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Carlo Ricci
Partenope, mito e storia
Una carrellata sui 2500 anni di storia napoletana
con l’ansia di scoprirne i mille misteri
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I edizione: marzo 2014
A MV cara compagna della mia vita
Introduzione
È arduo proporre un discorso sulla città di Napoli
senza cedere alla tentazione né di intonare un peana
sulle bellezze del paesaggio, né di svolgere una filippica contro il nefando carattere degli abitanti. Il tentativo è quello di elencare i meriti e i demeriti degli
abitanti partenopei, sforzandosi di restare quanto è
possibile imparziali, da parte di chi ha vissuto tutta
la vita in perenne ammirazione della sua città, intriso
di quella “napoletanità”, talvolta tacciata di cialtroneria, pressappochismo, superficialità, ma che, guardata con imparzialità e attenzione, rivela un carattere
schietto, passionale, arguto, brillante, ed a volte generoso e altruista.
Quello che segue non è altro che un promemoria ad uso dell’autore e di chi ne voglia usufruire, un
libretto scritto da un napoletano innamorato della
sua città, che di tanto in tanto si arrovella nei suoi
mille problemi e nelle mille domande che possono,
qualcuna, trovare risposta appunto nelle vicende dei
secoli trascorsi; breve compendio delle vicende salienti della storia di Napoli, e non solo della storia,
che miri a porre in evidenza alcuni tratti fondamen7
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tali, importanti per comprendere le motivazioni dei
principali accadimenti, e per cogliere gli aspetti basilari del carattere napoletano. Asse portante della narrazione sarà la storia dei circa duemilacinquecento
anni di vita della nostra splendida e martoriata città, caratterizzata da splendori e miserie, arricchita di
argomentazioni sociologiche tendenti a cercarne le
motivazioni del degrado.
Perché Napoli rimane eterna vittima di inefficienza, disordine, sporcizia ecc. ecc.? La risposta è tra le
più difficili possibile. Indubbiamente autorità e istituzioni sono corresponsabili del disastro, ma attenzione! Lo sono esclusivamente in quanto napoletani.
Coloro che sono stati al potere, appartenenti a tutte
le fazioni politiche, non hanno avuto la capacità, o
forse neanche la volontà, di cambiare le cose, e sono
stati travolti dal carattere napoletano, indubbiamente tra i più negativi che si possa immaginare. A volte si attribuisce la responsabilità alla camorra, che
controlla ormai tutta la vita napoletana, ne detiene
le leve economiche, scoraggia le iniziative industriali
di chi non sia ad essa legato, strozza le attività commerciali imponendo esose tangenti. E qui le responsabilità sono di certo più corpose ma, ci si domanda,
nelle altre città e nazioni, non ci sono pure le criminalità organizzate che agiscono da tempo esercitando
attività illecite e danneggiando la vita dei cittadini?
Certamente si! Eppure dovunque il mondo cammina, lo sviluppo non si arresta, la civiltà dà ai cittadini
vantaggi sempre maggiori grazie anche al prodigioso
progresso della scienza e della tecnologia. E allora?
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Partenope, mito e storia
Credo che molta responsabilità si debba attribuire alla natura dei napoletani, alla nostra imperitura,
invincibile indolenza, ed anche, diciamolo pure, alla
scelleratezza che è insita nel nostro carattere.
Il napoletano vive in perenne godimento con se
stesso del sole, del clima, dei paesaggi e non comprende perché operare delle rinunce solo per ubbidire a regole imposte da altri, a volte anche improduttive. Forse è proprio la estrema bellezza del posto
e la dolcezza del clima che invogliano all’ozio e alla
meditazione anziché all’operosità. Si tratta dunque
del culto della “bella giornata” di cui parlava Raffaele La Capria, che lasciò la sua città non resistendo
più. Può dirsi quindi che la responsabilità del degrado napoletano è tutta dei suoi abitanti? Seguendo il
filo logico di cui sopra bisognerebbe riconoscere che
è così. E non è pensabile che coll’andare del tempo
questo andazzo finirà col terminare! Poiché il culto
della “bella giornata” sarà sempre presente a smorzare ogni iniziativa tendente a migliorare le cose. Altrove la ricerca del benessere costringe a continui sforzi,
a volte sovrumani, per conseguire uno stile di vita più
confortevole. A Napoli ciò non è necessario, poiché
la vita che ci viene offerta è già di per sé la migliore
possibile!
Si rileva dunque che il napoletano sceglie sempre
la soluzione più semplice, quella che lo impegna di
meno, con il continuo obbiettivo del massimo risultato con il minimo sforzo, ciò che porta troppo frequentemente all’improduttività. Perché cercare un
cestino anziché lasciar cadere una carta in terra per
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Ricci
strada? Perché rinunciare ad una bella passeggiata al
sole per ottemperare invece ad un’opportunità, dovere o necessità? Perché fare il giro largo con l’auto
anziché percorrere la corsia preferenziale? Peculiarità
del carattere napoletano è il rifiuto dell’obbedienza
alle regole, almenochè queste non siano con evidenza
formulate per il proprio benessere. Altrove viceversa principio informatore di tutte le attività sono le
regole, assunte acriticamente come indirizzo di vita.
Ad esempio il milanese dinanzi ad un semaforo rosso aspetta disciplinatamente che esso diventi verde,
e non indaga per niente sull’utilità in quel momento
della sua attesa; il napoletano invece si assicura che
il suo passaggio non rechi disturbo a nessuno, quindi passa tranquillo. Indubbiamente il modo milanese
semplifica la vita, poiché basta obbedire per trascorrere l’esistenza senza traumi e preoccupazioni, ma
quello napoletano da luogo ad una vita di molto più
affascinante, poiché ricca sempre di impegno personale, e ricerca del giusto in ogni intrapresa.
Ma, per tornare su quanto affermato all’inizio, occorre aggiungere che l’estremo individualismo dei
napoletani, di matrice greca, contribuisce a strozzare
qualunque attività tesa al benessere generale. E così
i napoletani, che si impegnano oltre ogni dire nella
cura del proprio appartamento ma lasciano nella più
lurida sporcizia quanto è al di là dell’uscio di casa,
non riusciranno mai a comprendere che il benessere
di ognuno non può essere assicurato se non attraverso quello di tutti.
Non si può peraltro disconoscere contempora10
Partenope, mito e storia
neamente la generosità, la schiettezza, la grandezza
d’animo, che si ravvisa nei settori a volte più indigenti del popolo. Il tutto unito ad una giovialità, allegria, vitalità, che è difficile trovare altrove, e che
unita all’impulsività, focosità che si ritrova nei rapporti umani, si ritrova in quella “napoletanità” troppo
spesso criticata. Giovialità ed allegria che si ritrovano
in una splendida foto, degli archivi Alinari, in cui un
gruppo di scugnizzi scendono alcuni gradoni forse
del Pallonetto di Santa Lucia, laceri, scalzi, smunti,
ma carichi di una gioia di vivere che ha del prodigioso, in rapporto alla estrema miseria che è alle loro
spalle!
E occorre aggiungere l’apporto dato da Napoli alla
cultura, all’arte, a tutte le manifestazioni più nobili
dell’animo umano nella sua lunghissima storia. Certamente non può disconoscersi il primato in questi
settori detenuto da regioni del Centro e del Nord
Italia, ma è innegabile il contributo dato dalla nostra
città e da tutte le regioni meridionali. Napoli ha troppi valori nelle sue radici, nella sua storia, nella sua
cultura, perché la si possa considerare negativamente
come è luogo comune.
Eccoci così di fronte ad un contrasto insanabile tra
cialtroneria e scelleratezza da un lato, e cultura, meriti
civici, nobiltà d’animo dall’altra. Potrà dirsi che dovunque si è in presenza di contrapposizioni tra idee,
comportamenti, modi di vivere diversi in una stessa
regione. Ma a Napoli le diversità sono molto più forti
che altrove. Costante è nella vita partenopea il manifestarsi di stridenti contrasti, che rivelano da un lato
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incomparabili bellezze e comportamenti a volte eroici,
dall’altro turpitudini ed egoismi della peggiore specie.
Napoli è la città degli orribili casermoni di cemento
affiancati a splendidi palazzi di tutti i secoli trascorsi e
a deliziosi villini Liberty, dei cumuli di spazzatura tranquillamente adagiati accanto a vetrine di gioielli milionari, dei cenciosi accattoni che elemosinano tra gli
eleganti tavolini della Caffettiera, della modernissima
metropolitana dalla quale uscendo si resta impegolati
in un traffico impossibile, della spietata e sanguinaria
camorra e delle manifestazioni commoventi di fratellanza; Posillipo e Borgo S. Antonio, alta intellettualità
e analfabetismo, arretratezza e cultura d’avanguardia,
accoglienza e respingimenti. L’ossimoro napoletano
è brillantemente evidenziato da Giordano Bruno con
“in tristitia hilaris in hilaritate tristis” e da Libero Bovio
che asseriva che “Tra noi si piange ridendo, si prega bestemmiando e si soffre cantando” e che “anche la canzone più allegra è profumata di malinconia”.
Benedetto Croce ha dedicato parte del suo studio
alla nostra città (17) (18), e da lui si apprende che
il regno di Napoli costituiva uno degli stati più importanti della vecchia Europa, detenendo il primato
in molti settori, o almeno uno dei primi posti. Egli
asserisce che “il paese chiuso in quei confini è stato
lungo i secoli e fino ai nostri giorni, celebrato e invidiato e bramato come ricchissimo per profusi doni
di natura, una terra promessa o un paradiso” (18, I,
I). Ebbene, nonostante ciò, egli stesso riconosce oggi
Napoli “spregiato o compassionato come uno dei più
aridi e poveri” (id).
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Le origini
I primi napoletani furono greci. Non proprio i primissimi, poiché prima, fin dall’epoca neolitica, vissero sulle nostre splendide coste uomini primitivi, di
cui si ritrovano vestigia tra l’altro nella Grotta delle
Felci a Capri e nella Grotta Nicolucci a Sorrento. I
greci sapevano che prima di loro la zona era stata abitata da gente che chiamarono opixoi da ope: grotta.
Opicia è il nome primitivo della Campania.
Fig. 1 Ulisse e le sirene. Mosaico pavimentale, Giorces, Museo del Bardo a Tunisi.
Secondo la leggenda la sirena Partenope, affranta
per non aver saputo ammaliare Ulisse, si gettò dal13
Ricci
la rupe dell’isola (i Galli o Capri), e il suo cadavere
finì sull’isolotto di Megaride, dando luogo al culto di
Partenope, che fu vivo per secoli.
I miti non sorgono mai per caso, ma sono sempre
carichi di significati, ed esprimono caratteri salienti
delle popolazioni che li estrinsecano. Il mito di Partenope racchiude significati reconditi che spiegano e
interpretano alcune pieghe fondamentali del carattere napoletano, e ne chiariscono la natura. La sirena,
sorta di mostro antropomorfo che dopo aver incantato i naviganti con il suo canto e la sua bellezza, li
torturava, li uccideva, forse se ne nutriva, esprime
brillantemente la realtà napoletana, che pur colma di
eccezionale bellezza, nasconde un carattere sanguigno e scellerato.
Altra leggenda, riportata da Stazio e prima di lui da
Licofrone, riferisce che Apollo, mercè il volo di una
colomba, guidò per le incantevoli spiagge del golfo
una giovane vergine, Partenope appunto, che posto
piede a terra morì ed ivi fu sepolta. Ancora, ma questa volta con una certa credibilità storica, pare che un
condottiero greco di nome Eumelo Favelo fosse alla
ricerca di una terra di particolare bellezza e fertilità
di cui aveva sentito parlare, ma una tempesta lo colpì
e sua figlia, appunto Partenope, vi perse la vita ed il
suo nome fu dato alla terra che l’aveva vista morire.
Strabone ne colloca il sepolcro quale visibile dal
mare, Licofrone alle foci del Sebeto, De Petra a San
Giovanni Maggiore, Capasso a Sant’Aniello a Caponapoli. Anche il console Lutaezio Catulo nei primi
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Partenope, mito e storia
anni del II secolo a.C. aveva scritto dell’esistenza del
sepolcro. Questa è quindi da considerare certa, e
rappresentò per secoli un simbolo ed una tradizione
molto vivi nella Neapolis delle origini. Dionigi di Alicarnasso chiama la città “sepolcro di Partenope”. La
sirena compariva anche effigiata su alcune monete di
epoca greca.
Fig. 2 Palepolis. Tratta da Le città nella storia d’Italia. Napoli
di Cesare de Seta. Edizioni Laterza.
La storia della nostra città ha inizio all’incirca sul
finire del IX secolo a.C., quando navigatori provenienti da Rodi crearono una colonia commerciale
sull’isolotto di Megaride e sul Monte Echia. Si trattava semplicemente di un punto di appoggio per le
lunghe imprese marinare e commerciali dei rodii.
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Ricci
Nello stesso sito i Cumani, coloni greci di stirpe
Eubea o Calcidica che si erano stabiliti a Cuma probabilmente nell’VIII secolo a.C., verso il 680 a.C.
fondarono una città.
Questa si trovava nella zona indicata con la lettera
A nella figura 2. Essa costituiva un classico esempio
di insediamento arcaico: a valle il porto ed un piccolo nucleo abitato, sull’altura il nucleo urbano vero e
proprio che copriva l’intera collinetta fino al vallone,
oggi via Chiaia, che la separava dalla necropoli sita
sulla opposta collinetta.
Nei due secoli successivi, Partenope, pesantemente
minacciata dagli etruschi e dai sanniti, non ebbe grande sviluppo urbanistico. Nel 524 a.C. gli etruschi assalirono Cuma, non riuscirono ad espugnarla ma la loro
pressione fu comunque un forte vincolo allo sviluppo
sia di Cuma che di Partenope. Poi, nel 474 a.C., i Cumani, alleati con il tiranno di Siracusa Jerone, vinsero una furiosa battaglia contro gli Etruschi e ripresero
il tranquillo dominio della zona. Quindi fondarono a
poca distanza un’altra città, nella zona pianeggiante,
che fu chiamata Neapolis, in contrapposizione a Palepolis che si ergeva sulla collina di Pizzofalcone. Si trattò in effetti di una nuova zona urbana, a poca distanza
dalla prima, costituendo con questa una sola polis.
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Napoli Greca (680 a.C.-326 a.C.)
Dunque, Napoli (dapprima Palepolis, quindi Neapolis) era una importante città della Magna Grecia,
totalmente impregnata della relativa civiltà, cultura,
etnia, pur del tutto autonoma amministrativamente e
politicamente.
La città, inserita nella rotta dei traffici tra Grecia
ed Oriente e Mediterraneo occidentale, risentì fortemente dell’influenza ateniese. Da ricordare lo sbarco
della flotta di Diotimo, stratega Ateniese, che secondo le testimonianze di Tsetse e di Timeo, sacrificò in
onore di Partenope e istituì una corsa con la fiaccola.
Gli Ateniesi trovarono a Napoli e nelle campagne
circostanti abbondanza di prodotti agricoli, soprattutto grano. I traffici che ne derivarono, unitamente a
quelli della ceramica attica che veniva diffusa nel Mediterraneo, favorirono per molti decenni i contatti
tra Neapolis e Atene, con evidente grande vantaggio
per la prima che ne ricavò crescita culturale e civile.
Il primo nucleo di Neapolis fu molto probabilmente
quello indicato con la lettera C nella figura 3, zona delimitata a Nord dal fiume Rubeolo, che seguiva all’incirca la attuale via Foria, e ad Ovest dal corso del Sebeto.
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La prima murazione, che delimita il primo nucleo
abitativo, si è mantenuta attraverso i secoli sul tracciato originario, pur con graduali successivi mutamenti.
Fig.3 Neapolis. Idem c.s
La straordinarietà della permanenza del tracciato nei
millenni è stata oggetto di ammirazione degli studiosi
rinascimentali. Ne restano oggi pochi sparuti resti a
piazza Mura Greche, a piazza Bellini, ed alle spalle
della scuola in via Foria laddove dovevano apparire
formidabili dal fondo del vallone, se a detta di Livio,
fecero desistere Annibale dall’affrontarle. Essa correva lungo l’attuale via Foria, per piegare lungo la
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Partenope, mito e storia
strada Carbonara, attraversare Castel Capuano, giungere a piazza Calenda, quindi scendere verso il mare,
seguire un tracciato non individuato all’interno di
corso Umberto, e risalire lungo via Mezzocannone
ed all’interno di via Costantinopoli (ved. figura 3).
Quando Ruggero il Normanno entrò in Napoli nel
1140, chiese ai napoletani la lunghezza delle mura,
e appreso con stupore della loro ignoranza, le fece
misurare durante la notte in 2363 passi pari a circa 4400-4500 metri, e tale lunghezza fu confermata
dalla misura eseguita da Bartolommeo Capasso nel
1892. La murazione non subì all’inizio importanti
mutamenti; alcuni ampliamenti si ebbero nella zona
ovest, e più in basso, verso p.zza della Borsa. Notevoli ampliamenti si ebbero in età imperiale e una
nuova cinta muraria fu costruita da Valentiniano III
nel 440 d.C.. Le mura predette hanno influito sulla
storia della città, difendendola da invasioni per più di
un millennio. Pirro, re dell’Epiro, durante una spedizione verso Roma nel 280 a.C., dovette rinunciare a
impadronirsi della città; Annibale, durante la seconda
guerra punica, fu distolto dall’attaccarla dalla potenza delle sue fortificazioni; Belisario, durante la guerra
gotica, solo dopo lungo assedio entrò in città attraverso un acquedotto, lo stesso, a quanto sembra, attraverso cui entrò nel 1442 Alfonso d’Aragona (circa
2000 anni dopo la fondazione le gloriose mura napoletane difendevano ancora la città).
L’influenza ateniese si avverte fortemente nell’impianto urbanistico. Neapolis, frutto di un vero e proprio piano regolatore, era costruita su uno schema
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ippodameo (dall’architetto Ippodamo da Mileto, cui
si deve la pianta di Atene e del Pireo, di Rhodi e di
Thuri), con tre strade principali (forse quattro) parallele ed equidistanti, dette plateai, e diciotto stenopoi, rigorosamente ad esse ortogonali. Le prime, i
decumanes dei romani (26), erano larghe circa sei metri, le seconde, i cardines romani, tre o anche meno.
Il primo decumano da Nord, Decumano Superiore,
corrispondeva alle attuali via della Sapienza, via Pisanelli, via Anticaglia, largo di Donnaregina; il secondo,
Decumano Maggiore, alle vie San Pietro a Maiella e
via dei Tribunali; il terzo, Decumano Inferiore, alle
vie San Biagio dei librai e via Vicaria vecchia. L’ipotesi di un quarto decumano, sostenuta da Bartolommeo Capasso, è resa verosimile dal susseguirsi delle
strade via San Marcellino, via Bartolommeo Capasso,
via Arte della Lana, a distanza esattamente uguale a
quella tra gli altri decumani (circa 200 metri). L’antico schema urbanistico ha quindi resistito attraverso
i secoli e tuttora disegna il centro della città; anche la
funzione dei luoghi è rimasta spesso immutata: dove
era un tempio, c’è una chiesa; dove era un mercato,
c’è una struttura di tipo commerciale; dove era l’agorà greca, c’era il Foro romano e più tardi il centro
assembleare del comune medioevale.
L’influenza ateniese determinò la crescita del porto che divenne uno dei più importanti del Mediterraneo. La prima struttura portuale della città sorse
grosso modo dove è oggi, presso l’attuale piazza Municipio, alla foce del fiume Sebeto, corso d’acqua oggi
prosciugato che seguiva il percorso di via Pessina, via
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Partenope, mito e storia
Sant’Anna dei Lombardi e via Medina, come si vede
nella precedente figura 3.
Spiccatamente attica fu l’istituzione delle phratrie,
sorta di associazioni religiose e politiche con a capo il
phretrarco ed i cui componenti si chiamavano phratrori,
che erano gruppi di famiglie che si riconoscevano in
un capostipite comune, dotate di potere giurisdizionale e amministrativo, legate implicitamente come si
direbbe oggi da vincoli di mutuo soccorso. Si è creduto di individuare in esse l’origine remota dei sedili.
Non se ne conosce il numero esatto, ma desumendoli
dalle lapidi, sono state individuati i nomi di dieci di
esse. Secondo il Giannone dette fratrie corrispondevano a delle piazze con teatri e propri templi presenti
nelle cittadine greche. In tali aree urbane, spesso vicine alle porte d’accesso, i soli appartenenti alla classe
che viveva nobilmente, e cioè senza svolgere alcun
mestiere o arte (nobiltà di spada, nobiltà di terra, nobiltà di toga), discutevano di affari pubblici o privati.
Tale classe di cittadini, costituiva il “patriziato” con
dignità gentilizia trasmissibile ai discendenti.1
La storia greca di Napoli è di estesissima durata.
Dapprima ci fu il periodo greco vero e proprio, che
1. Molte sono le citazioni trovate su lapidi delle dette fratrie. Della fratria
degli Aristei è stata trovata una iscrizione, che detta alcune norme relative ai prestiti
che i componenti della fratria potevano assumere dalla somma lasciata in legato da un
certo Aristone. La fratria degli Eunostidi, la cui sede doveva trovarsi presso porta San
Gennaro, prendeva il suo nome da quello di un giovane – Eunosto – dotato di particolare bellezza. Per tale motivo era molto desiderato dalle fanciulle, ed in particolare da
Ocna, la quale non essendo riuscita a destarne l’amore disse ai suoi fratelli di esserne
stata violentata. I fratelli lo uccisero e lei si suicidò. Fu disposta quindi la costruzione di
un tempio di cui la fratria manteneva il culto.
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Ricci
durò circa trecentocinquanta anni, poi quello romano, che durò addirittura circa sette secoli, durante il
quale i neapolitani conservarono tutto il carattere greco, in particolare ateniese, e mantennero dei greci la
civiltà, la raffinatezza, il civismo, essendo comunque
considerati i greci. Napoli era considerata quasi greca
urbs, secondo la definizione di Tacito che alludeva non
tanto alla fondazione, poiché il “quasi” sarebbe stato
in questo caso superfluo, quanto alle sue caratteristiche linguistiche, etniche e culturali.
Si è creduto di vedere un persistere del carattere
greco in quello napoletano, con quella dolce abulia
che tanti mali ha portato e porta alla città, ma con
la contemporanea protervia, alterigia, egocentrismo che ne caratterizzano perennemente le vicende. È innegabile che i napoletani sono un crogiuolo
di tante stirpi, e che hanno conservato qualcosa di
ognuna di esse; nel DNA di ciascuno di noi c’è un
po’ di greco, di romano, di germanico, di francese,
di spagnolo, di arabo, ma i caratteri greci sono rimasti particolarmente vivi attraverso i secoli, con il
loro indistruttibile, tenace individualismo. Il napoletano è scaltro, briccone, lestofante, sempre proteso
al raggiungimento di proprie utilità anche a scapito
di quelle altrui; è pigro, scansafatiche ma è anche gioviale, arguto, vivace, spiritoso, sagace, faceto, ironico
ed infine è generoso, magnanimo, caritatevole, ed è
anche molto sensuale. Ma è soprattutto fortemente individualista, ed è per questo che sfugge a tutto
quanto regola la società di oggi.
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