POSTFAZIONE
di
Franco Perrelli
Come per la maggior parte delle opere di Strind­
berg (1849-1912) dei primi del secolo, il nucleo
emotivo del dramma L’Olandese (che presen­tiamo
in prima traduzione italiana) va riportato all’in­
contro, nella primavera del 1900, fra lo scrittore,
in permanente crisi spirituale e con due matrimoni
falliti alle spalle, e la giovane attrice Harriet Bosse.
Nel Diario occulto, Strindberg confessa che «di­
nanzi a quel capolavoro di crea­tura nata da don­
na» aveva provato «la nostalgia del vecchio Faust
per la giovinezza perduta» e un coinvolgimento af­
fettivo totale, fino ai limiti di una simbiosi «telepa­
tica». Sensibilissimo agli slit­tamenti dalla vita alla
letteratura e viceversa, Strindberg proiettò nel suo
amore senile l’ansia di fondo di Verso Damasco, il
dramma della sua irrisolta ricerca metafisica ed esi­
stenziale: un’an­sia di redenzione attraverso la don­
na che do­vrebbe riscattare e riconciliare il maschio
male­detto e prometeico in lotta con Potenze su­
perne. Strindberg si sentiva proprio quel maschio,
un Everyman moderno, incapace di equilibrio, di
fede, di rapporti lineari con la vita.
Lo scrittore sposò la Bosse il 6 maggio 1901,
dopo un breve fidanzamento, ma già il 26 di giugno
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la sua terza consorte lo abbandonava, aprendo una
lunga e tormentosa fase di rapporto che, fra alti e
bassi, riavvicinamenti e tempestosi distacchi, la na­
scita di una figlia (Anne-Marie, il 25 marzo 1902)
e un divorzio (il 27 ottobre 1904), si trascinò fino
al 1908, allorché Harriet convolò a nuove nozze
con un attore. Il tema della redenzione fallita, in
questi anni, s’ingi­gantì nell’opera di Strindberg che,
in un’ultima parte di Verso Damasco del 1901, di­
chiarò di aver cercato nella donna «l’angelo» che
doveva prestargli le ali, «precipitando invece fra le
brac­cia dello spirito della terra».
L’opera di August Strindberg non è semplice­
mente autobiografica, piuttosto è un’inesauribile
automitizzazione: l’ingrandimento in archetipi uni­
versali di un’esperienza soggettiva, talora minuta­
mente privata. Delle molte trasfiguranti ma­schere
che lo scrittore amava assumere, quella dell’Ebreo
Errante fu forse la più ricorrente e sentita e, inevita­
bilmente, la più affine al personaggio dell’Olande­
se Volante che, non a caso, Richard Wagner defini­
va «un Ahasvero dei mari in cerca di redenzione».
Fin dal 1884 Strindberg aveva pensato a un dram­
ma sul tema dell’Ebreo Errante e, nei racconti di
Gente dell’arcipelago (1888), s’era già ispirato alla
leggenda dell’Olandese, in seguito richiamata fuga­
cemente nel dramma onirico Un sogno (1901), «il
figlio del grande dolore» del distacco dalla Bosse.
Infine, nell’estate del 1902, il tema dell’Olandese
co­mincia a strutturarsi con organicità come dram­
ma: un biglietto del 5 luglio alla Bosse, in vacanza
a Rävsnäs, accompagna l’invio del ma­gnifico inno
«Alla donna» del I atto che sarà stampato come
lirica, lo stesso anno, nella rac­colta di racconti e po­
esie Fagervik e Skamsund, con l’esplicita intesta­
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zione: «Tratto dall’Olan­dese Volante. Dramma»
e una didascalia sce­nica introduttiva «L’Olandese
alla vista di Lilith». È chiaro che Strindberg aveva
cominciato il suo dramma un po’ prima del 5 luglio
1902 e che ha steso quanto segue l’inno-monologo
nella prima metà di quel mese, lasciando poi l’ope­
ra allo stato di «frammento» che vedrà le stampe,
postumo, solo nel 1918.
L’Olandese è pertanto coevo dell’intensa sta­
gione lirica strindberghiana dei primi del secolo
ovvero delle musicalissime poesie o «sonate» di
Giochi di parole e arte spicciola (1902-5). Fra que­
ste, l’inno dell’Olandese spicca per la sma­gliante
metaforizzazione e, del resto, Strindberg, nel primo
Libro blu (1907), lo commenterà al fine di offrire
una chiave complessiva per la pro­pria poetica misti­
co-occultista, liberamente ispi­rata alla teoria delle
«corrispondenze» di Emanuel Swedenborg: «La
natura stessa della poesia consiste nel trovare ana­
logie su differenti piani, perciò metafore e similitu­
dini sono della mas­sima importanza. Se riconosco
in quel microco­smo, chiamato donna, tutte le linee
che costrui­scono il cosmo e indico la derivazione
delle sue diverse parti dai regni minerale, vegetale
e ani­male, realizzo più che similitudini, contemplo
la natura nella sua sintesi più bella, dò l’equazione
della donna deducendola dal cosmo infinito, chia­
risco il suo caos e le conferisco dignità – tut­tavia,
senza idolatrarla, in quanto spirito della terra con
reminiscenze dell’universo».
L’inno «Alla donna» dell’Olandese – ma tutto
il frammento drammatico – ci rivela uno Strindberg
grande poeta d’amore, messo forse troppo spesso in
ombra dalla proverbiale misoginia che, a ben ve­
dere, è poi solo una costruita variante d’una pe­
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culiare tendenza personale a pe­netrare impietosa­
mente la metafisica dei sessi e la causa prima delle
disarmonie dell’umanità. Dopo tutto, il dramma
L’Olandese è proprio un’in­tensa esemplificazione
dell’irriducibilità dei prin­cipi maschile e femmini­
le e, in particolare, una denuncia della sofferenza
degli esseri umani – uomini e donne – accecati
dall’eros e «abbando­nati alla mercé del principe
di questo mondo, come Cristo chiama il diavolo».
L’opera si riporta così essenzialmente al satanismo
metafisico di marca pessimistica che Strindberg
aveva svilup­pato fin dalla giovinezza e ripreso nel
corso della sua crisi mistica della fine dell’Otto­
cento, de­scritta in Inferno e Verso Damasco; un
satani­smo che certo rendeva più acuta l’ansia di
reden­zione e di riscatto dal male di esistere, ma più
problematica la sua realizzazione, specie attra­verso
la donna amante.
Con tali presupposti, anche se Strindberg ha te­
nuto presente l’opera di Richard Wagner, Il vascello fantasma del 1841 (il cui libretto era nella sua
biblioteca del 1892), è evidente che la sua interpre­
tazione della leggenda dell’Olandese non poteva
che esserle antitetica e più vicina, se mai, al cinismo
di Heine che, trattando il tema, aveva voluto di­
mostrare né più né meno che «le donne fanno bene
a guardarsi dallo sposare un Olandese volante» e
«gli uomini vanno a fondo a star dietro alle don­
ne». Strindberg, però, resta soprattutto fedele a se
stesso, e il suo dramma pare trovare una soluzione
all’insegna di Kierkegaard. Se l’opera infatti s’in­
terrompe a metà del III atto, quando l’Olandese
è stato abbandonato da Lilith, la sua ultima sposa,
e il servo Ukko sta per rivelargli «quel che tutta la
città sa» – verosi­milmente la pessima reputazione
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della consorte – non è difficile darle un legittimo
finale. Un ab­bozzo ci dice che infine l’Olandese
«apprende che la sua espiazione può avvenire solo
attraverso la sofferenza e non una moglie fedele»:
contro l’esaltazione romantica della doppia salva­
zione di Wagner, Strindberg pone, più pessimisti­
camente, l’accento sul valore in sé del soffrire che
fa maturare nell’uomo uno scatto dall’abbagliante
e ripe­titiva dimensione erotica all’approfondimento
dell’esperienza in senso etico-religioso.
Il frontespizio del dramma ci parla di un IV
atto, che avrebbe riportato l’azione alla scena di
partenza e probabilmente sviluppato questa idea,
dopo l’amara disillusione seguita all’ebrezza ero­
tica che sarebbe stata svolta nella sezione man­
cante dell’atto III. Come Verso Damasco, anche
L’Olandese avrebbe così avuto una struttura ci­clica
e si sarebbe concluso con il protagonista che si reim­
barca e riaffronta il mare aperto, più sag­gio e più
cosciente di prima del dostoevskiano «valore» del­
la sofferenza. Un’ulteriore conferma di questo esito
ci è in parte offerta dal «Terzo canto» del ciclo poe­
tico dell’Olandese che, nella tarda estate del 1904,
venne a incorniciare l’inno «Alla donna» di due
anni prima, insieme a un’altra lirica introduttiva
(non poco memore della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge). Il «Terzo canto» ci mostra infat­
ti l’Olandese che, dopo «un anno di orrore, indi­
menticabile», ri­torna al punto di partenza «desioso
del mare» come il suo vascello. Molti allestimenti
hanno trovato una naturale e plausibile conclusio­
ne per il dramma proprio nei primi versi di questo
«Terzo canto» che, per il resto, tuttavia, si svi­luppa
come sferzante invettiva contro la Bosse – invetti­
va troppo personale, tanto che lo stesso Strindberg
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chiese al suo editore di «disinfettare» l’edizione
delle poesie del 1905, eliminando la composizione.
Nonostante lo stato frammentario (comun­
que non irrimediabile), L’Olandese ha goduto, fin
dal 1923, d’una certa fortuna teatrale in Sve­zia e
Germania ed è stato trasmesso per radio in due
prestigiose regie di Ingmar Bergman (1947; 1953).
Il testo è stato inoltre oggetto di una notevole at­
tenzione critica: dramma «straordinaria­mente bel­
lo» lo giudicava nel 1926 il critico Mar­tin Lamm
nell’importante saggio Strindbergs dramer, addi­
rittura rallegrandosi che fosse rima­sto incompiuto,
impeccabile e «sottile descrizione poetica del’‘o­
dio-amore’». Al di là dei suoi in­dubbi pregi lirici,
L’Olandese ha soprattutto in­teressato i critici per
i risvolti formali, decisa­mente avanguardistici: le
sue atmosfere assorte (vagamente maeterlinckiane),
rituali, oniriche e favolose lo fanno riportare, da
un lato, a Un sogno (col quale, come c’informa
un appunto, ha in comune un’importante fonte d’i­
spirazione: Andersen); da un altro, in prospettiva,
agli au­daci drammi da camera strindberghiani del
1907. Gunnar Ollén vi ha visto, dopo Pasqua del
1900, il secondo deciso passo di Strindberg verso
questa formula; per altri studiosi, L’Olandese è
un espe­rimento monodrammatico o, meglio anco­
ra, come vuole Carl Dahlström, un vero dramma
espressionista, marcato da Ausstrahlungen des Ichs
del protagonista e da un affascinante dialogo con­
trappuntistico.
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