domenica
quando vidi che disteso sul boulevard, senza vita, giaceva il nostro
piccolo animaletto. Mi sono trovato di colpo sul luogo del delitto e,
proprio quando non te lo aspetti mai di cominciare una giornata
cosi‟, ho rallentato la bici per vedere se quello che avevo intravisto
fosse realta‟.
Si, purtroppo si, era li‟, insanguinato da una ruota sbadata di qualche
automobile che per la fretta, ha interrotto la vita al nostro piccolo
scoiattolo. Nessuno l‟aveva aiutato a salvarsi, addirittura lo avevano
lasciato li‟, sotto gli occhi macabri e indifferenti dell‟uomo, (come
per dire che l‟attenzione per gli animali non lo ha ancora reso
sensibile e consapevole di mostrare il suo lato umano, pur essendo
morto. Non se lo meritava, il nostro amichetto, una semplice
sepoltura, da qualche parte, all‟ombra degli alberi, per tutto il
piacere e la compagnia che ci ha regalato in questi mesi, dato che ci
ha fatti sorridere con le smorfiette giocose di un piccolo innocente?
Ho preso un guanto improvvisato, un sacchetto di plastica per terra, e
lentamente l‟ho tolto dalla strada e l‟ho messo su una aiuola sul
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~ Le storie di Io Racconto ~
ciglio, in mezzo a quello che nel nostro e loro regno, si chiama
natura.
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~ Le storie di Io Racconto ~
Giorgio Iacopini
La strada della vita
Preambolo
Laggiù dove l‟orizzonte svanisce c‟è un punto dove tutte le strade
arrivano.
Fra tante ci sono quelle che sembrano veri rettilinei, che si
congiungono ad altrettanti punti fermi, non ci sono svolte, parabole o
cambiamenti di direzione.
Questi rettilinei si presentano come le scie lasciate dalle navi su un
mare calmo, come le scie di aurei nei cieli azzurri, sono gli spazi del
movimento di sempre di un andare placido.
Non di rado nelle notti di plenilunio le rette dell‟estremo, queste
strade, si affiancano come parallele che corrono veloci senza mai
incontrarsi, ma con la possibilità di cozzare insieme in uno spazio
chiuso, una piazza, una grande piazza dove, le rettilinee strade, sia
parallele che separate, si vanno a incastrare per poi, oltrepassato
l‟ostacolo, riprendere la loro retta via piana e levigata, su un mare
fino al punto dove cielo e terra si incontrano.
La piazza, punto di incontro, sommità del disordine, caos di vie.
Poi con l‟arrivo del giorno il caos della piazza si dissolve, si
discioglie.
Noi ipocrite menti non ci diamo per vinte e allora guardiamo oltre
l‟orizzonte, rendiamo fisso lo sguardo nel punto per percepire la vita,
desideriamo comunicare, toccare, testardi, ostinati.
Ma alla fine non resta altro che il rimpianto del passato, restano le
nostre strade rettifile, piane, calme, polverose che corrono verso
l‟ostacolo di una piazza, ci sbattono, si ode allora un rumore, un
boato , la fine .
Dopo, ciascuno per la sua strada….
La strada della vita
Tutto ha inizio quando una sera seduto, sopra la pietra di granito
fuori della porta di casa, dove sono nato, confuso nei sogni di
ragazzo, mi accorsi di quella strada che dovunque volgessi lo
sguardo percorreva l‟infinito.
~ 350 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
La strada dei mie giochi, la strada della vita, la strada che c‟è sempre
stata, la strada che non mi aveva mai fatto pensare al domani, la
strada che vedevo ma non sapevo dove portava.
Nei miei occhi c‟era la striscia bianca e impolverata fino al punto
dove tutto finisce, dove il vento spazza la polvere e alza un muro
dove si scontrava il mio sguardo.
A destra, costeggiata da campi di granturco, le linee laterali erano
intervallavate da cadenti salici, dall‟orto di mia nonna, dalla capanna
dove mio nonno teneva gli animali. Vicino al colle si vedeva la casa
di un contadino, oltre, il campanile di una chiesa.
A sinistra si inerpicava repentina la strada fra filari di pioppi; i
campetti a terrazza dei mie genitori, andavano a lambire le regnanti
selve di castagno.
Tutto a corollario di un‟infinta strada retta e irta che diveniva scura
nell‟ incedere oltre le selve, dove la fantasia mi portava a
raggiungere, nel mio immaginario, luoghi altissimi nel punto in cui il
mondo era un altro mondo, dove il dolore non esisteva , il pianto era
dolce, dove l‟anima era la poesia del corpo, dove la vita non era il
quotidiano ma l‟essenza dei frutti dell‟amore.
Fantasticavo sul punto ... quel punto ... dove quella strada avrebbe
incontrato la sommità della montagna, cosa ci sarebbe stato oltre?
Forse proseguendo verso il cielo, avrebbe incontrato le stelle.
Passavano i giorni e nella mia mente di ragazzo nasceva sempre di
più il desiderio di scoprire quello che la retta strada mi aveva
nascosto, seduto sulla solita pietra, punto privilegiato per un‟ottima
visione.
La mia fantasia vagheggiava, con lo sguardo calcolavo la distanza, il
tempo di percorrenza tra il poggio e i filari della vigna, tra i campi
coltivati e un punto oltre la capanna; cercavo di farmi una mappa, ma
oltre, dove non potevo vedere, cosa ci poteva essere?
Tutto questo mi spaventava.
Preso da un inspiegabile fremito decisi che dovevo intraprendere un
viaggio verso queste mete a me sconosciute.
Venne così l‟alba dell‟atteso giorno, di buon mattino mi svegliai e
con quello strano disagio, colmo di felicità di ragazzo, mi vestii,
ripassando con la memoria il tratto di strada vicino alla casa che già
conoscevo, ma oltre?
~ 351 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mi lusingava il resto del tragitto che non conoscevo ma che nei
giorni passati mi ero immaginato.
Dopo aver messo due panini con il salame e una bottiglia d‟acqua
nel piccolo zaino, me lo infilai sulle spalle e uscii di casa.
Al di fuori, sceso in strada non ebbi altro che l‟imbarazzo della scelta
su quale direzione dovevo prendere, a destra lungo la striscia bianca
che spariva oltre il colle dove l‟ultima cosa che si intravedeva era un
campanile, oppure prendere sulla sinistra, oltrepassare i campetti a
terrazza e inoltrarsi nei misteri della selva?
Dopo pochi indugi mi rivolsi verso ponente a sinistra, era tutta in
salita, ma certamente più interessante.
Sicuro di quello che facevo, ero confortato dall‟idea che nella prima
serata sarei tornato a casa, con la consapevolezza di chi aveva la
certezza a cosa andava incontro e la strada che doveva fare.
L‟aria del primo mattino era abbastanza fresca, cosi me ne andai per
il mio destino con passo svelto, il viso infreddolito dalla tramontana
ma con lo sguardo fisso e fiero verso la meta che mi ero prestabilito.
Andando sempre diritto per la mia strada, con il cuore felice per
l‟avventura , ogni tanto chiudevo gli occhi e continuavo a
camminare, e puntualmente mi trovavo al margine della percorso con
il pericolo di uscire di strada e cadere dal ciglio nei campi
sottostanti.
A quel punto visto che la strada era in salita ma diritta, decisi di
camminare al centro di essa, anche perché ai lati si erano formati
rigagnoli di terra smossa dagli zoccoli dei cavalli e dei muli che dalla
mattina alla sera, con il loro andirivieni, transitavano per portare a
valle la legna.
Lavoro ingrato ma non c‟era altro modo, o almeno meno costoso per
far si che la gente del mio paese si riscaldasse nei gelidi inverni.
Col passare del tempo ero cosi convinto di quello che facevo che
anche se avessi richiuso gli occhi il mio cammino sarebbe continuato
senza intoppi; camminavo agile e spedito nonostante la difficoltà
della salita.
La direzione era quella giusta visto che la strada era come segnata da
una freccia che portava diritta a un solo punto.
Dopo qualche passo il desiderio di chiudere gli occhi si riaffacciò
forte e cosi feci , ma dopo pochi passi mi ritrovai dentro alla fossa
che delimita la strada per lo scolo dell‟acqua piovana.
~ 352 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
La delusione per la caduta non fu tanto per il dolore alla spalla per
averla picchiata in terra, o al prurito che avevo alle gambe, e alle
braccia per essere infilato nell‟ortica, ma per essere finito fuori della
direzione che credevo di proseguire.
Ma il disappunto non durò molto, fino a che nella mia mente balenò
il dubbio che la strada che avevo sempre visto da lontano non era una
linea retta.
Quella rivelazione mi procurò in grosso dolore allo stomaco.
L‟idea di arrivare a quel punto dove avevo sempre visto finire la
strada mi sembrò in quel momento non più realizzabile.
Mi sedetti sul ciglio della strada e cercai di raccogliere le idee, cercai
di farmi coraggio e convincermi che forse con un po‟ più di
dinamismo sarei arrivato lo stesso alla meta, forse il terreno faceva
una leggera traiettoria curva, un po‟ irregolare tutto sommato potevo
vedere benissimo oltre la curva se mi fossi messo a camminare al
lato opposto della carreggiata.
Mi rialzai capii che era stata una lezione, mi grattai il prurito
dell‟ortica, mi massaggiai la spalla indolenzita, ripresi il cammino al
centro della strada, col lo sguardo ancor più attento alle sfumature
della strada pronto ad accorgermi in anticipo le curvature che la vita
ci pone quotidianamente, e lasciando ai soli sguardi il punto che
davanti a me vedevo sempre alla solita distanza.
Intanto la strada proseguiva nel folto della selva, all‟improvviso un
tornante, poi una curva, a gomito si inerpicavano su per il monte, e
da una parte una frana aveva ostruito mezza strada.
Fu come una mazzata fra capo e collo, frastornato vidi la mia retta
strada tutta contorta e disegnata in un scarabocchio bizzarro.
Mai e poi mai avrei creduto che quello che da casa vedevo in
lontananza diventasse un susseguirsi di sali e scendi, un continuo di
curve e contro curve.
Smisurato, atroce, fu lo smarrimento che mi invase di fronte a quelle
asperità che non immaginavo potessero esistere, anche se poco
tempo dopo quelle impervie non erano nulla in confronto alle
difficoltà che dovetti superare; oltrepassai il colle di un monte, e la
strada in discesa la feci tutta a ruzzoloni fino a che non raggiunsi la
strada nel piano.
Incredulo, ma un po‟ rincuorato dalla speranza di proseguire d‟ora in
poi una strada in pianura, con passo abbastanza svelto mi inoltrai per
~ 353 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
la mia via, ma il peggio doveva ancora venire. Fatto poco tragitto mi
ritrovai al cospetto di un ruscello che tagliava la strada in due; preso
dallo sconforto, ma deciso a proseguire il cammino fino al fatidico
punto, scesi nelle acque fresche e iniziai ad attraversare guardando
nell‟acqua cristallina, nella speranza di vedere la sagoma e i contorni
della strada che speravo di ritrovare dall‟altra parte del ruscello.
Ma non fu così, mi ritrovai ben presto spaventato dall‟acqua che
aveva raggiunto il busto e abbagliato dal luccichio dei sassi che sotto
venivano raggiunti dal sole, facendoli risplendere.
Una confusione totale mi sopraggiunse e nella paura andando un qua
e là dentro il ruscello, sospinto da una corrente che non mi ero
accorto che c‟era, spinto dalla furia, mi ritrovai sommerso dentro una
pozza; raccogliendo tutta la mia volontà riuscii a raggiungere l‟altra
sponda.
A quel punto ero arrivato a fine mattinata e il sole era già alto lassù
sul monte, così per riposarmi un po‟ mi misi a sedere sull‟argine del
ruscello, mi tolsi le scarpe, le maglie bagnate e mi riscaldai al sole,
poi con cupidigia afferrai il panino dallo zaino e lo mangiai con
avidità, poi non curante di quello che facevo presi l‟altro panino e a
differenza del primo iniziai a sminuzzare la mollica, a morderla con
attenzione, riflessioni per percepire ogni sfumatura di sapore, di
profumo, di fragranza.
All‟ombra di vecchi salici l‟acqua mi lambiva gli affaticati piedi e
qualcosa o qualcuno mi invitava a rigettarmi in quel piccolo mare di
gioia; con un sussurro languido mi immersi nelle fresche acque.
Mi ritrovai nell‟oblio assoluto con l‟impressione di essere sulla solita
via che avevo conosciuto, una via sinuosa, una via che iniziava di
fronte a casa mia e chissà dove finiva.
Un percorso lungo e corto, largo e stretto, alto e basso, gelido e
afoso, lesto e fiacco e tutto e niente.
Ero felice e ne esultavo.
E stavo appagato, benessere che non avevo mai provato,avevo capito
era la giusta via.
Rimasi a sguazzare per tanto tempo felice e incredulo quando capii
che era il momento di uscire per rimettermi in cammino, il sole era
ancora caldo e riuscì ad asciugarmi, poi di mala voglia mi rivestii al
completo e inforcato lo zaino raggiunsi la strada.
~ 354 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Da li iniziarono i problemi, le contraddizioni visto che era giunta
l‟ora di decidere se tornare a casa o proseguire verso l‟ignoto punto,
la scelta era difficile e nei mie pensieri si combattevano desideri
opposti.
Da un lato riprendere la via a ritroso voleva dire tornare a casa,
ritrovare il tepore della famiglia, la certezza di un pasto sicuro, di un
letto caldo, l‟amore di mia madre, di mio padre.
Dall‟altro lato si prospettava un entusiasmo nuovo, ma anche la
preoccupazione di un domani, curve dopo curve, polvere e ancora
polvere, strade sterrate e mulattiere.
Decidere, ecco cosa dovevo fare, decidere, e alla svelta perché di li a
poco sarebbe calata la notte. Ripensai alla strada che avevo fatto
ripercorrendola tutta quanta, poi osservai il ruscello anche lui
rettilineo come la strada che avevo sognato.
Capii in quell‟istante che la vita ti offre poche opportunità, cosi
abbandonai la vecchia strada per percorrere la riva del fiume,tanto
ero convinto che più a monte l‟avrei ritrovata.
Ricoperto dalla vegetazione proseguivo a ritroso il fiume quando
all‟improvviso sentii una voce, poi il silenzio, poi un altra voce, dopo
il silenzio, impaurito mi accasciai con i piedi nell‟acqua ricoperto
dall‟erbe con in testa una grossa foglia rinsecchita.
Tesi l‟orecchio per ascoltare, ma si udiva solo lo scroscio dell‟acqua,
e il fruscio del vento fra l‟erba; aguzzai la vista ma non vidi nulla.
Passarono secondi, forse minuti e di nuovo le voci, un respiro
affannoso, dei passi e ancora voci, dedussi che due persone forse tre
si stavano dirigendo verso il mio nascondiglio.
Perché ho fatto tutto questo, mi domandai? Perché mi trovo qui?
A quel punto maledissi la mia presunzione, la malsana idea di quella
camminata assurda, sentivo di essermi comportato come un
ragazzino curioso, arrogante e insensato, fra me ripetevo, “ah se fossi
rimasto a casa”!
Avevo intrapreso un cammino sbagliato, la peggiore delle direzioni,
pensavo a quella strada rettilinea, ora maledetta, al tempo passato,
stagione dopo stagione, anno dopo anno, che stupido!
Che idiota mi ripetevo, ma purtroppo era tardi.
Ecco i passi si avvicinano ancora… Mi hanno trovato…Mi stanno
tutti intorno…Mi osservano.
~ 355 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ho paura, qualcuno si china su di me…Una mano mi tocca, sentii le
dita scivolarmi fra i capelli.
Riconosco il tocco è di mia madre, una voce familiare mi sfiora le
guance “tranquillo sono accanto a te “.
~ 356 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Monica Imperato
Uno di meno
Fino all‟ultimo si convinse di farcela ma alla fine si arrese e corse
via. Spintonò il compagno che gli sedeva a fianco, arrancò fino alla
porta, la colpì con una spallata violenta e raggiunse, inciampando, il
parapetto del peschereccio. Nel mare nero della notte, reso ancora
più cupo dalla luna oscurata, riversò l‟ingorgo che gli aveva
attorcigliato le budella per troppe ore. Non voleva oltraggiare quelle
acque che gli stavano offrendo una via di fuga dalla miseria materiale
e morale da cui proveniva. Era colpa di quella imbarcazione
rattoppata, lercia e puzzolente. Un miscuglio nauseabondo di odori
che si era intriso del fetore delle povere anime disperate costrette a
viaggiare seminascoste nell‟angusta stiva.
Duemila euro tondi. Sentì di nuovo un conato salirgli in gola al
pensiero della somma che gli era stata estorta abbacinandolo con
l‟idea della terra promessa. L‟Italia! Conosceva un po‟ la lingua. A
casa l‟antenna televisiva prendeva molti canali e così non gli era
stato difficile imparare qualcosa. Intelligenza e memoria, poi, non gli
erano mai mancate. Il lavoro, quello pulito, invece sì.
L‟Italia era l‟ultima spiaggia dove approdare nel tentativo di
costruirsi un futuro migliore, lontano dal marcio a cui era abituato. E
di fatto su una spiaggia sapeva di dover sbarcare. Di notte, meglio se
nuvolosa.
Il primo segnale a cui prestare attenzione sarebbe stato il faro di
Otranto. La punta più a est dell‟Italia. Destino beffardo quello che gli
era capitato in sorte: ambiva a raggiungere il più in fretta possibile
quel lembo estremo a est proprio lui che, dall‟est, voleva andarsene
senza biglietto di ritorno.
Aveva 23 anni e ne voleva molti altri davanti a sé. Mettendosi in
regola con le leggi italiane, s‟intende, perché a Brindisi c‟era suo
cugino, nato e vissuto sempre in Italia, che gli aveva scritto tante
volte assicurandogli di farlo assumere in una ditta edile. Sarebbe
tornato a sorridere, a fare la corte alle ragazze. Un‟emozione
~ 357 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
adrenalinica lo risvegliò dal torpore della traversata ammorbante.
Scorse la luce del faro.
“Kàrim! Albanese di merda, vattene nella stiva e non azzardarti più a
risalire fin quando non ve lo diciamo noi”.
Il ragazzo non reagì. Quei modi grevi non lo urtavano più. Ormai era
fatta. L‟Italia era vicina, vicina e seducente. Come quella della TV.
“Commissario!”, il sovrintendente lo chiamò correndogli incontro.
La pattuglia della Polizia Stradale era sul luogo già da un pezzo e si
era reso indispensabile scomodare il flemmatico comandante.
“Commissario, scusi tanto ma qui c‟è stato un vero casino”.
Sul torrido asfalto della litoranea che portava a Brindisi, sotto un
cielo estivo assetato di pioggia, un cadavere era riverso a terra col
volto coperto da un lenzuolo. Indumenti logori e sporchi, poco più in
là uno zaino impolverato e macchiato. E tanto sangue.
Dall‟altro lato della carreggiata, nella macchina della polizia, un
ragazzo si premeva i palmi delle mani sulle tempie e piangeva
guardando il suo fuoristrada.
“Commissario, che macello. Quello ha investito il poveraccio e lo ha
sfigurato. Ma sta là come un cretino e pensa alla macchina.
Comunque è fatto fin sopra i capelli. Ah, Commissario, il cretino è
figlio dell‟Assessore Lorusso. E come glielo diciamo adesso, al
padre? Quello s‟incazza pure con noi”.
“Nicolino, ma ti devo proprio spiegare tutto. Al padre non si dice
nulla perché nulla è successo. Capisci?”
“E il morto?”
“A proposito: quel disgraziato l‟avete identificato?”
“Non aveva documenti in tasca, a parte una lettera di un tizio che si
rivolgeva a un certo Kàrim dicendogli di venire in Italia che qui si sta
bene e c‟è tanto lavoro”.
“Uno di meno!”, proruppe divertito il Commissario. “Vedi, Nicolino,
che non tutto è perduto? La marachella del figlio di Lorusso è servita
a liberarci di un clandestino! E‟ proprio vero che si sta bene in Italia,
Nico‟!”
~ 358 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Guido Ingenito
Il mondo là fuori
Lo scarso arredo del piccolo bilocale di Sirio non da‟ più la
sensazione di poterci correre dentro per un intero pomeriggio. Quello
che era un appartamento è diventato una soffocante bara di legno. Il
letto è sfatto e a fianco c‟è la scrivania di ferro, orfana della sedia che
non c‟è mai stata. Se non fosse per l‟unica finestra della stanza, per
quei due poster sbiaditi e quella chitarra nera senza nome verrebbe da
chiedersi se qualcuno abbia mai abitato lì dentro.
L‟unico che può rispondere è Paride, che adesso – da quanto? – E‟ in
ginocchio in mezzo alla stanza con le mani appiccicate alle piastrelle
e sta capendo che non c‟è più niente da fare. Questo maledetto
surrogato di appartamento, con i suoi muri ingialliti e un soffitto
troppo bianco perché sia vero, lo sta schiacciando, riducendolo
polvere su polvere, cenere su cenere.
Sirio non abita più in quel bilocale. Non abiterà più in nessuna casa,
in nessun parco, in nessuna stazione.
Paride si alza, deve riprendere possesso del proprio corpo, straziato
dall‟immobilità in cui era cementato. La sua schiena scricchiola e le
ginocchia, rosse e graffiate, gli dolgono. Si guarda intorno un‟altra
volta, ancora un‟altra volta.
I due poster. La chitarra.
La finestra.
La tenda. Rossa.
Con le dita e con gli occhi Paride ne assapora la consistenza, il colore
e la forma, per un lungo minuto, come se fosse la prima volta, come
se fosse viva. La stringe, la accarezza, la accosta al viso e poi la
sposta, vedendosi così riflesso nel vetro opaco della finestra, che gli
restituisce violentemente la sua disperazione. La barba che cresce
senza ordine, le occhiaie prepotenti, i capelli bagnati dalle lacrime e
dal sudore che gli circondano il viso senza una logica.
Quanto costa un‟amicizia? Quanto costa un lutto? Qual è il prezzo da
pagare quando queste si prendono per mano?
Quanto costa il senso di colpa?
~ 359 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Paride apre la finestra e si affaccia sul “mondo là fuori”, come lo
chiamavano lui e Sirio. Mentre lo smog invade velenosamente
l‟appartamento, vede quello che ha sempre visto, uomini, donne,
anziani, bambini che camminano e parlano senza fermarsi un attimo,
e auto che con i clacson che urlano la poca pazienza che esiste in
questo mondo scorrono come nuvole durante una tempesta.
Un pezzo di tenda, spinto da uno spiffero di vento sporco, gli sfiora
la spalla e Paride chiude gli occhi. Nel buio di se stesso evoca quella
volta che entrò in quella casa, invitato da Sirio che era appena tornato
dal Centro.
“E quella che cos‟è? –, gli aveva chiesto appena entrato”.
“Una tenda rossa”.
”Rossa? Ma fa a pugni con…tutta la casa”.
“È la casa che ci fa a pugni”. Guarda qui: “signore e signori”, Sirio
tirò la piccola corda che pende dall‟asta che sorregge la tenda, “ecco
qua il -mondo là fuori-”.
“Ehi! È come un sipario!”
“Visto? Sto buco vetrato che era un televisore con un solo noioso e
terribile canale adesso è…”
“Già…peccato che lo spettacolo là fuori non ne sia degno. Ed è
sempre noioso e terribile”.
“Non hai capito. Lo spettacolo”, disse Sirio accarezzando la
tenda,”è qui dentro, Paride. È il “mondo qui dentro”. Qui, dove non
esiste l‟indifferenza. Qui dove ci sei tu. Dove ci sono io. Spero
ancora per qualche anno”. Aveva concluso con un fiacco e profondo
sorriso.
Quando Paride si gira e riapre gli occhi è solo; chiude la finestra e
nel vetro vede l‟uomo che ha perso l‟amico troppo presto. Le pareti
trasudano ancora la debolezza di Sirio e là fuori, la città e il mondo
proseguono i loro cammini con forza, senza un attimo di esitazione.
C‟è un uomo in meno sulla Terra.
La Terra risponde: “Pazienza”.
“Potevi fare qualcosa, Terra”.
La Terra risponde: “non è colpa mia”.
Sull‟orlo di un pianto senza lacrime Paride chiude il mondo là, fuori.
Un amico lo ami sul serio solo quando sei in grado di odiarlo. Tutti
compiamo delle scelte e tutti chiediamo aiuto e chi ti ama non ti
giudica ma cerca di comprenderti.
~ 360 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Paride non conosceva la morte.
Paride non conosceva l‟autodistruzione.
Paride è cosciente di ciò che ha fatto e questo gli riesce a dare
qualche grammo di forza. Ha amato Sirio, l‟ha odiato, l‟ha compreso,
l‟ha aiutato. Ha sperato che ce la facesse, fino a raggiungere il
fantasma della certezza. Ma la tossicodipendenza è una maledetta
puttana che aspetta che tu rimanga solo per tornare a bussarti alla
porta, offrendoti orgasmi senza sesso in cambio del tuo corpo.
Il mondo aiuta poco il debole e ancora meno l‟eroinomane,
affidandolo alla sua “forza” nascosta e a qualche vero amico disposto
a lottarci e a lottare contro la siringa che stringe nella mano. Il
mondo ti guarda, aspetta che cali il sipario e attende lo spettacolo
successivo. Il mondo non comprende. Il mondo giudica. Hai
cominciato a “farti” perché tu hai scelto di “farti”.
Tu nasci, tu cresci, tu diventi, tu muori: se salti qualche passaggio tra
il primo passo e l‟ultimo, dovrai incolpare solo te stesso, nonostante
si nasca, si cresca, si diventi e si muoia in mezzo agli altri. E se ti
butti l‟eroina nel braccio è peggio: la gente annulla il tuo passato
contandoti i buchi, rinfacciandoti senza parlare che il tuo unico
futuro è quello che dura qualche giorno, fino all‟iniezione fatale,
quella che ti leva di mezzo.
Quando Paride smette di pensare, il suo sguardo inciampa in un
angolo umido della stanza, dove la morte gli ha lasciato l‟ultima
cartolina, perché la merda è ancora lì per terra, impolverata e
bastarda. Il laccio, il cucchiaio. E quelle tre quattro macchie marroni
sono proprio grumi di sangue incrostato di Sirio.
Un urlo.
Nero.
Tutto trema, le pareti, il pavimento, ma nessun vicino telefona o
bussa per lamentarsi del casino che si sta scatenando in
quell‟appartamento. Come sempre, come tutte le altre volte. Dove
siete tutti? Dov‟eravate tutti? Genitori, amici, donne, giudici,
assistenti sociali, medici, preti, dov‟eravate? Ci siete stati solo
quando dovevo combattervi uno per uno. Io contro tutti, contro sei
miliardi di persone. Ma io non sono un eroe, non ho mai voluto
esserlo, sono solo un uomo che lottava contro due mostri, l‟amico e
la sua siringa. Ed ero solo. Sirio era solo. Ognuno con la propria
~ 361 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
debolezza, con la propria paura, con il proprio senso di colpa. Su un
palco con il pubblico che spia fuori dalle finestre del teatro.
Quando gli occhi sono secchi, Paride pesa non più di qualche
grammo. È finita, è davvero finita.
Toglie la chitarra dalla parete. Strappa la tenda dalla finestra. Scappa
da quest‟appartamento, abbandona il palco.
Quando è in strada, prende la chiave dell'appartamento di Sirio e la
getta in un cestino. Uno sguardo alla finestra priva della tenda. Il
sipario non c‟è più. Non ci sarà più nessuno spettacolo.
Capito Terra?
Gente che cammina, gente che parla, clacson, motori accesi, radio a
tutto volume. La risposta.
In quell‟appartamento non succederà più niente e nessun vicino si
lamenterà perché nessuno farà più casino per davvero. E quella
finestra tornerà a essere un buco vetrato affacciato sulla noia e
l‟orrore. Pochi secondi e Paride riprende la chiave. La stringe, se la
tatua sul palmo della mano. L‟uomo che doveva essere un eroe torna
con l‟anima piena di cicatrici in mezzo a genitori, amici, donne,
giudici, assistenti sociali, medici, preti.
Non c‟eravate prima, non ci siete adesso. Nulla è cambiato. Il mondo
proseguirà fino al prossimo uomo in meno, quello che avrà saltato
qualche passaggio tra il primo passo e l‟ultimo.
E il mondo là fuori lo oltrepasserà.
~ 362 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Keti Ippoliti
La Lavatrice
Cristina pensa che questo è un mondo di uomini, che anche avendo i
soldi, farebbero come una scimmia che non potrebbe mai entrare in
un supermercato da sola per comprarsi le noccioline. Ci sono un
sacco di cose ingiuste su questo pianeta, come ad esempio il fatto che
lei non riesca a trovarsi un straccio d‟uomo di cui innamorarsi mentre
il mondo cinguetta in amore. Ma è meglio preparare una lavatrice
che la rilassa; è un po‟ come quando hai mangiato troppo e ti si
forma un po‟ di aria nello stomaco, ma stai chiacchierando in
compagnia e non puoi liberarti del gas subito, allora vai in bagno e
contrai la pancia e anche se con un po‟ di puzza attorno, dopo ti senti
già tanto meglio. La lavatrice ha un che di liberatorio anche lei, rende
pulito ciò che la vita ha sporcato, è come rinascere e avere ancora
una possibilità, con un paio di mutande e calzini puliti. Cris va in
bagno e dalla cesta della biancheria estrae i panni e ne fa due
mucchietti che appoggia in equilibrio instabile sul bordo della vasca,
il mucchietto dei bianchi ed il mucchietto dei colorati. Ecco dove
sono tutte le mie mutande, pensa, mentre continua ad ammucchiare.
Poi decide per una lavatrice di bianchi; con gli asciugamani da
lavare e porta tutto in cucina, dove c‟è la lavatrice, la più grande
invenzione di sempre. Li infila dentro, controlla con la mano che il
cestello non sia troppo pieno, e chiude l‟oblo; ruota la manopola del
programma su „C‟ e controlla che quella dei gradi sia puntata su 40°,
apre la vaschetta e ci versa dentro un misuro di detersivo, poi
aggiunge anche un po‟ di ammorbidente, azzurro e profumato. Sopra
alla lavatrice, c‟è il cesto con le mele che sposta sulla tavola perché
nella centrifuga, la lavatrice vibra, e il cesto cammina intrepido verso
il bordo; a volte avendolo dimenticato lì, lo ritrovava, ignaro,
autolesionista, proprio sul limite. Preme il bottone di accensione e
subito l‟acqua scorre dentro alla vaschetta per prendere il detersivo
ed aumenta di livello nel cestello, poi raggiunto il giusto livello,
segue una pausa e la parte più bella, il cestello inizia a girare,
mescolando i panni che si inzuppano di acqua saponata, e girano e
~ 363 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
girano, davanti alla faccia di Cris che accovacciata, con gli
avambracci sulle cosce, li sta a guardare. Questa è una cosa che le
piace, stare lì a guardare mentre medita sui problemi del mondo, sui
suoi, su quelli del mondo, poi ancora sui suoi. Le piace, come
sognare guardando la luna piena, le esplosioni senza brutte
conseguenze, le porte che cigolano e i cani vecchi.
Sua madre le raccontava che le donne che si sposavano negli anni
sessanta, e riuscivano a farsi regalare la lavatrice, erano le più
ammirate. “Tua zia”, le diceva, “è stata la prima in famiglia ad
averla” e quando andavamo a trovarla a Natale, e ci si fermava dalla
nonna tre o quattro giorni, spesso mi portavo dietro anche le lenzuola
da lavare; faceva presto la lavatrice, e poi le stendevo in cortile, dalla
zia o dalla nonna, che avevano tutte e due la casa grande. “Poi
l‟abbiamo comprata anche noi”, e lo diceva con soddisfazione. Se la
ricorda Cris, la loro lavatrice, stava in bagno, con il cestello che si
caricava dall‟alto e che la mamma copriva con un telo, in modo che
anche appoggiandoci sopra qualcosa, non si rovinasse. L‟oblo però
non ce l‟aveva, e non si vedeva niente, ma era molto ben voluta lo
stesso.
Le gambe iniziano ad informicolarsi in quella posizione, Cris si alza
e guarda fuori dalla finestra. C‟è il sole, si asciugheranno presto i
panni. Speriamo, e non solo per quello.
~ 364 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Filippo Itolli
Breve storia di uno scrittore e di un gabbiano
Sono uno scrittore, e uno scrittore cosa fa? Scrive. Logico. No, non
tanto. Il bello però non è chiaramente qui ma nel cosa scrive, che poi
è in fin dei conti anche un come e viceversa. Ciò detto questa volta vi
voglio raccontare di un episodio a dir poco sconosciuto in quanto è
completamente inventato, anche se faccio sempre finta che sia un
mio ricordo d‟infanzia; l‟importante d‟altra parte qual è, che sia
accaduto veramente o che rappresenti qualcosa per me?
Comunque, senza divagare troppo si tratta di un gabbiano che non è
né Jonathan Livingstone né tanto meno la gabbianella del grande
Sepúlveda.
Il gabbiano in questione non è un gabbiano speciale o comunque
diverso dagli altri per chissà cosa, ha l‟unica particolarità di essere al
centro della nostra storia. Personalmente la trovo una storia
commovente, per questo la racconto agli amici, quando posso: per
ricordare che, anche se non sembra, abbiamo dei sentimenti, i nostri
sentimenti.
In tutta sincerità anche quando sono solo ogni tanto me la racconto
per commuovermi un po‟. Ma ora basta tergiversare. La storia
comincia più o meno così: non era molto il vento che, verso sera,
accarezzava le onde del mare aperto ma di certo si poteva caldamente
sentire quella mano che dolce e leggera vi si appoggiava sopra, quasi
ad avvolgerle.
Per un momento era come se il male, i brutti pensieri, le durezze
della natura e ogni altro genere di imperfezione non esistessero.
Come poteva esistere il male, si chiedeva, in un mondo così? Dove si
nascondevano i dolori del cuore in una bellezza così disarmante, si
chiedeva il gabbiano. No, non riusciva a trovare risposta; ammesso
poi che ce ne fosse una.
Tutto, nel suo spirito, era inondato di quella bellezza così profonda e
antica; si accorse della sbalorditiva grandezza di quell‟armonia e si
mise a pensare all‟ emozione che provava di fronte a quello
~ 365 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
spettacolo. Di certo, pensò, è in quei momenti che si viene ripagati
dello sforzo di essere nati.
Riusciva persino a sentire l‟aria entrare nei suoi polmoni e riempirlo
di quella freschezza e di quel silenzio sacro che racchiudeva tutto il
globo in un abbraccio meraviglioso e sublime dal quale mai e poi
mai avrebbe voluto divincolarsi.
Si sentiva come coccolato dolcemente da una madre amorevole che,
in ogni istante, avrebbe dato la vita per lui. Capì, in quel momento, di
essere vivo. Veramente vivo.
Guardò in basso e vide che insieme a lui, appena sotto il luccicante
livello del mare, correvano banchi di pesci. Chiese scusa per tutte le
volte che ne aveva mangiato uno.
Non sapeva bene, né lui né i suoi compagni, per quale motivo in
realtà fosse in grado di volare però volava ed era questo che contava
e ogni volta che era a terra si ripeteva sempre che, se non fosse mai
più stato capace di farlo, avrebbe preferito morire.
Non poteva sopportare l‟idea di non sentire mai più quella mano di
padre che lo teneva su, senza abbandonarlo mai, e lo faceva
volteggiare nell‟aria senza chiedergli nulla in cambio.
Mai come allora avrebbe voluto che, qualora fosse esistito, il
paradiso assomigliasse proprio a quel momento, e a nessun altro. La
perfezione della natura era racchiusa lì. Nulla di più intenso aveva
mai incontrato il suo cuore.
Ogni volta che si sentiva stanco cominciavano a stagliarsi, nella
nebbia, le nette linee delle scogliere che da sempre gli davano riparo
e riposo. Era strano come, sempre quando aveva bisogno di requie,
loro fossero lì ad aspettarlo.
Volle però fare ancora un giro, non voleva che quel momento così
magico finisse e ancora una volta si tuffò, con un colpo di ali, nella
dolce solitudine che avvolgeva le sue piume bianche e setose.
Dopo essersi di nuovo imbevuto dell‟indimenticabile sapore del cielo
e del mare di quella sera di Maggio decise di tornare sulla terra dalla
quale era partito e dove impazienti lo aspettavano i suoi amori.
Il Sole allora salutò la gabbiana più bella della scogliera e i suoi
piccoli e, col suo ultimo raggio, le fece vedere, negli ultimi rossori
del cielo, suo marito tornare.
Così un‟altra giornata di volo si era conclusa.
~ 366 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mike Labellarte
In fuga con te
Giorgio era uno dei miei migliori amici tra i colleghi. Uscivamo
insieme abbastanza spesso e tra di noi c‟era un rapporto
confidenziale, fatto anche di piccoli segreti che custodivamo
gelosamente. Da tutto quello che ci confidavamo non era mai nato un
pettegolezzo in ufficio.
Sposato con Renata dopo parecchi anni di fidanzamento, conduceva
una tranquilla vita matrimoniale da più di 4 anni.
Un giorno mi chiese, in forma molto generica ed elusiva, se potevo
aiutarlo a risolvere un problema urgente al suo computer di casa.
C‟era qualcosa di strano nella sua richiesta: mi meravigliai che
lui,benché più bravo di me, non avesse le competenze e le capacità
per risolvere un problema ad un computer.
La sera stessa andai a trovarlo casa sua verso le 19. Renata tornava
dal lavoro attorno alle 21 – mi disse - dipende dal lavoro e dal
traffico. Renata faceva l‟infermiera in nero presso uno studio
dentistico e l‟ora del ritorno dipendeva dal numero di pazienti nello
studio.
Mi fece accomodare in salotto e iniziò un lungo e generico discorso
sui suoi rapporti con Renata usando parecchi di giri di parole. Rimasi
confuso; riuscii solo a intuire che c‟era qualcosa che non funzionava
più tra loro.
Le cose avevano preso una brutta piega negli ultimi 2-3 mesi. Aveva
scoperto che Renata aveva iniziato a chattare abitualmente e
frequentemente. A sera, con la scusa di avere del lavoro da finire o di
avere delle ricerche da fare su internet andava a letto tardi. Stava
diventando strana, diversa dal solito.
E poi gli era venuto un dubbio. In una cartella si erano accumulati
una sequenza cronologica di log di chat ben criptati che lo avevano
insospettito. Lui sapeva che io ero appassionato delle tecniche hacker
e mi chiese se potevo aiutarlo a sciogliere questo dubbio decrittando
alcuni di questi log.
~ 367 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Lui, per rispetto della moglie, non voleva neppure conoscerne il
contenuto. “A meno che” - mi disse- “a meno che tu non ritenga che
ci sia qualcosa di importante o grave di cui io dovrei esser messo a
conoscenza. Valuta tu, ho piena fiducia in te e tu sai quello che
voglio dire”.
Io lo guardai perplesso. Una bella responsabilità! E se Renata viene a
sapere che abbiamo spiato trai suoi documenti? Sicuramente non mi
perdonerà mai! Fare hachering contro una persona che conosci e a
sua insaputa mi pareva un po‟ infame. Moby Dick – il nome della
mia coscienza -insisteva perché rifiutassi immediatamente quel
compito.
Per smarcarmi dissi che qualunque cosa avessi scoperto in quei log,
essi andavano valutati approfonditamente. Renata poteva benissimo
recitare una o più parti che magari non corrispondevano alla sua
personalità vera e profonda. Potevano essere dei semplici
divertissement, giusto per distrarsi o prendere in giro il popolo della
chat, almeno quello più beota.
Giorgio si fece serio. Aveva il presentimento che avrei scoperto ben
altro; insistette moltissimo. Gli occhi si fecero lucidi per le lacrime.
Aggiunse: “Fallo anche per lei; magari siamo in tempo per evitare
che finisca in qualche pasticcio”.
Quest‟ultima considerazione fu decisiva. Fui costretto a cedere;
Renata mi stava simpatica e temetti che, effettivamente, fosse stata
irretita da uno dei tanti marpioni che popolano le chat internet. Non
ero comunque del tutto tranquillo; sentivo di fare qualcosa che
andava contro i miei principi, la mia etica, ma confidavo sul
presentimento di Giorgio.
Presi con me quei files e li portai sul computer di casa. L‟algoritmo
di criptaggio era molto severo e la chiave sicuramente sofisticata.
Provai parecchi programmi di criptoanalisi e riuscii a venirne a capo
solo dopo due settimane, quando stavo abbandonando ogni speranza.
Il processore del mio computer era prossimo alla fusione, visto che lo
avevo tenuto acceso per un tempo così prolungato e il programma
che avevo usato era stressante.
La password era “in fuga con te”, in fuga con te! che suonò come una
premonizione prima ancora di leggere i log…Il loro contenuto poi
confermò ogni mia più fosca previsione! Renata chattava
abitualmente con un certo Alex di Roma e tra di loro si era stabilito
~ 368 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
un certo feeling. Dovevo stare attento a però a comprendere bene
quello che stava accadendo tra di loro. Giorgio mi chiedeva ogni
giorno cosa stavo combinando, a che punto ero, che speranze
c‟erano. E lui comunque mi aveva confermato che non voleva
leggerli quei log; mi chiedeva solo se c‟era qualcosa di cui doveva
preoccuparsi. Io li lessi e rilessi più volte quei benedetti log. Alex
aveva fatto leva su uno stato di debolezza psicologica di Renata. La
invitava ora a “tuffarsi nella vita” ora a “dare uno scatto” alla sua
vita, ad “abbeverarsi alla sorgente dell‟amore” ma le sue citazioni mi
sembravano un mucchio di luoghi comuni. I log erano poi colmi di
poesie, citazioni d‟amore, aforismi amorosi. Insomma non si parlava
d‟altro delle virtù di questo sentimento che ritornava ossessivo nei
loro dialoghi:
Moby Dick mi suggerì se era l‟amore che qualcuno definì l‟oppio dei
popoli…Ti sbagli le dissi, era la religione, ma anche l‟amore, alle
volte, diventa una droga. Nei log c‟erano tutti: Leopardi,Baudelaire,
Hikhmet, Catullo, Ovidio, Neruda, Gibran, Wilde; insomma il
volpone possedeva l‟intero catalogo dei romantici.
Non conoscevo abbastanza Renata, ma mi sembrava colpita da quei
versi che commentava con entusiasmo.
C‟era un errore che lei stava commettendo - dissi a Moby Dick -. La
sensazione che avevo io era che lei vedeva dietro quei versi Alex,
come se costui fosse la materializzazione del sentimento d‟amore che
lui sapientemente diffondeva. Come aveva scritto terribilmente bene
Aldo Busi nel Seminario sulla Gioventù:
“… il rito dell‟adescamento sentimentale, dire certe parole, assumere
certi atteggiamenti, plasmarli a immagine di quelli dell‟altro sin a
farli diventare una proiezione illusoriamente esatta dei suoi desideri
più inconfessabili, perché infine mi affidi la sua anima, me la getti in
pasto”.
Quando poi Alex si esprimeva diciamo a parole sue non riusciva ad
andare oltre la pura banalità, non era irresistibile come quando usava
le citazioni dei suoi autori preferiti. Anzi, alle volte diceva autentiche
castronerie! Tra l‟altro mi urtava il suo modo cinico di invitare
Renata a liberarsi di Giorgio, quasi fosse diventato un peso o un
elefante.
Non voglio parteggiare per Giorgio, probabilmente Alex era la
migliore persona del mondo, ma il mio timore era che Renata stesse
~ 369 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
per compiere delle scelte frettolose, stesse per effettuare un salto
dall‟altra parte del fosso che sarebbe potuto diventare un baratro
impedendole poi di poter tornare indietro. Lei aveva tutto il diritto di
pretendere una esistenza diversa e migliore ma temevo che non fosse
abbastanza smaliziata per capire le reali intenzioni del suo
interlocutore.
In tutte queste considerazioni influisce certamente un mio
pregiudizio che non esito a confessare. Se un uomo (o una donna) ha
una cultura e passione così vaste di certi argomenti e questi sono
parte sincera e profonda della propria personalità e sensibilità,
dovrebbe essere circondato di donne (o uomini), non dovrebbe
neppure avere il tempo di chattare per dedicarsi a loro. Il suo fascino
personale e sociale dovrebbe essere irresistibile. Molto spesso,
invece, quei temi finiscono con l‟essere un puro nozionismo digitale,
collezioni vacue di poesie e versi da usare come frecce per colpire
persone particolarmente indifese ad essi. Insomma l‟Alex di cui lei si
era forse innamorata non mi sembrò una persona genuina.
Infine, per essere imparziale, ammisi che Alex aveva dalla sua la
capacità o la voglia di ascoltare i lunghi monologhi e sfoghi di
Renata che, per un suo stato d‟animo particolarmente depresso,
aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno.
Non so perché questo qualcuno non sia stato Giorgio, suo marito.
Certamente c‟è anche da fare una considerazione sulla potenza della
chat come strumento di comunicazione. In chat riesci sempre a
trovare qualcuno che ti ascolta e dialoga con te: trovi interlocutori e
sei interlocutore. Sei obbligato ad esserlo. Alle volte anche
contemporaneamente con persone diverse, quando riesci ad avere più
sessioni attive. La chat è la nuova agorà digitale della società
moderna. In casa o in famiglia, i momenti di dialogo e
comunicazione sono sempre più rari, presi come siamo dagli impegni
e dal più terribile dei virus della vita di coppia: la quotidianità:
“Ma se domani io
mi accorgessi che ci stiamo sopportando
e capissi che non stiamo più parlando
ti guardassi e non ti conoscessi più
io dipingerei di colori i muri
e stelle sul soffitto
ti direi le cose che non ho mai detto
~ 370 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
che pericolo la quotidianità
e la tranquillità”.
“E ora?” - mi chiese Moby Dick -.
Dopo qualche minuto di riflessioni dissi: “Proviamo a vedere se
riusciamo a fare qualcosa. Per tutti e due.” Sicuramente nella mia
decisione influirono i versi di Emily Dickinson (una delle mie guide
spirituali):
“Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano.
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano”.
Il giorno dopo dissi a Giorgio che Renata chattava abitualmente con
tale Alex di Roma e che tra i due c‟era una „certa‟ simpatia. Fui
molto sintetico e sbrigativo. Non calcai la mano. Lo invitai solo a
ripensare il suo rapporto con Renata partendo da una maggiore
sensibilità verso di lei e aumentando in quantità e intensità i loro
momenti di dialogo.
“Roma? hai detto Roma?” mi chiese in modo esagitato.
Si, Roma! risposi. Anche se potrebbe non esser vero…magari è una
bugia.
Sai che Renata andrà a Roma proprio questo fine settimana. Per
motivi di lavoro … mi ha detto…
Un dubbio ci colse, ma Giorgio mi salutò bruscamente e andò via.
Non ebbi più modo di parlarci per parecchi giorni.
Un paio di settimane più tardi - ero stato per motivi di lavoro a Parigi
- quando avevo quasi dimenticato la loro storia, Giorgio venne a
trovarmi in ufficio.
“Riusciresti a contattarlo via e-mail?” mi chiese. “La situazione è
diventata difficile. Renata mi ha comunicato ufficialmente che c‟è un
altro nella sua vita e che vuole essere lasciata in pace per un po‟. Ha
bisogno di riflettere sul nostro rapporto.”
“In che guaio ti sei cacciato!” mi disse preoccupata Moby Dick. Mi
ero proprio infilato in una coppia che scoppia.
~ 371 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
La sera stessa, visto che conoscevo il suo nick, lo contattai. Gli dissi
che ero amico di Renata e che volevo parlargli di lei. Lui sapeva che
Renata era sposata. Gli dissi anche che saremmo andati a
trovarlo io e suo marito e che non aveva nulla da temere: avrei
garantito io che il loro dialogo si sarebbe svolto correttamente e
civilmente. Riuscii a vincere la sua resistenza (mi inventai che il
marito avrebbe potuto citarlo in giudizio per una eventuale causa di
divorzio) e ottenni un appuntamento per la domenica pomeriggio
successiva.
Infatti, la domenica successiva eravamo a Roma a casa sua: un
appartamentino sulla Portuense. C‟erano anche alcuni suoi amici a
sentire le partite di calcio alla radio in un‟altra stanza. Io mi unii a
loro, lasciando Alex e Giorgio da soli in un‟altra stanza. Alex viveva
in affitto in quell‟appartamento; era di fuori e lavorava a Roma
presso un Ministero. Conversarono per circa un‟ora, dopo di che ce
andammo e i due neppure si salutarono.
Giorgio mi raccontò che in realtà l‟iniziativa l‟aveva presa Renata e
che Alex era interessato a lei,ma solo fino a un certo punto. Renata
era una sua simpatica amica come ne aveva conosciuto tante;verso di
lei nutriva certamente affetto ma era lei, più che lui, che lo
alimentava. Di fronte alle implorazioni di Giorgio a lasciarla per un
po‟ in pace, Alex promise che non si sarebbe fatto sentire per un po‟.
Lui però era uno a cui piaceva vivere pienamente la vita, cogliere le
opportunità che questa offre. Se il destino mette in contatto due
persone è giusto che sia il destino a dividerle – disse- l‟importante è
assecondarlo! E poi, perfido, insinuò: la crisi c‟era già nell‟aria tra di
voi; non sono stato io a provocarla!
Tralascio gli aggettivi che usammo nei suoi confronti. Mi feci
l‟impressione di una persona molto egoista e, quel che è peggio,
opportunista. I versi d‟amore che spargeva in chat avevano prodotto
in lui pochissimi germogli.
Per buona parte del viaggio di ritorno Giorgio disse pochissime
parole, né io riuscii a distrarlo.
Qualche mese dopo gli eventi precipitarono. Giorgio e Renata
avviarono le pratiche di divorzio. Per fortuna non avevano bambini.
Renata si era trasferita a Roma, andando a vivere con Alex. Quel
romanticone pretendeva che lei pagasse una quota dell‟affitto
dell‟appartamento, nonostante lei fosse alla ricerca di un lavoro. Me
~ 372 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
lo raccontò lei, quando la incontrai più di un anno dopo, per puro
caso, a casa di amici. Tra lei e Alex era finita; lui aveva già
conosciuto un‟altra, un‟altra opportunità che la vita, purtroppo, offre
a chi non le merita.
A Renata non era dispiaciuto più di tanto: "gli puzzava l‟alito"
aggiunse sorridendo.
Non mi sembrò che serbasse rancore nei miei confronti, segno che
Giorgio aveva sapientemente nascosto il mio intervento “esterno”
nell‟epilogo della loro storia d‟amore.
Con Giorgio si sentiva soltanto per aggiornare le pratiche di
separazione.
Mi disse anche che era stata costretta a tornare a vivere con i suoi e
che era in cerca di lavoro (nello vecchio studio dentistico non
l‟avevano ripresa, dopo che li aveva mollati per andare a Roma) e
che,per il momento, non aveva impegni sentimentali né era
interessata ad essi. Non so dire se la sua fuga era finita o
continuava…
~ 373 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Roberto Lacarbonara
La vita vive se stessa. Eluana mi disse…
Prese dalla borsetta il libriccino grigio, una vecchia copia di un
vecchio saggio che stava leggendo il babbo. Aveva sempre la
prontezza di dare a ogni nostro discorso uno spessore ed una
ricchezza esaltanti quasi a voler rilanciare la parola lungo pensieri,
citazioni e riferimenti al di là di noi e del nostro dire. Questa volta
(forse aveva solo più fortuna di me in quella provvidenzialità
filologica!), non appena tornammo a parlare di noi e del viaggio che
avremmo fatto appena fosse giunta la primavera, prese a leggere
senza che nemmeno avessi il tempo di chiederle cosa fosse quel
libro.
“Jakob, guardando le vacche destinate al macello, pensò che al
termine dei loro giorni anche per esse vi fosse salvezza e prese a
recitare il Kaddish, la preghiera funebre, per la piccola farfalla bianca
che ha vissuto un sol giorno e senza peccato”.
Da qualche giorno Eluana non era più la stessa. Aveva sempre in
mente quella maledetta prognosi che il dottor Pinìco (che noi
chiamavamo di nascosto “dottor Cinìco”, per la sua connaturata
brama di catastrofismo) aveva improvvisato. Certo, le aveva detto
mille possibili complicazioni post-operatorie ma lei s‟era fissata con
le più estreme fobie paralitiche.
“Ma smettila Elu! Che pizza… come fai a sceglierti tutti sti romanzi
pallosi?”
Mi guardò dall‟alto in basso e sorrise. Beh, in basso stava lei, distesa
sul suo lettone: ma quando voleva sbattermi in faccia le mia
inopportuna superficialità mi faceva sentire piccolo così.
Presto inspirò a bocca aperta; stava per inveire qualcosa… “Sì, sì, lo
so: il giudizio è comodo dall‟esterno, ma scomodo dall‟interno! Vedi
Elu, questa volta t‟ho fregata!”
Sì, per una volta quella solita frase che Elu diceva sempre quando
qualcuno vagheggiava opinioni senza cognizione di causa, avevo
voluto anticiparla io. E ne godevo tantissimo!
~ 374 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Mi ricordai improvvisamente che avevo con me una lettera del suo
papà. L‟influenza lo teneva a casa da quattro giorni e già lo
immaginavo, Beppino, a scrivere le sue carte, lettere e versi. Elu non
lo aveva mai detto esplicitamente, così orgogliosa com‟era, ma
quanto invidiava il padre nello scrivere!
Lei ogni tanto aveva buttato giù dei versi. Una volta mi telefonò
leggendomi delle righe con un tale entusiasmo che pareva fosse
Dante dopo i primi cento versi venuti bene. Ed effettivamente ricordo
che le prime frasi del suo libro erano di un candore e di una
sensibilità illuminanti. Peccato che il libro fosse ancora lì, fermo a
pagina venti, venticinque suppergiù. Ma lei lo finirà presto, appena
fuori dalla sua asettica stanza d‟ospedale che nemmeno un versetto
“bacio-perugina” potrebbe mai ispirare.
“La vita vive se stessa”. Queste le parole d‟esordio di quel suo
romanzo, o così più o meno ricordo.
Ma le porsi subito la lettera… “Vuoi che la legga io? E
figuriamoci… Ehi bella, da quando sei qui, stai diventando una
pigrona!”
Non potevo biasimarla però. Presi a leggere.
“Ciao amore.
Uno a zero per te. Hai ragione: due giorni a letto con l‟influenza e ci
si sente persi. Certo io non sono forte come te, corro subito a
disperarmi con la mamma al primo colpo di tosse. Ma in quante cose
vorrei assomigliarti di più!
Elu, stavo ripensando a quel discorso che facemmo un giorno a
scuola, nell‟attesa dei colloqui di classe. Non ricordo come
giungemmo a parlarne, ma mi resta ancora ben in mente il tuo
discorso sulla dignità. Ti riferivi al tema d‟italiano su Baudelaire che
avevate fatto la mattina stessa e mi dicesti: “Papà ho scritto solo
quello che vorrei il mondo pensasse. Magari neanche io riesco a
pensarlo ma dovrebbe funzionare così. Il male per me è ciò che toglie
dignità. Ciò che la infetta, la deride, la delude. Baudelaire c‟ha
ragione: il male è il gusto, il sapore del niente. C‟è forse un male più
grande che sentirsi appesi al vuoto e fissare dentro di esso con occhi
ciechi?”
Elu ricordo ogni parola che mi dicesti quel pomeriggio perché
mentre parlavi ci interruppe la prof, tu la seguisti e io trascrissi le tue
~ 375 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
parole. E appena tornasti, con la tua solita faccia da schiaffi, dicesti:
“babbo, la prof si è incazzata per il tema che ho fatto!”
“Perché” ti chiesi?
“Perché ha passato la notte sveglia a leggerlo e rileggerlo!”
Elu, sei davvero in gamba. Spero di abbracciarti presto e di portarti
via da lì, da quella stanza che la dignità sembra toglierla davvero.
Anche se tu hai una fibra fortissima e non molli mai!
Un abbraccio immenso.
Papà.
Mi accorsi di tremare. Mi accorsi di avere tra mani la pienezza
dell‟amore e davanti a me la leggerezza dell‟esistenza con tutti i suoi
colori e suoni e speranze e libertà nascosti nel cuore di Elu.
Mi accorsi anche che Elu, occhi lucidi e palpebre pesanti, stava per
addormentarsi.
Non volli aggiungere altro. Mai mi riusciva di aggiungere altro alle
parole di lei e di Beppino: che coppia!
Le diedi solamente un bacio sulla fronte e le tolsi di mano il
libriccino grigio che aveva con sé.
Non potevo fare a meno di notare la frase sottolineata a pagina 44…
“Visto che Dio non ha creato niente di buono dovevo trarre piacere
dal male. Chissà. Forse il male è bene”.
La solita Elu, pensai. Aveva il gusto di mettere in crisi il mondo
benpensante.
La lasciai sola. Sola con Isaac Singer sul comodino. “Lo schiavo” –
pensai. Appena finisce me lo farò prestare.
~ 376 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Giorgio Lamprecht
Le pizie
Chi sono quelle donne che con passo deciso, vanno camminando
lungo i viali a mare?
Sono le “Vestali del Sole”, o meglio, le «Vestali effettive»!
Scese di primo mattino dagli appartamenti dove hanno trascorso la
notte, sole o in coppia, incedono a lato della via, ad impetrare il
favore di Febo, il Sole, che là nel cielo splende per tutti e con
speciale beneplacito, per queste «pizie» o «pitonesse», come dir si
voglia.
Ma è il dio Sole che invocano perché le inebri con i suoi raggi, o
piuttosto la dea Venere, antesignana della bellezza femminile perché
disciolga i pingui lombi e tutto il butirro che ha invaso
inopinatamente il loro corpo?
Chi in calzoncini corti quando più quando meno sul ginocchio in
rapporto all‟età del contenuto, e sopra una T-shirt colorata per
vivacizzare l‟aspetto sgualcito dal tempo; chi in tuta ginnica
completa che adombri lo spirito d‟atleta che aleggia
nell‟indossatrice; chi in jeans e T-shirt per sottolineare la devozione
alla vita all‟aria aperta; chi in fuseau e T-shirt per sottolineare
l‟intimo rapporto con la natura che le fa sentire api operose aleggianti
di fiore in fiore a suggere il nettare della vita.
I volti sono privi di trucco, neanche un filo, perché la pelle traspiri al
meglio per ingraziarsi i raggi del Sole che le guarda si sottecchi con
un sorriso per la loro devozione.
Le T-shirt o altro cover-up avvolgono seni di più o meno passata
dirompenza, sostenuti da coppe funzionali alla portanza del
contenuto. Nell‟andare tutti quei seni ballonzolano attirando qualche
attenzione dei passanti.
Ai piedi portano tutte senza distinzione, scarpe da ginnastica
dell‟ultimo grido perché i piedi vanno curati e conservati! Le
calzature hanno i colori più disparati: oro, argento, celeste o
azzurrino, rosa o verdolino, oppure bianco, e perché no, per un po‟ di
civetteria che non guasta; con puntini, con arabeschi, con righe
~ 377 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
variegate o scritte, e poi lacci o riporti di chiusura in tinta. Scarpe
perfette, in linea con la moda sportiva del momento!
E vanno, vanno, vanno.
L‟incedere è deciso e forte: appaiono essere tutte figlie di Hermes
scese sulla terra a portare messaggi dall‟Olimpo.
Il passo è sempre sostenuto. Per apprendimento comune (sono i
mass-media che insegnano), il passo deve essere svelto e veemente
perché questo è il momento della vigoria, quello nel quale il
femmineo corpo deve dare la maggiore espressione fisica. Più tardi le
ore del giorno non permetteranno di assalire il tempo con tanto
impeto, è quindi giocoforza approfittare del relax che offrono
l‟ambiente e l‟ora, per permettere ai corpi di estrinsecarsi.
Vanno con il petto in fuori per respirare a pieni polmoni l‟aria che a
quell‟ora, risulta incontaminata, ragion per cui va assorbita e
incamerata nei polmoni per il resto della giornata quando in virtù
propria, sarà ridata all‟atmosfera emettendola con il chiacchierare
continuo sia telefonico, sia d‟incontro, sia di qualsivoglia tipo, quelle
forme che contraddistinguono le «Vestali effettive» poiché
importante è parlare: “Foemina sine verbo, no foemina”.
Chi con i capelli sciolti come fosse una valchiria, anche se manca di
forme giunoniche ed è bassetta; chi con i capelli raccolti a coda di
cavallo, sì da rassomigliare a Nausicaa appena uscita dal bagno; chi
con i capelli tagliati cortissimi a bella posta per sentirsi più mascolina
e giovane, senza accorgersi dell‟evidenza opposta raggiunta; chi con
i capelli a caschetto per avere un‟aria più sbarazzina, che rende
palese il sorpasso epocale ormai raggiunto.
Camminano, camminano, camminano; tutte camminano!
Da dietro, sono tanti «deretani» in movimento che incedono con il
passo eroico di chi si appresta all‟ormai prossima tenzone. Quello più
tondo e pieno, rotea e ballonzola in un moto di rivoluzione senza
fine; quello piatto si muove stancamente perché non contiene nei
glutei la materia per rappresentare lo spostamento dovuto all‟azione
delle gambe; quello rilassato è come trascinato dal passo delle
gambe, e non sente affatto le falcate impresse dal basso; quello a pera
che per la sua attaccatura sembra racchiudere chissà quale primizia,
ed invece è sostenuto in basso in due fuselli senza consistenza; quello
a doppia melanzana lunga che riprende le curve dei frutti della terra,
ma scende in basso tirandosi appresso l‟inviluppo grassoccio di
~ 378 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
quanto posto sopra; quello assente del tutto, dei tipi mascolini e
anoressici che fanno invidia perché come le top-model in carta
patinata, il quale data la configurazione, è «culo» solo perché nel
fondo-schiena, mentre non ha significato alcuno.
E vanno, vanno, vanno.
Sotto il sole, lungo il percorso a mare, è uno sfilare continuo, anche
se frammentario. Procedono senza sosta. Il sudore che a seconda
della persona, scende ad irrorare i volti ed i corpi, non le ferma. Le
salviettine, i fazzoletti e quant‟altro portato nella tracolla per la
bisogna, servirà ad allontanare la fastidiosa secrezione che comunque
ben venga per il ritempramento del corpo. Sono donne votate al
sacrificio, consacrate ormai da tempo agli Dei che scorgendole
lontano, possono guardare loro con comprensione.
E vanno, vanno, vanno. Vanno, vanno, vanno.
Il favore degli Dei è ora impetrato. Il tempo stabilito da ciascun
manipolo è terminato. I visi non più teneri perché la pelle non dà al
volto il sostegno che ciascuno vorrebbe, sono tutti atteggiati però a
piena soddisfazione. Tutte sono dimentiche di ogni ambascia della
vita che le possa disturbare. Al termine dell‟essersi prostrate al
servizio alla bellezza, sulle facce si legge la piena soddisfazione del
bene raggiunto. Ora, sono tutte rigenerate.
“È stata una passeggiata di vera soddisfazione”, “l‟altre volte non si
era respirato così bene come stamane”, “oggi mi sento veramente in
forma”, “chissà se domani il tempo ci permetterà ancora di fare una
passeggiata come oggi”, “dovremmo tenere un‟andatura più
sostenuta”, “con questo sole si comincia anche ad abbronzarsi”,
“dopo la passeggiata di ieri l‟altro, ero a pezzi, ma quella di oggi mi
ha fatto riprendere”, “ad un tratto mi sembrava di avere uno
stiramento muscolare, ma continuando imperterrita, il dolore è
passato”, “certo bisogna avere costanza e venire tutti i giorni per
sentire un beneficio”, “il mio medico ha cui ho raccontato delle
passeggiate, dice che mi trova più in forma”, “il mio dice che se
continuo così dovrà darmi degli steroidi”, “il mio dice che mi trova
in gamba e sarebbe meglio che prenda degli ormoni”, “al pomeriggio
io preferisco sdraiarmi un po‟ perché altrimenti arrivare a sera mi
diventa pesante, specie ce devo uscire dopo cena”. “Ma anche l‟altra
attività, mi capisci, se ne avvantaggia. Francesco non riesce a starmi
dietro!”.
~ 379 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Via, via, via l‟universo delle chiacchiere femminili si snocciola nel
riferirsi i risultati del servizio d‟onore fatto alla propria corporeità
che, se nessuno trova trasformata o migliorata, solleva l‟animo
dell‟interessate. La funzione di Pizia ha permesso ciascuna di salire
lungo il versante opposto a quello di una vita qualunque che, nel
momento dell‟offerta sacrificale, era obliata perchè tesa alla ricerca
della grazia dimenticata, anzi passata.
Il sacello di Febo, e quello accanto di Venere, quest‟oggi sono
inondati di eletti profumi che salgono al cielo in virtù delle offerte
delle «Vestali effettive» che, con la loro dedizione, sperano ogni
giorno di ottenere dagli Dei i favori impetrati.
p.s.
Per amor di giustizia, un po‟ diversi, ma non da meno, sullo stesso
percorso vanno pure dei tedofori, che spinti alla corsa, vanno
ansimando lungo gli stessi percorsi.
~ 380 ~
~ Le storie di Io Racconto ~
Ringraziamenti
ll Premio Nazionale Io Racconto è giunto alla sua terza edizione, compiendo
grandi passi da quando, nel 2008, ha preso il via con l‟invito, rivolto ai lettori di
Firenze Trova, di contribuire con piccoli racconti ai contenuti del giornale. Tutto
questo non sarebbe stato possibile senza lo sforzo congiunto del personale di
Assopiù Editore e dell‟Associazione Culturale Musa, entrambi di Firenze, degli
sponsor che hanno creduto in noi e nel nostro progetto, come Euronics, Siae,
Carapelli, OPE. Grazie a Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di
Firenze che ci concedono il loro patrocinio. Voglio anche ringraziare gli amici e
partners che svolgono con passione il loro lavoro, ci arricchiscono con la loro
amicizia e collaborano con noi al buon esito del Premio: grazie quindi a Romano
Editore di Firenze, a Racconti di Città, alla Compagnia delle Seggiole, FIAF,per
l‟aiuto concreto, la disponibilità, lo spirito di gruppo. Grazie anche a Claudio
Gherardini e Martina Manescalchi che hanno seguito i numerosissimi amici del
gruppo di Facebook dal quale ha avuto origine la Giuria dei Lettori. Questa giuria
e la giuria di esperti, si sono accollate un notevole lavoro di screening e giudizio: a
loro tutta la mia stima e la mia profonda riconoscenza. Un sentito ringraziamento
anche al Dr. Giancarlo Passarella che cura i nostri rapporti con la stampa e ci segue
fino dall‟inizio.
Tutto questo è tanto ma sarebbe niente se gli autori non avessero creduto in noi e
nel nostro progetto. Grazie, dunque, ai 1.300 iscritti a questa terza edizione: grazie
per esservi messi in gioco e averci resi partecipi delle vostre opere, interessanti,
commoventi, divertenti, istruttive. Grazie ai partecipanti junior delle varie sezioni:
narrativa, poesia, fotografia, testi di canzoni. A loro l‟augurio di continuare nel loro
percorso artistico cogliendo sempre maggiori successi, con i complimenti della
redazione per il buon livello dei loro elaborati.
Un grandissimo grazie a tutti i tecnici che hanno reso possibile lo svolgimento del
Premio, primo fra tutti Roberto Gasparri e, per la stampa dei libri, Valerio
Marucelli, Furio Raggiaschi, Marco Nuti. Un grazie di cuore a Rachele Ignesti, per
il suo preziosissimo lavoro di editing.
Concludo con le scuse verso coloro che involontariamente non ho nominato: hanno
comunque tutta la mia riconoscenza.
Donatella Bellucci
Coordinatrice
~ 381 ~
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Le Storie di IORACCONTO3 volume B - anno 2010-2011