Siviglia, Rossini, e la Bellezza
di Alberto Zedda
Come non scorgere in questo coacervo di motivi ideali e di terrene espressioni una
straordinaria assonanza con il lascito musicale di Gioachino Rossini, il genio cui ho
dedicato il mio entusiasmo e la mia fede. L’estetica rossiniana poggia su due componenti
principali del discorso musicale e drammaturgico: l’una di segno edonistico, volta a
rendere piacevole e divertente l’ascolto; l’altra, spirituale, tesa a idealizzare sentimenti e
azioni allontanandoli dalla realtà quotidiana per situarli in un altrove immaginario e
caricarli di significati che trascendano la verità rappresentata. Il primo filone, di natura
apollinea, si concreta con la scelta di una comunicazione linguistica di tale semplicità da
consentire immediatezza e facilità d’ascolto. La melodia è formata da cellule tematiche
brevi e incisive, poggiate su un tessuto armonico elementare, basato sulla primordiale
alternanza di tonica e dominante e sviluppato principalmente nell’ambito della cadenza
perfetta. Le rare, improvvise escursioni a toni lontani, presto interrotte per tornare alla
tonalità di partenza, non intorbidano la chiarezza del discorso, reso frizzante e colorito da
una strumentazione variegata, ricca di soluzioni geniali, illuminata da significativi
interventi solistici trattati con sapienza virtuosistica: non solo sostegno al canto, ma ordito
musicale autonomo, con esso dialogante, orientato dalla lezione dei grandi sinfonisti
d’oltralpe, Haydn, Mozart, Beethoven. L’orchestra di Rossini presenta peculiarità che
sfumano il carattere nazionale dei suoi melodrammi e la inscrivono nel libro d’oro della
tradizione europea. E’ la pregnanza della ritmica che rende elettrizzante l’ascolto della sua
musica: una scansione che non si limita a ordinare l’alternanza dei tempi forti e deboli
all’interno della battuta, non si preoccupa di regolare il tactus per facilitare l’insieme
strumentale e vocale, non disciplina il procedere del discorso costringendolo a un passo
uniforme e ripetitivo. Il ritmo rossiniano è l’elemento dionisiaco che infiamma ogni cellula
del tessuto musicale, venendosi a contrapporre alla fredda astrazione del canto
belcantistico con una energetica pulsione che trascina e travolge ogni rigidità. Per tale
ragione deve essere trattato in modo libero e creativo, estemporaneo e istintivo, onde
eludere il rischio di costringere lo slancio rossiniano a un infeconda e monotona piattezza.
Rossini è autore esclusivamente votato al teatro lirico, dunque lo strumento primario
della comunicazione è per lui il canto. La vocalità che adotta e che manterrà costante lungo
l’arco della sua attività creativa, solo limitandosi a svilupparla secondando l’infittirsi della
domanda espressiva, è quella propria del Belcanto, una tipologia sorta dalla grande
stagione barocca, di natura astratta e totalmente asemantica, basata su figure musicali
anodine, di per sé scarsamente significanti: un canto non alimentato da lacerti melodici
scelti ed elaborati col dichiarato proposito di commuovere, orecchiabili e facili da ritenere
in memoria, riconducibili a precisi stati d’animo riconoscibili, espressione di quotidiane
emozioni. Al posto di melodie significanti si trovano figure della pratica strumentale:
scale, arpeggi, roulades, interminabili successioni di terzine e quartine, salti d’intervalli
spaziati, scivolate cromatiche ascendenti e discendenti, artifici che acquistano valore
espressivo soltanto quando l’interprete che li realizza possieda bagaglio tecnico e fantasia
sufficienti a insufflarvi soffio vitale, a investirli di significato specifico. Rossini, con
l’infallibile calcolo del teatrante di razza, sceglie, plasma, modella, articola, raccorda,
congiunge e disgiunge questi elementi in modo da predisporli alla funzione espressiva cui
sono destinati, e li integra con microcellule tematiche di tipo melodico che diventano
ossatura portante della narrazione. Non veri e propri temi musicali, suscettibili di
trasformazione e sviluppo, come avviene con le melodie di largo respiro: questi spunti
vengono iterati, piuttosto che ampliati e variati, secondo un calcolato disegno, definendo i
contorni della forma-struttura e contribuendo a renderla chiara e trasparente; a volte
vengono ossessivamente ripetuti col deliberato proposito di provocare uno stato di
sospensione ipnotica, simile a quella che consegue l’improvvisazione jazzistica o certa
musica minimalista, di cui Rossini può essere ritenuto precursore. L’elezione della vocalità
belcantistica, quindi di un canto essenzialmente artificiale, adatto però a piegarsi a quel
processo di idealizzazione e di allontanamento dalla realtà cui Rossini sottopone
costantemente i sentimenti e le azioni dei suoi personaggi, fanno di lui un autore atipico e
impone ai suoi interpreti una responsabilità maggiore di quella richiesta da ogni altro
compositore del genere. Le regole del comporre belcantistico prevedono il diritto-dovere di
intervenire direttamente sul testo vocale, attraverso l’uso appropriato della variazione e
dell’accomodo, per accrescere il potenziale espressivo dell’interprete, dal quale si pretende
una preparazione musicale e un’attitudine creativa che vanno ben oltre il magistero
tecnico. Si comprende così la legittimità della qualifica, Divo, da sempre attribuita ai
migliori vocalisti del Belcanto. Questi interventi di carattere aleatorio, condizionati da
cultura e immaginazione, comportano grande senso della misura e specifica educazione,
ma assicurano un’autonomia di giudizio e un ventaglio di scelte interpretative che
stimolano l’orgoglio e l’ambizione dell’artista e reclamano virtuosi di prima categoria. La
facoltà di inserire nel testo autografo interventi di natura creativa assicura poi al teatro di
Rossini un automatico e costante aggiornamento dello stile interpretativo, seguendo di
pari passo l’evoluzione del gusto e del ripensamento critico.
Le argomentazioni esposte aiutano a comprendere perché la musica di Rossini sia stata
giudicata, anche da esegeti di ragguardevole statura, povera e superficiale, indirizzata a
catturare consenso grazie alla piacevolezza di un gaio edonismo, inadatta quindi ad
approfondire i grandi temi dell’esistenza. Questi giudizi, riservati in genere alla
produzione seria, contribuirono a ridurre l’immagine di Rossini in quella di brillante
compositore d’opera buffa, favorendo la posta in oblio delle sue opere di genere tragico,
che pur figurano in larga maggioranza nel suo catalogo lirico. La verità è totalmente
diversa. Quando si voglia oltrepassare la soglia di un primo gradevole livello per arrivare a
cogliere concetti abissali, Rossini non risulta affatto facile da intendere. Per addentrarsi
senza smarrirsi nel labirinto che cela il messaggio è necessario rifarsi a figure letterarie
della cultura contemporanea, inusuali per l’ascoltatore del primo Ottocento: allusione,
ambiguità, metafora, ironia, follia, astrazione, nonsense: referenti che aiutano a guardare
oltre la lettera per cogliere ciò che sconfina nel regno della poesia. Il mondo continuava a
venerare Rossini contentandosi del Barbiere di Siviglia, ma la portata dell’immensurabile
rivoluzione introdotta dal suo teatro non era stata compresa che da un esiguo manipolo di
illuminati; troppo pochi e distanti per cancellare dal volto la tristezza dell’ironico sorriso
immortalato da Nadar. Oggi, diradata la coltre di fraintendimenti che ha ostacolato la
conoscenza e la valutazione di questo singolare musicista, siamo in grado di confermare
che effettivamente Rossini è un eccelso compositore d’opera buffa, ma aggiungiamo che è
tale proprio perché si tratta di un sommo compositore d’opera seria.
Qual è la differenza di fondo fra il genere buffo e il genere serio, posto che entrambi
trattano storie d’uomini, soggetti al capriccio d’una sorte alternativamente benigna o
malvagia? Anche le opere buffe contengono iniquità, sentenze dissennate, maligne
cattiverie: perché recepirle come ipocrita divertimento, esplicitato dall’incongruenza di
una risata? L’anelito a elevare l’opera buffa alla dimensione e alla dignità del dramma
tragico, accostando, mescolano o alternando i due generi, sorge con la nascita del dramma
in musica nei dotti incontri fiorentini di Casa Bardi, e permane invariato ai giorni nostri.
Tutti i maggiori compositori d’opera lirica hanno trattato vicende festevoli: Monteverdi, le
introduce nelle parentesi iconoclaste di Arnalta, di Iro, dei Valletti e Damigelle che
alleviano i rovelli di Nerone e Ulisse; Mozart, titola senza titubanze “dramma giocoso”
ogni opera della sua sconvolgente trilogia dapontiana (Nozze di Figaro, Don Giovanni,
Così fan tutte); Beethoven ricorre alla leggerezza del gioco amoroso nel contrappunto di
Marzelline alla pena di Fidelio; Rossini solleva la comicità alle iperboli dell’Italiana in
Algeri, del Turco in Italia, del Comte Ory : Verdi, dedica al comico la sua fatica estrema,
Falstaff, che molti ritengono il suo capolavoro; Puccini lascia un segno forte con l’acre
dissacrazione di Gianni Schicchi.
Sarà ancora possibile, per noi uomini del terzo millennio, gioire senza sussulti all’ascolto
del celestiale perdono accordato dalla Contessa d’Almaviva al marito incostante, sapendo
che il suo grembo alberga già il frutto della colpa consumata con Cherubino qualche ora
prima e spudoratamente mentita? Potremo ancora divertirci assistendo all’estremo
oltraggio inferto da Don Giovanni alla sua donna, indotta con inganno a giacere con uno
sconosciuto? Riusciremo ancora a sorridere, alla conclusione del Così fan tutte,
constatando che ogni valore capace di dare un senso pulito all’esistenza - amore,
giuramento, lealtà, costanza, onestà - viene calpestato, irriso, e irrimediabilmente messo
da parte? Davvero la colpa di questo crimine ricade principalmente sulla Donna,
riecheggiando un’imbarazzante congettura biblica (“un uomo su mille l’ho trovato, ma una
donna fra tutte non l’ho trovata”. (Libro di Qohèlet, 7)?
A conclusione del Falstaff, Verdi compone una monumentale fuga, la più nobile e
complessa forma musicale concepita dall’uomo, solitamente associata alla gravità del
sacro; il testo del perentorio incipit tematico recita: “Tutto nel mondo è burla, e l’uomo è
nato burlone, burlone, burlone”. Per effetto dell’imitazione contrappuntistica, questa cinica
affermazione riecheggia infinite volte, intonata a turno da tutti i personaggi e dal coro.
Quali ragioni accamperemo per mostrare allegrezza quando Falstaff invita a non prendere
niente sul serio, a sbeffeggiare leggi morali e convenzioni sociali? Conforteremo la viltà
dell’ipocrisia strumentalizzando parole talmudiche (“Vi è una sorte unica per tutti, / per il
giusto e per il malvagio, / per il puro e per l’impuro, / per chi offre sacrifici e per chi non li
offre, / per chi è buono e per chi è cattivo, / per chi giura e per chi teme di giurare”.
(Bibbia, Libro di Qoèhlet, 1)? Il male è componente inscindibile del Caos in cui viviamo: la
natura non procura soltanto tramonti mozzafiato, albe lunari incantevoli, entusiasmanti
levate di sole: con la stessa imprevedibilità e indifferenza scuote le montagne, solleva le
acque dei mari, annienta le foreste secolari; con eguale distacco assiste impavida agli strazi
procurati dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dalla cattiveria umana. La vittima vorrebbe
un Dio che la difenda, o, quanto meno, la vendichi e la ripaghi di tanta sofferenza: perché i
buoni non vengono premiati né i cattivi puniti? Perché regnano il male e la sofferenza
senza che il Creatore, che i sacerdoti assicurano essere benevolo, senta il dovere di
intervenire? I venerabili estensori della Bibbia hanno attenuato lo sconforto promuovendo,
nel sublime Cantico dei Cantici, il balsamo dei sensi, ma non hanno potuto esimersi
dall’ipotizzare, con le apodittiche enunciazioni di Qohèlet (“vanità delle vanità, tutto è
vanità... le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo”, Libro di
Qohèlet, 1, Prologo), che non esiste un Dio disposto a rendere giustizia in terra. Per nostra
fortuna, un altro sapiente relatore delle Sacre scritture ha affrontato l’argomento,
azzardando una risposta rasserenante all’angosciato interrogare di chi cerca di dare un
senso alla vita e alla morte. Giobbe chiede con forza disperata il perché di tante pene
inferte a un giusto devoto, e Dio gli replica con veemenza: “Guardati intorno, mira le
bellezze che ho creato: le stelle mattutine che cantano in coro… le porte che racchiudono il
mare…Che vai cercando di più?” A una domanda etica e teleologica il Dio di Giobbe
oppone una risposta estetica che invita a cercare pace e serenità nella bellezza dell’universo
e nella sua trasfigurante sublimazione, l’arte. Una sensazionale esaltazione del segno
estetico, eretto a componente privilegiato della dimensione spirituale dell’uomo, capace di
guidare a una positiva lettura del mondo e delle regole. Fra le infinite espressioni estetiche,
non v’è dubbio che l’arte musicale, non condizionata da forma e materia precostituite, sia
favorita nella ricerca della bellezza ontologica, grazie alla sua natura affrancata dai lacci
della logica e della semantica. Il linguaggio dei suoni organizzati possiede più d’ogni altro
la facoltà di idealizzare l’esistente, perché può spingere l’indagine nei domini
dell’allucinazione onirica, calarla nei recessi della coscienza prenatale, indirizzarla ai
territori della fantasia e del mito. La musica di un genio, chiamata a sottolineare situazioni
che il comune sentire rifiuta, arriva a smorzare la tetraggine dell’assunto e a suggerire
soluzioni accettabili dalla coscienza. Quando l’invenzione musicale è volta
intenzionalmente a propositi dilettevoli, la discrasia fra il significato del testo e la
percezione dell’ascoltatore giunge a ribaltarne l’effetto, commutando in sorriso il dovuto
fremito d’orrore. In un contesto d’opera giocosa la musica di Mozart ammanta di
celestiale levità il tradimento amoroso e recepisce senza smarrimento la bestemmia del
“Così fan tutte)”. L’aggiunta del suono attenua la sentenza di Falstaff “Tutto nel mondo è
burla, e l’uomo è nato burlone” perché Verdi concentra l’attenzione dell’ascoltatore
sull’aggettivo “burlone”, ribadito innumerevoli volte a suggerire che chi affronta la
malasorte con la bonomia del sorriso arriva a tollerarla con l’indulgenza del saggio.
Inscrivendosi fra gli edonisti spirituali discesi dalla lezione epicurea, Falstaff insegna che
l’ironia, l’attitudine a ridere di sé e del mondo, la pratica del piacere e dell’evasione
intelligente attenuano la negatività del dolore e aprono campo alla speranza. Si comprende
così perché il Poeta, che pur ha adempiuto il dovere di liberare la parola dalla costrizione
semantica e dare al verso cadenza musicale, accetti di alterare l’armonia del suo poema con
l’aggiunta di nuovi suoni e nuove emozioni, convinto di avvicinarlo ancor più al bello
ideale.
Quando l’opera buffa cessò di essere rimedio contro la noia di lunghi drammi lacrimosi per
diventare essa stessa strumento utile a sondare l’animo umano, melomani e interpreti si
divisero sul significato da dare a questa novità: una parte volle continuare a cercarvi il
divertimento disimpegnato dell’intermezzo e della farsa, privilegiando interpretazioni
ridanciane; altri preferirono sostituire l’epidermica meccanicità della risata col più
elegante sorriso, propedeutico a riflessioni e ripensamenti protratti oltre la chiusura del
sipario. A questo riguardo si consideri la tradizione esecutiva del rossiniano Barbiere di
Siviglia, l’opera comica più rappresentata in assoluto, quella che ha sperimentato ogni
sorta di lettura interpretativa, dalla più indecente accozzaglia di trovate clownesche, eco
degradato di una Commedia dell’Arte privata della sua simbolica ritualità, alla paludata
commedia borghese, attenta ai sottintesi della vicenda e al rango dei personaggi. Il libretto
sviluppa una storia d’amore impostata su presupposti banali, comuni a innumerevoli farse
d’ogni epoca: due giovani si innamorano e vogliono sposarsi; il padre o il tutore,
intendendo destinare ad altri la ragazza per interesse economico o politico, si oppone alle
nozze; i giovani amanti, con l’aiuto del caso o di personaggi intraprendenti, sconfiggono il
tiranno, e guidano a lieto fine il sogno d’amore. Lo svolgimento che daranno
Beaumarchais-Sterbini e, soprattutto Rossini, spalancherà diramazioni inaspettate alla
bolsa vicenda, consentendo di cogliervi illimitata varietà di sfumature. Il Barbiere
rossiniano viene definito abitualmente “opera buffa”, ma in realtà appartiene a un genere
di incerta catalogazione che utilizza in ugual misura la levità del comico e la tematica
accigliata dell’opera seria. La storia d’amore che vi si dipana presenta una strana anomalia:
i protagonisti destinati a viverla mai si incontrano soli sulla scena per scambiare una
carezza, indirizzarsi una parola tenera, intrecciare un dialogo che costruisca la reciproca
intesa. Non un duetto, non un recitativo dove poter scambiare un’effusione, interrogarsi
sui reciproci sentimenti, progettare il futuro. Solo nei brevi istanti in cui Bartolo è attratto
fuori scena dal frastuono artatamente provocato da Figaro i due giovani possono accertare
la reciproca disposizione a sposarsi. L’imprescindibile processo di seduzione e di
conoscenza avviene attraverso indiretti segnali, che il pubblico raccoglie e mentalmente
trasferisce agli attori dell’avventura amorosa, anche in loro assenza. Tocca alla musica
congegnare un gioco di rimandi emozionali dove ogni accadimento, ogni gesto, ogni
parola, in qualunque contesto e da chiunque pronunciata, concorrono a costruire una
coerente trama collettiva, anche rinunciando all’esplicito contributo dei singoli
partecipanti. L’opera è cosparsa di informazioni utili a determinare la personalità dei
personaggi e la credibilità dei loro sentimenti, informazioni che vengono trasferite
dall’ascoltatore agli attori della vicenda anche quando questi non sono in scena. Rossini
fonde questi segnali in un contesto unitario e li proietta in un altrove dove i personaggi
vivono virtualmente una vicenda integrativa di quella esplicitata sulla scena: un modo di
raccontare conveniente alla società dell’informatica, che auspica il coinvolgimento
intelligente dell’ascoltatore, impegnato a ricomporre nell’immaginario della fantasia gli
impulsi disordinatamente ricevuti.
La pregevole qualità letteraria del libretto del Barbiere di Siviglia non ha facilitato il lavoro
del Maestro, trovatosi ad affrontare un problematico contrasto fra il realismo di situazioni
delineate da dialoghi lucidamente argomentati e la natura astratta del suo linguaggio
musicale. Il testo di Beaumarchais configura nettamente una commedia di carattere, e per
gran parte del primo atto la musica di Rossini gli corrisponde, accompagnando fatti e
personaggi con invenzioni musicali di adeguato spessore psicologico. La convenzione di
aggiungere il coro nel Finale Primo ha però reso necessario introdurre presenze non
previste da Beaumarchais e, nella frenetica Stretta “Mi par d’esser con la testa / in
un’orrida fucina”, Rosina, Almaviva, Figaro, Bartolo annullano la specifica individualità,
abbandonandosi con gli altri personaggi a uno straniamento ipnotico di irresistibile effetto
musicale, ma lontano da qualsiasi logica teatrale. È nel secondo atto che il conflitto fra la
comicità misurata della commedia di carattere e quella spericolata della farsa determina
situazioni difficili da conciliare. Il gioco dei travestimenti, dissipato arnese dell’opera buffa,
si fa pesante, anche se contribuisce al distacco dal realismo, in assonanza col simbolismo
del discorso musicale. Per ricomporre il discorso drammaturgico in coerente unità
stilistica, occorrerà abbandonarsi al fluire della musica, tanto rigoglioso di gesti teatrali
pregnanti da rendere superflua ogni titubanza della ragione, e confidare nel potere
trasfigurante della bellezza.
Il barbiere di Siviglia non è soltanto una bellissima opera lirica che scorre da cima a fondo
senza appannamenti d’ispirazione: è anche un eloquente manifesto della rivoluzione
portata da Rossini nel teatro melodrammatico. L’impatto con la tradizione è reso evidente
da un soggetto dove la contrapposizione fra l’aristocratico mondo al tramonto e quello
democratico nascente viene a costituire il motivo portante della vicenda. Gli attori della
storia si dividono in gruppi contrapposti: l’uno animato da spirito novatore; l’altro,
scampato ai venti della rivoluzione francese, guidato da un ottuso conservatorismo. Il
discrimine fra il nuovo di Rosina, Almaviva e Figaro e il vecchio di Bartolo, Basilio e Berta
viene reso evidente dal diverso valore che questi personaggi conferiscono al denaro, vero e
proprio deuteragonista dell’opera. La presenza insistita di questo elemento è un altro
elemento che attesta l’attualità di quest’opera: oggi che papa Francesco, pontefice della
chiesa cattolica, ha definito il denaro “radice di tutti i mali”, discostandosi dall’Ecclesiaste
(…”il denaro risponde a ogni esigenza” (Bibbia, Libro di Qoèhlet, 10); oggi che un
finanzcapitalismo senz’anima ha determinato una crisi che uccide il futuro, generando
perversi alchimisti che accumulano fortune insanguinate mutando in oro i risparmi e le
speranze della povera gente. La sete di denaro spinge il tutore a sposare Rosina per
incamerarne l’eredità; quando Almaviva decide di concedergli quella dote per la quale si
danna, Bartolo prorompe in una squallida risatina, commentata amaramente da Figaro: «i
bricconi han fortuna in questo mondo!». È il denaro che induce Basilio a non rivelare al
padrone la trama montata a suo danno e a tradirlo prestandosi a far da testimonio alle
nozze rivali. Anche Figaro parla continuamente di denaro, cui attribuisce la facoltà di
accendere fantasia e creatività: «Ah non sapete i simpatici effetti prodigiosi che [...]
produce in me la dolce idea dell’oro? […] All’idea di quel metallo portentoso, onnipossente,
un vulcano la mia mente già comincia a diventar». Quanto diversa la cupidigia di Basilio,
che recepisce il denaro col servilismo del Pappus plautino, rinunciando a ricoprire il ruolo
che l’acume potrebbe garantirgli: quando Bartolo rifiuta il geniale suggerimento di
ricorrere alla calunnia per demolire l’immagine del rivale, commenterà, con rassegnata
tristezza «Vengan denari, al resto son qua io». Almaviva , con la nonchalance del gran
signore, esibisce denaro «a bizzeffe» per procurarsi complici e impunità; la borsa di
monete che distribuisce ai musicanti scritturati per la serenata a Rosina scatena il primo
dei tanti indiavolati concertati dell’opera. Il denaro gli assicura la fedeltà di Figaro, il
silenzio di Basilio, i servigi di Fiorello, la compiacenza dell’Ufficiale di polizia. Almaviva
rinuncia, però, a ostentare ricchezza con la ragazza che vuol conquistare per amore («Ricco
non sono») e Rosina, con altrettanta nobiltà d’animo, respinge quella ricchezza («fingesti
amore per vendermi alle voglie di quel tuo vil Conte Almaviva»), ricevendo a premio il
matrimonio (e con esso, sia detto per inciso, il maggior patrimonio in palio...). Oltre al
danaro, sono i rapporti sociali che differenziano ulteriormente Rosina e Almaviva da
Bartolo e la sua gente. Per il facoltoso Bartolo, come per i componenti della classe
nobiliare, il matrimonio è un mezzo per aumentare il patrimonio e conservare i privilegi;
per Almaviva, ribelle alle leggi di casta, è la conclusione di un sogno d’amore. L’ovvia
dignità da accordare all’amore e alla donna, al tempo della nascita del Barbiere era materia
scottante. Ne esce profondamente rivalutata la figura del tenore amoroso: tocca a lui, non
all’eroina femminile, chiudere l’opera con la grande aria a lei abitualmente destinata,
aprendo la strada ai fasti del tenore romantico, dominatore della scena lirica ottocentesca.
Il Conte d’Almaviva è a Siviglia, attratto dalle grazie di una giovane donna che vi si è
trasferita al seguito di un maturo gentiluomo, con la quale aveva scambiato occhiate
promettenti durante una passeggiata al madrileno Paseo del Prado. Si tratta per lui
dell’ennesima avventura, giacché ritiene di corteggiare una donna sposata, moglie di un
notabile della città, tale Dottor Bartolo. La censura romana, o forse una previdente
autocensura dello stesso Sterbini, ha indotto a cambiare in figlia lo stato civile della
ragazza, anche se la condizione di moglie avrebbe reso esplicito il percorso sentimentale
che ha condotto Almaviva alle nozze con Rosina. Per il corteggiamento, Almaviva ricorre
all’espediente più volte sperimentato con successo: reclutare musicisti di strada per
strimpellare una manierata canzoncina da intonare sotto le finestre dell’amata, «Ecco
ridente in cielo spunta la bella Aurora», che Rossini inzucchera con delizie in stile galante.
Dalla finestra della sua camera, Rosina non risponde con la consueta reticenza destinata a
mutarsi presto in resa peccaminosa e felice: in un biglietto furtivamente lasciato cadere,
confessa senza ritegno una pari attrazione, pretendendo in cambio chiarezza e onestà di
propositi. Esternazione sorprendente per l’epoca e il luogo, che suggerisce al conte di
nascondere le attrattive di giovin signore ricco e potente per presentarsi a Rosina nelle
vesti dimesse di un Lindoro, studente povero, e giocare così l’ignota partita dell’amor
sincero. Un Grande di Spagna si trasforma così nel primo amoroso dell’opera lirica,
tenuto a recitare sentimenti autentici. Per sottolineare l’evento, Rossini contravviene alle
‘solite’ regole facendo subito seguire a quella di sortita una seconda cavatina per il Conte,
di significato opposto, «Se il mio nome saper voi bramate»; un’arietta semplice e sincera
alla quale l’accompagnamento estemporaneo della chitarra aggiunge spontaneità. Gli
risponde una Rosina femminista, che nell’Aria di sortita «Una voce poco fa» enuncia il
proposito di lottare con astuzia e determinazione contro il tutore tiranno per affermare il
diritto a libere scelte. Nella grande aria del secondo atto, l’Aria della lezione, Rosina
contrapporrà l’aulica perorazione di sentimenti nobili degni di una futura Contessa
d’Almaviva, «Contro un cor», a una fresca cabaletta, «Cara immagine...», alternando
cipiglio da opera seria a gioiosi gorgheggi di felicità (la dialettica vecchio-nuovo suggerirà a
Rossini di far seguire a quest’aria una convenzionale arietta settecentesca, «Quando mi sei
vicina», richiamata da Bartolo con intento polemico). Curiosamente tanto la prima Aria di
Almaviva «Ecco ridente in cielo» quanto l’Aria della lezione di Rosina registrano una
presenza metateatrale di musica nella musica: nel primo caso si tratta di un
accompagnamento virtuale effettuato da un’orchestrina mercenaria; nel secondo del suono
d’un pian:forte (così nel manoscritto), con il quale Almaviva, sempre in modo virtuale,
dovrebbe sostenere il canto di Rosina. Vale anche la pena di rimarcare una curiosità
strumentale che accresce l’inesauribile gioco dei contrasti: nella prima aria, dove canta un
Grande di Spagna, l’accompagnamento ostenta una pretenziosa orchestrina, mentre nella
seconda, dove canta l’umile Lindoro, il sostegno viene confinato al timbro popolaresco
della chitarra. Il terzo esponente del mondo di oggi, Figaro, ha ricevuto da Rossini un
lascito musicale di tale felicità da giustificare pienamente la sua promozione a protagonista
dell’opera, ruolo in origine pensato per Almaviva: la cavatina di sortita, «Largo al factotum
della città», trasuda vitalismo, frenesia ritmica, urgenza motoria, smania di egocentrismo.
Anche la vocalità supera gli schemi del basso primottocentesco, prefigurando la tipologia
del moderno baritono. Pur se le trovate e millanterie di Figaro si rivelano incapaci di
infrangere il dispotismo di Bartolo, tocca a lui promuovere le azioni, animare i personaggi,
spronarli alla competizione imprimendo il giusto ritmo alla commedia. Sul versante
opposto, quello del mondo di ieri, il Dottor Bartolo afferma la sua appartenenza a una
classe rispettabile con una lunga e difficile aria di sortita, strutturata nell’inusuale formasonata; in tutto il corso dell’opera Bartolo mantiene un atteggiamento rancoroso e
polemico, lontano dal bolso macchiettismo di una tradizione farsesca che svilisce la lotta
condotta contro di lui. L’importanza della sua posizione sociale gli procura un «brevetto
d’esenzione», il documento che libera dall’obbligo di ospitare gli ufficiali del nuovo
reggimento (fra questi il Conte d’Almaviva che in tal veste tentava di avvicinare Rosina). Le
difficoltà distribuite nella sua parte attestano il proposito di conferire a questo basso buffo
peso specifico e dignità consone a uno stimato dottore in medicina: dipende dal suo
comportamento scenico precipitare la commedia in una farsa ridanciana o mantenerla nei
confini eleganti del sorriso. Beaumarchais lo definisce magnificamente nella prefazione
alla prima edizione del Barbier con queste parole: «un peu moins sot que tous ceux qu’on
trompe au théâtre». Anche Basilio, uomo di fiducia di Bartolo, non può essere quel
pretastro sudaticcio tramandato dalla tradizione in omaggio a un anticlericalismo di
maniera: l’intelligenza che lo porta a intuire prima di ogni altro gli esiti di una trama
ingannosa («Ah che in sacco va il tutore... doman poi si parlerà») e a proporre soluzioni
tutt’altro che scontate (la calunnia….) ne fanno un ascoltato consigliere, un persuasore
occulto che rafforza, non diminuisce, l’importanza del suo mentore. Ciò che lo ascrive al
mondo di ieri è l’atteggiamento di servile dipendenza che mantiene nei confronti di
Bartolo, guidato dall’unico obiettivo di sbarcare il lunario. Basilio non è prete, come ha
preteso una stantia iconografia; l’abito talare che indossa era divisa obbligata di precettori
sottoposti al placet dell’autorità ecclesiastica, detentrice dell’esclusivo diritto
d’insegnamento educativo. Berta ha l’onore infrequente di ricevere un’aria di sorbetto, «Il
vecchiotto cerca moglie», firmata dallo stesso Rossini invece che da un anonimo
collaboratore; l’aria riprende la consuetudine antica di tratteggiare una seconda donna
afflitta da pruriginose nostalgie.
E’consuetudine generalizzata eseguire le opere nella lingua originale, per conservare al
canto il colore pensato dall’autore. Nella fattispecie del Barbiere di Siviglia, esiste una
versione del testo in lingua castigliana, curata da un enciclopedico umanista andaluso,
Jacobo Cortines, che presenta singolari peculiarità: è opera di un poeta che ama e coltiva la
musica, dunque di un orafo della parola, uso a rispettarne timbro e significante; utilizza
una lingua, il castigliano, dove le vocali suonano aperte e sonore quanto quelle della lingua
italiana, ma dove le consonanti che le separano risultano più dure e nette, rendendo meglio
intelligibile il periodare della frase cantata. Il risultato che ne consegue non soltanto
rispetta sostanzialmente il sound originale, ma paradossalmente ne migliora l’ascolto. Una
breve citazione, tratta dalla popolarissima aria della calunnia, serva da esempio:
Un tremuoto, un temporale
Un temblor, un temporal
Un tumulto generale,
Un tumulto general
Che fa l’aria rimbombar.
Que hace al aire retumbar.
E il meschino calunniato,
Y el mezquino
calumniado,
Avvilito, calpestato,
Sotto il pubblico flagello
Per gran sorte va a crepar.
Difamado, machacado,
Bajo el pùblico flagelo
Tiene en suerte reventar.
Mi piace pensare che a Rossini, nel vergare sul frontespizio il titolo della nuova opera, sia
apparsa, abbagliante, la visione della città in cui ambienta i suoi personaggi, accompagnata
dal rimbombo inquietante de los passos , dal mondano scalpitio delle romerie, dal clamore
degli “ole” che guidano alla Porta grande , dagli inebrianti aromi esalati da patios dove
rinasce la favola d’Oriente. E mi piace credere che il fascino, l’esuberanza, l’atemporalità di
questa meravigliosa città, dove passato e futuro smarriscono i contorni, abbia contribuito a
rendere incandescente l’ispirazione del musicista, facendo del Barbiere di Siviglia il suo
capolavoro emblematico, l’unico melodramma della musica occidentale a non aver
riscontrato, in oltre due secoli di circolazione universale, il minor calo di consenso.
Alberto Zedda
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Siviglia, Rossini, e la Bellezza