6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB
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MARZO 2015
3
CONFRONTI
3/MARZO 2015
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Anno XLII, numero 3
Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com
Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio
Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).
Le immagini
Rom fuori campo • Andrea Sabbadini, copertina
Rom: solo un numero civico • Rocco Luigi Mangiavillano, 3
Gli editoriali
«Europeizzare» di più l’immigrazione • Roberto Zaccaria, 4
Uscire dalla gabbia d’acciaio europea • Tonino Perna, 5
Libertà religiosa in cerca di legge • Marco Ventura, 6
Direttore Claudio Paravati
Caporedattore Mostafa El Ayoubi
I servizi
In redazione
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Redazione tecnica e grafica
Daniela Mazzarella
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Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75,
n.15476. ROC n. 6551.
Hanno collaborato a questo numero:
G. Battaglia, A. Bruno, M. Felici, S.M.
Fiammelli, M. Iannucci, D. Losurdo, E.
Marzo, R. Mazzoli, T. Perna, D. Salkànovic, L.Savarino, C. Stasolla, M. Ventura,
R. Zaccaria.
Medio Oriente
Società
Etica
Ebraismo
Armeni
Laicità
Chiesa cattolica
Cultura
La favola della «lotta al terrorismo» • Mostafa El Ayoubi, 7
E l’apprendista stregone Occidente «creò» l’Isis • (int. a) D. Losurdo, 9
I razzismi «costruiti dall’alto» • Roberto Mazzoli, 12
I campi: una vergogna tutta italiana • (int. a) Stasolla e Salkànovic, 13
I rom? Mandiamoli a casa! • Rocco Luigi Mangiavillano, 16
Obiezione di coscienza: quali confini? • Luca Savarino, 17
La legge 194 ha fatto dimezzare gli aborti • (int. a) Adriana Bruno, 19
Una stella di David arcobaleno • Daniela Mazzarella, 21
Ebreo e omosessuale: identità non in contrasto • (int. a) M. Fiammelli, 22
A cento anni dal genocidio • Maria Immacolata Macioti, 24
Il papa e i nanetti litigiosi • Paolo Naso, 26
Se manca la leva, nulla si risolleva • Enzo Marzo, 27
Perché Francesco entusiasma e turba • Luigi Sandri, 29
I rom e le identità «cucite addosso» • Gino Battaglia, 31
Le notizie
Ambiente
Diritti umani
Immigrazione
Società
Media
Medio Oriente
Pluralismo
Ecumenismo
Economia
Eutanasia
Polveri e ozono fuori controllo: la denuncia di Legambiente, 33
La Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, 33
La comunità marocchina in Italia conta mezzo milione di persone, 33
Quando gli immigrati siamo noi. E non ci vogliono più, 34
Una cooperativa di giovani nel rione Sanità di Napoli, 34
La classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa, 34
Un convegno a Roma con lo storico israeliano Ilan Pappé, 35
«Dai culti ammessi alla libertà religiosa», 35
Lo scontro tra Egitto ed Etiopia sulla diga sul Nilo Azzurro, 36
Libby Lane è la prima donna-vescovo della Chiesa d’Inghilterra, 36
Prosegue la raccolta firme contro il Ttip, 37
«Liberi fino alla fine»: la campagna sull’eutanasia legale, 37
Le rubriche
Diario africano
In genere
Note dal margine
Osservatorio sulle fedi
Cibo e religioni
Spigolature d’Europa
Opinione
Libro
Segnalazioni
In Sud Sudan è ormai catastrofe umanitaria • Enzo Nucci, 38
Uno sforzo verso un femminismo musulmano • Stefania Sarallo, 39
Gli spazi della tradizione • Giovanni Franzoni, 40
Non nominate il nome di Dio invano! • Antonio Delrio, 41
Alimentazione halal: i precetti dell’islam • Marisa Iannucci, 42
La vie en rose di Marine Le Pen • Adriano Gizzi, 43
Scuola: sbagliare meglio • Giuliano Ligabue, 44
Le donne che si parlano in silenzio • Marcella Felici, 45
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anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a [email protected]
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LE IMMAGINI
ROM: SOLO UN NUMERO CIVICO
L’accesso alla casa è il primo segnale di «normalizzazione» sociale e un diritto per tutti.
Le foto che illustrano il numero sono di Rocco Luigi Mangiavillano e riprendono alcuni momenti
di «Europa Spa - Strumenti di partecipazione attiva nell’Europa del XXI secolo»,
promosso dalla Commissione europea e attuato in Italia da Eurobic Toscana Sud,
in partnership con Provincia di Roma e Cilap Eapn Italia.
Il cantiere «presa di parola dei rom» è stato curato da Coop. Ermes
insieme ai rappresentanti rom di alcuni insediamenti di Roma.
3
GLI EDITORIALI
«Europeizzare» di più
l’immigrazione
Roberto Zaccaria
a «contabilizzazione» degli arrivi via
mare, in Italia nel 2014, è stata drammatica: oltre 850 sbarchi, oltre 170mila persone, in gran parte rifugiati, approdate sulle nostre coste, oltre 3.000 morti
o dispersi. Tutto questo nonostante uno sforzo straordinario, vorrei dire eroico, delle nostre forze militari e civili, nonostante Mare
nostrum e nonostante il grande impegno
economico del nostro paese. Tutto questo
dopo la tragedia di Lampedusa dell’ottobre
del 2013, che aveva colpito l’opinione pubblica italiana ed internazionale in maniera devastante. Ricordiamo ancora le parole durissime di papa Francesco, ricordiamo le meste
visite dei governanti italiani ed europei e ricordiamo i solenni impegni di solidarietà di
quei giorni.
In termini politici si è cercato innanzitutto
di predisporre in Italia, con il concorso dello
Stato, delle Regioni e dei Comuni, un piano
di accoglienza e di solidarietà straordinario.
Si è cercato di sostenere questo sforzo con
un piano di risorse finanziarie maggiori e si
sono potenziate anche le strutture per il vaglio delle domande di asilo. Naturalmente
nella consapevolezza che tutti questi sforzi
continuano ad essere insufficienti di fronte
alla crescita esponenziale del fenomeno migratorio.
In termini politici si è agito anche verso
l’Europa per ottenere un maggior coinvolgimento nelle operazioni in mare e per rivedere il «sistema Dublino» che sostanzialmente
obbliga gli stati di arrivo ad esaurire al loro
interno le procedure di asilo e di accoglienza
dei rifugiati. L’esatto contrario di quel principio di solidarietà europea che ispira la lettera e lo spirito dei principi dell’Unione.
Il risultato su questo piano è stato decisamente modesto. L’operazione Mare nostrum
è stata sostituita da Triton (sostanzialmente
nel perimetro di Frontex), caratterizzata da
mezzi e da regole di ingaggio decisamente
insufficienti. Di riformare Dublino (attraverso la predisposizione di quote proporzionali
di accoglienza tra i vari paesi) nessuno in Europa parla seriamente.
L
Ancora tragedie a largo
delle nostre coste.
L’operazione Triton
ha sostituito Mare
nostrum, ma come
ampiamente
prevedibile si è rivelata
del tutto inadeguata
e la solidarietà europea
è mancata di nuovo:
il peso maggiore degli
sforzi ricade ancora
sull’Italia. Nessuno
infatti parla di rivedere
il «sistema Dublino»,
magari predisponendo
quote proporzionali
di accoglienza
tra i vari paesi.
Zaccaria è professore
di Diritto costituzionale
all’Università di Firenze.
4
L’inizio del 2015 si è subito caratterizzato
con dati ancora più preoccupanti. La situazione internazionale, dopo gli eventi drammatici di Parigi e di altre capitali europee, ha
messo in primo piano gravissimi problemi di
sicurezza; le vicende della Libia, con l’acuirsi dell’instabilità politica, dell’avanzata delle
truppe dell’Isis, della partenza del nostro ambasciatore, hanno reso drammatica la situazione in quel paese. Gli attraversamenti via
mare, nonostante le condizioni avverse del
periodo invernale, sono ripresi ad un ritmo
quasi raddoppiato rispetto a quello dell’anno
precedente e purtroppo si sono verificate
nuove tragedie nelle acque di Lampedusa.
Molti sono stati i morti e in alcuni casi drammaticamente per assideramento quando le
persone già si trovavano sui mezzi di salvataggio. Moltissimi i dispersi. Si è dato inizio
ad una contabilità di proporzioni ancora più
gravi rispetto al passato.
L’operazione Triton ha rivelato, come si sapeva o si poteva prevedere, la sua assoluta
inadeguatezza. La solidarietà europea è parsa lontana dal delinearsi ed ancora una volta
il peso maggiore degli sforzi ha finito con il
ricadere sul nostro paese.
Naturalmente di fronte ad una situazione
obiettivamente drammatica, non mancano
le operazioni spregiudicate di ulteriore
drammatizzazione. Risulta più che mai facile mescolare impropriamente i termini
immigrazione e terrorismo, suscitando allarmi crescenti nel paese e nella comunità
internazionale. Proprio questo è il momento invece di usare la maggiore razionalità
possibile. Bande criminali e forse anche
frange di terrorismo speculano a monte sul
traffico collegato ai viaggi dei rifugiati e dei
migranti. Per questo la comunità internazionale e l’Europa devono cercare paesi e
luoghi di accesso protetto ovunque sia possibile, in Africa, nel Medio oriente, vicino
alle aree di crisi, per evitare fin dall’inizio
questi viaggi verso la morte.
Se e quando questi disperati si imbarcassero per attraversare il Mediterraneo è indispensabile con mezzi navali adeguati: salvarli, identificarli, arrestare i trafficanti e requisire o distruggere i natanti. Tutte queste
misure, anche se costose, sono essenziali
per coniugare insieme accoglienza, solidarietà e sicurezza. Una volta che queste persone siano approdate in un qualunque paese europeo di primo ingresso, devono esse-
GLI EDITORIALI
re rigorosamente identificate, dal punto di
vista personale e del loro fabbisogno sanitario, curate, assistite in termini di prima accoglienza. Deve essere valutata l’esistenza
dei presupposti per rimanere e poi le presenze debbono essere ripartite tra i vari
paesi, tenendo conto della situazione personale e dei possibili ricongiungimenti, secondo un fondamentale ed elementare principio di solidarietà.
Solo se l’Europa sarà in grado di gestire
con una visione d’insieme tutti questi passaggi il problema potrà essere governato nel
quadro di un sistema comune. E solo allora
potremo dire di esserci incamminati sulla
strada giusta.
Uscire dalla gabbia
d’acciaio europea
Tonino Perna
a vittoria di Syriza alle elezioni politiche in Grecia ha aperto una finestra
nella triste politica dell’austerity che
imperversa da quando è scoppiata la
crisi finanziaria. La trattativa/negoziazione
di Tsipras e Varoufakis (il ministro delle Finanze) con i vertici di Bruxelles andrà avanti per mesi e non sappiamo come finirà.
Quello che sappiamo è che per la prima volta un piccolo paese della Ue, con appena il
2% del Pil della Comunità, è riuscito ad alzare la testa ed a mettere in discussione l’ideologia dei mercati finanziari e la religione del
debito come colpa che i cittadini devono
scontare, anche se non sono loro i responsabili del processo di indebitamento.
Come sappiamo, i diktat della troika (Commissione europea, Banca centrale europea e
Fondo monetario internazionale) hanno impoverito brutalmente la società greca come
mai era successo in tempo di pace. Non per
caso si è parlato di «guerra economica» che
insieme a quelle che sono state definite
«guerre umanitarie» hanno costituito le due
nefaste coordinate dentro le quali la classe
politica dominante ha pensato di costruire
l’Unione europea negli ultimi decenni. A cui
va aggiunta la terza coordinata che è emersa
chiaramente negli ultimi tempi: la guerra ai
migranti. Con questi tre assi la burocrazia e
la classe politica dominante nella Ue hanno
L
«I diktat della troika
hanno impoverito
brutalmente la società
greca come mai era
successo in tempo di
pace. Non per caso si è
parlato di “guerra
economica” che insieme
a quelle che sono state
definite “guerre
umanitarie” hanno
costituito le due nefaste
coordinate dentro le
quali la classe politica
dominante ha pensato
di costruire l’Unione
europea negli ultimi
decenni».
Economista e sociologo,
Perna è docente di Sociologia
economica alla Facoltà
di Scienze politiche
dell’Università di Messina.
5
di fatto eretto, in nome della «sicurezza finanziaria» una grande gabbia d’acciaio (fabbricato nella Ruhr) che ci sta stritolando.
Dopo la caduta del muro di Berlino l’Ue
avrebbe potuto portare avanti una politica
di pace e disarmo, mettendo in discussione
la stessa sopravvivenza della Nato, che aveva perso la sua ragione sociale con la scomparsa del «pericolo rosso». Ed invece abbiamo continuato ad essere succubi delle strategie militari Usa, seguendo la superpotenza nelle «guerre umanitarie», all’insegna dell’esportazione della nostra democrazia, facendoci complici dei danni gravissimi che
abbiamo prodotto in Somalia, Iraq, Afghanistan, Libia (per citare i casi più eclatanti).
Ed oggi siamo succubi dell’espansione della
Nato sotto le porte di Mosca, che ha portato alla guerra in Ucraina ed alle sanzioni alla Russia che colpiscono soprattutto la nostra economia. In breve: abbiamo perso l’occasione storica per allargare l’Unione europea ed includere la Federazione Russa,
creando un grande mercato interno, paragonabile a quello della Cina o dell’India.
Allo stesso tempo, abbiamo chiuso le porte e le finestre al Mediterraneo, impedendo
al momento opportuno (inizi del secolo) che
la Turchia entrasse nell’Unione europea, costruendo un ponte culturale importante col
mondo islamico, prima che questo paese cadesse nelle mani di un governo islamico che
sta sotterrando la sua tradizione laica. Infine, abbiamo intrapreso una vigliacca «guerra ai migranti», guerra non dichiarata che
produce ugualmente decine di migliaia di
morti. In breve: ci siamo chiusi in una gabbia
pensando di essere autosufficienti. Una scelta miope e suicida che ci porterà all’implosione se non cambiamo registro.
Come uscirne? Il popolo greco scegliendo
Syriza ci ha indicato una finestra che ci potrebbe permettere di respirare nel breve periodo, che potrebbe allentare la morsa della
guerra economica che sta colpendo in tutta
la Ue le fasce deboli della popolazione e lo
stesso ceto medio. Ma, non basta. Occorre
allo stesso tempo rompere con la strategia
militare Usa e rivendicare un ruolo di pace
per la Ue, un nuovo rapporto con i popoli del
Mediterraneo e dell’est europeo. A partire
dalla irrisolta, tragica, questione della Palestina. Così come rispetto all’inarrestabile
flusso di migranti dalla sponda sud del Mediterraneo, spesso frutto di guerre che noi
GLI EDITORIALI
abbiamo sostenuto o volutamente ignorato,
deve essere avviato un reale e fruttuoso processo di cooperazione con tutti i paesi della
sponda sud e sud-est del Mediterraneo, non
dimenticando che è un «mare di mezzo» tra
terre che per millenni hanno intrecciato le
loro storie, culture, economie. La gabbia
d’acciaio va spezzata, nel nostro interesse e
di quello dell’intera umanità.
Libertà religiosa
in cerca di una legge
Marco Ventura
ono maturi i tempi perché il Parlamento abroghi le norme sui culti ammessi del 1929-1930 e le sostituisca
con disposizioni adatte al nuovo contesto. Convergono in proposito gli attori intervenuti al convegno tenutosi presso il Senato il 17 e 18 febbraio 2015. Le Chiese
evangeliche in Italia hanno promosso l’iniziativa. Si battono da lunga data per una
legge sulla libertà religiosa. Sono un interlocutore autorevole del governo e delle forze politiche. Hanno una leadership morale
tra le confessioni e comunità religiose diverse dalla cattolica. Nel convegno al Senato, la
Federazione delle chiese evangeliche ha rinnovato il suo appello per norme sulla libertà
religiosa adeguate ai nuovi bisogni. La Chiesa cattolica è apparsa pronta a dialogare.
Già la presenza al convegno del segretario
generale della Conferenza episcopale italiana, una storica prima volta, ha rappresentato un segno di grande valore.
Le parole di monsignor Galantino hanno
dato corpo al segno. Davanti a «situazioni
consolidate» come la legislazione sui culti
ammessi, ha affermato il vescovo, è difficile
«rivedere i nostri atteggiamenti». Ma necessario: in giro c’è ancora «troppa pigrizia intellettuale». Fedele a Francesco, la Chiesa
cattolica è «Chiesa in uscita», che «gioca
d’anticipo»; anzitutto «su se stessa». Inevitabile la conseguenza sulla libertà religiosa. Per
il segretario generale, l’impostazione «sospettosa e avara» della legislazione sui culti
ammessi «va superata». Servono norme ispirate alla «corretta laicità» quale definita dalla Corte costituzionale, all’eguaglianza nella
libertà, ai valori del pluralismo. Monsignor
S
Molti gli interventi al
convegno che si è svolto
al Senato il 17 e 18
febbraio sul tema «Dai
culti ammessi alla
libertà religiosa». La
Fcei, promotrice
dell’incontro, ha
rinnovato il suo appello
per norme sulla libertà
religiosa adeguate ai
nuovi bisogni e la Chiesa
cattolica è apparsa
pronta a dialogare.
Ventura è docente
di Diritto delle religioni
e Diritto canonico nelle
Università di Lovanio e Siena.
6
Galantino ha espresso il timore dei vescovi
cattolici per «amnesie» e «strabismi», per
una laicità «monista, alla francese», per una
legge che incoraggi «movimenti pseudo-religiosi e sette», il «livellamento al basso» e
l’«omogeneizzazione verso l’alto». Nondimeno la Chiesa cattolica è capace «di confrontarsi su tutto», ed è pronta ad «approfondire
insieme un intervento legislativo», ha aggiunto il vescovo, convinto che questo tempo sia «propizio per cercare insieme». È un
contributo incoraggiante perché aggredisce
il nemico peggiore di questi anni: l’inerzia,
l’immobilismo.
L’intervento del presidente del Senato ha
portato l’avallo dell’attore statale alla convergenza tra attori confessionali. Grasso ha auspicato la «rapida e necessaria revisione della legge del 1929». Ha invitato a «garantire a
pieno i principi costituzionali», «in modo
pragmatico e realistico», mediante una risposta legislativa alle «sfide poste dal pluralismo
religioso e culturale» che sostenga lo «sviluppo della società italiana ed europea». Il lavoro per una nuova legge, ha concluso il presidente Grasso, è oltre che una «battaglia politica», un «impegno culturale», e addirittura «un dovere etico per il nostro Paese».
Alla convergenza registratasi al convegno
va ora data sostanza. È forte la responsabilità degli attori religiosi. Dalle associazioni
dei musulmani e dai vescovi cattolici, in
particolare, si attendono passi coraggiosi. La
sfida è non meno delicata in casa dell’attore
statale. Il governo deve assumersi la sua responsabilità. Sul piano politico, certo. Ma
anche su quello tecnico. Le sue articolazioni con competenze in materia di politica religiosa dovranno coordinarsi o quanto meno non ostacolarsi. La sede decisiva, tuttavia, resta il Parlamento. Proprio perché così significativa sul piano simbolico e pratico, una legge sulla libertà religiosa è possibile solo se si sa dare risposta alle remore
degli eletti e alle inquietudini degli elettori.
Pezzi cospicui del paese hanno paura dell’immigrazione e dell’islam. Esistono forze
politiche determinate a trarne vantaggio. Lo
dimostra la sciagurata legge anti moschea
della Regione Lombardia. Nelle ragioni, nei
principi, nel testo, nel percorso parlamentare, la legge sulla libertà religiosa dovrà
convincere eletti ed elettori. Può nascere, la
legge, solo se è risposta democratica alla
realtà del paese.
MEDIO ORIENTE
La favola della
«lotta al terrorismo»
Mostafa El Ayoubi
È ormai evidente – anche agli ottimisti più irriducibili – che le speranze suscitate in tutto il mondo dalle cosiddette primavere arabe
sono rimaste del tutto disattese. Piuttosto, oggi assistiamo a una
rigogliosa «primavera jihadista», che spiana la strada alla realizzazione del progetto statunitense di egemonia sul Medio Oriente.
l mondo arabo continua a non trovare pace. Il linguaggio delle armi, con tutto ciò
che comporta in termini di ingenti perdite di vite umane, di instabilità politica, sociale ed economica, è quello che la fa da padrone in Paesi come l’Iraq, la Siria e la Libia.
La repressione è il sistema più consono ai regimi che «governano» Paesi come il Bahrein
e l’Egitto. E lo Yemen – da tanti anni oggetto
di operazioni militari americane mediante i
droni, lontano dai riflettori dei media – versa
oggi nel caos totale: dopo decenni di sottomissione al regime saudita, Sana’a è passata in
mano ai ribelli houthi, sciiti, vicini all’Iran.
A contribuire al permanere e al peggioramento della già grave situazione di instabilità
in queste nazioni, sono i regimi arabi settari
del Golfo: Arabia Saudita, Qatar e anche Emirati Arabi; Paesi sotto dittatura assoluta, che
oltre a perpetrare una forte repressione, all’occorrenza privano i loro oppositori del titolo di
cittadinanza! Un oppositore al regime saudita rischia di perdere la sua cittadinanza con
tutto ciò che ne consegue: perdita di beni, di
diritti ecc. Queste arcaiche monarchie del petrodollaro hanno contribuito in maniera decisiva al dilagare del terrorismo, la cui massima espressione oggi è il famigerato Isis, organizzazione derivante da Al-Qaeda.
Quattro anni fa si evocava una «primavera
araba»; si parlava di vento di libertà e democrazia che avrebbe interessato l’intero mondo
arabo. Chi ha coniato e diffuso questa novella, oggi non osa più menzionarla. È stata una
favola per addormentare le coscienze dell’opinione pubblica, per orchestrare dei cambi
di regimi non funzionali agli interessi delle
grandi potenze mondiali (alcuni che non lo
sono più come l’Egitto, altri che non lo sono
mai stati come in Libia e in Siria).
I
7
L’espressione forse più azzeccata oggi in
questa fase buia della storia del mondo araboislamico è «primavera jihadista». Per i jihadisti è una «primavera», un successo, perché
oggi occupano parte della Siria, dell’Iraq e della Libia, Paesi una volta governati da regimi
laici (non democratici ovviamente, ma d’altronde è un problema che riguarda l’intero
mondo arabo). Ma quanto durerà questo successo dei jihadisti? Il tempo necessario per
consentire loro di portare a termine la distruzione totale dell’apparato dello Stato, delle sue
infrastrutture e del sistema economico produttivo in questi Paesi. In Libia l’operazione è
giunta al termine. Affidando questo compito
ai jihadisti, gli Usa (con la partecipazione dei
loro alleati) sperano di poter appropriarsi della sovranità di quei Paesi. Per il governo americano, i jihadisti sono un efficace strumento
per l’attuazione di un piano che consente di
trasformare il Medio Oriente in un «protettorato americano» (come afferma Losurdo;
vedi la sua intervista a pagina 9) mediante una
«guerra per procura». Questa regione è strategica per il gas, il petrolio, l’acqua. E controllarla significa frenare l’espansione geopolitica
e geo-economica di potenze regionali come
l’Iran e mondiali come la Cina e la Russia (le
quali a loro volta mirano a promuovere i propri interessi).
Il marasma in cui vive oggi il mondo arabo
ha poco a che fare con le questioni dei diritti
umani e della democrazia; quello che è in gioco sono gli interessi geostrategici. Il repubblicano Henry Kissinger, segretario di Stato
americano tra 1973 e il 1977, disse una volta:
«Se noi dobbiamo scegliere tra i nostri interessi e la democrazia, sceglieremo sempre i
nostri interessi». Per la cronaca, Kissinger ebbe un ruolo determinante nel colpo di Stato
in Cile che condusse al potere il sanguinario
regime di Pinochet.
La strategia moderna per promuovere e
consolidare i propri interessi nel Medio
Oriente è la «guerra per procura» per destabilizzare i regimi non allineati. Questo compito è stato «appaltato» ai regimi oscurantisti
del Golfo in primo luogo. I jihadisti di Al-
i servizi
marzo 2015
confronti
MEDIO ORIENTE
Qaeda/Isis non sono altro che la manovalanza alla quale è stata affidata l’esecuzione materiale di questa strategia, di cui gli operai del
terrorismo (kamikaze, ecc) non sono nemmeno al corrente!
È ormai un mantra – ma è sempre importante ripeterlo – quello di ricordare che AlQaeda (da cui è nato l’Isis) è una creazione dei
servizi segreti americani (assieme ai talebani,
all’epoca della guerra in Afghanistan). E a
metterla in piedi, finanziarla e farla crescere
sono stati uomini della famiglia reale saudita, tra i quali il principe Bandar Bin Sultan, ex
ambasciatore saudita in Usa ed ex capo dei
servizi segreti. Nel 2002 una commissione del
Senato americano co-presieduta dal senatore
Bob Graham ha prodotto un rapporto sugli
attentati dell’11 settembre. Per «ragioni di Stato» il rapporto è stato tenuto segreto da Bush
e mantenuto tale da Obama. Questo rapporto parla dell’implicazione dell’Arabia Saudita
nella tragedia dell’11 settembre. Il senatore
Graham pubblicò nel 2008 un libro intitolato
«Intelligence matters» in cui parla di un capitolo di 28 pagine del suddetto rapporto, nel
quale viene accertato che l’operazione condotta da 19 terroristi (di cui 15 di nazionalità saudita) è stata finanziata principalmente dall’Arabia Saudita, un alleato di prim’ordine della
Casa Bianca. Perché i media continuano a sottacere questo fatto importante?
Il regno saudita insieme a quello del Qatar
(nonostante le apparenti divergenze politiche
tra queste due monarchie) hanno inondato il
mondo arabo e una parte dell’Africa subsahariana di jihadisti tafkiristi indottrinati con l’ideologia salafita, la quale predica una visione
distorta della religione islamica. Eppure questi Paesi partecipano oggi al bombardamento
dei territori iracheni e siriani con l’intento di
combattere l’Isis. Com’è possibile combattere
il terrorismo al fianco di chi lo crea e lo finanzia? Paradossale! Se è vero che lo si vuole
combattere allora bisogna iniziare dall’Arabia
Saudita. In realtà con la storiella della «lotta
al terrorismo» gli Usa manipolano l’opinione
pubblica internazionale costringendola ad accettare provvedimenti drastici: uso necessario della guerra, restrizioni di diritti individuali e collettivi in nome della sicurezza.
L’Isis dilaga oggi in Libia. Questo Paese è
stato distrutto dalla Nato e a chiedere l’intervento militare con una risoluzione all’Onu,
nel marzo 2011, è stata la Lega araba sotto
controllo dei sauditi. A Derna, il Califfato ha
Il regno saudita insieme
a quello del Qatar
(nonostante le
apparenti divergenze
politiche tra queste due
monarchie) hanno
inondato il mondo
arabo e una parte
dell’Africa subsahariana
di jihadisti tafkiristi
indottrinati con
l’ideologia salafita, la
quale predica una
visione distorta della
religione islamica.
Eppure questi Paesi
partecipano oggi al
bombardamento dei
territori iracheni e
siriani con l’intento di
combattere l’Isis. Com’è
possibile combattere il
terrorismo al fianco di
chi lo crea e lo finanzia?
8
già stabilito un suo emirato, a 300 chilometri
dalle coste italiane e a 200 chilometri dalle
frontiere con l’Egitto. Anche in Libia l’Isis
sgozza e commette attentati mortali. Davanti a questa «nuova» minaccia si torna a parlare di un nuovo intervento militare in Libia. A
metà dicembre scorso, in occasione di un
summit franco-africano, il presidente del
Ciad, Idriss Déby Itno, ha affermato che «la
risoluzione della crisi in Libia è in mano alla
Nato». E in seguito agli attacchi terroristici a
Parigi, nel gennaio scorso, il presidente Hollande ha fatto intendere che sia necessario un
altro intervento militare in Libia. In questo
gioco è entrato ormai anche il regime egiziano di Al Sisi che, dopo lo sgozzamento di
massa a danno di 21 dei suoi cittadini copti,
ha replicato con raid aerei contro postazioni
dei jihadisti in Libia.
L’Egitto, che ha sognato quattro anni fa la libertà e la democrazia, è oggi sotto tutela dell’Arabia Saudita. A metà febbraio, Al-Sisi ha
firmato con la Francia un contratto per l’acquisto di armi. Il costo dell’operazione è di 5,2
miliardi, tutto a carico dell’Arabia Saudita e
degli Emirati Arabi. Hollande ha definito l’operazione come necessaria per la sicurezza
dell’Egitto e del Medio Oriente.
È un ottimo affare per la Francia, in questa
fase di crisi economica, e per la sua multinazionale Dassault Aviation: 24 cacciabombardieri Rafale venduti al regime del Cairo. Dassault ha tutto l’interesse a convincere la gente
che la guerra è necessaria e lo fa ormai da anni attraverso Le Figaro, giornale di sua proprietà, uno dei più venduti in Francia (a proposito di libertà d’informazione!).
Di recente, in una visita a Parigi, Al-Sisi ha
esortato l’Europa ad intervenire militarmente in Libia. In Egitto, dopo un periodo flash di
prove generali per l’avvio della democrazia, il
colpo di Stato del 3 luglio 2013 ha riportato la
lancetta della storia al periodo pre-rivoluzione del 25 gennaio 2011 caratterizzato dalla
violenza e dalla repressione. Da quando è arrivato Al-Sisi al potere la situazione dei diritti umani è peggiorata. Lo afferma Amnesty
international, che parla di una «repressione
senza precedenti negli ultimi 30 anni»: 1500
condanne a morte e 45mila oppositori incarcerati... Il governo francese tutto ciò lo sa, ma
evidentemente vale anche per esso la massima di Henry Kissinger di cui sopra, che del
resto è il motto cardine di tutte le potenze
(neo)coloniali.
i servizi
marzo 2015
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MEDIO ORIENTE
E l’apprendista stregone
Occidente «creò» l’Isis
Diversi paesi arabi sono oggi disastrati e distrutti. Quali sono le cause della gravissima
crisi in cui vivono paesi come la Libia, la Siria e l’Iraq?
A partire da quello che era stato strombazzato come l’anno di grazia, il 1989, sono stati investiti dalla guerra Panama, l’Iraq, la Jugoslavia, la Libia, la Siria... L’epicentro di questi conflitti è costituito dal Medio Oriente,
dove l’Occidente assicura di voler apportare
civiltà, democrazia, pace. Dopo centinaia di
migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di
profughi, la realtà è sotto gli occhi di tutti.
Non si tratta solo delle terribili devastazioni
materiali. In occasione della prima e della seconda guerra del Golfo (1991 e 2003) gli sciiti iracheni furono chiamati alla rivolta contro i sunniti guidati da Saddam Hussein; successivamente, con lo sguardo rivolto all’Iran
sciita e ai suoi possibili alleati, sono stati i
sunniti a essere sollecitati a prendere le armi
contro gli sciiti in Iraq e soprattutto in Siria.
Ai giorni nostri, dopo essere stati incoraggiati in Siria, gli spietati guerrieri sunniti del Califfato sono combattuti in Iraq e soprattutto
nel Kurdistan secessionista.
In tutto il Medio Oriente, nella lotta contro i regimi laici scaturiti dalle rivoluzioni anticoloniali (che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale) e contro i movimenti di liberazione nazionale collocati su posizioni laiche, l’Occidente ha fatto appello alla
religione e al fondamentalismo religioso: così in Iraq, Libia, Siria, Palestina, dove Israele
a suo tempo appoggiò Hamas contro l’Olp di
Arafat.
Impressionante è la scia di distruzione e di
morte: paesi come l’Iraq, la Libia, la Siria rischiano di cessare di esistere come Stati nazionali unitari e indipendenti, mentre priva
ormai di qualsiasi credibilità è la fondazione
di uno Stato nazionale palestinese, il cui territorio diviene sempre più esiguo e sempre
più frammentato. C’è di peggio. In Medio
Oriente divampa la guerra civile tra laici e religiosi, nell’ambito del mondo religioso tra
islamici e cristiani, nell’ambito dell’islam tra
sunniti e sciiti. In conseguenza di tutto ciò,
l’Iraq e la Siria vedono una parte del loro ter-
Domenico
Losurdo
«In tutto il Medio
Oriente, nella lotta
contro i regimi laici
scaturiti dalle
rivoluzioni anticoloniali
(che hanno fatto
seguito alla Seconda
guerra mondiale) e
contro i movimenti di
liberazione nazionale
collocati su posizioni
laiche, l’Occidente ha
fatto appello alla
religione e al
fondamentalismo
religioso: così in Iraq,
Libia, Siria, Palestina,
dove Israele a suo
tempo appoggiò Hamas
contro l’Olp di Arafat».
Filosofo e storico, Losurso
ha insegnato Filosofia della
storia all’Università di Urbino.
9
ritorio occupato da forze qaediste, almeno
inizialmente finanziate e armate dall’Arabia
Saudita (da sempre alleata con l’Occidente),
e il cui comportamento può suscitare solo
orrore.
È vero che i jihadisti si sono moltiplicati a dismisura in questi ultimi anni, soprattutto a
partire dalla cosiddetta Primavera araba?
«Primavera araba» è un’espressione chiaramente ideologica. Se si vuol fare riferimento
all’irruzione della democrazia nel Medio
Oriente, occorrerebbe prendere le mosse in
realtà dal 1979, e cioè dalla rivoluzione che
in Iran (un paese islamico ma non arabo) ha
posto fine alla spietata dittatura di una dinastia appoggiata dall’Occidente, col rovesciamento a opera degli Usa e della Gran Bretagna, nel 1953, del governo democratico di
Mossadeq. Nonostante viva sotto la minaccia costante di un attacco statunitense (assieme ai suoi alleati, ndr), l’Iran, con la sua vivace dialettica politica, è indubbiamente ben
più democratico di paesi quali la Libia o l’Egitto, dove avrebbe avuto luogo la «Primavera araba». Se invece ci si vuole concentrare
esclusivamente sul mondo arabo, bisognerebbe prendere le mosse dal 1991. A partire
dalla prima guerra del Golfo, l’Occidente si è
impegnato ad aggredire o a destabilizzare i
paesi (l’Iraq, la Libia, la Siria) che bene o male avevano alle spalle una rivoluzione anticoloniale e antifeudale (più complesso è il caso
dell’Egitto). Nello scatenare l’attacco, gli Usa
e i loro alleati europei si sono avvalsi dell’appoggio di paesi come l’Arabia Saudita, che
non hanno mai conosciuto una rivoluzione
anticoloniale e antifeudale, e di bande armate fondamentaliste che da ultimo hanno assunto la configurazione dell’Isis.
Chi sono veramente e come sono riusciti ad
avere tutta questa forza militare che oggi
preoccupa l’Occidente?
Gli Stati Uniti hanno condotto la guerra per
procura prima contro la Libia di Gheddafi e
poi contro la Siria di Assad, finanziando e armando quella che oggi è l’Isis. Abbiamo così
un mostro che l’apprendista stregone occidentale ha creato ma non riesce più a controllare. È da aggiungere che la distruzione
materiale e spirituale e la balcanizzazione inflitte al Medio Oriente realizzano le condizioni favorevoli per l’emergere e il diffondersi della nostalgia per un Califfato al tempo
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stesso miticamente trasfigurato e distorto in
senso selvaggiamente fondamentalista.
Esiste un nesso geopolitico tra le guerre che
devastano il Medio Oriente e gli attentati di
Parigi?
Non si può comprendere il barbaro attentato
di Parigi ignorando la carica di frustrazione e
di risentimento che colpisce il mondo arabo
e islamico. Nella stessa Francia gli arabi e gli
islamici si sentono discriminati: sul piano sociale sono reclusi nei segmenti inferiori del
mercato del lavoro e segregati in banlieues
spesso fatiscenti. Mentre la loro religione e la
loro identità religiosa (e indirettamente nazionale) può incessantemente essere derisa
e vilipesa, allorché essi reagiscono, sia pure
maldestramente alla maniera del comico
Dieudonné, ecco che dilegua la conclamata libertà di parola. Vale la pena di ricordare quello che già alcuni anni prima dell’11 settembre
2001 scriveva un illustre politologo statunitense di orientamento conservatore (Samuel
Huntington): ai giorni nostri, «in Europa occidentale, l’antisemitismo verso
gli ebrei è stato in larga parte
soppiantato dall’antisemitismo
verso gli arabi». Certo, gli assassini dell’Isis colpiscono gli ebrei,
assieme ai cristiani e agli sciiti,
ma in Europa occidentale sono
solo l’islam e i suoi seguaci a essere oggetto di un pregiudizio di
massa, che talvolta investe anche l’alta cultura.
«Non si può
comprendere il barbaro
attentato di Parigi
ignorando la carica di
frustrazione e di
risentimento che
colpisce il mondo arabo
e islamico, e non solo a
causa delle guerre
dall’Occidente scatenate
contro di esso e
dell’interminabile
martirio del popolo
palestinese. Nella stessa
Francia gli arabi e gli
islamici si sentono
discriminati: sul piano
sociale sono reclusi nei
segmenti inferiori del
mercato del lavoro e
segregati in banlieues
spesso fatiscenti».
È possibile individuare delle
«colpe» occidentali e/o musulmane in questi attentati?
È bene tener ferma una distinzione: i musulmani o islamici
sono i seguaci di una religione,
l’Occidente è una realtà geopolitica. Se si vuole analizzare il
ruolo della religione, bisognerebbe procedere a una comparatistica delle «colpe» o responsabilità delle tre grandi religioni
monoteistiche presenti in Medio Oriente: islam, ebraismo,
cristianesimo. Non credo che la
prima se la cavi peggio delle altre due. Come ho spiegato in un
mio libro (Il linguaggio dell’Impero, Laterza), criticando dura-
10
mente Oriana Fallaci, se gli antisemiti e i giudeofobi amavano mettere sul banco degli imputati Jahvé, oggi invece su quel banco gli
islamofobi trascinano Allah. Pressoché immutato è rimasto il capo d’imputazione: ieri
il Dio dell’ebraismo, oggi quello dell’islam è
considerato l’ispiratore del fanatismo, dell’intolleranza, dell’odio teologico.
È preferibile concentrarsi sulla geopolitica.
Alcuni anni fa, Huntington, in un celebre libro (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
internazionale) tracciava un eloquente bilancio dello scontro tra Occidente e mondo arabo-islamico: «Il Dipartimento della Difesa
statunitense riferisce che nel quindicennio
1980-1995 gli Stati Uniti sono stati impegnati in diciassette operazioni militari in Medio
Oriente, tutte dirette contro Stati musulmani. Non esiste un ruolino lontanamente paragonabile di operazioni militari statunitensi contro la popolazione di qualunque altra
civiltà». In ogni caso, sempre secondo Huntington, il quadro strategico della regione ha
subito radicali mutamenti: «La posta in gio-
i servizi
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confronti
MEDIO ORIENTE
co [della prima guerra del Golfo] era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrolifere del mondo sarebbe stato controllato dai
governi sauditi e dagli emirati – la cui sicurezza era affidata alla potenza militare occidentale – oppure da regimi indipendenti antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l’arma del petrolio contro l’Occidente»;
fortunatamente, ora il Golfo Persico è «diventato un lago americano». Senonché, questo progetto incontra una resistenza inaspettata e crescente ed è chiaramente destinato
al fallimento.
Esiste un nesso tra la crisi in Siria e quella in
Ucraina?
Intanto, conviene notare una contraddizione
così clamorosa da essere persino divertente.
In Ucraina, sorvolando sul colpo di Stato da
essi organizzato e riconosciuto come tale da
autorevoli analisti (ad esempio Sergio Romano), gli Usa denunciano le interferenze della
Russia; al tempo stesso, in modo aperto e dichiarato, Obama dà disposizioni perché sia
armato e addestrato un esercito di ribelli
chiamato a rovesciare in Siria il governo di
al-Assad. Il primo nesso che balza agli occhi
è questo: nonostante che non si stanchino di
agitare la bandiera dell’universalismo, l’Occidente e il suo paese-guida si rivelano incapaci di enunciare norme e regole che siano
vincolanti per tutti. Anche il secondo nesso
è sufficientemente chiaro: il colpo di Stato in
Ucraina si proponeva in definitiva di inglobarla nella Nato, in modo da far avanzare
l’accerchiamento della Russia; la guerra per
procura contro la Siria è parte integrante del
tentativo (cui ho già accennato) di imporre
in Medio Oriente il protettorato americano,
al fine anche di rendere possibile il «pivot»
in direzione dell’Asia e contro la Cina. Si tratta di due aspetti di un unico piano: prima che
si accentui il loro declino, gli Usa tentano di
perpetuare la loro egemonia mondiale, avvalendosi della loro permanente superiorità
militare al fine di estendere e rafforzare il
controllo sulle aree geopoliticamente decisive del pianeta.
Quali sono le conseguenze di queste crisi sull’Europa?
In conseguenza del formidabile sviluppo economico e tecnologico della Cina e dell’ascesa dei paesi emergenti, volge ormai al termine l’«era colombiana», il mezzo millennio di
«Prima che si accentui
il loro declino, gli Usa
tentano di perpetuare
la loro egemonia
mondiale, avvalendosi
della loro permanente
superiorità militare
al fine di estendere
e rafforzare
il controllo sulle aree
geopoliticamente
decisive del pianeta».
11
storia che, a partire dalla scoperta-conquista
dell’America, ha visto l’Occidente assoggettare, schiavizzare e decimare la restante
umanità. Nel mondo che si sta affermando
non c’è più posto per il monopolio della tecnologia detenuto dall’Occidente e per la sua
incontrastata egemonia mondiale; rapporti
di eguaglianza tendono ad affermarsi tra le
varie nazioni e tra le varie civiltà. È il risultato della rivoluzione anticoloniale mondiale
che si è sviluppata a partire dall’ottobre 1917.
Saprà accettare l’Occidente la fine dell’«era
colombiana»? Avendo alle loro spalle una
tradizione in cui è fortemente presente il mito della «nazione eletta da Dio» ovvero (in
termini appena più laici) dell’unica «nazione
indispensabile», gli Usa incontrano particolari difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione. Disgraziatamente, fiancheggiando Washington nelle sue sciagurate avventure imperiali, l’Europa ha dato prova di sconfortante subalternità e in tal modo ha visto accentuarsi il suo declino. Essa potrà contenere e
risolvere la sua crisi, al tempo stesso economica e politica, solo se saprà stabilire un
nuovo rapporto con i paesi emergenti e rompere in modo radicale con il suo passato coloniale e neocoloniale.
intervista a cura di Carmelo Russo
SOCIETA’
I razzismi
«costruiti dall’alto»
Roberto Mazzoli
L’immagine fornita dai media sui rom è spesso negativa. Molti sono
convinti che esista una differenza di carattere culturale che rende
incompatibile la convivenza sociale. Ma il razzismo contro i rom fa
comodo alle classi dirigenti che, spostando l’attenzione su di loro,
possono così «incanalare» la rabbia e la frustrazione della società.
l razzismo contro i rom è una prassi di
discriminazione sociale fondata su stereotipi e pregiudizi antichi e particolarmente persistenti. Esso è alimentato da
cognizioni non basate sull’esperienza, come
tutti gli stereotipi e i pregiudizi, ma accolte
«per sentito dire». Se si domanda ad un razzista di giustificare le ragioni che lo portano
a discriminare una qualche categoria intera
di persone (rom, ebrei, islamici, rumeni eccetera), avremo sempre a che fare con risposte inconsistenti sul piano razionale, poiché
non esistono motivazioni sufficienti, poiché
non si può «giudicare senza conoscere». Anche i razzisti più acculturati, posti di fronte
al quesito, ad esempio: «Come fai a dire che
tutti i rom sono disonesti?», saranno costretti ad arrampicarsi concettualmente su una
presunta differenza di carattere culturale che
rende incompatibile la convivenza, se ritengono esagerato spingersi fino ad un razzismo
di carattere biologico, scientificamente ancora più impresentabile.
Il punto centrale di ogni razzismo sta qua,
nell’«evitamento della ragione». Ed è da qua
che bisogna partire per sconfiggerlo. Il razzismo contro i rom è, di conseguenza, una
delle numerose forme di espletamento della violenza sociale intergruppi, una delle
modalità attraverso le quali si strutturano le
relazioni tra gruppi di maggioranza e gruppi di minoranza: le maggioranze, per rafforzare la coesione al proprio interno, al fine di
mantenere e consolidare il potere in mano
alla propria classe dirigente, identificano
una minoranza verso la quale depositare
una porzione di frustrazione del corpo sociale, alimentando dall’alto sentimenti discriminatori già circolanti fra la popolazione; in questo modo si effettua uno sposta-
I
Mazzoli è psicologo sociale
e ricercatore.
12
mento dell’attenzione dalle responsabilità
che si dovrebbero attribuire alle istituzioni
per il cattivo funzionamento della convivenza sociale. Questo vale sempre e, tanto più,
durante le fasi storiche di crisi economica.
Nella sostanza non è diverso né più grave
di qualsiasi altra forma di razzismo, ma si
caratterizza per il suo apparire, insieme con
il razzismo contro gli ebrei, quello più ampiamente legittimato socialmente. È riscontrabile in moltissimi ambienti culturali, a
volte anche in quelli che ne dovrebbero essere immuni. Perché? Poiché è molto antico e quindi radicato: gli «zingari» sono i discendenti di Caino il fratricida, sono i fabbri che forgiarono i chiodi con i quali Gesù
fu crocifisso, sono i nomadi misteriosi, impostori e furbi, dediti alla magia e al raggiro. Perché se in passato erano la letteratura
ed il teatro ad alimentarne la sinistra e affascinante fama, insieme con infiniti procedimenti legislativi atti all’esclusione, oggi, in
Italia, è la stragrande maggioranza dei mezzi di informazione a fornire dei rom una immagine parziale e insufficiente, quando non
esclusivamente negativa.
Nel nostro paese, inoltre, non esiste il riconoscimento dello status di minoranza per
i rom e, molto peggio, un numero consistente di persone è costretto a vivere in condizioni sub-umane negli insediamenti istituzionali definiti «campi nomadi». Luoghi
de-umanizzanti, veri e propri ghetti dove i
diritti fondamentali sono spesso ostacolati
o addirittura negati, sempre più relegati alla periferia delle città, lontani dai servizi
fondamentali, dove il degrado è condizione
quotidiana. Dove l’umanità resiste, ma deve affrontare enormi ostacoli, dove piccoli
boss spregiudicati possono costruirsi imperi personali, basati sullo sfruttamento della
disillusione delle giovani generazioni. Dove
le istituzioni falliscono, per incapacità o per
dolo, e fanno arricchire amministratori e
faccendieri sulla pelle dei rom.
La povertà fa paura, la sporcizia fa schifo,
e le persone che ci vivono dentro finiscono
per non essere più esseri umani come gli al-
i servizi
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tri, diventano inferiori, perdono lo status di
umanità per acquisire una forma intermedia animale/umana. E di conseguenza possono essere tutti relegati ai margini, espulsi, lasciati fuori, imprigionati e, perché no,
bruciati dal fuoco purificatore del fascismo
contemporaneo.
È necessario attivare dispositivi educativi,
culturali, mediatici progettati per «decostruire» gli stereotipi, facilitando la conoscenza delle specificità della cultura rom
che i rom stessi sceglieranno, lasciando che
siano essi stessi ad autorappresentarsi nelle
forme e nelle modalità che riterranno più
opportune. Chiudere i campi istituzionali e
realizzare l’estensione dei diritti fondamentali di tutte le donne e gli uomini rom, in
particolare. Lottare ogni giorno perché la
consapevolezza della costruzione sociale
dall’alto dei razzismi cresca nell’animo e
nella mente della popolazione intera, in generale.
Oltre il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà ci può essere il realismo dell’indignazione.
I campi: una vergogna
tutta italiana
Carlo
Stasolla
Abbiamo intervistato
due rappresentanti
dell’Associazione 21
luglio, un’organizzazione
non profit che si occupa
da cinque anni delle
comunità rom
e sinte in Italia.
Cosa fa la vostra associazione?
L’Associazione 21 luglio nasce per la tutela e
la promozione dei diritti delle comunità rom
e sinte in italia con un focus rivolto soprattutto all’infanzia. Il 21 luglio ricorda infatti
la data di alcuni anni fa, quando una bambina è stata sottratta ai suoi genitori da una
decisione degli organi istituzionali. È un’associazione indipendente, non fa ricorso a finanziamenti pubblici. È composta da rom e
da sinti e da non-rom e non-sinti, che lavorano insieme. Non eroga servizi all’interno
degli insediamenti ma cerca piuttosto, a partire dai diritti umani, di promuovere l’inclusione dei rom in Italia.
Sempre più frequenti gli episodi di razzismo,
tra i quali cartelli appesi per le città: che fenomeno è?
Abbiamo un osservatorio che monitora più
di 140 testate giornalistiche in Italia. Il fenomeno dell’antiziganismo è molto forte e si
amplifica nei media. Gli stereotipi e i pregiudizi producono politiche discriminatorie e le
politiche discriminatorie a loro volta generano stereotipi e pregiudizi: è un cane che si
morde la coda. Tutto ciò malgrado i rom in
Italia rappresentino lo 0,23% della popolazione: finiscono paradossalmente per diventare
il problema nazionale, come si è dimostrato
nell’emergenza rom attuata dal governo italiano tra il 2008 e il 2011.
Stasolla è presidente
e socio fondatore
dell’Associazione 21 luglio.
13
Parliamo di alcuni luoghi comuni: i rom sono tutti nomadi.
Negli anni Ottanta alcune amministrazioni di
centro-sinistra prendendo un abbaglio culturale hanno sostenuto che i rom sono nomadi,
riferendosi a quelli appena arrivati dalla exJugoslavia, quindi incapaci di vivere in abitazioni civili. In realtà i dati sono altri. Nella
storia rom e sinti sono stati sì nomadi o per
antica tradizione di attività lavorativa oppure
per scappare da conflitti e persecuzioni. Persecuzioni che sono nate all’inizio dell’età moderna, sono passate dal Porrajmos e continuano oggi con gli sgomberi forzati dai campi. Il Ministero del lavoro nel 2011 ha rilevato come solo il 3% dei rom in Italia sia effetti-
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vamente nomade. E in Italia, a fronte di 35
mila rom che vivono nei campi, ce ne sono
140mila che vivono in abitazioni convenzionali. In altri paesi, come nella vicina Spagna,
vivono 800mila rom, e vivono tutti in abitazioni convenzionali e i campi non esistono. I
campi sono un prodotto di politiche nazionali e locali tipicamente italiane, tanto che l’Italia è chiamata «il Paese dei campi». Attorno
ai campi si è inoltre generato un ingente indotto economico di un associazionismo che
eroga servizi. I campi di fatto sono dei ghetti
etnici dove i diritti vengono sospesi.
E i 140mila che abitano in case convenzionali?
C’è un mimetismo dovuto al fatto che il rom
o il sinto che vive in una casa ha oggi paura
di dichiararsi tale, per paura di divenire discriminato, e di conseguenza perdere il lavoro e la casa. Nel nostro Paese ci sono delle
enclave che vanno da Rovigo, a Terni al sud
Italia dove vivono intere comunità rom anche molto numerose, migliaia di individui.
Per esempio all’università di Roma ci sono 10
studenti rom che nessuno sa che sono rom.
La testimonianza
di Dzemila Salkànovic,
che vive a Roma
da 28 anni ed è sposata
con un «gagè»,
ossia un non-rom:
a volte – spiega –
si incontrano
i pregiudizi
da entrambe le parti.
L’importanza
del ruolo che può
giocare la scuola.
Religiosamente come si suddividono i rom e i
sinti in Italia?
I rom storicamente si adattano alla cultura in
cui si trovano. Sono molto permeabili. Anche dal punto di vista religioso troviamo tutte le espressioni religiose: musulmani, protestanti, cattolici etc. In uno stesso insediamento si trovano le religioni mischiate senza conflitto alcuno.
Dzemila
Salkànovic
La ricchezza culturale
della famiglia «mista»
E che i rom non portano i figli a scuola?
È estremamente residuale e riguarda le famiglie rom che vivono un estremo disagio, soprattutto abitativo, come accade in qualsiasi
popolo. Dove ci sono condizioni minime per
una vita dignitosa i dati dimostrano che la
cultura trova piena espressione, e quindi la
dimensione scolastica ed educativa assume
un valore per la comunità e si verifica meno
evasione scolastica.
I rom hanno una lingua comune?
La lingua è il romanés, lingua sanscrita. Il 3035% delle parole sono sanscrite, quindi c’è una
base comune di comprensione. Ci sono poi all’interno i vari dialetti che corrispondono ai
diversi gruppi. La minoranza linguistica rom
non è riconosciuta come tale dalla legge del
1999 che istituisce 12 minoranze linguisticoculturali. Dopo sardi e friulani quella rom è la
terza in Italia, ma la Lega Nord si oppose al riconoscimento. Neanche la minoranza in termini culturali è riconosciuta. Per questo l’Associazione 21 luglio sostiene la proposta di
legge presentata l’anno scorso per il riconoscimento della minoranza linguistica e culturale
rom e sinta, che è una cultura e una lingua
millenaria, e quindi, come qualsiasi cultura,
una ricchezza per il nostro Paese.
Cosa è urgente fare?
Chiudere i campi: una vergogna tutta italiana. Ce lo dice l’Europa con i suoi commissari così come i comitati delle Nazioni Unite.
Bisogna riconvertire le ingenti risorse stanziate per mantenere il sistema campi in percorsi di inclusione. È fattibile, ci vuole la volontà politica.
La sua vita?
Sono nata in Montenegro, a Nikšić. Ho vissuto fino ai 3 anni lì, dove avevamo una casa, quando la famiglia ha deciso di spostarsi
e siamo venuti in Italia, prima nel nord, poi
nel sud. Abbiamo girato molto per l’Italia.
Siamo a Roma da 28 anni.
Ora dove vive?
Da molti anni, alla prima possibilità, io e mio
marito abbiamo smesso di abitare nei campi,
e ci siamo trasferiti in casa. Ho preso la cittadinanza italiana. È una fantasia che i rom vogliono vivere girovaghi per i campi. In Montenegro avevamo una casa: appena c’è un’opportunità il rom esce dal campo e va in casa.
Salkànovic è mediatrice
culturale; lavora con
l’associazione 21 luglio
e si occupa nello specifico
di attività con i bambini
e le mamme nelle scuole
e nei campi rom.
14
Con i bambini e la scuola?
Ho sempre creduto nella necessità di avere
una buona formazione, quindi ho iscritto da
subito i miei bambini all’asilo e a scuola. Gli
operatori sociali ci hanno aiutato con l’iscrizione, e subito dopo era diventato impossibile per noi mamme accompagnare e seguire i nostri figli a scuola, parlando direttamente con le maestre. Spesso accade che i
mediatori, che di per sé fanno un lavoro
straordinario, e sono bravissimi, finiscono
per essere gli unici soggetti in gioco. Così i
genitori non crescono e non possono veramente occuparsi dei propri figli. Io credo
molto in una mediazione che crei il sostegno
i servizi
marzo 2015
confronti
SOCIETA’
per le persone, di modo che poi siano esse
stesse a occuparsi in prima persona delle cose, tra cui la scuola e i propri figli; è quello
che facciamo adesso noi come mediatori.
Come è oggi la situazione dei campi?
Sono peggiorati. Sono diventati «mega
campi», che io non esito a chiamare lager.
Si sta ammassati, senza spazio, in situazioni di forte indigenza; e per andare a trovare mia madre nel campo ho bisogno del
permesso comunale. È diventato un vero e
proprio campo blindato. Ed è aumentato di
molto il sentimento di razzismo nei confronti dei rom.
Ha una famiglia «mista», rom e non-rom.
Sì, la nostra famiglia è mista. Abbiamo vissuto nei campi i primi anni come testimonianza, sia per i gagè (non-rom) che per i rom, del
fatto che una famiglia mista è una cosa possibile. Le famiglie miste sono molto rare, e di
solito tagliano i contatti con entrambe le famiglie di appartenenza. Credo che questo sia
un errore. Una famiglia mista deve prendere
da entrambe le culture le cose belle, per arricchirsi ancora di più!
Nella sua vita ha temuto per la sua sicurezza, ha avuto paura della gente?
Quando dovevo girare e vivevo nei campi,
vivevo sempre una situazione precaria. Non
si sapeva quanto si poteva stare, giorni, mesi... Ho visto le baracche bruciare in un attimo: prendono fuoco subito. Ho avuto paura della gente. Noi andavamo in giro in
gruppo per difenderci. Una volta una ragazza rom è stata violentata e nessuno è intervenuto. Altri episodi di maltrattamento sono accaduti a me in prima persona e ai miei
familiari, senza che nessuno ci soccorresse.
Ora ho la mia casa, il mio lavoro: mi sento
parte della società.
Quali pregiudizi avete incontrato?
I pregiudizi dei gagé sono gli stessi che hanno i rom: «i gagè imbrogliano, rubano, non
sono generosi, ingannano e non sanno cos’è
la solidarietà etc». Ho lavorato per 13 anni
dentro un centro d’accoglienza per rifugiati.
Tra migliaia di persone che ho incontrato,
non ho conosciuto un popolo buono o un
popolo cattivo: ho trovato persone, esseri
umani, con difficoltà, furbizie etc. Non c’è un
popolo buono e un popolo cattivo.
La situazione è migliore per i giovani di oggi?
Oggi paradossalmente è peggio: i giovani
stanno chiusi nei campi, e non sanno stare
nella città, con la gente. Ho portato giovani
di 16-17 anni, di Roma, che non avevano
mai visto la stazione dei treni. Vivono isolati, hanno paura di uscire dai campi, hanno
paura dei posti affollati. Vedono solo il pulmino per andare a scuola e tornano a casa.
Non hanno momenti di condivisione, non
c’è contatto reale con le persone di fuori.
Come miglioriamo la situazione?
Penso che anche noi rom dobbiamo darci da
fare. Gli attivisti sono il futuro. Servono naturalmente anche politiche diverse su lavoro
e casa, non esclusive ma finalmente inclusive. Per realizzare tutto ciò serve la scuola: è
l’unico modo. Devo conoscere i miei diritti e
i miei doveri, e come fare per viverli. Per fortuna in Italia ancora resiste la scuola.
Come definisci la tua identità?
Mi penso prima di tutto rom, e italiana. E
sono anche Jugoslava. E sono molto felice di
essere rom, italiana e jugoslava.
interviste a cura di Claudio Paravati
15
marzo 2015
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I rom?
Mandiamoli a casa!
Sarebbe ora! Mandiamoli a casa. Ma una casa vera, però. Fatta di calce e mattoni veri,
non disegnati sulle lamiere di un container.
Con la luce, l’acqua, pure quella calda, il gas
e perfino il riscaldamento con i termosifoni,
così da non morir di freddo o per i veleni di
una maledetta stufa difettosa, killer, nelle
cronache di tante notti gelide finite in tragedia. I fuochi dei copertoni, meglio di no. Non
sono una buona alternativa. Mandiamoli in
una casa vera con il bagno e una vera cucina,
con una camera da letto, veri mobili, qualche
fiore colorato che si affaccia ad un balcone
e una vera cameretta per i bambini, con i giocattoli sparsi nel solito «perfetto» disordine.
I bambini, si sa, sono sempre bambini! Mandiamoli a casa, per Dio! Ma una casa in una
palazzina vera che si trovi in una vera via o
piazza, con un numero civico vero. Un cap e
una cassetta per la posta con i nomi scritti
sopra, anche a penna, quelli veri. Il riconoscimento dell’identità, oltre che con una carta, con fotografia appiccicata sopra, passa anche da qui. Nuovi vicini da incontrare sul
pianerottolo, la mattina presto, mentre tengono per mano la mano dei figli, infiocchettati come bonbons nei loro grembiuli, con
tanto di cartella e cestino con la merenda,
pronti per la scuola. Scendere insieme qualche piano in ascensore, anziché calarsi dalle
grondaie, e via fuori dal portone ciascuno
per andare incontro alla sua giornata. Home
sweet home!
Ma non mandiamoli solamente a casa. Loro, non aspettano altro. Mandiamoli anche a
scuola, a studiare. Pensa se a giugno, prima
delle vacanze, stiamo ringraziando una maestra, rom, proprio lei, quella che ha seguito
nostro figlio cosi bene... come fosse stato il
suo! Allora, mandiamoli anche al lavoro,
mandiamoli a prendere un metrò, naso contro naso, o su un autobus, magari a guidarlo.
Perché no?! Ma si, mandiamoli anche al supermercato. Dentro stavolta, a fare la spesa.
Potremmo incontrarli tra gli scaffali oppure
anche alla cassa a chiederci il conto per i nostri acquisti. Paghiamo e con un sorriso
prendiamo il resto, lo scontrino e... grazie e
arrivederci. Normale!
Rocco Luigi
Mangiavillano
«Ma non mandiamoli
solamente a casa. Loro,
non aspettano altro.
Mandiamoli anche a
scuola, a studiare.
Pensa se a giugno,
prima delle vacanze,
stiamo ringraziando
una maestra, rom,
proprio lei, quella che
ha seguito nostro figlio
cosi bene... come fosse
stato il suo! Allora,
mandiamoli anche al
lavoro, mandiamoli a
prendere un metrò,
naso contro naso, o su
un autobus, magari a
guidarlo. Perché no?!
Ma si, mandiamoli
anche al supermercato.
Dentro stavolta, a fare
la spesa».
16
Mandiamoli all’ospedale, a curarsi come
tutti, per scoprire che si ammalano come
noi e come noi soffrono se si ha male da
qualche parte e piangono, proprio come
noi, se un nostro caro non se la sta cavando
niente affatto bene. Il mal di denti, si sa, non
guarda in faccia proprio nessuno e quelli
d’oro, di denti, non possono farci proprio
nulla. E nel tempo libero? Mandiamoli a
teatro, in libreria, al museo o in giro per la
città, in pieno centro, a fare shopping... «Ehi
tu, ehi signore, sir, sir… ti è caduto questo»,
al turista che smarrito ma felice lo ringrazia
in quasi tutte le lingue del mondo mentre
ripone in tasca, stavolta con molta attenzione, ciò che aveva smarrito un minuto prima.
E pensare...
Mandiamoli a ballare a sentire un concerto. Certo la musica ce l’hanno proprio nel
sangue, le danze poi...! Mandiamoli al cinema a vedere un film o anche a farlo. Per la
parte dei cattivi, imbroglioni e furfanti di
ogni risma, sono i figuranti più richiesti.
Per le scene di degrado, poi, non ne parliamo! Ma è proprio quando bisogna «girare»
un genocidio, allora si che l’interpretazione
del ruolo raggiunge il livello più alto. Il
pubblico si commuove, si stringe, qualcuno
piange. Per morire sono gli attori più bravi
del mondo.
Beh, allora mandiamoli anche in piazza, a
manifestare e protestare anche, ogni qualvolta c’è qualcosa che in questo mondo proprio non va. Tutte le volte che c’è bisogno di
far sentire la propria voce. E se li mandassimo anche a votare? Sì, alcuni già ci vanno...
anche alle primarie. Allora possono esprimere le loro opinioni politiche, organizzarsi come parte sociale, darsi rappresentanza
mettendosi d’accordo tra loro e partecipare
alla vita pubblica, contribuire agli interessi
della collettività, proporre miglioramenti sociali e tutelare i beni comuni. Costruire con
gli altri un mondo da abitare insieme, uomini e donne, ricco di tutte le differenze possibili. Scegliere liberamente, per chi ci crede,
ciascuno il proprio Dio da pregare.
A questo punto solo un dubbio. Se a furia
di volerli mandare continuamente a casa,
senza specificare quale, i rom sono diventati
nomadi per colpa nostra?
Ps: l’articolo racconta le mille voci che ho
incontrato nei campi e insediamenti rom della Capitale.
ETICA
Obiezione di coscienza:
quali confini?
Luca Savarino
L’obiezione di coscienza è uno strumento senz’altro legittimo, nato per garantire i diritti individuali di fronte alla forza dello Stato.
Occorre però ragionare seriamente sui suoi limiti politici, affinché
non finisca per portare vantaggi personali all’obiettore sottraendo diritti all’individuo.
egli ultimi cinquant’anni l’ambito di
applicazione dell’istituto giuridico
dell’obiezione di coscienza si è progressivamente allargato. Dall’obiezione di coscienza al servizio militare si è passati a discutere di un’obiezione di coscienza
sanitaria. L’estensione della questione al campo della bioetica è stata interpretata da alcuni come una perdita di significato del concetto e della pratica dell’obiezione di coscienza
che, nata per sottrarre l’individuo al dispotismo della disciplina statale in ambito militare e sanitario, avrebbe finito per sottrarre diritti all’individuo. «Il buon medico non obietta», recita lo slogan di una recente campagna
di sensibilizzazione contro l’obiezione di coscienza in ambito sanitario, alludendo al fatto che l’eventuale obiezione dell’individuo
medico violerebbe i diritti di un altro individuo, il suo paziente.
Questioni di principio si saldano a problemi pratici. Iniziamo dalle prime. Va innanzitutto ricordata la differenza tra obiezione di
coscienza e disobbedienza civile. Quest’ultima è una forma di lotta pacifica, utilizzata
per offrire un’alternativa non violenta ai resistenti di un governo autoritario poco incline all’ascolto democratico. Il fine della disobbedienza civile è pubblico e politico: cambiare la legge contestata o rovesciare il governo.
L’individuo che sceglie di aderirvi è disposto
a incorrere nella sanzione prevista dalla legge. Diverso è il fine dell’obiezione di coscienza, che vuole tutelare uno spazio di libertà
individuale per le minoranze: non si tratta
dunque di cambiare la legge, ma di garantirla, salvaguardando sia il rispetto della coscienza individuale sia il rispetto della legge
stessa. Dal punto di vista giuridico, dunque,
l’obiezione di coscienza è diversa dalla disob-
N
Savarino è docente di Filosofia
politica presso l’Università
del Piemonte Orientale.
17
bedienza civile, perché non rappresenta uno
strumento di lotta politica e di resistenza organizzata contro una legge approvata democraticamente, ma costituisce uno dei cardini
di un sistema politico liberale, in cui accanto
al principio democratico della partecipazione di tutti alle scelte per tutti vincolanti viene posto il principio della garanzia e sicurezza della libertà individuale, principio che non
abolisce il primo ma che lo limita nella sua
portata.
Personalmente sono convinto che, da un
punto di vista teorico, il principio giuridico
dell’obiezione di coscienza non debba essere
messo in discussione. Ritengo estremistica la
tesi secondo cui il diritto all’obiezione di coscienza dovrebbe essere negato a coloro che
liberamente scelgono una determinata professione. Da un punto di vista cristiano, e
protestante, l’obiezione di coscienza è uno
strumento non solo legittimo, ma indispensabile per il buon funzionamento di una società democratica e pluralista. Il protestantesimo è una delle radici storiche dell’idea
della libertà di coscienza, il cui primato etico è stato costantemente riaffermato nel corso del XX secolo dalle Chiese riformate. Occorre specificare tuttavia come tale principio
debba venire inteso in senso cristiano: la coscienza si sottrae alla legge degli uomini nella misura in cui essa non rappresenta lo spazio dell’arbitrio individuale, ma il luogo in cui
il messaggio di Dio interpella l’essere umano
e in cui quest’ultimo assume responsabilmente, nei confronti di Dio, il tessuto di relazioni che lo costituiscono. L’autonomia della coscienza si coniuga con l’idea della responsabilità della scelta di fede. La dimensione politica della responsabilità deriva dal fatto che essa non si esercita solo di fronte a
Dio, ma anche di fronte agli altri uomini,
concretizzandosi nell’attenzione rivolta ai loro diritti, all’esercizio della loro autonomia e
alla giustizia sociale.
Per questo motivo, è necessario ragionare
seriamente sui limiti politici dell’esercizio
dell’obiezione di coscienza. In Italia, il clima
inflattivo della sua applicazione in ambito sa-
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marzo 2015
confronti
ETICA
nitario può ingenerare confusione e dissolverne il valore morale. In primo luogo, dovrebbe essere chiaro che il valore morale della testimonianza viene meno qualora dell’obiezione di coscienza venga fatto un uso
strumentale. La rivendicazione della libertà
di coscienza non può ridursi a difesa di interessi particolari. Fuor di metafora, è opportuno ricordare che, a differenza di quanto
potrebbe verificarsi in questo momento in
Italia, la pratica dell’obiezione non dovrebbe
portare vantaggi personali all’obiettore: l’appello alla coscienza non può essere un pretesto o un espediente per migliorare la propria
carriera professionale. Inoltre, all’interno di
un sistema liberale l’obiezione di coscienza
non dovrebbe diventare uno strumento per
mettere in pericolo i diritti dei cittadini, come avverrebbe, sempre nel peculiare contesto italiano, nel caso in cui la diffusione dell’istituto dell’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza mettesse a rischio il diritto delle donne di abortire.
All’interno di un sistema
liberale l’obiezione di
coscienza non dovrebbe
diventare uno
strumento per mettere
in pericolo i diritti dei
cittadini, come
avverrebbe, sempre nel
peculiare contesto
italiano, nel caso in cui
la diffusione
dell’istituto
dell’obiezione di
coscienza
all’interruzione
volontaria della
gravidanza mettesse a
rischio il diritto delle
donne di abortire.
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Un primo limite all’esercizio dell’obiezione di coscienza è dunque il diritto di altri. Se
il legittimo esercizio della moralità individuale consente di disattivare un servizio di
utilità pubblica o nega il diritto soggettivo
alla salute si apre un conflitto che deve essere regolamentato. Un secondo limite possibile potrebbe essere la distinzione tra azioni e omissioni.
Il significato etico di tale distinzione può
essere discutibile, ma continua a conservare una sua utilità su alcune questioni come
il fine vita. Penso per esempio alla distinzione tra l’interruzione (o non attivazione) di
un trattamento e l’eutanasia. Qualora venisse approvata una legge che legalizzi l’eutanasia o il suicidio assistito, un medico obiettore non potrebbe imporre alcun trattamento indesiderato a un paziente che vi si opponga o rifiutare di sospendere un trattamento; ma, allo stesso tempo, dovrebbe potersi rifiutare di provocare attivamente il decesso del paziente.
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confronti
ETICA
La legge 194 ha fatto
dimezzare gli aborti
Intervistiamo Adriana Bruno, ginecologa che
lavora nei consultori familiari dal 1983, prima in provincia di Viterbo, poi a Roma (ad
Ostia). Si occupa inoltre di screening per la
prevenzione del tumore al collo dell’utero.
Come si avvicinano le donne per l’interruzione di gravidanza?
Arrivano al mattino con il loro test in mano
e l’aria un poco smarrita. Sanno che potranno ricevere da noi il certificato o le indicazioni per poter interrompere la gravidanza.
Spesso non si aspettano di trovare un’accoglienza che non sia solo un certificato ma
una presa in carico della loro situazione
emotiva e della loro salute come per esempio
fare un pap test, se non l’hanno fatto mai, e
le basi per la futura contraccezione. Sia nei
consultori che negli ospedali che effettuano
le interruzioni le donne possono applicare
gratuitamente lo iud (la «spirale»). Quindi
dopo continuano ad usare i nostri servizi, se
si sono trovate bene. Da molti spesso i consultori vengono visti come luoghi della morte anziché luoghi della vita. Invece seguiamo
più gravidanze che interruzioni di gravidanza; facciamo corsi di preparazione al parto,
di baby massage, lavoro con adolescenti e
sensibilizzazione alla contraccezione. Tutte
cose che della vita hanno sacro rispetto.
Adriana
Bruno
In meno di
quarant’anni, le
interruzioni di
gravidanza in Italia
sono passate da
200mila a meno di
100mila l’anno. Sono
però aumentati, negli
ultimi anni, gli aborti
clandestini, anche a
causa dell’altissimo
tasso di medici
obiettori. Spesso si
ignora che tra i compiti
principali di un
consultorio c’è tutto un
lavoro di sostegno, di
preparazione al parto e
di sensibilizzazione alla
contraccezione.
Quante donne si sono rivolte a voi nel 2014?
Italiane, 103 sopra i 25 anni, 31 sotto i 25 anni, e 7 minori. Tra le straniere, 74 sopra i 25
anni e 24 sotto. Sono più le italiane che le
straniere. Ho tolto quelle che sono venute
per un’interruzione di gravidanza e hanno
poi deciso di continuare la gestazione. Sono
diminuite globalmente le interruzioni volontarie in Italia. All’inizio della legge c’erano
200mila interruzioni di gravidanza l’anno,
oggi siamo a neanche 100mila.
Come avviene questo ripensamento? Tramite colloqui?
Il consultorio accoglie la donna; riusciamo a
fare colloqui non solo con il ginecologo, ma
anche con l’assistente sociale e con lo psicologo, in modo da accogliere tutta la proble-
19
matica, che può essere psicologica ed emotiva. Negli ultimi due anni è emerso in maniera forte il motivo economico. Ci sono casi di
donne che hanno cercato una gravidanza ma
hanno poi perso il lavoro, e non si sentono
più in grado di proseguire. Oppure per contratti non rinnovati all’ultimo momento. Grazie a questa azione e all’accettazione della
contraccezione osserviamo che negli anni sono diminuite le recidive, ovvero le donne che
tornano dopo pochi mesi a chiedere nuovamente un’interruzione di gravidanza. Non sono sparite, ma sono fortemente diminuite.
Perché?
Da una parte è diminuito il tasso di fertilità
e un po’ si ricorre maggiormente alla contraccezione e alla pillola del giorno dopo. C’è
anche chi fa notare però che sono aumentati gli aborti clandestini, per l’obiezione di coscienza dei medici.
Ovvero? Com’è la situazione?
Una signora siciliana con tre figli voleva interrompere la gravidanza. Non trovando nessun posto in Sicilia per farlo si è messa in
contatto con l’associazione «Vita di donna»
della collega Lisa Canitano, che fa un lavoro
di sostegno mettendo in rete consultori e
ospedali per dare la possibilità di trovare un
posto in cui essere accolte e accompagnate all’interruzione di gravidanza (e anche per la
pillola del giorno dopo). Nessun posto in Sicilia è stato trovato, quindi l’associazione l’ha
aiutata economicamente per il biglietto del
treno. Arrivata a Roma sono andata a prenderla personalmente in stazione, ha dormito
da me, l’ho portata poi in ospedale dove finalmente ha ricevuto attenzione e l’atto medico.
Teoricamente ogni ospedale dovrebbe garantire l’interruzione di gravidanza, ma così
non è. Ci sono intere Asl dove non si può fare l’interruzione di gravidanza. Un esempio
emblematico è la vicenda del Policlinico Umberto I di Roma: è stato il primo reparto dove si sono fatte le interruzioni di gravidanza
a Roma, grazie ad un’occupazione fatta dalle
donne del quartiere San Lorenzo e di altre
parti di Roma. Lo si chiamava in gergo «il repartino». Io ci ho lavorato come volontaria.
C’erano cinque ginecologi ed uno psicologo
assunti dalla struttura, pagati. Oggi il reparto è chiuso. Un reparto che era il punto di riferimento per Roma, e che aveva una rilevante storia sociale e politica per la città.
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confronti
ETICA
L’obiezione di coscienza serve per permettere
al medico di fare carriera?
Il mondo si è molto laicizzato. Secondo me
semplicemente non importa più niente della
questione, l’interruzione di gravidanza è vissuta come una «rogna». Molti colleghi che la
facevano ora non la fanno più perché trovano più gratificanti altre cose.
Come è la situazione con le donne straniere?
C’è stato un cambiamento. Per esempio la
prima immigrazione ucraina e rumena aveva sulle spalle 12-20-25 aborti fatti in casa.
Avevano un senso della vita in utero molto
labile. Molte rumene arrivate in Italia hanno
cominciato a seguire la Chiesa ortodossa. La
fede ritrovata è stata molto condizionante.
Ora il numero di aborti è molto minore;
spesso sono persone che decidono infine di
continuare la gravidanza. Per il mondo musulmano non è una scelta facile. Viene affrontata sempre con molta sofferenza, pur
non essendo vietato dall’islam. Ci sono però
varie interpretazioni e vari modi di vivere la
fede e molto dipende anche da chi è l’imam
di riferimento.
«Assistiamo alla morte
della spinta propulsiva
che ha portato alla
legge 194 e alla
creazione dei consultori.
La colpa è di questo
Stato, che non lavora
sulle lunghe distanze e
mette sempre in
discussione ciò che si è
già scelto anche con
referendum (vedi il
referendum sull’acqua)
e anche delle donne. La
generazione venuta
dopo si è trovata con dei
servizi e dei diritti e non
ha più pensato che
bisognasse lottare per
consolidarli».
Il diritto non è dunque garantito?
Certo che no. Alcuni numeri dell’obiezione di
coscienza relativi al 2012: Basilicata 89,4%,
Lazio 81,9%, Campania 81,8%, Lombardia
63,6 %, Toscana 55,6 %. In pratica dappertutto si va da più della metà, a quasi la totalità.
Cosa servirebbe oggi?
Nuove persone giovani e preparate sia in
ospedale che sul territorio. Invece stanno
chiudendo i consultori. Chi va in pensione
non viene rimpiazzato. Gli infermieri vengono tolti e assegnati agli ospedali. Per cui andiamo morendo. Ci sarebbe invece bisogno di
persone giovani, che ricomincino con il desiderio di accogliere le donne, di confrontarsi
con altri operatori dell’équipe (parola che va
dissolvendosi), con l’obiettivo di aiutarle nella scelta fra proseguire l’esperienza di maternità o interromperla in quel momento non
adatto per loro.
Quindi la politica al riguardo non fa prefigurare niente di buono...
Assistiamo alla morte della spinta propulsiva
che ha portato alla legge 194 e alla creazione
dei consultori. La colpa è di questo Stato, che
non lavora sulle lunghe distanze e mette sempre in discussione ciò che si è già scelto anche
con referendum (vedi il referendum sull’acqua) e anche delle donne. La generazione venuta dopo si è trovata con dei servizi e dei diritti e non ha più pensato che bisognasse lottare per consolidarli. È stato dato come uno
stato di fatto. Invece questa legge, grazie al
tranello dell’obiezione di coscienza, è stata
svuotata da dentro e poche persone scelgono
di far sentire la propria voce, raccogliere firme e mandarle alle direzioni delle Asl per far
valere un proprio diritto; direi anzi che si accettano supinamente peggioramenti e logoramenti dei diritti.
Dove finiremo quindi, in questa direzione?
Col tasso di obiezione che c’è, dove si andrà?
Chi certificherà per l’interruzione di gravidanza? Solo il privato! Ci sarà la privatizzazione
come unica strada. Io fra tre anni andrò in
pensione, così come le mie colleghe, e non ci
sono nuove assunzioni. Ci dovrebbe essere un
consultorio ogni 25mila abitanti. Il distretto
sanitario di Ostia conta 250mila abitanti, e solo due consultori.
intervista a cura di Claudio Paravati
20
EBRAISMO
Una stella di David
arcobaleno
Daniela Mazzarella
Come su molte altre questioni, anche rispetto al tema dell’omosessualità le varie correnti dell’ebraismo esprimono posizioni differenziate: dalle più tradizionali alle più aperte alle novità della società
contemporanea. Di ebraismo e omosessualità si è discusso a Roma
in un convegno organizzato dalla comunità riformata Beth Hillel.
fine gennaio si è svolto a Roma il convegno «Gli ebrei e l’omossessualità»,
organizzato da Beth Hillel Roma («la
più giovane comunità ebraica nella
città dove c’è la più vecchia comunità d’Europa», come ha detto all’apertura dei lavori la
sua presidente, Franca Coen). Il pomeriggio
di studi si è aperto con gli interventi del rabbino della comunità Fabian Sborovsky e di
Shmuel Sermoneta-Gertel (insegnante di tefillà); entrambi hanno affrontato l’aspetto
teologico dell’argomento, soffermandosi soprattutto sulla lettura e sull’interpretazione di
Levitico 18:22 e Levitico 20:13, che sono gli
unici due versetti della Torah in cui si nomina l’omosessualità. Rav Sborovsky ha ricordato come l’ebraismo non sia monolitico ma ricco e frastagliato. Un conto sono le comunità
ebraiche ortodosse, un altro quelle conservative che negli ultimi anni hanno addirittura
ordinato rabbini gay. L’ultima grande corrente è quella dell’ebraismo riformato, che è la
più numerosa nel mondo ed è totalmente
aperta rispetto alla questione omosessualità.
Nelle scuole rabbiniche riformate in Usa è
obbligatorio un corso contro l’omofobia.
Shmuel Sermoneta-Gertel ha puntualizzato il fatto che, su una quarantina di precetti,
solo due siano riconducibili alla sessualità e
che molti dei precetti si riferiscano alla sfera
privata. Le differenti interpretazioni dei versetti del Levitico vanno lette alla luce delle
varie correnti esegetiche che esistono all’interno del mondo ebraico.
A loro ha fatto seguito un intervento video
di Barry Schneider (professore emerito alla
School of Psychology, University of Ottawa)
che ha descritto i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni e ha precisato che, anche
in un’interpretazione più letterale della Torah,
A
21
bisognerebbe sempre ricordare che, oltre e prima dell’omosessualità, è vietato l’adulterio.
Un approccio più personale ha caratterizzato la relazione di Tommaso Giartosio
(scrittore e conduttore radiofonico) dal titolo «Omosessualità ed ebraismo, dallo stigma
al linguaggio», in cui si è parlato del bisogno
e della ricerca di identità, tema centrale nell’ebraismo.
La psicoterapeuta e scrittice Anna Segre si
è soffermata sulla parola «orgoglio», specificando come, di fronte a una richiesta di
omologazione, l’orgoglio permetta di ribellarsi. L’orgoglio, così importante per la comunità gay, è anche parte fondamentale dell’identità ebraica.
Lo psicologo e psicoterapeuta Nicola Nardelli ha poi tenuto un intervento sull’aspetto
medico-psicologico della questione, ribadendo che l’omosessualità non è una malattia e
illustrando i cambiamenti vissuti dalla comunità scientifica negli ultimi decenni con il
passaggio da una situazione ricca di pregiudizi a una in cui l’aspetto patologico viene ricercato, al contrario, nell’omofobia.
A seguire, Pamela Harris (docente di Diritto alla John Cabot University di Roma) ci ha
parlato del trattamento giuridico riservato
agli omosessuali in Israele, che ha fatto molte riforme negli ultimi anni tanto da diventare uno degli stati con minor discriminazione
al mondo. Una delle ultime novità è l’estensione ai coniugi gay della Legge del ritorno
(che permette ad ogni ebreo di andare a vivere in Israele con la propria famiglia).
Ha concluso il convegno Serafino Marco
Fiammelli (luogotenente dell’Esercito italiano
e cofondatore di Beth Hillel Roma), che ha
parlato della situazione dei gay all’interno delle forze armate israeliane, dove non è stato
mai formalmente vietato l’accesso agli omosessuali, anche se in passato questi venivano
molto spesso riformati. Attualmente però la
situazione è molto diversa: l’esercito israeliano riconosce le coppie omosessuali anche ai
fini pensionistici e nel dicembre 2014 sono
state introdotte delle regole per facilitare l’arruolamento dei transgender.
i servizi
marzo 2015
confronti
EBRAISMO
Ebreo e omosessuale:
identità non in contrasto
Lei è un socio fondatore di Beth Hillel Roma
e delegato per le questioni Lgbt. Come nasce
l’idea di questa giornata di studio sul rapporto tra ebraismo e omosessualità?
L’idea nasce perché ho sempre notato una
similitudine nella situazione storica e sociale degli ebrei e degli omosessuali. L’odio verso di loro ha radici lontane, a differenza di
quello verso altri gruppi etnici che è più recente. Gli ebrei omosessuali racchiudono in
un’unica personalità due identità caratterizzate dall’ostinazione ad autoaffermarsi come gruppo sociale. La «dura cervice» accomuna gli ebrei e gli omosessuali.
Un’altra similitudine è la capacità di fare
gruppo per fronteggiare l’odio e per garantire a tutti la possibilità di vivere liberamente la propria identità. Le associazioni Lgbt,
come le comunità ebraiche nel mondo, sono organizzazioni molto forti e hanno un
peso notevole nelle società in cui vivono,
anche quando numericamente molto deboli. Le due entità dovrebbero imparare a
condividere e supportarsi reciprocamente
nelle battaglie di ognuno, perché spesso
hanno lo stesso fine. Chi ha visto recentemente il film Pride sa perfettamente a cosa
mi riferisco.
Gli omosessuali già in giovanissima età
percepiscono l’odio che arriva dalla società:
non ne capiscono la ragione, vivono un
dramma nella più totale solitudine. A differenza dei giovani ebrei, che hanno nella famiglia un punto di riferimento e di protezione, per gli omosessuali il coming out in famiglia è spesso uno dei momenti più devastanti: spesso ci vogliono anni perché i rapporti ritornino alla normalità. Le associazioni rispondono a molte telefonate di giovanissimi che hanno seri problemi a relazionarsi con la loro famiglia a causa della propria omosessualità, problemi che diventano
subito di natura psicologica anche seria, come è emerso dal convegno.
L’ebraismo ortodosso prende molto seriamente quanto scritto nel Levitico: «non ti
coricherai con un uomo così come con una
donna». Le scritture sono sacre per definizione e nessuno può cambiarle. Quello che
Serafino Marco
Fiammelli
«Le scritture sono sacre
per definizione
e nessuno può
cambiarle.
Quello che
si potrebbe cambiare
è l’interpretazione.
Dovrebbe essere
possibile alla persona
ebrea e omosessuale
di vivere una vita serena
senza dover rinunciare
a una parte
della propria identità.
Non c’è nulla
di sbagliato
nell’essere
omosessuale».
si potrebbe cambiare, come ci hanno spiegato i nostri conferenzieri, è l’interpretazione. Questo era quello che volevo emergesse
dal convegno. Il risultato dal punto di vista
didattico è stato straordinario, grazie al livello di preparazione dei relatori. Dovrebbe
essere possibile alla persona ebrea e omosessuale di vivere una vita serena senza dover rinunciare a una parte della propria
identità. Non c’è nulla di sbagliato nell’essere omosessuale, ognuno di noi nasce secondo un disegno divino.
È anche un luogotenente dell’esercito italiano
e nella sua relazione al convegno ci ha parlato della situazione dei gay nell’esercito israeliano. Qual è la realtà nel nostro Paese?
Le Forze armate italiane vivono e operano
nell’alveo della Carta costituzionale e delle
leggi dello Stato, nulla potrebbero decidere
autonomamente al proprio interno. In 34
anni di servizio attivo non ho mai assistito a
nessun grave atto di omofobia. Prima del
2000, anno in cui il servizio di leva è stato
sospeso, c’era sempre lo sfottò nei confronti del ragazzo effeminato, come di altre «categorie», poi, con l’avvento del servizio militare professionale, molto è cambiato, assieme alla sensibilità per tutto ciò che attiene
alla sfera personale dell’individuo, che nei
giovani è molto diversa. L’arruolamento delle donne ha fatto la sua parte, mettendo i
maschietti nella condizione di doversi confrontare quotidianamente con la diversità di
genere in un processo molto rapido e naturale. Io personalmente godo dell’affetto dei
colleghi, dei superiori e degli amici: nessuna discriminazione mai ricevuta; un mio ex
comandante mi dice sempre: «Speriamo che
approvino in fretta le unioni civili, perché
vorrei venire al suo matrimonio».
Esiste una rete italiana di ebrei omosessuali? E internazionale?
No, non esiste, mentre ne esistono da oltre
45 anni in Nord Europa, nel Nord e Sud
America e in Israele. Teniamo ben presente
che l’ebraismo riformato in Italia è nato circa 15 anni fa, con un ritardo di oltre un secolo rispetto al resto del mondo occidentale, quindi abbiamo molta strada da fare, e
non solo per quanto riguarda le questioni
Lgbt. In Italia mancano le condizioni di
emancipazione sociale, culturale e sopratutto politica.
22
i servizi
marzo 2015
confronti
EBRAISMO
Sappiamo che in Europa esistono vari gruppi di omosessuali caratterizzati dalla loro appartenenza religiosa. È possibile pensare a un
percorso comune e di dialogo interreligioso
sul tema?
Ci sono già organizzazioni religiose di gay e
lesbiche cristiani – «Nuova proposta» è una
di queste – che oltre a organizzare attività di
tipo religioso affiancano e supportano organizzazioni Lgbt per eventi più specifici relativi alla tutela dei diritti degli omosessuali.
Anche qui gli omosessuali hanno necessità
di creare delle zone franche e sicure per
esprimersi senza timore di minacce, minacce che potrebbero arrivare anche dall’interno della propria comunità. L’importanza di
queste associazioni è fondamentale.
Beth Hillel Roma considera il dialogo tra le
religioni uno dei suoi impegni e obiettivi e la
nostra presidente Franca Coen è molto attiva nell’organizzazione Religions for peace.
Alcune delle nostre attività vengono svolte
con il coinvolgimento di questa associazione. Per rispondere alla sua domanda: sì, i
gruppi di gay religiosi possono lavorare insieme per un percorso comune e un lavoro
«ecumenico».
«Si può essere
discriminati in quanto
gay, in quanto ebrei
e per entrambe le cose,
ma si può anche essere
discriminati dagli ebrei
perché gay e dai gay
perché ebrei; in questo
secondo caso spesso
perché si identifica
l’ebreo con Israele.
Insomma un bel casino,
ma questa è la realtà;
ci si abitua, si impara
a difendersi, a reagire,
a convivere
e combattere
quando necessario».
quando ci ha spiegato i passi da compiere per
arrivare alla conversione e cosa ci veniva richiesto, ci è apparso evidente che la nostra
omosessualità sarebbe stato un ostacolo. Ci
siamo rivolti quindi alla comunità riformata
di Milano Lev Chadash, visto che a Roma
non c’era nessuna entità ebraica non ortodossa. Il rabbino di Lev Chadash ci ha accolti nella comunità e dopo circa un anno ci ha
accettato come studenti per la conversione,
dicendoci che per lui il fatto che fossimo gay
non era un impedimento, ma il fatto che fossimo una coppia stabile era per lui una garanzia: come nucleo familiare convivente
avremmo potuto vivere una vita ebraica in
una casa ebraica. E così fu e il 4 giugno del
2012, davanti al tribunale rabbinico del Mouvement juif libéral de France (Mjlf ) di Parigi,
abbiamo sostenuto l’«esame» decisivo per la
conversione, poi il bagno rituale, e qualche
tempo prima la circoncisione.
Come omosessuale ed ebreo, appartiene a
una doppia minoranza. Come vive questa situazione?
Si può essere discriminati in quanto gay, in
quanto ebrei e per entrambe le cose, ma si
può anche essere discriminati dagli ebrei
perché gay e dai gay perché ebrei; in questo
secondo caso spesso perché si identifica l’ebreo con Israele. Insomma un bel casino, ma
questa è la realtà; ci si abitua, si impara a difendersi, a reagire, a convivere e combattere
quando necessario.
Ci sono comunità ebraiche ortodosse «gay
friendly»?
Questa è una bella domanda, alla quale ovviamente non posso rispondere; bisognerebbe chiederlo a loro, anche perché dovremmo
prima definire bene il termine gay friendly.
Tecnicamente non credo, se intendiamo per
gay friendly piena accettazione. Se lo intendiamo come accettazione di uno stato di fatto, ma senza ufficializzare né «legalizzare»
l’omosessualità, allora forse.
Quando pensa che cambieranno le cose?
Anche qui gli ebrei e gli omosessuali si incontrano sulla stessa via, credo ci sia bisogno di
una legge contro il negazionismo e che ci sia
bisogno di una legge contro l’omofobia. La
storia ci insegna che spesso l’umanità ha bisogno di essere educata al rispetto dell’altro.
Lei si è convertito all’ebraismo. Si è avvicinato da subito a una realtà di ebraismo riformato come quella di Beth Hillel Roma o ha
tentato prima con le strutture ortodosse?
Quando insieme al mio compagno abbiamo
deciso che il nostro interesse per l’ebraismo
e Israele – che ci aveva già indotto da un paio
di anni a studiare l’ebraico moderno, a studiare la storia degli ebrei e del sionismo, a
leggere letteratura e saggistica ebraica e a fare viaggi in Israele – era arrivato al punto in
cui esigeva un salto di qualità, ci siamo rivolti a una comunità ortodossa, il cui rabbino ci
ha ricevuto con molta cordialità, ci ha chiesto di noi e ci ha raccontato di loro. Poi,
intervista a cura di Daniela Mazzarella
23
ARMENI
Maria Immacolata Macioti
A cento anni
dal genocidio
Nel 1915 vengono sospese le garanzie fondamentali nei confronti
degli armeni e imposta una politica panislamica per rafforzare l’identità musulmana. A distanza di cento anni, grazie alla documentazione e agli studi usciti nel frattempo, la negazione del genocidio da parte del governo turco diventa sempre meno credibile.
il 1915 quando gli armeni che da
tempo vivono in Turchia, e che hanno subito tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 dure persecuzioni sotto
‘Abd al-Hamid, ritengono di poter sperare in
un miglioramento della situazione. Ma il sovrano, è noto, non ha simpatia per gli armeni. Ha tentato una politica di accordi con la
Germania e con il Giappone per frenare la
decadenza della Turchia. Teme la Russia, che
cerca sbocchi sul mare, da cui verrà sconfitto tra il 1877 e il ’78: e dovrà riconoscere l’indipendenza di Serbia, Romania e Montenegro. Il Trattato di Berlino dà in teoria una
certa autonomia agli armeni, sotto l’altrettanto teorica sorveglianza delle potenze europee. Ma il sovrano sospende le garanzie fondamentali, impone una politica panislamica
per rafforzare l’identità musulmana.
Gli armeni sono una presenza fastidiosa,
contraddittoria. Semmai il sovrano darà spazio a curdi e circassi, a ceceni e albanesi, anche utilizzandoli in chiave anticristiana. Gli
armeni avvertono il pericolo crescente, si
hanno agitazioni. Nasce nel 1881 la società
segreta dei Protettori della patria. Nasce, nel
1890, a Tbilisi, la Federazione rivoluzionaria
armena, Dashnaksutiun, vicina al socialismo.
Le riforme però non arrivano. Anzi, tra il
1894 e il 1896 saranno arrestati vescovi e notabili armeni, si avranno attentati contro il
patriarca. Ed ecco il conflitto di Sasun: tre
villaggi rifiutano di pagare ancora le tasse già
pagate agli esattori curdi, la cittadina si ribella. Interverrà la Quarta armata: i morti saranno un migliaio; uno schema che si ripete,
documentato da varie relazioni consolari. Si
parla di villaggi incendiati, chiese rase al suolo, conversioni forzate, deportazioni. Nel
1895 è prevista una manifestazione del par-
E’
La professoressa Macioti
è coordinatrice della Sezione
di Sociologia della religione
dell’Associazione italiana
di sociologia e coordinatrice
de «La Critica sociologica».
24
tito Hntchak per la richiesta di diritti civili: si
avrà una sanguinosa repressione. Seguirà il
caso di Zeythun, o Zeytún (1895-1896), rea
di resistere persino all’esercito. La cittadina
pagherà duramente, nel 1915, le sue capacità
di resistenza. Intanto si verificano fatti importanti nello scenario internazionale: nel
giugno 1896 Theodor Herzl propone alla
Turchia il consolidamento del debito da parte ebraica in cambio della cessione della Palestina o di uno stato autonomo sotto sovranità ottomana. Il sovrano chiede che gli ebrei
intervengano presso la stampa europea perché la questione armena sia vista in un’ottica
più favorevole alla Turchia. In agosto, gli armeni si impadroniscono a scopo dimostrativo della banca ottomana di Costantinopoli.
Distribuiscono volantini in cui si chiedono
riforme e si auspica un Alto Commissario
per l’Armenia, di nomina europea. Richieste
che non avranno seguito, mentre si avrà il
massacro della città di Egin: da cui l’appellativo di bloody sultan ad ‘Abd al-Hamid, cui
si imputano circa 200mila morti armeni. Sarebbero di più, senza gli ammonimenti delle
potenze europee.
Intanto si ha un forte ravvicinamento con
la Germania guglielmina: si ipotizzano investimenti e progetti Germania-Turchia. Le
speranze armene si concentrano sui Giovani
turchi, sul Comitato unione e progresso
(Cup): e siamo al 1907. La Turchia si avvia a
perdere un terzo del proprio territorio, mentre all’interno urgono problemi finanziari.
Tra i Giovani turchi prende spazio l’ala radicale e nazionalista. Nel 1909 viene deposto il
vecchio sovrano responsabile di tante stragi
armene, sale al trono Mehemet V. Il potere è
in mano ai Giovani turchi, che vogliono la
modernizzazione del paese. Gli armeni non
fanno a tempo a rallegrarsi della deposizione del «sovrano rosso» che si ha l’assedio di
Adana (aprile 1909). La città si difende: moriranno circa 25mila armeni.
Negli anni successivi la Turchia continua a
perdere territori, è coinvolta in devastanti
guerre balcaniche. Gli armeni confidano nei
Giovani turchi, alle elezioni del 16 aprile
i servizi
marzo 2015
confronti
ARMENI
1912 votano la lista del Cup. La Conferenza
di Londra per la risoluzione della situazione
post balcanica verrà subita da una Turchia
che si sente estremamente penalizzata e che
continua a perdere spazio. Finché il 23 gennaio 1913 si ha un colpo di Stato dei «Giovani turchi»: i capi sono Talaat (Tal’at), Enver e
Cemal (Gamāl). Il Trattato di Londra del 30
maggio 1913 vede la Grecia occupare la Macedonia meridionale e Creta, la Serbia ottenere il Kosovo e la Macedonia settentrionale; il Montenegro, parte dell’Albania; per la
Turchia, esiti tragici: si radicalizza il suo distacco dall’Intesa, l’accostamento agli imperi centrali. La Germania sarà sempre più presente nel paese, addestrerà lo stesso esercito.
Ormai in Turchia sono al potere i militari,
che non intendono cedere sulle previste
riforme per gli armeni. Che liberano Edirne:
e brilla la stella del vincitore Enver Pascià,
mentre nazionalismo e islamismo si rafforzano a vicenda. È il 1914: la Turchia inizia la
mobilitazione, anche se larga parte della popolazione è alla fame. La Germania occupa
Liegi, Namur. Avanza verso Parigi, chiude i
Dardanelli, isola la Russia rispetto agli alleati. In novembre si ha la dichiarazione di guerra turca contro gli infedeli, nemici da combattere: Inghilterra, Francia, Russia. Obiettivo: turchizzare l’impero. E matura la tragedia
di Van, dove si avranno fucilazioni di armeni, richieste esose di uomini e denaro. Donne vengono catturate, la città è assediata. Si
difende per cinque settimane. All’arrivo dei
russi, i morti armeni sono circa 55mila.
Il 1915 si apre, per la Turchia, con la deportazione dei greci, derubati e perseguitati, ma
non uccisi. Vengono disarmati gli armeni:
verranno declassati, affamati, torturati. Fatti
a pezzi, arsi vivi. Tra gennaio e febbraio gli alleati attaccano i Dardanelli, la Serbia respinge gli austriaci: si teme la dissoluzione dell’impero turco. Ma i Dardanelli resistono, gli
Alleati si ritirano. La Russia è isolata, senza
rifornimenti. Il 24 aprile 1915 (la data ricorda oggi il genocidio) vengono arrestati 2.345
intellettuali e politici armeni, laici e religiosi,
a Costantinopoli. Passa intanto una legge
temporanea di deportazione: donne e bambini armeni saranno costretti ad abbandonare i
loro paesi, a fare lunghe, estenuanti marce nel
deserto dell’Anatolia. Subiranno ruberie e
violenze lungo il percorso, da bande curde.
Molti moriranno lungo la via. I sopravvissuti
saranno eliminati o finiranno in campi di
Il 24 aprile 1915 (la data
ricorda oggi il
genocidio) vengono
arrestati 2.345
intellettuali e politici
armeni, laici e religiosi,
a Costantinopoli. Passa
intanto una legge
temporanea di
deportazione: donne e
bambini armeni
saranno costretti ad
abbandonare i loro
paesi, a fare lunghe,
estenuanti marce nel
deserto dell’Anatolia.
Subiranno ruberie e
violenze lungo il
percorso, da bande
curde. Molti moriranno
lungo la via. I
sopravvissuti saranno
eliminati o finiranno in
campi di
concentramento.
25
concentramento. Bambini sono uccisi davanti alle madri, uomini massacrati davanti alle
mogli. Con crudeltà e disprezzo: greci e armeni sono considerati porci o cibo per porci.
Si sa di ferri di cavallo attaccati a piedi maschili, di gente rifugiatasi in chiesa, cui viene
dato fuoco.
Gli armeni sono odiati perché hanno commerci fiorenti – mentre i turchi sono poveri
– e perché cristiani. Invano il pastore Lepsius,
l’ambasciatore americano Morgenthau e altri
cercano di intervenire. Invano lettere allarmanti partono dai consolati delle potenze europee a prospettare l’ipotesi di un tentativo di
sterminio degli armeni; dai religiosi, che scrivono ai superiori. Ci sono, all’inizio, fraintendimenti: da parte cattolica si ipotizza una persecuzione ai soli armeni cattolici (pochi, rispetto alla Chiesa armena). Altri prestano fede, inizialmente, all’ipotesi di trasferimenti a
scopo di protezione. Ma la realtà si impone:
gli armeni sono sterminati brutalmente. Donne muoiono per strada porgendo i bambini a
qualche turco: cresceranno allevati nella fede
islamica. Molti, finiranno negli harem.
Fotografie vengono scattate da Armin T.
Wegner: documenti, fonti storiche indiscutibili, ché non è stato ancora inventato il digitale. Lo stesso Wegner scrive dal deserto di
Deir es Zor, subito, lettere agli amici, a sua
madre. Pubblicherà poi La via senza ritorno.
Un martirio in lettere. Saranno soprattutto le
sue foto e il romanzo di Franz Werfel, autore
de I quaranta giorni del Mussa Dagh, a tenere desto il ricordo del genocidio, in Europa.
Oggi, a distanza di cento anni dai tragici
fatti di allora, restano il dolore di una popolazione, la negazione del genocidio da parte
del governo turco. Però molti sono gli studi
usciti nel frattempo su questi accadimenti,
sia da parte di studiosi armeni che da parte
di non armeni; tra i più significativi, 4 volumi a cura del gesuita Georges-Henri Ruyssen
su La questione armena (per ora, dal 1894 al
1925), con documenti dell’Archivio segreto
vaticano e dell’Archivio della Congregazione
per le Chiese orientali. Vi sono documenti
familiari, narrazioni, film: sarebbe ormai impossibile stendere su queste tragiche vicende, come pure si è tentato, uno spesso velo di
silenzio.
LAICITA’
Il papa
e i nanetti litigiosi
Paolo Naso
Un’indagine su «Gli italiani e lo Stato», condotta dall’istituto di ricerca Demos & Pi, conferma la progressiva perdita di fiducia nei
confronti della politica e delle istituzioni: sfiducia, disincanto e
rassegnazione sembrano essere i sentimenti dominanti. In netta
controtendenza papa Francesco, benvisto da 9 italiani su 10.
«
n paese spaesato. Senza riferimenti. Frustrato dai problemi economici, dall’inefficienza e dalla corruzione politica. Affaticato. E senza troppe illusioni nel futuro». È questa l’Italia disegnata dalla XVII indagine su «Gli italiani e lo Stato», condotta da Demos e pubblicata su la Repubblica il 28 dicembre scorso con un commento del sociologo Ilvo Diamanti. Rispetto al 2010 la credibilità dello
Stato, dei partiti e del Parlamento è dimezzata; la fiducia nei Comuni e nelle Regioni è calata di oltre 10 punti percentuali. Non se la
cava l’Unione europea, vista con favore da un
modesto 27% degli italiani: 22 punti meno
del 2010 e 5 meno dell’anno precedente. Tutto questo induce una vera e propria «stanchezza democratica»: tramontato l’astro grillino, non sembrano esserci né Renzi né Salvini né tanto meno Berlusconi a rincuorare
gli italiani e a restituire loro un po’ di fiducia.
Tutti gli indici di partecipazione politica e sociale sono in declino: cala la fiducia anche nei
sindacati, quasi 6 persone su 10 diffidano degli «altri». In generale.
In questa palude di rassegnazione e disincanto, l’unico zampillo fresco sembra provenire da papa Francesco. C’è una sola figura
che oggi disponga di grande credito – dice il
survey – ed abita in una foresteria in Vaticano, apprezzato da 9 italiani su 10. Quasi un
plebiscito. «La sua grandissima popolarità
(che, peraltro, è “personalizzata” e non si
estende alla Chiesa) – commentano gli analisti di Demos – potrebbe suggerire che, ormai, non c’è speranza. E non ci resta che affidarci alla provvidenza divina».
Solo un papa ci salverà? È questo il destino
dell’Italia che, a questo punto, ci appare assai
meno secolarizzata di come per decenni l’ab-
U
26
biamo conosciuta e descritta? A questo dovranno rassegnarsi laici e laicisti, agnostici e
anticlericali, non cattolici e diversamente
credenti di ogni tipo? Il papato – neanche il
cattolicesimo – come «religione civile degli
italiani», come pilastro della tenuta etica e
democratica del Paese?
In apparenza questo sembra essere il messaggio forte e chiaro dell’indagine. Ma forse
è una lettura troppo frettolosa del dato. Papa
Francesco si sta mostrando un pastore vicino alla gente, che parla come il nonno o lo
zio saggio che ognuno vorrebbe. Anche
quando parla di teologia e cita la Bibbia lo fa
senza quell’accento dogmatico e curiale che
nei decenni ha allontanato milioni di italiani
dalla pratica religiosa e dal rapporto con la
Chiesa. Persino dal balcone di Piazza San
Pietro, questo papa venuto da lontano parla
di cose concrete come l’educazione dei bambini, la cura degli anziani, lo stipendio che
non basta ad arrivare a fine mese. E lo fa con
accenti dubbiosi ed umili, quasi a precisare
che la sua è solo un’opinione che vale quanto altre. Tutto questo non piace – non può
piacere – ai guardiani dell’ortodossia e della
sacralità ma piace alla gente. Si parva licet...
con Diana Spencer abbiamo conosciuto una
«principessa del popolo», con Bergoglio incontriamo un «papa del popolo», più amato
quando parla con la gente che quando presiede un Concistoro.
Bergoglio piace e dà fiducia perché riempie un vuoto di autorevolezza morale che la
politica, le istituzioni, la cultura non riescono a colmare. Da protestante la mia preoccupazione non è nel ruolo di moral authority
che il papa va assumendo, ma piuttosto nella débâcle civile che ha azzerato la credibilità
di altre figure e di altre istituzioni. Il papa fa
il suo mestiere di pastore di anime, e Francesco lo fa meglio di altri. Non è questo il problema. Il problema – non religioso, democratico! – è che egli giganteggi solitario in
una scena in cui amministratori della cosa
pubblica e funzionari dello Stato, generali e
magistrati, intellettuali e opinion makers appaiano dei nanetti privi di autorevolezza.
i servizi
marzo 2015
confronti
LAICITA’
Questo fa male alla democrazia e, personalmente, credo faccia anche male alla Chiesa cattolica, che potrebbe fraintendere e immaginare che gli italiani le abbiano restituito quel ruolo centrale nella vita pubblica che
i processi di secolarizzazione le avevano sottratto. In realtà così non è. Tutte le indagini
sociologiche di questi anni ci dicono che gli
italiani vivono una religiosità propria, libera,
opzionale e persino sincretica. Amano i presepi ma sono insofferenti alle restrizioni etiche, si dicono cattolici ma adottano la spiritualità orientale, iscrivono i figli all’ora di religione confessionale e approvano i registri
per le coppie di fatto. In nessun modo, insomma, la popolarità del papa sembra suggerire che gli italiani siano tornati all’ovile
parrocchiale, che resta sempre più vuoto e
spoglio, o che si vadano uniformando alla
morale della Chiesa di maggioranza.
La popolarità e l’autorevolezza morale del
papa dice che gli italiani sentono il bisogno
di un riferimento alto, che non riduce tutto
a polemica politica o a contabilità degli affari. Secolarizzati ma con un’anima, potremmo dire, che li spinge ancora a levare
gli occhi verso il cielo alla ricerca di una
speranza e di una visione che vada oltre la
miseria delle tristi contese politiche di ogni
giorno. Per molti è la post-secolarizzazione,
una nuova attitudine che non cancella quella precedente ma si sovrappone e si confonde con essa, come un nuovo strato di sabbia
mosso dal vento. Vecchio e nuovo, singolare (la Chiesa) e plurale (le religioni), secolare e post-secolare. Di nuovo, da credente e
da protestante, non me ne preoccupo ed anzi sento la freschezza di una nuova ventata
sulla scena religiosa nazionale. Qualcosa si
muove, e in un paese statico come l’Italia è
un bel segnale. Da cittadino, lamento che
uno spazio pubblico affollato da nanetti litigiosi consegna il paese ai peggiori populismi e alle peggiori demagogie. E non ci sarà
papa che potrà salvarci.
Se manca la leva,
nulla si risolleva
Enzo
Marzo
«Per un periodo storico
lungo ma ovviamente
non calcolabile, l’Italia
è destinata a un
degrado senza ritorno.
Perché non solo nella
classe politica ma nei
ceti intellettuali,
in chi forma l’opinione
pubblica, tra i manager
e gli imprenditori,
tra i burocrati, la fanno
da padroni, nel migliore
dei casi, l’afasia
e lo smarrimento
del proprio ruolo;
nella normalità
generalizzata,
l’incompetenza
e la corruzione morale
e materiale».
Enzo Marzo è direttore
di «Critica liberale» e presidente
della Fondazione Critica liberale.
27
Le cifre sono sempre importanti perché della realtà danno una fotografia. Ma la realtà
italiana, davanti agli occhi di tutti, ha aspetti così eclatanti che la demagogia non riesce
più a mascherarla. Gli opinion leader vigliaccamente non hanno il coraggio di trarre le
conclusioni, che sono crude: il nostro paese
è entrato da tempo in una crisi irreversibile.
Che differenza corre tra «gravissima» e «irreversibile»? Nel Novecento due paesi, gli
Stati Uniti e la Germania sprofondarono in
una crisi «gravissima». Con sistemi politici
opposti, in una mezza dozzina di anni non
solo la superarono ma arrivarono a porsi al
vertice delle potenze mondiali. Come fu possibile? Perché possedevano una classe dirigente e alcuni valori.
L’Italia, nelle classifiche mondiali su tutti i
campi, giace agli ultimi posti, ampiamente
superata da paesi che appena venti anni fa
consideravamo spocchiosamente «sottosviluppati». Per un periodo storico lungo ma
ovviamente non calcolabile, l’Italia è destinata a un degrado senza ritorno. Perché non
solo nella classe politica ma nei ceti intellettuali, in chi forma l’opinione pubblica, tra i
manager e gli imprenditori, tra i burocrati, la
fanno da padroni, nel migliore dei casi, l’afasia e lo smarrimento del proprio ruolo; nella
normalità generalizzata, l’incompetenza e la
corruzione morale e materiale. Se manca la
leva, nulla si risolleva. Fa disperare non la
crisi, ma l’assenza delle forze che possano rimediarvi.
Si dice: ma anche la Chiesa cattolica era
precipitata in un disfacimento che sembrava
irreversibile. Eppure il nuovo papa... È mia
convinzione che neppure questo papa, così
simpatico, così apparentemente diverso da
quelli che lo hanno preceduto, possa molto.
Certo, è amato da 9 italiani su 10. Certo, la
Chiesa cattolica ha avuto pur sempre la saggezza di affidarsi a un homo novus, lontano
dalla fogna romana e nutrito nel brodo di
cultura del migliore populismo peronista.
L’immagine superficiale è infatti cambiata rapidamente.
Un gesuita aveva detto, prima di morire,
che il cattolicesimo era indietro di alcuni se-
i servizi
marzo 2015
confronti
SOCIETA’
coli, un altro gesuita cerca di porvi rimedio
rincorrendo la modernità con un po’ di buon
senso. Intendiamoci, è già qualcosa. Aver
cambiato gli uomini in alcuni posti chiave è
rilevante per la vita interna della Chiesa. Ma
molto meno se si tiene presente il ritardo
della Chiesa cattolica nei confronti del mondo esterno. E questo non può essere affrontato solo da qualche dichiarazione eccentrica e buonista.
Il vero ostacolo insormontabile è nella stessa struttura totalitaria della Chiesa. Le vere
«riforme» non sono mai ottriate. E persino i
cauti mutamenti dall’alto operati da Francesco per ora si sono infranti contro la muraglia cinese dell’essenza del cattolicesimo. Prima di Natale il papa si è conquistato qualche
bel titolo sui giornali con le sue accuse davvero graffianti contro i cardinali. Parole. Come fa un osservatore non cieco, né sordo, a
non pensare che quei cardinali così maltrattati pubblicamente sono stati nominati personalmente dal papa e perlopiù scelti da un
papa che lo stesso Francesco proclama santo? «La contraddizion nol consente».
La modernità è ben altro, si fonda sul concetto di riforma, che è rivoluzione strutturale, è critica del totalitarismo e del principio
gerarchico piramidale. Invece Francesco,
proprio perché immobile in campo teologico, non riesce a fare un vero passo avanti in
alcun altro campo. Anche lì dove apparentemente dovrebbe essere facile. Aspettiamo invano che una diocesi prenda per la collottola un prete pedofilo e lo consegni all’autorità
civile, invece di sottrarglielo. O che il Vaticano smetta di pretendere per sé privilegi economici e di ruolo. Più passa il tempo e più le
riforme di Francesco – mi scuso per il paragone – appariranno aria fritta e «politica degli annunci» come quelle di colui che governa l’Italia e che Scalfari definisce «il narciso
di provincia e bullo di quartiere».
E allora saranno molti i delusi. Non lo saranno coloro che non si aspettavano molto e
apprezzano il papa per quello che può fare
e fa: restituire al cattolicesimo un po’ di decenza e offrirsi come surrogato «paterno» a
chi non sopporta il vuoto esistente oggi nello spazio pubblico. Nulla di più. Né ci si può
attendere di più dal cesarismo populista, due
pilastri, il primo sempiterno nella Chiesa cattolica e il secondo che negli ultimi decenni
ha avuto declinazioni differenti ma traguardi simili.
Francesco forse ascolta
di più il «cerchio
magico» di cui si è
circondato, forse tiene
maggiormente
presenti gli interessi
delle periferiche chiese
locali, «appare» più
pluralistico, anche
se la sua «rivoluzione» è
tutta incentrata
sul «suo» messaggio.
Incanta, sì, i laici
superficiali, ma proprio
sui contenuti che più
dovrebbero interessar
loro, ovvero sui rapporti
tra Stato e Chiesa e sul
ruolo pubblico o privato
delle confessioni
religiose, il Vaticano
è fermo alla più
retrograda politica
dei concordati
e dei privilegi.
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Anche Giovanni Paolo II aveva introiettato il valore della «religione come spettacolo»,
anch’egli era un grande attore amato da 9 italiani su 10, il che non gli ha impedito di far
sprofondare la Chiesa. Francesco forse ascolta di più il «cerchio magico» di cui si è circondato, forse tiene maggiormente presenti
gli interessi delle periferiche chiese locali,
«appare» più pluralistico, anche se la sua «rivoluzione» è tutta incentrata sul «suo» messaggio. Incanta, sì, i laici superficiali, ma proprio sui contenuti che più dovrebbero interessar loro, ovvero sui rapporti tra Stato e
Chiesa e sul ruolo pubblico o privato delle
confessioni religiose, il Vaticano è fermo alla
più retrograda politica dei concordati e dei
privilegi.
Forse nelle ultime settimane può essere cominciata la fine della «luna di miele» per il
papa. Quello che è stato da tantissimi percepito come il primo grave «scivolone» di
Francesco, mi riferisco all’agghiacciante frase sul «pugno in faccia» a chi non rispetta la
Chiesa anche solo a parole, costituisce in effetti una svolta. Quella sua dichiarazione va
letta con attenzione. Prima di tutto risponde
perfettamente alla classica retorica gesuitica
che consiste nell’inserire nella medesima frase due concetti contrari, in modo da renderla ambigua e disponibile a citazioni opposte.
Da una parte, la rivendicazione della non
violenza; dall’altra, «il pugno», solo quantitativamente differente dai colpi di kalashnikov sparati dai fanatici islamici a Parigi pochissimi giorni prima. Il papa, prima, fa sopire il polverone delle emozioni e dell’orgoglio laico europeo; poi, mostra di stare dalla
parte di chi è contrario alla paressia, fino alla violenza.
Con cinismo Francesco testimonia per una
religione violenta o potenzialmente violenta.
Al «Je suis Charlie» contrappone un «Io sono Breivik». Mentre tutta la cultura europea
riflette in modo multiforme su quanto è avvenuto, la frase di Francesco, anche con una
nuance di volgarità, dimostra che la gerarchia cattolica non ha, né intende cercare, una
risposta agli inquietanti interrogativi di molti credenti di fronte a due questioni che gravano sulle religioni da millenni, il rapporto
col Male e con la Violenza.
CHIESA CATTOLICA
Perché Francesco
entusiasma e turba
Luigi Sandri
Con le sue scelte, a due anni dall’elezione il vescovo di Roma entusiasma molti cattolici, ma ne turba altri. Una parte della Curia è con
lui, ma un’altra gli si oppone, in ciò sostenuta dagli orfani di Ratzinger. Alta sarà la sfida al prossimo Sinodo, e non indolore la questione dell’ammissione all’Eucaristia delle/dei divorziati e risposati.
l giro di boa del secondo anno di servizio episcopale sulle rive del Tevere
che Francesco ha iniziato il 13 marzo
2013, si delineano sempre più i tratti
caratteristici del suo ministero, le novità apportate, le criticità insuperate, le sfide emergenti e le speranze possibili. E le reazioni del
corpo vivo della Chiesa cattolica ad un vescovo di Roma «arrivato quasi dalla fine del
mondo».
A
Il programma, ammirato
e/o contestato, di Bergoglio
«La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù:
della misericordia e dell’integrazione. Questo non vuol dire sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il
figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo.
La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere
la misericordia di Dio a tutte le persone che
la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani
nelle “periferie” essenziali dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio
(Luca 5,31-32)».
Così, Francesco, il 15 febbraio, ai nuovi venti porporati (da lui creati il giorno prima),
riassumendo il suo programma episcopale
romano, più diffusamente spiegato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium
(24/11/2013). Un programma che entusiasma
e, insieme turba, la Chiesa romana: non tanto per le parole in sé – innocue, se inattuate
– ma perché Francesco da subito ha comin-
29
ciato a inverarle. Perciò, mentre grande è stata (è) la gioia di moltissimi cattolici per il suo
ministero e magistero, sentito come profumo
di Vangelo, altrettanto profondo è stato (è) il
disagio di altri, soprattutto se ecclesiastici o
apologeti di professione sulla cresta dell’onda
sotto i pontificati di Wojtyla e di Ratzinger, i
quali, adesso, vistisi messi in discussione i loro radicatissimi schemi interpretativi, sono
spiazzati e – oh meraviglia! – scoprono il sapore dei distinguo e del dissenso dal papa.
Che cresca, anche a Roma, e proprio a Roma, una sorda opposizione all’orizzonte tratteggiato e alla prassi incarnata da Francesco
lo ha ammesso lui stesso – indirettamente ma
con sferzante chiarezza – quando, il 22 dicembre 2014, ricevendo gli alti dirigenti della
Curia per gli auguri natalizi, senza tanti fronzoli ha elencato le «quindici malattie curiali»,
tra le quali: «1. La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”; 3. La malattia dell’”impietrimento”
mentale e spirituale; 6. La malattia dell’“Alzheimer spirituale”; 7. La malattia della rivalità e della vanagloria; 8. La malattia della
schizofrenia esistenziale; 10. La malattia di divinizzare i capi; 12. La malattia della faccia funerea; 15. La malattia del profitto mondano,
degli esibizionismi». Già i semplici titoli, pur
senza riportare le sapide spiegazioni di Bergoglio, danno il tono del suo pensiero e il senso della sua sfida. Se un papa fa una tale analisi – che, così cruda, non ha precedenti in
bocca ad un pontefice – è evidente che egli
constata un’insopportabile distonia tra la sua
visione e quella della Curia. Gruppo variegato, questo, di oltre duemila persone, nel quale una parte è toto corde con lui, a iniziare dal
segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin;
ma una parte notevole gli è contro, e una terza si barcamena, frenando, per quel che può,
le attese del papa. Questa «lontananza» lambisce anche il Collegio cardinalizio ove, in un
settore significativo, a livello di Curia ma non
solo, cresce l’insofferenza verso Francesco –
né potrebbero occultare questo dato i resoconti ufficiali che parlano quasi di un idillio
tra papa e porporati nel «plenum» cardinali-
marzo 2015
i servizi
confronti
CHIESA CATTOLICA
zio del 12-13 febbraio. Ed è a questo livello,
forse, che si trovano i riferimenti (o i suggeritori?) di Vittorio Messori che, il 24 dicembre
– due giorni dopo il discorso papale – con
impeccabile stile curiale (che colpisce mentre
fa finta di lodare) sulla prima pagina del Corriere della sera critica Francesco, per la sua
«imprevedibilità... che turba la tranquillità del
cattolico medio, abituato a fare a meno di
pensare in proprio, quanto a fede e costumi,
ed esortato a limitarsi a “seguire il papa”».
Uscito la vigilia di Natale, quell’articolo ha
suscitato larga eco; lo meritava? Intanto, ci
appare davvero pretenzioso uno scrittore che
si auto-elegge quasi a rappresentante del
«cattolico medio». Si tratterà, forse, di cattolici della bassa Bresciana (zona ove vive, mi
dicono, lo scrittore), ma non certo di quelli
«medi» del Brasile, o delle Filippine, entusiasti di Bergoglio. Dunque, solo una visione
provinciale poteva suggerire quel linkage, anche se volatili sono sempre gli applausi delle
folle. Ad ogni modo, il suo attacco è apparso
davvero sopra le righe a diversi gruppi e personalità (in Italia comunità varie e cenacoli,
e il movimento Noi siamo Chiesa; in Brasile
il teologo della liberazione Leonardo Boff )
per cui, polemizzando con lui, gli hanno risposto con appelli di sostegno a Francesco.
Ma, forse, invece che al dito, bisognava (bisogna) guardare alla luna. E la luna è quel
blocco di prelati, orfani di Ratzinger, rafforzati da lefebvriani ad honorem e da «laici devoti», che si stanno organizzando per contrastare frontalmente, e pubblicamente, scelte
dirimenti del nuovo vescovo di Roma.
Se, a proposito di certi
temi – l’Eucaristia a
persone divorziate e
risposate, il giudizio
etico sulle unioni
omosessuali e sulla
convivenza prematrimoniale –
l’Assemblea episcopale
di ottobre proporrà di
cambiare la pastorale
corrente, lasciando però
immutati i princìpi
dottrinali, questa scelta
sarebbe debole, e forse
indifendibile.
Occorrerebbe riproporre
anche dimenticate
premesse dottrinali,
perché la «nuova»
pastorale regga.
La partita del Sinodo, diviso tra due princìpi
L’appuntamento per la battaglia dei «lunari»
– guidata da cardinali: in prima fila Ludwig
Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e dagli altri
quattro che con lui nell’ottobre scorso hanno
firmato il volume Perseverare nella verità di
Cristo; li fiancheggiano Angelo Scola, arcivescovo di Milano; Camillo Ruini, per tre mandati da Wojtyla nominato presidente della
Cei; Francis George, ex arcivescovo di Chicago – sarà il Sinodo dei vescovi di ottobre,
dedicato alla famiglia, e secondo round di
analoga Assemblea (questa «straordinaria»,
quella «generale») svoltasi nell’ottobre scorso (vedi Confronti 11/2014). Il nodo cruciale
che divide(rà) i pro e i contro-Bergoglio è il
come coniugare verità e carità, diritto e mi-
30
sericordia, dottrina e pastorale su temi quali l’ammissione all’Eucaristia di persone divorziate e risposate, il giudizio morale sulle
unioni omosessuali, le convivenze pre-matrimoniali. Limitiamoci, qui, al primo argomento: su di esso il Sinodo 2014 si è spaccato tra
favorevoli e contrari. I contro sostenevano
che il sì avrebbe violato il mandato di Gesù
(«L’uomo non divida ciò che Dio ha unito»);
secondo i pro, invece, già nelle Scritture, oltre che nella prassi storica delle Chiese, vi sono eccezioni al principio.
A proposito: ribadire, come fanno Francesco ed i vescovi del sì, che si intende cambiare la pastorale ma lasciando immutato il principio (la «dottrina»), apre un cortocircuito, e
i no rimarranno imbattibili – chi, potrebbe,
infatti, sciogliere da un comandamento di
Cristo? Bisognerebbe invece imboccare una
via più stretta, ma più sicura, affermando due
princìpi: 1/ l’indissolubilità della coppia è un
alto ideale proposto da Gesù, e chi la rompe
si assume una grave responsabilità; 2/ il Signore («Il sabato è fatto per l’uomo, e non
l’uomo per il sabato») non intende schiacciare nessuno sotto la sua colpa, ma incoraggia
a riprendere il cammino. E così da sempre, rispetto a quel problema, agiscono le Chiese
ortodosse e, pur partendo da altre prospettive, quelle della Riforma. Del resto, mentre ribadisce con fermezza il comandamento
«Non uccidere», e condanna l’assassinio, la
stessa Chiesa romana ammette all’Eucaristia
l’omicida che si pente, e che in nessun caso
può risuscitare le sue vittime.
Inevitabile è la croce che inchioda Francesco: ritenuto «deviante» da quelli del no ove
ammettesse all’Eucaristia persone divorziate
e risposate; considerato improvvido da quelli del sì ove infine ribadisse l’esclusione dalla comunione. Proclamare un solo principio
dottrinale, ignorandone un altro, ed asserire
che si cambia solo la pastorale, è una scorciatoia che, infine, porta ad un vicolo cieco. Con
buona pace dei «lunari», bisognerà pure un
giorno ammettere che, grazie a Dio, una
Chiesa smemorata, da secoli dimentica dell’Evangelo (il principio!) della misericordia,
ora, ravveduta, se ne ricorda. Può fare questo passo una Chiesa che, dopo aver per tanto tempo negato il principio della libertà religiosa, al Concilio Vaticano II ha avuto l’ardire di riconoscerlo. Ma fu una battaglia –
teologica – asperrima. E oggi, come allora,
Lefebvre incombe.
CULTURA
I rom e le identità
«cucite addosso»
Gino Battaglia
Molto si è scritto sulla Shoah, ma sul Porrajmos – lo sterminio di
circa mezzo milione di rom e sinti nei campi nazisti – quasi nulla.
Mancano soprattutto le fonti dirette. Il protagonista del romanzo
di Gino Battaglia «La fortuna di Dragutin», per quanto grande sia
il dramma a cui è sopravvissuto, non ha parole.
«
a fortuna di Dragutin» è il titolo dell’ultimo libro di Gino Battaglia, viaggiatore e studioso che a lungo ha lavorato sui temi della marginalità sociale e del dialogo tra le religioni e le culture.
Il romanzo è uno spaccato di vita rom nel
campo dove vive la famiglia di Dragutin, sopravvissuto allo sterminio nazista da piccolo, e ora anziano che vede attorno a sé la vita e le storie cambiare. Sul libro e sul tema,
Confronti lo ha intervistato.
Già direttore dell’Ufficio
nazionale per l’ecumenismo
e il dialogo interreligioso
della Cei, monsignor Battaglia
ha passato molti anni a contatto
con i rom, lavorando
alla scolarizzazione dei bambini
con la Comunità di Sant’Egidio.
L
La fortuna di Dragutin. Dragutin per tutto il
libro si chiede se la sua sia davvero una «fortuna». Riflette sulla durezza della vita e teme i cambiamenti in atto. Che ne è di questa
sua fortuna?
Dragutin è sopravvissuto a un episodio dello
sterminio degli zingari, il Porrajmos, quando
era molto piccolo. Ora è uno dei pochi anziani (l’attesa di vita nei campi rom è molto bassa). Dunque è doppiamente un sopravvissuto. Questa sembra la sua fortuna. Dragutin
confronta la sua fama di fortunato con la sua
condizione e le vicende della sua famiglia,
che vive un momento di trasformazione in
mezzo a noi gagé. Il presente prefigura infatti il fallimento dei suoi progetti e delle sue
speranze. Davvero, allora, che ne è della sua
fortuna? Ma il protagonista del romanzo non
è solo il paradigma della condizione di un
certo gruppo umano. Dragutin, dicevo, è un
sopravvissuto, ma chi di noi non lo è? Sopravvissuto a vicende anche casuali, alla
morte dell’amico o del genitore, al tempo che
passa. Qual è il significato di questa sopravvivenza?
Dragutin è un sopravvissuto che non ha parole. Non solo perché è rom. Ma anche questo è un aspetto drammatico della condizio-
31
ne dei rom: c’è una sterminata letteratura sulla Shoah, sul Porrajmos quasi nulla, e quasi
nulla di fonte rom, di fonte diretta. Soprattutto, il sopravvissuto alla Shoah, per tanti motivi, diventa testimone, diventa profeta. Dragutin, per quanto grande sia il dramma a cui
è sopravvissuto (lo sterminio di mezzo milione di rom e sinti) non ha parole. Come forse
ognuno di noi. Solo una domanda: se questa
sopravvivenza non sia un privilegio ingiustificabile pagato con la sfortuna degli altri.
Dragutin, appunto, incarna il suo essere sopravvissuto, unico della sua famiglia all’eccidio. Eppure la sua storia gliela ricordano,
gliela raccontano gli altri. Hai creato nel libro un contrasto tra ricordo personale e storia raccontata. Quante storie vivono nel libro, e che rapporto hanno tra loro?
Quello dei rom è un popolo che vive anche
di storie. Abituati a pensare a loro come
problema sociale, trascuriamo tanti altri
aspetti. Ho passato molti anni in mezzo a
loro lavorando alla scolarizzazione dei bambini con la Comunità di Sant’Egidio. È stato un modo per entrare nelle kampine e nelle baracche, per incontrare e ascoltare.
Ascoltare soprattutto. Non diversamente da
noi, ma con mezzi più poveri, i rom cercano di capirci qualcosa in questo mondo
complicato. Il libro è anche il tentativo di far
risuonare il flusso di coscienza che coinvolge questo piccolo popolo, il gusto di chiacchierare, il racconto che si snoda tra stupore e rabbia, tra amarezza e comicità. Allora,
è vero, il libro contiene in realtà tante storie, come rivoli di quella corrente, molte di
queste raccontate, per così dire, non da me
ma dai personaggi.
Non manca la riflessione teologica tra i personaggi. Capitolo centrale è quello della festa,
per la santa protettrice, il momento della benedizione e della «vita». Quale rapporto tra
festa, Dio e la vita futura?
Si tratta in realtà di una tradizione balcanica, quella della festa di famiglia, la Krsna Slava, che però i rom di religione cristiano-or-
i servizi
marzo 2015
confronti
CULTURA
todossa hanno fatto propria. In una vita religiosa povera di manifestazioni esteriori, è un
momento centrale. Si carica anche di significati sociali: è il giorno della convocazione di
tutte le relazioni attorno a quella famiglia e
anche il coagulo delle tensioni e delle prospettive. Ma è anche il momento della centralità di Dio e quindi delle domande sulla vita, sulla morte, sul futuro, sulla fortuna. Per
questo è tanto più doloroso per Dragutin avvertire le crepe nella tenuta della sua famiglia. La festa è anche il perpetuarsi attraverso le generazioni di un legame con l’Oltre,
con l’Eterno. Per questo la festa è l’occasione,
come dicevo, per le domande, che sono un
altro aspetto del libro, in cui ci ritroviamo,
noi e i rom, così vicini.
Ulteriore elemento di fondo del libro è il contrasto tra generazioni. Quelle giovani lottano
contro le tradizioni per «fare a modo loro». È
segno di speranza o di peggioramento?
Nel mondo contemporaneo, ogni generazione, in ogni contesto sociale e culturale, ha
con la precedente un rapporto complesso.
Ogni generazione compie un pezzo di strada
in più. Ma per andare dove? Questo è il punto. Noi stessi ci troviamo a dubitare ormai di
un’idea del progresso inarrestabile dell’umanità verso il meglio. Per i giovani rom il presente è particolarmente frustrante: è una terra di nessuno, un’attesa quasi senza oggetto,
né integrazione né possibilità di essere se
stessi. In una società che sembra accettare
tutte le diversità, le trasgressioni, i rom sono
diversi ma non sono accettati. I giovani finiscono per essere in conflitto con il loro ambiente oltre che con il nostro. Qui c’è anche
la nostra responsabilità collettiva e la responsabilità della politica. Forse non è questa la
sede per parlare di questi problemi, che pure il romanzo evoca. Dico solo che un popolo di giovani e di bambini potrebbe cambiare molto, attraverso la scuola, attraverso un
serio avviamento al lavoro. Stiamo parlando
di 70-80mila persone nei campi italiani, di
cui la metà sono minori. Chiusa la parentesi,
mi pare che si profilino nel mondo dei rom
aspettative e speranze, incarnate soprattutto
dai giovani, di maggiore inserimento, soprattutto di superamento di quelle contraddizioni del loro mondo, che non è facile affrontare seriamente finché la situazione è così
polarizzata e ostile nei loro confronti. Se i
giovani rom non trovano nella nostra società
«Per i giovani rom il
presente è
particolarmente
frustrante: è una terra
di nessuno, un’attesa
quasi senza oggetto, né
integrazione né
possibilità di essere se
stessi. In una società
che sembra accettare
tutte le diversità, le
trasgressioni, i rom
sono diversi ma non
sono accettati. I giovani
finiscono per essere in
conflitto con il loro
ambiente oltre che con
il nostro. Qui c’è anche
la nostra responsabilità
collettiva e la
responsabilità della
politica».
una sponda al loro desiderio di una vita meno precaria (vogliamo dire più normale?),
sarà sempre impossibile per loro essere, appunto, normali.
Perché è importante per lei aver scritto un libro sui rom?
Quello dei rom in mezzo a noi è un tema sul
quale non si riesce a ragionare con la testa
lucida. Mi ha sempre colpito come il tema
fosse assente anche dall’orizzonte della sinistra, se si esclude qualche eccezione, e come le prassi delle diverse amministrazioni
fossero sempre le stesse: campi sosta (ma
sono nomadi davvero, i rom?) e sgomberi.
Nient’altro. Per le chiese è diverso, mi pare.
Ma anche qui si tratta di esperienze di punta. Potrebbe contribuire la letteratura a suggerire un punto di vista diverso? Potrebbe
cioè la finzione (perché di questo si tratta)
dire qualcosa di umano su coloro di cui non
si riesce a dire altro che male? Io non pretendo di dire chi sono davvero i rom, oltre
il pregiudizio, oltre le nostre rappresentazioni, buone o cattive che siano. Oltre le loro rappresentazioni. Un racconto dice una
cosa, alcune cose, dell’oggetto di cui parla.
Questa cosa è vera, come è vera una fotografia, che coglie un’espressione, un momento particolare, un taglio di luce. La verità poi è fatta di tante verità, anche in contraddizione tra loro, ma che non debbono
essere considerate come contrapposte ma
semmai complementari. La realtà è sempre
complessa. So bene che nei campi c’è altro,
oltre quello che ho raccontato, e c’è anche
altro che io non so. Ma ho cercato solo di
raccontare quello che appare quando ci si
trova tra i rom, fuori dai ruoli definiti di
zingari e gagé.
Insomma, il contrario della verità è la menzogna non la finzione. La finzione non è invece un modo per dire una verità che altrimenti non si può dire? D’altra parte, ciascuno costruisce la sua identità: cioè ogni individuo si crea dei personaggi, di cui riveste i
panni a seconda delle circostanze. Ovvero
glieli cuciono addosso gli altri. È il problema
dei rom in mezzo a noi. È il problema di Dragutin: sono gli altri a dirgli chi è. Dragutin, il
fortunato. Dragutin, il furbo... Alla fine, la
maschera rivela, non nasconde, qualcosa della persona: i suoi dolori e le sue passioni.
intervista a cura di Claudio Paravati
32
marzo 2015 • le notizie
n o t i z i e
AMBIENTE
Polveri e ozono fuori controllo in
Italia: la denuncia di Legambiente nel rapporto «Mal’aria 2015».
Legambiente chiede un
piano urgente di intervento
per la riduzione dell’inquinamento nei capoluoghi italiani, lo ha fatto in occasione della presentazione dei
dati sull’inquinamento atmosferico «Mal’aria 2015».
Si registra un miglioramento dell’inquinamento atmosferico nelle nostre città e
una riduzione nelle emissioni di alcuni inquinanti negli
ultimi anni, ma i livelli di
esposizione dei cittadini rimangono ben oltre le soglie
consentite.
La cattiva qualità dell’aria
nelle aree urbane è alla base
di una procedura d’infrazione relativa alla mancata applicazione della direttiva
2008/50/CE aperta nel luglio
scorso. La direttiva attua una
revisione della legislazione
europea con lo scopo di ridurre l’inquinamento per limitare gli effetti nocivi per la
salute umana e per l’ambiente. L’Italia era già stata condannata tre anni fa per il superamento di PM10 (tutte le
particelle che hanno un diametro uguale o inferiore a 10
micron) per il periodo 20062007 in 55 diverse zone ed
agglomerati italiani; di queste, 13 continuano a superare costantemente i limiti per
il PM10 anche nel periodo
2008-2012 e si ritrovano di
nuovo sotto indagine insieme ad altre 6 nuove zone.
Gli impatti dell’inquinamento atmosferico si trasformano in morti premature e costi sanitari, a conferma di questo la recente decisione dello Iarc (l’Agenzia
DIRITTI UMANI
internazionale di ricerca sul
cancro) di inserire l’esposizione all’inquinamento dell’aria, e in particolare ad elevati livelli di particolato atmosferico, come cancerogeno di gruppo 1.
Nella classifica diffusa troviamo nell’ordine Frosinone,
Alessandria, Vicenza e Torino. Degli 88 capoluoghi monitorati quelli che hanno registrato superamenti del limite (35 giorni) sono stati il
37%: Frosinone lo supera di
tre volte, Alessandria di due
volte e mezza, Benevento,
Vicenza, Torino, Lodi e Cremona sono oltre il doppio
dei giorni consentiti. In Veneto la situazione più preoccupante per il PM10 (il 92%
delle centraline supera il limite, esclusa Belluno), segue
la Lombardia (68%), il Piemonte (50%), la Campania
(44%).
In Europa, secondo i dati
«Rapporto sulla qualità dell’aria 2014» redatto dell’Agenzia europea per l’ambiente, il nostro è il Paese
con il più alto numero di
morti premature dovute all’inquinamento da ozono:
con circa 3.400 vittime all’anno (dato relativo al 2011)
precede la Germania, la
Francia e la Spagna.
«È quanto mai evidente –
ha dichiarato il responsabile
scientifico di Legambiente
Giorgio Zampetti – la necessità di un urgente e decisivo
piano di intervento che vada
finalmente ad incidere sulle
politiche relative alle fonti di
inquinamento più volte annunciato ma ancora mai attivato a livello nazionale. Le
cause si conoscono e le soluzioni ci sono, occorrono la
volontà politica e gli strumenti per metterle in campo». Cristina Zanazzo
Celebrata la Giornata contro le
mutilazioni genitali femminili:
sono130 milioni, nel mondo, le
bambine e le donne vittime di
questa pratica.
Le mutilazioni genitali femminili (Mgf) violano i diritti
umani e minacciano la salute e il benessere di circa 3
milioni di ragazze ogni anno.
Sono più di 130 milioni le
bambine e le donne mutilate, soprattutto in Africa e
Medio Oriente dove la pratica è più diffusa. I dati sono
stati resi noti in occasione
della Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili, il 6 febbraio,
da Unicef, Unfpa, Confederation of midwives e International federation of gynecology and obstetrics. Queste organizzazioni hanno
chiesto per le Mgf tolleranza
zero, e la mobilitazione degli
operatori sanitari. Proprio
loro sono stati identificati
come i soggetti che possono
accelerare il processo di abbandono di questa pratica,
grazie al rapporto di fiducia
che instaurano con le pazienti, ma soprattutto perché conoscono le conseguenze e le complicazioni
che le Mgf provocano (talvolta sono anche causa di
morte) e le terribili conseguenze del trauma subito
nelle giovani donne.
Preoccupa la tendenza, in
numerosi paesi, alla «medicalizzazione» delle Mgf. Tre
quarti degli interventi vengono effettuati da operatori
sanitari, contravvenendo al
precetto fondamentale della disciplina medica: non
procurare del male. Per sostenere gli operatori sanitari, le organizzazioni promo-
33
trici si impegnano a fornire
il proprio appoggio a tutte le
iniziative tese a fornire le
competenze e le informazioni di cui essi hanno bisogno
per accelerare l’abbandono
delle Mgf e per curare le
complicazioni causate da
questa pratica.
Il Parlamento europeo stima che nell’Ue siano 500mila le donne che convivono
con la Mgf e 180mila coloro
che rischiano annualmente
di esserne sottoposte. Per
questo motivo l’Aidos (Associazione italiana donne
per lo sviluppo) insieme al
Gruppo di lavoro parlamentare «Salute globale e diritti
delle donne» ha richiamato
l’attenzione sulla necessità di
gestire il fenomeno con risorse economiche, infatti è
dal 2012 che la legge sulla
prevenzione e sul divieto
delle pratiche di mutilazione
genitale femminile non viene rifinanziata. Una legge
che – come ha spiegato Pia
Locatelli, coordinatrice del
Gruppo e di Aidos – prevede uno stanziamento di 5
milioni di euro l’anno per attività di prevenzione e formazione nel nostro paese.
Cristina Zanazzo
IMMIGRAZIONE
La comunità marocchina in Italia
conta oggi 500mila persone, presenti soprattutto nel nord del
paese. Seconda per numero, dopo quella rumena, è però al primo posto per numero di imprenditori stranieri presenti nel nostro Paese.
Con più di mezzo milione
di presenze, i marocchini costituiscono in Italia la seconda comunità di immigrati
più numerosa dopo la rome-
marzo 2015 • le notizie
na. Dalle sole 1.001 unità del
1981, si è passati alle 407.097
del 2011, concentrate maggiormente nelle regioni del
Nord: Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto.
Al primo posto tra gli imprenditori stranieri, più del
70% delle imprese marocchine, fiorite soprattutto tra il
1998 e il 2002, si occupa di
commercio. Seguono l’edilizia, il settore manufatturiero, i trasporti e i servizi professionali.
L’Italia ha iniziato ad essere
meta di immigrazione a partire dagli anni ‘70, data la legislazione più flessibile, i redditi più elevati e le maggiori
possibilità di lavoro rispetto
agli altri paesi europei. I primi marocchini arrivati, provenienti dalle campagne e
spinti dalle disgrazie causate
dalla siccità e dai debiti nel
proprio paese, senza delle vere qualifiche, svolsero le attività di venditori ambulanti,
lavavetri e braccianti.
Negli anni ‘80 invece l’immigrazione inizia ad interessare anche le città. Gli artigiani e i disoccupati delle
fabbriche e delle miniere di
fosfati, di età più giovane rispetto ai loro predecessori, si
sono inseriti non solo nell’agricoltura ma anche nella
piccola edilizia, nell’industria e ovunque ci fosse bisogno di manodopera. Questa
fase di consolidamento ha
visto l’arrivo anche di alcuni
studenti universitari.
Gli anni ‘90 rappresentano
la fase del ricongiungimento
familiare, con l’arrivo delle
donne e dei bambini. Dal
2000, nonostante la sempre
crescente tendenza all’insediamento stabile (tramite, ad
esempio, l’acquisto di beni
immobili), si sta vivendo un
momento più problematico
causato non solo dalla crisi
economica, a cui gli stranieri sono più soggetti, ma anche dall’atteggiamento restio
degli italiani ad accettare la
presenza permanente dei
migranti.
necessariamente svizzeri ma
anche stranieri che vivono
stabilmente in Ticino. È una
questione innanzitutto di
equilibrio (...) ma anche di
trasparenza: il negozio o l’azienda espone il logo e si assume il rischio, il cliente
può fare la sua scelta. Non
sta avvenendo la stessa cosa
in Italia con i prodotti doc o
la concorrenza sleale dei cinesi?».
La volontà elvetica di porre
un tetto all’arrivo di immigrati e lavoratori stranieri,
stabilito dal referendum di
un anno fa contro la libera
circolazione in vigore con
l’Ue, è anche al centro degli
incontri tra i presidenti della Confederazione elvetica e
della Commissione europea,
perché si scontra con i trattati internazionali firmati a
Bruxelles. Monica Di Pietro
La comunità marocchina in
Italia è comunque attiva e
prospera e i ricongiungimenti, i matrimoni e le richieste di cittadinanza indicano la propensione ad una
crescita ulteriore. Come tutti gli stranieri, i marocchini
dovrebbero essere considerati una risorsa, e il loro inserimento nella società italiana può produrre degli effetti ancor più positivi di
quanto fatto fin’ora; in particolar modo per quanto riguarda i giovani delle seconde generazioni, che sentono
di avere una doppia appartenenza culturale e che hanno
dato vita a nuove identità
originali. Monica Di Pietro
Quando gli immigrati siamo noi
(e non ci vogliono più). Un paese
della Svizzera «italiana» ha lanciato una campagna per scoraggiare l’assunzione di lavoratori
provenienti dall’Italia.
SOCIETÀ
Claro, un comune svizzero
di 2.700 anime vicino Bellinzona (Canton Ticino), a circa 60 chilometri dal confine
italiano, ha avviato una campagna per incoraggiare, da
parte delle aziende, l’assunzione di personale residente
in Svizzera a scapito dei dipendenti provenienti dall’Italia. Tali imprese, riunite in
una sorta di «white list»,
avranno anche un logo da
esporre con la scritta «noi
impieghiamo personale residente».
«Da quando il numero dei
frontalieri è esploso, sono
nate storture nel mercato
del lavoro», ha affermato il
sindaco Keller. Nell’ultimo
decennio infatti il mercato
del lavoro in Canton Ticino
si sta trasformando. Nel
2014 sono più di 60mila i
pendolari italiani che varcano la frontiera, che accettano un salario più basso degli
elvetici del 15-20% e che occupano un quarto dei posti
di lavoro.
«L’appello è ad assumere
residenti, che non significa
Nel rione Sanità di Napoli, una
cooperativa di giovani si occupa
con impegno e passione di numerose attività culturali.
Il Rione Sanità a Napoli
non gode di buona fama, anche se si chiama così perché
anticamente era più «salubre» rispetto alla città bassa,
lungo il porto. Oggi però nel
Rione Sanità si sta sviluppando un’esperienza condotta da un gruppo di giovani che ha già cambiato i connotati di questa zona di Napoli. Si tratta della cooperativa che gestisce la Casa del
Monacone, un piccolo B&B
che ha provveduto a ristrutturare all’interno del convento annesso alla Basilica di
Santa Maria della Salute.
Inoltre, sempre questo stesso gruppo è impegnato nelle
visite delle Catacombe di
San Gaudioso e di San Gennaro; gli accompagnatori
spiegano che hanno anche
collaborato nel lavoro di ripristino degli spazi sotterranei, inagibili dopo molti an-
34
ni di abbandono; oggi con
precisione e competenza
spiegano ai visitatori la storia di questi antichi luoghi
della città.
Sono tutti giovani che provengono dallo stesso Rione
Sanità e svolgono questo lavoro con impegno e passione, consapevoli delle ricadute che si potranno avere per
uno sviluppo futuro sia del
rione che di tutta la zona limitrofa, e anche sull’immagine di Napoli. Buon lavoro
ragazzi! Anna Maria Marlia
MEDIA
La classifica di Reporters sans
frontières sulla libertà di stampa
in 180 paesi del mondo vede l’Italia precipitare al 73° posto.
Come ogni anno, la Classifica mondiale della libertà di
stampa di Reporters sans
frontières vede al vertice i
paesi del nord Europa. Si
conferma in testa – per la
quinta volta consecutiva – la
Finlandia, seguita quest’anno da Norvegia, Danimarca
e Olanda. L’anno scorso l’Olanda era seconda, seguita da
Norvegia e Lussemburgo.
Spostamenti non eclatanti,
quindi, ma nella «top ten»
sono da registrare il balzo in
avanti del Canada (dal 18°
all’8° posto) e della Giamaica
(dal 17° al 9°), ma anche le
clamorose retrocessioni dell’Islanda (dall’8° al 21°), del
Liechtenstein (dal 6° al 27°) e
di Andorra, dal 5° al 32°.
Per quanto riguarda il nostro paese, precipitiamo dal
già non molto onorevole 49°
posto ad un ancor più drammatico 73° posto: una perdita di ben 24 punti. Quando
al governo c’era Berlusconi,
i media – quelli non direttamente dipendenti dal presidente del Consiglio – tendevano a enfatizzare molto i risultati negativi dell’Italia nelle classifiche sulla libertà di
stampa, mentre il record negativo di quest’anno sembra
marzo 2015 • le notizie
non aver fatto molto scalpore: se ne è parlato, certo, ma
meno rispetto al passato.
Chiudono la classifica gli
stessi stati dell’anno scorso:
Cina, Siria, Turkmenistan,
Corea del Nord ed Eritrea.
Come sottolinea Reporters
sans frontières, l’intensità
degli attentati alla libertà
dell’informazione nel mondo ha subito un aumento
dell’8% rispetto all’anno precedente e la responsabilità di
questo aumento è soprattutto dell’Europa. A livello
mondiale, la causa principale del peggioramento è l’aumento dei conflitti: i mass
media diventano obiettivi
strategici e vengono utilizzati per la propaganda o ridotti al silenzio, secondo i casi.
Molti regimi poi, per censurare le critiche, utilizzano
la scusa della protezione del
sacro. In quasi la metà dei
paesi, infatti, il reato di blasfemia mette seriamente in
pericolo la libertà d’informazione e diventa un ulteriore
strumento – accanto a quello di «attentato alla sicurezza nazionale», concetto
estendibile a piacimento da
chi detiene il potere – per
intimidire i giornalisti. I due
stati più intransigenti in materia di blasfemia sono l’Iran
(al 173° posto della classifica)
e l’Arabia Saudita (al 164°).
Altro problema messo in
evidenza da Reporters sans
frontières è la difficoltà crescente nel dare copertura
informativa alle manifestazioni: si sono infatti intensificate le violenze nei confronti dei giornalisti che hanno il compito di seguirle: insulti, minacce e aggressioni si
verificano in molti paesi. In
alcuni casi i giornalisti sono
solo «vittime collaterali» di
scontri fra manifestanti e
forze dell’ordine, ma a volte
sono presi a bersaglio direttamente dagli uni o dagli altri. Questo è accaduto, per
esempio, in Turchia (al 149°
posto della classifica), in
Ucraina (al 129°), in Egitto
etnica della Palestina (pubblicato in Italia da Fazi, nel
2008). Secondo lo storico,
ben prima della spartizione
della Palestina del Mandato
britannico, decisa dalle Nazioni Unite nel 1947, e della
nascita di Israele nel ’48, David Ben Gurion – che diverrà poi presidente del suo
paese – già aveva programmato in modo sistematico
un piano di «pulizia etnica»
a danno degli arabi. All’origine di Israele, ha sottolineato Pappé, vi è l’idea di un
singolare colonialismo che
ha portato gli ebrei provenienti dal di fuori a sentirsi
autorizzati a sloggiare i palestinesi abitanti da secoli in
quella terra, per insediarsi al
loro posto. Venendo poi all’attualità, lo storico ha sostenuto che una equa soluzione del conflitto israelopalestinese – che garantisca
Israele ma anche la Palestina
– avrebbe enormi e positive
conseguenze. In merito, in
un’intervista a il manifesto
(18 febbraio) ha precisato:
«Se il conflitto israelo-palestinese venisse risolto in modo giusto, il Medio Oriente
cambierebbe faccia. L’occupazione della Palestina è una
delle principali giustificazioni per chi ha simpatie islamiste [per l’Isis], perché è il
simbolo del doppio standard
che l’Occidente applica a chi
viola i diritti umani fondamentali».
Ovadia, da parte sua, ha
energicamente protestato
contro chi ha impedito a
Pappé di parlare all’università di Roma-Tre, e rilevato
che la censura avvenuta
(contro la quale ha proposto di informare il presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella) «non serve a
nessuno». Molto più utile
(dato che le tesi dello storico sono contestate da altri
storici) sarebbe stato, e sarebbe – ha concluso – un
aperto confronto tra opinioni anche frontalmente
diverse. L. S.
(158°) e nello Yemen (168°),
ma anche in Thailandia
(134°), dove alcuni giornalisti
sono stati aggrediti dalla folla che li considerava troppo
filo-governativi. Michele Lipori
MEDIO ORIENTE
La presenza ad un convegno di
Ilan Pappé (storico israeliano non
conformista), e poi di Moni Ovadia, è stata probabilmente la
motivazione che ha spinto il rettore dell’università di Roma-Tre a
negare una sala, prima concessa.
Il convegno si è svolto dunque in
altra sede. Le tesi sul sionismo e
sul conflitto israelo-palestinese,
emerse nel dibattito.
Un convegno all’università
di Roma-Tre, che prevedeva
la partecipazione – tra altri
oratori – di due ebrei scomodi per chi sostiene le tesi
del governo israeliano sul
sionismo e sulla questione
palestinese, non ha più potuto tenersi nel luogo previsto,
ed è stato costretto, all’ultimo momento, a trovare
un’altra sistemazione. Le
due personalità scomode
erano Ilan Pappé – storico
israeliano, molto inviso all’establishment del suo paese,
un tempo docente all’università di Haifa ed ora in
Gran Bretagna – e Moni
Ovadia. Lunedì 16 febbraio,
aprendo al Centro congressi
di via dei Frentani l’incontro
dedicato a «Europa e Medio
Oriente oltre gli identitarismi», gli organizzatori hanno espresso il «sospetto» che
a spingere il rettore dell’università romana a negare il
permesso, prima concesso,
siano state pressioni dell’ambasciata israeliana e della dirigenza della comunità
ebraica romana.
Dopo altri interventi – tra
essi quello dell’ex vicepresidente del Parlamento europeo, Luisa Morgantini – ha
preso la parola Pappé che,
nella sostanza, ha ripreso le
tesi del suo libro La pulizia
35
PLURALISMO
Al Senato un convegno sul tema
«Dai culti ammessi alla libertà religiosa». Ribadita l’importanza
dell’approvazione di una legge in
materia.
Il 16 e 17 febbraio scorso si
è tenuto al Senato il convegno «Dai culti ammessi alla
libertà religiosa», dedicato al
giurista Gianni Long e promosso dalla Federazione
delle chiese evangeliche in
Italia (Fcei) in collaborazione con la Commissione delle chiese evangeliche per i
rapporti con lo Stato
(Ccers). Nella prima sessione, «Il ruolo e i diritti delle
comunità di fede nella società laica», Silvio Ferrari,
Alberto Melloni, Biagio De
Giovanni e Paolo Naso hanno evidenziato come il nuovo pluralismo religioso che
caratterizza l’Italia renda
non più rimandabile una
nuova legge sulla libertà religiosa.
La sessione del 17 si è aperta con «Le politiche degli
Stati europei in materia di libertà religiosa. Specificità e
percorsi comuni». Roberto
Mazzola ha presentato un
quadro della situazione europea, mentre Michel Heining, dell’Università di Göttingen, si è soffermato sul
modello tedesco e Miguel
Rodriguez Blanco, dell’Università di Alcalà, su quello
spagnolo. Marco Ventura,
Sara Domianello e Francesco Margiotta Broglio hanno
risposto positivamente alla
domanda: «Un diritto europeo delle religioni?».
Nel suo saluto anche il presidente del Senato Pietro
Grasso ha ribadito la necessità di una nuova legge che
superi la legislazione dei
«culti ammessi» del 192930. Poi, dopo l’intervento di
Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, sul tema «Pluralismo e libertà religiosa in Italia. Il contributo
della Chiesa cattolica», Ti-
marzo 2015 • le notizie
ziano Rimoldi e Alberto Fossati si sono soffermati su alcune criticità della libertà religiosa in Italia, soprattutto
in relazione all’edilizia per il
culto e all’attività dei ministri di culto. Infine Alessandro Ferrari e Roberto Zaccaria hanno illustrato i progressi dell’elaborazione curata da un gruppo di giuristi
di un testo di una proposta
di legge in materia di libertà
religiosa. La tavola rotonda
«Una legge per la libertà religiosa? Quale? Quando?»
presieduta da Valdo Spini,
con esponenti politici – Lucio Malan (Forza Italia), Andrea Mazziotti (Scelta civica), Alberto Airola (M5s) e
Micaela Campana (Pd) – ha
chiuso il convegno, auspicando che si arrivi quanto
prima a questa legge. Antonio
Delrio
ECUMENISMO
Il patriarcato copto d’Alessandria
d’Egitto e quello etiopico, che
hanno rafforzato i loro rapporti,
un tempo turbolenti, intendono
mediare tra il governo del Cairo e
quello di Addis Abeba a proposito di una diga sul Nilo Azzurro, in
Etiopia, che al-Sisi non tollera, e
che potrebbe dunque innescare
uno scontro armato.
Dall’ecumenismo alla mediazione per la pace. Si potrebbe forse sintetizzare così il senso della visita che il
patriarca della Chiesa ortodossa Tehawedo d’Etiopia,
l’abuna Mathias, ha compiuto a metà gennaio al patriarca copto d’Alessandria,
e residente al Cairo, Tawadros II. L’incontro è stato
cordiale e, a quanto pare, foriero di ulteriori e rafforzati
rapporti tra le due Chiese. Il
che non era scontato: infatti,
la Chiesa etiope è «figlia» di
quella d’Alessandria, che si
vanta di essere stata fondata dall’apostolo Marco; per
tali motivi, fino a metà Novecento la parola decisiva
be un enorme potenziale
idroelettrico (seimila megawatt). Ma l’Egitto – governato fino al luglio 2013 da
Muhammed Morsi, e poi da
Abdel-Fattah al-Sisi – riteneva, e ritiene, di non poter
perdere «nemmeno una
goccia» del 95% delle acque
del Nilo che attualmente
sfrutta. È in tale complicato
contesto economico, giuridico e geopolitico che i due
patriarchi copti hanno offerto i loro buoni uffici per una
«mediazione» – certamente
inusuale – tra Il Cairo ed
Addis Abeba. Dirà il tempo
se essa andrà a buon fine, e
se le minacce di una possibile «guerra per il Nilo» svaniranno. Luigi Sandri
per l’elezione dell’abuna era
del patriarca alessandrino.
Questa situazione era però
diventata sempre meno tollerabile per la Chiesa etiopica che, infine, nel 1959 ha
ottenuto l’autocefalia.
Ma, a parte le questioni ecclesiali da essi ora affrontate,
con un dialogo costruttivo, i
due patriarchi hanno riflettuto su un problema geopolitico che, direttamente, non
tocca affatto le due Chiese, e
tuttavia molto ha a che fare
con la pace dei loro popoli:
le conseguenze di un contestato sbarramento, in Etiopia, del Nilo Azzurro. Il governo di Addis Abeba ha infatti deciso la costruzione di
una gigantesca diga, affidando l’impresa all’italiana Salini Costruttori, che ha iniziato i lavori nel maggio del
2013; una volta terminata,
essa sarebbe la più grande
diga dell’Africa. L’Egitto
però teme che il previsto
sbarramento gli tolga una
parte del limo, essenziale per
le coltivazioni egiziane, e risorse idriche indispensabili:
quelle che da millenni assicurano la fertilità delle terre
confinanti con il fiume. Perciò, al fine di evitare quella
che ritengono una catastrofe, ambienti militari egiziani
hanno minacciato perfino di
bombardare la diga.
Nove sono i paesi rivieraschi del Nilo, le cui sorgenti,
dei diversi rami, si addentrano molto nell’Africa, lambendo l’Equatore; ma i principali «beneficiari» del fiume
sono l’Etiopia, il Sudan e l’Egitto. La spartizione delle acque nilotiche è legata, in
parte, ad accordi stipulati
quando molti di quei paesi
erano possedimenti coloniali, in particolare inglesi. Recenti tentativi di aggiornare
quei patti non hanno soddisfatto le divergenti rivendicazioni; da parte sua l’Etiopia ritiene decisiva, per la
sua economia, la costruzione della «Grande Diga della
rinascita» che le garantireb-
Libby Lane è la prima donna-vescovo della Chiesa d’Inghilterra,
ordinata in gennaio. L’evento, per
quanto atteso, ha provocato
qualche contestazione da parte
di chi ritiene contraria alla Bibbia
quella scelta, alla quale però la
grande maggioranza degli anglicani è favorevole. Il gelo della
Chiesa cattolica romana.
Dopo anni di dibattiti assai
accalorati, infine il Sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra nel luglio 2014 aveva
approvato in linea di principio la possibilità della donnavescovo, e la decisione, diventata potenzialmente operativa a novembre, è stata infine attuata il 26 gennaio: l’arcivescovo di York, John Sentamu, ha ordinato vescovo di
Stockport la pastora Libby
Lane, sposata. Durante la solenne cerimonia nella cattedrale affollata, Paul Williamson – un esponente della minoranza anglicana ostile alla
donna-vescovo – ha gridato:
«La Bibbia vieta questa scelta!». La contestazione ha
creato un certo trambusto,
ma poi la cerimonia è proseguita tranquillamente.
Dopo che da qualche decennio era ammessa la donna-pastora, alcune «province» – Chiese nazionali angli-
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cane, in comunione con il
primate, l’arcivescovo di
Canterbury – decisero di
ammettere la donna-vescovo: si iniziò nel 1989 negli
Stati Uniti, seguirono poi
Canada, Australia e altre.
Nella Chiesa d’Inghilterra le
prime donne-pastore si ebbero nel 1994; e, prima di arrivare alla donna-vescovo sono trascorsi due decenni, carichi di polemiche. Una minoranza di anglicani inglesi –
vescovi, clero e laici – si sono
opposti all’ipotesi, ritenendola contraria alla Bibbia; e ancor più hanno contrastato le
unioni omosessuali, anch’esse ammesse da molte Chiese
anglicane del Nord. Opponendosi alle due «novità»,
primati delle Chiese anglicane africane (in Kenya, Uganda, Nigeria...), e alcuni piccoli gruppi nordamericani, si
sono posti di fatto in stato di
scisma, rispetto a Canterbury. Una parte di questi fedeli – circa cinquemila, nell’insieme – hanno addirittura abbandonato la Chiesamadre, passando al cattolicesimo; per accoglierli, papa
Ratzinger nel 2009 ha creato
degli appositi ordinariati personali (specie di diocesi, attualmente tre: negli Usa, in
Gran Bretagna e in Australia). Una decisione che ha lasciato assai perplesso il mondo ecumenico.
Il Vaticano non ha ufficialmente commentato l’ordinazione di Libby Lane, ma essa, che apre un cammino irreversibile (al momento, la
Chiesa d’Inghilterra ha 7.798
pastori, di cui 1.781 donne;
si prevede che, in proporzione, identico sarà tra qualche
anno il rapporto nell’episcopato, oggi composto da 101
uomini e una donna), mette
in grande imbarazzo la
Chiesa romana, la cui dottrina ufficiale, ribadita da Paolo VI e, con più durezza, da
papa Wojtyla, è assolutamente contraria all’ordinazione sacerdotale (ed episcopale) delle donne. Luigi Sandri
marzo 2015 • le notizie
ECONOMIA
Partita anche in Italia la campagna di raccolta firme contro il Trattato transatlantico tra Unione europea e Stati Uniti. Obiettivo:
50mila firme entro il 18 aprile.
Il Trattato transatlantico
tra Unione europea e Stati
Uniti (Ttip) prevede l’apertura della più grande area di
libero scambio mai conosciuta prima e a giudizio degli oppositori finirebbe per
sottomettere regole e leggi
agli interessi delle grandi imprese. Il negoziato è stato
portato avanti nella discrezione più assoluta, finché finalmente i movimenti e le
associazioni che si battono
per un’economia più equa
sono riuscite ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica – in realtà, almeno per
il momento, solo della parte
più sensibile a questi temi –
su un trattato che rischia di
rimettere in discussione
standard e normative ambientali e sociali viste spesso
come «impedimenti tecnici
al libero commercio». Investimenti e commercio
avranno la precedenza sull’interesse pubblico e i parlamenti non avranno la possibilità di opporsi. «Il meccanismo proposto è un pericolosissimo precedente – sottolinea Marco Bersani, di
Attac e tra i promotori della
Campagna Stop Ttip Italia –
che rischia di indebolire ulteriormente i poteri pubblici davanti alle pretese delle
lobby economiche».
Per Monica Di Sisto, di
Fairwatch, «il Ttip rischia di
essere un ulteriore grimaldello che può disarticolare le
filiere produttive dell’agricoltura familiare, piccola e
media, liberalizzando un
mercato come quello agroalimentare dove le aziende
più legate al territorio e alla
qualità chiudono una dopo
l’altra, sembrano non avere
vie d’uscita».
La raccolta di firme a livello europeo ha raggiunto ormai il milione e mezzo di
adesioni. Una prima parte è
già stata consegnata al presidente della Commissione
europea Juncker. L’obiettivo
è arrivare a due milioni entro ottobre. Per quanto ri-
guarda l’Italia, si punta a raccogliere 50mila firme entro
il 18 aprile. A mobilitarsi sono più di 140 organizzazioni
e una quarantina tra comitati e contatti locali nei vari
territori. Per firmare la petizione online: https://stopttip.org/firma/. In alternativa, si può firmare e far firmare la petizione cartacea
scaricando i moduli per la
raccolta firme dal sito della
campagna alla sezione «materiali» (http://stop-ttip-italia.net/i-materiali/) ed inviarli compilati all’associazione A Sud (piazzale del
Giardino Zoologico, 2 00197 Roma). Per ulteriori
informazioni: [email protected]. Michele Lipori
EUTANASIA
«Liberi fino alla fine»: i promotori della campagna per l’eutanasia
legale tornano a chiedere al Parlamento di discutere la legge di
iniziativa popolare su rifiuto dei
trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia.
«Ammalarsi fa parte della
vita. Come guarire, morire,
nascere, invecchiare, amare.
Le buone leggi servono alla
vita: per impedire che siano
altri a decidere per noi, in
nome di Stati o religioni; per
garantire libertà e responsabilità alle nostre scelte,
drammatiche e felici. Fino alla fine». Con queste parole, i
promotori della campagna
per l’eutanasia legale chiedono che il Parlamento discuta
la legge di iniziativa popolare su rifiuto dei trattamenti
sanitari e liceità dell’eutanasia che giace alla Camera dal
settembre 2013 con le firme
di oltre 67mila cittadini. Ne
aveva scritto su queste pagine (vedi Confronti luglioagosto 2014) Mina Welby,
vedova di Piergiorgio Welby,
il cui caso alla fine del 2006
aveva fatto molto discutere.
Gravemente ammalato, chiedeva che le sue cure fossero
37
interrotte e scrisse una lettera all’allora presidente della
Repubblica Napolitano, il
quale rispose auspicando che
«il Parlamento avvii un confronto di idee il più possibile pacato e approfondito sulle scelte di fine vita».
Sul sito www.eutanasiale
gale.it sono state raccolte altre 100mila adesioni all’iniziativa: #LiberiFinoAllaFine
è l’hashtag della campagna
su Twitter.
A febbraio Marco Cappato,
promotore della campagna e
tesoriere dell’associazione
Luca Coscioni per la libertà
di ricerca scientifica, è tornato a rivolgersi ai deputati
delle Commissioni Giustizia
e Affari sociali per chiedere
ai propri presidenti di inserire all’Ordine del giorno la
proposta di legge di iniziativa popolare. «Malgrado l’articolo 71 della Costituzione
preveda che “il popolo esercita l’iniziativa delle leggi”,
quel documento non è mai
stato messo in discussione.
Neanche in Commissione»,
ricorda Cappato, che nella
sua lettera cita le parole di
Napolitano: «Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione
o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».
A sostegno della campagna,
numerosi malati, medici, infermieri e personalità della
cultura e della politica hanno rivolto ai parlamentari il
video-appello «Il Parlamento si faccia vivo», per chiedere la discussione della proposta di legge. La legge prevede che «ogni cittadino può
rifiutare l’inizio o la prosecuzione di trattamenti sanitari,
nonché ogni tipo di trattamento di sostegno vitale e/o
terapia nutrizionale. Il personale medico e sanitario è
tenuto a rispettare la volontà
del paziente». Si richiede solo che il paziente sia maggiorenne, sia capace di intendere e di volere e manifesti la
volontà in modo inequivocabile. Michele Lipori
marzo 2015
le rubriche
confronti
DIARIO AFRICANO
Enzo Nucci
Quando, nel luglio 2011,
il Sud Sudan ottenne
l’indipendenza dal
Sudan, le storiche
rivalità tra le etnie
dinka (a cui appartiene
il presidente Salva Kiir)
e nuer (dell’ex
vicepresidente Riek
Machar) sembravano
accantonate. Ma nel
dicembre 2013 sono
ripresi gli scontri e da
allora ogni speranza di
tregua viene subito
disattesa. Le Nazioni
Unite hanno lanciato un
appello per aiutare i sud
sudanesi minacciati da
carestia e guerra, che in
breve tempo
potrebbero diventare
quattro milioni: un
terzo della popolazione
complessiva.
In Sud Sudan è ormai
catastrofe umanitaria
a quando, nel dicembre 2013, in Sud
Sudan si è riacceso il conflitto armato, hanno sottoscritto ben sette accordi di cessate il fuoco, tutti puntualmente violati nelle ore successive alla loro entrata in vigore. Il presidente Salva Kiir e
l’ex vicepresidente Riek Machar ci hanno insegnato che cosa significa «scrivere intese
sull’acqua e cementarle sulla sabbia». L’ultima in ordine di tempo è del primo febbraio.
Ma dopo 9 giorni gli uomini di Riek Machar
hanno bombardato le postazioni governative nella città petrolifera di Bentiu, dove
53mila civili sono ospitati in un campo profughi delle Nazioni Unite. È forte l’impressione che le strette di mano tra i due contendenti dopo la firma delle tregue siano solo
delle «photo opportunity» per la stampa internazionale.
Quello siglato prima dell’ultima violazione
era l’ennesimo «accordo non accordo», perché ancora una volta le parti hanno evitato
accuratamente di affrontare la questione cruciale, ovvero la divisione del potere. Nel documento si parlava genericamente di creare
le condizioni per un governo di transizione,
che sono solo beneauguranti promesse. L’Igad (l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo composta dai paesi del Corno d’Africa) in
veste di mediatrice aveva avanzato la candidatura di Riek Machar a primo vicepresidente, ipotesi bocciata sonoramente da James
Wani Igga, vicepresidente in carica.
Intanto il presidente Salva Kiir non ha fermato la macchina elettorale. Alle urne si andrà a maggio, anche se sarà difficile organizzare in poco tempo questo appuntamento
senza il controllo del territorio necessario a
garantire incolumità e partecipazione dei votanti. Ma in ogni caso sarà una consultazione
monca: l’opposizione già urla alla illegittimità.
Il presidente spinge sull’acceleratore appellandosi alla Costituzione ed alla partecipazione
democratica, ma in realtà sta conducendo
una operazione di restyling per cancellare i
massacri di civili (compiuti da entrambi gli
schieramenti) e la chiamata in soccorso dell’esercito ugandese e dei gruppi ribelli suda-
D
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nesi. Purtroppo hanno ripreso l’attività anche
numerose milizie armate locali che agiscono
alternativamente a favore dei due fronti, ma
sono difficilmente controllabili.
In veste di mediatori sono scesi in campo
anche l’odiato Sudan (contro cui è stata condotta una guerra durata quasi 50 anni per ottenere l’indipendenza) e la Cina, ambedue
mossi dall’obiettivo di difendere i rispettivi
interessi petroliferi. Risultati nulli.
Come recita un antico proverbio africano,
«quando due elefanti combattono, a soffrire
sono i fili d’erba». Nel caso specifico la popolazione civile. Le cifre dell’emergenza
umanitaria sono da brividi, al pari di Siria e
Repubblica Centrafricana. Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per raccogliere
un miliardo e mezzo di euro per gli aiuti da
destinare agli oltre due milioni e mezzo di
sud sudanesi minacciati da carestia e guerra. Ma nel 2015 saranno 4 milioni le persone non più autosufficienti dal punto di vista
alimentare, ovvero un terzo della popolazione complessiva. Siamo di fronte alla catastrofe umanitaria.
Quando il 9 luglio 2011 la neonata nazione (a larga maggioranza cristiana e animista) ottenne l’indipendenza dal Sudan islamico, le speranze di un futuro di pace dopo mezzo secolo di conflitto animarono la
comunità internazionale che fece grandi investimenti anche per la presenza di significative riserve petrolifere. Le storiche rivalità
tra le etnie dinka (a cui appartiene il presidente) e nuer (di cui l’ex vicepresidente è
espressione) sembravano accantonate, almeno momentaneamente. Alcuni analisti hanno evidenziato come il numero di vittime di
questa guerra intestina al Sud Sudan sia stato di gran lunga superiore a quello registratosi nel conflitto con il Sudan musulmano.
Un elemento che avrebbe dovuto mettere in
guardia dall’evoluzione della situazione.
Dinka, in maggioranza dediti all’agricoltura,
contro nuer, pastori, in guerra per acqua e
campi. Oggi sembra un binomio impossibile da coniugare insieme. La pace in Sud Sudan appare lontanissima.
marzo 2015
le rubriche
confronti
IN GENERE
Stefania Sarallo
Un incontro alla Casa
internazionale delle
donne per discutere
del libro «Femminismi
musulmani. Un incontro
sul Gender jihad»,
curato da Marisa
Iannucci, Ada Assirelli,
Marina Mannucci e
Maria Paola Patuelli.
Per «Gender jihad» si
intende quello sforzo
messo in atto da sempre
più donne musulmane
per avvicinarsi al senso
di giustizia prescritto
dal Corano: uno sforzo
per la difesa dei diritti
delle donne e per il
raggiungimento di una
emancipazione
di genere.
Uno sforzo verso
un femminismo musulmano
iccolo esempio di quello che le autrici definiscono «relazione in presenza», il libro Femminismi musulmani.
Un incontro sul Gender jihad (Fernandel editore), è il frutto di una serie di seminari sui temi di genere che hanno avuto
luogo a Ravenna nel 2013; incontri associativi che, oltre al merito di coniugare «pensiero e progettazione», hanno anche reso
possibile l’impresa di condurre sotto l’unico
comune denominatore chiamato «femminismo» donne (ma anche un uomo!) provenienti da ambiti molto diversi. Italiane e marocchine, musulmane e cattoliche, laiche e
agnostiche hanno intrapreso un percorso teso al reciproco riconoscimento, i cui frutti –
non propriamente scontati – confluiscono
in questo libretto ricco di spunti di riflessione che si dipanano in molteplici direzioni di
approfondimento senza voler tracciare un
unico cammino di azione.
Una riflessione comune intorno a questo
testo, come quella che ha avuto luogo il 30
gennaio a Roma, alla Casa internazionale
delle donne, non può prescindere da un’analisi del significato attribuito e attribuibile al
termine «jihad» che, baldanzoso e – agli occhi dei meno avvezzi alla tematica – «provocatorio», appare nel sottotitolo. Il jihad, come ha inteso subito spiegare Marisa Iannucci, studiosa del mondo islamico nonché curatrice del libro insieme a Ada Assirelli, Marina Mannucci e Maria Paola Patuelli, indica lo «sforzo», l’«impegno» – dell’anima,
dell’intelletto o del corpo – per giungere a
un obiettivo. Nel mondo arabo vi si ricorre,
a diverso titolo, per intendere tanto la lotta
dell’individuo che tende al raggiungimento
di una conoscenza più matura del sé, quanto l’impegno profuso in un ambito mondano circoscritto o il combattimento in senso
stretto; ma, soprattutto, il jihad rappresenta
quel continuo stato di sforzo interiore, teso
alla comprensione del volere divino e alla
sua corretta applicazione, cui dovrebbe ambire ciascun buon musulmano. Quando si
ricorre all’espressione «Gender jihad» si intende quello sforzo per la difesa dei diritti
P
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delle donne e per il raggiungimento di una
emancipazione di genere che, sulla scia delle opere della teologa Amina Wadud, parte
proprio da una nuova esegesi del testo in
chiave femminista, l’unica in grado di mettere in discussione le interpretazioni patriarcali prevalenti.
L’ampio spettro di significati che vengono
conferiti alla parola all’interno del contesto
originario arabo e islamico mostra tutta la
limitatezza di una traduzione che ne fa in
Occidente semplicemente una «guerra santa». Come ha sottolineato l’antropologa Anna Maria Rivera, «un libro come questo è
oggi quantomeno opportuno. È un piccolo
argine al dilagare dell’islamofobia e a tutte le
retoriche che ruotano intorno allo scontro
di civiltà. Mostra tutta la ricchezza dell’islam e il fatto che sia compatibile con la liberazione dal patriarcato». Il recupero e l’analisi del termine jihad, quindi, è fondamentale perché proprio il jihad rappresenta lo
strumento di cui l’islam può avvalersi per liberarsi dai pregiudizi e dai molteplici «appiattimenti» che subisce all’interno della nostra società. Jihad, ad esempio, può significare per le seconde generazioni di donne
musulmane in Occidente ricollocarsi all’interno della loro tradizione facendosi promotrici di una sua visione «diversa» che risponda alle loro esigenze specifiche di giovani
musulmane protagoniste di una mediazione
tra culture. La questione è stata sollevata da
Renata Pepicelli, esperta di islam: «Dove
stanno andando le nuove generazioni di
donne che “fanno” femminismo pur non riconoscendosi in nessuna delle categorie di
femminismo esistenti? Oggi ci sarebbe bisogno di uno “sforzo” maggiore soprattutto da
parte delle seconde generazioni in Occidente, troppo chiuse dentro storie individuali.
C’è bisogno che ci propongano una visione
che non sia solo testimonianza, per ricostruire insieme le categorie del femminismo». Ci auguriamo di poter assistere quanto prima all’emergere di nuove proposte e
che diventino esse stesse l’oggetto di una riflessione condivisa e a più mani.
marzo 2015
le rubriche
confronti
NOTE DAL MARGINE
Giovanni Franzoni
La questione
dell’autorità della
Tradizione, sottoposta
alle Scritture, ha posto
in antichità e ancora
pone, dal Concilio
Vaticano II ad oggi,
diversi problemi.
Le conseguenze di un
approccio storico-critico
alle tradizioni.
Un piccolo consiglio,
ripreso dai «luoghi
teologici» del teologo
spagnolo
cinquecentesco
Melchior Cano.
Gli spazi
della tradizione
ella prima sessione del Concilio Vaticano II fu calda la discussione sulle fonti della rivelazione; la commissione aveva preparato un testo in cui
le fonti della rivelazione erano due – la Sacra Scrittura e la Tradizione – ma questa
impostazione fu fortemente criticata soprattutto dai vescovi del nord Europa sensibili alla teologia protestante. E, finalmente,
la costituzione Dei Verbum parla di un’unica divina fonte della Rivelazione, dalla quale sgorgano la Sacra Scrittura e, alla sua luce, la Tradizione, il cui ruolo l’ala conservatrice del Concilio riuscì peraltro a sottolineare fortemente. Poi, negli anni post-conciliari la funzione equilibratrice della Tradizione, insieme al magistero papale ed episcopale, è stata ulteriormente ribadita, ed è
diventata prassi un’interpretazione cauta,
monca e limitata dei generi letterari usati
nelle Scritture.
Recentemente si è fatto sempre più strada
il metodo storico-critico nello studio delle
Sacre Scritture e anche in opere non canoniche, come la Didaché, venerate per la loro antichità. Il rigore di questo metodo ha
costretto gli esegeti a constatare che fra i
primi scritti canonici, come per esempio le
Lettere di Paolo – ai Tessalonicesi, ai Corinzi, ai Romani, ai Filippesi – e gli Evangeli
databili tra gli anni Settanta e Novanta e al
Vangelo di Giovanni, collocabile nei primi
anni del II secolo, si sono formate delle tradizioni e delle memorie assai diverse della
predicazione di Gesù e della rappresentazione della sua famiglia, di Maria e dei suoi
fratelli, ma tutte rispettabili. Di conseguenza, se alcune tradizioni sono da considerare eliminabili in seguito ad una lettura storico-critica, non si può negare che abbiano
comunque un loro valore, utile per la fedele sequela di Gesù.
Quanto poi alle ulteriori tradizioni, anch’esse diversificate, che hanno nutrito il
cammino delle Chiese durante i secoli, bisognerà cercare di distinguere ciò che nasce
da una verace ricerca dell’Evangelo e ciò che
deriva da falsificazioni attuate per interessi
N
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politici o di gestione autoritaria del potere.
Purtroppo talora le Chiese hanno soffocato
– considerandole aberranti, eretiche o scismatiche – voci che, invece, potevano e dovevano arricchire i cammini di fede.
Mi sembra perciò utile ricordare la distinzione dei luoghi teologici – passibile naturalmente di diversa formulazione – proposti alla fine del Cinquecento dal teologo spagnolo Melchior Cano: «Il primo luogo è
l’autorità della Sacra Scrittura che contiene
i libri canonici. Il secondo è l’autorità della
tradizione di Cristo e quella degli Apostoli,
le quali, anche se non furono scritte sono
arrivate fino a noi come da udito a udito, in
modo che con tutta verità si possono chiamare come oracoli di viva voce. Il terzo è
l’autorità della Chiesa cattolica [intendendo
con essa la “Grande Chiesa” durata fino allo scisma reciproco del 1054 tra Oriente e
Occidente]. Il quarto è l’autorità dei Concili, in modo speciale i Concili generali, nei
quali risiede l’autorità della Chiesa cattolica. Il quinto è l’autorità della Chiesa romana, che per privilegio divino è e si chiama
apostolica. Il sesto è l’autorità dei santi padri. Il settimo è l’autorità dei teologi scolastici, [legati all’insegnamento di Tommaso
d’Aquino]... L’ottavo è la ragione naturale,
molto conosciuta in tutte le scienze che si
studiano attraverso la luce naturale. Il nono
è l’autorità dei filosofi che seguono come
guida la natura. Tra questi senza dubbio si
trovano i giuristi (giureconsulti dell’autorità
civile), i quali professano anche la vera filosofia. Il decimo e ultimo è l’autorità della
storia umana, tanto quella scritta dagli autori degni di credito come quella trasmessa
di generazione in generazione, non superstiziosamente o come racconti di vecchiette, ma in modo serio e coerente».
Questa ricerca di percorsi, diversi ma
compatibili, potrebbe calmare nella Chiesa
romana i turbamenti sorti, a quanto si constata, fra i cattolici tradizionalisti turbati
dalle innovazioni nella prassi pastorale introdotte da papa Francesco.
marzo 2015
le rubriche
confronti
OSSERVATORIO SULLE FEDI
Antonio Delrio
Nel corso della storia
uomini e istituzioni
si sono arrogati il diritto
di parlare e agire
«in nome di Dio»
e le religioni di
considerare sante le
guerre combattute
«in nome di Dio».
L’attuale connubio fra
nome di Dio e violenza
non ha nulla di nuovo
rispetto ai passati
modelli di guerra santa
se non che i portatori
di questa estrema
violenza
«in nome di Dio»
siano terroristi.
In ogni caso non
possiamo che
considerare colpevoli
anche di violare la
parola «non nominare
il nome di Dio invano»
coloro che uccidono
esseri umani con la
pretesa di agire e di
farlo «in nome di Dio».
Non nominate
il nome di Dio invano!
i fronte ai recenti episodi di terrorismo, di brutali uccisioni e finanche di
guerre, perpetrati «in nome di Dio»,
sia credenti che non, non possiamo
non interrogarci – anche nel rinnovato interesse per il decalogo, le dieci parole o comandamenti – se non ci si trovi di fronte a una
blasfema pretesa e ad una palese violazione
della parola «Non nominare il nome di Dio
invano». Il nome di Dio a cui si fa riferimento nella Bibbia è il Tetragramma – JHWH,
che compare più di 6.000 volte nell’Antico
Testamento a partire da Genesi 2,4 – e nel significato della terza parola è incluso il divieto dell’uso superstizioso di questo nome, come pure la bestemmia, il falso giuramento e
la strumentalizzazione del nome di Dio, ad
esempio utilizzandolo quale legittimazione
del potere umano. Eppure, nel corso della
storia, uomini e istituzioni si sono arrogati il
diritto di parlare e agire «in nome di Dio».
Guerre e paci, giuramenti e rivoluzioni, fondazioni e rifondazioni: tutto si è spesso preteso di fare «in nome di Dio», comprese le
reciproche strumentalizzazioni fra istituzioni politiche ed ecclesiastiche, e le ipocrite alleanze fra potere politico e religioso, fino al
punto di vedere re e governanti dirsi «cristianissimi» e papi definire i dittatori «uomini
della provvidenza».
Ma che anche il cristianesimo abbia conosciuto la guerra santa non può negarsi: in
ambito cristiano-cattolico «santa» non è stata considerata solo la guerra ordinata direttamente da Dio – come quella veterotestamentaria – ma anche quella proclamata dalle autorità ecclesiastiche in nome di Dio contro gli eretici, considerati bestemmiatori che
usano il nome di Dio per mentire. Nella lotta contro gli eretici è stato arruolato pure il
potere politico e così il nome di Dio è stato
utilizzato come bandiera di verità e di autorità sia dalla Chiesa che dallo Stato; e questo
anche in ambito protestante, come ha dimostrato anche il rogo di Serveto nella Ginevra
di Calvino. Poi, all’inizio dell’era moderna, la
guerra santa interna – la guerra «in nome di
Dio» – si è trasformata nelle guerre civili di
D
41
religione: le stragi e le violenze che, sempre
«in nome di Dio», hanno insanguinato per
ben più di un secolo l’Europa cristiana. Benché l’epoca moderna abbia tentato di neutralizzare questo tipo di guerra attraverso l’interiorizzazione della religione e la trasformazione politica della sovranità dello Stato, la
crociata è rimasta un modello di guerra, e il
nome di Dio è stato utilizzato come bandiera per legittimare e giustificare molte altre
guerre: da quelle europee contro i turchi alla guerra civile spagnola.
L’attuale connubio fra nome di Dio e violenza non ha quindi nulla di nuovo rispetto
ai passati modelli di guerra santa. Le novità
sono forse la frequenza con cui il nome di
Dio viene associato alla violenza, il carattere estremo di questa violenza e il fatto che i
portatori di questa violenza «in nome di
Dio» siano terroristi. Agli occhi del terrorista tutti i nemici sono dichiarati «ingiusti»
e perciò colpevoli, nessuno è innocente. Il
nome di Dio contrapposto al nome di Satana serve perciò a fornire una giustificazione religiosa dell’azione terroristica, e serve
a tradurre e amplificare le istanze e le questioni materiali che la motivano: il riscatto
da un’umiliazione radicale che toglie il senso alla vita è possibile solo reinterpretando
questa esperienza negativa in chiave religiosa fornendo un nuovo senso anche alla morte, trasformandola così da sconfitta davanti
a un potere soverchiante in martirio. L’uso
del nome di Dio serve insomma a terrorizzare i nemici e ad assicurare a se stessi che
il corso della storia non è nelle mani degli
oppressori, che è possibile un’altra lettura
delle cose del mondo, e che la punizione e
l’uccisione dei nemici non è altro che la realizzazione, ora, del giudizio di Dio nella
guerra universale contro il Male. In ogni caso, benché la questione abbia risposte diverse e opposte a seconda dei punti di vista,
non possiamo che considerare colpevoli anche di violare la parola «non nominare il
nome di Dio invano» coloro che uccidono
esseri umani con la pretesa di agire e di farlo «in nome di Dio».
marzo 2015
le rubriche
confronti
CIBO E RELIGIONI
Marisa Iannucci
Halal (lecito) è qualsiasi
cosa o azione consentita
secondo la legge
islamica. Il termine
designa non solo cibo e
bevande ma anche tutti
gli aspetti della vita
quotidiana, che la
Shari’a divide in cinque
categorie: obbligatorio,
raccomandato, lecito,
riprovevole e proibito;
esse definiscono la
moralità dell’agire
umano nell’islam. In
generale vale il
principio che è lecito
tutto ciò che non è
proibito dalla Shari’a.
La macellazione rituale
tiene conto del rapporto
tra uomo e animale
sacralizzandone
l’uccisione, e dando ad
essa un carattere
solenne e non ordinario
e banale.
Alimentazione halal:
i precetti dell’islam
nche i precetti alimentari si inseriscono in comportamenti e in uno stile di
vita che regolano le azioni e le relazioni del credente rispetto a se stesso, agli
altri esseri umani e al resto del creato (mu’amalat). Insieme agli atti di culto (‘ibadat, che
attengono al rapporto tra uomo e Dio) costituiscono la pratica religiosa del musulmano.
I versetti del Corano in cui vengono menzionati gli alimenti sono molti, e sono il riferimento – insieme agli hadith del Profeta
Muhammad – su cui si è sviluppata la giurisprudenza e la tradizione relativa all’alimentazione halal. Tra tutti citiamo la Sura II:173:
«In verità, vi sono state vietate le bestie morte, il sangue, la carne di porco e quella su cui
sia stato invocato altro nome, che quello di
Iddio. E chi vi sarà costretto, senza desiderio
o intenzione, non farà peccato. Iddio è perdonatore, misericordioso». Il Corano ha introdotto il divieto delle carni suine e delle altre carni se non macellate ritualmente, da cui
si è sviluppato un quadro più complesso di
prescrizioni alimentari note come halal in
parte simili alla tradizione ebraica del khasher, derivata dalla Torah. La macellazione rituale infatti interessa entrambe le religioni, e
il Corano ha stabilito per i musulmani la liceità delle carni macellate dalla Gente del Libro (cristiani ed ebrei) purché coerenti con le
norme religiose (Corano, V:5: «Oggi vi sono
permesse le cose buone e vi è lecito anche il
cibo di coloro ai quali è stata data la Scrittura, e il vostro cibo è lecito a loro (...)». L’operazione è accompagnata da benedizioni e invocazioni nel nome di Dio, e in particolare
dalla frase Bismillah, Allahu akbar (nel nome di Iddio, Iddio è grande).
La macellazione rituale non mira solo a
eliminare il sangue dalla carne, ma riporta
l’attenzione sull’importante aspetto della legittimità dell’uccisione di un animale ai fini
dell’alimentazione umana. Nella società industriale la macellazione – come l’allevamento – è stata spersonalizzata e organizzata secondo procedure dettate da esigenze di
tipo economico e produttivo. La macellazione rituale tiene conto del rapporto tra uomo
A
42
e animale sacralizzandone l’uccisione, e dando ad essa un carattere solenne e non ordinario e banale come avviene nelle catene industriali, ove si perde la consapevolezza del
gesto che dà la morte ad un essere vivente,
seppure al solo scopo di cibarsene. Il precetto ha quindi anche lo scopo di ricordare all’essere umano che egli non dispone arbitrariamente degli animali ma se ne può servire
all’interno di un orizzonte di senso che ha
come riferimento Dio e la sua Legge. Nel
versetto citato e in altri è ricordata la condizione di chi, trovandosi nell’impossibilità di
assolvere il precetto, debba nutrirsi diversamente. È il caso dei musulmani che, vivendo
in paesi a maggioranza non islamica, si trovino ricoverati in ospedale o in stato di detenzione. Sura XVI:115: «(...) Quanto a colui
che vi sia costretto senza essere né ribelle, né
trasgressore, in verità Iddio è perdonatore,
misericordioso». Un altro divieto alimentare è quello relativo al vino, nella Shari’a esteso a tutte le sostanze inebrianti a base di alcool e non, comprese le droghe. In generale
qualsiasi sostanza che ottunde e toglie lucidità, e danneggia il corpo provocando malattie è illecita. Il divieto del vino, gradualmente introdotto dal Corano, vi si trova in
forma definitiva in V:90-91: «In verità col vino e il gioco d'azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Iddio e dall’orazione. Ve ne
asterrete? I prodotti haram (illeciti, come il
maiale o l’alcool) non possono essere prodotti, acquistati o venduti e donati, né trasportati o serviti. Secondo la giurisprudenza islamica il cibo per essere halal, oltre a
non essere tra quelli proibiti, deve essere acquistato in maniera legale (non attraverso il
furto o la frode). Inoltre vi è un altro aspetto legato al cibo che è il generale divieto dell’eccesso (sia nel praticare il digiuno che nel
cibarsi troppo), riconducibile al principio
islamico della wasatiyya (moderazione). In
Corano VII:31 leggiamo: «O Figli di Adamo,
abbigliatevi prima di ogni orazione. Mangiate e bevete, ma senza eccessi, ché Iddio non
ama chi eccede».
marzo 2015
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confronti
SPIGOLATURE D’EUROPA
Adriano Gizzi
Il 22 e 29 marzo
la Francia affronta
un importante voto
amministrativo
e il clima di solidarietà
nazionale che si era
creato dopo
gli attentati di Parigi
è ormai alle spalle.
Dopo un momento
di difficoltà, il Front
national sembra aver
recuperato lo slancio
che lo aveva portato
ad essere il primo
partito alle europee
dell’anno scorso e pare
intenzionato a ripetere
il successo anche
in questa
tornata elettorale.
La vie en rose
di Marine Le Pen
opo gli attentati terroristici di Parigi,
erano in molti a temere un’ulteriore
impennata del Front national in
Francia. In realtà la sua leader ha
giocato piuttosto male le proprie carte, proponendo maldestramente un referendum
sulla pena di morte. La ghigliottina è stata
abolita nel 1981 dal presidente Mitterrand
che, appena eletto, ha avuto il coraggio di andare contro l’opinione della maggioranza dei
francesi. Oggi prevalgono di misura i contrari, anche se nell’elettorato del Fn la situazione è ben diversa. Ma la strategia che Marine
Le Pen persegue con successo da quattro anni consiste nel far dimenticare di essere figlia
di Jean-Marie, per poter conquistare così l’elettorato più moderato: una scelta «identitaria», da estrema destra, senz’altro non giova
alla causa. E infatti il clima da «union sacrée»
seguito agli attentati – ben sfruttato dal presidente Hollande per recuperare un po’ di
consensi – ha prodotto l’esclusione del Front
national dalla grande manifestazione dell’11
gennaio, dove si è vista tutta la classe politica francese repubblicana, dai post-gollisti ai
comunisti, sfilare compatta in nome della libertà di espressione e contro il terrorismo.
Il concetto di «fronte repubblicano» somiglia a quello che in Italia, per decenni, è stato il cosiddetto «arco costituzionale» in contrapposizione al Movimento sociale italiano.
Quel partito non solo non aveva votato la
Costituzione (infatti il 2 giugno del ’46,
quando assieme al referendum su monarchia o repubblica si votò per l’Assemblea costituente, il Msi non era ancora stato fondato), ma per molti era «anti-costituzionale»,
poiché di fatto violava la XII disposizione finale della Costituzione (che vieta la riorganizzazione, «sotto qualsiasi forma», del partito fascista) e la legge Scelba del ’52, che ne
dava attuazione introducendo il reato di
«apologia del fascismo». Ciononostante, i
tentativi di mettere fuorilegge il Msi sono
sempre falliti e quel partito ha attraversato
indenne tutta la prima repubblica, sfiorando addirittura i tre milioni di voti nelle elezioni del 1972.
D
43
In Francia la situazione è diversa, perché
il Front national è stato isolato e demonizzato da tutti i partiti francesi per decenni.
Questo però gli ha fruttato elettoralmente:
molti lo considerano l’unica vera alternativa alla «consorteria destra-sinistra». Quando alle presidenziali del 2002 il fiasco del
candidato socialista Jospin porta al ballottaggio Jean-Marie Le Pen, la Francia si mobilita in un sussulto repubblicano che vede
milioni di persone in piazza. Nel ballottaggio le sinistre – senza esitazione – danno
indicazione di voto per Chirac, che viene
rieletto con l’82%.
Oggi però tutto è cambiato: nelle elezioni
europee Marine Le Pen ha fatto diventare il
Fn primo partito (con il 25%) e secondo un
sondaggio Tns Sofres un terzo dei francesi ne
condivide le opinioni. Ma soprattutto la strategia del «fronte repubblicano» sembra ormai affossata per la defezione di gran parte
del partito di centro-destra, l’Ump. Molti
elettori di sinistra preferiscono ancora andare a votare per un candidato dell’Ump pur di
non far vincere un candidato del Front national. Ma l’elettorato dell’Ump invece non solo non va a votare per il candidato socialista
in funzione anti-Fn, ma in molti casi vota direttamente quello del Fn. Lo confermano le
analisi dei flussi elettorali: l’8 febbraio, nelle
elezioni suppletive in una circoscrizione del
Doubs dove il candidato dell’Ump non era
riuscito ad accedere al secondo turno, la
metà dell’elettorato Ump ha riversato i propri voti sulla candidata del Fn, che alla fine
ha perso solo per un soffio. Un quarto degli
elettori Ump ha seguito la linea del leader
Sarkozy (quella del «né Fn né Ps») e un altro
quarto la linea del fronte repubblicano, sostenuta ancora dall’ex premier Alain Juppé
(che si appresta a contendere a Sarkozy la
candidatura Ump alle presidenziali del 2017)
e dalla numero due del partito, Nathalie Kosciusko-Morizet. Il 22 e 29 marzo si vota per
elezioni dipartimentali e, data la grande confusione sotto il cielo politico francese, la situazione è eccellente per il Front national di
Marine Le Pen.
marzo 2015
le rubriche
confronti
OPINIONE
Giuliano Ligabue
Nel primo anniversario
del governo Renzi,
il 22 gennaio, si è
tenuto un evento
nazionale sul tema
della scuola
organizzato dal Pd, con
la partecipazione
del presidente
del Consiglio e della
ministra dell’Istruzione
Stefania Giannini.
Il messaggio che con
questo appuntamento
il governo intendeva
lanciare è semplice:
l’Italia sta cambiando
perché è la scuola che
sta cambiando.
Ma è davvero così?
Scuola:
sbagliare meglio
o scorso 3 febbraio, davanti al Parlamento, il presidente della Repubblica
Sergio Mattarella ha ricordato al Paese che garantire la Costituzione significa, prima di ogni altra cosa, «garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una
scuola moderna, in ambienti sicuri». Scuola
moderna e sicura. Venti giorni dopo, a Roma, la ministra dell’Istruzione pubblica, Stefania Giannini, e il capo del governo, Matteo
Renzi, si trovavano insieme all’evento nazionale con cui il Partito democratico – partito
di governo, a un anno esatto dalla sua investitura (22 febbraio) – intendeva proclamare
ai quattro venti che l’Italia stava cambiando
perché è la scuola che sta cambiando. Ma l’evento non andava molto più in là d’una kermesse, con qualche richiamo di «azzurro»:
video e slides, musichette, giovanili e informali presentatori; ai due lati, giovanissimi orchestrali dell’Accademia di Santa Cecilia. E,
in tre ore, un fiume di interventi in un mare
di parole. Non una riga di quel documento,
che tutti ci si attendeva e su cui si voleva ragionare e valutare, tutti. Solo l’annuncio del
premier che avremmo avuto «un doppio atto normativo in settimana» (a fine febbraio,
quindi).
Ma cosa ci si aspettava? Certamente qualcosa di più puntuale, un qualche contenuto
più concreto che non fosse l’elencazione di
titoli e capitoli – gli stessi – delle 130 pagine
de «La buona scuola». Così sulla sicurezza
delle scuole non è stato del tutto rasserenante sentirsi dire che sono stati «aperti» 7.700
cantieri su 43.220 edifici scolastici, che una
nuova fonte di finanziamento potrà forse essere l’utilizzo del 5xmille, che bisognerà far
uscire i Comuni dal patto di stabilità. Ma è
soprattutto sulla scuola moderna – «la scuola dal ‘900 al terzo millennio», secondo l’enfasi della Giannini – che ci si doveva dire di
più: come formare i docenti e promuoverli
a motore di cambiamento; quale organico
funzionale e come attuarlo; i criteri, ma anche e soprattutto i limiti, del finanziamento
dei privati. Non va sottaciuto che in alcuni
interventi hanno trovato una giusta sottoli-
L
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neatura argomenti come l’assunzione dei docenti («dal prossimo anno solo per concorso», Davide Faraone), la fine del precariato,
l’autonomia scolastica, il merito e la valutazione dei docenti, l’immissione di nuove discipline, la dispersione scolastica, l’inclusione e l’integrazione, l’educazione alla legalità.
E, quasi sopra gli altri, due argomenti: l’alternanza scuola/lavoro nelle scuole superiori,
per formare la persona più che per formare
al lavoro; la scuola digitale, come nuovo ambiente e nuova organizzazione della didattica. Ma sempre e solo argomenti enunciati e
in termini già noti, o poco più.
Poi, il problema dei tempi. Gli atti legislativi «saranno licenziati tutti entro settembre», dice Renzi. Ed è un altro rinvio. E perché il cambiamento sia concluso? Otto anni,
dice la Giannini, ragionando così: «Per realizzare l’autostrada del sole, abbiamo impiegato quattro anni. Per un’impresa come questa, ne occorreranno almeno il doppio». Non
è risultato ben chiaro ai presenti il perché di
un’autostrada, come termine di paragone.
Qualcosa di più ha saputo comunicare Luigi Berlinguer – l’ottantatreenne, d’una spanna più giovane dei compagni rottamatori –
sulla volontà di cambiare («Ho il cuore aperto alla speranza») questa nostra «scuola
senz’arte né parte», logocentrica e frustrante, in direzione d’una scuola in cui stiano insieme modernità, fatica e piacere. Un applauso fragoroso, per minuti.
Neppure le contestazioni sono mancate,
gridate in faccia a Renzi da docenti delusi e
rabbiosi. La risposta è arrivata sulla voce, altrettanto robusta e categorica: la democrazia
non è soltanto ascoltare, parlare e discutere;
la democrazia è poter contare, quindi potere
alla fine decidere. Va detto che, verso la fine
dei suoi 45 minuti di intervento, Renzi ha
usato il termine «tentativo», riferendosi alla
messa in campo della sua riforma della scuola. Anzi, quasi a mettere le mani avanti,
scherzosamente, ha citato il Gianni Rodari
del «sbagliando, si inventa». E sia, signor premier e signora ministra, purché si cerchi di
sbagliare meglio.
marzo 2015
le rubriche
LIBRO
Gianni Manghetti
«Lacrime asciutte»
Cantagalli 2014
192 pagine, 14 euro
Marcella Felici
I protagonisti di questo
racconto sono le
famiglie più povere di
un paese della Toscana
nel difficile periodo del
dopoguerra. Il duro
lavoro e le fatiche
quotidiane per tirare
avanti sono ovviamente
centrali nella vita dei
personaggi. Ma lo
sguardo attento
dell’autore si concentra
sulle donne e sul loro
modo di stare al mondo,
di guardare alla realtà,
di comunicare i
sentimenti anche con
gli sguardi e i silenzi.
confronti
Le donne che si parlano
in silenzio
«
acrime asciutte» racconta di un paese della Toscana, tra la prima e la fine della seconda guerra mondiale, e
delle donne della sua comunità. Una
narrazione che, per la condizione sociale dei
protagonisti – gli abitanti dei «Casalini», i
più miseri del paese – assume un innegabile
valore documentario ed è la testimonianza di
un mondo che la modernizzazione degli anni Cinquanta ha poi spazzato via, nel bene e
nel male. Molti gli elementi significativi: la
battaglia continua per il sostentamento della famiglia, con gli uomini «a portare a casa»
e le donne «a mettere insieme pranzo e cena», sempre responsabili in prima persona di
quello che si troverà nel piatto; i mestieri antichi come lo stagnaro e lo spaccapietre, con
l’emergere di una coscienza di classe nei primi, pochi operai; le disgrazie e le malattie,
sempre senza rimedio, sempre devastanti per
l’intero nucleo familiare.
Tutto questo nella cornice della «grande»
storia: il referendum del giugno 1946 e il voto alle donne; la riforma agraria e l’Ente maremma; le nuove industrie e il piano Fanfani per la casa. Tutte occasioni dall’impatto
imprevedibile, più perturbante che risolutivo. Fin qui il libro come documento. Il testo
è, però, molto altro. Nella prima pagina si
presenta il narratore: è uno dei bambini di allora, uno degli ormai pochi testimoni del faticoso e dolente vivere delle donne dei «Casalini», che sente in modo imperativo il compito di trasformare quelle antiche esistenze
in «frammenti vivi», sente il bisogno di farle
risorgere nella scrittura
La scelta di parlare dal versante femminile,
indicata già nel sottotitolo («le donne piangono dentro»), è opzione originaria e costitutiva del testo, non solo perché le donne sono protagoniste – ogni capitolo ha per titolo
il nome di una di esse – ma perché è il loro
modo di stare al mondo, è la Necessità che le
piega, sono le risposte con cui le fanno fronte, che costituiscono il tema continuo della
narrazione. La forte motivazione etica a fare
memoria si converte, nella scrittura, in uno
sguardo d’amore: le impressioni e i ricordi
L
45
del bambino alimentano la consapevolezza
dello scrittore adulto e gli permettono di rivisitare dal di dentro questo mondo di donne, portando alla luce una molteplicità di
piani, la verità di emozioni e momenti.
I dolori e la fatica che occupano la loro vita hanno asciugato parole e nascosto lacrime: non c’è spazio per piangere, né per dire
e chiedere, perché tutto, delle altre e di sé, è
già conosciuto da ognuna di loro. Allora basta anche uno sguardo che sembra vuoto, degli occhi di uno spento colore grigio topo –
ma che, a volte, si dice siano stati anche azzurri – per ricordarsi di quante pene è carica da sempre quella vita; o basta chiamarsi
solo per nome incontrandosi – saluto, presenza, accettazione di una comunità di pena
– per attivare una profonda comunicazione
di sentimenti. È proprio su quest’economia
di espressione che lavora la scrittura, trovando nel non detto dei silenzi e degli sguardi, in
immagini fugaci come «il sorriso più svelto
del filo dell’acqua», la dimensione espressiva
della pietosa complicità che lega la vita e la
storia di queste donne. Aver trovato la voce
interna, con cui esse hanno imparato ad
esprimersi e a vivere la relazione tra loro, è il
primo pregio del testo.
Accanto a questa lingua del dolore, l’autore dà luce alla capacità delle donne dei
Casalini di pensare oltre il dato fermo della realtà. Se per gli uomini ci sono solo i bisogni primari da soddisfare, in esse vive,
malgrado tutto, la tensione alla ricerca di
condizioni meno degradate, con una qualche aspirazione al bello, non fosse altro che
la foto di un attore appesa al muro. La possibilità di immaginare, un atteggiamento
desiderante, l’autore li coglie soprattutto
nelle giovani donne, le figlie, che anche davanti o dentro una tragedia mantengono
guizzi di curiosità per la vita e una sensualità non negata. In questi elementi ci sembra di poter riconoscere l’autentica dimensione letteraria di un testo che con una certa facilità avrebbe potuto scivolare nel cliché di un affettuoso e nostalgico ricordo di
tempi e luoghi lontani.
le rubriche
marzo 2015
confronti
SEGNALAZIONI
Don Olivo Bolzon
Marisa Restello,
«Il dono dell’amicizia»,
Studio editoriale
Carlo Silvano,
Villorba, Treviso, 2014,
112 pagine, 10 euro.
Alessandra Bozzoli,
Maria Merelli,
Maria Grazia Ruggerini
(a cura di),
«Il lato oscuro
degli uomini.
La violenza
maschile contro
le donne: modelli
culturali di intervento»,
Ediesse 2013,
448 pagine, 20 euro.
Don Olivo Bolzon e Marisa Restello
«Il dono dell’amicizia»
Bozzoli, Merelli, Ruggerini
«Il lato oscuro degli uomini»
Potrebbe sembrare generico, il titolo del volumetto; ma esso si illumina nel sottotitolo –
«Vita in comune e dono del celibato» – che
non è una riflessione, a tavolino, del tema
trattato, ma la descrizione di un’esperienza
reale. Don Olivo – trevigiano, classe 1932 –
da giovane prete, impegnato nel sociale, incontra Marisa, anch’essa dedita alla difesa dei
diritti degli operai. Tra i due nasce una
profonda consonanza di ideali che si arricchisce di un’amicizia perdurante, che tale rimane, senza mai sfociare, come in teoria sarebbe potuto accadere, in innamoramento e
poi in convivenza o matrimonio. Marisa, del
resto, è legata alla Fraternità di Charles de
Foucauld e Olivo approfondirà i suoi legami
con i preti operai francesi, tanto più dopo
che, per ordine dei superiori, sarà inviato in
Belgio come assistente europeo delle Acli.
Poi il vescovo di Treviso lo richiamerà in patria, per mandarlo come parroco a San Floriano, una piccola frazione di Castelfranco
Veneto. E Marisa, che già era stata per un
certo tempo con lui, andrà anch’essa a vivere
nella canonica, dando una mano nelle attività
della piccola comunità locale. Non mancano
le «male lingue» di qualche fedele, ma infine
la gente accetta quella singolare situazione e,
anzi, la considera un’alta testimonianza, anche perché la casa parrocchiale è aperta e
ospitale per tutti, e soprattutto per gli extracomunitari.
Il libro – scritto a quattro mani, parte da
Olivo e parte da Marisa, distintamente: così
si individua come i due protagonisti hanno
vissuto e vivono la loro storia – è ricco di osservazioni, aneddoti, valutazioni che, in controluce, inquadrano la loro esistenza nella
più ampia cornice dell’Italia e della Chiesa
romana, con le luci e le ombre del post-Concilio. Ma, soprattutto, è testimonianza di una
realtà al tempo stesso umile e straordinaria.
E inevitabile sorge il desiderio, per chi non
conoscesse Marisa ed Olivo, di andarli a trovare. E – lo assicuriamo – sarebbe per loro,
e per l’ospite, una gioia straordinaria.
Scrive Olivo, in una delle poesie che concludono il volume: «Vagando e vagando /
raccogliendo e raccogliendo / senza direzioni, / ma fissi all’orizzonte / abbiamo esplorato oceani / dentro alle nostre vite».
Quali sono le possibilità e i modelli di intervento per contrastare la violenza contro le
donne? Questo il quesito principale che affronta il volume, raccogliendo saggi di autrici e autori che riportano l’esperienza di centri antiviolenza in Italia e nel mondo, contestualizzando tali esperienze nel differente
ambiente legislativo dei paesi presi in considerazione. Oltre a ciò, vengono prese in considerazione riflessioni sullo sbilanciamento
dei rapporti fra donne e uomini suggerito e
supportato dalla società patriarcale, ma anche modelli di trattamento degli uomini autori di violenza in strutture sia in campo sanitario, sia nel contesto carcerario, sia nell’ambito dei centri di ascolto e consultori per
uomini. In appendice, oltre ad una mappatura dei centri per uomini maltrattanti, il volume contiene un’analisi della legge 119 del
2013 in materia di contrasto della violenza di
genere. Quel che emerge dal volume è che
l’attenzione sulla violenza contro le donne è
spesso limitata ad interventi di supporto alle
donne oggetto della violenza stessa. La «questione maschile» è rimasta, invece, pressoché
inesplorata, eccezion fatta per il progressivo
inasprimento delle norme repressive nei confronti degli uomini maltrattanti. Sebbene
provvedimenti di questo tipo siano necessari
per contrastare il fenomeno e per fornire
strumenti di difesa alle donne maltrattate, di
fatto, non mettono in discussione i modelli
culturali messi in essere dalla società patriarcale. Ciò fa sì che gli uomini maltrattanti vengano percepiti sempre come un’eccezione e
non come espressione di un’inquietudine maschile diffusa. Ma, si evince nella lettura del
libro, il quadro di intervento sta lentamente
modificandosi, focalizzandosi sempre di più
sulle responsabilità maschili e sulle possibilità di attuare un cambiamento delle dinamiche interne e di percezione relazionale in coloro che commettono violenza. In questo
nuovo quadro, l’uomo che commette violenza, spesso una persona che è stata a sua volta
vittima di violenza e che vive ed agisce in uno
stato di disagio e sofferenza, deve essere supportato (oltre a dover pagare le conseguenze
legali delle proprie azioni) in un percorso che
lo aiuti ad uscire definitivamente da una condizione di violenza.
Luigi Sandri
Michele Lipori
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3/MARZO 2015
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80 euro abbonamento sostenitore
con in omaggio
il dossier «Minareti e dialogo»
e inoltre uno dei libri qui sotto
P.Naso, A.Passarelli,
T.Pispisa (a cura di)
Fratelli e sorelle
di Jerry Masslo
Letizia Tomassone
Guy Delisle
Figlie di Agar
Cronache
di Gerusalemme
Claudiana
Effatà
Rizzoli Lizard
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Confronti + Adista
104 euro
Confronti + Africa
67 euro
Confronti
+ Cem/Mondialità
67 euro
Confronti + Dharma
70 euro
Confronti + Esodo
67 euro
Confronti + Riforma
109 euro
Confronti +
Gioventù Evangelica
68 euro
Confronti +
Lettera Internazionale
73 euro
Confronti +
Missione Oggi
67 euro
Confronti +
Mosaico di pace
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