ALESSIO GIANNANTI
«Una forma inferiore»? Il teatro di Federico De Roberto
In
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena,
Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di
G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 978-88-907905-2-2
Come citare:
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La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
ALESSIO GIANNANTI
«Una forma inferiore»? Il teatro di Federico De Roberto
Federico De Roberto può esibire una vasta produzione drammaturgica, anche se questa è piuttosto misconosciuta, considerata
come una prova marginale del suo estro artistico e, da taluni, è vista come una operazione meramente commerciale. In questi
ultimi anni si è cercato di arrivare alla precisa definizione di un corpus teatrale e alla ricostruzione delle vicende redazionali
delle singole opere, ma permangono ancora molte zone d’ombra, anche rispetto alla ricostruzioni delle vicende redazionali: una
situazione ancora fluida come dimostrano le recenti scoperte di testi drammaturgici inediti o che si ritenevano perduti. De
Roberto, pur vedendo ripetutamente deluse tutte le sue aspettative, si dedicò per quasi un trentennio a quella che non poteva
evidentemente considerare un’attività accessoria del suo agire artistico. Come si può cogliere da molte testimonianze, dirette o
indirette, per De Roberto, sempre più in preda a quella devastante «follia del dubbio», la ricerca di un successo teatrale
divenne, negli ultimi anni della sua attività artistica, un vero e proprio assillo, che lo spinse ad una cura dei testi quasi
maniacale, con continue correzioni e riscritture, all’interno di un incessante ripensamento e messa in discussione dei risultati
conseguiti, che non pare lontano da quel processo di elaborazione e sedimentazione che riservò alle opere narrative maggiori.
Ciò basterebbe a contrastare quella sorta di luogo comune che sembra prevalere nella critica – talvolta anche all’interno di
contributi specificamente rivolti alla produzione teatrale – che intende liquidare questa attività come un dilettantesco slancio
verso un’arte (e un mondo) che rimangono a lui sostanzialmente lontani ed estranei, o guidata soltanto dall’intento di
procacciarsi fama e facili guadagni. Studiare la produzione drammaturgica di De Roberto ci offre la una grande opportunità
critica. Infatti le pièce, che – tranne in un caso – sono tutte trasposte da precedenti opere narrative, risultano essere
interessanti, non soltanto per la possibilità di essere studiate come opere autonome, ma anche (e soprattutto) per il rapporto
intratestuale che intrattengono con ipotesto narrativo, che dà un ulteriore motivo d’interesse linguistico e stilistico. Un’analisi
ʻcomparatisticaʼ, tesa ad evidenziare le varianti e le costanti che vi sono fra i due diversi momenti creativi (in alcuni casi
intercorrono anche più di due decenni dalla prima stesura narrativa e l’ultimo adattamento teatrale), si rivela utilissima per
capire in quale direzione, negli anni presi in considerazione in questa ricerca, stia volgendo l’arte di De Roberto; seppur
all’interno di generi letterari diversi che necessitano di peculiari accorgimenti formali. La tesi di questa comunicazione è quella
che De Roberto – in un lungo percorso di gestazione e all’interno di una parabola che non conosce successo di alcuna sorta –
conquisti progressivamente una maggiore consapevolezza del funzionamento della tecnica drammaturgica e un margine di
autonomia rispetto agli archetipi narrativi, anche al di là della naturale ʻpredisposizioneʼ della sua poetica (come ben dimostra
la prefazione dei Processi verbali) nei confronti della scrittura per le scene.
Federico De Roberto può esibire una vasta produzione drammaturgica, sebbene questa
sia stata per molti anni (e per certi versi lo è tuttora) piuttosto misconosciuta e
considerata come una prova marginale e minore del suo estro artistico; non degna di
particolari attenzioni. Alla base di questo giudizio liquidatorio vi è una duplice
convinzione: una prima è che si tratti di una operazione meramente commerciale (del
resto è noto il fatto che il teatro fosse enormemente più redditizio della narrativa, e
Verga sostenne un annoso duello giudiziario per recuperare dall’editore Sonzogno una
parte dei cospicui guadagni ottenuti dal melodramma di Mascagni, tratto dalla Cavalleria
rusticana),1 la seconda convinzione (conseguente all’ipotesi speculativa) è quella di essere
in presenza di una semplice trasposizione meccanica di precedenti opere narrative – e
quindi si tratterebbe di ʻesercizi letterariʼ non particolarmente impegnativi dal punto di
vista creativo.
Nonostante la sopravvivenza di tale impostazione, negli ultimi decenni (sulla falsariga
della precedente riscoperta del Verga drammaturgo) si è sviluppato un certo interesse
Lo stesso Verga si riferisce, in più luoghi, a questa maggior possibilità di guadagno offerta dal teatro. Si
veda G. OLIVA, Introduzione, in G. VERGA, Tutto il teatro. Con i libretti d’opera e le sceneggiature cinematografiche, a
cura di G. Oliva, Milano Garzanti, 20003, XXXVI-XXXVII; sulla vicenda della Cavalleria rusticana: Ivi, XLXLII. Si veda anche lo stesso racconto di De Roberto F. DE ROBERTO, Stato civile della “Cavalleria rusticana”,
«Lettura», XXI (1 gennaio 1921), 1 ripubblicato appunto in ID., Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di C.
Musumarra, Firenze, Le Monnier, 1964 e in anni recenti riproposta a introdurre il volume G. VERGA,
Cavalleria rusticana – Il mistero. Storia e testo, introduzioni di F. De Roberto e di G. Pacuvio, Catania, Società
di Storia Patria per la Sicilia Orientale - Bonanno, 1994, 15-35.
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per questo ambito della produzione derobertiana: soprattutto a partire dai primi anni
Ottanta con l’uscita di una monografia di Vincent J. Cincotta dedicata all’argomento e
la pubblicazione da parte di Mondadori dei drammi (Il rosario; Il cane della favola; La strada
maestra; La tormenta) a cura di Natale Tedesco e Vincenzo Licata, opere rimaste fino ad
allora, quasi senza eccezioni, sparse in rivista.2 Altri importanti contributi sul teatro sono
seguiti, fino all’importante convegno di Catania del 2004, organizzato dalla Fondazione
Verga e dedicato al Teatro verista, in cui a De Roberto sono state dedicate alcune
relazioni.3 I primi studi hanno tentato di ricostruire le complesse vicende redazionali
delle singole opere (anche grazie all’esistenza di ampi e preziosi carteggi),4 e di arrivare
2 Si veda: V.J. CINCOTTA, Federico De Roberto commediografo. (Dalle lettere all’amico S. Lopez), Catania, Trincale,
1980 e l’antologia F. DE ROBERTO, Teatro. Il rosario. Il cane della favola. La strada maestra. La tormenta, a cura
di N. Tedesco e V. Licata, Milano, Mondadori, 1981 (Introduzione, 5-18).
3 Si veda Il teatro verista (Atti del Congresso, Catania, 24-26 novembre 2004), Catania, Fondazione Verga,
2007, voll. I-II; si vedano, relativamente al teatro derobertiano, le relazioni contenute nel vol. I: R.
VERDIRAME, Giacosa, Verga e De Roberto discorrono di teatro, 41-61; G. RANDO, Le metamorfosi della «Lupa». Tra
narrativa e teatro, 237-263; G. MAFFEI, Idee derobertiane sul teatro: le cose che si possono e che non si possono
rappresentare sulla scena, 337-351; G. TRAINA, Da «Spasimo» a «La tormenta». Il difficile rapporto di De Roberto col
teatro e la sua riflessione sui generi letterari, 353-361. Prima di questo convegno esistevano diversi interventi
sparsi, apparsi per lo più su periodici: ora a carattere più specialistico, altre volte più generale. Ci si limita
a citare solo i principali: F. DE FELICE, F. De Roberto drammaturgo, «La Sicilia», Catania, 24 gennaio 1950;
E. PATTI, Il teatro amaro di De Roberto, «Corriere della sera», 4 luglio 1969; A. DI GRADO, Introduzione a F.
DE ROBERTO, Giustizia. Dramma in un atto, a cura di A. Di Grado, Catania, Società di Storia patria per la
Sicilia Orientale, 1975, 7-42; F. ANGELINI, Alla ricerca di una nuova drammaturgia: Luigi Capuana, Giovanni
Verga, Federico De Roberto, in Il secondo Ottocento. Lo stato unitario e l’età del positivismo, Roma-Bari, Laterza, VIII,
tomo primo, 1975; V.J. CINCOTTA, Il «Rosario» di De Roberto tra novella e dramma, «Italica», LV (1978), 2; G.
NICASTRO, Federico De Roberto drammaturgo, in Teatro e società in Sicilia (1869-1918), Roma, Bulzoni, 1978,
97-119; V. LICATA, Il teatro di F. De Roberto, «Nuovi quaderni del Meridione», XVIII (gennaio-marzo) 1980,
69, 54-78; N. TEDESCO, Un grido nel silenzio delle coscienze: «Il rosario» e l’espressionismo di F. De Roberto, in Il cielo
di carta. Teatro siciliano da Verga a Joppolo, Napoli, 1980, 47-59; ID., Introduzione a F. DE ROBERTO, Teatro…,
5-18; ID., La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1981, 164-175; S.
CAMPAILLA, Verismo e straniamento nel «Rosario» di De Roberto, in Federico De Roberto, a cura di S. Zappulla
Muscarà (atti del Convegno Nazionale svoltosi a Zafferana Etnea in occasione del XIII premio «BrancatiZafferana»), Palermo, Palumbo, 1984, 12-26, poi in Letteratura e Filologia, Studi in onore di Cesare Federico
Goffis, Foggia, Bastogi, 1985, poi in Mal di luna e d’altro, Roma, Bonacci, 1987; G. NICASTRO, Il teatro di
Federico De Roberto, in Federico De Roberto…, 45-51, poi in Scene di vita e vita di scene in Sicilia, Messina, Sicania,
1988, 47-55; M. FRANCALANZA, «La Tormenta» di Federico De Roberto tra romanzo e dramma, in Dal testo alla
scena. Saggi sul teatro italiano dal ‘700 al ‘900, Catania, Marino, 1984; C. MUSUMARRA, «Il Rosario» di Federico
De Roberto, in Teatro di ieri e di domani, Catania, Giannotta, 1984, 107-108; V.J. CINCOTTA, Verga, Puccini, De
Roberto e il mancato melodramma della «Lupa», «Rivista di Studi Italiani» (Toronto), IV (1986), 2, 64-74; A.
BARSOTTI, «Il rosario» tra storia e mito, «Problemi», 85 (maggio-agosto 1989), 168-186; D. PERRONE,
Introduzione a F. DE ROBERTO, Il Rosario, Marina di Patti (ME), Pungitopo, 1989, 7-19; L. MIRONE,
Requiem per Rosalia, ammalata di voglia di vivere, nel «Rosario» di De Roberto, in La famiglia a teatro. Conflitti e
compromessi familiari sulla scena del secondo Ottocento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1991; R. CASTELLI,
Introduzione a Tutta la verità. Dramma in tre atti, a cura di R. Castelli, Catania, Fondazione Verga, 2005, 3-32.
4 Ci si limita qui a citare soltanto i carteggi relativi all’attività teatrale: S. TABET LOPEZ, De Roberto
commediografo. (Dalle lettere a Sabatino Lopez), «Il Dramma», 329 (febbraio 1964), 49-54; G. LOPEZ, Lettere di
Verga e De Roberto a S. Lopez, «L’osservatore politico letterario», XV 6 (giugno 1969), 65-90 [già pubblicato
in «Lo Smeraldo», VII (30 maggio 1953), 3, 23-31]; A. BARBINA, Lettere inedite di G. Verga e F. De Roberto a
Nino Martoglio, «Il cannocchiale», IV serie (giugno 1970), 1-2 45-58; ID., L’amara vocazione teatrale di Federico
De Roberto. (Lettere inedite a Nino Martoglio), «La Rassegna della letteratura italiana», LXXVI (maggiodicembre 1972), 2-3 384-394 poi in La mantellina di Santuzza. Teatro siciliano tra Ottocento e Novecento, Roma,
Bulzoni, 1983, 219-242; P. MELI, Il teatro di F. De Roberto. (Sulla scorta di lettere inedite di Lopez, Praga e De
Roberto), «Le ragioni critiche», V (luglio-settembre 1975), 267-297; S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Lettere inedite di
Nino Martoglio a Federico De Roberto, «Otto-Novecento», II (settembre-ottobre 1978), 5 169-195; V.J.
CINCOTTA, «Tutta la verità». Dalle lettere inedite di Sabatino Lopez a Federico De Roberto, «Inventario», n.s., 13
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alla precisa definizione di un corpus teatrale derobertiano. Tuttavia permangono molte
zone d’ombra e siamo ancora in presenza di una situazione fluida, come dimostrano le
scoperte di testi drammaturgici inediti o che si ritenevano perduti: dopo La Giustizia
uscita nel 1975 per le cure di Antonio Di Grado,5 nel 2005 Tutta la verità ritrovata ed
edita da Rosario Castelli (che ha annunciato anche il ritrovamento di un altro inedito:
La prova del fuoco).6 Anche chi scrive ha dato notizia nella sua tesi di dottorato della
scoperta nel 2004 di un copione inedito (e probabilmente mutilo) derivato dalla novella
di guerra La posta.7
Vi è un aspetto, per così dire quantitativo, che trascende, quale che sia, il giudizio di
valore, e che deve essere tenuto nella giusta considerazione: pur vedendo ripetutamente
deluse tutte le sue aspettative (la maggior parte delle pièce scritte o abbozzate non ebbe
neppure una rappresentazione, e per ogni opera vi fu una sequela di disdette e
interruzioni così ostinata da sembrare inverosimile), De Roberto si dedicò per quasi un
trentennio a quella che non poteva evidentemente considerare un’attività accessoria del
suo agire artistico. Come si può cogliere da molte testimonianze, dirette o indirette, per
lo scrittore, sempre più in preda a quella devastante «follia del dubbio»,8 la ricerca di
una qualche affermazione in campo teatrale divenne, negli ultimi anni della sua attività,
un vero e proprio assillo, che lo spinse ad una cura dei testi quasi maniacale, con
continue correzioni e riscritture, all’interno di un’opera incessante di ripensamento e di
messa in discussione dei risultati conseguiti; ad esempio, diversamente dalle opere
narrative licenziate per la stampa, lo vediamo intervenire sul testo teatrale all’indomani
di una rappresentazione o anche dopo l’uscita in rivista, per mettere a frutto le reazioni
(gennaio-aprile 1985), 57-77; G. LOPEZ, Federico De Roberto e Sabatino Lopez cent’anni fa, «Belfagor», LII (31
maggio 1997), 3, 332-340. Oltre agli epistolari in rivista va citato almeno il volume: M. PRAGA, Lettere a
Federico De Roberto, introduzione e note di N. Leotta, Catania, Biblioteca della Fondazione Verga, 1987,
che è anch’esso ricco di informazioni sull’attività drammaturgica dello scrittore.
5 DE ROBERTO, Giustizia…, 1975, successivamente ripubblicato nella collana diretta da Luca Scarlini
“Siparietto” (Rimini, Raffaelli, [s.d.]).
6 ID., Tutta la verità…. Nell’Introduzione all’opera Castelli dichiara di avere rintracciato il dattiloscritto di
questa opera nella sezione D.O.R. dell’archivio romano della Società Italiana Autori ed Editori, e dà
notizia del ritrovamento della «stesura quasi definitiva» di un altro testo inedito e mai rappresentato
(unitamente ad una omonima novella, anch’essa inedita): La prova del fuoco, di cui si conoscevano soltanto
alcuni cenni contenuti nell’epistolario (ivi, 6).
7 Il dattiloscritto della Posta è stato rinvenuto presso la Biblioteca del Burcardo di Roma (anch’essa
collegata all’archivio S.I.A.E.), ed è composto da 45 fogli dattiloscritti (solo fronte) con interventi
manoscritti, come l’aggiunta di indicazioni di recitazione, qualche rara correzione e alcune parti di testo
biffate. Il testo teatrale deriva dalla ʻnovella di guerraʼ omonima (ID., La posta, in Le sette rose, a cura di E.
Meschino, Napoli, L’Editrice italiana, 1919; poi ripubblicata in La “Cocotte”, a cura di S. Zappulla
Muscarà, Milano, Curcio, 1979, 59-103). Vi è il sospetto che il testo sia mutilo perché pur essendoci tutto
lo sviluppo drammaturgico è privo di didascalie; il che, unitamente alla tipologia degli interventi
correttori, farebbe pensare, in prima istanza, ad un ʻcopione di scenaʼ (e in effetti il dattiloscritto è stato
donato dal capocomico Annibale Ninchi). La trascrizione del testo è contenuta nella tesi di dottorato di
prossima pubblicazione: A. GIANNANTI, L’ultimo De Roberto, tesi di dottorato ASFIL (Antropologia Storia
Medievale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in relazione alla Sardegna), Università di
Sassari, ciclo XIX, anno di discussione 2008.
8 «Ti dirò anzi – e mi crederai! – che sono abulico, che ho la follia del dubbio e una quantità enorme di
altre fobie, e non già per modo di dire, ma per diagnosi dei dottori, i quali hanno trovato in me uno dei
più rari ed espressivi casi dell’isterismo mascolino. È stata la mia grande infelicità nella vita, è stata la
ragione per cui poco ho vissuto e troppo ho pensato, sempre più aggravando in tal modo le mie
condizioni. Nella stessa attività scrittoria, tutte le volte che ho composto un libro, il domani della
pubblicazione ho pensato di riscattarne le copie per toglierle dalla circolazione e darle nel fuoco». In
questi termini si esprime De Roberto, in una lettera del 23 dicembre 1916 al capocomico Virgilio Talli: S.
LOPEZ, Dal Carteggio di Virgilio Talli, raccolto da Egisto Roggero, Milano, Treves, 1931.
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del pubblico e della critica, oppure un’intuizione sgorgata improvvisamente o il
consiglio di attori e capocomici, con l’effetto di un proliferare di redazioni, purtroppo
non tutte conservate. Insomma siamo in presenza di un labor limae che se da una parte
sembra l’effetto di un ʻcomplesso d’insicurezzaʼ dovuto alla minor padronanza del
genere drammaturgico, dall’altra non pare lontano da quel processo di elaborazione e
sedimentazione che De Roberto riservò alle opere narrative maggiori.
Quanto detto fino adesso non dovrebbe quindi bastare da solo a contrastare quella
opinione prevalente nella critica – talvolta anche all’interno di contributi specificamente
rivolti alla produzione teatrale – che liquida l’impegno di De Roberto come un
dilettantesco slancio verso un’arte (e un mondo) che rimangono a lui sostanzialmente
estranei, e considera queste opere come poco curate e superficialmente portate a
termine? Oppure si deve ipotizzare un ʻDe Roberto paralleloʼ, ovvero l’esistenza di una
seconda officina della scrittura, del tutto distinta da quella del narratore? E tanto
quest’ultima è soavemente ispirata dalla Musa, tanto l’altra è abietta, utilizzata dallo
scrittore per procacciarsi fama e facili guadagni, che nella realtà però non arriveranno
mai? È certamente un discorso complesso che investe una questione assai più ampia: il
giudizio sull’«ultimo De Roberto», un’etichetta che negli anni è passata ad indicare
estensivamente tutta la produzione successiva al suo ineguagliato capolavoro I Viceré, e
quella conseguente crisi artistica, psicologica e intellettuale, che Carlo Alberto
Madrignani ha descritto incisivamente attraverso il binomio oppositivo ʻintegrazione vs.
rassegnazioneʼ.9
Tentare di dare una qualche risposta agli interrogativi che ci derivano dalla produzione
teatrale di De Roberto, ci offre l’occasione di entrare più nel merito dell’argomento
proposto da questo panel.10 Infatti le pièces, che – tranne in un caso – sono tutte trasposte
da precedenti opere narrative (novelle ma anche romanzi), risultano essere interessanti,
non soltanto per la possibilità di essere indagate come opere autonome, ma anche (e
soprattutto) per il rapporto, detto da Genette «ipertestuale», che queste intrattengono
con l’ipotesto narrativo, e che costituisce un ulteriore motivo d’interesse linguistico,
stilistico e, appunto, intertestuale.11 Un’analisi ʻcomparatisticaʼ, tesa ad evidenziare le
varianti e le costanti che vi sono fra i due diversi momenti creativi (in alcuni casi
intercorrono anche più di due decenni dalla prima stesura narrativa all’ultimo
adattamento teatrale), si rivela utilissima per capire in quale direzione stia volgendo
l’arte di De Roberto; seppur all’interno di generi letterari diversi che necessitano di
peculiari accorgimenti formali.
Occorre però fare una premessa sulla poetica derobertiana in rapporto alla scrittura per
le scene. Se è vero che anche in De Roberto, come era già stato per Capuana e Verga,
l’approdo al teatro era passato per la via più semplice, cioè attraverso il riadattamento
Il primo ad utilizzare la definizione «ultimo De Roberto» fu G. MARIANI, L’ultimo De Roberto, «Galleria»,
(settembre 1952), 1, 8-13; l’espressione è stata ripresa anche in A. DI GRADO, L’ultimo De Roberto, in
Società e letteratura a Catania tra le due guerre, a cura di C. Musumarra, Palermo, Palumbo, 1978, 207-221.
Negli anni successivi si è imposta in ambito critico come una formula abbastanza ricorrente e, lo si è
detto, con una accezione piuttosto estensiva. Nell’ultimo capitolo della sua monografia (intitolato appunto
Rassegnazione e integrazione), Madrignani descrive l’atteggiamento ambivalente di uno scrittore fieramente
appartato che, tuttavia, non ha del tutto rinunciato alla ricerca di un qualche successo di pubblico. Si veda
C.A. MADRIGNANI, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto. Saggio su ideologia e tecniche narrative, Bari,
De Donato, 1972, 183-207.
10 Il titolo del panel: La trasposizione teatrale dei testi letterari tra Ottocento e Novecento, coordinatrice Prof.ssa
Antonia Lezza, Università di Salerno, discussant prof.ssa Angela Guidotti, Università di Pisa.
11 Cfr. G. GÉNETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997.
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drammaturgico di precedenti opere narrative, nel suo caso da una parte si coglie una
più scaltrita consapevolezza della specificità e anche delle incompatibilità dei generi
(come ha dimostrato Maffei),12 e dall’altra tale scelta si fonda anche sulle ragioni
intrinseche ad una poetica esperita: nelle novelle ma anche in molti passi dei grandi
romanzi si può intravedere una certa disponibilità per la scena, così come vi sono poi
momenti in cui l’uso intensivo e protratto del dialogo rivela una scansione teatrale in
senso lato; che poi è la cifra più interessante del modo con cui De Roberto ha inteso
interpretare il dettato verghiano dell’impersonalità.
Inoltre, nella famosa Prefazione alla raccolta di novelle Processi verbali del dicembre 1889, è
lo stesso De Roberto a farci capire come la trasposizione teatrale delle sue opere
potrebbe costituire una sorta di naturale sbocco creativo: infatti si parla della scrittura
drammaturgica come il modello da imitare per chi in narrativa voglia perseguire
l’oggettività della rappresentazione («L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che
nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si
scrive pel teatro»).13 È pur vero che a pochi anni di distanza nell’intervista rilasciata ad
Ugo Ojetti vi sono dichiarazioni che suonano come una sostanziale smentita di quanto
detto nella Prefazione. In Alla scoperta degli scrittori, De Roberto esprime tutte le sue riserve
verso il teatro, considerato come un genere letterario di «forma inferiore».14
Tuttavia viene da pensare che tali affermazioni ʻcontroʼ il teatro non vadano intese in
senso assoluto, lo dimostra innanzitutto il prosieguo della attività letteraria dello
scrittore, ma soprattutto vanno collocate in un preciso percorso personale: con l’uscita
dei Viceré, lo scrittore è forte di portare argomenti a favore del romanzo («la vera forma
ancóra perfettibile»).15 E poi, aspetto da non trascurare, è reduce dalla sua prima
esperienza in campo teatrale, che si era rivelata fallimentare. Le parole di De Roberto
potrebbero, allora, riflettere quell’amara delusione che gli proveniva dalla
collaborazione con Verga per la scrittura di un libretto d’opera tratto dalla Lupa
(collocabile dagli ultimi mesi del 1891 fino al 1895).16 Il protrarsi di questo lavoro a
12 A dimostrazione della complessità del pensiero di De Roberto sul teatro, e in particolare della sua
riflessione circa la possibilità di un teatro naturalista e, ancora, sulla differenza tra il genere narrativo e
quello drammaturgico, si veda l’utilissimo articolo MAFFEI, Idee…, che documenta nello scrittore un
pensiero profondo su questi temi (si parla di una sensibilità europea) già a partire dalla fine degli anni
Ottanta. Maffei richiama l’attenzione su tre articoli apparsi sul «Giornale di Sicilia» non trascurabili per
analizzare la posizione dello scrittore: F. DE ROBERTO, Letteratura contemporanea. Romanzo e commedia, 23
febbraio 1888; [firmato con lo pseudonimo] HAMLET, Intermezzi. Il naturalismo in teatro, 19 settembre 1888;
ID., Frastagli. Due commedie, 23 gennaio 1889.
13 «Se l’impersonalità ha da essere un canone d’arte mi pare che essa sia incompatibile con la narrazione e
con la descrizione. […] L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della
rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro. L’avvenimento deve svolgersi da
sé, e i personaggi debbono significare essi medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò
che essi sono. […] La parte dello scrittore che voglia sopprimere il proprio intervento deve limitarsi,
insomma, a fornire le indicazioni indispensabili all’intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni
delle vive voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie», in F. DE ROBERTO,
Prefazione a Processi verbali, in Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani, Milano, 1998 [19841],
1641-1642.
14 U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Dumolard, 1895, 87. Alla domanda di Ojetti «non scriverai
mai pel teatro?» De Roberto risponde: «Mai. Credo il teatro una forma inferiore». Ojetti aveva registrato
anche per Verga un analogo giudizio di sufficienza verso il teatro: forma «inferiore e primitiva».
15 Ibidem.
16 Nel giugno del 1891 Verga firmò un contratto con Giulio Ricordi, a cui cedeva i diritti della Lupa per
cinque anni: lo scrittore, in collaborazione con De Roberto, avrebbe tratto dalla novella un dramma lirico
in due atti, altresì l’editore si impegnava a far musicare il libretto da Giacomo Puccini (o in caso di
rinuncia, da un altro musicista) entro i termini pattuiti. Il rapporto con il musicista si rivelò difficile ed
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quattro mani (dovuto per lo più alle indecisioni di Puccini) era per De Roberto la
dimostrazione di quanto la scrittura teatrale rendesse lo scrittore ancora più assoggettato
a fattori esterni alla sua volontà e al gusto del pubblico.17 Inoltre vi è in questi anni un
cambiamento di clima: lo spazio di agibilità per una proposta di teatro verista, così come
Verga e Capuana lo avevano inteso, era ormai compromesso e si era avviato
quell’inesorabile processo di bancarotta del Naturalismo.18
L’esperienza fra l’altro non va trascurata in relazione ai temi che stiamo affrontando,
poiché pur trattandosi di un lavoro a quattro mani siamo in presenza di una
singolarissima forma di triangolazione, che ha anche generato un caso filologico di
grande complessità: dalla novella originaria vengono, infatti, tratti sia una dramma sia
una tragedia lirica (a De Roberto è affidata la versificazione del libretto d’opera) e dai
manoscritti conservati e dalle lettere apprendiamo che il doppio lavoro di trasposizione
avviene in contemporanea con uno scambio bidirezionale: Verga passa mano a mano
gli atti del dramma rivisti a De Roberto perché egli possa adattare il libretto ai
cambiamenti e poi alcune delle soluzioni scelte dal più giovane scrittore rifluiscono,
ovvero vengono riutilizzate dal maestro per il dramma (alcuni critici sono caduti in
errore ritenendo il dramma nato soltanto in un secondo momento, come ripiego per il
rifiuto di Puccini a concludere l’opera).19
estenuante per i suoi continui rinvii e ripensamenti, che lo portavano a chiedere ai due autori sostanziali
cambiamenti del testo. Come è noto, alla fine il progetto di un melodramma pucciniano della Lupa
naufragò; e secondo alcuni biografi del musicista non meno che le ragioni estetiche influirono sulla sua
scelta alcune suggestioni di superstizione, legate ad un viaggio preparatorio a Catania.
17 La successiva storia del melodramma della Lupa non è meno sfortunata. Nel 1906 Verga tenta, senza
successo, di fare musicare il libretto a Mascagni. E nel 1911 il libretto viene affidato al compositore
siciliano Pierantonio Tasca, che lavorò con solerzia alla composizione. Tuttavia il testo del melodramma
fu stampato soltanto nel 1919, quando ne fu annunciata la prima, nel cartellone del Teatro Massimo di
Palermo; ma a pochi giorni del debutto, a causa di alcuni attriti con l’impresa teatrale, Tasca ritirò l’opera
(F. DE ROBERTO e G. VERGA, La lupa. Tragedia lirica, Palermo, tip. Barravecchia e Balestrini, 1919). Per la
prima rappresentazione della Lupa si dovette così attendere il 21 agosto 1932, quando ormai tutti i
protagonisti erano morti (per l’occasione venne ristampato il libretto: G. VERGA e F. DE ROBERTO, La
lupa. Tragedia lirica in due atti, musica di Pierantonio Tasca, Noto, tip. Caruso, 1932).
18 Secondo Gianni Oliva la fredda accoglienza suscitata dal dramma che Verga trasse dalla Lupa (1896) –
soprattutto se messa confronto con il successo di Cavalleria rusticana – è una evidente dimostrazione di
quanto era ormai «mutata la temperie culturale» e di come il verismo «di certo aveva fatto il suo corso»
anche nel teatro (G. OLIVA, Introduzione a VERGA, Tutto il teatro…, L). Verga e il suo teatro diventarono, in
quegli stessi mesi, il bersaglio prediletto dei detrattori del verismo; fino al punto di far scoppiare una
polemica sulle colonne del «Marzocco», che vide un serrato botta e risposta tra Ojetti e Capuana su tale
argomento. Se questo scontro da una parte riproduceva la contrapposizione tra due diverse concezioni
della letteratura: quella naturalistico-positivistica e quella decadente-spiritualistica, dall’altra era per De
Roberto una avvisaglia delle difficoltà ad intraprendere la strada del teatro; e anche queste ragioni non
furono probabilmente estranee alla scelta di non continuare il lavoro sul melodramma. Per i riferimenti
bibliografici relativi alla polemica Ojetti-Capuana (ci furono interventi anche di Lucio D’Ambra e Enrico
Corradini), si veda: ivi, LXXV. Un’analisi di questo dibattito si trova in S. FERRONE, Il teatro di Verga,
Roma, Bulzoni, 1972, 235 ssg.
19 Si tratta di una questione filologica estremamente interessante ma anche complessa, per la cui
trattazione sono costretto a rimandare ad altra sede. Mi limito qui a segnalare queste poche informazioni:
per una descrizione dei manoscritti delle versioni teatrali (dramma e libretto) della Lupa, conservati presso
la Biblioteca Regionale Universitaria di Catania, si veda: F. BRANCIFORTI, Lo scrittoio del verista, in I tempi e
le opere di Giovanni Verga. Contributi per l’edizione nazionale, Palermo-Bagno a Ripoli, Banco di Sicilia-Le
Monnier, 1986, 157-162. Dalla ricognizione condotta da Branciforti, risultano conservati sei manoscritti:
tre autografi, due di altra mano e un manoscritto (che lo studioso chiama E) di mano di De Roberto, con
numerosi interventi correttivi anche dello stesso Verga. Sarah Zappulla Muscarà ha intrapreso alcune
analisi comparative tra novella, dramma e libretto, anche se si tratta pur sempre di un «esame corsivo»
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E da questa esperienza che parte l’avventura teatrale di De Roberto e, nei limiti di
spazio di questo contributo, si vuole proporre una veloce carrellata delle opere
limitandoci ad evidenziare in estrema sintesi alcuni aspetti (che diremmo variantistici)
del rapporto tra testi teatrali e narrativi: aspetti inediti o quasi del tutto trascurati dalla
critica. Gli esempi portati sono di supporto alla tesi di fondo di questo intervento, ovvero
quella che De Roberto – in un lungo percorso di gestazione e all’interno di una
parabola che non conosce successo di alcuna sorta – conquisti progressivamente una
maggiore consapevolezza del funzionamento della tecnica drammaturgica e un margine
di autonomia rispetto agli archetipi narrativi. Tuttavia non è questo un percorso lineare
e privo di contraddizioni; occorre quindi stare attenti a non imbattersi in un nuovo
pregiudizio critico, nel tentativo di abbandonare quello vecchio. Infatti una volta sfatata
la convinzione di una trasposizione meccanica dai testi narrativi, dovrebbe essere
altrettanto chiaro che la maggior distanza dal modello originario non è di per sé un
valore, non è in definitiva garanzia della riuscita estetica dell’opera: troviamo anche il
caso in cui ad una maggior differenza corrisponde una banalizzazione della complessità
originaria (in De Roberto è il caso dei drammi tratti dai due romanzi Spasimo e La messa
di nozze).
Verso la fine del secolo (1897-99), dopo la collaborazione al libretto della Lupa, De
Roberto si cimenterà ʻin proprioʼ con la scrittura drammaturgica: lavorando a diversi
progetti e tra questi a un adattamento da Spasimo e dalla novella Il rosario. Si dovrà però
attendere il 1912 per il vero e proprio debutto sulle scene, tra l’altro, con esiti disastrosi,
perché all’entusiasmo della critica per Il rosario si contrappone il dileggio del pubblico,
anche per l’infelice scelta di rappresentarlo nella stessa serata insieme a un commedia
leggera come Il cane della favola.20
Il resto della storia teatrale di De Roberto sarà segnato da questo trauma, a cui seguì
una serie innumerevole di rinunce in extremis, di tentativi falliti, di incomprensioni con le
compagnie e la perenne dualità tra il giudizio di pubblico e critica, che vivrà in
ambedue le direzioni e in maniera alternativa: quando avrà il favore dell’uno non avrà
quello dell’altra e viceversa.
Non spenderò molte parole per l’opera teatrale più celebre di De Roberto Il rosario, che
Natale Tedesco ha definito un contributo siciliano alla temperie del primo
delle redazioni manoscritte, che non permette di addentrarsi troppo nel «tortuoso itinerario compositivo»:
S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Introduzione a G. VERGA, La lupa. Novella, dramma, tragedia lirica, a cura di S.
Zappulla Muscarà, Palermo, Novecento, 1991, 7-47. Anche Ferrone – a cui va il merito di aver
sottolineato con riscontri testuali il «rapporto di osmosi e di interferenza» tra le due trasposizioni, lirica e
in prosa (FERRONE, Il teatro…, 196-197) – incorre nell’errore di datazione che posticipa il dramma rispetto
al libretto; un errore che soltanto la successiva conoscenza dell’epistolario ha potuto emendare. Per poter
meglio quantificare il contributo di De Roberto (che se non va né ingigantito, non può essere nemmeno
liquidato come una mera trasposizione meccanica della volontà del Verga) occorrono senz’altro dei
supplementi di indagine filologica, anche alla luce di una lettera di Verga a De Roberto del 7 aprile 1894,
in cui possiamo conoscere le modalità della loro collaborazione. Tale lettera non è stata forse tenuta nella
giusta considerazione: Verga De Roberto Capuana. Catalogo della mostra. Celebrazioni bicentenarie Biblioteca
Universitaria 1755-1955. Catania, maggio-giugno 1955, a cura di A. Ciavarella, Catania, Giannotta, 1955,
126.
20 Il racconto della serata del debutto al Teatro Manzoni di Milano, il 29 novembre 1912, è stato fatto,
diversi anni dopo, dalla moglie di Sabatino Lopez: «il pubblico, coi suoi mormorii e schiamazzi, non
lasciò nemmeno ascoltar le battute», in TABET LOPEZ, De Roberto…, 54. La novella era uscita in F. DE
ROBERTO, Il cane della favola, «Nuova Antologia», CCXXXVIII (1 luglio 1911), 3-35; e in seguito
ripubblicata, come prima delle tre, nella raccolta ID., Ironie, Milano, Treves, 1920, 1-95. L’adattamento
teatrale uscì l’anno seguente alla prima edizione della novella: ID., Il cane della favola. Commedia, «La
Lettura», XII (1 gennaio 1912), 1 20-33. Il testo è accompagnato da cinque illustrazioni.
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espressionismo europeo e in particolare al teatro di Strindberg.21 Il dramma non si
differenzia moltissimo dalla novella apparsa nei Processi verbali (del resto l’invenzione
contrappuntistica della scena con la madre che recita il rosario è di per sé un effetto di
grande valenza teatrale), ma le varianti sono comunque significative e sembrano, se
possibile, accrescere di senso questo capolavoro narrativo (non è forse un caso che
nell’antologia derobertiana degli anni Cinquanta Luigi Russo l’abbia pubblicato
inaspettatamente al posto della novella).22 Ad esempio, la soluzione scenografica
determina un restringimento dello spazio che permette una costruzione simbolica
dell’ambiente scenico, funzionale a rappresentare il dominio incontrastato della
matriarca sulle figlie (Anna Barsotti ha parlato di una sorta «stanza della tortura»)23 in
maniera anche più efficace di quanto accada nel testo narrativo. Altri elementi, come
l’introduzione di alcuni personaggi, sono ad esempio funzionali a rappresentare più
esplicitamente una dimensione sociale e classista. Si vuole poi segnalare un aspetto che è
stato ignorato dalla critica ed è invece meritevole di attenzione: tra le due edizioni a
stampa del dramma, «Nuova Antologia» 1899 e «Rassegna contemporanea» 1912, la
didascalia iniziale in cui si descrive la sala di Palazzo Sommatino presenta una grande
differenza.24 Nella prima edizione del Rosario si leggeva la seguente didascalia:
Una sala in casa della baronessa. Due usci nella parete di fondo: in mezzo un alto
seggiolone antico. Uscio a sinistra, uscio e finestra a destra. Ritratti di famiglia alle pareti.
Sopra una tavola una lumiera con quattro becchi. Cassapanche, seggioloni e sedie
comuni.25
Nell’edizione del 1912, De Roberto riscriverà la didascalia iniziale, introducendo alcuni
significativi elementi:
Una sala nel palazzo Sommatino, vasta ma squallida per scarsità e vecchiezza di addobbo.
Qualche seggiolone sdrucito, qualche consolle che ha perduto la doratura; specchi anneriti e
incrinati, e vecchi e brutti ritratti alle pareti. Cassepanche sgangherate con lo stemma di
famiglia scolorito sullo schienale. Un sontuoso lampadario pende dal soffitto, con le candele
intatte, ingiallite dal tempo e pencolanti da tutte le parti. Sopra una tavola una lucerna di
ottone, ad olio, con quattro becchi. Rozze sedie di legno grezzo accatastate in un angolo26.
Nella seconda redazione del 1912 l’autore è passato da un’enumerazione neutra degli
oggetti ad una loro aggettivazione («sdrucito»; «anneriti e incrinati»; «vecchi e brutti»;
21 L’interpretazione del teatro derobertiano, data da Tedesco, coerentemente con l’impianto di una
riflessione che si è articolata lungo l’arco di alcuni decenni, tende a mettere in rilievo la componente
espressionistica del Rosario (riferendosi a Strindberg, Wedkind ma anche al pittore Munch), giudicando
questo dramma come uno degli esiti più alti della sua intera opera. Tedesco osserva anche che, quando vi
sarà effettivamente la messa in scena del Rosario nel 1912, si trovano già manifestazioni di un
espressionismo italiano: Sintesi drammatiche (1911) di Rosso di San Secondo e Guardia alla luna (1916) di
Massimo Bontempelli. Tuttavia la connotazione espressionistica non è presente nelle altre opere teatrali,
per le quali lo studioso ricorre alla categoria di «realismo analitico» (N. TEDESCO, La norma del negativo. De
Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1989, 167-171).
22 F. DE ROBERTO, Il rosario , in I Viceré. La messa di nozze. Il rosario. La paura, a cura di L. Russo, Milano,
Garzanti, 1950, 749-767.
23 BARSOTTI, «Il rosario»…, 176-177.
24 La prima edizione a stampa del dramma è F. DE ROBERTO, Il rosario. Bozzetto drammatico, «Nuova
Antologia», CCXXVI (16 aprile 1899), 627-640. La nuova edizione: Il Rosario. Dramma in un atto, «Rassegna
contemporanea», V (dicembre 1912), 12 403-419.
25 ID., Il rosario. Bozzetto drammatico…, 627.
26 ID., Il Rosario. Dramma in un atto…, 403.
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«sgangherate»; «scolorito»; «ingiallite dal tempo e pencolanti da tutte le parti»; «rozze»;
«grezzo») che, insieme ad altre aggiunte («perduto la doratura»), vuole restituire una
immagine di questa stanza «squallida per scarsità e vecchiezza di addobbo».27 In questa
forte immagine di fatiscenza che è restituita dalla nuova didascalia non è difficile
riconoscere quelli che Francesco Orlando ha definito gli «oggetti desueti della
letteratura», ovvero il «ritorno del represso anti-funzionale» elaborato nella sua teoria
freudiana della letteratura,28 anche se qui non sembra tanto il referente metaforico della
decadenza della aristocrazia e del suo immobilismo (come accade talvolta in De
Roberto), quanto l’allegoria di quel sistema concentrazionario creato dalla madre e degli
effetti subiti dalle figlie. Sicuramente la riscrittura della didascalia è una sfumatura di
significato che non può essere trascurata, a cui si aggiungono anche altri importanti
cambiamenti introdotti, per la messa in scena del Talli, nella redazione del 1912.29 Per
questo motivo meraviglia non poco che gli editori moderni del dramma (Russo,
Barbina, Tedesco e Perrone) abbiamo preferito l’edizione del 1899 e non quella del
1912 che, tra l’altro, fu la sola effettivamente andata in scena.30
Ibidem.
Cfr. F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati
e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993. In questo saggio l’autore analizza e classifica (in dodici categorie) un
vastissimo repertorio di immagini, tratto dalla letteratura moderna occidentale, in cui prevale un’idea di
«corporeità non funzionale» (quello che per rimanere alla teoria freudiana della letteratura elaborata da
Orlando è un «ritorno del represso anti-funzionale»). L’immagine del palazzo Sommatino data nella
nuova didascalia del Rosario può essere identificata in quel ramo dell’«albero semantico» creato da
Orlando che prende il nome di «logoro realistico».
29 Le prime due scene non differiscono di molto e l’impianto dialogico rimane sostanzialmente invariato:
le didascalie, vengono ampliate, alcune formule linguistiche sono sostituite, si aggiunge qualche dettaglio e
comare Angiola ottiene un paio di battute in più che accrescono la sua, già aspra, critica alla famiglia
Sommatino. Il cambiamento più sostanziale si ha nella terza scena, quella della recita, che viene
aumentata di un discreto numero di nuove battute. Al coro delle donne vengono aggiunti due personaggi,
Maddalena e Sara, che acquistano un’identità propria. Questo intervento va nella direzione di aumentare
la coralità della scena e serve a mettere in risalto ancora di più, il potere tirannico e tutta l’insensibilità
della baronessa, in contrapposizione alla umanità e al buon senso delle donne plebee. In questi termini si
può spiegare anche l’aggiunta, nella seconda redazione, di un intermezzo, una fiaba in cui si racconta un
contadino che risolve l’indovinello del re.
30 Oltre alla già citata antologia (1950) curata da Luigi Russo (DE ROBERTO, I Viceré. La messa di nozze. Il
rosario. La paura…, 749-767) e al volume del teatro derobertiano di Natale Tedesco (DE ROBERTO,
Teatro…, 25-44), si hanno le seguenti riprese del dramma: nel 1970 in Teatro verista siciliano, a cura di A.
Barbina, Bologna, Cappelli, 1970, 359-376, e quella in anni più recenti (1989), curata da Domenica
Perrone [Marina di Patti (ME), Pungitopo, 1989], che ripubblica in appendice anche il testo della novella
del 1890. Come si è detto tutte queste edizioni ripropongono la redazione della «Nuova antologia» del
1899. Si registra il caso anomalo della edizione Russo che pur restituendo l’edizione del 1899, nel
riquadro dei personaggi elenca anche i nomi di Maddalena e Sara: i due personaggi femminili inseriti
nella redazione del 1912. Si tratta chiaramente di una svista (nell’introduzione si dice con palese errore:
«“Nuova Antologia” del 1912»!) perché le tre scene sono corrispondenti in tutto alla prima edizione e ai
due personaggi di Maddalena e Sara non è assegnata, infatti, alcuna battuta. Il singolare errore è passato
direttamente anche nella raccolta del teatro verista siciliano curata da Barbina. Una riprova che l’edizione
della «Rassegna contemporanea» era preferita dallo stesso De Roberto si può rintracciare nel fatto che fu
questa redazione quella data a Martoglio per la traduzione in siciliano, tra fine 1918 e 1919, per la
Compagnia del Teatro Mediterraneo, che in quegli anni proponeva un repertorio con le opere dei
maggiori scrittori siciliani (Verga, Capuana, De Roberto e Pirandello), ma anche i classici della grecità. I
manoscritti della traduzione del Rosario di Martoglio sono conservati presso il Museo Biblioteca dell’Attore
di Genova. Il rapporto tra Nino Martoglio e Federico De Roberto è stato studiato per primo da Alfredo
Barbina in due articoli: BARBINA, Lettere…, e ID., L’amara vocazione teatrale di Federico De Roberto. (Lettere inedite
a Nino Martoglio), «La Rassegna della letteratura italiana», LXXVI (maggio-dicembre 1972), 2-3, 384-394.
Le lettere di Martoglio a De Roberto sono state pubblicate, per una «ricostruzione bilaterale del
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Vi sono poi casi in cui la distanza tra i testi narrativi è davvero notevole come, ad
esempio, non poteva essere diversamente (anche per ragioni quantitative) con i romanzi.
A due di questi abbiamo già accennato: La tormenta è il dramma tratto dal romanzo
Spasimo del 1897, pubblicato nel 1918 in rivista e mai messo in scena31 e l’altro, La strada
maestra, è tratto da La messa di nozze del 1911, anch’esso solamente pubblicato, nel
1913.32 Nella Tormenta la scelta, comprensibile, di accentuare gli aspetti relativi
all’intreccio giudiziario, producono però l’effetto di limitarne la complessità psicologica
ai personaggi, mentre nella Strada maestra la decisione di eliminare la scena centrale e
forse più ʻteatraleʼ del romanzo, ovvero la proposta della donna di coinvolgere il proprio
amante come testimone al matrimonio ʻriparatoreʼ (che sancisce il ritorno e la resa al
marito e all’ordine famigliare) conduce il dramma ad una involuzione di tipo moralistico
e conformistico, con Rosanna che veste i panni di una eroina di evidente matrice antiibseniana.
Con esiti più felici assistiamo ad un analogo stravolgimento del testo di partenza nel
dramma la Giustizia, dove la novella Memoriale del marito, raccolta in Documenti umani, 33
costituisce piuttosto una suggestione, con un rimescolamento e un’aggiunta degli
elementi diegetici, che serve a traghettare la dimensione psicologica e iper-soggettiva del
memoriale sul piano dell’azione teatrale: infatti l’omicidio che nella novella è più che
altro una proiezione mentale del protagonista (un suo sfogo affidato al ʻdocumento
umanoʼ) viene qui messo in scena. Inoltre si introduce un nuovo personaggio, la sorella
Remigia, che svolge un interessante ruolo contrastivo, quasi caricaturale, in un impianto
profondamente tragico.
Il ritorno effettivo sulle scene per De Roberto sarà soltanto nel dopoguerra con Tutta la
verità che è opera nata in maniera del tutto autonoma, scritta direttamente per il teatro e
quindi poco interessante ai fini di questo discorso, se non fosse utile citarla perché ci
serve a raccontare la parabola finale dello scrittore.34 In questo dramma giudiziario (in
cui il teatro pirandelliano sembra averlo sfiorato e suggerirgli qualche argomento
consonante con il suo gusto originario, come il tema della verità) De Roberto fa sfoggio
di una piena padronanza degli stratagemmi teatrali, tanto che verrebbe quasi da dire
che ci appare come eccessivamente smaliziato.35 Sembrerebbe quindi il compiersi di un
carteggio» da S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Lettere inedite di Nino Martoglio a Federico De Roberto, «OttoNovecento», II (settembre-ottobre 1978), 5, 169-195.
31 F. DE ROBERTO, Spasimo, Milano, Galli-Chiesa-Guindani, 1897. Il romanzo era stato precedentemente
pubblicato a puntate nell’appendice del «Corriere della Sera», dal 26 novembre 1896 al 6 gennaio 1897.
De Roberto inizierà a lavorare all’adattamento teatrale in contemporanea all’uscita del romanzo ma,
dopo diverse stesure e alcuni progetti di messa in scena falliti, venne ripreso soltanto nel dopoguerra e
pubblicato in rivista: La tormenta, «Secolo XX», XVII (gennaio, febbraio, marzo 1918,), 1, 2, 3.
32 Anche questo romanzo uscì prima a puntate: ID., La messa di nozze, «Nuova Antologia», CCXXXVII 16
novembre, 1 e 16 dicembre 1910 e poi venne pubblicato in volume in La messa di nozze. Un sogno. La bella
morte, Milano, Treves, 1911. Nel 1913 venne pubblicata la trasposizione teatrale: La strada maestra.
Commedia in 3 atti, «Rassegna contemporanea», VI (25 novembre, 10 e 25 dicembre 1913), 22-24, 529-554,
705-722, 941-959.
33 ID., Il memoriale del marito. Novella, «Fanfulla della domenica», 12 e 18 marzo 1888. Poi confluita nella
raccolta Documenti umani, Milano, Treves, 1888. Come si è già detto sopra, fu Antonio Di Grado a scoprire
nel 1975 il testo teatrale inedito di Giustizia.
34 Si rimanda alla già citata edizione del dramma e soprattutto cfr. R. CASTELLI, Introduzione a DE
ROBERTO, Tutta…
35 La volontà di affrancarsi da una sorta di complesso di inferiorità nella scrittura teatrale sembra
condurre De Roberto ad un eccessivo sfoggio di abilità tecnica, che rischia però di mettere in subordine il
valore letterario dell’opera. Il commento dell’amico Lopez, da questo punto di vista, è assai rivelatore:
«Pare che tu, timoroso di apparire novizio nell’arte scenica, abbia voluto addimostrarti sapientissimo,
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percorso di emancipazione se non fosse che adesso (l’opera viene rappresentata tra la
fine del 1921 e il 1922) all’apprezzamento del pubblico (trovando finalmente qualche
replica in giro per l’Italia) si contrappone il fastidio della critica che gli rimprovera di
essere stato troppo accattivante e di non aver fatto lo scrittore fino in fondo.36 Insomma
un ribaltamento di giudizio che per De Roberto ha il sapore della beffa.
Per concludere dobbiamo tornare al biennio 1911-12 e alla pochade Il cane della favola, che
nasce dalla costola di una novella teatrale. I due testi vanno pensati come un dittico:
probabilmente la novella è stata pensata ab origine per un utilizzo teatrale. In effetti, non
solo le due versioni (narrativa e teatrale) escono quasi contemporaneamente, ma anche
la distanza tra i due testi è minima: soltanto quando viene messa in prova la commedia,
De Roberto pensa di cambiare il finale della novella pubblicata in rivista, in cui un
guanto da signora serviva a rassicurare un marito geloso che sta per scoprire la tresca
amorosa della moglie con il conte Ugo Roccalta. A questo elemento De Roberto non fa
altro che aggiungere un piccolo escamotage, uno scambio di guanti tra le due amanti del
conte Roccalta, che senza saperlo stanno frequentano la stessa alcova, e questo crea un
effetto scenico di indubbia efficacia, perché l’uomo viene sbugiardato dalla donna (che
ha scoperto la presenza di un’altra lei) e messo in ridicolo dalla sua irrefrenabile brama
di conquista. Quando qualche anno più tardi (1920), la novella viene ripubblicata nel
volume Ironie, per il finale non viene riproposto quello della precedente versione
narrativa, bensì viene recuperata la più efficace soluzione teatrale.37 Questo aspetto, che
mi pare sia sfuggito fino ad oggi alla critica, è una testimonianza ulteriore della
complessità del rapporto (sicuramente bidirezionale) tra scrittura narrativa e teatrale in
De Roberto, e anche, se è concesso dirlo, una dimostrazione che questo corpus non
meriti di essere liquidato come meramente subalterno alla narrativa, ma al contrario ha
ancora bisogno delle attenzioni degli studiosi.
smaliziatissimo, e ti sia adoperato a cercare tutte le difficoltà sceniche per dipanarle, per vincerle, per
trionfarne». La citazione del commento del Lopez è riportata nella risposta di De Roberto dell’11 maggio
1916 (CINCOTTA, Federico..., 109-110).
36 Questo aspetto è particolarmente evidente nel giudizio di Lucio D’Ambra: «[…] Federico de Roberto
conduce i suoi tre atti con perizia calcolata e vigile. Tutti i segreti dei soliti congegni sono noti allo
scrittore. Non è, certo, l’opera d’un maestro se maestro deve voler dire colui che insegna agli altri. Ma è
certamente il dramma della maestria, val quanto dire di colui che dagli altri ha imparato,
meccanicamente parlando, come meglio e quanto più si poteva imparare» (L. D’AMBRA, “Tutta la verità”
di F. De Roberto al “Quirino”, «L’Epoca», 1 aprile 1922). Particolarmente duri furono i giudizi di Piero
Gobetti (GIUSEPPE BARETTI [pseud. di P. GOBETTI], “Tutta la verità” di F. De Roberto, «L’Ordine Nuovo»
(Torino), II (23 agosto 1922), 231 poi in P. GOBETTI, Scritti di critica teatrale, Torino, Einaudi, 1974, 515518.) e, soprattutto, l’attacco portato da Eugenio Cecchi, che firmò sotto lo pseudonimo la stroncatura
dello spettacolo sul giornale diretto da Alberto Bergamini: TOM [pseud. di EU. CECCHI], “Tutta la verità” di
F. De Roberto al Quirino, «Giornale d’Italia», 1 aprile 1922 (a cui seguì la risposta di De Roberto del 6 aprile
sullo stesso giornale).
37 Si veda il finale in DE ROBERTO, Ironie…, 89-93.
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Una forma inferiore»? Il teatro di Federico De Roberto