Ai miei piccoli‐grandi uomini e a Cipriano, il mio immenso amore. e la farfalla volò…
8 Marzo 1998, Festa della Donna. Non ho voglia di uscire per festeggiare, ma lui insiste ed io accetto per mascherare i miei presentimenti e il mio dolore: sospettavo qualcosa di grave… mai però avrei potuto immaginare la gravità di quello che stava per succederci… Il giorno dopo tutte le mie paure hanno trovato conferma. Alle 13.30 mio marito deve sottoporsi all’ultimo esame dell’iter iniziato il 12 febbraio 1998: la broncoscopia. Sono spaventata. La notte prima Cipriano ha avuto un grosso attacco di tosse. Devo informare il medico dell’episodio, prima dell’esame. Dopo solo cinque minuti il medico si rende conto di non poter sottoporre mio marito all’esame. Mi chiama in disparte, è manifestamente imbarazzato. Gli sorrido per incoraggiarlo mentre nervosamente gioca con la sua biro. Infine, si decide: “Signora, purtroppo non siamo riusciti a fare la broncoscopia, perché in gola c’è un tumore, senz’altro benigno” aggiunge con un tono poco convinto, “ma il problema di suo marito è ben più in profondità.” Non ha neanche il coraggio di guardarmi negli occhi. Lo fisso, attonita. Mi comunica la sua impotenza con una diagnosi violenta e fulminea. Incontrollabili, le lacrime scendono sul mio viso. La solitudine e la disperazione m’invadono e la crudele realtà scorre davanti ai miei occhi con il suo corteo di minacce. Tutto sembra crollarmi addosso. Capisco però che devo raccimolare le mie forze e prendere in mano la situazione. Sono moglie e madre! 1
Sono passati due anni, ma questo giorno mi sembra ieri… Il primo pensiero: avvisare i miei figli dell’immediato ricovero del papà. Nel taxi che ci conduce in urgenza all’ospedale, mi accorgo quanto è debole e indifeso l’uomo seduto accanto a me. E’ mio marito. Non parla, ma i suoi occhi lasciano trasparire la comprensione e la paura per tutto quello che gli sta succedendo. Al Pronto Soccorso il medico lo visita, intuisce la gravità della malattia e m’interroga: “Quando si sono manifestati i primi sintomi? come ha iniziato?” Provo ad ordinare le idee e a raccontare i fatti. Piango, ma parlo lo stesso. Mi rendo conto che tutto è cominciato nel dicembre scorso. Rivedo le sequenze del film di cui Cipriano è il protagonista, la sua stanchezza infinita, una strana depressione, una mancanza di interesse per tutto quello che accadeva intorno a lui, un disagio senza causa apparente… Una mattina mentre i ragazzi erano a scuola, cercai di farmi dire da mio marito che cosa gli stesse succedendo. Volevo capire se il suo malessere aveva origine da un’insoddisfazione lavorativa, familiare o se addirittura dipendesse da me: “Non ti vado più bene? Forse vuoi farti una nuova vita?” Con la voce tremante, ricordo che gli dissi: “Dopo tutto, hai solo 47 anni, fai ancora in tempo! Dimmi cos’è che non va.” Con affetto mi guardò e rispose: “Ma non c’è niente che non va tra noi!” Al terzo giorno di ricovero, la diagnosi della malattia chiarì ad entrambi che la sua sofferenza era di origine esclusivamente fisica: adenocarcinoma polmonare mediastino, in metastasi! La dottoressa del reparto comunicò la “sentenza” a me, e non a mio marito. Mi sentii allora sommersa dalla rabbia, da un senso di impotenza che rovesciai subito sui medici. Sorse la domanda lancinante, che fare adesso? La mia prima preoccupazione era di proteggere mio marito dall’atrocità e dall’irreversibilità della diagnosi. Come dirgli che era di colpo diventato un malato terminale? Ho creduto allora che fosse un suo diritto preservargli un minimo di speranza e chiesi alla dottoressa di aspettare qualche giorno a 2
dirgli la verità. Mi rendo conto oggi, che ero io ad aver bisogno di tempo per riflettere su come sdrammatizzare la spaventosa realtà. La stessa sera, appena tornata dall’ospedale, Cipriano mi telefona: “Mi hai promesso di dirmi la verità e quindi voglio sapere che cosa ti ha detto la dottoressa.” Sono molto turbata da questa domanda. Non posso mentirgli, devo dirglielo. Mi faccio coraggio. Ho la gola stretta, chiusa. Le parole stentano ad uscire. Devo rispondere. Di me si fida. Indirizzo una preghiera al cielo e comincio: “Già sapevamo che c’era qualcosa che non andava, dalle lastre risulta che c’è una macchia polmonare.” Questa frase gli basta e sembra dare un significato alle sue preoccupazioni. Finalmente il mostro che silenziosamente lo stava logorando prende forma e acquisisce un nome. Cipriano conosce adesso il nemico e passa allora da una fase depressiva ad una combattiva. La sua attenzione si rivolge a quello che succede intorno a lui. In reparto, vuole sapere delle condizioni degli altri pazienti, e delle cure che stanno facendo. Chiede, osserva, parla con i malati, con gli operatori… E’ così che si formò una sua opinione sulla chemioterapia: “una cura invasiva e distruttiva”, mi disse. Il primario venne personalmente ad informarlo, “nel suo caso, nessun intervento chirurgico è possibile, signor Guida. L’unica cura è la chemioterapia.” Rivedo il sorriso di Cipriano quando rispose: “La ringrazio dottore, ma ho già deciso quello che farò.” La sua scelta è la cura Di Bella. Molti ne parlano. Mi sono documentata anch’io con la mia amica, una dottoressa omeopata. Ancora una volta Cipriano ed io siamo in sintonia sul da farsi. Ho deciso di rimanere a casa dal lavoro per avere più tempo per stare vicino a lui e ai ragazzi. Sono o non sono la sua compagna di vita? Mi sento come un soldato che si prepara alla battaglia. Oltre ad essere una moglie, sono anche una madre e come tale ho dei doveri di lealtà nei confronti dei figli. Voglio che siano preparati al peggio. E’ da me che devono sapere quello che sta succedendo. Al più grande Emilio (18 anni) faccio leggere i referti, mentre al più piccolo Luigi (15 anni) cerco di distillargli la verità, dolcemente, in modo più protetto. Fra noi si rafforza una stretta complicità. Non è facile. 3
Sto male. Pur essendo un donna di 37 anni mi scopro fragile e ho spesso voglia di piangere come una bambina. A mia volta sento il bisogno di essere consolata, coccolata e protetta. Avrei voglia di appoggiare la testa sul petto di mia madre, ma mia madre è lontana 800 Km! I ricordi mi assalgono. 18 anni fa ho lasciato la mia terra, la mia famiglia, i miei amici per l’amore di un uomo. La giovane appassionata Adelina, il cuore colmo di gioia e di speranza, ha fatto le valigie senza rimpianti ed oggi, sempre per amore, la stessa Adelina piange disperatamente per le difficoltà che deve affrontare da sola, senza il diritto di lasciarsi andare. Devo essere il punto di riferimento per la mia famiglia. Adesso, sono io al timone. O Dio, aiutami! Arrivati a casa, m’ingegno per far trovare al mio Amore un clima di serenità, di “normalità”, nonostante tutti gli ostacoli che si accumulano sulla strada della cura Di Bella. Cipriano si rende perfettamente conto dei problemi che ogni giorno mi trovo ad affrontare. Un giorno, guardandomi teneramente, mi dice: “Adé cosa ti ho combinato?” Piange per me. Ed io, con una finta collera: “Perché, cosa mi hai combinato? Non l’hai voluta tu questa malattia! Tu non faresti lo stesso per me?” Tocca a lui giocare all’indignato: “Certo che lo farei!” I nostri sguardi continuano a parlare anche quando il dialogo si esaurisce. In questi suoi ultimi mesi di vita, abbiamo raggiunto una vicinanza e un’intimità più profonda, vissuto l’Amore Vero, quell’Amore che non ha bisogno di parole inutili, che è fatto di gesti quotidiani, di attenzioni, di rispetto e di priorità. Cercavo di fare tutto quello che lo faceva sentire una persona amata e rispettata, al di là della malattia che lo indeboliva ogni giorno che passava. Dalle piccole cose che gli potevano piacere a ciò che lui riteneva fondamentale per sentirsi uomo, curavo ogni dettaglio. Il mio uomo era molto virile, ma la malattia e la cura lo indebolivano irrimediabilmente. Lui stesso si rendeva conto che i suoi stimoli sessuali non erano più gli stessi, e si chiedeva cosa gli stesse succedendo. Conoscendo bene i suoi valori, capivo la sua inquietudine. Provavo a rassicurarlo, dicendogli che dipendeva dalla cura e che una volta conclusa tutto sarebbe tornato come prima. Lui mi volle credere. Il 10 maggio i 4
ragazzi erano a scuola. La data si è stampata nella mia memoria con lettere di fuoco. Siamo soli, a letto. Come di sua abitudine, si avvicina in un approccio amoroso. So cosa significa per lui e malgrado la sua debolezza fisica, lo incoraggio. Mi vengono i brividi quando le immagini di quella mattinata di maggio sfilano sullo schermo della mia mente. So che le condizioni di Cipriano non gli permettono di raggiungere il colmo dell’istante sublime, ma lui insiste affannosamente. Soffro nel più profondo dell’anima. Ogni suo sforzo mi strappa il cuore. Gli mormoro che non è importante per me, ma capisco che lo è per lui. Le lacrime gonfiano le mie palpebre mentre disperata rivolgo un appello al cielo! Prego Dio di aiutarlo, Dio non può offendersi per la mia richiesta, si tratta di amore, di amore vero… Il mio grido è accolto e Cipriano si sente, ancora una volta, un uomo vero. Fu l’ultima volta, ma fu un’unione benedetta e bellissima. I nostri giorni passavano sotto il segno di un amore intenso, fra equilibri familiari fragili da mantenere. Una sera a cena, avevo preparato delle pietanze in grado di stimolare l’appetito di Cipriano. Luigi, mio figlio più giovane, osservava suo padre in silenzio che, a fatica, metteva dei rari bocconi in bocca. Forse gli sembrò che suo papà non volesse mangiare e disperato, quasi urlò: “Papà, ma tu devi mangiare, non vedi che stai dimagrendo, te ne stai andando alle cozze!!!!” In lacrime, scappò nella sua cameretta. Un silenzio di piombo si abbatté nella sala. Andai dal mio ragazzo e abbracciandolo gli spiegai che il papà non si rifiutava di mangiare, ma aveva perso lo stimolo di nutrirsi. L’avanzamento della malattia ne era la causa. Come è difficile spiegare al proprio figlio, senza ferirlo, che deve contenere le sue emozioni. Come fargli capire che rinfacciare al padre le sue difficoltà poteva mortificarlo. Toccava a me ristabilire la serenità tra tutti, mi sentivo una mediatrice! Il mio ragazzo più grande, Emilio, si stava preparando all’esame di maturità. Si confrontava con i suoi professori, calcolando con loro il CEA (cellule tumorali presenti nel sangue), l’evoluzione, la velocità con cui queste cellule si moltiplicavano, lasciando meno speranze di vita al padre. Un giorno, al ritorno da scuola, mi espresse la sua preoccupazione per il fatto che le famigerate cellule cancerogene aumentavano, 5
nonostante la cura Di Bella. “Purtroppo, Emi, è così” . Ancora una volta, mi trovai a scontrarmi con il dolore di dover disilludere mio figlio rispetto alle attese di salvare il papà. Sin dall’inizio mio marito ha scelto la sua fine terrena: a casa sua, con sua moglie e i suoi figli. La decisione di valersi della cura Di Bella fu presa da entrambi, in completo accordo, per permettere a Cipriano di vivere l’ultimo periodo della sua vita curato, ma a casa sua. Voleva andarsene tra l’affetto dei suoi familiari e non perso nelle anonime corsie di un ospedale, dove si è soltanto un numero cui si somministra una cura. Aver preso una strada alternativa alla chemioterapia comportò ulteriori difficoltà. Quando il medico mi prescrisse il protocollo Di Bella mi avvisò dei molti ostacoli in agguato, la burocrazia per prima. Giorno per giorno me ne rendevo conto. Pur consapevole dell’improbabilità di un miracolo, ero pronta ad affrontare la situazione, senza rinunciare alla speranza. Il mio scopo era assecondare e appoggiare Cipriano nella sua scelta, facendogli capire che ero con lui, al suo fianco, fino alla fine. In ogni difficoltà incontrata ci mettevo grinta, testardaggine. Non mi fermavo davanti a nulla, perché questa cura rappresentava per lui uno stimolo di vita, un non arrendersi alla malattia che, aggressiva, avanzava. Cominciò la ricerca affannosa della Somatostatina. Come tanti, fummo costretti a comprare privatamente la preziosa medicina. Mi sentivo come un cacciatore di diamanti, perseguitato, bisognoso, pieno di speranze, disperato e nello stesso tempo riempito di fede. In soli due mesi, abbiamo speso 12 milioni! L’angoscia mi attanagliava nell’attesa della chiamata della Regione che significava entrare nella “lista dei promossi”, smettere di vivere nell’ansia generata dall’incessante ricerca dei soldi necessari, quasi dovendo prostituirsi nella ricerca affannosa dei milioni da pagare, pagare e pagare ancora! Solo i primi di giugno, ci fu concesso di ottenere la Somatostatina tramite la mutua. Nel frattempo, ogni settimana, andavamo all’Ospedale di Garbagnate, per i controlli previsti dal protocollo Di Bella. La terapia si svolgeva a casa. Ero, per fortuna, circondata da persone amiche, tra cui l’omeopata, un’infermiera e un suo nipote. Mi hanno aiutata, 6
appoggiata e insegnato a diventare una piccola infermiera. Così facendo il desiderio di Cipriano fu rispettato. Rifiutava l’invasione di quell’ago fisso nel corpo, preferiva mille punture, mille buchi, ma non voleva essere violato. Per somministrare la somatostatina, tre volte al giorno, fui costretta ad imparare a fare le iniezioni; la cosa arricchì ulteriormente la nostra intimità. La situazione aveva un qualcosa di buffo: mio marito, come un buon professore, mi stimolava e mi incoraggiava, dandomi ad ogni puntura un voto, in un’atmosfera di complicità. Sapevo che desiderava ed aveva piacere che fossi io a prendermi cura di lui ed io non accettavo di delegare niente a nessuno, volevo essere presente in tutti i momenti, perché mi rendevo conto che erano gli ultimi… Cipriano sapeva che la mia attenzione era rivolta tutta a lui. Fu un periodo intenso che ci ha permesso di sublimare un’intesa di cui non misuravamo la dimensione: il vero Amore. Oso dire oggi che questi giorni sono stati per me “i più belli”. Nei tre mesi che il Destino ci ha concesso, ci fu dato il tempo di riconciliarci, di salutarci. Ciprano mi ha manifestato tutto l’affetto che nutriva per me, quasi contemplandomi. I suoi occhi lasciavano trasparire la fierezza e l’orgoglio che aveva sempre provato nei miei confronti. Fine Maggio, la situazione è molto peggiorata. Continua a perdere peso, a non avere appetito, ha iniziato ad avere episodi di dispnea… Ho paura. Nell’ultimo controllo settimanale, a Garbagnate, il medico vuole ricoverarlo. Cipriano mi guarda come un bambino impaurito che cerca la mamma, mi fa capire che vuole andare a casa. Approvo naturalmente la sua decisione. “Torniamo a casa, amore mio”. Lo stesso giorno, la fisioterapista venuta per la visita domiciliare, si accorge che solo a sollevare le braccia mio marito fa molto fatica, si affanna. Mi chiama in disparte e con delicatezza mi pone alcune domande. Mi prende la mano e dolcemente dice: “Signora, se fosse mio padre, non lo farei toccare!” Cipriano non riesce più ad alzarsi dal letto. Giorno per giorno, la mia mente si prepara a completare il puzzle che rappresenta la fine della vita dell’uomo che amo. Vedo mio marito simile ad una creatura indifesa… 7
La stessa sera non ce la fa ad alzarsi dal letto e mi chiede aiuto. Capisco subito che qualcosa non va. Telefono alla mia amica omeopata che accorre subito. Visto la situazione e le controindicazioni della cura Di Bella, sospetta un attacco di ipoglicemia, gli dà un po’ di acqua con zucchero e Cipriano si tranquillizza, poco dopo si addormenta. La dottoressa sa bene quello che sta succedendo. E’ da manuale, ma per non farmi spaventare non si esprime, è consapevole che capirò da sola. Nell’ora successiva, Cipriano si sveglia e chiede di alzarsi. Ha voglia di fumare una sigaretta. Per principio, non fuma mai in camera da letto e ha bisogno del mio aiuto per raggiungere la cucina. So quanto è importante per lui. Come comportarsi? Posso rifiutare di accontentarlo? Si nega l’ultima sigaretta al condannato? Cipriano mi mette le braccia al collo e, passo dopo passo, ci indirizziamo verso la cucina. Seduto sulla sua solita sedia, accende la sigaretta, fa due tiri e, sfinito, mi chiede di riportarlo a letto. Ho forse sopravvalutato le mie forze? Ripartiamo abbracciati come prima, ma Cipriano mi scivola dalle braccia. Lo sento sfuggire alla mia stretta. Non posso farcela da sola. Lo invito a sedere, il mio cuore batte forte, lo rassicuro come posso, “Non muoverti!” (ma dove potrebbe andare, povero caro?). E’ strano come vengono dei pensieri sballati in momenti così drammatici. Mi precipito nella camera di Emilio che sta dormendo. Scuoto mio figlio: “Vieni ad aiutare la mamma.” Insieme, ci riusciamo. Mio figlio è pallido. La sua voce trema. “Mamma, prendo la macchina e porto papà all’ospedale!” “Emi, come facciamo, non possiamo farcela da soli, stai qui con il papà!” Il 118! La mia mente funziona come un meccanismo ben rodato. Chiedo di non fare suonare la sirena all’arrivo dell’autoambulanza. Non voglio allarmismi, non voglio che “il palazzo “ si svegli alle 2 di notte! La “storia” è soltanto mia. Mentre gli infermieri trasportano mio marito, seduto sulla sedia, verso l’ambulanza, perde una ciabatta. Lo sento chiamare: “Prendimi la ciabatta, la ciabatta!” La ciabatta mi riporta ad un episodio che colma la mia anima di tenerezza. Quando Cipriano si licenziò, disse che con il suo ultimo stipendio voleva comprare un paio di scarpe da tennis a suo figlio Luigi, per me “le scarpe più belle ed eleganti della vetrina” specificò, “e un 8
paio anche per me, perché quelle ultime mi stanno grandi” (perché era dimagrito)… Queste parole fanno parte del testamento verbale che ci ha lasciato. Volevo piangere, per lui, per il suo dolore, ma non potevo lasciarmi andare. Una volta arrivati all’ospedale ci fermiamo direttamente al pronto soccorso. La diagnosi è risaputa e il medico opta per una Tac. Delle metastasi cerebrali sono così evidenziate. Ho l’impressione che tutto precipiti. Il medico mi comunica che il neurochirurgo potrebbe anche operare, ma… Le metastasi sono troppo diffuse… Le frasi rimbombano nel mio cervello come martellate assurde. Siamo in attesa di un posto letto in reparto e mio marito mi chiede: “Cosa mi hai portato a fare qui?” Esiste una risposta nella quale io credo? “E’ per trovare una cura per stare un po’ meglio, e poi andiamo a casa” Le mie parole mi suonano false. Tutta la notte Cipriano mi ripete: ”Staccami la flebo e andiamo a casa! Staccami la flebo e andiamo a casa!” Cerco disperatamente di rassicurarlo, ma la sua richiesta mi sembra tanto logica... Mi accorgo solo allora che il medico del reparto è particolarmente sensibile alla nostra situazione. Forse perché mi vede molto giovane… pare coetaneo di mio marito. Rispetto alla cura Di Bella mi spiega che l’ospedale non può amministrarla, ma mi suggerisce: “Continui a farla lei”. Ricordo quest’uomo con tanta simpatia e riconoscenza. Mi diede “carta bianca” nel reparto, potevo accedere al frigorifero per la somatostatina, per le siringhe, non avevo orari… In più, chiesi che fino a quando fosse stato possibile, non venisse applicato un catetere urinario a mio marito. Sapevo l’importanza che rivestiva per Cipriano la possibilità di conservare le sue funzioni biologiche. L’immagine della sua integrità doveva essere preservata. Con l’aiuto dei parenti più cari, organizzo l’assistenza notte e giorno all’ospedale. Cipriano ha un continuo bisogno di alzarsi, di spostarsi (ormai solo con la carrozzella). I suoi desideri sono ridotti a poche cose, una sigaretta ad esempio, che gli do quando la chiede, tanto ormai non c’è più nulla da fare e una sigaretta non può che alleviare la tensione e dargli un po’ di dignità. Di fronte al suo letto, saluto un signore. Sta molto male, 9
è chiaro che la fine del suo percorso si avvicina velocemente. Mi fa molta tenerezza, sembra già partito. Osservo il suo corpo, ho l’impressione che sia vuoto, forse lui è già fuori… in attesa del segnale definitivo. Mi viene da pensare che ho davanti agli occhi la mia scenografia futura. Sono molto spaventata, ma il coraggio non mi abbandona. Parlando col medico, gli chiedo: “Perché dobbiamo diventare delle larve prima che arrivi la nostra morte? Io avrei voluto che mio marito non patisse così tanto, meglio una botta in fretta! E Vai! Senza tanta sofferenza!” La banalità della sua risposta non calma la mia anima: “Purtroppo signora, non sempre succede quello che desideriamo, a volte succede il contrario.” La notte mi accorgo che il signor Orazio si dondola, quasi volesse scendere a terra con le sue gambe, un atto che non faceva da molto tempo. Spiego a suo genero che quando le persone stanno per morire hanno il bisogno di salutare la terra. Così l’ho sentito dire nel mio paese quando ero piccola, ma è la prima volta che lo vedo. L’anziano ha degli spasmi e dei rantoli per tutta la notte. Penso che domani mattina, non sarà più qui con noi. All’alba, accompagnato dal suo genero, Orazio lascia questa terra. Mi avvicino per presentare le mie condoglianze e chiedo il permesso di dare l’ultimo saluto al “viaggiatore”. Gli ho baciato la mano, istintivamente. Quando ero bambina, si usava salutare le persone morte in questo modo, anche se non erano parenti stretti. Mentre ripeto questo gesto antico, chiedo al Signore Gesù di aiutarmi, di darmi la forza per affrontare la mia prova. Attraverso la morte di Orazio, mi sento in contatto con Dio, come se avessi una linea diretta con Lui. Mi viene in mente mio nonno materno, morto quando avevo 5 anni. Era magrissimo, rivedo la bara, il suo funerale, i garofani rossi… Un giorno, un ragazzo che era nella camera di mio marito, intanto che Cipriano era fuori con sua sorella, mi ferma e mi dice: “Certo che suo marito è un uomo fortunato!” sorrido tristemente e gli rispondo: “Peccato che è per poco ancora…” Mi guarda incredulo, chiedendomi perché. “Mio marito ha un tumore polmonare e adesso è entrato nella fase terminale.” Gli occhi del giovanotto mi sembrano lucidi, o forse è la mia immaginazione… 10
In ospedale alcuni colleghi di lavoro di mio marito e uno dei capi sono venuti a trovarlo. Sono qui, dicono, in rappresentanza di tanti altri che lo conoscono e che, in segno di amicizia e di appoggio, hanno organizzato una colletta per aiutarci nella cura Di Bella. Cipriano si commuove e mi delega, per i ringraziamenti. Tutte le mattine chiamiamo i ragazzi a casa per “fare la sveglia”. Una volta, dopo aver parlato con il papà, Luigi mi chiede: “Mamma, papà tornerà a camminare come prima?” ed io: “No, piccolo mio, purtroppo non sarà mai più come prima!”. Giorno per giorno realizzo che i miei figli stanno perdendo il padre… Mi fa male farglielo capire, doverglielo dire. Mi distrugge anche adesso che Cipriano non c’è più, quando formulo il pensiero: “i miei ragazzi sono orfani di padre”… I medici vogliono sottoporlo alla radioterapia. Sono spaventata perché fino a quel momento abbiamo lottato per non sottoporlo alla chemioterapia, come faccio adesso a dire a Cipriano che dovrebbe fare la radioterapia? Prima del ricovero mi sono messa in contatto con il Servizio di Assistenza domiciliare della Terapia del Dolore dell’Istituto dei Tumori di Milano, per ottenere l’assistenza a casa. Chiamo un medico della Terapia del Dolore per farmi consigliare. Pare che devo chiedere un consulto medico e parlare col Primario del Reparto di Pneumologia. Ancora uno specialista, forse altre proposte terapeutiche aggressive che mi terrorizzano, ma il medico mi rassicura, il Primario ha la reputazione di essere una persona onesta. “Se non ne vale la pena, non lo farà, è contrario all’accanimento terapeutico”. Accompagnata da mio nipote e dall’infermiere, mi avvio verso lo studio del Primario. Ho il cuore in gola. Dopo i saluti di cortesia, il Primario e i suoi assistenti mi pongono delle domande. Mi rendo conto che vogliono verificare se conosco la gravità della situazione. Capisco che devo parlare chiaro con loro ed esigere la verità. I signori col camice bianco mi confermano quello che so e cancellano ogni briciola di speranza: né la chemioterapia, né la radioterapia, né la cura Di Bella possono salvare mio marito. Il pneumologo sottolinea: “Purtroppo si tratta di settimane e non di mesi”. Per me la torta è già 11
fatta, quelle parole sono la ciliegina sopra. Una ciliegina amara che mi soffoca. La prognosi era esatta, mio marito dopo dodici giorni è morto. Mia madre, le mie sorelle e mio fratello sono molto preoccupati e soffrono per quello che stiamo vivendo. Già da tempo hanno espresso il desiderio di venire a Milano per starmi vicino. Non ho accettato per preservare la nostra intimità familiare e per non preoccupare ulteriormente Cipriano. La situazione si è deteriorata ed oramai è arrivata l’ora. Avviso mia madre e mio padre che se vogliono vedere ancora mio marito lucido, devono precipitarsi a Milano. Mio padre non si è mai sentito di venire prima. Sarebbe stato troppo difficile per lui. Ha preferito aiutarci, attraverso mia madre, mandandoci un milione per comprare la somatostatina. Non ne parlai subito con Cipriano per paura che si mortificasse, ma un giorno fui costretta ad usare quei soldi, e gli dissi la provenienza. Contrariamente alle mie aspettative, la sua reazione fu positiva. Si commosse per sentirsi così amato. Adesso però, mio padre non può mancare all’appuntamento, anche se penoso. Deve far visita a suo genero di 47 anni, che ama e rispetta, la cui vita gli sta sfuggendo dalle mani. Capisco la titubanza di mio padre nel venire qui. E’ già stato provato, come tutti noi, da più lutti importanti: quattro anni prima è morto mio fratello di 41 anni, e ventisei anni prima, un fratellino di 16 anni. Per nessuno è facile affrontare la ripetizione di un dramma conosciuto. A differenza della morte improvvisa di mio fratello, sento che questa è una morte premeditata, annunciata. Intuisco che sono una protagonista del mistero della vita: la morte è un modo per riuscire meglio a rielaborarla, è un continuo prepararsi all’evento dal quale non si può sfuggire. La gioia di mio marito nel vedere i miei genitori è evidente. Mia madre mi confiderà dopo la sua morte, una sua osservazione: stavo aggiustando il golfino sulle spalle di Cipriano e notò che mentre il mio viso sfiorava il suo, egli annusò e sospirò, così come si fa per trattenere l’odore della pelle della persona amata e fissarne il ricordo. Mia 12
madre lo vide addolcito, quasi un santo, pieno di serenità nonostante il peso della sua croce. Finalmente è arrivato il momento di tornare a casa. Da giorni mi sto organizzando con il Servizio dell’assistenza domiciliare della Terapia del Dolore dell’Istituto dei Tumori. Tutto è pronto per la migliore accoglienza possibile, e così realizzare il suo volere di tornare a tutti i costi a casa sua. La casa dove si sente amato da tutti, fratelli, sorelle, nipoti, amici e naturalmente figli e moglie. E’ contento di ricevere visite. Un giorno, non sapendo se aveva piacere di farsi vedere in quello stato, commentai: “certo che sarai stanco con tutte le persone che ti sono venute a trovare oggi”, ma lui con grande saggezza: “Meglio essere ricchi di amici che di soldi!” La strada mi veniva indicata. A me restava solo seguirla: facilitare e sollecitare le visite. Anch’io nel mio cuore, desidero che rincontri tutte le persone che non vediamo da tempo. Il suo prepararsi alla morte è stato così un ricordare, un rivivere le tappe della sua vita. Cipriano è il più piccolo di sei fratelli, i quali si sono dati molto da fare per stargli vicino. I loro genitori, già anziani, sono morti qualche anno prima. Forse lo aspettano lì… Faccio in modo che tutto avvenga con semplicità, spontaneità. Intanto, mio marito, silenziosamente, pensa al nostro futuro. Il 30 maggio, ha dato le dimissioni al lavoro. Era cameriere sui treni, nel servizio di ristorazione, e quindi spesso fuori casa. Le sue dimissioni furono una delle tante attenzioni che con saggezza e dolcezza ha preso pensando a me e ai suoi figli, considerando i problemi futuri con un figlio minore. Ha sempre considerato “il dopo”. E’ consapevole della realtà, ma, come me, è attaccato alla terra e alla speranza di un miracolo. Mi manda in banca con Emilio per aprire un conto corrente in comune e depositare la sua liquidazione. Mentre stiamo facendo la coda allo sportello, guardo mio figlio costretto a sostituirsi al padre prima dell’ora. Sono orgogliosa e triste nello stesso tempo. Penso a mio marito che a livello pratico‐amministrativo è già come se non esistesse più… Io e mio figlio ci troviamo a sperimentare una nuova identità… mi fa veramente male! 13
L’amica omeopata, Raffaella, mi ha consigliato di occuparmi velocemente di un’altra faccenda pratica: la dichiarazione di inabilità al lavoro, ulteriore investimento di energie a livello burocratico e convinzione ineluttabile della gravità e dell’irreversibilità della malattia. Mi trovo costretta a pensare al presente che temo e al mio futuro che mi angoscia. E’ terribile, soprattutto quando leggo, “nero su bianco”, tutte le definizioni della incurabilità della malattia: “PROGNOSI INFAUSTA”. Piango, piango, piango... Devo prepararmi, devo essere pronta… Di nascosto, leggo un libretto che mi ha dato il personale della Terapia del Dolore dove vengono illustrate le possibili fasi di avanzamento di una malattia terminale, con i modi per affrontarle. Sono diventata per Cipriano una presenza fondamentale e vitale. Si sente capito e rassicurato solo da me. L’ha notato anche Lucia, l’infermiera dell’Assistenza domiciliare che viene tutti i giorni e che comunica al medico l’evolversi della situazione. Sto vicino a Cipriano in permanenza, mi corico al suo fianco, gli massaggio la spalla destra per dargli un po’ di sollievo, gli comprimo la mano contro la spalla e lui si addormenta e si tranquillizza. Siamo entrati in un rapporto simbiotico come tra madre e figlio. Una notte, mentre ho la mano premuta contro la sua spalla, sento del freddo che mi attraversa il braccio… Mi chiedo cosa sta succedendo. Sono inquieta, ho un brutto presentimento. Un’amica fisioterapista mi spiegherà dopo che ho usato la mano del cuore e che per un attimo, inconsapevolmente e istintivamente, ho assorbito la negatività del suo male. Forse per questo mio marito si sentiva sollevato con quel gesto continuo. In una delle tante notti in cui non riesco a dormire, mentre lo aiuto ad andare a letto, vedo il suo sguardo impaurito e pieno di gratitudine, come se mi dicesse: “Ma cosa mi doveva capitare, come sono ridotto.” Alla mia domanda: “Preghi?” mi risponde: “Ma certo che prego, in silenzio.” Allora le mie labbra hanno sgranato un Padre Nostro, con lui, 14
davanti al quadro di Padre Pio. Ci tiene molto, guarda spesso l’immagine del Santo che gli ha regalato la sorella, gli dà un po’ di conforto in quei momenti così difficili. Un giorno lo viene a trovare un amico d’infanzia, molto religioso. Capisco che intende prepararlo spiritualmente. Ad alcune sue domande, Cipriano, con la semplicità di colui che accetta il proprio destino, gli dice: “Io sono qua, Dio faccia di me quello che deve.” Quelle poche volte che riesce a dormire, quando si sveglia, mi commenta i suoi sogni… Tra vari racconti mi dice di aver sognato mio fratello, il più grande, che lo incitava ad avere pazienza e coraggio: “ancora un po’, dai… vedrai che poi starai bene”. Altre volte, vede in sogno sua madre che gli dice: “Figlio ancora un po’…e poi finisce tutto”. Sono commossa, triste e felice nello stesso tempo. So che mi deve lasciare, ma sono contenta di capire che lo stanno già aspettando… Io invece gli racconto un mio sogno: vedo un uomo che in sé racchiude le caratteristiche fisiche dei miei fratelli. Tramite lui, vogliono farmi sapere che mi sono vicini e sento che la forza e il coraggio che ho dentro di me, mi vengono da loro. La terapia del dolore funziona. Non c’è bisogno di arrivare alla morfina. Il dolore è controllato. Il servizio ha installato la videocomunicazione, meraviglia della tecnologia moderna che ci permette di metterci in contatto con l’infermiera e il medico, in tempo reale. Ma ecco che inizia la nostra settimana di Passione. Giovedì 18.06.98. Preparo i fagiolini lessati seguendo la ricetta che ama. Quando entro in camera, con soddisfazione dice: “Mmm… che buon profumo!” Fu l’ultima volta che si gustò del cibo. La stessa notte si gonfiano le ghiandole del mediastino. Osservandolo mi rendo conto che sta iniziando una trasformazione. Venerdì 19.06.98. La mattina, tramite la videocomunicazione, mi metto subito in contatto con l’Assistenza della Terapia del Dolore e chiedo spiegazioni al medico su quello 15
che sta succedendo. Purtroppo è tutto “normale”… Poco dopo, Cipriano mi chiede di fargli la barba. E’ sempre stato per lui un gesto importante. Per un attimo mi illudo che stia meglio… Invece si sta preparando all’ultimo atto. Si deve adesso cambiare la terapia, perché non riesce più a deglutire, nemmeno l’acqua. Il peggioramento della situazione allarma i fratelli che si offrono di portarlo di nuovo all’ospedale. Consapevole che anche lì non possono fargli niente di più di quello che già si sta facendo, cerco di convincere queste brave persone spaventate ad accettare la realtà… Alla fine, sembra che gli unici a capire siamo io e i miei figli! L’infermiera stessa mi appoggia e parla con i miei cognati per spiegare a tutti che oramai è arrivata “l’ora”… Questa donna, con la sua sensibilità, ha perfettamente capito il mio modo di stare vicino a mio marito e ai miei figli. Nel pomeriggio, Cipriano si lamenta con l’infermiera di un dolore alla pancia dovuto a un blocco intestinale. L’aiuterò io. Ho imparato, come tutte le mamme, a fare certi gesti con i miei bambini, adesso mi tocca ripeterli con mio marito. E’ molto debole. Dopo lo sforzo lo vedo ancora più gonfio e rosso, ho l’impressione che possa scoppiare da un momento all’altro. Non ha la forza per spingere, gli sto vicino e lo rassicuro, lo incito proprio come si fa con una partoriente: “Dai, che ce la fai!” Dopo essersi liberato, è sfinito ed io stravolta dalla gravità dell’evento: ho appena visto partorire un uomo. Quel gesto è stato talmente importante per lui che l’ho letto come un’esigenza di purificarsi, perché “sta arrivando la sua ora”. Cipriano pare soddisfatto perché così gli è stata restituita un po’ di dignità. Dice a Luigi: “Vedi… questo è il vero Amore, si può fare qualsiasi cosa, Luigi.” Le sue parole sono una carezza sulle mie ferite. 16
La stessa notte, finalmente si riposa un po’. Mi ritiro in bagno e aprendo le mani, acclamo il Signore: “Signore, per il mio egoismo tienilo ancora in vita, ma sia fatta la tua volontà, non farlo soffrire!” Sabato 20.06.98. Viene la dottoressa dell’Assistenza domiciliare. Lo visita e vedendomi apparentemente serena e sorridente, in disparte mi chiede se sono cosciente della situazione. “Certo che so tutto, ho preparato anche il vestito e le scarpe nuove, perché dalle mie parti si usa così.” A questa mia risposta rimane agghiacciata. L’accompagno giù per parlarle liberamente. Lo faccio con parole semplici, “è parte della mia cultura, dei rituali che mi hanno insegnato e che portano calore nel freddo della paura”. Spiego alla signora come ho preparato i miei ragazzi. Forse non è abituata ad un comportamento come il mio, ma è una donna aperta. Approva quello che le sembra “una cosa giusta e saggia”. Pur essendo la prima volta che ci incontriamo, mi abbraccia affettuosamente. Mi sto preparando. Per fortuna, ho delle persone amiche come la Mira, un’amica di famiglia, quasi una sorella per me. A lei ho chiesto di comprare l’ultimo vestito di mio marito, grigio fumo di Londra, come è suo desiderio. Una volta chiesi alla mia amica medico, se il mio comportamento fosse lucidità o pazzia e lei mi disse: “La tua è la forza dell’amore!” Oggi, Emilio è andato a fare delle commissioni e ha comprato delle rose per me e per la sua ragazza. Mi intenerisco per quel gesto e dispongo i fiori al centro del tavolo, in sala, come per gustare un’atmosfera di serenità. Domenica 21.06.98 La mattina si verifica la processione solidale dei parenti più stretti. E’ qui anche il nipote. Ormai Cipriano è debolissimo, rimane sempre a letto, si alza esclusivamente per fumare, “quel tiro”, più simbolico che reale. Emilio è andato a studiare per l’esame di maturità e Luigi mi ha chiesto di uscire. Tutto sembra quasi normale. 17
Chiedo al piccolo di tornare presto, il papà potrebbe andarsene da un momento all’altro… Voglio i miei figli qui quando Cipriano prenderà il volo. Non voglio che lo vengano a sapere da altri, sarebbe ancora più doloroso. Mentre il ragazzo sta per uscire mi ricordo che oggi è il suo onomastico. Povero figlio mio! “Prendi i cioccolatini che hanno regalato al papà e mangiali con la tua ragazza. E’ come se ci fossimo anche noi”. Luigi si commuove, torna in camera per salutarci e dice: “Mamma, tu sei una santa, pensi proprio a tutto!” Quelle parole addolciscono il mio dolore. Rimasta da sola con mio marito, porto la televisione in camera per fargli vedere una partita dei mondiali di calcio. “Guarda, amore mio, c’è la partita!”. La sua risposta inaspettata mi ghiaccia il sangue: “Ma che mi importa a me!” Lui, che è così tifoso e sportivo… questa sua voce disinteressata e innervosita mi duole. Sta forse già lasciando questa terra? Tolgo il televisore senza una parola, ma con tanto dolore. Ritorno a sdraiarmi vicino a lui. Regna in quella camera un silenzio quasi religioso, una vera pace. Per un attimo, chiudo gli occhi, sono stanca, ho voglia di dormire, ma so che devo stare attenta. Sento la sua mano sulla mia guancia che mi sfiora in una carezza, faccio finta di dormire… Il mio cuore sta per scoppiare. Intuisco che quella carezza è l’ultima. La sera, viene un’amica di famiglia che si offre per sistemarmi i capelli. Non voglio lasciar mio marito da solo e propongo di procedere nella camera, vicino a lui. Si agita, è come se si sentisse trascurato, capisco e rinuncio. Quando mi sdraio vicino a lui, si tranquillizza. La notte, al momento della solita sigaretta, mi accorgo che è ancora più gonfio del solito. Spaventata, telefono alla mia amica dottoressa. Sono le 2.00 del mattino: “C’è qualcosa che non va, non so cosa, ma vieni!” Dopo pochi minuti arriva, gli si siede vicino, lo accarezza, gli controlla il polso. Sotto gli occhiali della cara dottoressa vedo scendere delle lacrime… In quel momento, mio marito non è più solo un paziente, ma un amico che se ne sta andando… Glaciale certezza che mi stringe il petto! Cipriano con voce fievole mi chiede: “Adè, Emilio dov’è?” Faccio finta di non capire. Non so bene perché, ma ho bisogno di sapere se è tuttora lucido. Chiedo: “Ma quale Emilio? 18
Tuo figlio o tuo Fratello?” Con una voce sicura e profonda, l’uomo della mia vita sentenzia: “Mio figlio!” Sento che qualcosa di importante sta per succedere: ”sta dormendo… non puoi parlargli domani?” Il suo tono è fiacco, ma estremamente deciso: “Ti ho detto di chiamarmi Emilio!” La mia amica mi fa un cenno di intesa. Sveglio i ragazzi con un nodo che prende possesso di tutti i miei centri vitali: “Papà vi vuole vedere!”. La mia amica si ritira sulla punta dei piedi mentre i ragazzi si avvicinano al papà. Appare molto stanco, tiene gli occhi chiusi. Mi sdraio vicino a lui: “Ecco caro, i ragazzi sono qui, cosa volevi dire?” La scena che segue si stampa per sempre nel mio cuore. Mio marito, con un fievoli suoni che sembrano note musicali, accoglie i nostri figli: “Emilio, papà ti vuole tanto bene… Luigi, papà ti vuole tanto bene!” L’atmosfera è forte, un po’ irreale. Siamo al saluto, al testamento di affetto del padre ai suoi amati figli. L’emozione è troppo forte. Mio marito sente che si sta avvicinando il momento… Lo capisco anch’io. Un po’ goffa, chiedo: “Beh… e a me non dici niente?” e lui con un sospiro profondo: “Anche a te ti voglio tanto bene!” Stanco e rassicurato si assopisce. Questa è stata la nostra dichiarazione d’amore e di affetto. La mia amica rimase un paio d’ore con noi, controllandogli il polso…verso le quattro se ne andò. Lunedì 22.06.98 La mattina presto, Emilio esce a comprare il motorino a suo fratello. Un gesto di vita, già deciso da tempo con suo padre. “Adè, dobbiamo fare un po’ di sacrifici e comprarglielo,” aveva commentato mio marito, “è un bravo ragazzo, se lo merita”… Cipriano ed io siamo rimasti da soli… E’ sempre più debole. Non è più capace di bere, gli preparo quindi dei cubetti di ghiaccio con il melone. So che gli piace tanto. Forse così gli darò un po’ di sollievo. Nonostante i dolori atroci, non rinuncia a chiedermi la sigaretta… Non ha la forza di alzarsi, e per la prima volta, si concede di trasgredire la regola. Fa un “tiro”… quasi come se volesse realizzare l’ultimo desiderio! “Guarda che gambe magre che ho!” dice spegnendo la sigaretta, “mi sono ridotto come un pulcino!” Provo, senza convinzione, a trovare una giustificazione logica “non cammini da molti giorni, è normale”. Quasi per confermarlo, gli faccio una carezza partendo dal piede e andando fino 19
al petto. Lui ha capito l’importanza di questo gesto e mi chiede: “Perché lo fai?” “Perché non posso farti una carezza?” Mentre pronuncio queste parole, la mia mente si sposta verso il ricordo del signor Orazio sul suo letto di morte e realizzo che adesso il protagonista è mio marito. Mentre sto in camera e cerco di riordinare, Cipriano mi chiama con la voce molto stanca: “Adè, mi dispiace, fra un po’ ti devo lasciare sola…” So perché me lo dice, si riferisce al “suo momento”, ma faccio finta di non capire e rispondo tergiversando: “E’ vero che con il lavoro che hai fatto mi hai lasciato spesso da sola”. Si assopisce. Più tardi, continua ad agitarsi, a lamentarsi, i dolori aumentano e diventano insopportabili. Gli faccio l’ennesimo Voltaren, ma non passano. “Adè mi credi che non ce la faccio più?” La sua voce è diventata un mormorio: “Spezzami la schiena, ti prego!” Tremo e sudo. Provo a rassicurarlo “L’infermiera arriva tra poco e ti farà un calmante.” Quella è stata l’unica volta che ha manifestato apertamente il suo dolore. Mi sta comunicando che non c’è più niente da fare, che ha un dolore disumano, che prima riusciva a resistere, ma adesso è troppo, non sopporta più. Sembra che stia cercando la mia approvazione, come si fa con una madre. Mi sento invece impotente… non posso fare più nulla, avverto la sua vita che fugge, fugge… Arrivata l’infermiera, gli immette l’ultima flebo sulla coscia, perché dalle braccia non riesce più a ricevere, è coperto da ematomi. Poi gli fa un calmante. Cipriano chiude gli occhi come se volesse riposare, ma è vigile… Percepisce la presenza e riconosce le persone che sono intorno a lui. Verso le 17.00 identifico i primi rantoli. Telefono subito al medico dell’Assistenza spiegandogli la situazione. Lei mi risponde: “Sarà un po’ di catarro”. Lo dice forse per tranquillizzarmi. Più tardi preoccupata, mi richiama. Parla con la mia amica omeopata. Non ci sono dubbi, è arrivato il momento. Lo so, lo sapevo… Alle 19.00, i rantoli sono ancora più forti. Chiedo alla mia amica medico di venire subito. Le sue mani spostano lo stetoscopio, osservo il suo viso teso, percepisco la sua attenzione per raccogliere un brivido di vita… Chiedo solo quando può succedere. La sua risposta suona senza speranza, “Forse anche due giorni…” Ho già capito. Faccio fatica, ma oso: “Se succede, 20
mi aiuti a vestirlo? E lei: “Ma certo cara!”. Per me è importante preservare il rispetto dell’intimità del corpo di mio marito. Voglio essere presente in tutto. Cipriano si sta staccando da noi lentamente. Gli dà fastidio che gli stiano vicino, anche la mia presenza, tutto quello che lo tocca o lo sfiora… è sudatissimo, un bagno di sudore… A un certo momento, gli viene l’istinto di alzarsi. Gli chiedo se davvero lo desidera… Non so più cosa proporre per aiutarlo. Gli domando se desidera fumare, pensando che fosse il suo ultimo volere terreno, invece con un gesto secco col dito, risponde: “No!” Più tardi la mia amica mi suggerisce di fargli qualche domanda per capire se è ancora lucido o se è già entrato in uno stato di pre‐coma. Accarezzandolgli il viso, chiedo: “ Chi sono io?” e lui di rispondere: “Mia moglie!” Risposta che racchiude non solo la prova della sua presenza consapevole, ma anche l’affermazione perentoria del mio ruolo, del nostro legame. Per aiutarci a capire e a vivere quel delicato momento, la mia amica ci fa ascoltare con lo stetoscopio il battito del cuore di Cipriano. A turno, io, Emilio, e Luigi, trattenendo il nostro respiro, ci mettiamo all’ascolto di una vita che si spegne. Tutti noi siamo diventati così i protagonisti rispettosi e commossi di quell’evento preannunciato. La fine è lì, sulla soglia. Faccio chiamare le ultime persone non ancora venute a salutarlo. Sono le 20.50. La mia amica mi ha avvisato di non farmi vedere piangere, perché prima dell’ultimo respiro Cipriano avrebbe riaperto gli occhi. Capisco che si trova già nell’altra dimensione. Mentre gli bacio la mano, gli dico: ”Salutami tuo papà e tua mamma, il mio fratellino e mio fratello.” Nel mezzo di un’emozione contagiosa, gli chiedo: “Benedici le scarpe che porteranno i tuoi figli.” Sempre con gli occhi chiusi, con la voce soffocata e dolce chiama: “Mamma, aspetta, aspetta…” Apre gli occhi per l’ultima volta e se ne va per sempre. 21
La sua anima si è staccata dal suo corpo deteriorato, vola adesso libera. Si è compiuto l’evento, una morte dignitosa così come, insieme, l’abbiamo deciso. E’ morto nel modo più naturale possibile, allo stesso modo come è venuto al mondo. L’ho lavato, asciugato. Poi, insieme alle sue sorelle e alla mia amica, lo abbiamo vestito ed adornato con le cose a cui era più affezionato. E’ bellissimo con il vestito nuovo… Voglio dargli qualcosa di mio, ma cos’altro posso offrirgli di mio? Sono confusa, non so cosa fare, per la prima volta da tanto tempo, mi sento completamente smarrita! Mentre la mia amica omeopata mi massaggia il ventre mi chiede cosa Cipriano amava di me. Rispondo: “Presumo tutto, ma specialmente i capelli lunghi!” Il mio ultimo regalo è una ciocca dei miei capelli. Infilo nella sua tasca la foto che portava sempre nel portafoglio, il ritratto della sua famiglia. E’ un modo per dirgli che noi saremo sempre con lui e lui sempre nella nostra memoria e nel nostro cuore. Le cose da fare sono ancora parecchie. Ci tengo molto a scegliere i fiori, rose rosse, per onorare la nostra passione, la sua eleganza e signorilità. Lui me le regalava nelle grandi occasioni. Sono sfinita, improvvisamente mi abbandono alla stanchezza. Mentre tutti gli altri fanno la veglia, che durerà fino al giorno del funerale, vado a riposare. Un susseguirsi rispettoso di persone vengono a salutare mio marito. Il giorno prima del funerale i professori di Emilio mi chiamarono a casa per farmi le condoglianze e per chiedermi cosa intendeva fare mio figlio, visto che il giorno dopo iniziavano gli esami di maturità. La scelta gravava su Emilio. “Vado, vado a fare il tema!”. Mi avvicinai a questo grande e bel ragazzo che nonostante il suo dolore onorava il suo dovere e gli diedi un bacio: “Sono orgogliosa della tua decisione!” Non dimenticherò mai lo sguardo triste, ma dignitoso di Emilio. Ben presto, è stato costretto ad affrontare le dure prove della vita, l’ha fatto come uomo e ne ero fiera, in nome mio e di suo padre. 22
La mattina dei funerali, ci siamo preparati. Emilio si è avviato verso la scuola, e io con Luigi siamo andati alla cerimonia. Tutti ci stavano vicino. Il dolore era immenso, stavamo onorando l’ultima tappa della vita di un uomo, un marito, un padre, un genero, un cognato, un amico, un collega… La cerimonia fu carica di sentimenti e di emozioni vere. Anche nell’ultimo addio, si è respirato il rispetto che ognuno serbava per lui. Il giorno dopo, mia madre fu costretta a tornare a casa sua. Era addolorata per la nuova situazione in cui mi trovavo, ma tutte due sapevamo che anche se si fosse fermata una settimana in più non sarebbe cambiato nulla. Dovevo affrontare subito la realtà. Sono sola. Per la seconda volta nella mia vita, mi trovo a dovermi riadattare ad una nuova e sconosciuta identità. Gli interrogativi, le paure, i dubbi mi sommergono. Chi diventerò? Ce la farò ad affrontare la dura realtà di una donna sola, col marchio di vedova? E i miei figli sapranno reggere il grande vuoto lasciato dal padre? Mi commuove, mi consola e mi dà la forza di continuare, il ricordo delle parole che mio figlio Emilio mi disse alla fine di questa dolorosa avventura: “Tutto sommato, papà è stato un uomo fortunato, ha avuto due figli, una moglie giovane e in gamba!” Negli otto giorni successivi, ho acceso un cero in camera. Non abbiamo dormito nel letto dove mio marito è spirato. Per rispetto per la sua anima, la sua ultima scena è stata lasciata intatta. Da sempre ho sentito raccontare che l’anima ritorna nell’ultimo luogo dove è stata, e io voglio che mio marito ritrovi quel calore, quella spiritualità che ci ha lasciato. Una di quelle mattine, ero completamente sola in casa, persa nei miei pensieri. Sono andata in bagno, la finestra era rimasta aperta e mentre mi lavavo le mani, ho visto entrare una Farfalla. Mi ha sfiorato il braccio, proprio come una carezza, e appena il tempo di rendermene conto, è andata verso la porta, poi è tornata indietro. L’ho guardata, gli ho sorriso e le ho detto: “Io so chi sei!” Ero emozionatissima. Sono convinta che mio marito si è manifestato sotto forma di quella farfalla. E’ stato il suo modo per tornare a salutarmi e 23
per farmi sapere che mi era sempre vicino. Quella non era una semplice farfalla. Era marrone bruciato, il colore preferito di mio marito. Come era possibile che una farfalla fosse approdata nel mio bagno, in città, a Milano, al terzo piano, con le veneziane del balcone abbassate? Quella farfalla ha cercato me, non altri. In quei tre mesi il bruco faticosamente e con sofferenza si è trasformato in larva… e, la Farfalla volò… Adelina Conte Milano, Maggio 2000 24
Adelina Conte Viale Monza, 61 20125. Milano Tel. 02. 26 14 48 72 Nata: il 05. 01. 1961 Sposata: il 04. 02. 1979 Figli: * Emilio, 20 anni * Luigi, 17 anni Professione: Cuoca presso refettorio scolastico del Comune di Milano. Ho scritto questo testo con grande amore e commozione, sperando che chi lo leggerà potrà cogliere l’intensità e il significato delle mie confidenze. Rappresentano la mia continua ed instancabile rielaborazione. Sono grata che mi sia stata data l’occasione di lavorare ancora una volta su questo mio vissuto così drammatico, ma così bello. Ringrazio tutti coloro che sono stati al mio fianco in quel doloroso percorso e coloro che mi aiutano oggi a proseguire sul cammino della vita. Adelina Conte 25
ACCANTO A FRANCO “ Fila la lana, fila i tuoi giorni, illuditi ancora che lui ritorni, libro di dolci sogni d amore, APRI le pagine sul suo dolore! “ ( da “ Fila la lana” di Fabrizio De André ) ……..DIALOGO Parlare di te ? Parlare con te ? La nostra amicizia era fatta di dialogo, cioè di parole: scambio continuo di pensieri, riflessioni, emozioni, sentimenti ....parole!....Flusso continuo e alternato di suoni e di silenzi, quasi mai sovrapposti....Parole per dire , comprendere, attribuire sensi e significati al nostro quotidiano vivere. E dunque non posso che continuare a parlare con te. Dopo la tua morte mi dissi , mi ripromisi,: “Tanta sofferenza deve restare nel silenzio, il cerchio si è chiuso , e nessuno ha diritto di irrompere al suo interno! “ Anche la mia sofferenza voleva restare nel “ non più detto, “ nel “non più esplicitato! “ Ho riposto tutto in un cassetto ben sigillato. Ma perché ora lo riapro? Perchè ? In queste settimane ho ascoltato altri dolori ,altre storie, e c’è anche Tania ,anche lei dopo te che sta morendo ! Mi è sembrato di ripercorrere sentieri già conosciuti. Qualcuno mi ha detto: ‐ Perché non scrivi di Franco? ‐ No, non lo farò! E poi è accaduto: un sabato pomeriggio , sulla spiaggia semideserta di Lido degli Estensi, distesa al sole e al vento odoroso di salsedine cercando di addormentarmi, ho cominciato ad avere immagini di te, immagini che volevano diventare parole, che s’incasellavano e si concatenavano in frasi , discorsi, pagine da scrivere. Erano squarci improvvisi di cielo 26
azzurro tra nuvole grigie, era una contemplazione di frammenti del passato, raggi di sole sulla pelle e nel cuore, voglia di riguardarti almeno con gli occhi della mente, e di dialogare con le parole silenziose del pensiero. Non ho più potuto evitare la mia nostalgia! Ogni catenaccio è saltato! Ed ora è come se i ricordi prepotenti avessero deciso di non darmi tregua. Risento parole e riprovo emozioni che dal passato irrompono nel mio presente....Mi manca il parlare con te! Non ho più ripreso un dialogo così totale con nessuno. A volte mi capita, con Angelo, mio compagno, caparbiamente di desiderare lo stesso gioco e cerco di imporlo anche a lui: scavo nelle mie e sue emozioni, vado alla ricerca di ogni perché, del perché dei perché, in ogni possibile percorso rettilineo o tortuoso che ci porti a scorci imprevisti delle menti e delle anime...... Ma talvolta finisce che ad Angelo appare violenza e fa star male ciò che per noi era gioco, gioco serio, ma del tutto spontaneo, in cui nessuno dei due temeva di mettere sul banco tutta la propria posta, perché non ci sarebbe stata perdita, ma un rilancio continuo all’infinito… E dunque parlo con te, in un monologo che è dialogo, non contraddizione tra quanto vado dicendo e ricordando e quanto immagino, e so, avresti risposto! Te ne sei andato (partito? per dove?) all’alba del 10 agosto del 98. Quasi due anni fa! Dieci agosto! Giorno di San Lorenzo! Ciò che la notte precedente avvenne appartiene al ricordo di tuo figlio che ti era accanto! Il diritto di dire o tacere è solo suo, ma so che apristi e chiudesti verso di lui la mano nel ciao dei bambini , prima di chiudere occhi e respiro. La mattina alle otto tuo figlio Mattia disse piangendo: ‐ Stasera in cielo c’è una stella in più! E anch’io, dopo , piangendo silenziosamente in solitudine, t’immaginai nuova stella pulsante di luce. Ti associai , non a caso, alle strofe del Pascoli in “ Dieci agosto”, la prima soprattutto, così intensa e triste :”San Lorenzo, io lo so perché tanto Di stelle per l’aria tranquilla 27
Arde e cade, perché sì gran pianto ………Nel concavo cielo sfavilla… Sì, eri anche tu ormai una stella sfavillante nel cielo di San Lorenzo! Il giorno del tuo funerale ti salutai con la mano da un balconcino dell’ospedale. Non potevo fisicamente essere con te. Le ernie al disco che mi ci avevano portato non me lo permettevano. Io ti avevo preceduto in quel luogo di un giorno , alla fine di luglio. I dolori ormai erano divenuti insopportabili: non potevo stare in piedi, seduta, coricata .Quando te lo comunicai tu eri nel letto di tua madre, semicoricato sul fianco sinistro, quello in cui il tumore coi suoi rigonfiamenti esterni era più visibile, e mi dicesti:‐ Non andare in ospedale! Io in ospedale non vorrò mai andarci! Ti sorrisi un po’ mesta, un po’ rassicurante,:‐ Non ce la faccio più. E poi, se vieni anche tu sarà come essere qui. Io di sotto in ortopedia, tu di sopra in medicina, saremo continuamente in contatto! Circa ventiquattro ore dopo mi seguisti: io ne fui quasi felice! Il tuo male , lo sapevamo, era ormai molto avanzato, i dolori insopportabili, anche se quasi mai un lamento usciva da te, il braccio e la mano sinistra di un gonfiore tale, per ristagno di liquidi, da essere dolenti al solo sfiorarli, e pesantissimi, la pelle vitrea, trasparente.... Purtroppo non riuscii a mantener fede alla promessa di un contatto frequente. Incapaci di muoverci entrambi, continuammo a parlarci soprattutto attraverso foglietti su cui scrivevamo, e che i comuni visitatori s’incaricavano di portare da sopra a sotto, da sotto a sopra: Angelo, Tania, tua sorella....Poche righe , talvolta un po’ ironiche: “Come stai? Io mi faccio scarrozzare. Io ieri l’ho fatta nel letto! Le poche volte in cui, su una carrozzella, riuscii ad entrare nella semioscurità della tua stanza , ci fu un accenno di saluto con la mano, uno scambio di sguardi, uno stringerti la mano non sofferente. Erano anche queste parole, parole non dette, ma non per questo meno espressive: sapevo che eri pronto e la sola presenza del tuo affetto più totale, più tenero e compiuto, tuo figlio, Mattia, ti rendeva appagato. 28
Ormai non parlavi più e non mangiavi : il tumore forse aveva invaso la gola e i piccoli organi preposti a queste funzioni o il cervello. Fino a due giorni prima di morire hai però cercato di scrivere, di lasciare messaggi. So di un biglietto che hai cercato di scrivere per Tania. Lei stessa me l’ha raccontato ma non ha capito cosa le volevi dire, perché foste interrotti da tuo fratello Adelmo. Eri in un certo senso appagato, e pronto, per l’affetto di Mattia e per altre ragioni…. Circa tre settimane prima, un sabato pomeriggio (o una domenica mattina ? ) era venuto a trovarti Ivano, mio marito per più di vent’anni ed ora non più: La vostra amicizia era nata ai tempi dell’adolescenza: la comune frequenza alla scuola di ‘Arti e Mestieri’, l’amore per il lavoro, la precisione e l’abilità nel fare gli stampi, certe affinità di condizione e certe complementarietà di carattere ( tu aperto ed espansivo , lui più introverso …) , vi avevano profondamente legati. Era stata un’amicizia molto intensa per entrambi, ma poi vi eravate allontanati prima ancora che Ivano si separasse da me, quando ormai la sua relazione con un’altra ragazza era pienamente in atto. Lui non si era sentito capito da te, tu avevi parteggiato per me: sensazioni dolorose e reciproche che vi avevano ulteriormente allontanato . Ma, dall’inizio della tua malattia, io tenni costantemente Ivano informato sulla tua evoluzione tanto che insieme venimmo a trovarti a Padova. 29
Era stata un’amicizia talmente lunga ed importante per entrambi che in qualche modo bisognava favorire la possibilità di un nuovo dialogo. La domenica pomeriggio dopo il vostro incontro mi dicesti emozionato che avevate parlato per due ore delle vostre vite, delle vostre scelte, che vi eravate ritrovati ad esprimere le stesse opinioni e che alla fine avevi esclamato : ‘Non rimpiango nulla, perché sono riuscito a vivere come volevo, sono riuscito ad essere me stesso”. C’era , in queste parole, soddisfazione e compimento! Avevi quarantanove anni, ma una vita più lunga non avrebbe, ai tuoi occhi, aumentato la sensazione di autenticità e completezza che sentivi in quel momento. PARENTI I tuoi fratelli: affetti e gelosie confusamente incastrati e aggrovigliati, rancori e incomprensioni che la malattia e il dolore non hanno risolto. Ti hanno amato, ma non era sufficiente, tu volevi essere capito. Volevi essere capito nella tua parte più intima , più profonda , di persona unica e irripetibile, nelle tue scelte e nella tua libertà , nella tua diversità‐ unicità‐ normalità di essere omosessuale, o bisessuale come dicevi tu. Ma anche queste sono definizioni limitanti e incomplete. Come se ciascuno di noi non fosse veramente unico, diverso e irripetibile anche nella sua espressione emotiva e sessuale! Nei due mesi che trascorresti nella casa di tua madre, accanto a quella dei tuoi fratelli, non riusciste a superare veramente le vostre distanze, a capirvi ed accettarvi. Eppure Adelmo e Michele soffrivano anche loro. Adelmo con quei capelli un po’ stopposi e sempre spettinati, la risata strana , frequente e leggermente isterica, sul viso rughe profonde, appariva ogni giorno ulteriormente invecchiato: valutava allo sguardo l’avanzata del tuo male e, come tragica antica maschera, cercava battute di spirito seguite da risatine nervose. Michele, al ritorno ogni sera dai suoi faticosi viaggi di camionista, ti salutava dalla porta, non entrava mai se io o Angelo o qualcun altro eravamo lì con te, ma poi si appollaiava come un uccello sulla finestra della tua stanza, che era a pianterreno, contro la zanzariera, al di fuori, quasi invisibile nel buio delle sere e nel chiuso del suo dolore inespresso e impotente. 30
Solo tua sorella Sara aveva con te un rapporto che sentivi più vicino, più presente, più espresso, e, forse più materno. Lei andava e veniva ogni mattina, per sorriderti, informarsi, assolvere qualche incombenza e aiutare tua madre, verso la quale rivolgevi sempre più spesso rabbia e aggressività, soprattutto quando parlava da sola e tu non la tolleravi, non tolleravi la sua fragilità emotiva da bambina e la sua ansia incontenuta. Io e Angelo, quando tu eri appisolato, ne approfittavamo per consolarla. Lei piangeva, ci guardava muovendo di qua e di là i suoi occhi rotondi da uccello notturno, ripeteva:‐ Non riesco più ad andare avanti così!‐ .Ma non erano parole contro di te, non si riferiva alla tua aggressività spesso gratuita nei suoi confronti, bensì al pensiero di perderti, di vederti morire ogni giorno un po’ di più. E tu l’aggredivi proprio perché l’amavi, sapevi quanta angoscia aveva provato nella sua infanzia di orfana e tuttora; l’avresti voluta capace di affrontare la tua sofferenza con più vigore. Oh , sì, lei era in effetti capace di affrontare la tua sofferenza, ma non la propria! Noi le parlavamo dolcemente , l’aiutavamo a preparare il divano letto, dato che il suo letto lo aveva ceduto a te, le preparavamo le gocce per dormire, e, poco dopo, la sentivamo già russare, la finestra perennemente aperta e la tapparella alzata, perché non sopporta i luoghi chiusi. L’aggressività l’avevi , in precedenza, rivolta anche contro un’altra persona, presenza fantasmatica dei tuoi ricordi e delle tue riflessioni, non più vivente da una decina di anni: tuo padre. Anche lui era morto di tumore, alle ossa, con sofferenze molto forti. Eppure non si era lamentato mai, soprattutto alla presenza di voi figli, e tu eri arrabbiato e lo detestavi per quell’esempio di forza che sentivi sovrastante e soverchiante e che avresti voluto non imitare. Invece non riuscivi a sfuggire al suo esempio; la sua immagine ti inseguiva, avresti voluto piangere, dar libero sfogo alla tua impotenza, ma c’era sempre quel modello, quel paragone, con cui fare i conti. Eravamo una sera di febbraio in un bar di Mantova, tu, io, Angelo, il tuo compagno Renato e quattro gelati che nessuno di noi riuscì a gustare. La conversazione a poco a poco era finita sui padri… 31
Renato aveva iniziato, come spesso gli succedeva, a raccontare gli ultimi episodi di incomprensione con la sua famiglia, soprattutto con il padre che “ non voleva vedere “ la sua omosessualità. Ti aveva persino accolto in casa, la cena della vigilia, ma fingendo per tutto il tempo che fossi solo un amico del figlio. Renato si era sentito ancor più negato nella sua personalità e identità. Aveva cominciato ad inveire. Anche tu cominciasti a parlare di tuo padre, della sua malattia e morte, di come non si fosse mai lasciato andare a far capire la sua sofferenza: ‐ Maledetto te e il tuo esempio. Vaffanculo! ‐Ha fatto , in vita e in morte , quello che era capace….se puoi abbi pietà di lui, e di te… ‐ Vaffanculo tutti i padri! C’era anche, nella tua rabbia così forte, il non inconscio pensiero di un passaggio cromosomico di geni tumorali, dato che recentemente avevi perso anche due zii dello stesso male. Parlavi di questo con convinzione….E forse motivazioni ancor più profonde e non dette partecipavano all’irrompere di tale momentaneo odio. La sua temperanza morale e la sua personalità erano stati , già dalla tua adolescenza, l’impedimento alla libera espressione del tuo lato omosessuale Una sera , verso la metà di luglio, sei letteralmente esploso con Michele ed io fui il mezzo consapevole e consenziente nelle tue mani. Era il momento del solito rito serale: verso le nove ci si riuniva ormai tacitamente, tu, tua madre, tua cognata, Mattia, Angelo , io…Ognuno aveva il suo compito nei preparativi della terapia Di Bella: la preparazione della somatostatina da iniettare nel temporeggiatore, la diluizione della polvere di pinna di pescecane…le numerose pastiglie…il piccolo ago con la farfallina da inserire in un qualche punto attorno all’ombelico…le gocce di Toradol…Dopo la seconda asportazione di alcuni linfonodi al collo del gennaio precedente, i tentativi inutili e stressanti della ulteriore chemioterapia, avevi deciso, fiduciosamente e in piena autonomia, di optare per la terapia Di Bella. Lo avevi anche incontrato il professore, e la sua dolcezza non aveva comunque falsato la cruda verità delle tue condizioni. Così ogni sera si rinnovava il rito dell’invasione del tuo corpo. Ciò che mi colpiva di più era il pensiero del clistere con polvere di pinna di squalo( cura del tutto sperimentale, fondata sull’assunto che gli squali sono gli unici viventi a non ammalarsi di tumore). Lì eri completamente solo, ti ritiravi nel bagno, spesso barcollante, e lasciavi che quel liquido 32
lattiginoso penetrasse in te, ogni sera, alla ricerca e rincorsa di cellule cattive vaganti per il corpo, o ormai asseragliate in imprendibili fortezze… Fu proprio subito dopo la tua uscita dal bagno che ebbe inizio…Stavi percorrendo i pochi metri che dal bagno, vicino alla cucina, conducevano al tuo letto, camminavi con sforzo stringevi i denti, letteralmente si udiva il loro rumore mentre li facevi scorrere gli uni sugli altri perché il dolore di testa non ti abbandonava mai e volevi sempre poche gocce di Toradol( ed io invece, di nascosto, nel bicchiere ne lasciavo cadere tre, quattro in più rispetto ai tuoi ordini). Michele era seduto vicino al televisore, ti seguiva con lo sguardo e, forse per allentare la tensione emotiva, ti disse con un mezzo sorriso:‐ Guarda di non vincere alle corse! Tu serrasti ancora di più i denti e proseguisti il tuo lento cammino con me che ti sostenevo. Ma la rabbia cresceva e bisbigliavi con voce stanca:‐ Che fratello stupido che ho! Lo ripetesti due, tre, quattro volte, volevi che lui sentisse, ma la tua voce non aveva più forza e allora aggiungesti:‐ Digli che fratello stupido che ho! Nel frattempo Michele ci aveva seguito fino al letto, chiese cosa stavi dicendo ed io risposi in tono alto:‐ Dice che ha un fratello stupido! In quel momento mi importava solo che la tua voce e la tua rabbia arrivassero a qualcuno, e , se quello era un modo possibile, bene, io non mi sarei tirata indietro! Tuo fratello fece un’espressione stupita, abbassò la testa, e in silenzio lasciò la stanza, ancora una volta uscì nel buio. Allora tu mi dicesti di chiamarlo. Compresi che dovevo fare altro: anch’io uscii, a cercarlo, mi scusai, cercai di spiegargli, se ormai non avesse deciso di rifiutarmi completamente! Non mi rifiutò, ascoltò le poche parole di spiegazione, già qualche lacrima usciva dai suoi occhi. Poi venne da te. Io restai fuori, ma nell’oscurità della porta aperta si vide il vostro abbraccio e si udì il vostro pianto, lungo…Credo che da quel momento siate stati più vicini, e Michele non si fermò più sulla porta ma cominciò ad entrare nella tua stanza regolarmente anche se per tempi brevi. …..SERATE 33
Le nostre sere! Nostre, di te, di me e spesso anche di Angelo. Una volta giunto al letto, la tapparella leggermente alzata, alla luce della luna estiva e al canto dei pochi grilli degli orti vicini, il ventilatore in funzione, mi sedevo alla sinistra del tuo letto matrimoniale, anche se il tuo capo era perennemente girato dall’altra parte; oppure mi coricavo un po’ accanto a te, a destra, e ti accompagnavo, ascoltando e parlando, verso la mezzanotte e verso il sonno, orario in cui di solito ti lasciavo per tornare alla mia casa. Mi raccontavi dei tuoi sogni o incubi della notte precedente o del trapasso pomeridiano, mi parlavi della tua fede nella trasmigrazione delle anime e nelle tante rinascite, ma soprattutto volevi sapere di me, di Angelo e di ogni persona che fosse nel raggio delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Credo sia stato il tuo modo più personale di guardare alla vita anziché alla morte: scavando, riflettendo, interpretando, dando consigli talvolta eccessivi, tu continuavi a vivere intensamente non la tua ma le altrui vite. Ti arrabbiavi e ti preoccupavi per la figlia della Paola, dall’adolescenza così rischiosa, se non già persa, di Tania e dei tuoi timori per le violenze possibili di suo marito, di tua moglie e del suo legame sentimentale così sbagliato ai tuoi occhi, e di Renato, il tuo ultimo compagno, ormai uscito di scena perché troppo fragile per sopportare tanto dolore, di tua madre, di Marinella, dei figli di Angelo, di…di…E sopra ogni altra cosa Mattia, e la mia relazione con Angelo. Ci amavi entrambi, me e Angelo, ci comprendevi nelle nostre caratteristiche ma non coglievi la possibilità di un rapporto realmente costruttivo. Anzi, quando eri arrabbiato con Tania per le sue visite troppo veloci, esclamavi:‐ Quella lì ed Angelo sono proprio uguali, starebbero proprio bene insieme! Sempre di corsa, sempre a scappare! Verso cosa poi? Salvo poi ad affidare ad Angelo la responsabilità protettiva di Tania dopo la tua morte. Allora non potevi immaginare che già, silente, lavorava un tumore cerebrale in Tania e che quella protezione sarebbe stata pienamente assunta per un altro assurdo accompagnamento! C’era, nel tuo voler sapere di me e di Angelo in ogni dettaglio, qualcosa che sfuggiva alla mia comprensione, specialmente quando ci parlavi separatamente, si aveva l’impressione 34
di un voler tener divisi più che unire; sembrava quasi che il tuo obiettivo fosse di allontanare l’uno dall’altro. Mi sono chiesta spesso se era una sorta di gelosia. Non trovavo una risposta, ma pochi giorni dopo la tua morte pensai:‐ Ora io ed Angelo saremo costretti a dei confronti più serrati e costruttivi… E così in parte è successo. Nonostante ciò non toccai mai questo argomento con te e non misi mai in dubbio l’esserti accanto per tutto il tempo che ti sarebbe rimasto. Era stata una decisione totale fin da quando, un anno circa precedente alla tua morte, fosti operato a Padova. In quel periodo la nostra amicizia era stata un po’ messa alla prova. Avevi iniziato da tempo la tua relazione con Renato, temevi che la tua omosessualità fosse oggetto di critiche e imbarazzi….Con me non avevi mai parlato di questo. Era l’unico angolo rimasto per anni inaccessibile alle reciproche esplorazioni. Io intuivo, immaginavo, e talvolta interpretavo la tua scelta di omissione come mancanza di fiducia. Certe volte ero un po’ arrabbiata ed anche Angelo: magari trascorrevi la domenica pomeriggio con noi, decidevi di restare per una pizza o un gelato, o una chiacchierata, poi d’improvviso il telefonino squillava, ti appartavi, e quando riapparivi adducevi qualche scusa, pronto ad andartene…Poi un sabato pomeriggio, ai primi di marzo del 97 ci invitasti a cena, me e Angelo, a casa del tuo compagno Renato. E quella fu la sera dell’esplicitazione, della scelta consapevole di essere te stesso, del non ritorno a nessun tipo di maschera sociale! Ricominciammo ad essere totalmente aperti, anche toccando aspetti dell’intimità che ad un ascoltatore esterno potevano sembrare disdicevoli. Ma iniziò anche il malessere di Renato nei miei confronti: soffriva la mia presenza, era geloso della nostra confidenza. Ricordi in agosto a Bellaria in gita sul battello? Renato ci guardò e disse:‐ Stanotte vi ho sognato tutti e due appesi ad un masso in fondo al mare. Era proprio un bel messaggio, ma noi non ce ne curammo più di tanto , sorridemmo e continuammo con le solite modalità comunicative. Tu e Renato: per Renato, spirito creativo, esteta e pittore, il tuo corpo era bello ed armonioso, ed era davvero così. D’altronde tu eri sensibile, generoso e protettivo nei suoi confronti. Giustificavi con affetto ogni sua bizza, ogni intemperanza, ogni sfogo di nervi dettato dalla sua sensibilità femminile. L’hai amato così tanto anche perché ti ha costretto ad uscire allo scoperto, ad accettare in piena dignità e quasi con orgoglio la tua 35
omosessualità. Poi Renato non ha retto alla tua malattia al tuo bisogno di aiuto, al corpo sofferente e via via trasformato dal male. Vi lasciaste malamente, e, quando un mese prima della morte ti telefonò per sapere come stavi e chiederti se volevi rivederlo, tu rifiutasti. E Renato fu anche colui che ti offrì prospettive spirituali nuove: i suoi viaggi in India, la fede in Sai Baba, la trasmigrazione delle anime…Anche questo l’hai accolto in modo totalizzante ed è diventata la tua fede. Una sera discorrevamo, tu avevi posto la domanda, sul senso del tuo soffrire e morire. Di colpo affermasti:‐ Evidentemente ho molte colpe da espiare dalle mie vite precedenti! Io non potevo e non dovevo offrirti la mia visione di un’eventuale vita ultraterrena, rimasi bloccata, ma non potevo accettare da te, persona così mite, una tale interpretazione della colpa. Ed allora replicai nel modo più dolce che riuscii a trovare:‐ Ma anche ammesso che esista la trasmigrazione delle anime rispetto a vite precedenti, come può un essere umano essere colpevole di ciò che non sa di aver compiuto? E’ un po’ assurdo! Tu tacesti ma non ti convinsi in alcun modo, ed i tuoi pensieri erano proiettati a vite passate e future, infelici e felici, in piena fiducia ed accettazione di ogni dolore esistenziale. Avevi la tua risposta interiore e ciò ti bastava a dare un senso alla tua sofferenza! Onore a te, soldato morto in guerra senza mai recedere davanti al nemico! Ora mi capita talvolta di osservare i miei gatti: sono belli, morbidi, affettuosi, indipendenti, e, almeno all’apparenza, ogni bisogno è appagato. Li amo, se queste parole sono corrette, e loro mi amano… Ripenso a te osservando loro e mi dico:‐ Quale anima può essere trasmigrata nei miei gatti? Sicuramente non tanto malvagia, vista la serenità della loro vita, anzi con la morte oltrepasserà alcuni gradini nella scala dell’esistenza, verso l’alto! Poi mi chiedo:‐ E la tua anima dove è? Tania fino a poco tempo fa era sicura che la tua anima, insieme a quella di sua madre e di qualche altro caro già defunto, fosse lì da qualche parte a continuare a proteggerla, a dare forza e coraggio alle sue decisioni…. Una volta Tania fece queste riflessioni davanti al figlio, e lui, che sapeva pienamente le condizioni e l’invasione del suo tumore, replicò:‐ Si vede proprio che bella protezione ti stanno dando! Lei rispose seria:‐ Sì, mi stanno proteggendo nella mia fiducia di farcela. 36
Parlo spesso di te con Tania, sei stato la sua amicizia bella e felice, e ad ogni minima occasione ti faccio rivivere attraverso i ricordi delle tue frasi, delle tue riflessioni, dei momenti trascorsi qua e là in un bar, in riva al Mincio, nella trattoria sul Po. Interpreto così la responsabilità che hai assegnato ad Angelo, e quindi un po’ anche a me, di proteggere Tania. …. TEMPO Poco più di un anno è stato il tempo a te assegnato per prepararti… Avevo conosciuto Renato a marzo del 97. Circa un mese dopo veniste un sabato sera a trovarmi. Eravamo seduti attorno al mio grande tavolo, io di fronte a voi; mentre parlavi, continuavi con la mano ad accarezzarti il collo dalla parte sinistra. Ti chiesi cosa avevi e tu rispondesti:‐ Sento qualcosa qui… :‐ Fatti vedere subito da un medico! Ho una collega a Palidano che ha cominciato così ed ora sta morendo!‐ Mi pentii subito delle mie parole, crude, ma non potevo ritirarle. Mi guardasti tra il serio e l’ironico, con un sorriso interrogativo. Sei sempre stato così ottimista! Ogni problema ti è sempre parso risolvibile, e forse lo pensasti anche allora…Cominciarono così i vari passaggi: dalla biopsia, allo specialista, dalla prima operazione, alla chemioterapia, alla seconda operazione, alla scelta di Di Bella e avanti…avanti… Hai sempre saputo la verità del tuo stato e nello stesso tempo la speranza era in te. La prima operazione aveva scavato il tuo collo fin sotto l’ascella e anche la spalla, contraffatto i lineamenti del volto, il sorriso soprattutto, e l’orecchio sinistro. Tu ti guardavi allo specchio, non ti ritrovavi, cercavi di camuffare il vuoto della carne con foulard, colli rialzati delle camicie, imbottiture…non solo per te, ma per tua madre, che non doveva conoscere tutta la verità all’improvviso ma poco a poco; doveva essere preparata gradualmente alla gravità del suo figlio più amato: questo era stato il patto tra te e i tuoi fratelli! Da quasi subito, con stessa sorpresa dei medici, si seppe che era colpa di un melanoma, tumore della pelle che si manifesta all’inizio con una piccola macchia scura irregolare e in 37
rilievo, uno dei più terribili quando ha superato i sei‐sette mm di diametro. .Ma il tuo melanoma non si trovava, finché una dottoressa non rovistò tra i tuoi folti capelli, ed eccola lì, la bruna macchia rimasta per troppo tempo invisibile anche a te. Il parrucchiere una volta ti aveva detto che c’era una macchia che era meglio far vedere, ma tu, inguaribile ottimista, avevi eluso ogni possibilità ed ogni indagine. Ancor oggi tua madre e tua sorella pongono la domanda:‐ Se si fosse accorto prima, si sarebbe salvato? :‐Sì, si sarebbe salvato! Ma forse in quel periodo non c’era abbastanza amore attorno a te, con qualcuno che dolcemente ti accarezzasse la testa, ti mettesse le dita tra i capelli e sussurrasse:‐ Amore, vai subito ad analizzare questa macchia in rilievo che sento qui, sotto le mie dita! Gli anni dell’incubazione del melanoma erano stati quelli in cui tu e tua moglie vi eravate maggiormente allontanati, se non totalmente, molto prima della separazione effettiva. Dormivate nello stesso letto ma non c’era intimità, ognuno cercava di trovare fuori di casa ciò che il matrimonio non gli aveva dato o non gli dava più. Tua moglie, donna molto concreta, questa ricerca e questa risposta l’aveva trovata già da molti anni con una persona ben precisa; tu invece seguisti un percorso più complicato, zigzagando in ogni direzione sessuale finché non incontrasti Renato… Durante quasi tutto il tempo della malattia hai voluto continuare a lavorare. Eri artista degli occhiali. Ogni lunedì partivi per raggiungere il tuo posto di lavoro, in Cadore. Le dita delle tue mani, lunghe e forti, sembravano essere fatte apposta per maneggiare i piccoli componenti che assemblano gli occhiali: quando osservavi i miei, o quelli di Angelo, ti ponevi sul naso i tuoi occhialini da presbite, con delicatezza prendevi il paio da osservare, e cominciavi a toccarlo in ogni sua parte, accarezzavi e scaldavi le stanghette con il calore delle dita, stringevi una piccola vite, ne allentavi un’altra…poi li appoggiavi sul viso di chi ti stava di fronte, lo osservavi e ti sentivi soddisfatto. Non colpivano tanto questi piccoli gesti, in sé banali, ma la partecipazione emotiva con cui li eseguivi: gli occhiali erano frutto di ricerca anche artistica, nella scelta delle forme, dei materiali, nella temperatura a cui ogni tipo di plastica doveva essere sottoposta, nella preparazione degli stampi dei prototipi, dei colori delle eventuali filettature dorate…Tu eri artigiano‐artista degli occhiali e le mani raccontavano la tua abilità, come del resto erano abili, almeno per 38
me, a suonare il pianoforte. Avevi imparato, pressoché autodidatta, verso i trent’anni, con l’aiuto di un gentile vecchietto ex‐ insegnante di musica. Ogni volta che si veniva a casa tua , non mancavi di farci sentire qualche brano. Quello più dolce, che così spesso ti chiedevo, era il pezzo centrale dell’Inverno di Vivaldi …Ho ancora qui in casa la cassetta che mi hai donato delle Quattro stagioni, e la mia nipotina Annachiara la chiede spesso e comincia a ballare muovendo gioiosamente le sue braccine… APE MAIA Soprattutto, durante la malattia, hai cercato di godere della compagnia delle persone che amavi. Quando Renato non fu più nella tua vita, cercavi, al sabato sera, di restare a dormire da tua madre o in casa di Angelo, così c’era più tempo per parlare, parlare fino all’una, alle due, quando anche i ragionamenti allentano i freni della consapevolezza e vengono espresse, forse, le cose più vere. La domenica della prima comunione di tua nipote Stefania, 17 maggio 98: il sabato sera rimanesti a dormire da tua madre, la tua auto si era bloccata, e alla cerimonia indossasti un abito di Michele. Poi, al pomeriggio, dato che non avevi con te la somatostatina ed il resto, e tu volevi andare alla casa di Volta Mantovana a riprenderti tutto, decisi di accompagnarti, non so se temendo di più che ti sentissi abbandonato o ti cogliessero dolori improvvisi. Fu un pomeriggio domenicale bello: all’andata ci fermammo al lago di Mantova, posteggiasti la macchina e cominciammo a camminare tra i sentieri e i boschi di pioppi che costeggiano il lago. Erano sentieri da te conosciuti, che avevi percorso con Renato, erano l’espressione della tua nostalgia per lui e dei momenti trascorsi con lui. Non c’era rabbia in te, solo dolcezza: camminavamo e tu raccontavi dei vostri incontri e scontri, della tua ricerca di lui in bar particolari, di soli uomini, in cui l’approccio fisico sembra l’unica possibilità di relazione….e mentre parlavi manifestavi un certo disgusto, perché il tuo amore, al contrario, era stato espressione di incantesimi reciproci e gioiose esplorazioni dei corpi e delle menti… Quando arrivammo a Volta, nella tua casa, mi suonasti ancora una volta l’Inverno di Vivaldi, poi mi facesti vedere i quadri che ti aveva dipinto e donato Renato: un paio nel 39
soggiorno, il cui soggetto non ricordo, e quello grande sopra il tuo letto, con te sensuale e nudo e un’ape metaforica con il suo pungiglione rivolto verso di te. Non capii la metafora, non te la chiesi; la tua raffigurazione aveva una sua bellezza, ma l’insieme era inquietante, ambiguo, con un che di puro e di impuro, di maschile e di femminile negli atteggiamenti, di tenero e duro nei lineamenti…Se Renato aveva voluto esprimere così una certa ambiguità del vostro essere amanti, allora c’era riuscito in pieno, era stato davvero bravo. Ti aveva anche dipinto, e ne eri molto orgoglioso, un ritratto di Mattia: quasi tutto vi era di bello: lo sguardo, i colori, l’espressione, ma anche in quel quadro c’era una lieve ambiguità che traspariva dalla bocca sorridente, semiaperta, sensualmente semiaperta, che attirava l’attenzione e agitava un po’, tanto che tua moglie ha sempre rifiutato quel quadro, come irriverente nei confronti del figlio. Ma lei avrebbe comunque rifiutato qualsiasi espressione artistica, anche senza quel sorriso, proveniente da Renato. Si sentiva umiliata dalla sua presenza nella tua vita, adduceva come causa della fine del vostro rapporto la tua propensione all’omosessualità, e ti disprezzava per questo, anche se, nell’ultimo mese di vita, veniva da Volta ogni giorno, con Mattia, per curarti. Lei è infermiera, e ti inseriva le flebo, ti faceva le iniezioni, ti stava accanto nella somministrazione di quella sorta di “superchemio”, come la chiamavamo noi (quasi dovesse essere la forza di Superman), che nelle ultime settimane il dottor Doker, dal Cadore, ti aveva consigliato di provare. Avresti dovuto recarti in un istituto vicino a Parigi, per attuare quella terapia dal ritmo trisettimanale e con interruzione quindicinale (o viceversa?), ma non erano possibili i tuoi viaggi, per cui fu l’istituto, per ragioni umanitarie e gratuitamente, ad inviarti periodicamente il preparato. Allora tua moglie, con l’aiuto della dottoressa Daniela M., te lo iniettava…Le vene “bruciavano” e bisognava ogni volta ritrovarne di nuove, e poi, alla fine di ogni flebo, cominciavano il vomito e la diarrea…Restavamo impotenti accanto al tuo letto, a seguire con il fazzolettone plastificato ogni movimento del capo e della bocca. Nei momenti di pausa ci guardavi, non dicevi nulla…Anche questo apparteneva alle tue speranze! Ma anche la superchemio non fermò il corso dei fatti, fino a che fosti costretto, l’ultima decade della tua vita, ad entrare in quell’ospedale nel quale non avresti mai voluto. Moristi con Mattia vicino, la cosa più bella che un padre possa desiderare, figlio che ti assomiglia in tante caratteristiche, fisiche e caratteriali: socievole, aperto, disponibile, che 40
non ti aveva mai deluso e mai rifiutato, a cui avevi parlato di tutta la tua vita intima, ed ogni suo esame all’università ti aveva intenerito ed inorgoglito. Si è laureato, quasi rabbiosamente pochi mesi dopo la tua morte! Anch’io studiavo e studio tuttora all’università. Nell’anno della tua malattia diedi ben sette esami, tanti per me, madre e donna lavoratrice a tempo pieno. Cercavo, studiando, di non pensare, di non soffrire? Forse sì, ero convinta soprattutto che lo studio fosse un mezzo per razionalizzare, organizzare, ordinare, contenere il proprio mondo emotivo; per me, da sempre molto emotiva, era quasi un’operazione indispensabile alla sopravvivenza. Tu mi rimproveravi per questo, in parte lo studio limitava i tempi dei nostri incontri, ma per me era un mezzo per allontanarmi un po’ e difendermi dalle mie emozioni. Volevo sperare insieme a te quando tu speravi, pur sapendo perfettamente che non vi erano speranze; sorridere ironicamente di tutto, quando tu lo facevi, pur avendo voglia di piangere; controllare le emozioni negative, dato che ne eri capace anche tu…. L’ultimo rimprovero un po’ forte me lo facesti una domenica mattina prima della Pasqua: eravamo rimasti entrambi a dormire da Angelo, ed al risveglio ci eravamo ritrovati nella sua cucina a far colazione e a continuare i discorsi della sera precedente. Poi io dissi che dovevo tornare a casa, dovevo studiare quel giorno, oltre a preparare il solito pranzo domenicale, più laborioso, e fare le solite pulizie. Tu, e mentre mi guardavi e parlavi eri illuminato dal sole e dal verde tenero che si proiettavano come un’aureola dalla porta‐finestra della cucina, esclamasti:‐ Non fare l’ape Maia, ci sono tante cose da vi vere, non sciupare il tuo tempo! Non ti risposi, ma quando fui a casa, non feci che ripensare alle tue parole e mi dicevo che il tempo della vita e della morte è misterioso per chiunque, per un malato terminale e per una persona che scoppia di salute, e questo mistero ci può solo rendere più consapevoli rispetto alla scelta degli obiettivi, ma non li annulla… Poi ti scrissi una sorta di poesia come risposta. Ora ricordo solo il suo inizio: “Non fare l’ape Maia, non sai quanti giorni hai da vivere ancora! Quanti tramonti da osservare, quanti gatti da accarezzare... 41
Te la infilai, la settimana successiva, nel taschino della tua camicia, ti dissi che era qualcosa da leggere. Ma non ho mai saputo se l’hai effettivamente letta, se hai condiviso, approvato, disapprovato….e tuttavia penso che se tu l’avessi letta, ne avresti parlato, ma avevo troppo pudore per chiedertelo. E’ possibile non essere ape Maia? E’ possibile non riempire ogni angolo della propria giornata di impegni, incontri, obiettivi, libri, film, riunioni, giornali, figli, nipoti, genitori, compagni, concerti, supermercati….e non porsi anche a contemplare la propria anima, ascoltare solo voci e silenzi della propria interiorità? E’ possibile, io credo, ma è sempre più difficile! In questo bisogno di spazi di solitudine interiore eravamo simili, c’era qualcosa di contemplativo in entrambi, almeno come predisposizione, che talvolta persino i nostri cari consideravano in modo negativo, come mancanza di attivismo e produttività: fare, fare, fare… E dunque bisognerebbe ricordare, e riflettere, quelle pagine del Vangelo in cui Gesù, accolto nella casa di Marta e Maria, vede la prima che continua a darsi da fare nelle faccende quotidiane, e la seconda che abbandona tutto per porsi in ascolto della parola di Cristo, che è porsi in ascolto della propria vita interiore! ….Non fare l’ape Maia! ….Non sai quanto hai da vivere ancora! SALUTO! Una delle tue caratteristiche più personali era il rapporto con il cibo, o meglio con le persone che preparavano il cibo. Non ti avvicinavi al cibo con voracità, anzi con la delicatezza dei gesti significativi: ti sedevi, e lentamente osservavi i colori, annusavi i profumi, e cominciavi a gustare piccole porzioni, nel tuo modo sempre elegante, tenendole un po’ sulla lingua, e, invariabilmente concludevi:‐ Mmm, che profumo!..Come è buono!.. Come sei brava a far da mangiare!… 42
Non ho mai sentito da te di un cibo che non fosse squisito, o saporito, o delicato, o intenso, o bello nella presentazione, o nei colori…Era sempre una festa, soprattutto per chi te l’aveva preparato, e ci si sentiva appagati dall’averti a tavola come invitato, anche dell’ultimo minuto. I pranzi con te avevano la gioia degli incontri familiari, la serenità dei dialoghi spontanei….Ti sono grata di questi momenti, anche per il piacere e la gioia che provavano i miei figli, con te che aiutavi tutti a sentirsi rilassati, specialmente dopo che mio marito non c’era più… Di me, che non mi sono mai sentita cuoca particolarmente onorevole, ti piacevano in modo particolare i passatelli e gli agnolini; di Silvana, amica comune di Volta Mantovana, le torte salate; di Angelo lo stracotto di guanciale e le torte di mele; di tua moglie tutto: è sempre stata un’ ottima cuoca… Stavi già provando la superchemio, quando io, Silvana, Angelo e tu, decidemmo di organizzare insieme un pranzo festoso: ciascuno di noi avrebbe preparato qualcosa da portare lì da tua madre: Silvana, da Volta il tortino di melanzane e pomodori, io i passatelli con il brodo di carne, Angelo la sua torta di ananas….Ci sedemmo stretti attorno al piccolo tavolo di tua madre, in sette od otto, e fu un pranzo sereno con te che assaporavi lentamente ogni cosa, ma già i sapori cominciavano a sfumare e faticavi molto a deglutire… Anche i tuoi parenti che gestiscono la trattoria a Bondeno hanno cercato in ogni modo di regalarti questi piccoli godimenti: preparavano teglie di pere al cioccolato, di pesche al forno, di verdure grigliate o ripiene…e le portavano, per te, per tua madre, per chiunque fosse presente…Anche loro ti hanno donato amore, attraverso verdure e frutti scintillanti di colori e impastati di sapori, adagiati in sughi, sughini, sciroppi, intingoli…E poi, poco a poco, hai perso olfatto, gusto, voce, respiro… Una notte ti ho sognato, un’unica volta fino ad oggi, qualche giorno dopo il tuo funerale: se è dato immaginare la trasfigurazione del Cristo sul monte Tabor, o come dev’essere apparso splendente di luce alle Pie Donne dopo la Resurrezione, io così ho immaginato te! E così voglio pensarti e ricordarti! Eri disteso seminudo nel tuo letto di morte, e sparsi, sulla pelle del tuo braccio sinistro, e del torace attorno ai capezzoli, erano ben visibili i puntini e le macchioline verdastre che 43
erano venute a formarsi all’avvicinarsi della tua fine: sembravano una lieve muffa, e veniva l’istinto di lavarla via con una spugna, quando cominciasti a sorridere e a trasfigurarti!…Ti sedesti nel letto, le macchie erano scomparse…il tuo corpo manteneva sì le deformazioni e i gonfiori della malattia, ma c’era in te e su te, una bellezza così intensa luminosa e serena, che non potrò mai dimenticare! Mi ricordava la bellezza colta alcuni anni prima sul volto dei fraticelli francescani in San Damiano ad Assisi, mentre cantavano le Laudi e i Vespri… Tu mi dicesti solo: Non preoccuparti, io qui sto bene! IO QUI STO BENE. Ciao Franco, Amico Carissimo. Tania ti ha raggiunto, alle ore diciotto di domenica, ventitré luglio ,duemila. “ Fila la lana, fila i tuoi giorni, illuditi ancora che lui ritorni, libro di dolci sogni d amore, CHIUDI le pagine sul suo dolore! “ ( da “ Fila la lana” di Fabrizio De André ) MIA MADRE NON C’E’ MAI Mia madre non c’è mai. Arriva poche volte, poche volte la vedo. In tutta questa vita si possono contare sulla punta delle dita i momenti in cui è lei. Simile alle luci di un albero di Natale che si accendono e si spengono, penso che mia madre va e viene ad intermittenza, come loro. Ma quando la luce poi sta accesa e la illumina per un breve istante, lei è così lontana nel suo mistero di nascita. Proviene da una 44
famiglia contadina, ha fatto solo le prime classi elementari, ha passato, giovane, la guerra ma il suo mistero la porta al di là dei tempi, poiché è il mistero di nascita e di vita. E’ la parte più profonda e vera di un essere, quella parte che esiste nell’aria, nel sole, nei fiori, nei tramonti, nelle stagioni e che non morrà mai. Quando lei compare all’improvviso nell’intermittenza non è più la madre, la moglie, l’alcolista, ma semplicemente se stessa nel suo mistero, come una Primavera, come una luce, come un sorriso, come un frutto che cresce. Allora, la scorgo, la scopro in mezzo al buio e vorrei entrarle dentro, capire fino in fondo la sua verità, penetrarla, rubarne un poco. Così allungo una mano, credendo che lei l’afferri e che senta la mia voce quando chiama ma la luce si spegne, l’intermittenza finisce. Eppure in quello squarcio lei mi ha vista e mi ha sorriso e mi ha detto di vivere attraverso il suo bagliore. Spero, allora, di poterlo sempre scorgere quel bagliore, di rimanere sempre ricettiva all’intermittenza perché era la cosa che più contava, che più conta, che mi ha fatto volerle bene anche se fuori stava male. Ecco, in mezzo alle grida appariva e mostrava il sole che aveva e che ha dentro e che vuole donare ai suoi figli. In quei momenti, non rendendosene conto neppure lei, diventa la mia madre più vera, più bella che nella propria fragilità di persona non può badare ai figli come tutte le altre madri, guidandoli e rassicurandoli. Ci vuole bene come riesce, alla sua maniera, comparendo a intermittenza per mostrare l’amore che come donna possiede. Solo allora mi dice di vivere e costruire la mia vita, di esser felice e andare perché così lei vuole. Se sapesse però come mi manca certe volte, la conosco appena, in quei rari momenti in cui m’appare solo un riverbero, un riflesso di tutto il suo oro. Si, vorrei carpirlo il mistero che si porta addosso, ma soltanto il Signore lo conosce. Lui l’ha voluta sola, nella sua verità e io provo ad accettarlo anche se non so ancora chi sia questa donna che mi vive accanto. Devo andare di notte, quando dorme e quando di ognuno sembra venirne a galla il mistero, per scorgerla. Eppure non riesco a penetrarla fino in fondo, le do il braccio ma non lo prende, lei scivola lontano lontano con la sua luce che si spegne ancora una volta. Un giorno però decido di scriverle una lettera per dirle che le voglio bene. Lei la mette nel suo cassettino e la tiene lì, nascosta sotto la roba. Io con il tempo le ho scritto altre cose e queste cose non mi accorgevo che giorno dopo giorno, sempre nel buio del cassettino, si stavano trasformando come per magia in tanti semi e germogli ancora sconosciuti al mio cuore. Oggi, sono passati quattro anni e mia madre nella luce del tramonto, sta rileggendo i miei fogli. E’ commossa, ha sottolineato alcune frasi e mi dice, come mai mi aveva detto prima, di avere fra le mani un tesoro e che anche quel tesoro l’ha aiutata a riscoprire la sua strada. Ecco, ora io, in quel momento, 45
non so bene come sia accaduto ma mi sono ritrovata in un campo immenso bellissimo, ricolmo di spighe e soprattutto di rose profumatissime che rilucevano in una fiammata sotto il sole caldo. Quel sole nutriva la terra bruna e io mi ci buttai sopra distesa, la toccai e in mezzo alle zolle trovai tutti quei semi e germogli nati dal mio dolore, dal mio sentimento, dalla mia passione per lei, per mia madre che li aveva inaspettatamente raccolti e coltivati dentro di sé e che ora mi restituivano un campo meraviglioso, non più arido, duro, arso ma rigoglioso, verde d’alberi la cui frescura mi rinvigoriva e mi rigenerava. Per me, quel campo è stato un dono inatteso che mi ha lasciata quasi sgomenta perché in esso sento che forse c’è quella risposta ai dubbi, all’alcolismo, c’è quel senso fortemente prezioso come la vita, inseguito, cercato da anni che non voglio perdere ma trattenere e arricchire di nuove gemme. E’ strano, ultimamente faccio spesso un incontro si può dire simile ad un’apparizione, in quel campo. Mi capita di vedere, nascosta fra le erbe alte, una bambina piccola che s’avvicina ad una donna distesa su un letto. La bambina allunga una mano, è timorosa, prima doveva andare di notte, quando la donna dormiva e quando d’ognuno sembra venirne a galla il mistero, per scorgerla. Eppure non riusciva a penetrarla, le dava il braccio ma non lo prendeva, lei scivolava lontano lontano con la sua luce che si spegneva ancora una volta. Adesso però è giorno e la donna la rassicura con un sorriso, la attira a sé con un gesto, la bambina si fida, le porge nuovamente la mano e la donna finalmente gliela stringe, gliela accarezza, gliela bacia e mentre fa ciò le offre una rosa, bellissima d’una bellezza dolorosissima e intensa. Questo è quello che succede ogni volta che entro nel campo e adesso capisco perché vi si notino così tante rose. Per un semino piantato, una nuova rosa sbocciata e allora io potrò ripresentarmi di fronte a me stessa, a quella bambina sola, guardarla negli occhi senza paura e aiutarla a tendere ancora il braccio perché possa regalare un’altra rosa al suo campo. Oggi, sono passati altri quattro anni e al Gruppo di Alcolisti Anonimi, in quella tua saletta che frequentavi, è rimasto il tabellone con il tuo nome e la puntina da spostare sui giorni, i mesi, gli anni, giorno per giorno, ventiquattr’ore alla volta verso la sobrietà. Il giorno in cui Prati, il chirurgo che ti avrebbe operata, ci ha detto che avevi un tumore già avanzato, mi hanno rubato la bicicletta che mi aveva regalato Gerardo. Sono scesa dall’ospedale, con il papà che era scappato a casa e tu che come sempre avresti fatto, ti eri voluta far spiegare tutto senza che ti risparmiassero nulla e non ho trovato più la bicicletta. Con quella bicicletta ho corso come una matta assieme a Gerardo, ho girato mezzo mondo ma il mondo quel pomeriggio era tutto lì, al quarto piano dell’ospedale cittadino nel corridoio della 46
chirurgia seconda e non c’era più nemmeno Gerardo per scappare via in fretta e non sapere nulla e non veder più nulla. Con quella bicicletta ormai stava pedalando via un periodo della mia vita e se ne stava aprendo un altro, una strada in salita, tortuosa, che si sarebbe snodata fra monti e vette altissime fino alle cime più alte dove l’aria sarebbe stata più fresca e dove si potevano sentire respirare gli alberi. Sì, lassù gli alberi respiravano e questo loro respiro era come un fischio uguale a quello dei treni a vapore d’un tempo, che saliva dalle profondità della terra e rapidissimo si gettava in alto attraverso il tronco per poi fuoriuscire all’aperto portando con sé la tristezza dell’anima. Fra quelle cime, in quella nuova vita, in sella alla mia bicicletta viola avrei potuto poi essere un sasso, un ramo, un picco per prendere la pioggia, il vento, la neve, i fulmini, il sole di quelle alture, avrei sentito su di me l’avvicendarsi delle stagioni, il frantumarsi delle rocce, il cadere delle foglie, il passaggio naturale della vita.Così, senza temere nulla, sulla mia bicicletta avrei visitato un Cielo infinito senza più scorgere a valle, quella crosta dura e nera, quella caligine amara nella città carica di umanità bisognosa e indaffarata. Mio padre quel giorno continuava a discutere con Prati su ciò che ti aveva portato per lui al tumore: tante sigarette che non volevi ancora smettere di fumare e non avresti mai smesso, l’alcol. Prati non era del tutto d’accordo, tu mamma, uscisti sbattendo la porta e ti accendesti la millesima sigaretta. Mi guardavi Io ancora con non quell’aria ci smarrita….. credevo…. “ma “vedrai… è le vero?” cure…” La chemioterapia? Cos’era mai? “guarda, a noi non tocca questa cosa, noi non c’entriamo… Perché tutti dicono di prepararci? Ma cosa vogliono? Vedrai, vedrai che non sarà così….” Per la seconda volta entrasti all’ospedale da cui non saresti mai più uscita e mentre ti portavano dall’oncologia su al reparto, sulla barella mi stringesti la mano e mi ripetesti più volte: “Ho paura!” Era la prima volta in tutta la mia vita che ti sentivo dire che avevi paura, non te l’avevo sentito dire nemmeno quando bevevi. Pensai che stavolta davvero non ce l’avresti fatta a ritornare a casa. Ti buttasti sfinita sul letto del camerone con il berrettino di tela marrone in testa, quel berrettino bellissimo e benedetto e ti tirasti su le coperte fino a coprirti tutta la testa. Avevi chiuso la saracinesca con il mondo, con me, con tutti. ”Chi, quella signora lì? Nooo!” Il medico di turno doveva farti un prelievo, quando ti forarono dopo parecchi tentativi, mandasti solo un piccolo AHI!, ti avevano costretto ad aprire per un attimo la saracinesca, fuori, sul mondo, pioveva. Ti lasciai così, piansi molto in quel bagno d’ospedale. MA PERCHE’ NON C’ERA NESSUNO CON 47
CUI PARLARE? CHE SO, UN CENTRO D’ASCOLTO TUTTO PER FAMIGLIARI, UNA FRECCIA LAMPEGGIANTE ROSSO SCARLATTO, CHE INDICASSE UN BANCO, UNA VETRINA, UNA SALA DOVE CI FOSSE QUALCUNO CHE MI DICESSE: CI SONO PASSATO ANCH’IO…., CORAGGIO, CI SONO PASSATO ANCH’IO. Alla sera quando tornai, eri ancora nella medesima posizione, con il berrettino calato fin sul naso e la coperta tirata su. La saracinesca era chiusa con mille lucchetti di pena infinita. Riuscii a toglierti il berrettino e guardandolo, però sorridesti. La chiave dei tuoi lucchetti era appoggiata sul comodino in mezzo a due sacche da trasfusione di non so cosa. Il giorno che avevamo comperato quel berrettino, c’era un caldo incredibile e un sole che picchiava sodo. C’eravamo date appuntamento con le nostre biciclettine davanti alla Standa per curiosare gli arrivi estivi. L’aria condizionata dentro era forte, si stava proprio bene. Fra gli scaffali pieni di foulard, creme da sole, costumi da bagno, ti provavi tutto, tutto ti piaceva: i colori, le stoffe, i profumi dei bagnoschiuma e soprattutto gli occhiali da sole in plastica. Ti divertivi a indossare i più strani, gli allungati, i piccolissimi, i rosa shock, i gialli da pugno nello stomaco, perfino i tigrati. Poi vedesti i tuoi grandi amori: i cappellini a rete, i berrettini di tela. Quella stagione eran di moda le pagliette forate, verdi, gialle, te le mettesti tutte. Io ti osservavo con il tuo visino minuto, scavato dal male, le braccia magre magre, i capelli ricci di cui ti vergognavi, ricresciuti dopo la chemioterapia, per me bellissimi e la paglietta in testa. Mi sembravi Totò, anche le persone ti guardavano perché eri malata, avevi l’aspetto tipico di chi ha un tumore. A quelle occhiate io ormai mi ci ero abituata e non diventavo più rossa, tu, sapevi che facevano parte della tua nuova condizione e le prendevi come si prende la pioggia o il sole, con grande coraggio e accettazione. Te l’avevano insegnata al Gruppo, l’accettazione, quella santa accettazione mai subita ma vissuta immedesimandotene in pieno. Signore, dammi la Serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il Coraggio di cambiare quelle che posso e la Saggezza di conoscerne la differenza. Te la ricordi, mamma, la Preghiera della Serenità? Io, adesso la recito un po’ poco ma la ritrovo ovunque, qualche volta l’ho vista pure in certi bigliettini d’auguri delle suore Paoline. Quel giorno alla Standa e tutti i giorni a venire, ti avrei vista diversa. Per me non eri malata, eri bellissima!! Mi sembravi una farfalla che doveva prendere il volo ogni secondo, di quelle farfalle dalle ali nere con le striature arancioni e multicolori che hanno nome di donna, le Vanesse lucenti dei mesi primaverili. 48
Ecco, tu eri una Vanessa luminosissima che si adornava le ali di fiamme di sole, creatura mia ferita! La prossima stagione ti trasformerai in una Vanessa speciale: avrai le ali fatte tutte di luce. Dopo un po’ che guardavi e riguardavi, ecco, vedesti il mitico berrettino di tela marrone color terra, semplice come quelli forse che andavano negli anni venti, ormai non l’avresti lasciato più. Te lo sarai provato mille volte davanti allo specchio e più lo rigiravi da una parte e dall’altra, più ti piaceva. Poi, ricordo che visto il prezzo, lo rimettesti a posto con dispiacere e mi dicesti chiara, per la prima volta così chiara “Cosa lo prendo a fare se fra poco dovrò morire?”. Il mio cuore, dalla pena, aveva avuto un tuffo, di quei tuffi fondi fondi che ti portano a toccare la profondità del mare e anche una rabbia, una rabbia così grande d’ingiustizia, di sofferenza, d’IMPOTENZA TOTALE. Subito mi voltai a guardare qualcos’altro per prendere tempo. Alla morte, ogni tanto a casa ci si pensava, soprattutto quando bevevi e avevamo paura che ormai fosse il momento buono ma invece, ogni volta ce la facevi, ti rialzavi e continuavi a pettegolare, a chiacchierare come una mitragliatrice, a comperare foulard, a vivere. Dicevi solo che il fatto di poter rivedere soprattutto tuo nonno Corrado morto che eri bambina e che ti dava sempre dei “bussi” in testa quando non volevi mangiare, ti sarebbe piaciuto molto e poi poter riabbracciare i tuoi genitori, tua cugina Lidia, quella femminista sfegatata e tanti altri, bè, sarebbe stato bellissimo. “Ma ci pensi?”, mi dicevi, “Davvero incontrarsi tutti lassù? Che confusione! Ma cosa si farà mai con tutto quel tempo a disposizione? Mi sembra una favola bella, Linda”, continuavi a dirmi, “Però che bello! Se davvero fosse così vorrei andarci subito!”. Dicevi anche che se avessi mai incontrato quel Gesù Cristo, gli avresti tirato la barba perché ce l’avevi con Lui. Dicevi di non credere però, la barba gliela avresti tirata volentieri. Sono sicura, che il buon Signore quando ti ha vista arrivare sarà stato imbarazzatissimo di fronte a questa Sua figliola così esuberante che aveva migliaia di ingiustizie del mondo da metterGli davanti con una voglia matta di tirargli la barba. Forse te l’avrà fatta tirare piano piano magari, ma ti avrà accontentata per la gioia di riaverti di nuovo a casa. ”Mamma”, ti dissi “comperalo quel berrettino. Sai perché? Perché là dove andrai presto ci sarà tanta di quella luce, tanto di quel sole che ti dovrai pur riparare la testa” ”Davvero?”, mi rispose “allora lo compero subito” e ci venne proprio da ridere e infatti ridemmo parecchio. Ecco, l’argomento morte era ormai entrato nei discorsi di chiacchiera quotidiana, non era più la morte morte ma la vita vera. “Promettimi che da lassù mi aiuterai, ci darai una mano, non sappiamo come fare…” 49
Farò tutto il possibile, te lo prometto”. Mi stringesti la mano debole, spostando il tuo braccio scheletrico, un’unica stretta fortissima, un patto d’amore e di sangue con quella poca energia che ti rimaneva nel corpo. Tante volte quando ho ancora bisogno di aiuto ti chiamo: Me l’hai promesso, ricordi?. Era un mese prima di morire, eri a casa, a letto, sfinita, con un filino di voce che ancor ti legava alla terra, un filino che mi faceva soffrire, una vocina carica di dolore prigioniera d’una stregoneria, come se una fata muta te la stesse rubando per farsi più bella. Eppure quella tua sfinitezza cercavi di recuperarla in mille modi, soprattutto in cucina inventasti un ripieno stranissimo divenuto famoso, qualcosa riuscivamo ancora a mangiare, a te ormai sceglievo gli omogeneizzati alla frutta perché pensavo ti dessero più calorie. Mi ricordo che al supermercato una signora mi chiese quanti mesi avesse mio figlio e io secca risposi “pochi!”. Non riesco mai a farmi la treccia da sola, ci sto provando ancor oggi ma come me la facevi tu, proprio non mi riesce affatto. Tu partivi dall’alto, poi scendevi lasciando i capelli morbidi pettinandomeli. Niente, non c’è niente da fare. Io invidiavo invece i tuoi capelli talmente erano voluminosi, ti avevo soprannominata “nido d’uccello”, “nido di rondine”, pure tu ne eri orgogliosa. quando ti vidi tutta calva a causa della chemioterapia, non ti era rimasto neppure un capello in capo, agli inizi non riuscivo a guardarti, senza parrucca, ogni volta che mi capitavi davanti all’improvviso, mi spaventavo, così, di colpo e tu te ne accorgevi e ci stavi male. Allora io piangevo di nascosto: MA PERCHE’ NON C’ERA NESSUNO CON CUI PARLARE’ CHE SO, UN CENTRO D’ASCOLTO TUTTO PER FAMIGLIARI, UNA FRECCIA LAMPEGGIANTE ROSSO SCARLATTO CHE INDICASSE UN BANCO, UNA VETRINA, UNA SALA DOVE CI FOSSE QUALCUNO CHE MI DICESSE: CI SONO PASSATO ANCH’IO…., CORAGGIO, CI SONO PASSATO ANCH’IO. Ce l’avevo con quel tumore, con quei veleni di cure che ti trasformavano esternamente, mi dispiaceva che nella tua vita, per risparmiare, eri andata pochissimo dalla parrucchiera. Quando ci andavi, tornavi a casa felice e tutta la tua persona odorava di balsami, di profumi, di bucati, di saponi, di morbido, di buono. Tu chiudevi piano la porta dopo che ti guardavo male ma poi correvo da te e ci abbracciavamo, facevi la stupida per farmi ridere, dicevi “ninna nanna, ninna nanna” e io allora ti accarezzavo la testa pelata, ridendo. Il giorno che comperammo la parrucca, pedalavamo veloci in bicicletta perché ti volavano via tutti i capelli, li perdevi a ciocche per strada. La parrucca ti piaceva e la volevi tenere anche quando ti ricrebbero i tuoi capelli. Ce ne volle per convincerti del contrario. Ci volle il dottor Bruno, medico di 50
Matera della cura Di Bella con visita mensile a Bologna.Ti parlò tanto perché tu piangevi e ce l’avevi con il mondo intero. Questa della cura Di Bella era l’ultima speranza, d’altronde che facesse qualcosa o no, a quel punto l’importante era il non negarti di sperare, il lasciarti la voglia di alzarti al mattino, il lasciarti dire che forse c’era ancora qualcosa da poter fare, il sollevarti dall’impossibilità e dal dolore fisico di ripetere un secondo ciclo di chemioterapia se pur leggero. La cura Di Bella significava non spegnerti tutte le luci, non chiudere la saracinesca con i lucchetti della pena infinita. Ci provasti con una forza da leone, imparasti a inserirti la siringa dell’iniezione notturna, imparammo le farmacie convenzionate con medici disonesti, imparammo a distinguere centinaia di protocolli Di Bella l’uno diverso dall’altro nonostante avrebbe dovuto essercene un unico uguale per tutti, imparammo i nomi dei medici riconosciuti dal team di Di Bella, imparammo che una fialetta di somatostatina rovina una famiglia economicamente, conoscemmo la rabbia per i decreti regionali che uscivano, si contraddicevano, sparivano il giorno dopo e ad ogni comunicato stampa, avresti voluto farla finita. Conoscemmo gli aventi diritto alla cura: i terminali e i pazienti con alcuni tipi di tumore. Mi dicevi: “cosa devo fare per essere terminale? Se adesso sto ancora in piedi, perché non posso essere curata?”. 51
Io non avevo più voce né lacrime segrete da versare. MA PERCHE’ NON C’ERA NESSUNO CON CUI PARLARE? CHE SO, UN CENTRO D’ASCOLTO TUTTO PER FAMIGLIARI, UNA FRECCIA LAMPEGGIANTE ROSSO SCARLATTO CHE INDICASSE UN BANCO, UNA VETRINA, UNA SALA DOVE CI FOSSE QUALCUNO CHE MI DICESSE: CI SONO PASSATO ANCH’IO…, CORAGGIO, CI SONO PASSATO ANCH’IO. Dopo che riuscimmo ad ottenere una convenzione con le farmacie riunite per i medicinali, dopo che avemmo in mano un protocollo che pareva quello giusto, dopo che trovammo un medico di Matera a Bologna che pareva non un mascalzone, dopo che versammo sangue e sudore, in oncologia, dove per legalizzare la cosa si doveva avere una firma, ci dissero che appena due giorni prima, un nuovo decreto non includeva più la patologia tumorale allo stomaco fra gli aventi diritto alla cura. Ti arrabbiasti così tanto con Bianchi, il dottore che ti seguiva, che pensavo lo avresti buttato per aria. Poi te ne andasti. Io allora, non mi era mai capitato, piansi proprio davanti al dottore, con dolore, con ira, non sapevo nemmeno io cosa mi stava succedendo. Il dottore si impressionò a vedermi piangere perché mi conosceva come una persona forte. Si, si impressionò. Provò pena, impotenza, non so, so solo che lui era ancora fra quella specie di dottori che provano pietà per qualcuno pur cercando di tutelarsi dalla sofferenza, forse perché era stato malato anche lui, forse perché sapeva cosa voleva dire. Il dottor Bianchi è sempre stato di poche parole ma quelle poche che diceva, entravano nel cuore. Si scontrò con il primario per la vicenda di mia madre, conosceva tanti altri nostri problemi e si scontrò con un primario che insegnava agli alunni della scuola infermieri di tutto e di più contro la cura Di Bella. Un odio così sviscerato da parte sua per quella cura, io non l’ho mai capito sta di fatto che Bianchi ottenne il via libera. Mi disse solo di non domandargli niente sul cosa avesse detto o fatto con il primario poiché era andato vicino a perdere il posto di lavoro. Io non sapevo che la speranza avesse un costo così alto né tantomeno che la si combattesse così accanitamente ma mia madre, davanti al dottore di Matera si tolse dopo mesi la parrucca e si guardò a lungo nello specchio pettinando i nuovi ricci che le erano cresciuti. “Non è più bella, signora?” le disse il dottore facendola finalmente e nuovamente ridere. Uscimmo con la parrucca dentro al mio zainetto rosso. Vicino all’ambulatorio nel quartiere S.Donato c’era un parco giochi per bambini e io, la mamma e mio padre, dopo quell’incontro ci sdraiammo proprio così sull’erba, tutti e tre a guardare il cielo con la gente che ci sbirciava storto, come fossimo tre compagni d’avventure che avessimo corso per chilometri e miglia e adesso, esausti, riacquistavamo su quel prato malaticcio, le forze ormai perdute. L’ho rivisto proprio ieri il prato del quartiere S.Donato. Dal centro di Bologna dopo il mio incontro con una antica amica, ho preso l’autobus apposta, apposta per rivederlo. Mi sono tanto commossa e mi sono seduta proprio là, nel medesimo punto in cui eravamo quel giorno. Non è molto diverso da allora, è solo che manchi tu. Mi son venuti in mente i prati del Trentino che quasi ogni estate ritrovavamo per la villeggiatura, certo così verdi, scintillanti, di sicuro non parchetti tristi di città. Il Trentino era un po’ il nostro rifugio nel bisogno di riposo, di ristoro fisico e mentale. In quel paesello di montagna, spesso andavamo al mercatino del Sabato mattina. Il paese si riempiva di bancarelle colorate e tu, come al solito eri pronta in prima fila. Ricordo che cercavi una maglia per mio fratello poi invece hai visto una felpa rossa morbidissima che mi hai subito comperato: quello fu il tuo ultimo regalo. Io ti osservavo in mezzo alle tute e agli scarponcini da passeggiata, sembravi incinta di nove mesi ma invece in quella pancia d’esserci un figlio c’era solo un liquido infiammatorio, un infiltrato tumorale che si formava anche nei polmoni. La gente ti guardava e tu imperterrita dietro gli occhiali scuri mi stringevi il braccio… Ho ancora una fotografia di quell’ultimo Agosto assieme, ci sei tu che mi saluti però sei seria, magra magra con il pancione. Sembri una bimba del terzo mondo, gli occhi grandi, le braccia e le gambe simili a ramoscelli, il ventre gonfio, pari una bambina che muore di fame. Figliola mia! Ma la tua era un’altra fame, era fame di vivere, di trattenere ogni piccolo particolare, ogni respiro d’albero quasi fosse il tuo, perché di quel respiro ti nutrivi come del pane stesso. Era un respiro che ormai ti legava all’infinito, all’eterno, alla luce che non perisce mai. Con il tuo berrettino di tela marrone sedevi in panchina vicino al fiume e guardavi l’azzurro. D’improvviso, nuovamente chiarissima dicesti “Dove andrò sarà bello come qui?” e indicavi le nubi, gli occhi nel cielo. Cara mamma son venuta qui apposta per ritrovare quella panchina che ora è vuota. Questo posto è stato uno dei tuoi ultimi passaggi terreni. I fiori son viola fosforescenti!!! Genzianelle, iris, violette, il giglio marrone, alcuni fiori a forma di margherita o di quadrifoglio però con la corolla non fatta di petali ma di raggi, è da loro che proviene la luce. E’ davvero bello lì come qui? In quale forma sei ora? Proteggimi! Voglio pensare che sei nella pace di Dio, che sei in ogni luogo e in tutti i luoghi, in queste vette, in queste valli…la commozione mi fa riempire gli occhi di lacrime. Proprio adesso! C’è gente! In montagna eravamo stati in Agosto, a Novembre ti ricoverarono per la seconda e ultima volta. La 53
prima volta venne la Croce Rossa a prenderti e te ne andasti a piedi giù dalle scale con i due volontari che ti tenevano stretta, pensavi di non tornare più invece poi ce la facesti e ti riavemmo a casa. Quell’ultimo ricovero, scendesti le scale del condominio allo stesso modo, io non ti salutai nemmeno, tanto ce l’avevo con te. Non volevo tu andassi in ospedale, non volevo che morissi fuori casa, non volevo tu partissi così, non volevo, non volevo… io, io, io chi ero mai io in confronto a te? Il giorno prima stavi proprio poco bene,facesti presto, prendesti il telefono e chiedesti di andare in ospedale, scegliesti di morire in ospedale quasi tu sentissi la fine prossima. Andasti per sentirti più sicura, perché Pier, tuo figlio, non soffrisse a vederti partire. Io lo sapevo che uscivi dalla nostra porta per sempre, che non l’avresti più riattraversata, per questo motivo guardai malissimo i volontari dell’ambulanza e mi chiusi in cucina dopo aver litigato con te ma naturalmente il pomeriggio ero già lì in ospedale da te. Fu tutto un prepararsi alla tua partenza. Qualche donna del Gruppo ti veniva a trovare così che io potevo anche muovermi e uscire sui viali dell’ospedale. Quando ancora non eri malata, spesso d’estate, per prendere il fresco venivamo in quei viali pieni di verde e ancor ti rivedo con la tua veste leggera piena di aria, muoverti fra la fontana e le quattro panchine. La Domenica pomeriggio, uscivo per un’ora, due ore dall’ospedale, percorrevo con rabbia quei viali e mi infilavo nel solito cinema in fondo alla piazza. Era il mio modo di dire no al tuo tumore, all’ospedale e a tutte le sacche di trasfusione appese al tuo letto, guardavo quei film per staccar la corrente e per parecchio tempo ho pensato con colpa a quel mio allontanarmi da te con il cuore che mi scoppiava. ”Andiamo male eh?”, mi vedevi parlare con il dottore “Non mi riprendo stavolta”, mi vedevi contare le medicine sul comodino “Dì a tuo padre di scongelare la carne… stasera vai a mangiare una pizza…come sta Pier?”ogni tua frase, ogni tua preoccupazione era per noi, chiacchieravi, chiedevi tanto di me, chiedevi di mostrarti gli acquisti,chiedevi del Gruppo, perlomeno il dolore fisico grande ti fu sempre risparmiato, ancora il pancreas e le ossa non venivano intaccate, facesti in tempo ad andartene prima, l’intestino e i polmoni erano colmi di liquido. Mai un lamento, un grande coraggio, citavi ogni giorno il programma del Gruppo, la preghiera della Serenità, la famosa accettazione. Approfondivi ogni argomento, ridevi pure, conservavi una grande forza e lucidità, mi parlavi e chiamavi con quel filino di voce che mi faceva così soffrire, allora correvo sulla panca verde del corridoio e tutti passavano, tutti parlavano, 54
tutti vivevano. Che solitudine su quella panca verde! MA PERCHE’ NON C’ERA NESSUNO CON CUI PARLARE? CHE SO, UN CENTRO D’ASCOLTO TUTTO PER FAMIGLIARI, UNA FRECCIA LAMPEGGIANTE ROSSO SCARLATTO CHE INDICASSE UN BANCO, UNA VETRINA, UNA SALA DOVE CI FOSSE QUALCUNO CHE MI DICESSE: CI SONO PASSATO ANCH’IO…, CORAGGIO, CI SONO PASSATO ANCH’IO. La Domenica pomeriggio, dentro al cinema, dimenticavo quel filo di voce che ancor ti legava alla vita e dimenticavo la smorfia dei famigliari del paziente vicino quando uscivo, lasciandoti sola. Per fortuna che eravamo riusciti a farti trasferire in una piccola cameretta a due, quelle camerette del dietro corridoio famose perché si sapeva che chi passava di lì, forse di giorni a venire non ne aveva poi molti. Dimenticavo gli infermieri, i medici, le aiuto infermiere che si offendevano l’una con l’altra a denti stretti, sbattendo i carrelli contro i letti degli ammalati. Dimenticavo i farmaci, le flebo, la morfina. Io ti dissi che te la davano, il medico s’arrabbiò con me ma lui non sapeva che io e mia madre parlavamo molto aveva sempre voluto sapere tutto, tutto le è stato detto, ci provammo una volta a nasconderle il risultato d’un esame senza avvertirne il medico ma poi lui, non sapendo, le disse i valori e successe il finimondo con mia mamma che ordinava a Bianchi di non dirci mai più nulla senza prima avvertirla. Lui fu d’accordo con mamma che aveva fatto la sua scelta e noi non le nascondemmo più niente. La morfina la diedero solo gli ultimi giorni, ci andò bene perché fino ad allora il tuo fisico aveva resistito al grande male, se non lo avesse fatto come un pomeriggio invece capitò, con te sarei morta anch’io dal dolore di vederti penare. Nessuno me lo aveva mai detto che per legge il dosaggio della morfina non doveva superare una certa quantità onde evitare il rischio di coma o collasso del paziente. Lo imparai quando dalla notte precedente, il medico non rischiava più la toracentesi o la paracentesi e tu continuavi a dire che ti sentivi scoppiare. Il dottore mi parlava con le occhiate, mi diceva che ormai mancava poco alla fine ed io lo supplicavo almeno di farti addormentare, di aumentare quella morfina benedetta. Gli dicevo che m’avevan promesso di farti soffrire il meno possibile, di farti fare, come la chiamano? ah si, una buona morte. MA PERCHE’ NON C’ERA NESSUNO CON CUI PARLARE? CHE SO, UN CENTRO D’ASCOLTO TUTTO PER FAMIGLIARI, UNA FRECCIA LAMPEGGIANTE ROSSO SCARLATTO CHE INDICASSE UN BANCO, UNA VETRINA, UNA SALA DOVE CI FOSSE QUALCUNO CHE MI DICESSE: CI SONO PASSATO ANCH’IO…., CORAGGIO, CI SONO PASSATO ANCH’IO. Poi incontrai la dottoressa ch’era di guardia. Mi disse che suo padre era morto dello stesso male un anno 55
prima e venne da te prendendoti la mano. Non ci fu più bisogno di discutere, ti praticò la paracentesi e ti assistette buona parte del pomeriggio. Era come un angelo mandato dal Cielo apposta per te, il suo sorriso illuminava l’intero piano d’ospedale. Un po’ di tempo fa ho saputo che si è suicidata gettandosi dal quinto piano dell’ospedale, forse era stanca di tanta sofferenza, forse voleva riveder suo padre eppure in quel corridoio riappare sempre la sua luce, è ancora la sua mano che tiene stretta la tua. Sono stanca di camminare…. In Inverno cade la neve, dai…. fammi morire. Sarà perché eravamo a Dicembre, sarà perché poco dopo sarebbe arrivato il Natale, due giorni prima di morire ci dicesti che se ti fossi ripresa, per Natale avresti cucinato i cannelloni verdi e poi a Gennaio avresti fatto una piccola vacanza in Trentino perché con la neve non lo avevi mai visto e ti sarebbe piaciuto molto! La cosa più bella che mi accompagna ogni giorno come una grande ricchezza è che nonostante tu sapessi di dovere morire, comunque una speranza, una voglia, una piccola certezza di guarire la conservasti fino alla fine. Ormai era giunto il momento di salutarci. Entrasti in coma la sera poi tutto il giorno seguente e la notte moristi. Alla sera, dopo aver dormito in continuazione iniziasti a parlare senza coscienza. Io ti osservavo con il cuore che correva come su un’autostrada, non ti riconoscevo con gli occhi ormai rovesciati all’indietro ed avevo paura. All’inizio dicevi di vedere tua madre, molta gente che ti veniva incontro, una corsa nel buio pieno di stelle poi molta luce. Io e tuo marito ti ascoltavamo attentissimi quindi non dicesti più niente che fosse sensato, solo una sfilza di nomi senz’ordine. Don Daniele, la cui voce mi sembrò in quel momento ancora più forte e dolce del solito, mi disse di non spaventarmi, perché tu non eri più lì ma già vedevi ogni cosa, vedevi il tuo corpo terreno a cui qualcosa ancor ti legava e noi attorno ad esso ma non eri più lì. Volevi esser sicura di salutarci, le nostre presenze ti trattenevano. Dovevamo aiutarti ad andare. Ti incoraggiammo e dicemmo di andare tranquilla, che ci saremmo presto rivisti e ti accarezzavamo, non lasciavamo la mano, ti dicevamo che lì dove in parte già eri, c’erano tante persone pronte ad accoglierti: i tuoi genitori, quella femminista di tua cugina, il nonno Corrado e il buon Dio pronto a farsi tirare la barba. La larva stava uscendo dal suo bozzolo di seta aggrovigliata per trasformarsi in farfalla dal nome di donna: la Vanessa lucente dei mesi primaverili. T’adorni le ali di fiamme di sole, creatura mia ferita! Stanotte alle tre sarai trasparente, avrai quelle ali tutte fatte di luce. Sulla mia seggiolina d’ospedale già ti parlavo come se non ci fossi più. In che forma sei ora? Sei un 56
sasso, un ramo, un picco e osservi il frantumarsi delle rocce, il cadere delle foglie, l’avvicendarsi delle stagioni? Sei un cedro delle alte vette con i rami spioventi intessuti di sole e un’anima che consente di dar segni di saggezza, di preveggenza simili a quelli dell’istinto degli animali, all’intelligenza degli uomini. Conosci in anticipo le stagioni, muovi le tue vaste fronde come membra, allarghi e stringi i gomiti, innalzi verso il cielo o chini verso terra i rami, secondo che la neve si prepari a cadere o a fondere. Sei un essere divino in forma d’albero e ci proteggerai abbracciandoci con le tue larghe fronde. Non lasciarci ancora, aspetta ancora un poco! Io, al coma non ho resistito, ti ho vista per l’ultima volta su questa terra quattro ore prima della tua morte e venni via guardandoti per l’ultima volta e lasciandoti con mio padre e una cugina. Io, tanto ho ripensato a quel momento, mi dicevo che ti avevo accompagnata una vita fino alla fine e non ero rimasta gli ultimi istanti. Era proprio polvere sulle mie scarpe quel mio turbamento! Il buon Signore mi aveva risparmiato il tuo trapasso e aveva fatto rimanere lì con te tuo marito. Ti ricordi che ti lamentavi di quell’uomo sempre assente in tutto? Assente in Gruppo, in famiglia, in malattia. Ti ho affidata a quel marito impotente di fronte alle tue sofferenze perché ora ti stringesse la mano e ti desse l’ultimo incoraggiamento. Era il dodici Dicembre, mi ha detto che t’eri come addormentata, respiravi quieta poi hai reclinato il capo da una parte, hai emesso un sospiro e sei volata al Cielo. Figliola! Appena due giorni prima mi dicevi ancor lucida che ti mancavano le nostre passeggiate, che ti dispiaceva perché sarei rimasta sola. Quella notte ha squillato il telefono verso l’alba ed era mio papà che diceva che eri morta. Io son sicura che quella notte m’hai vegliata e hai sentito la mia paura, lo stordimento, il senso di colpa per non esserci stata quegli attimi finali, dopo un’intera esistenza. Ormai leggevi il cuore fino in fondo e allora appena che fui arrivata in ospedale, mi accogliesti a braccia aperte. Ti vidi dietro il paravento coperta dal lenzuolo, i tuoi capelli ricci appena ricresciuti, accidenti! Il volto era disteso, sereno ma io levai lo sguardo in alto perché sapevo che mi circondavi. Ebbi l’impressione di una grande luce in me, calda e accogliente, piena di vita e d’allegria. Eri tu che mi venivi incontro, lo sapevi sorellina del mio pensiero di non averti salutata e come giunsi in corridoio mentre passavi in barella per andare alla camera mortuaria, sentii la tua voce che correva a me: “Linda!”. Era proprio il mio nome! Era proprio la tua voce! Era una voce senza più sofferenza, senza quel filino sottile sottile come non ero più abituata a 57
sentir da mesi, era una voce di te giovane, una voce limpidissima, cristallina, libera d’ogni dolore e ansia e umana tribolazione. “Linda!” forte e chiaro, aveva sentito anche mio papà che disse “è tua madre”, aveva sentito pure lui ma nessun altro ed eri tu che mi dicevi: CIAO! BENVENUTA! FINALMENTE! GUARDA CHI SI VEDE, MIA FIGLIA! STO BENE! STO BENE! Non dimenticherò mai fin che avrò vita. Io e mio papà ci abbiam pensato molto nel tempo: ci sarà stato un infermiere, una persona, eppure no! Eri tu che ti manifestavi solo ai tuoi cari tanto era l’amore che ci legava, un’amore capace di materializzarsi potentissimo, capace di superare le barriere d’ogni spazio e d’ogni tempo per dirci che sei ancora qui con noi fino alla fine dei giorni. Don Daniele mi spiegò che poco importava se la voce fosse stata di qualche estraneo perché comunque era la tua. Poi successe un fatto straordinario: accarezzasti il viso del papà in sonno e lui mi raccontò che avevi in testa un berrettino, un berrettino di tela marrone che ti sistemavi ridendo in mezzo a parecchia luce. Mio padre non ha mai saputo di quel pomeriggio trascorso alla Standa né mai gliel’ho raccontato ma so che la mamma è comparsa nel sogno a lui che non poteva capire, per dirmi che ora sta bene. All’obitorio c’era un freddo cane, tu stavi nella cassa chiusa come in vita avevi espresso, vicino a un vecchietto ottantenne e a un giovane di ventiquattro anni perito in un incidente stradale. Ma è questa la morte? In una gelida camera divisa a stanzette con il tuo ricordino stampato, ricevevo le visite di chi veniva a vederti ma non capivo più niente. Ma è questa la morte? Il funerale, il corteo, il forno crematorio con quegli aggeggi meccanici alzabare. Pensare che in certe tribù separano il cuore, mangiano gli organi, hanno capito più loro che noi “evoluti”. In Tibet insegnano ad accompagnare il tuo morto, da noi la morte è qualcosa di congelato, da chiudere dentro i confini dei cimiteri, con gli orari estivi e feriali, Ferragosto incluso. Durante il corteo sapevo che ci osservavi e probabilmente commentavi ogni cosa assieme a quella femminista di tua cugina. Un anno dopo è arrivato anche Giancarlo, amico di Gruppo che iniziò la via del Calvario con te quell’Agosto che fosti operata da Prati. E’ vissuto un anno più di te ed è arrivato al cimitero con la banda che suonava “Bandiera rossa”. 58
Qui la sofferenza è grande. Si fa fatica senza di voi! Le famiglie spesso si slegano, i figli spesso si perdono. Ho giurato tante volte di creare un Gruppo tutto solo per famigliari d’ammalati di tumore, un Gruppo che si riunisca in ospedale e che abbia un banco, una vetrina, una sala con una freccia lampeggiante rosso scarlatto per indicare la strada sempre ascendente, sempre in salita, mai in discesa, mai in precipizio. Ho giurato tante volte ma non sono ancora riuscita, i famigliari non vogliono saperne più niente, sono stanchi di malattie, medici e case di cura, non voglion pensare che altri stanno battendo la traccia del loro sentiero. Vorrei che quel desiderio non si trasformasse nel tipico sogno da cassetto poiché so bene ormai cosa sono i sogni, i sogni sono prolungamento del corpo, i sogni sono te con il berrettino di tela marrone. Mia madre non c’è più. Arrivava poche volte , poche volte la vedevo. In tutta questa vita si potevano contare sulla punta delle dita i momenti in cui era lei. Simile alle luci di un albero di Natale che si accendono e si spengono, mia madre andava e veniva a intermittenza, come loro. Ma quando la luce poi stava accesa per un breve istante, vedevo una Vanessa dalle ali fatte tutte di fiamme di oro. Se sapesse come mi manca, la conoscevo appena, in quei rari momenti in cui mi appariva solo un riflesso, un riverbero di tutto quell’oro. Però mi ha detto di vivere e costruire la mia vita, di esser felice e andare perché così lei ancora vuole. E’ strano, ultimamente faccio spesso un incontro si può dire uguale a un’apparizione, in un campo. Mi capita di vedere, nascosta fra le erbe alte, una bambina piccola che s’avvicina a una donna distesa su un letto. La bambina allunga una mano, è timorosa, prima doveva andare di notte, quando la donna dormiva e quando d’ognuno sembra venirne a galla il mistero, per scorgerla. Eppure non riusciva a penetrarla, le dava il braccio ma non lo prendeva, lei scivolava lontano lontano con la sua luce che si spegneva ancora una volta. Adesso però è giorno e la donna la rassicura con un sorriso, la attira a sé con un gesto, la bambina si fida, le porge nuovamente la mano e la donna finalmente gliela stringe, gliela accarezza, gliela bacia e mentre fa ciò le offre una rosa, bellissima d’una bellezza dolorosissima e intensa. Questo è quello che succede ogni volta che entro nel campo e adesso capisco perché vi si notino così tante rose. Ce l’hai fatta! Ce l’abbiamo fatta insieme mamma! Adesso sei volata davvero a casa, sei volata a quella libertà piena, dolce farfallina coraggiosa! sei stata una madre bellissima, un dono del Cielo per ciò che ci hai dato! 59
Ho imparato ad amare! Aspettami! Aspettami nelle radure piene di luce verso cui corri, aspettami fra i laghi e le valli del Trentino, aspettami! Sono in viaggio e sai che prima o poi arriverò. Allora correremo assieme nei grandi pascoli dell’eternità e non ci sentiremo stanchi né affamati. Saremo senza lacrime, senza più paura di sbagliare la strada. E non piangere figliola, mi dici, immagina d’avere in mano quella rosa profumata, tu che hai imparato bene il suo linguaggio e non dimenticarti di me, è il suo significato, non dimenticarti di me quando svanisco nella nebbia o nel sole, io sono qui, nelle cose fatte assieme, nel tuo cuore, non dimenticarti mai di me. Linda Motti 60
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Vincitori della prima edizione