ORGANO DELLA
PASTORALE SANITARIA
DELLA DIOCESI
DI ROMA
POSTE ITALIANE S.P.A.
SPEDIZIONE ABB. POSTALE
DL 353/2003 (CONV.IN L. 27/02/2004 N° 46)
ART. 1 COMMA 2 DCB ROMA
N. 59 giugno 2009
N. 59 giugno 2009
SOMMARIO
Il cammino è nella speranza
Organo
della Pastorale
Sanitaria
della Diocesi
di Roma
Direzione, Redazione
e Amministrazione
Vicariato di Roma
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“Pastorale Sanitaria 54-5-6”
Periodico Trimestrale Registrato
al Tribunale di Roma
Reg. Stampa n. 200 del 12.4.95
3
Per non riportare indietro le lancette della storia
5
Far dormire non è far morire
9
Visita pastorale a Villa Pia
Dopo la visita del Vescovo alla clinica Guarnieri
La mia vita appartiene a Dio
11
12ª Edizione del Premio “Il Buon Samaritano”
12
Il centro di aiuto alla vita
Eur S. Eugenio compie 10 anni - Ecco la storia
14
Che cosa è la pillola RU 486 e perché esserne
contrari - La carità - La vita è come er sole
17
Cenni sulle problematiche della bioetica
18
Pagine di vita
19
Amare la Vita, fino alla fine
I due precetti dell’amore
20
La carezza del Papa a «Capitan Uncino»
22
Testimonianza - Divin Salvatore!
Er succo der Vangelo
23
Teresa Orsini Doria Pamphilj Lante
24
Lettera a Gesù - Il meglio di te
Le stagioni della vita
27
«Una vita spesa per amare» Padre Livio Petroselli 28
Vita umana
29
25° anniversario della morte del prof. Antonio
Mosca e di suor Luciana Iezzi all’ospedale CTO
30
Il terremoto dell’Aquila
31
Prendersi cura
32
Etica e Sanità
33
Un punto di vista
34
Preghiera alla Madonna della Salute
35
Una lettura, anche spirituale, per l’estate:
i racconti di Karen Blixen
36
Un «anno sacerdotale»
38
Sotto il segno del curato d’Ars
40
Pellegrini in Terra Santa
41
Invocazione allo Spirito Santo
43
Fede, carità e anziani malati
44
L’ospedale delle Grazie a porta Angelica
47
ABBONAMENTO ANNUO:
Socio sostenitore:
É 51,00
Comunità o Istituti: É 26,00
Ordinario:
É 16,00
Finito di stampare l’11 giugno 2009
per i tipi della PrimeGraf
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PAG
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2
I
IL CAMMINO È
NELLA SPERANZA
l cammino nella speranza ci ha accompagnati quest’anno pastorale in un modo speciale, grazie al nostro Vescovo, il
Papa Benedetto XVI, che ci ha invitati
a «Educarci alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza»
guidati dalla sua enciclica Spe salvi.
Siamo stati invitati a sentire il «gusto
del futuro», impegnati a vivere il presente con coraggio, alla scuola di Gesù
maestro di vita.
Educarci alla speranza ci ha continuamente spronati a ricercare i valori fondativi che danno respiro alla vita quotidiana. Il Papa ci ha detto nella sua enciclica che sono da valorizzare tutte le
speranze umane, ma che queste non sono il tutto. «L’uomo ha bisogno di una
speranza che vada oltre» (Spe salvi
30). Questa speranza non può che essere Dio, che abbraccia l’universo, e in
primis 1’uomo amato da Lui.
«Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò
non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una
speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa
d’infinito, qualcosa che sarà sempre
più di ciò che egli possa mai raggiungere... Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che,
giorno per giorno, ci mantengono in
cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande
speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci
e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gra-
tificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi Dio, ma quel
Dio che possiede un volto umano e che
ci ha amati sino alla fine: ogni singolo
e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai;
il suo regno è presente là dove Egli è
amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà
giorno per giorno, senza perdere lo
slancio della speranza, in un mondo
che, per sua natura, è imperfetto. E il
suo amore, allo stesso tempo, è per noi
la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è veramente vita» (Spe salvi, 30-31).
Il regno di Dio è presente già fin d’ora
li dove «Egli è amato e dove il suo
amore ci raggiunge». L’impegno di
ogni anno pastorale è quello di crescere personalmente e comunitariamente
nell’amore del Signore, e renderlo presente nei luoghi di sofferenza; questo
significa vivere e, in qualche modo, anticipare la speranza futura.
Dice ancora il Papa al n. 27 della Spe
salvi: «Chi viene toccato dall’amore
comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe “vita”».
L’impegno a rendere gli ospedali e i luoghi di cura, più umani, più pieni di vita,
per un cristiano, non è un discorso puramente filantropico, ma un impegno di
testimonianza dell’amore di Dio Padre,
del figlio suo Gesù, della potenza dello
Spirito Santo operante in noi e nel mon3
do con dolcezza ma anche con forza.
Questa profonda umanizzazione nel mistero trinitario diviene il terreno ideale
per quel rinnovamento che tutti si auspicano, ma che non si realizza mai. Ciascun battezzato, e la comunità cristiana
nel suo insieme, presente in ospedale e
nelle cliniche, deve continuamente progredire nella immedesimazione al mistero della salvezza, per assumere sempre più la chiamata a condividere la vita
nei luoghi di cura e portarvi la speranza
cristiana. Aiutare a rendere più umani i
luoghi di cura, per noi cristiani, non è una
cosa facoltativa ma un obbligo morale.
e donarci la vita nuova, la vita eterna.
Chiunque, nella fede, accolga il messaggio evangelico e lo celebri nell’assemblea liturgica scopre un significato
nuovo della sua vita sana ma anche della sua vita malata.
L’incontro con Cristo porta una trasformazione di tutte le nostre speranze e ci
apre alla speranza eterna, della gioia che
non avrà mai fine.
La vocazione dell’uomo è quella di essere felice e vivere nella gioia: lo Spirito Santo donatoci dal Padre, per mezzo del figlio suo Gesù Cristo, ci plasma
per renderci capaci di accogliere i doni
di Dio che ci comunicano la vera gioia
e la felicità, che si può provare anche
nella prova e nel dolore.
La bellezza della rivelazione di Gesù si
può cogliere anche accostandoci all’uomo malato, anziano, handicappato, perché Gesù ci ha detto: «Ero ammalato e
tu ti sei preso cura di me». Perciò accostiamo il malato come un «sacramento», cioè la presenza dolorante di
Gesù, che continua la sua opera di salvezza attraverso la debolezza umana dell’uomo sofferente. Non dobbiamo
dimenticare che Gesù ha salvato il mondo sul letto della croce. D’altra parte non
lasciamo mai mancare ai malati il sostegno eucaristico, il viatico ai moribondi, sacramento di salvezza per i vivi.
Accompagniamo sempre con grande
amore e partecipazione i viandanti della vita che sono segnati nella carne dalla malattia, ma che a volte sono più segnati nello spirito, perché vivono la paura dell’abbandono, della fragilità, della dipendenza, della solitudine, del sentirsi un peso per la famiglia e la società.
Il conforto di Gesù eucaristico, pane del
pellegrino, e la nostra vicinanza otterranno i miracoli dell’amore.
L’Eucaristia, pane di vita.
Il mistero eucaristico
È nel mistero eucaristico che il discepolo del Signore riscopre continuamente
il significato portante della propria esistenza e del proprio agire, perché in esso trova i parametri per la sua vita d’amore, di donazione, di morte e risurrezione. L’eucaristia è il Viatico che alimenta la vita dell’uomo, destinato ad
andare al di là della morte.
È nell’incontro con Cristo sacramentale che si attua la vera vita, che si riscopre la luce per trovare il significato evangelico dell’esistenza, del soffrire, del vivere e del morire. Allora la bellezza creatrice dell’eucaristia si traduce in un canto di lode e di ringraziamento al Dio che
si è fatto, in Gesù Cristo, uomo per noi,
ha preso su di sé la nostra debolezza, il
nostro peccato, per riscattarci dal male
Armando Brambilla
Vescovo Ausiliare di Roma
Delegato per la Pastorale Sanitaria
4
S
gli schieramenti politici e ideologici così da imporsi come una realtà profondamente naturale e per questo universale.
In un suo saggio sull’etica, il grande medico Albert Schweitzer scriveva così:
«Chiunque s’imbarca sulla navicella
del rispetto della vita non è un naufrago che va alla deriva; è, piuttosto, un
passeggero intrepido che sa dove deve
andare e come mantenere fermo il timone nella giusta direzione». L’immagine colpisce per la sua attualità e per la
carica di verità che vi è contenuta; occuparsi oggi del tema della vita, d’altronde, equivale a inserirsi in un cammino
che richiede una buona dose di coraggio
e, soprattutto, una visione lungimirante.
Intorno a questo tema, infatti, si gioca il
futuro della società, delle giovani generazioni che
in questo momento sono inconsapevoli spettatrici
di quanto stiamo preparando per
il loro modo di pensare e di comportarsi e della stessa Chiesa che tocca con
mano quanto la missione dell’evangelizzazione sia sempre una sfida aperta sul
terreno della storia. L’annuncio della vita appartiene al DNA della Chiesa perché
è testimone diretta non solo del pieno valore che la vita personale possiede, ma
soprattutto perché annuncia una vita che
ha vinto il limite della morte. E intorno
a questa dimensione che si incontrano e
scontrano le varie visioni sulla vita umana, ma è anche questo lo spazio dove vengono a confluire le domande che richiedono una risposta carica di senso,
non più soggetta alle ipotesi o teorie di
lavoro, ma capace di dare certezza per
permettere di costruire la vita di ognuno
su un fondamento reale, stabile e sicuro.
La cultura contemporanea si evolve costantemente nella ricerca di nuove for-
econdo una felice consuetudine i documenti del magistero della Chiesa condensano nelle prime parole il loro contenuto. Dignitas personae non fa eccezione. I due termini che compongono
l’ultima istruzione della Congregazione
per la Dottrina della Fede evidenziano
immediatamente l’obiettivo del documento. La dignità della persona non
può essere un proclama astratto che
in diversi momenti della storia si sente il bisogno di riaffermare; è molto di
più. Esprime, infatti, un fondamento
reale, inequivocabile e non in balia di
arbitrarie interpretazioni soggette al
sentire del tempo. Nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, questa istruzione viene a ribadire alcuni principi
che sembrano sempre più oscurati per il sorgere di nuovi diritti che
manifestano spesso un’inspiegabile e ingiustificata pretesa
individuale.
La dignità
della persona costituisce la base su cui
ognuno costruisce la propria identità,
le relazioni interpersonali che segnano la vita e la solidarietà che forma le
diverse società sparse per il mondo intero. La dignità della persona è una conquista faticosa dell’umanità, non una palla al piede per il suo progresso. Dimenticare il grande dibattito e le battaglie che
hanno segnato le diverse epoche storiche, portando alla codificazione del principio d’uguaglianza di ogni persona e
della sua irrinunciabile dignità, equivarrebbe a riportare indietro le lancette della storia di alcuni secoli. Nessuno, si spera, vorrà cadere in una simile trappola
col negare il principio basilare del vivere personale e sociale; è un fatto di tale
evidenza che per fortuna va al di là de-
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5
me sperimentali che consentano di espri- stero della materia, per paradossale che
mere al meglio la propria esistenza no- possa sembrare, più l’enigma invece di
nostante la spada di Damocle dell’im- restringersi e condurre a soluzioni si
previsto, della malattia non programmata espande a dismisura e non smette di proe della morte inevitabile. Ogni giorno il vocare meraviglia e stupore. I problemi
progresso della tecnica mentre, da una etici intorno al tema della vita proprio
parte, spalanca nuovi orizzonti che per- per questo si moltiplicano e spesso semmettono fortunatamente di superare la brano entrare in conflitto realtà che sosofferenza e il dolore, dall’altra pone no chiamate invece a collaborare per una
sempre nuovi interrogativi che si esten- soluzione che trovi l’accordo della sciendono inevitabilmente all’istanza etica za con il principio etico.
per le implicanze che possiedono. Me- Non è necessario credere in Dio per sarito di Dignitas personae è quello di ri- pere che la vita è un bene prezioso e un
badire con forza e a più riprese il valo- dono di cui dobbiamo essere grati e rire dell’etica nella scienza, nella speri- conoscenti a qualcuno. La scoperta esistenziale di dipenmentazione e nelle
dere da qualcuno
varie tecnologie bionon è un dogma delmediche. Qualcuno,
la Chiesa ma un
in nome del proprincipio filosofico
gresso, vorrebbe eliovvio e universalminare tout court
mente accolto. E
l’etica da questi amproprio nel riconobiti. Tentativo imscimento di questa
possibile perché ciò
relazione di dipenche si vorrebbe far
denza che nasce la
uscire dalla porta enconsapevolezza deltrerebbe di nuovo
la gratuità e dell’econ insistenza dalla
nigmaticità dell’esifinestra per rimane- La vita è un bene prezioso.
stenza. Avrei potuto
re in casa a dispetto
di quanti ne vorrebbero l’eliminazione. non essere, eppure, non sono il frutto
L’etica appartiene all’uomo di ogni tem- della casualità. Sono stato pensato, depo e di ogni cultura; è una condizione siderato, voluto: questo è ciò che ogni
cardine dell’uomo nella sua ricerca di uomo alla fine pensa di sé per non lafelicità. Porla fuori gioco equivarrebbe sciare la propria. vita nel vago e nel
a imporre spazi in cui entra solo la re- vuoto dell’indeterminatezza. La vita
gola del più forte di turno, per le ingen- umana non è un esperimento da laboti risorse finanziarie che si sono investi- ratorio, ma un atto d’amore che segna
te in questi ampi spazi della nuova per sempre l’esistenza. Per questo è un
economia. Dignitas personae presenta bene inviolabile e indisponibile che
molti degli interrogativi che tanti si pon- ogni ordinamento giuridico è costretto
gono dinanzi al progresso delle tecno- a porre a proprio fondamento. Succelogie e che soprattutto nell’ingegneria de, purtroppo, che in alcuni casi questo
genetica presentano tratti talmente nuo- principio venga violato e contraddetto.
vi da affascinare, ma non per questo da Ciò non costituisce una conquista che
apparire meno problematici. Il campo di rende alcuni Paesi più evoluti di altri;
indagine è ampio e più si entra nel mi- al contrario, è ciò che rende evidente,
6
purtroppo, la contraddizione in cui cadono quando si pongono nel cono d’ombra del relativismo.
In questo contesto, una riflessione di particolare interesse merita il richiamo di
Dignitas personae al tema della scienza
e della ricerca. L’istruzione fin dall’inizio della sua argomentazione esprime fiducia nella scienza, riconosce gli ingenti progressi che si sono verificati per la
passione e la dedizione di tanti scienziati ed esprime il suo giudizio positivo per
quanto l’ulteriore ricerca potrà compiere a favore dell’umanità per debellare alcune malattie e ridurre il dolore e la sofferenza: «Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo
considerevole le loro conoscenze sulla
vita umana negli stadi iniziali della sua
esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell’uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti quando servono a superare o a
correggere patologie e concorrono a
ristabilire il normale svolgimento dei
processi generativi» (Dignitas personae, n. 4). Sarebbe ingiusto che i commentatori di questo documento soprassedessero su queste riflessioni per procedere immediatamente alla contestazione circa il giudizio negativo dato su
alcuni aspetti della sperimentazione. Non
sarà da dimenticare un principio fondamentale dell’ermeneutica, la quale richiede che un’espressione sia letta e interpretata all’interno del contesto e della globalità del testo, non astraendola dal
tutto e alterandone il significato. Se,
comunque, il documento non ha remore
nel riconoscere ed esprimere un giudizio
positivo sul progresso della scienza i vari ambiti della ricerca medica, non ha
neppure timore nel dover constatare come la sperimentazione sull’embrione
possa portare alla sua distruzione. Que-
sto fatto, oltre a essere intrinsecamente
male perché parte dal presupposto che in
quell’embrione non vi sia vita veramente umana, contraddice ogni forma di rispetto dovuto alla dignità di un essere
umano vivente. Un passaggio importante viene richiamato dall’istruzione perché porta una novità, soprattutto se confrontata con il documento Donum vitae
della stessa Congregazione. Si legge infatti: «La realtà dell’essere umano per
tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né
una gradualità di valore morale poi-
Soccorrere una vita umana è compiere un atto di amore.
ché possiede una piena qualificazione
antropologica ed etica. L’embrione
umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona» (Dignitas
personae, n. 5). Come si nota non si afferma esplicitamente che l’embrione è «persona» per non entrare nel merito del complesso dibattito filosofico e giuridico; in
ogni caso, implicitamente si ammette che
lo sia perché se ne riconosce la «dignità»
dovuta alla persona. La cosa non è di poco conto per il giudizio morale e per la
valutazione che si è chiamati a compiere nei confronti delle varie tecniche sperimentali.
Dignitas personae si muove giustamente con prudenza quando si trova a dover
7
sione di fede che attesta ogni persona essere «immagine di Dio» (cfr. n. 8). Come si nota, i primi sono principi che la ragione raggiunge nel suo riflettere sulla
realtà, mentre l’essere immagine di Dio
Trinità è frutto della fede. Proprio l’unità
di questa prospettiva dovrebbe aiutare a
comprendere meglio l’intrinseco valore
che la vita umana possiede e come la sua
e inviolabilità e sacralità non siano altro
che due facce della stessa medaglia. Giustamente l’istruzione afferma: «Non c’è
contrapposizione tra l’affermazione
della dignità e quella della sacralità della vita umana» (n. 7). È su questa strada che gli scienziati dovrebbero porsi perché la loro ricerca sia il più possibile
conforme ai principi etici e capace di superare eventuali conflitti che potrebbero
venire a crearsi con i giudizi etici e morali presenti nei diversi contesti culturali, religiosi e sociali. Forse, potrebbe richiedere più tempo e investimenti maggiori, ma la certezza di compiere qualcosa di straordinario che permette di collaborare con il Creatore di tutto l’universo
non dovrebbe creare dubbi. La vera
scienza si coniuga con l’umiltà non con
l’arroganza; essa si nutre di gratuità
non di facile guadagno. Il rispetto che
si richiede per la propria persona e per il
lavoro che si svolge a servizio di tutti invoca uguale consapevolezza che nella
propria ricerca si sta toccando qualcosa
che non è neutrale o generico, ma è vita
umana che impone a tutti, nessuno escluso, il rispetto per la dignità di cui è rivestita. Dignitas personae, pertanto, viene a ricordare il carattere inviolabile
della vita umana: un valore che si applica a tutti senza distinzione alcuna.
Una sfida che, se accolta, può rappresentare una tappa significativa per il progresso coerente dell’umanità.
S. E. Mons. Rino Fisichella
Anche la persona malata ha la sua dignità.
giudicare sperimentazioni con finalità terapeutiche che ancora non hanno ottenuto il consenso della comunità scientifica
e si muovono su un terreno che richiede
ulteriore studio e riflessione (cfr. n. 26).
Quando, invece, deve affrontare casi concreti che già permettono di verificare
quanto avviene nell’abuso delle cellule
embrionali o degli stessi embrioni allora
il suo giudizio si fa moralmente certo senza lasciare spazio a dubbi. Le parole del
documento in questi casi riflettono non
solo la giusta preoccupazione che la Chiesa manifesta in proposito, ma ribadiscono
giustamente anche il male intrinseco che
queste azioni posseggono quando viene
meno il principio fondamentale del rispetto della dignità e dell’uguaglianza degli esseri umani. È bene, pertanto, che si
possa distinguere nell’argomentazione di
Dignitas personae quanto serve per una
finalità terapeutica, che non solo viene
approvata moralmente come lecita ma anche sostenuta perché possa produrre di
più; e quanto, invece, diventa arbitrio individuale che impone il sacrificio di essere umani oppure la loro selezione eugenetica.
Dignitas personae si richiama ad alcuni
principi fondamentali che, come s’è accennato, hanno il loro fondamento nella
dignità della persona, nell’uguaglianza
tra tutti gli esseri umani e nella profes-
Arcivescovo presidente della
Pontificia Accademia per la Vita
8
La sedazione palliativa
nei malati terminali
«I
Far dormire
non è far morire
o dormo ma il mio cuore veglia» (Cantico dei Cantici, 5, 2). L’uomo di ogni
tempo ha sempre avvertito come strettamente imparentati il sonno e la morte. Una delle più evidenti dimostrazioni di ciò si ha nel pensiero mitologico
greco: Hýpnos, il sonno, e Thànatos, la
morte, sono divinità figlie di un’unica
madre, Nýx, la notte. Espressioni come
«riposare», «dormire il sonno eterno»
e altre simili, frequentemente leggibili
sulle lapidi dei nostri cimiteri, ci ricordano come anche nella tradizione cristiana il varcare la soglia della morte sia
spesso stato visto come un riposare in
attesa della resurrezione. Il Vangelo stesso riporta alcuni episodi della vita di Gesù indicativi in tal senso, uno per tutti
quello descritto in Matteo (9, 23-26),
nel quale la protagonista è una fanciulla
che Gesù resuscita dopo aver detto «non
è morta ma dorme».
E forse per tali ragioni storiche e culturali che in campo medico l’induzione
farmacologica del sonno allo scopo di
alleviare il dolore, ad esempio durante
pratiche chirurgiche, è sempre stata avvertita come una fase delicata e gravida
di molti timori, primo fra tutti quello di
non riacquistare lo stato di coscienza al
termine del trattamento; e questo parimenti potrebbe essere il terreno nel quale affondano le radici della paura con la
quale i pazienti gravi e i loro familiari
continuano, a livello conscio e inconscio, a vivere la notte come ancora madre del sonno e della morte, momento di
solitudine, passaggio oscuro.
La pratica di indurre il sonno profondo
mediante la somministrazione di farmaci non è esclusiva della chirurgia; an-
che la medicina palliativa, nelle fasi terminali di malattie degenerative croniche come i tumori, può farvi ricorso a
precise condizioni: si parla in tali casi
di sedazione farmacologica o sedazione palliativa. A questo proposito è stato qualche tempo fa pubblicato dall’agenzia Fides della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli un dossier che tra le altre problematiche di fine vita affronta anche quella della sedazione farmacologica nell’ambito appunto della medicina palliativa. Il documento ci permette di fare alcune considerazioni su una questione tanto delicata dal punto di vista bioetico quanto
frequentemente bistrattata dai mass media in occasione di casi eclatanti finiti
sulle prime pagine di giornali e notiziari televisivi.
La sedazione farmacologica, quando è
profonda, continua e intenzionale, consiste nella somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale
gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. Tale definizione permette
di far emergere quelle precise condizioni alle quali sopra ci riferivamo e che,
allo scopo di fugare qualsiasi dubbio,
possiamo esaminare con ordine.
Innanzitutto il nome: «sedazione farmacologica». Sarebbe bene non utilizzare l’espressione «sedazione terminale» dal momento che quest’ultima
potrebbe indurre a pensare che la sedazione, in alcuni casi, rivesta il ruolo di
9
una pratica eutanasica volta ad abbreviare intenzionalmente la vita di un paziente. Un importante documento della
European Association of Palliative Care del 2003 è chiarissimo in proposito:
a livello di intenzione, di procedura utilizzata e di risultato ottenuto la sedazione è tutt’altra cosa rispetto all’eutanasia. L’intenzione è infatti quella di far
fronte a sintomi refrattari e non di uccidere il malato, la procedura esclude la
somministrazione di farmaci letali e il
risultato è quello di far dormire profondamente il paziente, non di ucciderlo.
Questo è talmente vero che gli studi delle curve di sopravvivenza di malati sedati rispetto a quelli non sedati a parità
di condizioni cliniche iniziali mostrano
una sopravvivenza maggiore nel primo
gruppo, rendendo in tal modo perfino
superfluo il ricorso al principio del doppio effetto per giustificare eticamente
tale procedura.
In secondo luogo i farmaci: le benzodiazepine sono i più frequentemente
utilizzati per ottenere il sonno profondo. Né la morfina – largamente usata
per il controllo del dolore, della dispnea,
cioè della sensazione di fame d’aria, e
della tosse in fase avanzata di malattia
– né i cocktail di più molecole dovrebbero trovare applicazione in tal campo.
Inoltre la definizione sopra fornita parla di «malato terminale»: la sedazione
farmacologica è e deve restare pratica
rara in cure palliative, riservata a quei
casi che si trovano a pochissimi giorni
dal naturale decesso, a volte a poche ore.
I maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il
5 o 10 per cento del totale dei pazienti
seguiti e ciò è ampiamente confermato
anche dalla nostra esperienza degli ultimi dieci anni.
Infine i sintomi per i quali si decide di
intervenire sedando il malato devono
essere rigorosamente «refrattari»; devono cioè essere intrattabili con i comuni farmaci che non alterano lo stato
di coscienza. Ci sentiamo di dire che oltre ai farmaci ogni misura terapeutica
nel senso più pieno del termine deve essere tentata prima di considerare realmente «refrattario» un sintomo; se questo è vero per i sintomi fisici lo è ancora di più per quelli psichici, originati o
esacerbati dall’abbandono terapeutico
e umano nel quale si trovano spesso i
malati in fin di vita. «La richiesta di
farla finita – scriveva Paolo Cattorini
– è per lo più una travestita domanda di conforto: per l’incuria e il silenzio in cui mi avete confinato, chiedo di venir sottratto a patimenti che,
da solo, non riuscirei a sopportare».
Il triste caso di Piergiorgio Welby ci permette infine di fare un esempio di quanto sia fondamentale l’esattezza terminologica nel trattare argomenti così
complessi e ricchi di implicazioni etiche: si è letto più volte che la sedazione
farmacologica sarebbe stata utilizzata,
nel caso in questione, come mezzo per
ottenerne la morte. Le cose stanno diversamente; e ancora una volta «assolvono» la sedazione farmacologica:
Welby è morto per l’insufficienza respiratoria provocata dalla sospensione
della respirazione artificiale. Dal momento che tale manovra avrebbe inevitabilmente provocato l’atroce sofferenza di una morte accompagnata dalla sensazione di soffocamento, il paziente è
stato sedato profondamente prima del
distacco del respiratore.
Il sonno ha preceduto la morte, non l’ha
causata; solamente eliminando i problemi che sempre derivano dalla coscienza ha fatto cadere con essa le ultime primordiali difese oltre le quali è rimasto solo un volto da contemplare nella sua fragilità. Tornano alla mente le
parole di Lévinas: «L’assoluta nudità
del volto, questo volto assolutamente
indifeso, senza schermo, senza abito,
senza maschera, è tuttavia ciò che si
oppone al mio potere su di esso».
Ferdinando Cancelli
10
zio apostolico nella struttura, insieme ad
alcune rappresentanze di operatori sanitari medici e paramedici e di pazienti, ha
avuto luogo la celebrazione della S. Messa. È seguita una lunga visita a tutti i reparti (medicina, chirurgia, ginecologia e
ostetricia, urologia) ove il Vescovo è sostato benedicente avendo per ogni sofferente parole di conforto e di augurio.
Dopo una breve pausa negli uffici della
Direzione è seguito un rinfresco e la visita si è conclusa. Le nostre più vive congratulazioni alla proprietà per l’eccellenza delle strutture alberghiere e la ricca dotazione dei servizi. Grande la disponibilità del personale che vi presta la
sua opera. Ad maiora!
Visita pastorale
a Villa Pia
M
artedì 28 aprile scorso, accolto dalla
squisita cortesia delle sorelle Bottari, titolari della Casa di Cura e dal Dr. Massimo Cicchinelli responsabile medico,
S. E. Mons. Armando Brambilla Vescovo Ausiliare di Roma e delegato per la
Pastorale Sanitaria negli Ospedali, ha
fatto visita alla clinica Villa Pia. Nella
raccolta e suggestiva cappella, alla presenza del cappellano Don Luis Fernando Yepes Acevedo concelebrante e delle suore della Passione di Nostro Signore
Gesù Cristo che prestano il loro servi-
Dr. Sergio Mancinelli
La mia vita
appartiene a Dio
Dopo la visita del Vescovo
alla clinica Guarnieri
E
ccellenza Reverendissima non è solo il dovere la ragione di questa lettera di ringraziamento, ma è la certezza
di averLa avuta come ospite illustre
nella nostra comunità sanitaria, che
per anni, unico presidio ospedaliero
nella parte sud orientale della città di
Roma, l’hanno contraddistinta e caratterizzata.
È a fianco di persone come Lei , che
partecipano attivamente e divulgano
con la propria testimonianza «la presenza e l’azione della Chiesa per recare luce e la grazia del Signore a coloro che soffrono e a quanti ne prendono cura» che troviamo la forza per
continuare nella nostra missione.
È stata una bella esperienza che tutti
hanno vissuto intensamente.
La ringrazio sentitamente.
Il 24 luglio voi mi deste la vita
Io l’ho vissuta sempre
In vostra compagnia
E spero di finirla con voi
E così sia.
Grandi soddisfazioni e gioie
Mi avete concesso
Anche se nel declino
Ove mi trovo adesso
Qualche affanno mi angustia
Forse perché ho peccato
E spesso son costretto
Ad essere ammalato.
Son contento lo stesso
Perché so che il mio io
Un giorno potrà essere
Vicino a voi
Mio Dio.
Aldo Longo Bifano
dott. Domenico Zerella
11
nche quest’anno, così come ormai avviene da ben dodici anni,
domenica 17 maggio la famiglia della Pastorale Sanitaria si è
ritrovata, sempre numerosa, presso il teatro della parrocchia della Natività in Via Gallia per l’attribuzione del premio «Il Buon Samaritano».
In apertura S.E. Mons. Armando Brambilla, ideatore del «Premio», ha
rivolto il suo saluto ai presenti sottolineando che il riconoscimento del
«Buon Samaritano», in questi 12 anni, ha premiato un folto numero di
persone appartenenti a diverse categorie (sacerdoti, suore, infermieri,
volontari, gruppi ed associazioni, ammalati, familiari, alla memoria).
In tutti i destinatari è stata evidenziata una innata vocazione a donarsi agli altri in silenzio,
senza fare chiasso e soprattutto senza mai pubblicizzare il loro operato in favore dei più sfortunati, degli ultimi e degli infermi, sempre
cercando di lenire ed alleviare i tanti mali che
affliggono l’umanità.
Per il rituale intrattenimento, padre Carmelo Vitrugno – cappellano dell’ospedale S.
Pertini – ha invitato due giovani ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, appassionati di musica: Giampaolo ed Antonella. Per oltre un’ora ci hanno allietato con
belle melodie esibendosi in vari brani di
musica sacra (una particolare «Ave Maria») e di musica leggera con canzoni di Celentano, Matia Bazar,
etc. Le ottime doti canore dei giovani artisti hanno riscosso il gradimento del nutrito pubblico che ha tributato loro lunghi applausi.
Dopo l’intervallo musicale si è entrati nel vivo della consegna dei riconoscimenti con la collaborazione della giornalista Maria Grazia Giordano, presidente dell’associazione S.O.S. Alzheimer, che si è gentilmente prestata al ruolo della «presentatrice».
Per i cappellani è stato premiato Mons. Giacomino Feminò del complesso Columbus che si è sempre prodigato senza risparmio per chiunque fosse bisognoso di aiuto.
Per i medici la targa è stata attribuita «alla memoria» al dr. Stefano
Ricciardi che visse sempre la sua professione con spirito missionario
ed al dr. Michelangelo Malacrinis che nell’ambito della Caritas ha
prestato le sue cure agli immigrati assumendo anche l’incarico di re-
A
sponsabile per l’assistenza ai malati di AIDS. Ora è direttore del centro di diagnosi e cura dell’ipertensione dell’ospedale S. Giovanni-Addolorata.
È stata poi la volta dei volontari che si spendono per i malati assistendoli con discrezione, amorevolezza, costanza ed entusiasmo: Brixia Aprile (Arvas), Jole Cevoli, Adriana Rosini e Rossana Di Paolo (Arvas ospedale S. Giovanni-Addolorata), Maria Romana Rinaldi (Opera ospedaliera S. Vincenzo de’ Paoli), Iolanda Farina (ospedale S. Pertini), Gabriella Bossi e Lucia Ferretti (ospedale G. B. Grassi di Ostia), Nino Pinna (Ministro della Comunione ospedale S. Eugenio), Maria Palumbo
(Arvas e catechista parrocchia S. Monica di Ostia), Serena Pagliari (Arvas ospedale S. Eugenio) ed infine Antonio Grottoli, ex carabiniere che più volte si è fatto carico, con generosità, di varie problematiche inerenti la salute psico-fisica di persone ospiti di ospedali e
case di cura.
Anche gli infermieri Maria Antonietta
Nardella (ospedale S. Eugenio) ed alcune appartenenti alla Scuola Convitto Regina Elena (SCRE) del Policlinico Umberto I, hanno ritirato la targa loro assegnata per l’impegnativo lavoro svolto
con i malati svolgendo la loro professione con grande preparazione e generosità.
Per i gruppi il premio è stato attribuito ai «volontari ed operatori per i malati di Alzheimer e di demenza» (O.M.A.) per 1’impegno, la dedizione e
la competenza dimostrate. Questi operatori hanno potuto svolgere la loro attività grazie all’iniziativa dell’associazione SOS Alzheimer ed alle
suore del centro Sacro Cuore che mettono gentilmente a disposizione i locali per l’intrattenimento dei pazienti e dei loro familiari.
In un clima festoso si è conclusa la cerimonia con la benedizione di S.E.
Mons. Brambilla e con il suo incitamento a rendere credibile la parola
di Gesù con il nostro comportamento.
Purtroppo non vi è stato il solito «rinfresco» delle suore. Crisi economica... docet!!! Speriamo che per riparare sia più consistente e fornito
il prossimo anno.
Maria Adelaide Fioravanti
sto ripetutamente, lungo gli anni, perché
non si potesse fare nulla per salvare almeno qualcuna di quelle tredicimila vite umane abortite ogni anno negli ospedali di Roma.
Davanti ad una tragedia così immane come posso io rassegnarmi alla passività
totale? Non sono forse anch’io un essere umano chiamato per natura alla solidarietà? E la carità di Cristo forse non
brucia? II mio essere sacerdote non mi
dona, in aggiunta, nessuna spinta? Perché mai quei cappellani ospedalieri (con
cui ne parlai) dissero che non si può far
niente? E come è possibile, allora, che
già esistono CAV interni in tanti ospedali d’Italia? Perché solo a Roma sarebbe
impossibile fare ciò che è stato fatto altrove? Proprio a Roma! Roma che è il
centro della cristianità universale! Proprio a Roma dove c’è il Papa, suo Ve-
I parte: anni 1998-2000
Al 31-12-08 risulta che il nostro CAV ha
aiutato, seguito e salvato ben 220 bambini con le loro mamme. È un dato che
ci riempie di gioia oggi, inimmaginabile all’atto della fondazione. Infatti basterebbe un solo bambino salvato dall’aborto per regalarci una gioia intramontabile, direi eterna.
Nel 1990 ebbi l’occasione di collaborare con il CAV di Palermo e rimasi colpito dal gran numero di volontari e dalla
passione che animava quelle persone. A
partire da quel momento la mia sensibilità restò «toccata» (per grazia di Dio)
dall’insuperabile fascino del mistero della vita.
I film che mi fecero vedere e poi il libretto
«La vita umana prima meraviglia» risultarono per me come una impronta in-
Il Centro di aiuto alla vita Eur S. Eugenio
compie 10 anni - Ecco la storia
scovo, che è così fortemente appassionato e martellante sul tema dell’aborto!
Appena fui nominato dal Vescovo per
la prima volta coordinatore della Cappellania di un ospedale romano immediatamente mi misi all’opera per fondare un CAV interno all’ospedale. Tanto più che mi accorsi che a Roma mancava anche un sufficiente numero di
CAV sparsi sul territorio. Era il 28 settembre 1998 quando con la prima volontaria andai a parlare con Olimpia Tarzia, segretaria nazionale del Movimento per la Vita, per chiedere a lei aiuto e
consiglio. Non si può pensare che una
città con più di tre milioni di abitanti
possa essere servita sufficientemente da
un solo CAV sul territorio, per quanto
eroico e lodevole possa essere.
delebile, un incontro tangibile con la
straordinaria bellezza e grandezza di Dio
presente nello sviluppo dell’embrione e
del feto. Chi mai avrebbe potuto bloccare quel mirabile e formidabile sviluppo
dell’embrione? Cioè quel prodigio talmente grande che supera le nostre capacità ricettive e che già possiede l’infinita
dignità di un essere umano.
Chi mai (pensavo) avrebbe potuto bloccare Dio in persona che fa sviluppare un
essere umano e irripetibile nell’arco dell’intera vita dell’Universo? Se Cristo Signore nostro ci ha comandato di aiutare
i poveri, l’embrione e il feto sono in assoluto i più poveri e indifesi di tutti, perché non possono neanche parlare.
Operando come cappellano negli ospedali di Roma fin dal 1994, mi ero chie14
può dare l’avviso a un loro incontro. Le
donne più sensibili al problema si passano facilmente voce l’una con l’altra: è
questo l’apporto più prezioso. Diffondere la voce anche presso tutti i volontari
già presenti in ospedale affinché ognuno, a sua volta, possa diffondere la voce
presso amici e parenti. In questo modo
sono arrivate a me decine di richieste di
adesione a causa del fatto che l’aborto è
profondamente sentito, come una sconfitta, specie da chi lo ha subito sia spontaneamente che volontariamente.
Il problema non è
consistito nella scarsità delle adesioni,
ma al contrario nell’abbondanza di esse e quindi nel sapere discernere e accettare solo coloro
che rifiutano l’aborto con decisione, anche nella eventualità
di figli handicappati e che, cosa per me
importante, in aggiunta abbiano avuto una sufficiente militanza in qualche
gruppo cattolico che abbia donato loro
delle sicure basi di fede e di dottrina. Il
campo di attività è delicato, e almeno alla partenza ho ritenuto necessario avere
persone assolutamente sicure.
In primo luogo dunque ho fatto un paziente lavoro di lungo colloquio con ogni
singolo aspirante volontario. Raccolti i
primi volontari affidabili ho iniziato a
fare riunioni di formazione allo scopo
anche di farli conoscere fra loro. Sia per
i percorsi burocratici, sia per la formazione dei volontari, ci sono stati molto
vicini e stupendamente premurosi il Movimento per la vita romano e la segreteria nazionale del Movimento. Come sede avemmo per circa un anno l’alloggio
dei cappellani: si tratta di fare ogni due
In genere fa paura il pensiero di dover
sfidare la legge sull’aborto all’interno
proprio di un ospedale pubblico ove si
praticano con disinvoltura migliaia di
aborti l’anno.
Per questo motivo si preferisce in genere non esporsi a rischi e pericoli. La
realtà, invece, è per nostra fortuna opposta: è precisamente la legge dello Stato sull’aborto che prevede la collaborazione con associazioni di volontariato;
allo scopo di tutelare la vita del nascituro e di evitare che l’aborto (I.V.G. ) diventi un mezzo anticoncezionale.
Dunque non si deve
avere nessun timore
infondato, perché un
piccolo CAV nascente può essere tutelato e favorito da
una forte organizzazione che è il Movimento Nazionale
per la Vita e la Federazione nazionale
dei CAV.
La vita è un dono.
Come è nato il CAV
nell’ospedale S. Eugenio
La fondazione del CAV interno a un
ospedale è sì impegnativa ma meno difficile di quanto si possa immaginare. Lo
dico per esperienza vissuta. Infatti è sicuro che in un ospedale vi sono molti medici, infermieri e dipendenti vari che sono obiettori e che in una qualche misura
hanno sul problema dell’aborto una sensibilità più spiccata rispetto alla massa.
È sufficiente iniziare, senza grandi pretese, con un non grande numero di volontari interni e anche di volontari esterni. Bisogna diffondere la voce nei gruppi e movimenti delle parrocchie vicine
all’ospedale.
Un qualsiasi frequentatore di un gruppo
15
Ogni bimbo è un capolavoro di Dio.
re un locale interno all’Ospedale, ma i
locali erano inesistenti e contesi ferocemente dai primari. Quindi iniziammo a
spargere voce che cercavamo un appartamento gratuito (o quasi) all’Eur, ove i
prezzi degli affitti sono alle stelle!
La Provvidenza ci fece trovare un piano terra di proprietà di un condominio
di un palazzo, grazie al suggerimento di
un socio, Salvatore Terlizzi, che abitava proprio in quello stabile. E così si
fortificò l’associazione con l’aiuto anche della parrocchia dello Spirito Santo e della benedizione di S.E. Mons. Rino Fisichella, vescovo ausiliare del Settore Sud di Roma che venne a inaugurare la nuova sede nell’anno duemila.
Nel giugno del 2000 arrivò la benedizione solenne non di un vescovo ma del
Signore stesso in persona: fu eletta alla
carica di presidente del CAV la dott. ssa
Miranda Lucchini. Miranda era da poco andata in pensione e grazie al suo
tempo libero e al suo enorme bagaglio
di esperienze accumulate nella sua vita
lavorativa di dirigente amministrativo
della ASL Roma C, trasformò in pochi
anni il CAV nascente in una struttura di
grande serietà professionale nonché di
importanti collegamenti con molte strutture pubbliche e private di Roma, del
Lazio e nazionali; e con le fondazioni
bancarie. I bambini salvati sono diventati centinaia, con la nostra gioia eterna. Ma a questo punto lascio la parola
a Miranda nella prossima puntata.
Don Nicola Mariangeloni
mesi l’incontro del Consiglio Direttivo;
infatti non c’è assolutamente bisogno di
organizzare turni all’interno della sede:
è sufficiente diffondere il numero del
cellulare del presidente e dei soci che sono dipendenti dell’ospedale e quindi reperibili immediatamente per ogni urgenza. Inoltre ricevemmo dal parroco
della parrocchia dello «Spirito Santo»
il permesso di usare frequentemente i locali della parrocchia.
Durante il 1999 venimmo a volte chiamati dai medici anestesisti che in ambulatorio fanno una visita a quelle donne che giorni dopo devono affrontare
l’intervento di aborto. Scrivemmo lo statuto, l’Atto giuridico di fondazione dell’Associazione (il 31 maggio), la Convenzione tra il CAV e l’Azienda USL
che permette il libero accesso in ospedale ai soci del CAV e ottenemmo la accettazione del nostro ingresso nella fondazione nazionale dei CAV.
Tutti ci auguriamo, a partire dal Papa,
anzi, a partire dal Signore e da Maria
SS.ma Annunziata, che possa diffondersi
negli ospedali di Roma e sul territorio
questo volontariato così prezioso.
Successivamente sentimmo l’esigenza
di radicare il CAV sul territorio dell’EUR
coinvolgendo alcune parrocchie vicine,
qualche Istituto religioso e altre realtà e
aggregazioni laicali. Per questo motivo
c’era assolutamente bisogno di avere una
sede esterna all’ospedale, perché l’alloggio dei cappellani e la cappella ospedaliera erano inadeguate a ricevere gestanti per colloqui con psicologi o con
le volontarie. Provammo pure a chiede-
Cappellano Coordinatore
Ospedale S. Eugenio
16
La
Che cosa è
la pillola
Ru 486
Ru 486 non
è una medicina.
Non cura alcuna
malattia. Non aiuta la
vita, la stronca sul nascere
perché è una pillola abortiva. La Ru 486
non è amichevole nei confronti delle
donne. Non realizza in alcun modo un
aborto indolore, posto che sia possibile
realizzarlo.
È al contrario un sistema abortivo altamente controverso anche dal punto di
vista della sua sicurezza ed efficienza clinica. Più importante ancora, la pillola abortiva tende a deresponsabilizzare il sistema medico, e a ridurlo a dispensario di
veleni, e lascia sole le donne, inducendole a una sofferenza fisica e psichica pro-
e perché
esserne
contrari
lungata e domestica, molto simile alle vecchie procedure dell’aborto clandestino.
Per queste ragioni etiche siamo contrari alla pillola Ru 486 e alla sua introduzione in Italia, anche perché la sua
utilizzazione è incompatibile con le norme della legge 194/1978.
E pensiamo che occorra fare di tutto, ciascuno nelle forme pertinenti il proprio ruolo, per impedirla. Jerome Lejeune, noto
genetista scopritore della sindrome di
Down, definì la Ru 486 come un «pesticida umano».
La carità
La vita è come er sole
La carità è come ‘na fiammella
de ‘na cannela, a tutti da’ la luce
senza distingue er bono da chi è truce,
è silenziosa e nun s’atteggia a stella,
e nun pretenne manco d’esse amata
fino a chè nun s’è tutta consumata.
Come er sole ci ha fatto er creatore,
che quanno nasce all’arba è frizzantino,
a mezzogiorno è er gran trionfatore,
poi lemme lemme ariva er ponentino,
quanno senti sonà l’Ave Maria
ariva er bujo che te porta via.
Elio Cesari
Elio Cesari
(detto Cesaretto)
(detto Cesaretto)
17
E
all’etica dei principi e dei valori. «Il male e il bene non sono problemi scientifici, ma resta il fatto che comunque l’etica occupa un posto ben preciso accanto, dentro e al di là dell’aspetto scientifico». «Corpore et anima unus». Questa la visione antropologica cui fare riferimento per fornire risposte cristiane alle
problematiche poste dall’incedere tumultuoso e incontrollato delle conquiste biomediche. La supremazia morale che proviene dagli insegnamenti del Vangelo, abilita la Chiesa a compiere il suo dovere apostolico allorché si pone in coraggioso confronto con il tecnicismo laico e i pronunciamenti bioetici suggeriti da credi diversi, «promuovendo la “cultura della vita”» che si contrappone alla «cultura
della morte».
L’etica universale e
il Magistero, sollecitano i medici e
i ricercatori ad
una visione olistica dell’uomo
e li invitano ad
acquisire
un
sempre più approfondito sapere
capace di esprimere
una etica medica che
consigli interventi terapeutici adatti a porre rimedio non
solo ai danni fisici ma anche a quelli spirituali. Piena e ammirata accoglienza all’aggiornamento delle conoscenze cliniche, delle audaci esperienze della ricerca scientifica e tecnologica, ma anche assai auspicabile riappropriamento del senso morale e religioso della vita, perché il
primato dell’etica possa sempre più imporsi alle coscienze individuali e collettive. Ancora una volta la saggezza e la
elevata dimensione pastorale di Giovanni Paolo II «il grande» si esprimono attraverso la Lettera enciclica «Fides et
ratio»: «La Chiesa, infatti, permane
tica, bioetica e morale. Espressioni frequenti nelle tematiche comunicative mass
mediali, direi quasi abusate, ma non tradotte spesso in comportamenti. Questi
termini nella loro accezione, hanno significati differenti, essendo infatti «l’etica” una riflessione basata su motivi razionali e «la morale” una riflessione sostenuta da premesse di fede. Le etiche a
cui noi dobbiamo fare riferimento sono
«l’etica professionale» che esprime i
comportamenti che caratterizzano una
attività professionale e la «bioetica» che
prende in considerazione «le questioni
etiche, giuridiche, filosofiche e teologiche che sono poste o dovrebbero essere poste nella società per effetto dello sviluppo delle scienze biomediche».
Il buon senso e la sapienza
del cuore ci inducono
a delle considerazioni di contenuto
spirituale, morale e religioso. Il
progredire delle
bioscienze, i
progressi significativi delle
biotecnologie,
rendendo sempre
più attuali e pressanti le responsabilità
che investono la categoria professionale dei medici, dovrebbero suggerire una estrema prudenza affinché
l’uomo non scada ad oggetto di ricerca,
non corra pericoli di vita o peggiori il suo
male e sia rispettato per quello che è, cioè
«“persona” dal primo istante del suo
concepimento fino all’ultimo istante
del suo alito vitale». Questi motivi impongono l’attuazione di un codice etico
rigoroso, affinché gli interessi particolari economici e ideologici non assumano
un significato negativo e contrario alla
sacralità dell’uomo.
Diamo dunque spazio all’etica delle virtù,
Cenni sulle
problematiche
della bioetica
18
nella più profonda convinzione che Fede e Ragione si recano un aiuto scambievole esercitando l’una per l’altra
una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire
nella ricerca e nell’approfondimento».
E ancora rivolgendosi agli scienziati:
«...il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo,
traguardi che continuano a stupirci;
nell’esprimere la mia ammirazione e
il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica,
ai quali l’umanità tanto deve del suo
presente sviluppo, sento il dovere di
esortarli a proseguire nei loro sforzi
restando sempre in quell’orizzonte sapienziale in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche si affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica e imprescindibile della persona umana».
Dalla «Medicina Pastoralis in usum
Confessariorum» del 1891, attraverso
deontologie mediche susseguitesi nel
tempo, al concetto di bioetica chiusa al
trascendente, che ha come espressione
esplicativa «Il nuovo paradigma» accettato nell’ambito delle maggiori organizzazioni internazionali e che fa riferimento ad una nuova spiritualità senza
Dio e tutta proiettata verso il benessere
egoistico dell’uomo (lotta alla sovrappopolazione, al degrado ambientale, all’industrializzazione, agli integralismi
ecc); e a quello di bioetica aperta «alla
piena comunicazione di Dio, Padre
Onnipotente che realizza in noi la verità di suo Figlio per la sua Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione. È la bioetica aperta che colma tutte le nostre aspirazioni portandoci per
la via che è Cristo, nella pienezza dell’amore del Suo Spirito. L’Etica e la
Bioetica cattoliche sono il camminare
in noi di Cristo verso suo Padre attraverso la Sua morte e resurrezione, nel-
l’amore dello Spirito Santo. La Bioetica sarà così il camminare in noi dello Spirito per le vie delle scienze della
vita e della salute» (J.L. Barregan). Il
nostro auspicio più convinto è che l’Etica e la Bioetica, in particolare le applicazioni pratiche biomediche, siano basate sui fondamenti intellegibili dell’ordine morale e universale, scritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso.
Dr. Sergio Mancinelli
Pagine di vita
Ogni giorno è
Una “Pagina nuova”
Dove scorre
Veloce la vita.
Sono gioie, tristezze,
Dolori…
Emozioni, speranze
Attese, illusioni…
È una trama
D’Amore…
Un “Poema”
Di storie infinite
… la vita!
Pur se brutta o bella
O sbiadita
È un dono d’Amore
La vita!
Ogni vita è un libro stampato
Un ricamo su
“Pagine d’oro”
che una mente divina
ha pensato,
con cuore di Padre
ha guidato!
Beato chi l’ha capito
E, serenamente,
la sua vita
a “LUI” ha affidato
Santina Lamia
19
È nata l’Associazione “Scienza & Vita”
Alleati per il futuro dell’uomo
«Liberi per vivere»
L’
Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine
c’è speranza di futuro per tutti.
no nelle condizioni più gravi ciò che la
persona trasmette in termini affettivi,
simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più
profonde del cuore umano.
Certo, la possibilità di levar la mano
contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c’è sempre stata nella
storia dell’umanità: ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di
diritto, di un «diritto di morire», che
il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società.
La persona umana, del resto, si svi-
uomo è per la vita. Tutto in noi spinge
verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la
paura della morte non possono oscurare questa evidenza. Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito
con benevolenza, di essere amato fino
alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l’espressione di un bisogno estremo d’amore; solo uno sguardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persi-
I due precetti dell’amore
meditare e ricordare, praticare e attuare.
L’amore di Dio è il primo come comandamento, ma l’amore del prossimo è primo come attuazione pratica. Colui che
ti dà il comandamento dell’amore in questi due precetti, non ti insegna prima l’amore del prossimo, poi quello di Dio,
ma viceversa.
Siccome però Dio tu non lo vedi ancora, amando il prossimo ti acquisti il
merito di vederlo; amando il prossimo purifichi l’occhio per poter vedere Dio, come chiaramente afferma Giovanni: Se non ami il fratello che vedi,
come potrai amare Dio che non vedi?
(cfr. 1 Gv 4, 20). Se sentendoti esor-
È venuto il Signore, maestro di carità,
pieno egli stesso di carità, a ricapitolare
la parola sulla terra (cfr. Rm 9, 28), come di lui fu predetto, e ha mostrato che
la Legge e i Profeti si fondano sui due
precetti dell’amore. Ricordiamo insieme, fratelli quali sono questi due precetti
dell’amore. Essi devono esservi ben noti e non solo venirvi in mente quando ve
li richiamiamo: non si devono mai cancellare dai vostri cuori. Sempre in ogni
istante abbiate presente che bisogna amare Dio e il prossimo: Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente;
e il prossimo come se stessi (cfr. Mt 22,
37. 39). Questo dovete sempre pensare,
20
luppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire
la sua identità unica e la sua irripetibile biografia. Troncare tale rete è
un’ingiustizia verso tutti e un danno
per tutti. Teorizzare la morte come «diritto di libertà» finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e
ancor più il senso della comunità umana. Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo
dono e supera l’esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie
inguaribili, ma non esistono malattie
incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e
il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti.
La vera libertà per tutti, credenti e non
credenti, è quella di scegliere a favore
della vita, perché solo così è possibile
costruire il vero bene delle persone e
della società. Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza:
tre grandi SÌ:
• SÌ alla vita
• SÌ alla medicina palliativa
• SÌ ad accrescere e umanizzare l’assistenza ai malati e agli anziani
tare ad amare Dio, tu dicessi: Mostrami colui che devo amare, io non potrei che risponderti con Giovanni: Nessuno mai vide Dio (cfr. Gv 1, 18). Ma
perché tu non ti creda escluso totalmente dalla possibilità di vedere Dio,
lo stesso Giovanni dice: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio»
(1 Gv 4, 16). Tu dunque ama il prossimo e guardando dentro di te donde
nasca quest’amore, vedrai, per quanto ti è possibile, Dio.
Comincia quindi ad amare il prossimo.
Spezza il tuo pane con chi ha fame, introduci in casa i miseri senza tetto, vesti chi vedi ignudo e non disprezzare
quelli della tua stirpe (cfr. Is 58, 7). Facendo questo che cosa otterrai? «Allo-
ra la tua luce sorgerà come l’aurora»
(Is 58, 8). La tua luce è il tuo Dio, egli
è per te la luce mattutina perché verrà
dopo la notte di questo mondo: egli non
sorge né tramonta, risplende sempre.
Amando il prossimo e prendendoti cura di lui, tu cammini. E dove ti conduce il cammino se non al Signore, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo l’abbiamo sempre
con noi. Aiuta, dunque il prossimo con
il quale cammini, per poter giungere a
colui con il quale desideri rimanere.
Dai “Trattati su Giovanni”
di sant’Agostino, vescovo
e tre grandi NO:
• NO all’eutanasia
• NO all’accanimento terapeutico
• NO all’abbandono di chi è più fragile
Come cittadini sappiamo che la nostra
Costituzione difende i diritti umani non
già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è
nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà
si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti
sono anziani, malati o non autosufficienti.
Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza
ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire, a vivere con
dignità, non a morire per falsa pietà.
(Tratt. 17, 7-9: CCL 36, 174-175)
21
C
apitano Uncino – è stato lui con straordinaria ironia a battezzarsi così – non
s’aspettava che il Santo Padre si avvicinasse, ma quando la moglie gli ha detto: «Giampiero, è il Papa che ti sta accarezzando», lui ha sorriso come solo
sa fare, muovendo metà della bocca. La
sindrome di Locked-in consente a Giampiero Steccato soltanto di muovere il mignolo della mano sinistra e un po’ le labbra, e non lascia speranze. «Santità – ha
detto la moglie Lucia – mio marito non
può vederla, ma sente e capisce», allora il Papa ha assicurato che lo affiderà
nella sua preghiera alla Madonna e pregherà per
tutta la sua
famiglia, per
la moglie e
per i figli
Daniele e
Silvia che negli
occhi portano scritto un amore straordinario per il loro papà a cui resta soltanto un mignolo per ricambiare questo affetto. Giampiero Steccato ritorna a Roma dopo dieci anni. Proprio a Roma fu
colpito dal male. Ma quando il Papa ha
chiesto alla signora Lucia cosa li abbia
spinti a venire, lei ha risposto: «Per festeggiare in modo degno i nostri 35 anni di matrimonio». Il Papa lo ha accarezzato ancora poi ha preso la lettera che
quest’uomo ha dettato servendosi di un
linguaggio fatto di gesti. Muovendo metà
bocca e sfiorando con il mignolo della
mano sinistra un sensore laser, Capitan
Uncino ha scritto queste parole al Papa:
«Con queste poche righe, vorrei trasmetterle quello che il mio corpo rischia di celare: ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il
privilegio di esistere. Sono consapevole – dice ancora nella lettera – che la
mia fortuna è frutto della volontà del
Signore e ringrazio infinite volte per
quanto mi viene concesso, confido proprio nel Signore e anche nella Sua
persona, perché spero che la Sua
influenza possa permettere all’umanità un futuro migliore, la pace per chi
vive in guerra, un po’ di pane per coloro che hanno fame e un po’ di solidarietà in una società troppo individualista». Giampiero Steccato, o Capitan Uncino per quell’occhio che il morbo gli ha chiuso, è fatto così: «Non chiede mai per sé», come dicono pure gli
amici che lo hanno accompagnato a Roma. Gli sta vicino l’amico di sempre,
Giovanni Badini, e il cardiologo Ugo
Gazzola, ex primario a Piacenza e adesso volontario con la Croce Rossa Italiana. Ad accompagnarlo in questo viaggio,
che nelle sue
condizioni
gli è spesso
sembrato irrealizzabile
come un sogno, anche il
vescovo di Piacenza monsignor Gianni
Ambrosio. Giampiero Steccato non può
muoversi senza una sedia a rotelle particolarmente attrezzata ed ha bisogno costante di alcune apparecchiature. Anche
il figlio è raggiante: «A papà non è parso vero finché non ci siamo imbarcati su una aereo messo a disposizione
dall’Aeronautica Militare». L’Arma
Azzurra non è nuova a queste iniziative
umanitarie. Lo ha preso in cura l’equipaggio di un C-27J della 46esima Brigata Aerea di Pisa: «Sono stati straordinari – dice il ragazzo –. Siamo commossi per quanto hanno fatto per noi.
La gente quando vede il mio papà, per
le condizioni in cui si trova dimostra
compassione e spesso guarda dall’altra parte. Sull’aereo, invece, hanno dimostrato affetto». Giampiero sullo
scialle di lana che lo protegge porta due
distintivi dell’Aeronautica, dono dell’equipaggio. Quando il Papa lo ha lasciato, ha detto alla moglie: «Non pensavo
che mi accarezzasse». Con il mignolo
e metà bocca, ma si è fatto capire.
La carezza del Papa
a «Capitan Uncino»
Gianni Ruggiero
22
TESTIMONIANZA
Testimonianza
E
cco, nella sua visita alle stanze degli ammalati don Edward è giunto alla porta di
papà. Entra da benvenuto e subito domanda: «Quanti anni ha?» «Novantanove. È
entrato nel suo centesimo anno». «Che
Dio lo benedica! E la mamma? Da quanto tempo l’avete persa?» «La mamma?
Ha novantasei anni ed è ancora molto attiva e dinamica». A questo punto il volto
di don Edward esprime vera meraviglia,
quasi una beata costernazione, e lui m’invita a scrivere su papà un breve contributo
per Diaconia.
Non posso raccontare avventure fantastiche
a tinte sgargianti, ma certo è stata una grande avventura, una lotta fra la vita e la morte, quella che papà ha combattuto e vinto,
operato con protesi all’anca alla sua ragguardevole età. Lo vedo paziente nel letto.
Tutte le infermiere lo vezzeggiano: «È un
amore», dicono, mentre lui porge le dita per
farsi misurare la glicemia, si lascia cercare
le vene indurite per le flebo, collabora a rigirarsi nel letto di qua e di là, accetta con
sopportazione di deglutire una pasticca dopo l’altra.
Lo ricordo giovane, attraente, pieno di vita. I colleghi avvocati gli chiedevano consiglio per le loro cause, la mamma lo reclamava con affetto imperioso: «Carlo,
Carlo!».
esù, Nostro Divin Salvatore,
che benedicente accogli coloro
che varcano la nostra soglia
per chiedere aiuto:
Fai che i nostri cuori siano sempre
Pronti ad accoglierli,
la nostra mente illuminata per capirli,
le nostre mani capaci di aiutarli.
Fai che in ognuno di loro
vediamo il tuo volto
Sofferente rivolto a noi dicendo:
«Ho sete».
Fai che alla fine delle nostre fatiche
Possiamo accettare la tua volontà
senza esaltarci ne deprimere.
Fai che nei momenti di sconforto sappiamo
Chinare la testa e ripetere con Te
«Abba, Padre mio!
Non ciò che io voglio,
ma quello che tu vuoi».
Vincenzo Giulio Bilotta MEDICO
È stato l’atteggiamento di papà che mi ha
reso intimamente forte, capace di sopportare le vicissitudini dell’esistenza, perché papà
mi ha fatto capire e sentire che ero protetta, che ero molto amata. Quest’affetto che
ha accompagnato la mia infanzia, espresso
in gesti e in parole piene di tenerezza, ma
prive di permissività mi ha dato quella sicurezza in me stessa, quella fiducia nel mondo che permette di superare anche delusioni molto gravi.
Papà mi leggeva la Bibbia, da bambina,
quando non andavo ancora a scuola, e anche così ha gettato delle basi, importanti per
il mio futuro.
Ora è là, a letto, e nessuno sa quanto potrà
recuperare della sua indipendenza. Oggi
però, quando gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa, mi ha risposto:
«Ho bisogno solo del tuo amore».
Maria Aurora Salto von Hase
Er succo
der Vangelo
uanno è l’ora d’anna dar Padreterno
nun ci annà tutt’ignudo senza gnente,
cor rischio de finì drento l’inferno,
ma portete ‘n bagajo consistente
pieno d’opere bone a li cristiani,
ai poveri, ai drogati, ai musurmani.
Elio Cesari
(detto Cesaretto)
TESTIMONIANZA
23
Tribunale
Diocesano
del
Vicariato
di Roma
Teresa Orsini
Doria Pamphilj Lante
15 Maggio 2009
Sessione di chiusura
dell’inchiesta diocesana nel Processo di Beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio
Fondatrice delle Suore Ospedaliere della Misericordia
to valore della sua testimonianza evangelica, le sue figlie spirituali, le suore ospedaliere della Misericordia, hanno raccolto l’eredità della Serva di Dio, affinché
l’eroismo e il fascino della loro madre rifulgessero anche attraverso la testimonianza della loro vita, impegnate ad incarnarne il carisma spirituale.
La Serva di Dio Teresa Orsini nacque a
Gravina in Puglia, il 23 marzo 1788, giorno di Pasqua di Resurrezione, primogenita di Domenico, principe di Solofra, e
della principessa Faustina Caracciolo. Fu
battezzata lo stesso giorno al medesimo
fonte battesimale della cattedrale di Gravina, dove più di cento anni prima era stato battezzato un suo prozio, Vincenzo Maria Orsini, il futuro Papa Benedetto XIII.
All’età di due anni, Teresa rimase orfana
di padre, mentre sua madre Faustina era
in attesa del secondo figlio.
Per ricevere una preparazione adeguata al
suo stato aristocratico e al suo rango di
principessa, ben presto la piccola Teresa
venne inviata a Napoli, capitale del Regno, al fine di consentirle di studiare nel
collegio annesso al monastero della Sapienza. La presenza a Napoli dei nonni
materni poteva garantire alla bambina un
ambiente ricco di affetto e soprattutto sicuro, nella difficile congiuntura politica
del momento, a motivo dei rivolgimenti
europei che seguirono alla rivoluzione
francese e in concomitanza con l’avvento al potere di Napoleone.
Il 15 maggio 1801 Teresa ricevette il sacramento della Confermazione, e nei primi mesi del 1802 i suoi parenti pensarono all’opportunità di un trasferimento del-
Altezze, Eccellenze, Distinte Autorità, Signore e Signori!
Il mio cordiale saluto agli Eccellentissimi membri del Sovrano Militare Ordine
di Malta e del Corpo diplomatico, agli eccellentissimi familiari della Serva di Dio
delle famiglie dei Principi Orsini e Doria
Pamphilj, alle carissime suore ospedaliere della Misericordia. Il mio vivo ringraziamento va al reverendo Mons. Gianfranco Bella, Vicario Giudiziale del Tribunale diocesano del Vicariato di Roma
e a tutti i rev.mi e Ill.mi Officiali del medesimo tribunale, che hanno lavorato alla causa ed oggi ci permettono di condurla
a compimento.
Infatti si conclude oggi l’inchiesta diocesana del processo di Beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio Teresa
Orsini Doria Pamphilj, fondatrice delle
suore ospedaliere della Misericordia.
L’indagine canonica, condotta secondo la
speciale normativa della chiesa, ha rivelato – dall’esame della vita e delle opere
della Serva di Dio – il suo luminoso cammino spirituale di grande donna cristiana,
sposa, madre, fondatrice, testimone e operatrice di misericordia sulle orme di Cristo, che a Roma ha consumato la sua esistenza terrena.
La Serva di Dio Teresa Orsini Doria
Pamphilj è una figura straordinaria ed originale nell’agiografia cristiana, che, in
certo modo, può essere avvicinata a santa Elisabetta d’Ungheria e a santa Francesca Romana.
Perdurando la fama della sua santità e la
credibilità della sua opera, che continua
e si sviluppa nel mondo, fondata nell’al-
24
emarginati della società del suo tempo.
Pur appartenendo ad una delle più nobili
famiglie romane, non dimenticò la gente
semplice, armonizzando i suoi impegni
sociali con la premurosa carità verso i bisognosi.
Molte furono le iniziative caritatevoli da
lei promosse a favore dei più diseredati:
ammalati, abbandonati, donne in difficoltà
e pellegrini. Teresa era sempre presente
in ogni ambiente di dolore, pronta nel curare con le sue stesse mani le piaghe del
corpo e, con la sua comprensione, i disagi dello spirito.
Perché la fiaccola di carità da lei accesa
non si estinguesse, pensò ed attuò un suo
progetto di carità: radunò attorno a sé delle giovani donne che, senza interesse, potessero donare la vita a sollievo dei malati negli ospedali, dove spesso giacevano abbandonati.
Nacque così, il 16 maggio 1821, all’interno dell’ospedale San Giovanni in Roma,
con regole proprie, la Congregazione delle Suore Ospedaliere della Misericordia.
Nel 1825 la principessa era in piena attività benefica e, del tutto immersa nelle
opere di carità, correva in modo instancabile da un ospedale all’altro di Roma.
Si rendeva conto che le esigenze dei poveri ricoverati negli ospedali di San Giovanni, di San Giacomo in Augusta e di San
Gallicano erano molteplici e che le autorità preposte non riuscivano a soddisfarle.
Non esitò così, con il pieno consenso del
marito, a usare parte delle sue rendite per
le opere di carità.
Le volontarie che si strinsero intorno a lei
si erano ormai ben inserite negli ospedali, in particolare in quello di S. Giovanni,
ma era necessario dare un’organizzazione precisa e delle norme adeguate a quel
gruppo di donne generose, che tanto si
prodigavano nell’assistere gli infermi.
Nonostante ciò, Ella non ebbe mai a trascurare la propria famiglia, seguendo con
premura materna e tenerissimo affetto i
figli nella loro crescita. Ne sono testimonianza le tante lettere che Teresa indirizzò
a loro.
Un tale sforzo fisico con l’andare del tem-
la fanciulla a Roma.
Teresa arrivò a Roma a dodici anni per
terminare il corso degli studi, prima dalle Orsoline, poi dalle Benedettine di Tor
de’ Specchi.
Ne uscì ben formata, preparandosi culturalmente ed umanamente ad essere una
buona sposa del giovane principe Luigi
Andrea Doria Pamphilj, al quale era già
stata promessa.
Il principe l’aveva conosciuta in occasione di vari ricevimenti ed aveva provato
per lei un profondo sentimento di affetto
che diventò amore intenso, affascinato
dalla grazia e della vivacità della Serva di
Dio, per cui, quando si decise a sposarla,
lo fece con piena consapevolezza e con
tutto l’entusiasmo della sua giovinezza.
Espletate le formalità giuridiche e stabilite le modalità tra le due nobili famiglie,
il matrimonio fu celebrato il 2 ottobre
1808, a Roma, nella chiesa di Santa Maria in Via Lata.
Dal matrimonio, il 13 dicembre 1810 nacque un primo figliolo, che fu chiamato
Andrea, seguito a breve distanza da altri
tre fratelli.
Teresa poteva certamente vantare l’avvenenza fisica, come ben risulta dai ritratti
di lei ancora conservati. Ma una bellezza
più grande Ella rivelava per quell’aureola di doti morali e spirituali, che la rendevano una donna ammiratissima e molto stimata.
Nel 1820 Teresa si ammalò gravemente;
ebbe una crisi di «umori del corpo» – come venne diagnosticato dalla medicina del
tempo – che la tenne a letto per oltre sei
mesi con fortissimi dolori di reumatismo.
In quella dolorosa circostanza, oltre alle
premure dei suoi familiari, ricevette l’assistenza della Pia Unione delle sorelle della carità di S. Maria ai Monti. Fu per lei
un’esperienza preziosa, che le fece nascere nell’animo il desiderio di mettersi
al servizio degli altri.
Dio le aveva donato tutte le virtù fisiche
e morali: era una vera nobildonna, una
sposa felice, una madre affettuosa, una
donna di carità, impegnata nel sociale, al
servizio dei malati, dei diseredati e degli
25
tità cristiana consiste nell’unione con Cristo, Verbo incarnato e nostro redentore,
unico mediatore tra Dio e gli uomini e fonte di ogni grazia e santificazione. L’obbligo morale di tendere alla santità è di
tutti i membri della chiesa, «per fede creduta indefettibilmente santa... Infatti
Cristo, ... proclamato “il solo santo”,
amò la Chiesa come sua sposa e diede
se stesso per essa, al fine di santificarla» (L.G., 39). Di qui l’obbligo morale di
tutti i battezzati di tendere alla santità, in
ragione della loro ontologica appartenenza e unione alla chiesa. La santità della
chiesa dunque deriva totalmente dalla santità di Cristo e dal suo amore per essa. Lo
Spirito Santo – principio e origine della
santità della chiesa – è l’anima del corpo
mistico, che permeandolo tutto lo vivifica e lo unisce a Cristo e in lui rende partecipi della vita divina. «Nei vari generi
di vita – ha insegnato il Concilio Vaticano II – ... una unica santità è coltivata
da quanti sono mossi dallo Spirito di
Dio e, obbedienti alla voce del Padre,...
seguono Cristo povero, umile e carico
della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni ... deve senza indugi
avanzare per la via della fede viva, la
quale accende la speranza e opera per
mezzo della carità» (L.G., 41).
La Serva di Dio Teresa Orsini Doria
Pamphilj è certamente un esempio di questa vita cristiana vissuta in pienezza. E noi
auspichiamo che la Chiesa, dopo un attento esame della sua vita e verificata la
pratica delle virtù cristiane in grado eroico, – se così piacerà al Signore – possa
iscriverla nell’albo dei Beati.
Alle sue figlie, le Suore Ospedaliere della Misericordia, auguriamo che sull’esempio della loro fondatrice possano continuare il cammino di dedizione incondizionata ai malati e, come il Buon Samaritano, versare sull’umanità sofferente «l’olio della consolazione e il vino
della speranza».
po peggiorò le sue condizioni di salute.
Leggiamo nella cronaca, lasciata dai contemporanei: «La sera del 12 giugno [1829]
a causa di una forte perdita di sangue
per lesioni interne, la principessa era costretta ad allettarsi e parve che la morte fosse imminente. Nella sera stessa volle essere munita di Gesù Eucarestia... la
mattina del 3 luglio sopraggiunse una
febbre altissima e i medici dissero che
era l’inizio della fine».
Teresa comprese che era giunta l’ora del
supremo sacrificio e consapevolmente
volle prepararsi all’incontro con l’Amore Eterno.
Il Papa le aveva inviato la sua speciale benedizione apostolica e alla presenza del
Card. Zurla, Vicario di Roma, la Serva di
Dio ricevette con profonda pietà gli ultimi sacramenti.
La medesima cronaca continua: «Con serena tranquillità, con umile fiducia in
Dio, con voce di speranza e di amore
rese la sua bell’anima al Creatore in un
amplesso di amore. Erano le ore 01.00
del 3 luglio 1829. Aveva 41 anni di età».
La nobiltà e il popolo romano la piansero e unanimemente dissero: è morta una
santa. La sua salma fu sepolta nella cripta della chiesa di S. Agnese in Agone a
piazza Navona.
La fiaccola di carità cristiana passò dalla
mano di Teresa a quella delle suore ospedaliere della Misericordia, nate dal grande
cuore della Serva di Dio, le quali resero vivo il carisma specifico della Misericordia.
Nel 1834, a cinque anni dalla morte della fondatrice, le suore erano già trentotto
e, in pochi anni, la congregazione religiosa diffuse la sua presenza, oltre alla
città di Roma, anche in altri ospedali dello Stato Pontificio (Alatri, Frosinone, Sezze Romano, Civitavecchia, Velletri, Tolfa, Umbertide, Urbino, Marsciano, Abbadia San Salvatore).
Per meglio vivere e conformarsi al carisma
della fondatrice, le suore ospedaliere della Misericordia professano un quarto voto: quello dell’ospitalità (Cost. Art. 22).
Cari amici, è opinione condivisa da tutti
i teologi e gli autori spirituali che la san-
Agostino Card. Vallini
Vicario della Diocesi di Roma
26
Lettera a Gesù
L’uomo è irragionevole,
illogico, egocentrico:
non importa, amalo.
Il meglio di te
Forse eri Tu che passavi vicino,
sorridendo sereno,
la schiena un po’ curva,
quasi a farmi un inchino.
O forse eri Tu, l’uomo straniero
che parlava con gli occhi
rimanendo a distanza,
con lo guardo severo.
Quanta strada nel mio lungo passato
io chiedevo a chiunque…
come faccio a trovarti?
…Quanto tempo ho bruciato.
Mi fermavo talvolta a pensare
Chi sei? Dove sei?
Sei dentro di me?
O sei nel vento di mare?
Sei nell’acqua? Nel cuore?
Nella luce di stelle?
Nella mano di un figlio?
O sei in questo fiore?
Dolcemente ed in modo pacato,
ricordo, mi rispose una voce:
“Non appena mi cercherai, ecco,
in quel momento tu… mi avrai trovato”.
Sergio Martinola
Se fai il bene,
diranno che lo fai
per secondi fini egoistici:
non importa, fà il bene.
Se realizzi i tuoi obbiettivi,
incontrerai chi ti ostacola:
non importa, realizzali.
Il bene che fai
forse domani verrà dimenticato:
non importa, fà il bene.
L’onestà e la sincerità
ti rendono vulnerabile:
non importa, sii onesto e sincero.
Quello che hai costruito
può essere distrutto:
non importa, costruisci.
La gente che hai aiutato,
forse non te ne sarà grata:
non importa, aiutala.
Dà al mondo il meglio di te,
e forse sarai preso a pedate:
non importa, dà il meglio, di te.
Così ti addormenti ma, nell’oscurità
ti sono sempre accanto, veglio su di te.
Quando poi il mattino ti risveglierai
di nuovo accanto a te mi troverai.
Le stagioni della vita
C’è la stagione della giovinezza
Quando il mondo lo vedi tutto rosa,
quando dell’aria ne senti gusto ed ebbrezza
e lo spirito e l’anima si ristora.
Corre il tempo! Eccomi all’età matura.
Tempo di dolci ricordi e di sconfitte amare.
Non c’è però tristezza nel mio cuore e c’è un perché:
perché nella mia vita ho saputo amare!
Ti senti felice, forse non sai perché
Ma, se ti prendi un attimo di sosta,
ascolta, e senti una voce che ti dice:
“Se vuoi essere felice? Segui Me!”
Ti ho seguito Signore.
Ho inteso su di me il tuo sguardo.
Ora però ti prego: fai ancora uno sforzo Gesù
e… accompagnami al traguardo!
Ora ecco il tempo della maturità;
sei molto stanco la sera,
non puoi pensare a Me…
Iva Girelli
27
«Una vita spesa per amare»
I
Padre Livio Petroselli
l giorno 16 aprile 2009, alle ore 3,30
del mattino, presso l’infermeria provinciale Regina Apostulorum di Roma,
padre Livio Petroselli è tornato alla casa del Padre.
Aveva 88 anni di cui 71 di professione
religiosa e 65 di ministero sacerdotale.
Era nato a Valentano (Viterbo), il 28
aprile 1921. Il 25 agosto 1937, nel ritiro «San Francesco» di Bellegra, emise la prima professione temporanea e ricevette i panni della
prova. Il 1° gennaio
1943, si consacrò al
Signore, nell’ordine
Francescano dei frati
minori. Il 16 luglio di
quello stesso anno fu
ordinato presbitero.
Dal 1967 e per il resto della sua vita fu
cappellano ospedaliero al Policlinico
«Agostino Gemelli»
di Roma.
Nei lunghi anni trascorsi al Policlinico
ha fasciato le piaghe
di tanti cuori provati dalla sofferenza;
ha consolato con parole di conforto i familiari che erano in lutto per la perdita
dei loro cari; ha ravvivato la speranza
in coloro che avevano smarrito la luce
della fede; ha esercitato con particolare dedizione il ministero della riconciliazione trascorrendo molto tempo in
confessionale.
L’icona che meglio potrebbe riassumere
la vita consacrata di padre Livio è quella del «buon samaritano». Caratteristica della sua sequela a Cristo, per la qua-
le padre Livio ha, peraltro, ricevuto un
riconoscimento da parte di Sua Ecc.za
Mons. Armando Brambilla, in occasione della quinta edizione del premio «Il
Buon Samaritano», il 26 maggio 2002.
Il suo funerale ha avuto luogo il giorno
17 aprile c.a. nella chiesa del «Sacro
Cuore», al Policlinico Gemelli ed è stato officiato da Sua Ecc.za Mons. Elio
Sgreccia con la concelebrazione di molti frati minori francescani e sacerdoti
diocesani. Alla presenza del direttore generale del Policlinico
«Agostino Gemelli»
di Roma, con una viva e commossa partecipazione del personale medico, infermieristico e delle suore della carità dei reparti ospedalieri visitati da padre Livio.
Nell’omelia Sua Ecc.za
Mons. Elio Sgreccia,
ha definito i tratti della
P. Livio Petroselli. spiritualità di padre Livio, come idealmente e
tipicamente «francescani» ricordando l’amicizia che da tempo li aveva uniti.
Suor Carla Fiammeni anche in rappresentanza delle altre suore della carità del
Policlinico, ha ringraziato padre Livio
per il bene e la stima donati, ricordandolo per la sua personalità carismatica,
per la sua totale dedizione ai malati, per
la sua infaticabile operosità, per la sua
disponibilità rispettosa verso i più deboli e bisognosi, per il suo costante sostegno ed incoraggiamento; concludendo che padre Livio ha inciso questo te28
tuale, principale fondamento per una
crescita umana ed intellettuale.
Egli, infatti, sosteneva che tutte le azioni umane che facevano emergere le
grandi capacità intellettuali dell’uomo,
portandolo al successo, avrebbero dovuto considerarsi una manifestazione
del divino e non un modo per accrescere il proprio senso di onnipotenza e di
onniscienza. Erano la misura di quanto
fossimo simili a Dio e di quanto dovessimo amarlo e non piuttosto dimenticarlo o ignorarlo.
L’umiltà è quella ricchezza spirituale
che fa superare le barriere delle disuguaglianze umane e apre il cuore dell’uomo.
Grazie padre Livio!
stamento spirituale nei loro cuori.
Personalmente ho conosciuto padre Livio tre anni fa quando il suo male incurabile l’aveva già colpito e reso debole. Ho notato da subito che si trattava di un uomo dalla personalità forte e
determinata, nonostante la malattia. La
sua spiritualità francescana era improntata alla sobrietà, alla semplicità e
alla umiltà.
Padre Livio viveva la sua missione con
coraggio spendendosi con generosità.
Era indubbiamente un frate saggio la cui
forza spirituale e la cui determinazione
lo spingevano a condannare le iniquità,
le incoerenze e gli egoismi umani.
La sua figura spirituale indicava il Cristo: «via, verità e vita».
Padre Livio mi ha trasmesso soprattutto umiltà quale importante valore spiri-
Angela G. Colicchio
Vita umana
far qualcosa ma saremo tutti chiamati a
giudizio.
Poi non parliamo di quei poveri bambini nati da madri, non mamme per davvero che vengono abbandonati come teVita umana diventata spazzatura
neri gattini.
Vita umana buttata nel cassonetto
Buttati sulla strada a tutte le intemperie
Come un cartone vuoto, per la
con un gesto incomprensibile e trericiclatura.
mendo gesti, ripetuti ormai in una
Che bontà che accoglienlunga serie…
za così si dimostra
Poveri piccoli, generati non nelSe l’essere umano per
l’amore, ma nel viripararsi da questo
zio e nel sesso dimondo muore stritochiarato, però della
lato nel secchione
madre sentivano il
della strada nostra?
battito del cuore!
In mezzo all’indifferenBattito, in un muscolo priza della gente frettolosa
vo di sentimento, in un cuoche appena sa, si indigna
Fe
re che non fa rima con l’ato
con il mondo e punta il dito
a3
more,
cuore, in cui abbiamo
.
i
m es
contro chi e che cosa?
messo un paravento.
Criticare, si sa, è un nostro vecchio vizio, additare chi secondo noi, dovrebbe
Fiorina Filippi
29
Testimonianza per la morte di due brave persone
25° anniversario della morte
del prof. Antonio Mosca e di
suor Luciana Iezzi all’ospedale CTO
evento che ha segnato profondamente
la vita della nostra comunità ospedaliera.
Il 2 marzo u.s. alle ore 12 è stata celebrata la S. Messa dal cappellano don
Martino. Erano presenti: la moglie del
prof. Mosca, visibilmente commossa,
malati, suore, medici, in particolare un
folto gruppo di anestetisti, infermieri e
dipendenti.
Il celebrante, durante l’omelia, ha citato alcuni passi del discorso pronunciato dal Cardinale Angelini durante il rito delle esequie: «Oggi stiamo dando
il nostro saluto a due carissime creature: un medico e una infermiera capo-sala. Due persone che hanno consacrato la loro esistenza a servizio dei
fratelli infermi.
In questi giorni ho sentito espressioni all’indirizzo del prof. Antonio Mosca e della carissima suor Luciana Iezzi equivalenti al riconoscimento di
esemplarità umana e cristiana e, perché no?, di santità. Un collega del
prof. Mosca diceva: “Avevamo tra noi
un altro Giuseppe Moscati!” Un santo tra noi.
Il ricordo di queste due stimatissime
creature deve restare tra noi a conforto ed incoraggiamento per continuare a lavorare con motivato e intelligente ottimismo, con molta speranza,
contro le difficoltà vere e false, contro tutti coloro che non hanno senso
di responsabilità».
L’omelia continuava illustrando la figura del prof. Mosca, di cui venivano
messe in evidenza sia l’elevatissima preparazione professionale, sia le doti uma-
Sono trascorsi 25 anni dalla tragica
morte del prof. Antonio Mosca e di suor
Luciana Iezzi ma il ricordo di quel tragico evento è ancora molto vivo all’ospedale CTO.
Il 2 Marzo 1984 alle ore 11,30 circa,
suor Luciana si recò in farmacia, al 2°
sotterraneo, per ritirare un medicinale
urgente. Quindi riprese l’ascensore per
ritornare in reparto e incontrò il primario prof. Mosca. Insieme scesero al 3°
sotterraneo non sapendo nulla dell’incendio scoppiato qualche secondo prima. Muoiono entrambi nell’ascensore
avvolti dal fuoco e dal fumo.
La triste notizia della loro morte si
diffonde rapidamente nell’ospedale recando in tutti sconcerto e profondo dolore, presenti nel ricordo di tante persone fino ad oggi.
Il 6 Marzo 1984, nell’atrio dell’ospedale, furono celebrati con molta solennità
i funerali, presieduti dal Cardinale Angelini, alla presenza dei familiari delle
vittime, delle autorità e di una grande
folla di persone riunite a dare l’ultimo
saluto a quelle due carissime creature.
Da quel giorno il C.T.O. è cambiato, non
è stato più lo stesso. Si è avverata l’esortazione del Cardinale Angelini: «Amici carissimi, medici, paramedici, personale tutto: davanti a queste due bare promettiamo di farci coraggio, di
farci migliori nella vita personale e
professionale, di elevare le condizioni
sanitarie dei luoghi in cui operiamo,
di intraprendere un cammino di responsabile laboriosità...».
Abbiamo avvertito quindi l’esigenza di
commemorare in modo particolare un
30
ne. È stato ricordato che il prof. Mosca
era per i suoi collaboratori non solo il
primario, ma anche un grande maestro
e padre. Era l’uomo di un profondo
amore ai malati, l’uomo di una dedizione illimitata, l’uomo di profonda fede. Ogni mattina, prima di iniziare il servizio, egli trascorreva qualche tempo in
cappella, in ginocchio, in silenziosa preghiera.
Invece suor Luciana, delle suore Minime dell’Addolorata, era la più giovane
suora della comunità religiosa che operava in ospedale, sempre piena di entusiasmo, gioiosa, attenta a tutte le necessità dei suoi pazienti, che curava con
amore e professionalità. Durante la meditazione del mattino, poche ore prima
di morire, scrisse in un bigliettino: «Signore, tu sei sempre tra noi, ravviva
la mia fede perché io possa metterti
al centro della mia vita. Gesù la tua
morte dia significato alla mia morte,
la tua risurrezione dia significato alla mia vita».
Questo ci ha fatto comprendere che la
morte del prof. Mosca e di suor Luciana non era stato solo un evento tragico
e assurdo, ma un sacrificio gradito a Dio
e fecondo di bene.
Il ricordo esemplare del prof. Mosca e
di suor Luciana, la loro figura che ancora sembra aleggiare nelle corsie di
questo ospedale sono anche oggi di monito, di incoraggiamento, di sostegno.
Per questo fatto alla memoria del prof.
Mosca e di suor Luciana, in data 4 luglio 2000, è stato assegnato il «Premio
del Buon Samaritano».
Oggi, nel momento di importanti trasformazioni, affidiamo alla loro preghiera e alla loro intercessione il nostro
C.T.O. perché in ogni scelta prevalga il
vero bene dei malati e di tutto il personale ospedaliero.
Suor Dolores
Il terremoto
dell’Aquila
Ospedale C.T.O.
Giuseppe Maria Lotano
Il Sig. Giuseppe Maria Lotano – volontario ARVAS presso il Policlinico
Umberto I di Roma ha inviato una poesia – L’Aquila (6 aprile 2009) – scritta
sulla emozione dei gravi fatti a carico
della popolazione dell’Abruzzo, fatti
analoghi da cui fu lui direttamente interessato durante il terremoto del 1980
a Castelgrande (PZ).
La poesia vuole essere una testimonianza e considerazione sulla vanità delle cose terrene ed un invito ad un costante impegno per potere essere sempre capaci di vivere l’insegnamento della parola di Dio e fortificarci per non essere colti impreparati.
«Penso che il manifestarsi di tali disastri confermi, usando la misura
umana delle cose, inequivocabilmente, il senso del legame dell’uomo alle
cose terrene e, contemporaneamente
testimoni il valore della solidarietà e
condivisione delle necessità di tutti i
fratelli forza della nostra fede e missione di cristiani contro ogni senso di
sfiducia e di risentimento».
L’Aquila (6 aprile 2009)
Irrompi cupo tremore
di viscere della terra
a dare dolore e colori
sconosciuti al tempo
della vita dei sapori
a chiedere di scavare
con strette di mani
tra pietre confuse
ultimo segno
di calore.
Grato per l’attenzione.
31
Prendersi cura
Ogni anno l’U S M I (unione superiore emozioni anche piangendo senza che si
maggiori d’Italia) organizza un conve- senta giudicato. I meccanismi di difesa
gno di pastorale sanitaria a Rocca di Pa- che questi individui provano sono nepa ed io ho partecipato dal 2 al 7 Marzo. cessari: la negazione, la proiezione, la
I temi sono sempre utili ed importanti per regressione, la sublimazione. Per poter
dare un aiuto alle suore e anche agli ope- sedere tranquillamente vicino ad un maratori sanitari laici nell’assistenza alle lato inguaribile e comunicare con lui
persone che soffrono.
senza angoscia dobbiamo prima consiTema di quest’anno: «L’Oncologia og- derare molto seriamente il nostro atteggi nei suoi aspetti sanitari, etici, legi- giamento verso la morte e il morire, esslativi psicologici». Ai nostri giorni do- sere consapevoli dei nostri limiti ed avepo la morte per cause cardiovascolari re una forte maturità personale.
c’è la morte per tumore, per questo è
bene essere preparati a questo grande
Verità e speranza
evento. I relatori di questo convegno si
possono convivere
sono dimostrati ben preparati e ricchi
di contenuti per una formazione uma- La speranza è il sentimento confortanna, spirituale e psite che proviamo
cologica.
quando scorgiamo
Essi ci hanno guicon l’occhio della
dato nel prendere
mente il cammino
coscienza che per
che può condurci a
questi malati oncouna condizione milogici è bene pasgliore. C’è un mosare dal curare al
do di comunicare
prendersi cura rila diagnosi che veimanendo vicino a
cola speranza, picqueste persone con
cole realizzazioni
la sapienza del
possibili. La sicucuore.
rezza di non essere
Suor Cristina in visita agli ammalati.
Questi malati si troabbandonati gli
vano a vivere come dentro uno tsuna- rende più sopportabile la malattia.
mi, oppure in mezzo a un deserto. Per A confrontarsi con la malattia non è soloro noi dobbiamo essere delle Oasi nel- lo il malato, sono i familiari e gli amici
le quali esiste una fonte di acqua che più intimi.
disseta e che può dare speranza di vita Gli atteggiamenti della famiglia si riaiutando queste persone nella lotta per flettono sempre vantaggiosamente o mevivere con coraggio e forza superando no sul malato stesso. Un atteggiamento
paure e depressioni.
di fiducia nella famiglia crea ad esemÈ importante per gli operatori sanitari pio, un clima che si riflette positivaoffrire adeguate e tempestive informa- mente sul malato. Lo sconforto del fazioni sulla malattia e sul trattamento la- migliare diventa un messaggio distrutsciando che il malato esprima le sue tivo. Le emozioni entrano in un circui32
religiosa.
Vorrei terminare queste mie brevi riflessioni su questo grande convegno con
una preghiera del Cardinale Angelo Comastri a Maria addolorata: «O Madre,
tu hai conosciuto il dolore, ma l’hai
vissuto riempiendolo d’amore. Tu hai
camminato sulle orme di Gesù e non
ti sei fermata quando hai visto che andavano verso la croce. Tu hai creduto che l’amore è onnipotente, tu hai
creduto che la bontà, quando è crocifissa, vince e risorge». Amen
to relazionale in cui famiglia e malato
si rinforzano reciprocamente. La malattia che dura nel tempo è come un filo rosso che colora le varie relazioni e
collega i vari momenti della storia personale e famigliare.
Una grossa parte di tensione e di sofferenza che le famiglie vivono nel caso
della malattia di un loro membro potrebbe essere evitata o per lo meno diminuita se ci fosse più attenzione, una
buona relazione di aiuto e un adeguato
sostegno, a livello psicologico, sociale,
economico e spirituale da parte di chi
cura il malato e della comunità civile e
Suor Cristina Fantin
Etica e Sanità
L’attuale tempo «moderno» porta ad aver un’eccessiva fede nella tecnologia e nella scienza:
pare quasi che la «scienza» sia diventata oggi l’unica fonte di forza e di certezza e che da sola sia capace di soddisfare l’animo dell’uomo e che ne migliori la qualità di vita.
Anche il settore sanitario è oggi tanto permeato di tecnologia che il paziente e gli stessi medici sembrano essere soddisfatti e sicuri della strada terapeutica intrapresa soltanto quando la tecnologia supporta e conferma la loro certezza diagnostica.
Sembra diventato addirittura obsoleto ricercare il «contatto» umano, fisico con il malato perché l’interfaccia con la macchina farebbe sembrare tutto l’atto sanitario più semplice e soddisfacente, quasi più «sterile»! Niente di più falso ed ai fini diagnostici persino ingannevole!
Infatti anche in questi tempi «moderni» la sicurezza diagnostica e quindi il successivo percorso terapeutico si ricava dall’indispensabile contatto fisico con il malato fondato sui sempre
validi ed eterni caratteri semiologici già anticamente descritti da Celso, enciclopedista e medico romano nato nel 14 a.C., consistenti dalla ispezione – palpazione – percussione ed ascoltazione; questi elementi associati all’anamnesi, ancor oggi, indirizzano verso l’esatta diagnosi meglio di ogni sofisticato macchinario (TC e RM), prima di qualsiasi avanzata tecnologia
che comunque risulta utile solo in una seconda battuta come conferma del sospetto ipotizzato.
Inoltre il rapporto «umano» col malato permette, ove sia stato sincero e interessato, di
compatirne la sofferenza nel senso più profondo per meglio così capire quale sia la causa della sintomatologia presentata, il sanitario deve avere particolare interesse per l’anamnesi del paziente e saper coglierne tutti i sintomi per poi giungere, attraverso lo strumento della semiotica fisica, alla corretta diagnosi, diagnosi che altrimenti sarebbe ben
arduo anche solo ipotizzare.
Se vi è una certezza nella scienza medica, scienza tanto lontana dalla matematica in quanto materia biologica, scienza tanto mutevole e tanto singolare come singolari e mutevoli sono i diversi individui, questa certezza sanitaria deriva prevalentemente dall’aver messo «le mani addosso» al paziente e dall’aver tratto certezze dal concreto contatto fisico con l’altro uomo per
poi trarne il più preciso sospetto diagnostico.
Il sanitario deve quindi far suo il problema del malato, lo deve vivere e così col suo personale compatimento troverà la strada ideale per giungere alla diagnosi ed alla terapia, aiutato poi anche dalla moderna tecnologia che, soltanto in seconda battuta, confermerà o meno quanto ha ipotizzato.
Solo questo sforzo umano e scientifico congiunto darà piena soddisfazione al medico ed al malato e sarà anche un ottimo metodo per esprimersi al meglio nella pratica pastorale sanitaria.
Dr. Luciano Pagliari
33
I
dea se esegue più di 30 tiroidectomie totali all’anno, un’altra è altamente specializzata in chirurgia gastrica se esegue
più di 30 gastrectomie totali all’anno e
così via. Oggi la scienza medica progredisce così rapidamente che un medico
non può garantire ad un paziente il miglior trattamento possibile se non in uno
o due capitoli della medicina e chirurgia.
Ad esempio, un medico sarà tra i migliori
specialisti per il trattamento del diabete,
un altro per l’ipertensione arteriosa, un
altro ancora per l’osteoporosi, mentre un
chirurgo sarà tra i migliori per la chirurgia della tiroide, un altro per la chirurgia
della mammella, un altro ancora per la
chirurgia gastrica e così via. Gli ospedali generalisti di zona
dovranno essere sostituiti dai
centri di eccellenza, dotati di strutture recettive adiacenti
per l’ospitalità
dei
familiari. Il passaggio dalla cultura
dell’«Ospedale vicino
casa» alla cultura dell’ospedale d’eccellenza ci consentirà
di migliorare i risultati terapeutici e
di risparmiare risorse preziose.
Ancora oggi la spesa sanitaria privata
delle famiglie italiane è valutabile in 25
miliardi di Euro all’anno, pari al 2% del
PIL ed al 20% della spesa sanitaria totale. Il 57% di tutte le visite specialistiche
è pagato di tasca propria dai cittadini, i
quali pagano le tasse per l’assistenza sanitaria pubblica e pagano di nuovo per le
visite specialistiche: il pagamento plurimo per le stesse prestazioni è assolutamente da bandire.
I cittadini hanno però il diritto di scegliere lo specialista di propria fiducia e
di essere curati oppure operati da quello
specialità. Non sempre la scelta del paziente è fondata su criteri oggettivi di
qualità e professionalità dello specialista
prescelto, perché spesso il paziente as-
l Servizio Sanitario Nazionale Italiano è
universale e garantisce a tutti l’assistenza sanitaria gratuita, fondandosi sulla medicina di famiglia, sulla continuità assistenziale territoriale, sul pronto soccorso, sulla specialistica ambulatoriale e sulla rete ospedaliera.
La spesa per il Servizio Sanitario Regionale supera generalmente il 50% del
bilancio complessivo di una Regione fino a raggiungere punte dell’80% in qualche Regione.
L’aumento progressivo dell’età media
della popolazione italiana, con un’aspettativa di vita di 79 anni per gli uomini e di 84 per le donne, ha condotto
l’Italia ad essere il paese più longevo
d’Europa, concorrendo peraltro ad aumentare anche la spesa sanitaria.
Il carattere universale della sanità pubblica italiana ha meritato all’Italia il 2°
posto, subito dopo la Francia, nella classifica OMS su 196 paesi, ma se il bene
salute non ha prezzo, la sanità ha un costo elevato e le risorse disponibili devono essere ben spese, secondo i principi dell’economicità di gestione.
In alcune Regioni, soprattutto
del centro-sud d’Italia, ci
sono troppi ospedali generalisti in rapporto
alla popolazione
residente: molti comuni hanno
voluto il proprio ospedale, per dare ai cittadini la possibilità di essere ricoverati vicino casa, senza doversi allontanare e, con essi, i loro familiari. È
una idea sbagliata e pericolosa: oggi non
ha più senso mantenere divisioni di medicina e di chirurgia generale dei numerosi ospedali nelle Regioni, perché è dimostrato che migliori risultati terapeutici sono raggiunti dalle “equipe”
altamente specializzate in una o più
specialità medico-chirurgiche.
Ad esempio, un’equipe chirurgica è altamente specializzata in chirurgia tiroi-
Un
u
p
o
t
n
34
v
i
d
a
t
is
sume informazioni parziali e giudizi soggettivi che possono non corrispondere alla realtà. Ai fini della trasparenza e del
controllo di qualità delle prestazioni, è
indispensabile controllare tutte le cartelle cliniche (e non soltanto il 2% di essere come succede adesso) e pubblicare in
Internet i risultati ottenuti da tutte le unità
operative operanti in Italia.
Al fine di rendere più efficiente il servizio sanitario pubblico, ben venga l’integrazione con il privato e con l’attività libero-professionale intramoenia, purché
i cittadini non debbano pagare di tasca
propria le prestazioni ma siano garantiti
dalle Assicurazioni oppure dai Fondi Sanitari Integrativi.
Con il decreto del Ministero della Salute del 17/03/2008 è stata istituita l’anagrafe dei fondi e ne sono stati già censiti più di 500.
In sede di contrattazione collettiva, è
auspicabile che le aziende assicurino a
tutti i lavoratori ed alle loro famiglie
l’attivazione dei Fondi Sanitari Integrativi per le prestazioni sanitarie non
incluse nei L.E.A. ed anche per quelle
incluse nei L.E.A. ma per le quali i lavoratori ed i propri familiari vogliano
avvalersi del diritto della libera scelta
del medico.
Per i lavoratori autonomi ed i loro familiari, è auspicabile agevolare la stipula di
un’assicurazione privata, grazie al sistema delle deduzioni fiscali, già previste
fino ad un massimale di Euro 3.615 all’anno.
I professionisti, accreditati presso il Servizio Sanitario Nazionale, potranno convenzionarsi con le assicurazioni e con i
Fondi Sanitari Integrativi al fine di offrire a tariffe agevolate le prestazioni sanitarie comprese nella propria specializzazione o, meglio, superspecializzazione.
Prof. Vito D’Andrea
Preghiera alla
Madonna
della Salute
O vera sorgente di vita, o fonte perenne
di ogni nostra salute, gran Regina dei
cieli, Maria, rivolgi, Ti prego, verso di
me l’occhio benigno della tua misericordia.
Sollevami dal peso delle mie colpe, e col
favore della tua potente intercessione, e
per i meriti di San Giuseppe e di San Camillo de Lellis, fa’ che io ottenga da Dio,
con la salvezza dell’anima, la salute del
corpo, e quella grazia di cui ho tanto bisogno e che ti raccomando affinché, potendo meglio servire e lodare Dio in questa vita, venga poi un giorno ad amarLo e ringraziarLo con Te, per tutta l’eternità, beato nel cielo.
O Maria, salute degli infermi, proteggi i malati che giacciono negli ospedali o nelle loro case, specialmente quelli più provati dal dolore nell’anima e
nel corpo.
Non abbandonarli!
Io ti offro tutta questa umana sofferenza per ottenere da Te il perdono, la pace e la salvezza per tutta l’umanità.
O Madre della salute, non disprezzare
la mia voce, ma benigna ascoltami, esaudiscimi, salvami. Amen
Docente di Chirurgia Generale
all’Univesità della Sapienza
Con approvazione ecclesiastica
35
Una lettura,
anche spirituale,
per l’estate:
«Raccontare la quotidianità»
come storia sacra
In questo contesto ci sembra di stimolo e
di aiuto, a livello spirituale, pastorale e
anche teologico, fare riferimento ad alcune profonde intuizioni espresse con l’eloquente linguaggio simbolico della comunicazione artistica. Ricordiamo il bellissimo film di Ermanno Olmi «Centochiodi» (marzo 2007). È la rappresentazione di una parabola esistenziale che,
dalle rive del Pò, allude poeticamente alla vita di Gesù – specialmente al suo stile di amicizia – attraverso la figura del
professore. Questi, inchiodando letteralmente i libri anche preziosi, scende dalle presunzioni della sua cattedra, fugge
via dalla università. Va a condividere senza demagogia, nell’amicizia e nel lavorare insieme, la vita dei semplici, fino a
rischiare in prima persona.
Cordiale e affascinante è il recentissimo
libro del teologo Enzo Bianchi, proprio
della comunità laica monastica di Bose:
«Il pane di ieri» (Einaudi, Torino 2008,
pp. 114). È uno spaccato di teologia esistenziale vissuta che racconta storie, rievoca volti e momenti di vita familiare, religiosa e paesana: in modo umanissimo,
con sorridente, calda e realistica saggezza. «Il pane di ieri» rimasto sulla tavola, luogo di incontro e di festa, «è buono
anche domani»: perché il sapore più vero della vita e della fede quotidiane – che
le pagine del libro ci fanno assaggiare –
è sempre nuovo e insieme antico.
i racconti di
Karen Blixen
A
Gli anni di Gesù a Nazaret:
lo straordinario dell’ordinario
Nazaret Gesù è vissuto trenta’anni: la
maggior parte della sua storia terrena.
Confuso nell’anonimato, come quasi
tutti gli uomini, condivide con essi una
genuina umanità che, proprio così,
esprime il suo essere eguale al Padre
(Fil 2,6), maturando nella ordinarietà
della esistenza quotidiana. La sua predicazione – appena due anni e mezzo –
non farà altro che svelare il tesoro nascosto nella «terra degli uomini»: la
perla preziosa racchiusa in questa ordinarietà senza clamore. La morte e risurrezione non sarà altro che portare a
compimento quell’amore che egli ha
«imparato» (Eb 5,8) e testimoniato con
semplicità negli incredibili lunghi anni di Nazaret.
Alla luce tenue e discreta del «diventare» uomo, giorno dopo giorno, di Dio
nel villaggio di Nazaret, va compresa e
vissuta la chiamata della comunità cristiana alla nuova evangelizzazione. Si
tratta non di dare spettacolo, di far sentire che siamo forti, ma di seguire l’esempio di Gesù che ha rivelato la realtà
e il vero senso del suo essere Dio attraverso la genuinità del suo essere uomo. È uno stile, un modo di sentire e di
agire con la forza dell’umile amore, che
possiamo apprendere dalla meditazione del Vangelo – specialmente esistenzialmente a partire dal «libro aperto»
della quotidianità vissuta.
Karen Blixen «trasformare la
propria vita in racconto»
Per scoprire meglio e quasi assaporare il
valore straodinario dell'ordinario – nella
vita di Gesù a Nazaret e nella nostra – ci
è di stimolo una grande scrittrice dei nostri tempi, la danese Karen Blixen (18851962). È una maestra dell’arte di «narrare storie». In esse sono frequenti i riferimenti di tipo religioso. Critica verso il
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dualismo di quella tradizione cristiana che
oppone fra loro terra e cielo, appartiene
per origine al cristianesimo evangelico
ma, specialmente nella corrispondenza
con il fratello Thomas, riconosce di essere quasi una cattolica, anzi un prete cattolico. Ha soggiornato più volte a Roma,
nel 1912, nel 1952 (incontrando anche Pio
XII) e nel 1956. La sua fedele segretaria
Clara Svendsen era cattolica e buona conoscitrice della teologia cattolica.
La Blixen è conosciuta specialmente per
gli stupendi film che traducono in linguaggio cinematografico due fra i suoi libri: «La mia Africa» (Feltrinelli) e «Il
pranzo di Babette» (in «Capricci del
destino») (Feltrinelli). Quest’ultimo è una
limpida intensa parabola che, con una delicata vena di humour, racconta la vita di
una comunità di pescatori. Babette, una
ex-partigiana di Parigi, divenuta un’ottima domestica, sacrifica tutta la sua fortuna economica (sopraggiunta all’improvviso) offrendo una cena favolosa, che
lei stessa prepara come una grande artista. Intorno alla tavola in festa la litigiosa religiosità degli invitati si scioglie,
aprendosi (con una risonanza quasi «eucaristica») ad una vita nuova che è capacità di una gioiosa umiltà e fraternità.
Gli scritti della Blixen, quasi tutti racconti,
narrano come ognuno con la sua vita quotidiana va scrivendo la «sua» storia. Alla base c’è sempre la domanda, il grido,
il desiderio profondo di conoscere : «Chi
sono io?» La risposta sta proprio nella
concretezza della mia storia dove «gli
eventi traggono il loro significato dal
nostro stato d’animo» per cui «agli occhi di due uomini nessun evento è il medesimo». Il senso di tale storia è dare risposta (quasi «artistica») all’idea che Dio
ha avuto su di me quando sono uscito dalle sue mani. È un’idea, un «destino» (un
concetto caro agli indigeni de «La mia
Africa»), un disegno provvidenziale (secondo il linguaggio cristiano) in cui tutto, «guardato dall’Alto» – come nei voli di aereo con Denys – ha un posto: gioie
e sofferenze (le «perdite»), libertà e necessità. Il vero «orgoglio» (o fierezza)
dell’uomo è condurre a termine responsabilmente il proprio destino provvidenziale, aver fede nell'idea che Dio ha avuto su di lui creandolo.
Per vivere la nostra quotidianità che diviene storia è necessario fermarsi per raccontarla a noi stessi, anche più volte. Scrive la Blixen: «Riuscire a trasformare le
vicende della propria vita in racconto
è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare in questa terra... L’arte divina è la
storia: in principio era la storia. Alla
fine avremo il privilegio di vederla, e
di rivederla, nel suo insieme – e questo
è ciò che viene chiamato il giorno del
giudizio». Secondo lei la storia dell’umanità nel suo insieme assomiglia in certo modo ad un romanzo composto di numerevoli racconti intrecciati. In questo
intreccio «visto dall’Altro» è possibile
respirare una certa aria di famiglia: quella somiglianza (non... uguaglianza) fra
tutte le persone umane che, quando c’è
genuina umanità, amore, non disprezza
ma valorizza l’identità di ognuno, la originalità delle singole storie.
La genuina umanità:
rivelazione di Dio
La scrittrice danese – soprannominata dagli indigeni «colei che presta attenzione» (Jerie) – con i suoi numerosi racconti
pubblicati in Italia da Adelphy e da Feltrinelli, ci rivela che «nella vita ci sono
molte cose che un essere umano... non
può raggiungere con i propri sforzi. Ma
esiste una umanità genuina che resterà
sempre un dono, e che un essere umano deve accettare da un altro essere
umano così come egli glielo offre. Colui che dona ha a sua volta ricevuto. In
questo modo, un anello per volta, si forma una catena da una terra all’altra,
e da una generazione all’altra» («Ultimi racconti», Adelphy, p. 102). A noi
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sembra che, alla luce della fede nella incarnazione salvifica di Dio in Cristo, dobbiamo riconoscere la centralità di questa
genuina umanità che gli uomini vivono,
anche se spesso inconsapevolmente
(«non sappia la tua sinistra quello che
fa la tua destra»: Mt 6,3). Ed è proprio
questa la via fondamentale della rivelazione di Dio avvenuta in «tutta» la storia
terrena di Cristo, nei lunghi anni di Nazaret, culminate nella sua morte e risurrezione e prolungata nelle membra del
Cristo «totale». «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). «Tutto quello
che avete fatto a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli l’avete fatto a me»
(Mt 25,40).
Attraverso la via della umanità (del Cri-
sto «totale») zampilla e scorre il dono della Grazia infinita di cui parla il generale
Loewenhielm nel meraviglioso discorso
che tiene nel «Pranzo di Babette».
«...tanta è la nostra umana stoltezza e
imprevidenza che immaginiamo la grazia divina essere finita. E perciò tremiamo... Ma viene il giorno in cui i nostri occhi si aprono e vediamo e capiamo che la grazia è invece infinita. La
grazia, amici miei, ci chiede soltanto di
aspettarla con fiducia e di accoglierla
con riconoscenza... Perché la misericordia e la verità si sono incontrate, la
rettitudine e la felicità si sono baciate!»
Don Carmelo Nigro
Cappellano dell’Ospedale
Fondazione S. Lucia
Un «anno sacerdotale»
Nel 150 ° della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney,
«vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo»,
Benedetto XVI ha deciso di indire uno speciale «anno sacerdotale»,
dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010.
Lo ha annunciato durante l’udienza alla plenaria della Congregazione
per il Clero, ricevuta nella Sala del Concistoro
lunedì mattina, 16 marzo
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
Il tema che avete scelto per questa Plenaria – «L’identità missionaria del presbitero nella Chiesa, quale dimensione
intrinseca dell’esercizio dei tria munera» – consente alcune riflessioni per il lavoro di questi giorni e per i frutti abbondanti che certamente esso porterà. Se l’intera Chiesa è missionaria e se ogni cristiano, in forza del Battesimo e della Confermazione, quasi ex officio (cfr. CCC,
1305) riceve il mandato di professare
pubblicamente la fede, il sacerdozio ministeriale, anche da questo punto di vista,
si distingue ontologicamente, e non solo
per grado, dal sacerdozio battesimale, detto anche sacerdozio comune. Del primo,
infatti, è costitutivo il mandato apostoli-
co: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc
16, 15). Tale mandato non è, lo sappiamo, un semplice incarico affidato a collaboratori; le sue radici sono più profonde e vanno ricercate molto più lontano.
La dimensione missionaria del presbitero nasce dalla sua configurazione sacramentale a Cristo Capo: essa porta con sé,
come conseguenza, un’adesione cordiale e totale a quella che la tradizione ecclesiale ha individuato come l’apostolica vivendi forma. Questa consiste nella
partecipazione ad una «vita nuova» spiritualmente intesa, a quel «nuovo stile di
vita» che è stato inaugurato dal Signore
Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli. Per l’imposizione delle mani del Vescovo e la preghiera consacratoria della
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Chiesa, i candidati divengono uomini ad ogni autentica missione e, sola, ne ganuovi, divengono «presbiteri». In que- rantisce la spirituale efficacia. I quattro
sta luce appare chiaro come i tria mune- aspetti menzionati devono essere semra siano prima un dono e solo conse- pre riconosciuti come intimamente corguentemente un ufficio, prima una parte- relati: la missione è «ecclesiale» perché
cipazione ad una vita, e perciò una pote- nessuno annuncia o porta se stesso, ma
stas. Certamente, la grande tradizione dentro ed attraverso la propria umanità
ecclesiale ha giustamente svincolato l’ef- ogni sacerdote deve essere ben consaficacia sacramentale dalla concreta si- pevole di portare un Altro, Dio stesso,
tuazione esistenziale del singolo sa- al mondo. Dio è la sola ricchezza che,
cerdote, e così le legittime attese dei fe- in definitiva, gli uomini desiderano trodeli sono adeguatamente salvaguardate. vare in un sacerdote. La missione è «coMa questa giusta precisazione dottrinale munionale», perché si svolge in un’unulla toglie alla necessaria, anzi indi- nità e comunione che solo secondariaspensabile, tensione verso la perfezione mente ha anche aspetti rilevanti di visimorale, che deve abitare ogni cuore au- bilità sociale. Questi, d’altra parte, derivano essenzialtenticamente samente da quell’incerdotale.
timità divina della
Proprio per favoquale il sacerdote
rire questa tenè chiamato ad essione dei sacersere esperto, per
doti verso la
poter condurre,
perfezione spiricon umiltà e fidutuale dalla quale
cia, le anime a lui
soprattutto dipenaffidate al medeside l’efficacia del
mo incontro con il
loro ministero, ho
Signore. Infine le
deciso di indire
Ecc. Mons. Brambilla con i cappellani del dimensioni «geuno
speciale Sua
Policlinico Umberto I.
rarchica» e «dot«Anno Sacerdotale», che andrà dal 19 giugno prossimo trinale» suggeriscono di ribadire l’imfino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il portanza della disciplina (il termine si
150° anniversario della morte del Santo collega con «discepolo») ecclesiastica
Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, e della formazione dottrinale, e non sovero esempio di pastore a servizio del lo teologica, iniziale e permanente.
gregge di Cristo. Sarà cura della vostra La consapevolezza dei radicali cambiaCongregazione, d’intesa con gli Ordina- menti sociali degli ultimi decenni deve
ri diocesani e con i superiori degli Istitu- muovere le migliori energie ecclesiali a
ti religiosi, promuovere e coordinare le curare la formazione dei candidati al mivarie iniziative spirituali e pastorali che nistero. In particolare, deve stimolare la
appariranno utili a far percepire sempre costante sollecitudine dei pastori verso i
più l’importanza del ruolo e della mis- loro primi collaboratori, sia coltivando
sione del sacerdote nella chiesa e nella relazioni umane veramente paterne, sia
preoccupandosi della loro formazione
società contemporanea.
La missione del presbitero, come evi- permanente, soprattutto sotto il profilo
denzia il tema della plenaria, si svolge dottrinale e spirituale. La missione ha le
«nella Chiesa». Una tale dimensione ec- sue radici in special modo in una buona
clesiale, comunionale, gerarchica e dot- formazione, sviluppata in comunione con
trinale è assolutamente indispensabile l’ininterrotta tradizione ecclesiale, senza
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cesure né tentazioni di discontinuità. In
tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del
Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa. Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza
che spinge i sacerdoti ad essere presenti,
identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia
anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa.
Come chiesa e come sacerdoti annunciamo Gesù di Nazaret Signore e Cristo, crocifisso e risorto, sovrano del tempo e della storia, nella lieta certezza che tale verità coincide con le attese più profonde
del cuore umano. Nel mistero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto cioè che Dio
si è fatto uomo come noi, sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano. La missione ha qui il suo vero centro propulsore: in Gesù Cristo, appunto.
La centralità di Cristo porta con sé la giusta valorizzazione del sacerdozio mini-
steriale, senza il quale non ci sarebbe né
l’Eucaristia, né, tanto meno, la missione
e la stessa chiesa. In tal senso è necessario vigilare affinché le «nuove strutture» od organizzazioni pastorali non siano pensate per un tempo nel quale si dovrebbe «fare a meno» del ministero ordinato, partendo da un’erronea interpretazione della giusta promozione dei laici, perché in tal caso si porrebbero i presupposti per l’ulteriore diluizione del sacerdozio ministeriale e le eventuali presunte «soluzioni» verrebbero drammaticamente a coincidere con le reali cause
delle problematiche contemporanee legate al ministero.
Sono certo che in questi giorni il lavoro
dell’Assemblea plenaria, sotto la protezione della Mater Ecclesiae, potrà approfondire questi brevi spunti che mi permetto di sottoporre all’attenzione dei signori Cardinali e degli Arcivescovi e Vescovi, invocando su tutti la copiosa abbondanza dei doni celesti, in pegno dei
quali imparto a voi e alle persone a voi
care una speciale, affettuosa Benedizione Apostolica.
Sotto l segno del curato d’Ars
Avrà come tema «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» lo speciale anno sacerdotale in programma dal 19 giugno
2009 al 19 giugno 2010. Il Pontefice lo
aprirà presiedendo la celebrazione dei
Vespri il prossimo 19 giugno, solennità
del sacratissimo Cuore di Gesù e giornata della santificazione sacerdotale, dinanzi alla reliquia di san Giovanni Maria Vianney, che sarà portata dal vescovo di Belley-Ars. Lo stesso Benedetto
XVI lo chiuderà dopo un anno prendendo parte a un incontro mondiale sacerdotale in piazza San Pietro.
Durante questo anno giubilare il Papa
proclamerà san Giovanni Maria Vianney
«patrono di tutti i sacerdoti del mon-
do». Sarà inoltre pubblicato il Direttorio
per i confessori e direttori spirituali, insieme a una raccolta di testi del Pontefice sui temi essenziali della vita e della
missione sacerdotale nell’epoca attuale.
La Congregazione per il clero, d’intesa
con gli ordinari diocesani e i superiori
degli istituti religiosi, si preoccuperà di
promuovere e coordinare le varie iniziative spirituali e pastorali che saranno poste in essere per far percepire sempre più
l’importanza del ruolo e della missione
del sacerdote nella chiesa e nella società
contemporanea, come pure la necessità
di potenziare la formazione permanente
dei sacerdoti legandola a quella dei seminaristi.
40
Pellegrinaggio
in Terra Santa
i
l 29 aprile 2009 è iniziato il pellegrinaggio in Terra Santa e Giordania guidato da
S. E. Mons. Armando Brambilla, che ha
alternato la sua preziosa presenza per
«par conditio» tra i due gruppi «bianco» e «arancione»: il gruppo bianco costituito prevalentemente dai farmacisti
cattolici (gruppo organizzato dal dott. Eugenio Dragoni) e il gruppo arancione costituito prevalentemente da medici e operatori sanitari dell’ospedale «Columbus».
Dopo un volo tranquillo di tre ore circa dall’aeroporto di Fiumicino siamo
arrivati a Tel Aviv e dopo un breve percorso in pulman abbiamo raggiunto il
monte Carmelo, dove, secondo la tradizione, il Profeta Elia, su un carro di
fuoco, fu trasportato in cielo. Nel convento delle Carmelitane è stata concelebrata la S. Messa.
Non senza significato la prima tappa al
Carmelo. Il nostro viaggio inziava con la
benedizione della Vergine Maria. Il salmo responsoriale del giorno recitava: «Ti
seguiremo ovunque ci condurrai Vergine Maria».
Abbiamo poi raggiunto Nazareth.
ll secondo giorno è stato indimenticabile, in un certo senso il fulcro del nostro
pellegrinaggio, la visita dei luoghi in cui
Gesù ha iniziato la sua missione con la
scelta dei suoi discepoli.
È stato molto emozionante vedere e cal-
pestare i luoghi in cui Gesù ammaestrava e compiva miracoli: Tabgha (miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci); la Sinagoga di Cafarnao, il primato
di Pietro; il Monte delle Beatitudini. Attraversare il lago di Tiberiade è stata poi
un’esperienza unica.
La mente riandava ai passi del Vangelo riguardanti la pesca miracolosa e la
tempesta che molto aveva fatto dubitare Pietro.
Momenti toccanti sono stati anche quelli vissuti nella chiesa dell’Annunciazione a Nazareth: il Sì, senza riserve, di
un’umile fanciulla ha dato inizio al disegno di Dio per la salvezza dell’umanità.
Interessanti sono stati i due giorni trascorsi in Giordania: Madaba, Jerash,
Petra ed Amman.
Notevoli a Jerash i resti della presenza
romana; l’arco di Adriano e le rovine della città. Affascinante il sito dell’antica
Petra con il suo capolavoro scolpito nella roccia dalle sfumature rosa e la città
di Amman veramente moderna ed elegante nella zona residenziale.
Ma nel nostro pellegrinaggio in Giordania i luoghi più significativi sono stati: il
Monte Nebo, dove Mosè intravide la terra promessa, portando a termine il compito assegnatogli da Dio e il sito del battesimo di Gesù, dove tutti insieme ab41
Terra Santa: S. Messa nel deserto.
biamo rinnovato le promesse battesimali e siamo stati benedetti con l’acqua del
Giordano da S. E. Mons. Armando Brambilla.
La sosta nel deserto di Giuda per la celebrazione della S. Messa di domenica 3
maggio è stato un altro momento molto
coinvolgente, con la mente pensavo all’esperienza di Gesù nel deserto: i quaranta giorni che hanno preceduto il suo
«Sacrificio».
La grotta dei pastori e la chiesa della
Natività a Bethlemme hanno fatto rivivere nei nostri cuori la nascita di Gesù,
la sosta poi al santuario della Visitazione ad Ain Karem ci ha fatto riflettere sullo spirito di servizio che ogni cristiano
dovrebbe avere. L’ultima tappa del pellegrinaggio è stata Gerusalemme. Il passaggio quotidiano da Bethlemme (dove
abbiamo alloggiato dal 4 maggio) a Gerusalemme ci ha fatto toccare con mano
la difficile coesistenza tra Israeliani e Palestinesi; il muro eretto tra la zona israeliana e i territori palestinesi è una ferita
inferta, che soltanto una grande volontà
di pace tra i due popoli potrà sanare.
I due giorni dedicati a Gerusalemme
sono stati molto intensi.
Tutti i luoghi che hanno visto la presenza di Gesù sono stati visitati: il Monte
Sion, il Cenacolo, S. Pietro in Gallicantu, il Monte degli Ulivi, il Getsemani, la
chiesa del Pater Noster, la Basilica dell’agonia e il Dominus flevit.
La Via Crucis, per le vie della città vecchia, la visita al S. Sepolcro e la celebrazione della S. Messa «in Resurrectione Domini», nella cappella antistante il S. Sepolcro, hanno dato il sigillo finale al nostro pellegrinaggio.
Il 6 maggio, dopo una sosta ad Emmaus,
per la celebrazione della S. Messa, abbiamo raggiunto l’aereoporto di Tel Aviv
per il ritorno a Roma.
Posso concludere che il pellegrinaggio
in Terra Santa dovrebbe essere fatto da
ogni credente per rinsaldare la propria
fede, in quanto il nostro Credo è proprio
in quei luoghi che può essere confermato e rinvigorito.
Una pellegrina
Il Crocifisso sul Monte Calvario.
42
Invocazione allo
Una preghiera del Vescovo di Molfetta
don Tonino Bello defunto nel 1993
Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù
e l’hai proclamato Messia, dilaga su questo
corpo sacerdotale raccolto davanti a te. Adornalo di una veste di grazia. Consacralo con
l’unzione e invialo a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori
spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l’anno di misericordia del Signore.
Se Gesù ha usato queste parole di Isaia per
la sua autopresentazione nella sinagoga di
Nazareth e per la stesura del suo manifesto
programmatico, vuol dire che anche la chiesa oggi deve farsi solidale con i sofferenti,
con i poveri, con gli oppressi, con i deboli,
con gli affamati e con tutte le vittime della
violenza.
Facci capire che i poveri sono i «punti di entrata» attraverso i quali tu, Spirito di Dio,
irrompi in tutte le realtà umane e le ricrei.
Preserva, perciò, la tua sposa dal sacrilegio
di pensare che la scelta degli ultimi sia l’indulgenza alle mode di turno e non invece la
feritoia attraverso la quale la forza di Dio penetra nel mondo e comincia la sua opera di
salvezza.
Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’
che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci. Quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato
al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto e
ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore,
nell’otre tuo raccogli».
Rendila protagonista infaticabile di deposizioni dal patibolo, perché i corpi schiodati
dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre. In quei momenti poni sulle
sue labbra canzoni di speranza. E donale di
non arrossire mai della croce, ma di guardare ad essa come all’ antenna della sua nave,
le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Spirito Santo
Spirito Santo, luce che rischiari la notte.
Spirito di Pentecoste, ridestaci all’ antico
mandato di profeti. Dissigilla le nostre labbra, contratte dalle prudenze carnali. Introduci nelle nostre vene il rigetto per ogni compromesso. E donaci la nausea di lusingare i
detentori del potere per trarne vantaggio.
Trattienici dalle ambiguità. Facci la grazia
del voltastomaco per i nostri peccati. Poni il
tuo marchio di origine controllata sulle nostre testimonianze. E facci aborrire dalle parole, quando esse non trovano puntuale verifica nei fatti.
Spalanca i cancelletti dei nostri cenacoli. Aiutaci a vedere i riverberi delle tue fiamme nei
processi di purificazione che avvengono in
tutti gli angoli della terra. Aprici a fiducie ecumeniche. E, in ogni uomo di buona volontà
facci scorgere le orme del tuo passaggio.
Spirito del Signore, dono del Risorto agli
apostoli nel cenacolo, gonfia di passione la
vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie
discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra e capaci di misericordia per
tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l’olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza,
perché non trovino appoggio più dolce per il
loro riposo se non sulla spalla del Maestro.
Liberali dalla paura di non farcela più. Dai
loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia
mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il
crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di
abiti nuziali. E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.
Don Tonino Bello
43
FEDE, CARITÀ E ANZIANI MALATI
Introduzione
In questo intervento non intendo parlare
di fede e carità di coloro che si prendono
cura degli anziani malati. Preferisco invece focalizzare la mia riflessione sulla
questione relativa alla crescita, in fede e
carità, di coloro che, a motivo della tarda età e della malattia, si avvicinano al
termine della vita. Mentre la morte si profila minacciosamente dinanzi a tutti noi,
questioni riguardanti il suo mistero, il suo
significato teologico e la preparazione immediata al passaggio finale diventano più
acute negli stadi finali della vita, anche
quando in questi ultimi momenti competenza intellettuale e consapevolezza psichica possono essere ridotte o seriamente compromesse. Quali conoscenze ci può
offrire la riflessione teologica, illuminando l’esperienza spirituale del viaggio
finale? In che modo i cambiamenti causati dallo sviluppo delle tecniche mediche, possono influenzare questa esperienza spirituale? Come sempre, gli interrogativi teologici devono guardare verso Cristo per trovare la risposta. Gesù
Cristo, Figlio del Padre eterno, passò
per la morte e la resurrezione. Il mistero pasquale, pertanto, deve essere
compreso, alla ricerca del significato
per il passaggio finale dei cristiani.
L’amore del Padre sorregge il figlio crocifisso.
La morte di Cristo
Nella sua meditazione sulla passione di
Cristo come la presenta il Vangelo di
San Matteo, il teologo belga, padre Servais Pinckaers OP, si è concentrato principalmente sul dono di sé di Gesù. Nella pietà popolare, a volte in tali meditazioni predomina un accento doloroso
sui vari aspetti della sofferenza di Gesù. Una lettura attenta del Vangelo, tuttavia, mostra che non è la sofferenza a
essere al centro del dramma. Le donne
che guardavano la croce da lontano non
stavano semplicemente piangendo di
fronte alla brutalità. Nel loro sguardo
contemplativo esse vedevano Gesù donarsi totalmente al Padre e all’ umanità.
Il Cardinale Albert Vanhoye afferma
che il sacrificio di Cristo non consiste
unicamente nella Sua morte, ma nella
trasformazione di quella morte in fonte di nuova vita. Nella comprensione
moderna delle parole “espiazione” e
“sacrificio”, noi pensiamo a punizione
e sofferenza. Ma così come “semplificare” significa “rendere semplice una
cosa”, e “santificare” significa “rendere santo qualcosa”, anche “sacrificare”
vuol dire “rendere sacro qualcosa”. Il
sacrificium di Gesù, il suo sacrificio, è
rendere la sua volontà umana supremamente santa in quanto essa è piena
dell’amore che è lo Spirito Santo. Donandosi totalmente, in completa apertura al Padre, Gesù ci ha mostrato come la volontà dell’uomo possa essere
pienamente arricchita e ampliata oltre
i suoi limiti naturali dall’amore che scaturisce dalla Trinità. Nella passione di
Cristo il ruolo dello Spirito Santo consistette nel colmare il cuore umano di
Gesù con tutta la forza dell’amore divino, in modo tale che in quella morte,
sofferta contro ogni giustizia, fu stret- mente essa è entrata in una dimenta un’alleanza ultima tra Dio e l’uma- sione completamente nuova e in un
nità. Il fuoco dello Spirito Santo tra- nuovo ordine: è stata legata all’amosformò quella morte in sacrificio di re, a quell’amore [...] che crea il bene
unione, in strumento per rendere santo ricavandolo anche dal male, ricavanil cuore umano di Gesù e i nostri cuori dolo per mezzo della sofferenza, così
che si uniscono a Lui. Attraverso il do- come il bene supremo della redenziono totale di sé, nella sua solidarietà con ne del mondo è stato tratto dalla Croi peccatori, Gesù ha dato accesso a que- ce di Cristo, e costantemente prende
sto amore divino, che scaturisce per noi da essa il suo avvio.
dal suo cuore aperto. Nel mistero pa- Gesù avrebbe potuto salvarci infondensquale noi meditiamo il cambiamento do amore divino supremo al suo sorridella morte di un uomo, trattato come so nella grotta di Bethlemme. Poiché
ogni atto umano può escriminale e punito con
sere nutrito dal di dentro
morte crudele, in uno
dall’amore di Dio, e in
strumento di comunione
Gesù il suo amore divino
suprema con Dio e con
era supremo e infinito,
l’umanità. Questa trabenché anche soggetto a
sformazione è di grancrescita umana, teoricadissima importanza e
mente Egli avrebbe pofonte ultima di quell’ultuto manifestare quell’ateriore cambiamento che
more supremo in manieè poi la transustanziara più semplice della
zione del pane e del viIl Cristo nella gloria.
morte di croce, anche se
no nel corpo e nel sanavremmo avuto maggiore difficoltà a rigue di Cristo.
Nella Lettera Apostolica Salvifici dolo- conoscerlo. Continuando a dare se stesris, del 1984, Giovanni Paolo II riflette so nella morte, nonostante il suo rifiusulla sofferenza umana con un’atten- to e la persecuzione, nel pieno controlzione analoga al mistero pasquale inte- lo di sé, anche se negli eventi della sua
so come mistero di amore divino, che passione e morte sembra che Gesù fosredime il peccato dell’uomo mediante se condotto da altri e costretto nella sua
il potere di quell’amore. Nella soffe- libertà, dicendo solo cosa voleva dire e
renza di Gesù i peccati vengono can- quando voleva e rifiutando di usare il
cellati proprio perché egli solo, come suo potere divino per fermare i suoi perFiglio unigenito, poté prenderli su di sé, secutori, Gesù ha mostrato la pienezza
assumerli con quell’amore verso il Pa- dell’amore divino, più potente della sofdre che supera il male di ogni peccato; ferenza e della morte. Nella sua morte
in un certo senso annienta questo male e resurrezione, come espresso dalla sua
nello spazio spirituale dei rapporti tra preghiera sul Getsemani, noi vediamo
Dio e l’umanità, e riempie questo spa- il suo do-no, il suo arrendersi totalmente
zio col bene.... Le parole della preghie- al Padre e la sua totale apertura al dono
ra di Cristo al Getsemani provano la ve- ricevuto, in cui consiste la sua obberità dell’amore mediante la verità del- dienza. La sofferenza di Gesù nella morla sofferenza [...]. L’umana sofferenza te rese la sua trasparenza al Padre e al
ha raggiunto il suo culmine nella pas- potere dello Spirito più visibile.
sione di Cristo. E contemporanea- Possiamo provare a far comprendere
45
creazione del mondo e i peccati dell’umanità (Ef 1, 4), si compiace della potenza dell’amore, che il Figlio non solo ha manifestato ma esteso nella sua
morte verso l’umanità ferita.
La percezione del significato profondo
del mistero pasquale può gettare luce sugli stadi finali del viaggio spirituale dell’uomo in cui le persone anziane si preparano per il passaggio ultimo. Dopo il
mistero pasquale, la morte non è più solo un momento orribile della separazione finale di corpo e anima, della persona e della sua famiglia e comunità. La
morte cristiana è una conquista, un’unione suprema con Dio (Fil 1,21) da vivere in amore, e non in paura (Eb 2,15)
sulla base di quell’amore supremamente divino che ci è stato liberamente offerto. La questione tuttavia non è come
sfuggire alla morte, (cosa che non possiamo fare), ma come entrare nella morte in modo tale che la ricchezza spirituale di questo passaggio, in unione con il
passaggio di Cristo attraverso la morte e
la resurrezione nella gloria, sia occasione di apertura suprema alla vita divina liberamente data. Per questo San Paolo
scrive: “Perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo,
sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8) e noi “sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo
corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una
dimora eterna, non costruita da mani
di uomo, nei cieli” (2Cor 5,1), e anche:
«Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e
questo corpo mortale d’immortalità,
si compirà la parola della Scrittura:
“La morte è stata ingoiata per la vittoria”» (1 Cor 15,54).
P. Wojciech Giertych OP
Mons. Brambilla in visita ad una anziana.
questo mistero con un semplice paragone. Un medico che va a lavorare in
un paese lontano dove contrae una malattia grave e muore, o un sacerdote che
va come missionario in un paese straniero e vi viene ucciso, manifestano la
potenza del loro amore. I genitori del
medico o del missionario proveranno
grande dolore per il fatto che il proprio
figlio sia morto o sia stato ucciso. Ma
a un livello spirituale più profondo, essi si rallegreranno del fatto che nel cuore del figlio l’amore che gli avevano insegnato ha vinto, che nella sua morte,
che umanamente sembra inutile, la potenza dell’amore ha mostrato la sua forza più completa, generando una suprema generosità che si dona sino alla fine. Naturalmente il figlio avrebbe potuto esprimere il proprio amore senza
morire come missionario in terra straniera, ma la sua morte ha manifestato
senza nessun offuscamento la qualità
del suo amore. Allo stesso modo, possiamo presumere una gioia simile nel
cuore del Padre eterno, che vede la vittoria dell’amore che anima la Trinità resa manifesta nel dono ultimo di sé del
Figlio. “Questo è il mio diletto Figlio,
nel quale mi sono compiaciuto” (cfr.
Mt 3,17; 17,5; Mc 1,11; Lc 3,22). Il Padre eterno, mosso dall’amore della sua
grazia originale che ha preceduto la
(Continua)
46
Teologo della Casa Pontificia
Santa Sede
Antichi ospedali romani minori
P
L’OSPEDALE DELLE
GRAZIE A PORTA ANGELICA
stesso divenne un nome esemplare e popolare, un po’ come quel famoso “Fatebene-fratelli” che fu assunto come denominazione ufficiale dell’ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio.
Raggiunta dopo vari viaggi anche Gerusalemme, Albenzio ne era ritornato recando con sé una bella icona mariana.
Durante il viaggio una furiosa tempesta
minacciò di far naufragare il vascello ma
Albenzio, recatosi a prua, protese l’immagine verso i marosi invocando l’aiuto della Vergine e subito il mare si calmò,
assicurando la salvezza. Albenzio ne fu
sempre molto geloso, tanto da custodirla esclusivamente nella propria cella e
mostrarla raramente solo a qualche confratello, comunque mai in pubblico. In
punto di morte, stremato dalle dure penitenze, si fece portare la tanto amata icona e raccomandò ai suoi discepoli di
esporla in permanenza, annunciando che
essa sarebbe stata assai venerata con il
titolo di «Santa Maria delle Grazie».
Nel suo pellegrinare Albenzio era giunto dunque a Roma, dove rimase fortemente colpito dalla gran quantità di poveri ma soprattutto di pellegrini che, provenienti da terre anche lontanissime, arrivavano a San Pietro ormai stanchi e malati. Chiese allora a papa Sisto V un ricovero per quel popolo dolente e ne ottenne il permesso (1587) di chiedere al
Cardinale Vicario un terreno ove costruire
una casa d’accoglienza per gli eremiti, i
pellegrini ed i forestieri.
Il terreno fu individuato nel rione Borgo,
rima di parlare di quello che fu un minuscolo ma preziosissimo luogo di cura
e pietà cristiana, occorre anzitutto disegnare - sia pure sinteticamente - la formidabile figura di colui che ne fu l’ideatore e l’instancabile guida: il Ven. fra’ Albenzio De Rossi (Cetraro, Cosenza, 1542
– Roma 1606), un sant’uomo praticamente sconosciuto ai più ma che meriterebbe invece grande onore e devozione.
Sull’esempio del suo grandissimo conterraneo Francesco da Paola, Albenzio
era un frate eremita in cui fede e carità
ardevano come fuoco inestinguibile. Predicava incessantemente la penitenza, vestendo un poverissimo saio e portando
un teschio legato alla cintola, pellegrinando ovunque lo portasse il suo desiderio di ammaestrare i fedeli. Era rimasto molto colpito da alcune parole di S.
Paolo (Galati VI, 7-10) e ne aveva tratto un motto che divenne poi - se ci si consente una espressione profana ma efficace - lo “slogan” più efficace del suo
apostolato: “facemo bene adesso che havemo tempo”. E fu tanto valido che lo
Edicola in memoria dell’antica Chiesa demolita.
47
S. Maria delle Grazie con annesso ospizio (G. Vasi 1761).
più o meno in un’area che oggi sarebbe
compresa tra via di Porta Angelica, via
del Mascherino e Borgo Angelico, dove
peraltro ancora esiste una “Via delle Grazie”. La generosità di tanti benefattori
consentì, in soli quattro anni, di costruire la casa con annessa chiesetta, che volle dedicare all’Ascensione di Nostro Signore ma che dopo la morte di fra’ Albenzio fu chiamata correntemente S. Maria delle Grazie. Come in molti altri casi simili, l’istituzione pur nella sua sobrietà era complessa, nel senso che era
un ospedale ma nel contempo anche un
ospizio per i pellegrini, ricovero per gli
eremiti e mensa per i poveri.
Il comprensorio era piccolo ma molto
ben organizzato. Disponeva di una cucina con dispensa e di un refettorio; gli ortaggi per la mensa venivano coltivati in
un orticello interno. Ben presto, come era
consuetudine, fu ricavato in loco anche
un piccolo cimitero. Non è noto di quanti letti disponesse in via ordinaria, ma si
sa che le poche stanze all’uopo adibite si
rivelarono ben presto insufficienti. Per i
soccorsi urgenti funzionava invece un
apposito locale con sei letti. I trattamenti terapeutici si limitavano comunque a
pochi protocolli essenziali. Mariano Armellini, citando gli Acta Visitationis redatti al tempo di papa Alessandro VII
Chigi (1655 - 1667), riporta che qualora
tra i poveri a cui tutte le sere si dava da
mangiare e da dormire ci fossero degli
infermi, questi venivano all’istante messi a letto “facendoli subito confessare”.
La mattina seguente, “ricevuto il SS. Sacramento”, venivano indirizzati agli
ospedali di maggiore importanza onde
ricevere le cure più appropriate. Succedeva tuttavia per vari motivi che tali malati “talvolta erano ributtati da quegli
ospitali”, sicché ai poveretti non restava
che tornare all’ospizio di provenienza,
dove però “con carità erano accettati et
rimessi a letto sin tanto che il Sig. Iddio
provvedesse al loro bisogno”. Non abbiamo notizie certe circa la fine dell’attività del piccolo ricovero, ma sappiamo
che nel 1806 esso era certamente ancora in esercizio. Da alcuni documenti si
può comunque desumere che la cessazione definitiva debba essere avvenuta
non oltre la metà dell’Ottocento. Quanto all’edificio, dopo varie vicende - culminate nel 1936 con la demolizione dell’intero complesso ormai fatiscente - di
esso rimane solo la bella immagine miracolosa della Madonna delle Grazie, che
dal 1941 è custodita presso l’omonima
parrocchia al Trionfale.
Domenico Rotella
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Nr 59 Giugno 2009