Roberto Soldati
Appunti volanti
PAROLA DI EDITORE!! L’aspetto più difficile di questa
piccola impresa editoriale è stata quella di convincere
Roberto Soldati a pubblicare i suoi appunti, sparsi qua e
la nell’arco di un trentennio, tra riviste di volo e canovacci
che sbucavano da ogni dove. La mia proposta editoriale
è nata, se non altro, come ringraziamento a questo autore,
di avermi inculcato la passione per il volo in aliante anche
se da semplice passeggero. Come posso dimenticare le
innumerevoli avventure vissute insieme? Per esempio
quella volta che facemmo “fuori campo”nei pressi di
Tivoli. Spingemmo l’aliante fino al parcheggio di un
ristorantino e come niente fosse entrammo per pranzare
tra gli altri clienti che ci guardavano come fossimo
marziani che con la loro astronave avevano occupato
una diecina di posti macchina. O quella volta, quando
fummo costretti ad atterrare su di una regolare avio
superficie, cimentandoci in una ginkana tra i covoni di
grano, muli, ed una vecchia trebbiatrice che alcuni
contadini incoscienti vi avevano piazzato. L’evento più
sconcertante ci capitò nell’ 88. Durante uno stage con
traino al verricello sulla piana di Campo Felice, in attesa
dell’ora di pranzo dove mi aspettava una mia cugina con
il nuovo fidanzato da presentare ai rispettivi genitori,
nonni, compari e parenti vari, sfiorammo in volo e
Roberto Soldati
Appunti volanti
ripetutamente una coppietta com-ple-ta-me-nte nuda,
distesa sull’erba di monte Ocre, che ci ignorava quasi con
disprezzo. Non potete immaginare la faccia di Roberto
quando, finalmente a pranzo, la mia cuginetta, che per me
era come una sorella, ci disse: “Ha! a proposito di volo,
oggi sono passati tanti, tantissimi alianti mentre
prendevamo il sole sull’Ocre, Che cariiini”. Poi, il suo
fidanzato, con una smorfia nella sua faccia come avesse
trovato una mosca nel piatto ci disse: “Hem, c’eravate
anche voi a monte ocre”? Non trovammo proprio il
coraggio di dire la verità l’imbarazzo era totale.
Era da tempo che accarezzavo l’idea di regalare ai nostri
lettori un “invito al volo libero” avulso dal tecnicismo
pedante di altri racconti nei quali mi sono imbattuto
prima. Sentivo il bisogno che Roberto mettesse una
buona volta su carta i suoi racconti così come li espone
ad amici e curiosi che ascoltano tanto affascinati per
quanto timorosi di volare all’inizio ma che poi, come e
stato per il sottoscritto, ne uscivano convertiti a questa
nuova religione della quale, come lui stesso si definisce,
ne è l’umile sacerdote che catechizza i fedeli ad elevarsi
in termica. Fino al giardino dell’eden di…monte Ocre.
Di Augusto Sforza Cesarini, IAF Edizioni Italy
Roberto Soldati
Appunti volanti
INTRODUZIONE DELL’AUTORE: Che questi appunti sulla
mia esperienza di aeronauta non siano intesi come
l’autobiografia di uno sconosciutissimo pilota quale io
sono, bensì una semplice esposizione, in questo caso
scritta, di un’esperienza di volo destinata a soddisfare le
tantissime curiosità di voi, amici o semplici curiosi, che
pur provando un’attrazione irresistibile per l’oceano aria
lo temete, con tutto il corredo di pregiudizi d’ogni sorta e
magari. . . chissà, potrei cercare di condurvi oltre
le colonne d’Ercole di questo oceano aria, che al
contrario dell’oceano d’acqua, si trova in ogni anfratto
della biosfera e nutre la nostra vita.
Navigandovi
attraverso, non solo in lungo e largo ma anche dal basso
in alto, anche voi potrete esplorarvi punti di vista inattesi
e sorprendenti, magari a perpendicolo sulla vostra casa.
Punti di vista che adesso potrete condividere con il
falco, le rondini e le cornacchie che per anni avete visto
roteare e giocare con il vento nel cielo sopra di voi.
Roberto Soldati
La prima volta che mi capitò di vedere un aliante fu nel 66,
mentre tornavo a casa dal liceo. Proprio in cima una montagna a
ridosso del paese, un velivolo silenzioso dalle ali lunghe e sottili,
faceva avanti e dietro il pendio senza perdere quota, inseguito da
una dozzina di cornacchie che difendevano il loro territorio da
quell'intruso. Ad un certo punto, con un lieve sibilo, si spostò
più a valle. Arrivato sotto una nube, cominciò a girarci sotto,
salendo rapidamente fino alla base piatta e scura. Infine si
allontanò verso est e sparì dietro la montagna. Siccome non
avevo mai sentito parlare di un aereo senza motore, mi convinsi
che si trattava di un aquilone sfuggito al proprietario.
Finita la spiegazione, ripresi il viaggio lungo il sentiero che
portava alla montagna; ma non feci neanche un chilometro che
nel bel mezzo di un prato vidi l'aliante a terra con una estremità
alare poggiata sull'erba e un tettuccio trasparente aperto. Con
un certo timore, mi avvicinai e vidi il pilota sdraiato in cabina
che dormiva con la visiera del cappello calata sul viso. Mi fermai
ad una certa distanza, almeno per dieci minuti, indeciso di cosa
fare. Poi il pilota con un dito tirò su la visiera, mi guardò e con
forte accento veneto mi disse: "Vieni pure avanti, puoi
guardarlo da vicino, non morde mica". Vinsi il timore e mi
avvicinai.
Una scena dal film
“PITERPANCLUB”
realizzato con un
aliante M 100 che
compie un volo di
escursione attraverso
il microcosmo del
mondo vegetale
2002 R. Soldati
Per cui, finito il pranzo, pensai di salire, in Vespa, fin sopra alla
montagna per recuperare quel coso, nel caso fosse caduto da
qualche parte. Mentre attraversavo la valle, un contadino mi
disse di aver visto un aliante molto basso in quella zona. Io
trovai la parola aliante estremamente suggestiva. Mi dava l'idea
di qualcosa leggero come una piuma; una parola che una volta
pronunciata fluisce libera nell’aria, come fosse disegnata a
pennello su quel velivolo, esile ed elegante come nessun altro
aereo. Il contadino mi spiegò che l'aliante è un aereo con pilota e
senza motore e con le ali piene di un gas leggerissimo, come
quello dei palloni, che permette al velivolo di stare in aria.
Era un signore sulla cinquantina. Uscì dall'abitacolo, si sgranchì
un po’ i muscoli, poi mi chiese: "Come si chiama questo posto?".
"Campo Felice di Lucoli", gli risposi. Dopodichè, preso il
microfono della radio di bordo, comunicò con un'altro pilota
ancora in volo, specificando la zona di atterraggio per facilitare
alla squadra di recupero l'arrivo sul posto. Poi, chiusa la
comunicazione, mi spiegò praticamente tutto sull'aliante e sulla
navigazione aerea. Si chiamava Felice Valenzano, e mi fece da
istruttore senza mai chiedermi una sola lira. Nel 68 se ne andò a
fare il pilota in Venezuela ma rimanemmo sempre in contatto,
fino alla sua scomparsa avvenuta nell’ 88. Grazie!
Sequenza fotografica di un aliante K13 in atteraggio all’aeroclub di L’Aquila.
Quando chiesi a Felice conferma sul gas leggero dentro le ali,
come mi aveva spiegato il contadino, si mise a sghignazzare di
vero gusto, dicendo che mai aveva sentito una fesseria del genere.
Appena dopo il tramonto arrivò la squadra di recupero. A dire
il vero, erano solo due persone con una macchina e un carrello a
rimorchio simile a quelli per trasportare le barche. Uno dei due
uscì agitando minacciosamente una bottiglia di spumante. Felice
indietreggiò, dandosi poi alla fuga inseguito dall'amico, deciso a
punirlo con un bagno di Asti per non essere rientrato al campo
base. Finito il bagno, dopo aver smontato e impacchettato
l'aliante sul carrello, brindammo insieme con il poco spumante
che rimaneva. "Brindiamo a cosa?", disse uno di loro. "Mah...
qui c'è un nuovo volovelista, brindiamo per lui“ disse Felice.
Non passò un mese che Felice mi mandò via posta il modulo
d’iscrizione all'aeroclub di Rieti, incluse le modalità di come
ottenere un forte sconto per prendere il brevetto di volo a vela,
riservato agli studenti. Conscio di non potermi sottrarre a
quell'invitante invito mi cercai un lavoro per pagarmi il brevetto
e dopo qualche anno ero in volo anch'io.
In meno di otto anni collezionai più di duemila ore di volo,
portando a spasso i turisti sopra le valli e le montagne abruzzesi.
Navigando dentro le correnti termiche ascensionali, il volo
poteva anche durare sei o sette ore, il che corrispondeva a circa
ottocento chilometri di percorso e senza consumare una sola
goccia di benzina, se si esclude quella per l'aereo trainatore. Il
volo a vela è uno sport spirituale vicino all'ascetismo. Il fatto che
sia così poco praticato non dipende tanto dai costi, quanto dal
fatto che lo sport in generale è esibizione. Di solito, l'atleta
gareggia oltre che per se anche per un pubblico. Il volovelista
invece, è sempre solo tra il silenzio delle nuvole e qualche parente
a terra un po’ annoiato o in ansiosa attesa.
Descrivere il fascino del volo in aereo è difficile, descrivere il
fascino del volo in aliante, in delta o in parapendio è impossibile
ma ci proverò. Gli psicologi sostengono che pur essendo l’uomo
un animale terrestre subisce un’attrazione irresistibile verso il
cielo nel tentativo di liberarsi dalle sofferenze, le angosce, il
grigiore e le angherie che la vita terrena ci induce giorno dopo
giorno, o roba del genere.
A parte le varie argomentazioni psicoanalitiche il volo, senza
citare il solito mito di Icaro, è stato sin dai primordi il pensiero
magico insito nel DNA dell’umano che si esprime sottoforma di
angeli, super eroi, ed altri simboli celesti che la mente cavalca
elevandosi in volo con essi attraverso un tipo di realtà che la
fantasia crea tralasciando accuratamente d’introdurvi tutti
quegli attributi negativi presenti e inevitabili del mondo terreno.
La moglie di un volovelista finito dentro un cumulonembo trovò
conforto al suo dolore quando le dissero che il marito, dopo aver
tentato un lancio con il paracadute, era stato trascinato verso
l’alto. La vedova sollevando gli occhi al cielo disse: “Ecco è
questa l’immagine che io porterò sempre nel mio cuore” Il fatto
che quel pilota morì lentamente congelato a 6000, metri per la
vedova sembrava un dettaglio del tutto secondario.
Il barone rosso in un duello aereo
L’elemento aria diviene così come una boutique dove ognuno va
a farsi confezionare addosso il proprio ambiente ideale nel quale
non alberga sofferenza fisica. Chi contamina il cielo merita di
essere scaraventato nella direzione opposta, in basso all’inferno
come Lucifero, Adamo ed Eva, Icaro ed altri dannati.
Per
quanto io cerchi di rovistare nella mia memoria non conosco
cattivi scaraventati verso il cielo o buoni verso terra.
Il buono, più leggero dell’aria vola in alto, mentre il malvagio
diviene pesante al punto da essere risucchiato in basso dalla
forza gravitazionale di madre Terra senza possibilità di scampo.
Sin dal giorno che Mongolfier staccò i piedi da terra tutti gli
aeronauti che seguirono, interpretarono a modo loro il rapporto
conl’aria, secondo il personale retroterra culturale. La nobiltà
“fin de siècle” trasformò i cieli in un regno dove eternare le gesta
cavalleresche dei loro illustri avi e l’aeroplano fu il loro cavallo
alato, fu il Pegaso in legno e tela con il quale sfidare in torneo le
casate antagoniste. Gli snob si scatenavano in spericolate
esibizioni acrobatiche sfoggiando il loro ego a mo di muscolo
bicipite da impressionare il mondo per tanto ardire. Gli
avventurieri usavano l’aereo come mezzo da viaggio, i militari
per collezionare onori, i romantici per volare tra le nuvole.
Non so bene quale scegliere tra le categorie appena elencate, ma
una cosa è sicura; sono irresistibilmente attratto dall’aspetto
metafisico del volo. Per dirla terra terra, anzi aria aria, sin dal
primo giorno che spiccai il mio volo in aliante durato 3826 ore
registrate sul libretto al 16, 5, 2000, si manifestarono i primi
connotati surreali insiti nella nuova esperienza. All’epoca, parlo
del 1969, oltre a frequentare il primo anno dell’Istituto Europeo
di Design, mi cimentavo anche con i miei primi rudimentali
esperimenti sulla percezione visiva (la mia attuale professione),
presso uno studio che si chiamava La Microstampa. Il mio
tecnico di laboratorio preferito era il sig. Ferdinando Verde.
Una mattina, seduti in moviola, gli dissi di non poter continuare
il lavoro nel pomeriggio poiché avevo un impegno a Guidonia.
Spaventoso!! Quello che tutti cercano, il classico ago nel pagliaio,
l’avevo trovato io, tra milioni di persone che popolano Roma e
dintorni. Superato lo shock presi quella coincidenza pazzesca
come un segno del destino che sanciva definitivamente il mio
sodalizio con il volo, e se mai mi fosse rimasta qualche ombra di
dubbio anche questa fu dissipata quando, arrivato all’aeroporto
scoprii che il pilota dell’aereo trainatore era... Se siete
emotivamente labili, sedetevi che è meglio, era… Ferro, un mio
professore dell’Istituto Europeo di Design. La quardratura del
cerchio era compiuta, sgancio a 600 metri ed il volo delle 3826
ore ebbe inizio.
Il pilota trentino Felice
Valenzano e Roberto
Soldati nel 1966 a Rieti
Verde: “Ho ma bene! Anch’io devo andare a Guidonia, se vuoi ti
do uno strappo”.
Io:
“Benissimo grazie!” Gli risposi, “devo andare
all’aeroporto”
Verde: “Ha perfetto! anch’io vado all’aeroporto, e che cavolo vai
a fare all’aeroporto per non impicciarmi dei fatti tuoi”?
Io:
“Beh, sai volevo iscrivermi al corso di volo a vela di Rieti
ma siccome lavoro a Roma mi hanno consigliato di
parlare con l’istruttore di Guidonia che è più vicino.
Verde: “Più che vicino è vicinissimo!” mi fa, scattando
sull’attenti, e saluto militare: “Comandante Soldati,
l’istruttore di Guidonia eccolo qua di fronte a lei”
Un allievo pronto al battesimo dell’aria a bordo di un vecchio
veleggiatore. I primi alianti erano poco veloci, questo consentiva ai
vecchi velivoli di sfruttare molto bene le correnti ascendenti strette.
Scoprii con stupore che il sogno del volo era divenuto realtà era
invece la terra che scorreva sotto, con tutti i suoi eventi, a
divenire sogno. Non potevo concepire che quel trainatore ed
anche mio professore o quell’istruttore seduto dietro me
sull’aliante ed anche tecnico seduto in moviola fossero le stesse
persone. Alla quindicesima ora di volo mi voltai dietro, ed ero
solo. Il mio istruttore si era dissolto nel nulla dopo avermi
abbandonato in aria al mio destino. Quando il mattino seguente
incrociai il mio professore a scuola mi comportai come nulla
fosse accaduto. Accennare dell’incontro all’aeroporto sarebbe
equivalso a dirgli: “professore questa notte l’ho sognata che mi
stava trainando in volo, ma che buffo” Persino volando sul mio
paese, mi sentivo come un fantasma che aleggiava sopra la mia
gente, e sopra i miei boschi. C’era il solito Giacomino che se ne
tornava a casa con il trattore seguito dal suo cane Turco.
Vidi la corriera blu delle 15 e 15, che mi aveva sempre portato a
scuola, mentre manovrava per superare la solita curva ad U sotto
casa mia. Vidi le due vedove in nero sul sentiero che portavano i
fiori al cimitero tutti i santi giorni. C’erano i Domenichi che
giocavano a bocce sulla piazza del paese (Li chiamavamo
Domenichi perché in quel paese di 86 uomini 14 si chiamavano
Domenico).
Sentivo la mia terra sotto come un luogo senza tempo. Se tra gli
studenti che scendevano dalla corriera vi fossi stato anch’io non
mi sarei meravigliato troppo. Risalendo verso la montagna,
munito dell’inseparabile radiolina con la “mutilazione” di
frequenza, c’era Lorenzo e le sue pecore che pascolavano allo
stato “ebraico”, (parole sue), mi chiamava aliantero. Lo sfiorai
quanto bastava per non spaventargli le pecore e lo salutai, lui mi
rispose con un cenno perplesso. La zona, lunga una decina di
chilometri tra Campoli e Vallefredda (fingete di sapere dov’é,
grazie), era il posto di sorvolo che più spesso mi divertivo a
rasentare. Era fatta di dune verdi, delimitate da muri a secco,
gruppi di faggi e laghetti circondati di pecore, vacche e cavalli
all’abbeverata. Era quello il mio tipo di volo preferito, alla
parapendista insomma, ed anche molto apprezzato dai miei
passeggeri, senza però disdegnare situazioni mozzafiato, come,
ad esempio rasentare la cresta del Corno grande affollato di
escursionisti per poi finire, in modo repentino ed inatteso sopra
lo strapiombo dei prati di Tivo. Ma la specialità dell’aliante,
proibita al parapendio, è il volo tra le nuvole.
La terra sottostante, che prima appariva senza distanza come
volare sopra un plastico in miniatura pieno di casette e
macchinine, vista attraverso le nuvole diviene improvvisamente
abissale.
Il decollo al traino è una fase piuttosto
delicata da eseguire con molto impegno
e concentrazione
Non tutti sanno che l’entrata in nube provoca un impatto con
essa, ma niente paura, è come una lievissima frenata che
terminerà uscendone fuori. La navigazione in aliante diviene
talmente istintiva che si può governare il volo col solo pensiero,
come fanno aquile e poiane che spesso vengono a ricordarmi:
“Divertiti pure ma sappi che questa è la mia zona e tu sei solo un
ospite eh”? E dei passeggeri che dire? Il mal d’aria è purtroppo
il più frequente e solo tra i maschietti, si!! Incredibile ma vero.
Mai, dico mai mi si è sentita male una donna, se qualcuno ha una
spiegazione la dica. Una volta uno dei tanti passeggeri salito a
bordo per scommessa con gli amici codardi rimasti a terra ad
ammirare, naso in su, il suo eroismo decise, suo malgrado, di
rivoltarsi lo stomaco come un calzino depositandone il contenuto
in quello che poco prima era un berretto e poco dopo un cesso.
Pensando di evitare una di quelle figuracce che rimangono negli
annali della comunità, mi implorò di atterrare in qualsiasi posto
nascosto dagli amici; una strada un campo di calcio un prato, ma
non in aeroporto.
Trovammo un compromesso, atterrai a fondo pista e dopo essersi
disfatto del cesso si modellò, alla meglio, una specie di sorriso
sulla faccia bianca come una candela e se ne tornò tra gli amici
per l’accoglienza trionfale, dopodichè svenne tra le loro braccia.
Si riebbe subito ma spesso mi chiedo quale sia stato il suo destino
dopo tanta onta. Un’altra volta si presentò un ex pilota militare,
tipo: “Petto in fuori!! pancia in dentro!!” anche se adesso era
l’esatto contrario, deciso a forgiare il nipotino dodicenne della
sua stessa tempra e farne, tramite i suoi agganci presso lo stato
maggiore, un vero ardito dell’aria. Fummo fortunati, un volo
stupendo. Tra monti e foreste continuavo a fare il cicerone, ma
quando mi voltai, lo vidi sprofondato in un sonno abissale.
Pensando che stesse male gli chiesi se voleva tornare a terra: “Si”
mi rispose farfugliando attraverso un teatrale sbadiglio:
“Torniamo”: Il nonno, povero nonno! Mi chiese: “Allora com’
è stato? Era tranquillo”? Ho…hem, si si, tranquillo, molto
tranquillo, gli risposi,. Che altro potevo dire?
Alianti in volo sopra alla città di L’Aquila
Zac!! Tagliare il vincolo gravitazionale e via verso il blu e le
nuvole se non altro tramite il pensiero e l’elevazione spirituale
fino in paradiso. Pensate che bello se la volpe stremata di fatica e
terrore, braccata da orde di cacciatori e branchi di cani feroci
messa alle strette, di colpo gli spuntassero le ali e via! verso
l’alto. Haa! che soddisfazione starsene lassù a gustarsi le facce
ribollenti di rabbia dei cacciatori e la frustrazione quasi
insopportabile dei cani.
In quelle condizioni di assoluta beatitudine tra le nubi non trova
posto neanche il rancore si è pronti a perdonare tutto e tutti,
persino la stupidità e le peggiori cattiverie perpetrate a chi vuole
solo vivere tranquillo al di fuori della legge della giungla.
Ricordo bene il sottile piacere che provai un giorno nel
veleggiare, come falco tra le rondini, sopra migliaia di macchine
invischiate nell’asfalto in un rovente esodo di ferragosto, ed io
ero li al fresco e libero di fluttuare nell’oceano azzurro tra le
nuvole senza limiti e confini.
Mi tuffai con sadico piacere a fianco della strada un centinaio di
metri più sotto che si inerpicava sulla montagna e ci feci un
rapido passaggio rasentando il guard rail per poi risalire
veleggiando verso il monte sopra gli sguardi trafelati dei
vacanzieri, punendoli di essere finiti come fessi tra le braccia
dell’ora di punta invece di attenersi alle le regole della “partenza
intelligente” come aveva detto la TV. . . Va be’ non esageriamo.
In una ventosa giornata di Ognisanti, del 1976 fui incaricato di
riportare un aliante da L’Aquila all’aeroporto di Rieti.
Attaccato al trainatore, l’aria si faceva sempre più turbolenta, un
vento da nord ovest ci sballottava in modo così violento che decisi
di sganciarmi sulla verticale del monte Giano (fingete di sapere
dov’è, grazie) anziché sul Terminillo come stabilito sul piano di
volo. Lo Stinson che mi aveva trainato se ne tornò indietro con
una repentina affondata. Attraverso la radio di bordo potevo già
sentire le conversazioni radio tra i piloti reatini che cercavano
affannosamente la prelibatezza più ambita dal volovelista; “la
termo onda” un raro moto dell’aria che ti può portare a quote
stratosferiche. Tra le tante voci concitate una mi preoccupò
particolarmente: “Niente sottovento, abbiamo 110 km orari, non
si cammina” 110 orari? ooh mamma mia!. Preoccupato, chiamai
Rieti e mi rispose una voce gentile e pacata che mi rassicurò di
stare tranquillo poiché a terra il vento era sostenuto ma
accettabile, con qualche precauzione in procedura d’atterraggio.
Una spettacolare nube lenticolare formata da aghi di ghiaccio
La voce era quella di Plinio Rovesti un vero monumento della
meteorologia aviatoria; sempre impegnato a scrutare i segni del
cielo e autore di un testo tutt’oggi utilizzato da tutti i piloti anche
quelli del volo libero e sul quale io stesso mi sono formato.
Scrutando in cielo, vidi alcuni alianti altissimi, praticamente
immobili, in cima alle creste del monte Terminillo dove si erano
formate alcune nubi lenticolari che sembravano dischi volanti,
chiaro segno di termoonda, ma la mia preoccupazione era solo
quella di atterrare incolume con tutto quel vento, finchè Rovesti
mi chiamò: “Lei del november! non venga giù, se si sposta verso
il costone, a ore 6, troverà un’ascendenza, ci dia dentro che la
porterà dritto dritto in onda”.
Dopo qualche minuto notai con sorpresa che mi stavo
allontanando dall’aeroporto contro prua. Incredibile ero in
retromarcia dentro un flusso laminare di 110 km orari ad una
velocità superiore a quella dell’avanzamento dell’aliante che era
di soli 90 orari, il tutto senza una bava di turbolenza. Che
emozione! Il mio primo volo in termoonda. Da 800 metri mi
ritrovai a 2000 metri ancora in salita. A quota 3800 una voce mi
chiese: “November! Mi comunichi, quota, velocità, il nome del
suo aliante ed in quale aeroporto si trova”. Quelle domande le
trovai alquanto strane ma non ci badai preso com’ero dagli
eventi. Pensai ad una specie di prova radio e mi misi a dare una
serie di numeri, finchè sentii di nuovo il Rovesti che mi chiese:
“Lei del november come va lassù? Mi ripeta. . .” e dalli ancora
con lo stesso quesito al quale risposi per la seconda volta. A quel
punto sentii la voce del mio vecchio istruttore, il comandante
Muzi, che mi ordinò di non salire oltre. Solo dopo l’atterraggio
mi spiegarono che quelle domande erano un test non per la radio
ma per capire se un pilota sia in anossia da altezza.
Nube d’onda generata da una risonanza dei venti d’alta quota
Un aliante in volo di termoonda a 4000 metri sul Gran sasso
Lo feci ma in una turbolenza da panico. Rovesti mi incitò
d’insistere, ma strapazzato sempre più dalla turbolenza ed il
variometro in salita a fondo scala, lo chiamai dicendo
preoccupato: “Ma guardi che qui si sconocchia tutto”, “no! non
molli prorio ora, viri, viri a ore 9. . .ecco bravo! dritto così ed
entrerà in onda”. Il suono del variometro acustico che fino a
quel momento mi ricordava i fischi delle pallottole nel mezzo di
una gigantesca sparatoria nel saloon si trasformò in un’unica
suadente nota simile alla voce del Rovesti. La turbolenza cessò
completamente. Ero in pieno flusso laminare, le ali immobili
come fossi atterrato sopra un grattacielo. Con il variometro
incollato a più 4, sospeso sopra l’aeroporto, salivo in senso
verticale come una mongolfiera.
Nella zona tra monte Terminillo e l’aeroporto di Rieti si era
instaurata la parte ascendente della termoonda che mi impediva
praticamente di scendere senza finire in mezzo ai rotori che nel
frattempo si erano resi visibili sottoforma di nuvolaglia come
mani che roteando minacciose mi dicevano: “Vieni, vieni che ti
stritolo io, ti stritolo”. Timoroso di quella minaccia chiamai il
direttore di linea per istruzioni ma mi rispose ancora Muzi che
mi disse con il suo consueto tono duro e rassicurante: “Amico
mio sei tu il comandante, sta a te decidere il da farsi”.
Appena fermo, due assistenti placcarono il mio aliante
afferrandolo per le ali. Solo allora mi resi conto dell’intensità del
vento. La sera stessa mi recai a ringraziare Rovesti che mi invitò
ad assistere alla sua lezione che ovviamente accettai. Rovesti
parlò, ammaliando un’intera platea di piloti, della eccezionale
situazione che quel giorno si era creata e che io stesso ci ero finito
dentro, grazie a lui e senza averlo mai visto prima. Un giorno
Rovesti venne, con un suo amico, all’aeroclub di L’Aquila e ne
approfittai ancora una volta.
Nelle due foto si vede l’evoluzione di
una nube d’onda, che si è formata
nella zona sotto la cresta di flusso
Strinsi le cinture più che potevo, tirai i diruttori e... discrazia tra
le discrazie erano completamente bloccati dal ghiaccio. Per
fortuna sfruguliando un po’ la leva i diruttori uscirono…fiiuuf.
La turbolenza non tardò a farsi sentire di nuovo. Tenni l’aliante
in pre stallo e la superai senza troppa difficoltà. Durante la
manovra di avvicinamento vidi un aliante atterrato al di fuori
dell’aeroporto per via del forte vento; senza danni per fortuna.
Tagliai il circuito, per non replicare lo stesso errore, e scesi come
appeso ad un paracadute ma regolarmente, fino all’atterraggio.
Quando ripartirono in macchina si fermò più volte continuando
ad istruire via radio sia me che altri due piloti ancora in volo. Le
teorie di Rovesti ed i suoi collaboratori venivano accolte
addirittura con denigrazione dalla meteorologia ufficiale. Più
noi volovelisti utilizzavamo la termoonda, più la meteorologia
ufficiale ne negava il fenomeno fino al giorno quando lessi un
articolo che diceva: “Studiate correnti laminari d’alta quota dal
meteorologo…” che purtroppo, neanche citava Plinio Rovesti
come sempre fanno gli scippatori di meriti dei nostri atenei.
L’officina dove, nel 1930, Rovesti ed un manipolo di squattrinati
studenti trentini, ma con tanta voglia di volare, costruirono le proprie
ali dando vita al volo a vela italiano. E’ riconoscibile in questa foto la
replica dell’aliante a traliccio tedesco “Zogling”. Successivamente,
sotto la guida gratuita di ingegneri delle’industrie aeronautiche,
Marchetti e Caproni, i volovelisti trentini crearono prodotti originali
come l’aliante anfibio “ROMA” nella foto sotto, con Plinio Rovesti alla
guida che decollava da una rampa sulla vetta del monte Campo dei
fiori per poi ammarare sul lago della Sciranna. Nella foto sotto il
libratore “TRENTO” ed il camioncino che trasportava alianti ed allievi.
Ve la immaginate oggi una scuola dove gli studenti realizzano e
volano con veri aerei fai da te? Nel lontano 1930, nel Trentino,
Rovesti ed un gruppo di amici volavano su alianti che loro stessi
realizzavano a scuola. Nel 2002, per fare un paragone, uno
studente scendendo le scale di un liceo italiano si è slogata una
caviglia. Aaaalt!! Fermi tutti, accesso proibito, scale chiuse per
due mesi. Perché? La scuola non aveva provveduto a sostituire
gli antiscivolo logori sui gradini, capito?. Figurarsi se ti fanno
volare con un aereo fatto in classe. Le regole che ci tutelano,
Plinio Rovesti a bordo
dell’aliante anfibio Roma
sia pure intelligenti, nel clima politico attuale del “vieni avanti
cretino” servono solo a tarpare le ali di chi vorrebbe librarsi
libero nell’aria in senso reale o figurato. Ah! che bello quando al
cospetto di un sogno, e non per mazzetta, il tutore della legge
strizza un occhio e finge di non vedere. Fu così che nel 1968
nacque anche l’aeroclub di L’Aquila, un hangar, un prato e un
cielo per volarci dentro. Purtroppo l’ingordigia di chi razzola
nel terreno politico, solo per poco non riuscì a trasformare quel
paradiso del volo a vela in una sterile landa d’asfalto.
Nessuna rappresentazione potrebbe schematizzare meglio, una situazione di
termoonda come in queste due immagini fotografate in una zona di confine tra
una catena alpina e la Pianura padana sulla quale sta soffiando la bora.
Zona alpina, venti da nord
rotori
Pianura padana, venti fohn in discesa
Sopra: Il cumulo nembo, è
ritenuto il nemico numero
uno degli aeromobili di
qualsiasi tipo, persino i più
robusti. Nel suo interno vi è
un inferno di fulmini e
correnti ascensionali che
risucchiano verso
l’alto
persino chicchi di grandine
come palle da biliardo. Il
cumulonembo è la tipica
nube temporalesca ed è
riconoscibile dalla sommità
a forma di incudine con la
base scura e piovosa.
Il cumulo nembo, “Charlie Bravo” in gergo meteorologico,
non vi spaventi più di tanto poiché, grazie proprio alla sua
imponenza, è una situazione assolutamente prevedibile e
quindi evitabile, a menochè non lo si sfidi deliberatamente.
Il cosiddetto ”volo senza motore” mi ha affascinato da sempre
per via della mia innata vocazione minimalista, una filosofia
che fa parte del mio stile di vita a 360 gradi, dal lavoro al tempo
libero dal corpo allo spirito. In assoluta controcorrente, lo
scarnire dalla mia vita ogni supporto tecnologico, gettare via il
superfluo generatore d’ansia, è sempre stato in mio anelo e la
mia ossessione. A nove anni mi regalarono una bicicletta
corredata di tutto dalla quale piano piano, facendo in modo che
i miei non si accorgessero, vi strappai via prima il campanello
poi la dinamo, il faretto, gli stop, i parafango, il porta oggetti,
insomma tutto tranne telaio ruote pedali e freni. Persino il
nome da bicicletta divenne semplicemente bici, tutto tranne il
minimo per viaggiare.
Così ridotta la bici appariva ai miei occhi un concetto di essa.
Più che una macchina, un pensiero magico, un tramite tra la
realtà e la fantasia che ti fa viaggiare nello spazio e nel tempo, e
ti fa volare sulla strada sfiorandola con un semplice colpo di
pedale attraverso la natura che ti scorre accanto.
Qualche anno dopo mi comprai una vespa solo per provare il
brivido del consumismo per poi passare, magari all’utilitaria e
così via fino alla Maserati, come tutti sognano, ma niente da
fare.
Il tarlo del minimalismo covava dentro di me e per una
improvvisa ricaduta passai, dalla Vespa al motorino
pieghevole, poi di nuovo alla bici e dalla bici a piedi. Applicai
la mia filosofia minimalista persino al mio sport preferito, il
volo. Iniziai col motore poi l’aliante ed in fine al parapendio.
Se anche voi intendete sposare il mio tipo di filosofia,
fregatevene del giudizio di amici e parenti, lasciateli rosolare
nella convinzione che le cose vi sono andate sempre peggio e
che la vostra vita è stata un fallimento totale. Lasciateli vivere
al limite delle loro possibilità.
Lasciate che siano loro a finire tra le grinfie dei cravattari.
Quando toccheranno il fondo voi sarete li ad aspettarli per poi
staccarvene fluttuanti nell’aere. Haug!! Parola di grande capo.
La prima volta che mi recai a scuola di parapendio, fiutai una
certa invidia da parte degli altri allievi verso i mio passato di
volovelista come se loro avessero scelto quello sport di ripiego
alternativo all’aereo. Pur amando molto l’aliante, l’ho sempre
considerato una specie di protesi alare, una sedia a rotelle per
uccelli disabili. Il parapendio mi ricorda invece la mia bici
minimale. L’idea di avere dentro lo zainetto una tela che una
volta distesa si gonfia di vento dispiegandosi come ali d’uccello
e ti porta in aria, mi fa impazzire di meraviglia e stupore.
Ma che cosa è un parapendio e come è nato? Il volo in
parapendio fu inventato da due paracadutisti francesi nei primi
anni ottanta nel tentativo di praticare del paracadutismo senza
utilizzare l’aereo come base di lancio. Il parapendio è infatti una
versione più fine del paracadute direzionale trapezoidale. I
primi rozzi parapendio, servivano solo a fare delle lunghe
planate dal monte di decollo alla pianura ma la rapida diffusione
di questo sport spinse ricercatori e progettisti a produrre vele
sempre più sofisticate ed efficienti fino ad arrivare al parapendio
moderno perfettamente in grado di veleggiare per ore ed ore.
Gli inventori del volo in
parapendio I. G.
Betemp e G. Basson
nel 1978 in decollo con
un paracadute
trapezzoidale. Sopra,
una vela moderna
In presenza di correnti dinamiche siapure modeste il parapendio
non solo veleggia ma, navigando nelle correnti ascensionali
diventa addirittura difficoltoso atterrare se non dopo ripetuti
tentativi, e questo non è un problema ma un sicuro vantaggio.
Attenzione! Il parapendio non è un paracadute ma una vera e
propria ala pieghevole che quando si irrigidisce incamerando
aria è in grado di veleggiare dentro le correnti ascensionali come
un aliante. Il classico paracadute a cupola è invece un sistema
frenante che rallenta solo la velocità di caduta verticale. Il
pilotaggio del parapendio è abbastanza semplice.
Una volta gonfiata la vela è sufficiente correre per qualche metro
controvento ed una volta in aria il parapendio va praticamente
da se, il pilota deve solo gestire il volo con due comandi bivalenti
che tirati in modo alterno, ne cambiano la direzione, tirandoli
insieme funzionano da freni.
Anche prima di Basson e
Betemp furono fatti tentativi
come questo di un
americano in una valle
alpina nei primi anni 70
La struttura di
un moderno
parapendio e le
parti che lo
compongono
L’insidia maggiore del volo come in altri sport, è nascosta nel
fattore umano cioè il pilota, anzi quei piloti, che hanno
l’irresistibile attrazione a strafare, ma per fortuna lo strafare è
una scelta. Anche lo sci, come tanti altri sport, può restare
tranquillo o diventare rischioso a seconda che si decida di sciare
solo sulle piste verdi o anche su quelle nere. L’atteggiamento
superficiale e presuntuoso nell’affrontare l’elemento aria, hanno
causato incidenti che talvolta sembrano ispirati da manuali di
volo al contrario; Come dire: “studiate punto per punto tutti gli
errori che ha fatto quell’ idiota, evitateli e volando volando
prima o poi morirete, di vecchiaia”
Linea d’orizzonte
Angolo di discesa
Zona ascendente
Flusso del vento
Ostacolo
Illustrazione R. Soldati
Ma come può un velivolo senza motore restare in volo per tante ore?
In aria perfettamente calma, sia l’ aliante che il parapendio o il
deltaplano, dal punto di partenza sono destinati a scendere fino a
terra secondo un angolo più o meno inclinato rispetto alla linea
d’orizzonte. Un aliante, per esempio, perde circa 50cm al secondo.
Se finisce dentro una corrente ascendente che invece sale a 50 cm al
secondo, pur continuando la discesa relativa all’aria, l’aliante
mantiene la quota sollevato dalla corrente verticale. Se invece la
corrente sale ad una velocità di 100 cm al secondo, l’aliante
comincerà a salire guadagnando 50 cm al secondo di quota. Al
momento che lo strumento rivelerà una corrente in salita il pilota non
dovrà fare altro che rimanere dentro la zona di ascendenza con delle
virate, come si vede nell’illustrazione. Nel caso dell’immagine sopra
la corrente è generata dalla montagna che devia il vento verso l’alto
ma esistono anche ascendenze generate da aria calda che sale per
effetto del riscaldamento del terreno o dei centri abitati. La stessa
tecnica, che si chiama “veleggiamento”, viene utilizzata anche dai
parapendisti e i deltaplani che una volta cessata l’ascendenza ne
troveranno un’altra seguendo indizi che i piloti conoscono. I “vuoti
d’aria” tanto temuti dai passeggeri, altro non sono che correnti d’aria
discendenti; situazioni fastidiose ma raramente pericolose, salvo in
casi del tutto eccezionali.
Ciò che rende diversi gli sport del volo da tutti gli altri è la
condizione innaturale dell’uomo nell’aria. Chiunque fosse
attratto, sia pure da uno sport veramente pericoloso come la
formula uno, non rinuncerebbe mai a farsi un giro a 300 all’ora
con una Ferrari, magari in autostrada all’ora di punta. Tante
persone invece pur subendo il fascino del volo non salirebbero
mai e poi mai a bordo di un aereo, figurarsi un parapendio o un
aliante: “Noo. . .un aereo senza motore. . . I vuoti d’aria. No no
io i miei piedi li tengo qui!! appiccicati a terra”. Dicono di solito.
La riluttanza al volo o addirittura la fobia di chi non ha mai
volato è molto spesso indotta dalla paura del vuoto e la vertigine.
Non tutti sanno che la percezione sensoriale della vertigine o del
vuoto è accentuata dagli indizi di riferimento, ad esempio le
linnee di fuga verticali di muri, rupi e alture in generale, come
meccanismo psicologico di difesa che protegge noi umani e tutti
gli altri esseri dalle cadute potenzialmente rovinose. Strano a
dirsi ma una esperienza in otto volante è ben più traumatica di
una acrobazia in aereo, anche per un pilota incallito. La paura
dell’altezza si potrebbe definire un fenomeno inversamente
proporzionale al peso, e al grado di fragilità che il soggetto ha di
se stesso in relazione all’entità del danno che ne conseguirebbe in
caso di caduta libera. Per esempio un gatto salta senza problemi
da altezze molto maggiori di un uomo soprattutto se riferite alle
rispettive proporzioni fisiche.
Un individuo non ha paura di grandi altezze se si sente protetto
da un parapetto o altro vincolo. La paura del vuoto è dunque
causata dai riferimenti verticali che quando sono assenti, come in
volo nell’atmosfera, la paura del vuoto si attenua o cessa.
Personalmente ho notato che nei battesimi dell’aria la tanto
temuta vertigine cede il posto al mal di movimento indotto da
percezioni dinamiche distorte. Ad esempio la sensazione di
“vuoto d’aria” o di ribaltamento in virata causata dall’assenza
degl’indizi di velocità ravvicinati, come, la strada, alberi etc. . .
Il senso di vertigine in questa immagine è
indotto dalle linee di fuga rappresentate dai
cordini. L’effetto di precipizio si annullerebbe
senza le immagini in primo piano.
Tempo fa si presentò, all’aeroclub di L’Aquila, un assessore del
comune di Avezzano che aveva il terrore di volare e doveva
recarsi in Argentina in occasione di un gemellaggio che mi
chiese: “Senta mi farebbe fare un giretto di prova? Basso però,
mi raccomando, solo a sfiorare gli alberi e meno veloce
possibile”. Non riuscii a trattenere una sonora risata ripensando
ad una barzelletta molto conosciuta dagli aviatori, quella della
madre che dice al figlio pilota: “Mi raccomando figlio mio, vola
sempre basso e piano” la migliore scorciatoia per il camposanto
come tutti i piloti sanno. Comunque riuscii a curare il mio
assessore dalla sua fobia che appena arrivato in Argentina mi
telefonò ringraziandomi.
Quale fu la terapia? Lo portai semplicemente in volo con un
aliante a motore e senza neanche accorgersi di essere arrivato a
600 metri si ritrovò sopra la città di L’Aquila, dopodichè lo
avvisai che avrei spento il motore per dimostrargli che un aereo
vola anche senza, perchè l’aria non è vuoto ma si tratta di un gas
che alla velocità di 100 orari diviene simile all’acqua nella quale
l’aereo naviga come fosse un sottomarino. “E se troviamo un
vuoto d’aria”? Mi fa “Senta assessore” gli risposi, “l’aria non è
come un formaggio Groviera, la probabilità d’incontrare un
vuoto d’aria è la stessa che lei avrebbe di fare un buco
nell’acqua. Assessori di tutto il mondo!! venghino, venghino da
me a volare, vi curo io vi curo.
Il comandante Tristano
Crisantemi invita le siore e i
siori passeggeri a guardare alla
vostra destra San Sepolcro e il
mar Morto a sinistra
Dragone volante applicato ad un parapendio durante una
manifestazione in maschera per macchine volanti
Dedicato ai timorosi del volo abbiamo progettato e costruito
questo ornitottero battezzato “Cibernautilus” che è un’
assemblaggio tra un paraglyder motorizzato, una videocamera
stereoscopica, ed un visore, realizzato in collaborazione con gli
studenti di un Istituto d’Arte di L’Aquila che ne hanno anche
fatto oggetto di studio analizzandone ogni singola parte.
L’apparecchio è in grado riprodurre virtualmente il volo nelle
dimensioni apparenti di quello reale che tutti i visitatori,
bambini e adulti, potranno rivivere senza rischi o paure.
Come funziona?… E’ spiegato sulla foto a destra
Una stereocamera
montata a bordo di un
paraglyder a motore filma
il paesaggio in volo.
Terminato il lavoro il
velivolo atterra…
L’apparato, ci immerge nell’atmosfera ai primordi del volo e i suoi pionieri
che, con la loro beata incoscienza, installavano sulle pianure americane,
una sorta di “circo dell’aria” per spericolati spettacoli.
…e potrete rivivere
l’esperienza del volo
virtuale attraverso di uno
stereoscopio applicato
sul cybernautilus non
appena a terra
Trovo incredibile che fin dai tempi dell’ornitottero di Leonardo
e dopo aver attraversato tutta la storia del volo fino ai più recenti
velivoli e lo sbarco sulla luna, si dovesse aspettare ancora una
decina d’anni prima di concepire un’aerodina della semplicità di
un parapendio. Se Leonardo avesse costruito un parapendio di
seta, avrebbe evitato di far scapicollare quel poveraccio di Otto
Lilienthal tentando di realizzare parecchi secoli dopo il suo
ornitottero.
Otto Lilienthal nel primo 900 aveva
compiuto migliaia di voli prima
dell’incidente che gli fu fatale.
Scherzi a parte, Leonardo fece una scoperta fondamentale nel
campo del volo umano che nemmeno alcuni pionieri prima di
Lilienthal avevano capito, cioè che non è l’ala battente a
permettere il volo ma la velocità che da portanza all’ aerodina,
qualsiasi essa sia. Ma la svolta decisiva per volare era nascosta
proprio nelle ali degli uccelli che solo Lilienthal aveva notato
poco prima della sua scomparsa. Il profilo.
I libratori di Lilienthal e i primi aerei,
avevano un profilo piatto e ricurvo
verso il basso con la sola funzione
d’irrigidire l’ala, il che permetteva,
all’insaputa dei primi pionieri, la
formazione di un profilo, sia pure
rudimentale, grazie all’aria che
incamerandosi sotto l’ala formava un
cuscinetto creando un infradosso nel
quale scorreva il flusso sottostante.
Il vecchio profilo vuoto,
sopra e moderno sotto
In pratica l’ornitottero di Leonardo sarebbe
stato in grado di volare anche perché i
materiali, legno e tela, erano allora già
disponibili, ciò che impediva di accogliere
una simile invenzione era la cultura
oscurantista medioevale.
A quei tempi
bastava molto meno per essere accusati di
eresia per voler sfidare le forze divine ed il
potente clero del tempo che puntualmente si
ergeva a grande censore delle idee nuove.
Vedi Galileo e Giordano Bruno...
All’inizio del 900 solo pochi ricchi ed accentri personaggi
osavano andarsene a spasso per l’aria con le prime scoppiettanti
macchine volanti che puzzavano di carburante e sputacchiavano
olio. La tecnologia offriva loro anche una vasta gamma di
aggeggi che consentivano a quei personaggi di esibirsi in
pubblico. C’era, per esempio un simpaticone, un certo Santos
Doumont, che se ne andava svolazzando sopra i tetti di Parigi
con un minuscolo dirigibile a motore con il quale ebbe numerosi
e buffi incidenti dai quali usciva sempre illeso. Una volta uno dei
suoi dirigibili prese fuoco urtando un albero. Alberto discese
dall’albero avvolto nel fumo e se ne andò tra i curiosi, mentre
alcuni di essi lo cercavano tra le fiamme. Un sarto si schiantò
buttandosi dalla appena edificata Tour Eiffel con un vestito a
pipistrello, haimè, per volare di sua invenzione. Un emulo di
Icaro, invece, fece uno spettacolare tuffo nella Senna facendosi
catapultare in aria con un paio d’ali appiccicate dietro la
schiena. Anche il gigantesco aquilone sotto, sta per finire nelle
fredde acque del fiume Potomac in America, per fortuna senza
conseguenze al pilota che fu anche il suo costruttore.
Dumont mentre regola la zavorra in uno dei suoi dirigibili
Alberto Santos Dumont
Sopra, uno dei tipici disegni
che all’inizio del novecento
rappresentavano il confine
tra la realtà e la fantasia, tra
Verne e i fratelli Wright
Sopra una macchina volante ad ala battente.
Questo sistema pur imitando il volo degli
uccelli fu sempre perdente fino all’invenzione
dell’elicottero. Il sistema vincente fu quello
dei fratelli Wright che sfruttando la velocità,
privilegiarono
l’aspetto
dinamico
della
portanza alare che permetteva loro di volare,
come si vede a fianco con questo prototipo
senza motore
A bordo dei primi aerei senza parabrezza i
mosquitos erano un fastidioso problema
Sia pure pittoresco questo prototipo a pedali era
destinato a restare saldamente attaccato a terra
Sopra, un volo sperimentale dei
fratelli Wright. A fianco: uno dei
primi voli turistici in America.
I fratelli Wright realizzavano i
loro aerei con la tecnologia per
fare le biciclette, infatti l’angar
sotto era la loro fabbrica di bici.
Grazie ad un gruppo di artisti ribelli, nel 1909 nacque in Italia il
movimento futurista. Pittura, scultura, musica, teatro e
letteratura, tutto era volto a celebrare la potenza che la macchina
esprimeva nel muovere, fabbriche, treni, navi, aerei e automobili
in una sarabanda di irrefrenabile vitalità che talvolta portava gli
artisti ad enfatizzare persino la guerra, quale sorgente di beltà e
forza vitale che scaturiva dai suoi strumenti di morte. L’euforia
di quel particolarissimo momento storico, dove le visioni
fantasticate da Verne, Leonardo da Vinci ed altri profeti si
realizzavano, inducevano l’idea di un mondo ideale senza limiti e
confini. Fu nel contesto di questo movimento che
nacquero i pittori volanti e la loro “aeropittura”come si vede in
queste immagini. La macchina era il dio d’acciaio e chi la
governava ne era il suo sacerdote. Un sogno di grandeur, bello e
agitato che le cannonate dell’ultima guerra provvederanno,
purtroppo, a ridimensionare. Mai come allora la macchina
aveva preso forma liberando una forza vitale con la bestialità di
un animale forgiato da mano umana. Per gli artisti legati ancora
alla classicità, l’avvento della tecnologia era invece solo motivo
d’angoscia che fugavano rifugiandosi nei fantasmi del mondo
antico evocandolo con opere popolate di dei, elfi e ninfe, sempre
immersi in un eterno e malinconico crepuscolo.
Un aliante da guerra anglo-americano da incursione. Trainati da un
Dakota, questi alianti dopo lo sbarco dei commando venivano distrutti
Il movimento futurista che fin dalla
sua nascita fu accusato, sostenitori
inclusi, di collusione con il regime
mussoliniano, non poteva non
estinguersi che con la caduta del
fascismo. Tuttavia ogni artista, di
qualsiasi credo politico, riconosce
l’importanza che questo movimento
ha rappresentato nel contesto
dell’arte moderna nazionale.
La trasvolatrice americana degli anni 30 Hamy Johnson, a sinistra, e
Libby Gardner alla guida di un aereo militare nel 1942 all’epoca
molto popolare nell’ambiente US Airforce. Sopra a destra, la ormai
mitica Amelia Earhart scomparsa in mare durante una impresa trans
oceanica. In basso, la pilota postale italiana Maria Teresa Torricelli.
Con la nascita dell’aviazione i cieli, più delle strade, si erano
popolati di moltissime donne pilota che all’inizio si distinsero
collezionando parecchie imprese, spesso ardite e spericolate.
Una tendenza che si era ridotta negli anni successivi, forse a
causa dell’ultima guerra in cui l’aereo, per via dell’utilizzo come
macchina bellica, aveva perso il suo fascino avventuriero e
romantico di prima, anche se non mancarono donne pilota in
campo militare come si vede in questa galleria.
Amelia Earhart
Resta infatti un mistero come
l’uomo riesca a trasformare,
con l’abilità d’un Fregoli, ogni
meraviglia tecnologica sempre
in qualcosa di diabolicamente
micidiale. Fu così che l’istinto
guerriero venne trasferito anche
nella
macchina
volante
concretizzandosi nelle gesta
eroiche del barone rosso che a
dire il vero a noi piloti sportivi
non ci seducono più di tanto.
Come socio di un aeroclub, nel mio caso quello di L’Aquila fin
dal 1969, mi sono subito reso conto che anche nelle discipline
dell’aria inevitabilmente si ricreavano i soliti schieramenti con
relative dinamiche sociali presenti nella vita ordinaria sia pure
tra individui uniti dalla stessa passione per in volo. L’aspetto
positivo nella comunità d’aeroclub era il reciproco rispetto tra i
soci delle varie specialità. Tuttalpiù ci si prendeva in giro
scherzosamente ma senza mai sconfinare nello scontro duro
come nella vita ordinaria.
Per me il volo a vela parlava in dialetto padano. Attraverso la
radio di bordo, sia pure tra i monti d’Abruzzo, solo dialetto
padan ma d’un padan: “Ma va in mona sto vecio piparo sé n’ora
bona appiccicato sul costun a fare avanti in ‘dre cu la Rosina”.
Huè, porca l’oca chi è quel pir-lota d’un pir-lota che m’a taglià la
strada. Mica come al meridionalissimo aeroporto militare di
Guidonia, dove un giorno, già agganciato al traino una voce alla
Tiberio Murgia mi fa dalla torre: L’aliando rromeo oscar
rremanga in punto attesa pecché c’è un arreo mmeletaro che
deve fare un’emmeggenza semolata. Il volo a vela per dirla in
politichese era considerato di sinistra, il volo a motore era
considerato di centro, i parà decisamente a destra, ì deltaplanisti
invece solo dei pazzi da legare di matrice anarchica almeno fino
a qualche anno fa quando le prime ali Rogallo, rispetto ai
moderni delta, erano delle vere trappole volanti.
Un “antiquo”
deltaplanista
mentre impreca
contro l’ingegner
Rogallo
Il parapendio non esisteva ancora. Ho iniziato a praticarlo nel
2004 dopo un sopralluogo a monte Ripoli sopra a Tivoli. Dopo
aver sbirciato attraverso i cespugli alcuni parapendisti laziali, e
fiutando ormai una certa affidabilità del mezzo ho deciso di
cornificare il sodalizio trentennale con l’aliante con il quale,
anche dopo il divorzio siamo sempre restati buoni amici.
Un superman
alato pronto a
difendervi dai
cattivacci
I motivi che mi hanno indotto a mollare l’aliante sono diversi:
Le snervanti visite mediche ma soprattutto il decadimento dello
“spirito d’aeroclub” per via della calata dei buzzurri dai miei
monti d’Abruzzo che colti da improvviso benessere vogliono
provare anche l’ebbrezza del volo in attesa di riprendere i
ragazzi in piscina e la moglie in palestra. Se chiedi loro un aiuto
per mettere in linea ti guardano attraverso i Ray-Ban scurissimi
ma non schiodano di un passo. Un altro fattore del mio
abbandono è stata “l’evoluzione” della macchina aliante.
Il giorno che mi recai alla prima lezione di parapendio alla
scuola Union Volo nei pressi della Cecchignola, mi portarono, tu
guarda il caso, proprio sopra un montarozzo profumato di fieno
appena tagliato. Non restava che distendere la vela, o quella che
era l’evoluzione naturale del lenzuolo primitivo fatto di juta e
finalmente, dopo una attesa durata 45 anni, volare!!. Anche se
la mia avventura iniziò in aliante con quasi 4000 ore volate, la
maggior parte all’aereoclub di L’aquila, l’aliante non lo avevo
mai considerato un lenzuolo ma un’automobile alata in discesa.
L’aeroclub di L’Aquila, come già detto, è nato nel 1968 grazie ad
un entusiasta manipolo di appassionati del volo a motore sotto la
guida spirituale del francescano padre Onorato ex pilota
militare che dopo essere finito in mare una notte di battaglia del
44, fece voto a vita monastica presso il convento di San Giuliano
in L’Aquila.
Questa foto è stata scattata da una
fotocamera in coda di un altro aliante
La mania per il volo competitivo ha convinto i costruttori a
produrre macchine sempre più veloci che quando entrano in
termica anziché veleggiare ne sgusciano via come saponette. E
poi i sedili che via via dalla comoda posizione seduta sono prima
diventati come sdraio e poi addirittura lettini volanti; se vuoi
gustarti un po’ di panorama te lo scordi senza beccarti un bel
torcicollo. Ho provato anche a volare con il deltaplano,
bellissimo! ma, per quanto mi riguarda, era un tipo di aliante da
starci sdraiati al contrario. Evviva dunque il parapendio. A dire
il vero il parapendio era lì accantonato, da tempi remoti, nella
parte ancestrale del mio cervello. Quando da pischello andavo
con i nonni a prendere il fieno mi divertivo correndo in discesa
con il lenzuolo rigonfio di vento aspettando il rafficone decisivo
che mi avrebbe portato in volo.
L’Aquila giugno 1972
Io che non amavo particolarmente il motore, pur essendo
aquilano frequentavo poco quell’aeroclub. Finchè un giorno del
1976 ficcando il naso dentro l’ hangar non notai un carello con
qualcosa impacchettato sopra. Mi avvicinai e sollevando un
lembo dell’imbottitura, Audite! Audite!, intravidi un aliante.
Era un vecchio K13 che aspettava me, quasi l’unico volovelista
della zona. Il K13 era un aliantone scuola buono e generoso
come un nonno sempre pronto a perdonare le peggio marachelle
che gli allievi potessero combinargli per dispetto o incoscienza.
La marche o se vi piace la targa in lettere stampigliata sulla
fusoliera era
I-CENN. Un velivolo, secondo le norme prende il nome dalle
ultime due lettere dall’alfabeto fonetico, nel nostro caso NN
“november november” che per pigrizia o per scaramanzia,
chiamavamo molto funestamente “2 november” badando bene di
non farlo con passeggeri a bordo. Fino ad allora esorcizzavo
l’evento incidente praticando il culto della prudenza che si
esprimeva in accurate ispezioni pre volo e sopralluoghi nei campi
attigui all’aeroporto da usare in caso d’emergenza, anche perchè
un mio amico aviatore un giorno mi disse, con dei freddi dati
statistici alla mano, che un pilota subisce potenzialmente un
incidente ogni seicento ore di volo. Io che già avevo collezionato
più di 1500 ore, da quando presi il brevetto, senza neppure un
graffio, cominciai a preoccuparmi sul serio. Infatti, un giorno
mentre veleggiavo ad una quota di 600 metri con il mio aliante
comprato usato in Svizzera, a causa di un difetto strutturale,
all'uscita di un vortice il velivolo si inclinò pesantemente di ala
destra, senza che potessi agire in alcun modo sui comandi.
Il velivolo entrò in una virata strettissima, che si trasformò ben
presto in una inarrestabile, vorticosa spirale picchiata. Provai
immediatamente un forte panico, ma dopo, avvertii come una
puntura di anestetico che in qualche secondo agì, inducendomi
una calma insolita. Dissi a me stesso: “Non ti devi preoccupare,
anche se dovessi schiantarti non sentiresti nulla. Nel frattempo
fai quello che ti ha insegnato l'istruttore: Con calma, afferra la
maniglia del paracadute, apri il tettuccio, sgancia le cinture di
sicurezza, cerca di uscire tirandoti fuori con tutta la forza per
vincere la centrifugazione che ti tiene incollato dentro.
Ok, ora sei fuori, conta 1, 2, 3 prima di tirare la maniglia per
non impigliare il paracadute all'aliante, TIRA!!"
In un attimo mi sentii risucchiare verso l'alto, ma era solo una
sensazione. Il fragore del vento, che non era mai cessato, si
attenuò fino a smettere del tutto. Il paracadute si era aperto a
meno di 200 metri da terra. Vidi l'aliante che, perso il mio peso,
si impennava verso l'alto, si fermò un attimo in aria per poi
ricadere a foglia morta proprio in direzione della strada statale,
Al fianco della strada, un gruppo di operai che stavano
allacciando un tubo all’ acquedotto, sospeso il lavoro, si recavano
a pranzo sotto una casa in costruzione. Ancora appeso al
paracadute, mi misi a gridare: "Attenzione laggiù, un aereo vi
sta cadendo addosso!". Vidi uno di loro fermarsi ad ascoltare
finchè l'aliante si schiantò sul fianco della strada, a pochi metri
da lui. Qualche minuto dopo mi disse di aver sentito il mio
richiamo e di aver scrutato l'orizzonte in ogni direzione, ma
senza riuscire a vedermi. Del resto, come poteva immaginare che
quella voce veniva dall'alto dei cieli? Ancora in discesa con il
mio paracadute, sentii, insieme allo schianto dell'aliante, anche lo
stridio di frenata di un camion che transitava li vicino in quel
momento. Non appena toccai terra in mezzo ad alcuni cespugli
di ginestra, abbandonai il paracadute e mi accodai agli operai
che correvano in direzione dei rottami del velivolo, i quali non si
accorsero, ne del paracadute, ne della mia presenza.
Uno di loro non vedendo il pilota tra i resti, si voltò verso di me
gridando: "Tu, che cacchio fai li impalato, va dall'altra parte
della strada a cercare il pilota, perchè io non ho il coraggio".
"Ma guardi che il pil . . . il pil . . . ", cercai di rispondere ma per
lo shock mi si era seccata la saliva che non potevo neanche
parlare. "Humm humm", dissi indicando me stesso. "Il pil-l-llota, il pilota sono io", dissi, spiccicando finalmente la lingua dal
palato. Non fui creduto subito. Vedendomi con occhiali scuri e
un cappellaccio da spiaggia, calato sulla faccia e rimasto
miracolosamente incollato in testa, probabilmente pensavano che
io fossi uno di quei fissati che vagano a piedi da un paese
all'altro. Fu una vecchietta ad avallare la mia versione dei fatti,
dicendo in dialetto abruzzese: "Si si, era lui che e scisu co nu
pallone entro ‘nu cistu, locaddietro". Aveva scambiato il mio
paracadute per un aerostato, ma questo è bastato.
Foto scattata a L’Aquila da H. Henrich Peltz, l’ 8 agosto 1982
Gli altri piloti, che dall' Aeroclub di L’Aquila avevano visto
tutto, non tardarono ad arrivare. Con loro c'éra anche un ex
pilota militare tedesco che si mise a scattare foto. Mi confidò che
neanche in guerra aveva visto nulla di simile. Il camionista che
aveva assistito all’impatto ci offrì gentilmente di caricare i
rottami sul suo camion per portarli fino all'aeroporto, dove la
salma dell'aliante fu cremata per non impressionare i turisti.
Poi, caricate le ceneri su di un aereo, le disperdemmo sopra al
Gran Sasso. Mi costrinsero a tornare in volo la sera stessa con
un aliante del club, per un volo turistico. Tornai sulla zona
dell'incidente, ci feci un giro simbolico sopra, poi il passeggero,
ignaro di quanto accaduto, mi chiese: "Senta un po', ma se lei si
dovesse buttare con il paracadute si butterebbe?".
Solo quando il rogo consumò l’aliante, un M100 tutto di legno e
tela, capimmo quale fu la causa dell’entrata in vite. Un
volovelista calato dal nord per partecipare alle gare della
Pentecoste che da anni si tenevano a Rieti, vuotò il sacco e la
verità venne a galla. Il primo proprietario svizzero del mio
aliante M100 con marche HB-ORF ribattezzata I-NEMO, dopo
aver scassato l’estremità alare sinistra in un atterraggio duro,
pensò di riparare da se il danno. Anziché affidare il lavoro ad un
costoso specialista in modo da sostituire la struttura rotta fece,
nel suo garage, un bel malloppo di vetroresina da far invidia al
più rinomato ortopedico aggiungendo così un peso
supplementare di ben 12 chili rispetto all’ala destra.
Lo strumento più preciso di
un aliante è il filetto di lana.
Qui lo vedete attaccato sopra
la capottina che rivela il volo
coordinato al vento relativo
I resti dell’ M100,
che negli anni 60 fu
un ottimo aliante
italiano progettato
dall’ingener Morelli
Foto di C. Green
Durante una manovra acrobatica ignaro dell’insidia nascosta,
l’ala più pesante, esterna alla virata, prese a centrifugare
violentemente fino a portare l’aliante in vite e poi in spirale
picchiata. “Alla faccia della proverbiale precisione svizzera” A
dire il vero la mia iper prudenza mi salvò almeno altre due volte.
Un giorno, subito dopo il decollo, il cavo si sganciò dal trainatore
ma atterrai senza danno in un campo vicino, tra gli alberi di un
frutteto già ispezionato in caso di necessità. La seconda volta,
meno fortunata, mi capitò per colpa di un temporale.
Durante uno stage a L’Aquila, un istruttore tedesco richiamò a
terra in fretta e furia tutti i suoi allievi che in poco tempo
invasero la pista fregandosene della sirena e gli ordini della
torre. Il controllore mi autorizzò allora ad atterrare sopra la
piazzola d’ingresso ancora in fase di costruzione.
Atterraggio perfetto fin quando il carrello dell’aliante finì
dentro un solco di drenaggio che spaccò l’aliante in due pezzi.
Incredibilmente me la cavai solo con una lieve contusione al
torace.
Fare del paracadutismo? Non proprio, mi faceva impressione
l’idea della caduta libera e la possibilità di una mancata
apertura. L’idea di buttarmi con l’emergenza dall’aliante mi
faceva rabbrividire, eppure fu proprio in occasione del mio
lancio d’emergenza nell’ 82 che decisi di accostarmi al
parapendio o quello che allora si chiamava paracadute da
montagna, che tra l’altro era una vela già bella e aperta al
momento del decollo. Un rischio in meno. Mi restò, di quella
drammatica esperienza, la piacevole sensazione di fluttuare nel
vento e dopo lo strappo d’apertura del paracadute, lo schianto
del mio aliante e il silenzio che seguì, udii il cinguettio degli
uccelli, l’abbaiare di un cane e la voce di alcuni bambini in
bicicletta attorno una piazza. Rumori, prima lontani e rarefatti
per via dell’altezza e poi sempre più vicini fino al lieve tonfo delle
mie scarpe contro l’erba, e la vela che si adagiava sgonfia tra i
cespugli profumati di ginestra.
E con questo concludo, sperando di essere stato più onesto
possibile nel narrarvi le vicende siapure modeste di un
appassionato aeronauta avendo cura di non omettere, tra le cose
belle ed esaltanti dell’”oceano aria”, anche le disavventure più o
meno divertenti, talvolta drammatiche che capitano a chi vola
come a chi resta a terra. Evitando così il solito raccontino ad
alto contenuto glicemico di chi vuole tirare acqua al suo mulino,
come faceva in modo molto innocente e sincero un mio
professore di scuola ed anche giocatore dell’Aquila rugby “Fate
il rugby ragazzi, è uno sport meraviglioso e formativo” diceva.
La cosa curiosa che ogni volta ci ripeteva la stessa frase aveva, o
un braccio appeso al collo o una gamba ingessata e contusioni
varie riportate dalla mischia in campo. Ma lui era felice così,
anche se cautamente decisi di dedicarmi al volo a vela che a torto
o ragione ritenni meno rischioso.
Roberto Soldati
Appunti volanti
Hanno collaborato alla realizzazione:
Augusto Sforza Cesarini, Giulio Marra, Filippo Dragonetti, Felice Valenzano, Giulio Cesare Malinverno, IAF Art director Mary
Henzler Cooper per IAF visualresearch Wisconsin USA. Grazie a Plinio Rovesti per le foto, rivista volo a vela 82.
Edizione italiana cura di Roberto Soldati, CD no profit per IAF visual research, prod. IAF edizioni, Roma
IMPORTANTE: Questa versione CD, nato per rendere familiare il volo a studenti e gente comune, non deve essere usato a fini di lucro
Scarica

Presentazione di PowerPoint