Pubblicazioni
ERVING GOFFMAN - «
Stigma, l'identità negata » - Bari, Laterza, 1970.
TV7 del 1° maggio scorso ha dedicato un servizio a un esperimento unico
in Italia: « Casa Serena ». Si tratta di un luogo di cura per malattie nervose,
dove i degenti si chiamano « ospiti » e i medici « operatori ». Non sono i termini, però, che contano, che sanno di novità. Il sistema, avversato sul piano
scientifico, consiste nell'applicazione di metodi ispirati alla sociologia accanto
ai normali metodi terapeutici. I malati hanno assoluta libertà di movimento,
d'espressione, di cura. Possono uscire e rientrare, invitare amici e parenti a
feste danzanti, riunirsi liberamente tra loro e con il personale della « casa » e
per decidere l'accettazione d'un altro curabile, discutere con medici e assistenti sulla terapia, gli effetti, i progressi, le crisi. La loro è una specie di
comunità nuova, il cui pericolo più grave è quello di un nuovo (stavolta auto)
isolamento dalla società dei sani. Ciò che comprometterebbe un definitivo recupero.
La società li ha « stigmatizzati », ma c'è il rischio che, da soli, ne costruiscano una in cui potersi muovere senza eccessiva preoccupazione, con l'unico
impegno di rispettare gli altri (che si sanno stigmatizzati) e di comunicarsi periodicamente.
« Stigma » è un libretto notevole in senso sociologico. L'A, divide la società,
meglio fotografa l'umanità divisa, in tre gruppi di stigmatizzati. Al di fuori
stanno gli altri, i non segnati in attesa (inconsapevole forse) di esserlo.
Goffman si avvale di numerosi esempi nel corso del saggio. Le pagine spesso sono piene solo di tristezze, miserie umane. E' un groviglio di situazioni
sconvolgenti, eppure a portata di mano, che coinvolgono il lettore, anche meno
attento. La psicologia sociale si applica ai rapporti tra stigmatizzati, tra questi
e gli altri, tracciando ogni sorta di sfumatura destinata a segnare il passaggio
da una categoria all'altra. « A Goffman — è l'introduzione di Roberto Giammanco — interessa soprattutto mostrare la dinamica dell'interiorizzazione, il
modo in cui lo stigma finisce per diventare, per chi lo ha, una specie di condizionamento autonomo che raramente ha bisogno di essere rimesso in moto
dall'esterno » (p. 10).
Stigma, o marchio (dal greco: puntura), è parola usata in origine dai greci,
« i quali sembra fossero molto versati nell'uso di mezzi di comunicazione visiva
(...). Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo e
rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un
traditore, comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato
specialmente nei luoghi pubblici. Più tardi, dopo il sorgere del Cristianesimo, a
questo termine vennero ad aggiunsersi due livelli metaforici. Il primo si riferisce ai segni corporei della Grazia, che prendevano la forma di sfoghi della
pelle, e il secondo ai segni corporei del disordine fisico. Era quest'ultimo una
allusione medica alla allusione religiosa. Oggi il termine è largamente usato in
quello che potremmo chiamare il suo originario senso letterale, ma si applica
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più alla minorazione che alle prove fisiche di essa. Inoltre ci sono stati dei
cambiamenti nel tipo di minorazione che suscita ribrezzo e preoccupazione »
(p. 15-6).
Di tale premessa, di carattere storico-etimologico, l'indagine dello studioso
americano si svolge spietatamente umana, denunciando una società ricca di
contraddizioni negative. In essa l'A. scopre tre impronte di stigma. « Al primo
posto stanno le deformazioni fisiche; al secondo gli aspetti criticabili del carattere che vengono percepiti come mancanza di volontà, passioni sfrenate o
innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà. Tali aspetti sono dedotti,
per esempio, dalla conoscenza di malattie mentali, condanne penali, uso abituale di stupefacenti, alcoolismo, omosessualità, disoccupazione, tentativi di suicidio e comportamento politico radicale. Infine ci sono gli stigma tribali della
razza, della nazione, della religione, che possono essere trasmessi di generazione
in generazione e contaminare in egual misura tutti i membri di una famiglia »
(p. 19-20).
Quale atteggiamento assume lo stigmatizzato?
1) Egli cerca di eliminare, o correggere, il difetto;
2) si rende vittima dei rimedi proposti dagli speculatori (preparati per la crescita dei capelli, la statura);
3) si dedica ad attività che, dato il marchio, gli sarebbero precluse;
4) si serve dello stigma per « vantaggi secondari come scusa per l'insuccesso
che ha subìto per altre ragioni » (p. 28);
5) accetta il proprio stato con rassegnazione, anzi come una benedizione;
6) riesce a porsi a confronto con le persone cosiddette normali, ricavandone
conforto per la propria condizione.
La stigmatizzazione nasce dall'identità sociale deformata, solo quando esiste frattura tra identità virtuale e attuale d'un individuo. Tali persone possono
trovare comprensione in quelli marchiati allo stesso modo. Superato lo scodio dell'adattamento (reso più facile dalla stessa condizione), essi possono organizzare la propria esistenza sul metro dei guai altrui, vivere in altro mondo,
magari sentendosi superiori (il loro stigma è meno impresso di quello di altri).
Goffman analizza le differenze di organizzazione tra società di normali e
società di stigmatizzati. « Quello che si trova è che i membri di una particolare categoria di stigma saranno propensi a riunirsi in piccoli gruppi sociali i
cui membri vengono tutti dalla categoria e che tali gruppi saranno soggetti,
in varia misura, ad una organizzazione dominante » (p. 46). Gli stigmatizzati,
tuttavia, sono proprio costretti a farsi una società propria (giornali, capi, uffici, sindacati)?
Se si accetta la separazione tutto ciò ha senso e l'accusa implicita nelle
confessioni riportate è da giustificare con la completa disumanizzazione dell'individuo senza scelta di tempi e modi.
GIANFRANCO SCRIMIERI
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JEFFREY
H.
LORIA - «
Datti da fare Charlie Brown » - Con la collaborazione di
Pat K. Lynch e Susan Newman. - Torino, Piero Gribaudi Editore, 1969.
I personaggi di Schulz vanno arricchendosi di continuo delle interpretazioni
più serie, dei commenti più attinenti, anche se gli autori saltano qualche volta
il vero senso dei disegni, personificandoli a modo proprio. Ciò potrebbe spiegare, forse, una discordanza esistente in « Datti da fare Charlie Brown » tra
« interprete » e traduttore su un elemento fondamentale dei « Peanuts » (persone insignificanti, da niente: gente semplice): il pacifismo.
Il pensiero di Loria: « Come tutti i bambini, i Peanuts sono affascinati dal
tema della guerra. Linus sogna la gloria delle Termopili. Il suo entusiasmo
nel giocare alla guerra è l'antitesi dei crociati d'oggi che portano distintivi pacifisti e predicano « fate l'amore, non la guerra ».
La nota del traduttore, Claudio Bertolotto: « In realtà da molti fumetti di
Schulz sembra trasparire chiaramente una visione pacifista e nonviolenta »
(p. 125). Alla tesi segue un tipico esempio dei bambini pacifisti.
Charlie Brown, Schroedet, Linus, Lucy, Frieda, Sally, il cane Snoopy, sono
portatori di messaggi, non avrebbero bisogno di commento. Uno dei più importanti e validi è quello della pace che rientra nei grandi problemi (e aspirazioni?) dell'umanità e viene risolto con la solita, ingenua, esasperazione fanciullesca. Bisogna, in tondo, concedere ai bambini lo sfogo, tipicamente infantile, di giocare con le armi e le maniere dei grandi, per imitazione.
C'è una delle parti del libretto (il cui prezzo sembra eccessivo) che è molto
curata, integrata nel testo e nei disegni. Si affrontano serie questioni, d'esistenza, di religione, di morale. E' il terzo capitoletto. « La soggettività delle
credenze religiose appare chiara ai Peanuts. Il fatto che la gente unisca attività
religiose e di beneficienza con motivi non del tutto onesti non stupirebbe questi bambini, che ben conoscono la realtà » (p. 31). L'unico a uscire dagli schemi
metafisici dei personaggi dei fumetti è Snoopy, preoccupato solamente della
quantità di cibo quotidiano destinatagli (anche se per richiamarlo in casa occorre fischiettargli le note di Beethoven, se la sua cuccia è abbellita da un
Van Gogh, dischi, libri, e ha l'aria condizionata). Dei bambini il più legato a
concetti teologici sembra Linus, che tuttavia ha un debole capace di smontare
le sue posizioni più serie. E' schiavo della coperta e del pollice: gli danno
sicurezza, se ne separa solo di rado (per far piacere all'insegnante carina) e
per poco. Altre debolezze, tipicamente umane, gli fanno voltar pagina: « Egli
si affida alla Bibbia come ad una guida per vivere. Ma, come la maggior parte
degli uomini, s'imbatte in alcune cose — si tratti del pesce al Venerdì, del
non trasportar oggetti il Sabato o dell'andare in Chiesa la Domenica — che
gli impediscono di diventare fanatico » (p. 36-37). Ecco un'esemplicazione visiva:
dialogo tra Charly e Linus.
Charly Brown. - Dove sei stato?
Linus. - A scuola di religione... Abbiamo studiato le lettere dell'Apostolo
Paolo...
Charly. - Devono essere interessanti.
Linus. - Certo... Però devo dire che mi fanno sentire un po' colpevole... Mi
sembra di leggere la posta di qualcun'altro! (p. 36).
Le situazioni disarmanti di cui sono protagonisti non devono solo far sor231
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ridere: la vita degli adulti condiziona sempre le cognizioni e il progresso deí
bambini. E, comunque, Schnlz affida agli uomini maturi i messaggi abbozzati
nei fumetti.
GIANFRANCO
SCRIMIERI
MoNTIcARI - « Noi, l'affarismo e la gran via » - Bari, Scuola Grafica Salesiana, 1970 - Ristampa.
MICHELE
Mario Montinari cura una nuova pubblicazione paterna, a breve distanza
dall'edizione dei « proverbi galatinesi ». Si tratta, anche nel caso presente, di
una conferenza. E' una ristampa dell'edizione di Galatina (Stab. Típ. Gizzi) del
1920, anno del discorso.
Il libretto contiene più di un elemento di aggancio all'attualità e
per molti aspetti potrebbe recare la data dell'anno che viviamo. Michele Montinari, nella serata del 23 maggio 1920, in un ambiente particolare come il Circolo Cittadino della città natale, sfogò parecchie delle sue preoccupazioni legate
a un andazzo che pare sia di ogni tempo. La forza delle asserzioni può stupire
fino a un certo punto, almeno fino al limite che si concede alla libertà intellettuale. Conseguenze il Montinari dovette subirne, il libretto non lo dice. E'
stato, forse, l'intervento più polemico, per nulla condizionato dalla presenza del
conservatorismo (non necessariamente o esclusivamente politico) locale, cioè di
una certa classe criticabile per molti versi, responsabile di una situazione.
Nel discorso del « maestro » c'è perfino l'accenno alle minigonne del tempo:
« La moda è più raffinata; le calze più traforate, le gonne... più corte; i palati
più piccanti; i divertimenti più necessari; i gusti più raffinati; tutto è indispensabile! » (p. 21).
La conferenza è incentrata intorno ai grossi problemi del furto (di Stato
e non), dell'arrivismo, del facilismo, di moda — più che mai — oggi. E l'A.
usa termini violenti e accuse precise, lasciando spazio a frequenti digressioni.
Il novelliere affiora imponendo i tratti del suo procedere narrativo, ormai consueto e nei contenuti e nello stile, ma sempre piacevole. Non mancano — è
ovvio — accenni all'educazione dei piccoli; si può dire, anzi, che l'obiettivo
sia quello di denunciare per salvare ciò che ancora è intatto, da costruire, da
proteggere. Ai minori, ai giovani è mancato, manca, l'esempio: le condanne piovono egualmente senza tener conto di questa considerazione di base, essenziale,
leale.
Ecco le accuse: « Che facciamo noi per la massa che trascorre in gran
parte le sue serate nelle bettole, nei ritrovi più o meno sporchi, più o meno
loschi, dove il vizio e la delinquenza pullulano? » (p. 14); « L'indifferenza per
tutto ciò che non interessa l'io nostro, il nostro egoismo, rende perplessa, inaridisce ogni iniziativa e la distrugge sul nascere » (p. 14); « Altra piaga è l'affarismo (...). Si è tollerato, si tollera perché si intende, direi; perché ogni guadagno,
anche illecito, anche immorale, con una ingenuità gesuitica viene manierato da
considerazioni, da attenuanti, tanto che verrebbe voglia di domandare perché
ancora il furto si debba considerare un 'reato pubblico e non invece una branca
nuova delle attività commerciali » (p. 15); « Altro grave malanno sono le piazze,
le strade (...). Esse sono un ritrovo comodo e perenne di turpiloquio, di indecenze, di miserie, sono le cloache all'aperto (...). La gran via, quella della vita
odierna, è la espressione vivente, la manifestazione palpabile dell'anima del no232
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stro popolo, specie le vie più luride e le più strette. Sembra quasi che la folla,
che vi guazza dentro, vi si accomodi meglio, trovandosi quivi in piena coerenza
col proprio stato morale » (p. 16-7).
La sintesi di tutto il discorso è qui, nell'ironia sulla « gran via », teatro di
ogni azione umana soprattutto in un paese dei primi decenni del secolo. Montinari, comunque, non s'è smentito. L'insegnamento va bene per noi, anche se
il contenuto può essere un avallo alla tesi disarmante che l'uomo non cambia mai.
La conferenza di Michele Montinari fu « recensita » nella cronaca del quotidiano leccese di Pietro Marti, La Democrazia (27 maggio 1920). Il cronista, però,
sottolineava solo un aspetto, meno importante, quello del cuore: « Nel fremito
della vita per la battaglia da condurre è la voce del cuore che bisogna, è indispensabilmente necessario ascoltare ». Ciò che sminuiva l'essenza della pubblica
protesta.
GIANFRANCO SCRIMIERI
Storia di una città» - Crotone, Azienda Autonoma di Soggiorno
e Turismo, (Catanzaro, Tipo Meccanica), 1969.
GAETANO ASTURI - «
Avevamo visto, conoscendolo, i disegni del pittore-incisore leccese STAMER
(premiato, di recente, alla III Rassegna Nazionale di Arte Contemporanea, a
Lecce) per una pubblicazione di Gaetano Asturi, guida autorevole della sua città.
La curiosità ci spingeva a chiedere all'Ente patrocinante il volume. Dario Manzulli, direttore A.A.T.T. di Crotone, c'inviava speditamente due copie della « Storia
di una città ». Una di esse merita il posto in una biblioteca pubblica.
La verifica, in un primo tempo indirizzata nei confronti del giovane Stamer,
andava oltre, sollecitati dal testo dell'Asturi e dalla bella veste tipografica, curata nei particolari, abbondantemente illustrata in bianco-nero e a colori. Manca
la numerazione delle pagine, di ampio formato.
GAETANO ASTURI (Crotone, 16-5-1900; 26-3-1969) ha avuto sempre un grande
amore per Crotone di cui si è occupato fattivamente, scrivendo su « Magna
Graecia », periodo di cui fu Direttore. Il volume è « dedicato ai turisti frettolosi », al
turismo di passaggio, da guardare e leggere insieme (le didascalie continuano il discorso). La giustificazione dell'iniziativa sta nell'intento di partecipare alla celebrazione dell'« anno pitagorico » e di « rendere il giusto tributo di riconoscenza all'Autore della "Storia" che vi ha profuso l'entusiasmo, l'immaginazione, la passione di
un autentico pitagorico ». Noi la giustifichiamo con un amore disinteressato per la
propria terra, esempio da imitare. « Finora — afferma Adolfo Pirozzi, presidente
dell'Azienda — ci siamo fatti "scoprire„ dagli altri, ma è preferibile che siamo
noi stessi ad alzare il velo del nostro mistero e della nostra bellezza, con quella
fierezza che è nostra dote e quell'orgoglio che ci eleva (...). E sono pertanto lieto
che l'amico Gaetano Asturi, in cui. Crotone ha trovato finalmente il suo cantore,
sia riuscito a scrivere, con fluida vena le pagine che seguono (...) ». Queste le
presentazioni.
Il testo è diviso in tre parti: « Nello stemma la storia di Crotone », « Saper
capire Capocolonne », « Il mare e le pietre sul nuovo sole ». L'Asturi fa da guida,
prima polemica (« forse alla ricerca di quei "quadretti„ che amano dipingere col
deprecato gusto denigratorio tanti "inviati„ speciali di nostra conoscenza ») poi
pacata, a un gruppo di visitatori del Nord. Dati precisi, nessun pretesto: « una
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realtà — quella scoperta dal turismo — che fa molto onore alla Calabria dell'« addizionale » ». Non si può dire tutto sull'affascinante storia della città e sulle
immagini rivelatrici di una splendida realtà. Bisogna — è l'invito implicito, e
più volte espresso — essere a Crotone, scoprirne i segreti accompagnati dall'Asturi
(anche se non è più), verificare l'incanto anticipato dal volume.
« Fastosi riti si svolgevano nel tempio alla presenza di folle provenienti da
ogni dove »: e riconosciamo lo zampino di STAMER nei due schizzi con la didascalia citata (perchè non precisarne la provenienza?). Ancora: « Milone abbatte
un toro con un solo pugno »; ciò che ricorda una « corrida », incisione delle prime
di STAMER alla Biennale di Taranto di qualche anno fa. E, infine, il gustosissimo quadretto storico: « Poco distante da Crotone sorgeva Sibari Quando
la cavalleria sibarita mosse in battaglia, si udì improvvisamente una musica di
flauti, provenienti dallo schieramento crotoniate. I cavalli s'arrestarono, scossero
le belle criniere e, così come erano stati ammaestrati dai loro padroni, sí misero
ad eseguire buffe danze, che provocarono la sconfitta sibarita ». STAMER interpreta a puntino, anche nei colori — a ragione conservati — la scena, invitando
al sorriso.
E' necessario, a questo punto, sollecitare l'EPT o altri enti a realizzare per
Lecce una « guida » del genere, dignitosa e precisa, illustrata (molto e bene), anche più moderna nella concezione e nella realizzazione, senza per questo pretendere la pubblicazione d'arte? Meriti a parte, la città ha bisogno di qualcosa di
più di un dépliant « estivo », ristampato pedantemente e a scadenza fissa.
GIANFRANCO SCRIMIERI
CARMEN SCANO - «
La vita e i tempi di Michelangelo da Caravaggio » - Milano,
Gastaldi Editore.
In una bella veste editoriale, particolarmente curata dal tradizionale zelo
di Gastaldi Editore, la scrittrice Carmen Scano ha riproposto al mondo della
Cultura e dell'Arte la figura del Merisi in un meditato saggio riguardante « La
vita e i tempi di Michelangelo da Caravaggio ».
Fatica improba e audace. Improba, in quanto ha impegnato la scrittrice
sarda in una ricerca bibliografica, meticolosa ed approfondita, nella vastissima
produzione letteraria recente e anche molto remota, non soltanto d'autori
italiani ma anche di numerosi studiosi stranieri; audace in quanto la Scano
non ha avuto il minimo timore di poter cadere in plagi, anche se del tutto
involontari, o quantomeno in ripetizioni di spunti biografici e critici, già ampliamente riportati nella letteratura e nella fantasia romantica del primo
Ottocento.
Anzi è proprio da ciò che ci viene la migliore prova di capacità documentativa e di tecnica narrativa della Scano, la quale con particolare abilità ha
attinto, da una così vasta produzione, gli elementi storici indispensabili per elaborare poi, su di un tessuto connettivo di personale intelli gente intuizione,
una biografia affidata ad una narrazione moderna, scorrevole, dai tratteg gi incisivi ed essenziali, con la quale è riuscita a ricostruire, quasi con la meticolosità e la pazienza che impegna l'artista in un'opera di restauro, la complessa
e dibattuta figura del Caravaggio.
Indubbiamente il lavoro — per quanto accorto e meditato, e per quanto
lodevole abilità abbia posto la scrittrice nella saldatura accurata di frammen234
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ti, che sono proprio delle zone d'ombra e storicamente indocumentate della
vita e delle opere del « pittore maledetto » — denuncia talvolta la forzata connessione del tessuto narrativo, nel tentativo, comunque sempre apprezzabile,
di conferire unità al contesto biografico e chiarezza espressiva.
L'impegno della Scano, per aver affrontato, e per tanta parte superato, queste considerevoli difficoltà, è meritevole di plauso e di vivo apprezzamento.
ATTILIO JOVINO
SEBASTIANO VERONA - «
Guida pratica di Gallipoli e i suoi monumenti » - Gallipoli,
Tip. Stefanelli di G. Guido e C., 1969.
La pubblicazione di una guida monumentale, a cura del canonico Sebastiano
Verona per il Comune di Gallipoli, ci porta a mettere il dito su un punto della
storia antica del Salento; forse è più opportuno dire su alcune antiche colonie
del Salento.
Il Canonico Verona inizia il suo discorso affermando prima che la fondazione
di Gallipoli sia avvenuta ad opera di un lacedemone Leucippo e poi l'appartenenza di Gallipoli alla Magna Grecia.
La prima affermazione potrebbe passare come leggenda fra quelle tante che,
nei secoli, si sono raccontate. Infatti, abbiamo avuto greci fondatori di città, romani fondatori di altre città. In altri termini la maggior parte di scrittori vissuti in una determinata epoca ha avuto come principale pensiero quello di esaltare la potenza e la gloria della sua epoca e quindi il fiorire di leggende e di
uomini, fondatori di città.
Tutto ciò, sempre, se non siano delle fonti letterarie che hanno avuto riscontro nell' archeologia.
Il secondo punto, il più interessante, che, sino ad ora, è rimasto un interrogativo per gli studiosi, è il rapporto tra il Salento e la Magna Grecia ed in particolare tra Gallipoli e la Magna Grecia.
Il discorso non ha lo scopo di affermare con scienza il nostro assunto, ma
di aprire il colloquio che si presenta affascinante sotto diversi aspetti. Tutto ciò
allo scopo di trovare uno spiraglio più concreto che metta in luce il problema.
Dicevo Gallipoli e la Magna Grecia, perchè il discorso viene limitato a Gallipoli nei confronti della Magna Grecia e non a tutto il Salento.
A questo punto siamo portati a vagliare, sia pure sommariamente, l'espressione ed il territorio sotto l'aspetto storico-politico e quindi archeologico traendone, poi, le conclusioni.
Riteniamo errato parlare di Magna Grecia in senso esteso come regione, ma
più giusto parlare di colonie greche dell'Italia meridionale, perchè tali sono state
nel passato con le città viciniori o assoggettate (subcolonie). Con ciò ci avviciniamo di più agli studiosi moderni che, sin dal secolo scorso, iniziarono a vedere
il problema non più come supina accettazione delle sole fonti letterarie, ma come
realtà storica, quindi a vedere il termine Magna Grecia non in senso greco ma
in senso romano.
Ciò ci porta a pensare che nel periodo romano si è voluto vedere e comprendere col termine Magna Grecia tutte quelle colonie dell'Italia Meridionale che la
arte greca, i commerci, la cultura — non possiamo dimenticare l'importanza che
il movimento pitagorico dette a queste colonie — avevano teso famose e grandi.
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Sappiamo ancora che Taranto, colonia greca, non ebbe un territorio ampio
alle sue dipendenze, né subcolonie sul mare Ionio; essa si limitava a svolgere le
funzioni di testa di ponte per i commerci con la Grecia e le altre colonie greche
dell' Italia Meridionale.
La serie di necropoli sin ora esplorate nell'area tarantina, hanno dato la possibilità di individuare i confini dell'antica Taranto che si spingeva non oltre le
località Statte, Crispiano, Mendeiasi, Carosino, S. Giorgio, Pulsano, Leporano,
mentre, oltre questi confini, noi troviamo le tracce delle antiche popolazioni indigene vissute contemporaneamente, al periodo greco in Italia, alcune volte ín armonia, altre in lotta.
Altra conferma sul territorio limitato di Taranto ci vien data da due fatti
storici, uno avvenuto il 470 a.C., quando i Tarantini tolsero ai Iapígi la città dí
Carbinia (attuale Carovigno), ed il secondo dalla morte dí Archidamo avvenuta
nel 473 a.C. nel tentativo di conquistare Manduria: città tipicamente messapica
rimasta libera sino alla fine del quatto secolo.
Di Gallipoli, di cui Plinio ci da il nome Anxa, si dice che fu porto dí Taranto
tolto agli abitanti indigeni da Leucippo con uno stratagemma dialettico.
Quindi, sino a quale punto si può dar credito a queste che sono poi le sole
fonti letterarie che contrastano con i dati storici ed archeologici o è più esatto
parlare di Gallipoli che rimase sempre l'Anxa, l'insenatura, avamposto della città
messapica posta nel retroterra, cioè Alezio nel messapico AAIOIAI e che i Greci,
forse, preferirono sostituire all'Anxa, che da loro veniva usato per i loro commerci, Gallipoli dal momento che in Gallipoli nulla vi rimase di greco né di
messapico?
Ciò che asseriamo ci viene suggerito dal fatto che in Gallipoli, se Gallipoli
dobbiamo vederlo nell'attuale area, nulla il sottosuolo ci ha discoperto né mai
Alezio — vedendo ancora Gallipoli in senso più ampio — ci ha dato segni di
civiltà greca.
Il territorio di Alezio in venti secoli ci ha dato solo segni della civiltà messapica e romana. Elementi questi che ci dimostrano che Alezio, col suo porto, rimase messapica sino all'arrivo dei romani i quali scelsero Alezio (Aletium) per
il loro tracciato della via traiana. Trattasi di tombe venute alla luce sempre di
tipo messapico, di epigrafi messapiche e latine, reperti di epoca arcaica che
dimostrano l'esistenza di popolazioni in quel sito sin dai tempi primitivi, tracce
di antiche abitazioni romane, condotte d'acqua di epoca romana ed attrezzi di
lavoro delle stesse epoche (mulini per grano, forni, pesi, attrezzi da lavoro, aghi
per reti, ecc.), mai di stile ellenico.
A questo punto ritengo che non si possa parlare di Gallipoli né come colonia
greca, né come subcolonia di Taranto, perché sia le fonti storiche che quelle archeologiche ci confermano tale assunto. Giustamente il Maiuri per Taranto, nei
confronti dell'Apulia, così si esprime: « anzichè di colonizzazione si debba parlare
di sfere di influenza e di penetrazione. E poiché poche regioni dell'Italia Meridionale sono così ricche di antichi centri quanti ne enumerarono Tolomeo e Plinio nella Puglia, e poche appaiono così dense di abitati quante ne rivela l'odierna
ricerca archeologica, bisogna dedurne che la resistenza opposta dalle g enti apule
agli stanziamenti greci dové essere rigorosa e tenace, resistenza che doveva scaturire dall'essere l'Apulia compatta e chiusa nella sua unità geo grafica e demografica ».
Per questi motivi, anche se le mie parole sono rimaste inascoltate, ho sempre
sostenuto che Gallipoli ed Alezio, le cui origini si fondono e si confondono, dovrebbero collaborare per sviluppare ed approfondire i loro problemi storici, cul286
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turali e sociali, dando al visitatore la gioia di gustare e seguire la vera storia di
questi due centri legati nella cattiva e buona sorte.
Problemi che l'archeologia, maestra di patrimonio letterario, di documentazione monumentale, ci può far aggiornare, ci può far completare, ci può far
asserire con maggiore sicurezza e precisione, senza farci cadere nell'assurdo o
nel favoloso come giustamente affermava l'abate Antonio Maria Cataldi (« Alezio
Illustrata ») che i problemi di Alezio e del Salento visse con amore e acume.
SALVATORE BOLOGNESE
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