Laici di san Paolo
Antologia di commenti a testi paolini
apparsi sulla rivista
nella rubrica
_riflettendo con san paolo_
LETTERA AI ROMANI
agosto 2010
Carissimi,
dal numero 12 (Ottobre 1990) il nostro bollettino pubblica la rubrica “riflettendo
con s. Paolo” proposta dal nostro Assistente Generale.
Riteniamo utile ripubblicare tutte le riflessioni fatte fino ad ora.
Abbiamo scelto la pubblicazione non in ordine cronologico, ma seguendo “l’ordine biblico”.
In Figlioli 64 (dicembre 2000) p. Franco scrive: la scelta del testo nasce da suggestione.
Nessun intento prevalentemente esegetico, che sarebbe mortificato dall’esiguità del brano. Nessuna presunzione al riguardo da parte mia.
In questa ottica la rubrica dovrebbe essere letta.
Questo “libretto” sarà continuamente aggiornato con l’inserzione dei nuovi articoli.
2
INDICE
LETTERA AI ROMANI
1,8-11..................................................................................................... fpp ..........46.................... giu.......1997
4,1-5....................................................................................................... fpp ..........95.................... lug.......2008
7,7-13..................................................................................................... fpp ..........82.................... mar......2005
7,14-25................................................................................................... fpp ..........83.................... giu.......2005
7,25........................................................................................................ fpp ..........28.................... ott........1993
8,5-6....................................................................................................... fpp ..........31.................... giu.......1994
8,8-11..................................................................................................... fpp ..........21.................... apr.......1992
8,14-17................................................................................................... fpp ..........26.................... mag.....1993
8,26-27................................................................................................... fpp ..........75.................... giu.......2003
11,13-24................................................................................................. fpp ..........58.................... dic.......1999
13,1-8..................................................................................................... fpp ..........67.................... lug.......2001
14,1-4..................................................................................................... fpp ..........37.................... set.......1995
15,20-24................................................................................................. fpp ..........39.................... dic.......1995
16,25-27................................................................................................. fpp ..........13.................... dic.......1990
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lettera AI ROMANI
Rm 1
8
Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi,
perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. 9Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo
sempre di voi, 10chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una
strada per venire fino a voi. 11Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, 12o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi
mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io
Figlioli e Piante n. 46 - giugno 1997
Anche da un prologo, come questo della lettera ai
Romani, ne può venire un monito.
Paolo non è il tipo di spendere parole in convenevoli.
Le sue lettere spesso aprono con fiera dichiarazione
della sua appartenenza a Cristo o del ministero che
sente come urgenza inderogabile: di annunziarlo,
anche sino ai confini della terra.
E appena può, se guai delle comunità destinatarie
non lo rendono angustiato, rende grazie a Dio per la
testimonianza di fede che rimbalza da Roma alla
Grecia, alla Siria, a Gerusalemme. Non può, un vescovo, un apostolo, lesinare in incoraggiamenti. Un
pastore gelido, musone, non governa il gregge, lo
deprime.
Sorprende che l'ansia apostolica di Paolo arrivi dove
lui non può arrivare di persona e la sua carica di affetto valichi il mare e persino i confini dell'ignoto: a
Roma non c'è mai stato, non conosce i volti di quella
gente, salvo forse quelli abituati ad andare per mare.
Ma ha della tenerezza per loro, ha un posticino nel
suo cuore, ha una gran voglia di vederli e si rammarica di esserne stato finora impedito. Da chi o da
cosa, non ci è dato di sapere. Solo congetture.
Garantisce il suo affetto prendendo, quasi a testimone, il suo Dio.
Come si sente avvolto in Dio, così avvolge in questo
abbraccio Dio e la sua gente, non importa se non ne
conosce ancora i lineamenti.
Di più: questo suo interessarsi, questo suo sognare
volti di uomini e di donne al di là del Mediterraneo
per lui ha il sapore di culto spirituale. Che rendesse
culto a Dio con lo spezzare il pane, con l'Eucaristia,
con un rito, lo possiamo arguire, ma che per lui annunziare il vangelo fosse culto qui è detto apertamente.
Come a dire la vita è culto, è esercizio di sacerdozio
regale, l'esercizio della professione è culto, il tirar su
figli e nipoti è culto, l'impegno nella vita civica è culto, la tua mansione di catechista o di operatore pastorale è culto. Già: altro è culto, altro è rito. Il rito,
soprattutto quello domenicale, è rivestire di carica
comunitaria ciò che viene offerto personalmente nel
quotidiano, come culto spirituale.
E' come se la domenica si portasse all'ammasso
ciascuno il suo contributo, perché lo si unisca al contributo di Cristo, quasi a conquidere il cuore del Padre con questa supplica corale di altissima qualità.
Paolo ha un vivo desiderio di vedere quanto prima la
comunità di Roma.
Vuole comunicare un po' della sua adrenalina, che
lo fa conquistato da Cristo, che lo fa avvinto dallo
Spirito.
Ma qui assistiamo ad una fine correzione di rotta
dell'Apostolo....
Sì, l'acqua viva gli zampilla da dentro e sta diventando fiume inarrestabile.
Ma si rende conto che può anche ricevere. Unidirezionale è certo atteggiamento clericale. L'autentica
vita di fede non si può permettere il monopolio del
dare. Se Paolo desidera vedere i Romani per comunicare loro qualche dono spirituale, perché ne
siano fortificati, tuttavia mostra un bisogno di rinfrancarsi con loro nella comune fede. Anche un apostolo può a volte arrancare, anche un apostolo ha bisogno di verifica e - perché no? - di affettuoso sostegno. Ed è pur sempre vero che lo Spirito è dato a
tutti, non ai soli teologi.
Chi ha fatto esperienza di incontri di comunità sa
quanto è vero che anche dai semplici - Gesù direbbe "dai piccoli"- possono venire contributi alla conoscenza dei misteri di Dio, che invece sono negati ai
sapienti e agli intelligenti di questo mondo. Grazie,
saggio Paolo. Ci fai sapere che essenziale alla crescita spirituale è la comunicazione nella fede.
Non ci si può accontentare del catechismo 'vecchia
maniera', quando, da sotto il pulpito, si immagazzinava dottrinetta da esportare poi in famiglia se qualcuno di quelli di casa frequentava più volentieri l'osteria che la parrocchia. Era stato addirittura coniato il termine chiesa docente in opposizione a chiesa
discente, dove l'uno insegnava e gli altri apprendevano.
Oggi non se ne fa più cenno nel lessico ecclesiastico, anche se in qualche misura il ministero della dottrina ha una sua ragione d'essere. Cristo ha promesso di farsi trovare dove due o tre sono riuniti nel suo
nome.
Nemmeno riuniti per ascoltare una conferenzina spirituale. Riuniti, si direbbe, a vivere insieme, ad esortarsi a vicenda, a correggersi, a consolarsi, a leggere insieme i segni dei tempi.
Ovvio che l'appuntamento domenicale non garantisce appieno questa comunicazione nella fede, pur
essendone il momento culminante.
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Un'ultima annotazione. Anche dalle poche righe del
prologo qui riportato emerge quella carica di umanità
che negli scritti paolini è ricorrente. Paolo ha un
vivo desiderio di conoscere nuovi fratelli nella fede,
di conoscerli personalmente, di salutarli col bacio
santo, secondo l'espressione che chiude questo
messaggio ai Romani, dopo la parata di amici e di
amiche dai nomi più estranei ai nostri calendari - la
diaconessa Febe, Aquila e Prisca, Andronico e Giu-
nia, Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Aristobulo,
Erodione, Trifena e Trifosa,.... - amici e amiche forse
già conosciuti di persona, forse stimati per sentito
dire.
Si fosse stati contemporanei di Paolo, forse l'avremmo avuto amico verace, con menzione di affettuosa
stima in calce a qualche lettera.
Non succeda che in qualche nostra comunità nemmeno ci si conosca tutti per nome.
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Rm 4
- 1Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? 2Se infatti
Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio.
3
Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. 4A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come debito; 5a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede gli viene accreditata
come giustizia.
Figlioli e Piante n. 95 - luglio 2008
Ci sobbarchiamo volentieri la piccola fatica di ragionare con i giudeo-cristiani di Roma cui sembra si
rivolga Paolo, lui pure cristiano proveniente dal giudaismo, anche se promotore di un clamoroso affrancamento da certi tentacoli della legge firmati scribi e
farisei, impudentemente insediatisi sulla cattedra di
Mosè.
Per la maggior parte di noi Abramo non è antenato secondo la carne. Ma gli siamo parenti nello spirito perché gratificati a nostra volta del dono della
fede, a nostra volta cioè accreditati di giustizia.
Nemmeno noi possiamo gloriarci di aver conquistato
tanta grazia attraverso opere nostre: che so? qualche pellegrinaggio, qualche impegno nel sociale,
qualche fioretto, qualche eroica sopportazione della
suocera, qualche mal di denti offerto in espiazione
dei peccati …
La giustizia che viene dalla fede è il chiodo fisso
dell’Apostolo, che gli è costato vergate e ostracismi
e gragnole di pietre, senza che venisse mai meno la
sua ansia di annunciare il mistero nascosto nei secoli e ora rivelato.
Nei dintorni di Damasco a Paolo fu dato di intuire
il piano segreto di Dio, quello dell’unità del genere
umano fatto di creature maldestre, sì, ma chiamate
sia pur da lontano, ad amare come Dio solo sa fare.
Per Abramo, allora baldanzoso giovanotto di novantanove anni (sic!), da subito obbediente all’ingiunzione del Signore di lasciare la Caldea per terra
ignota, fu data in regalo, insieme con la fecondità,
anche quella sorprendente benevolenza dell’Altissimo che i testi sacri chiamano «giustizia».
Per molti di noi quella figliolanza fu concessa con
i primi vagiti e per lunghi anni le esigenze fisiologiche prevalsero, prima che ci rendessimo conto del
dono di Dio e l’apprezzassimo: una figliolanza in piena regola – pardon – con il correttivo di un’adozione
che rimane pur sempre un enorme salto di qualità,
visto che ci toccherà … l’empireo, la vita di Dio,
quella definitiva! E dico poco!
Il quasi-centenario ne fu subito galvanizzato e tolse dal suo stallatico un gruzzolo di capi di bestiame
da offrire immantinente al Signore come segno di alleanza perenne – una giovenca, una capra, un ariete, tutti in età di generare, ben fatti, e la tortora, e il
piccione – insieme con un rivolo di sangue dei prepuzi di tutti i maschietti del clan (il cordone sanitario
veniva rivestito di sacralità). Sarebbe stato, Abràm, il
capostipite di un popolo numeroso da far invidia alle
luminose schiere celesti e da soverchiare tutti gli
arenili del mondo, dune comprese. Si sarebbe chiamato Abrahàm, a sua volta in concorrenza con quelle moltitudini. Gli è bastato dire di sì a Dio: nessun
costo, ottimo affare, senza rimetterci salario. Purché
di Dio sempre si fidasse.
E fu capostipite di figli di Dio, popolo suo, usciti
dai suoi lombi (dodici tribù ribollenti di figli), in attesa
che venisse rivelato il mistero nascosto nei secoli e
ora – post Christum natum – rivelato, che avrebbe
aggiunto a tutti i suoi discendenti secondo la carne
l’umanità intera – dall’uomo di Neanderthal sino all’ultimo che si affaccerà sul pianeta alla fine dei secoli – imbevendo DNA e culture, inseminando di vita
nuova tradizioni religiose per ogni dove.
Tocca all’uomo, tocca a noi di non contentarci di
sgranare tanto d’occhi di fronte al dono immenso,
ma di accettare il cimento a vivere di conseguenza,
con l’ebbrezza dei figli, con la pazienza infinita –
quasi in competizione con la pazienza di Dio cui ci
vien chiesto di somigliare – nell’intessere rapporti
che gradatamente continuamente risanino la famiglia umana.
Abramo non ha dovuto mettere sul tappeto, a caparra, opere di nessun genere, per arrivare a tanto.
Gli bastò di fidarsi e fu accolto in famiglia – meglio,
in Famiglia – da quel «Noi» che già aveva lasciato
intendere di aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, pronto a tirarselo in casa come figlio dopo
congrua prova. La prova sarebbe potuta durare anche novant’anni e più, la maggior parte dei quali in
fatica e dolore, da portare pazientemente col Signore e nel Signore. Noi, i viventi, la stiamo tuttora sperimentando.
Lui, Abrahamo, il capostipite dei credenti, e noi
invitati a rivestirci dello stile di Cristo, che con la mediazione dello Spirito di Dio permette di operare perché Dio sia tutto in tutti.
Niente fanfare, dunque, come fossimo autori di
chissacché. A Lui onore e gloria nei secoli, cui segua
un fragoroso Amen!
POST SCRIPTUM. Non ci venga in mente di rimanere inerti, senza “opere”, contentandoci – mani intrecciate e
pollici in vorticosa girandola – di un semplice atto di fede, come i tessalonicesi d’altri tempi. Le nostre opere
non conquistano l’adozione a figli, no: quella è somma regalia di Dio a chi confida di lui. Le nostre opere tut tavia a Lui rendano grazie, doverosamente, filialmente
6
Rm 7 - 7Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge
non avesse detto: Non desiderare. 8Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto
9
e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha
preso vita 10e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. 11Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e
per mezzo di esso mi ha dato la morte. 12Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il
comandamento. 13Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il
peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.
Figlioli e Piante n. 82 - marzo 2005
Il testo avrebbe bisogno di accurata paziente
esegesi. Ma non è compito di rubriche come questa;
qui, con l’aiuto di san Paolo, cerchiamo di rubare il
segreto della vita al buon Dio. E’ occasione, anche
questa di Rm 7, di dare una sbirciatina al guazzabuglio del cuore umano. Insomma: queste righe sono
stimolo a riflettere per non battere l’aria come un pugile suonato. Gente, per bene che vada, c’è dato
tempo, circa novant’anni, per capirci qualcosa e per
capire Lui.
E’ manovra salutare per quanti sono chiamati a
vita nuova, sapendo che il nuovo si innesta sul vecchio. La vita nuova è uno stile di vita, è lo stile di
Gesù: chi dice di dimorare in Cristo si comporti
come lui si è comportato. E’ tuttavia il vecchio, è
l’uomo terreno che presta DNA, indole, pulsioni, genio, talenti, cultura, rapporti … E’ compito dello Spirito che questo po’ po’ di cose venga via via modellato
sul Cristo, se appena con lo Spirito si è conniventi.
Una piccola digressione: è dal deposito di Parola
di Dio accumulato e ruminato lungo gli anni - fortunato, si direbbe, chi ha molte primavere alle spalle e insieme dalle più o meno copiose testimonianze di
fede da parte di fratelli e sorelle, conosciuti di persona o attraverso scritti, che il Paraclito attinge e fa
emergere
a
consapevolezza.
Troppo
meccanicismo? Fate voi.
La legge antica, che era soltanto pedagogo al
Cristo, con i suoi limiti poteva costituire trabocchetto
sulla via della vita. In Rm 7 Paolo è financo patetico
nel radiografare impietosamente se stesso. Sembra
di avvertire in lui una punta d’invidia nei confronti di
chi non è nato sotto la legge di Mosè e beatamente
ignaro si lascia condurre da voglie e desideri e bollori di ogni specie. Solo la Legge gli fa sapere: che stai
combinando? è peccato! Per la verità in Romani 1
Paolo dà nettamente l’idea che anche i pagani, i
senza Legge, sono inescusabili, quindi peccatori
ben responsabili, se si comportano empiamente,
bellamente senza Dio, quando tutto dice di Dio.
E’ pur vero che se «peccato» appartiene al gergo
teologico e fa riferimento al Dio legislatore, per chi
non ha Dio non viene risparmiato il «senso di
colpa», in forza di quella che chiamiamo «legge naturale», la quale non è opera di legislazione umana
ma la precede (tant’è che ogni convivenza ha le sue
prigioni per quelli che sgarrano: è tacita convenzio-
ne). Chi non si rifà al Dio legislatore, deve rifarsi, inconsciamente, al Dio creatore, il Dio che ha firmato
la legge naturale.
Vale per la legge mosaica, come per ogni codice
di diritto, anche canonico, che … “fatta la legge, trovato l’inganno”: la voglia di aggirare, la voglia di contraddire, un ricorrente bisogno adolescenziale di autoaffermazione, di mangiare la mela. E pare che
nessuno ne vada esente, nemmeno Pietro, nemmeno Paolo, nemmeno “x y” (ma sì, sulle due incognite
si apponga tranquillamente il proprio nome e cognome!). E’ partendo da questa personale presa di coscienza che si diventa buoni educatori, misericordiosi perché miseri, pazienti perché a nostra volta fatti
oggetto di com-passione. Forse anche di questa
“antinomia”, di questo gusto di andar “fuori legge” è
fatto il peccato. Paolo in chiusura di brano sembra
farsi acrobata nell’uso delle parole: Ciò che è bene
è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha
dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il
peccato apparisse oltre misura peccaminoso per
mezzo del comandamento.
Provo a semplificare. Che cos’è ‘peccato’ per
Paolo? E’ il non agire per fede, l’agire senza tener
conto della dignità di figli di Dio nostra e di quelli che
ci stanno attorno, spesso lasciandosi andare. Una
frase sorprende, in chiusura del capitolo 14 della lettera ai Romani: Tutto quello che non viene dalla
fede è peccato. Il contesto su cui è poggiata questa
perentoria affermazione forse non è più attuale,
oggi. C’è chi è convinto - e Paolo è uno di questi che nulla è immondo in se stesso; c’è chi sente di
dover lodare Dio mangiando soltanto legumi. 1Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni … 4Chi sei tu per giudicare un servo
che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il
suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha
il potere di farcelo stare.
Legumi a parte, il criterio che conduce Paolo e che
deve condurre ogni figlio di Dio è il rispetto per la
propria dignità e il rispetto fraterno per l’altro. Questa
è la legge della Nuova Alleanza, che congloba l’Antica e ne filtra le scorie; legge da stamparsi in cuore
senza più bisogno di appendersela fra gli occhi in robusti astucci di cuoio, tanto è semplice da formulare.
Ma quanto impegnativa! Non si vada più a dire al
7
confessore: non so che cosa dire; e nemmeno: sono
sempre le stesse cose. In amore anche i difettucci ricorrenti hanno bisogno di un affettuoso scusami! E
col Padre tuo? Niente affetto? E’ così lontano dal tuo
cuore il Padre che ti ha abilitato all’amore verso il
partner, verso il figlio, verso la vita?
8
Rm 7 - 14Sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. 15Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio
io faccio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la
legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti
che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la
capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
20
Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.
21
Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me.
22
Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un'altra
legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. 24Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato
alla morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque,
con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.
Figlioli e Piante n. 83 - giugno 2005
San Paolo un «venduto»! Sorprende questa sua
dichiarazione. Come impressiona - e ci è cara, ed è
facile specchiarvisi - l’altra: «non quello che voglio io
faccio, ma quello che detesto». San Paolo uno di
noi! Gli agiografi ne avrebbero fatto un identikit da
incorniciare, da santi si nasce. Lui impietoso! E’ un
impasto di male e di bene. Anzi, a sentir lui è un
peccato ambulante. Giansenista ante litteram, per
certi versi, incapace di stare in piedi da solo.
D’accordo, sua preoccupazione è di chiarire, a sé
e ai romani cui scrive, l’importanza-precarietà della
legge: un girello che impedisce capitomboli al bambino primi passi; un preservativo - absit injuria verbo
- in attesa di ben altro sostegno spirituale, «Gesù
Cristo nostro Signore». La legge è cerotto per lo spirito, ma la carne rimane turbolenta. Per cantare alla
libertà dei figli di Dio, dono che lo rende lirico appena ne parla, Paolo va giù pesante con se stesso. E’
l’innamorato che accredita all’amante ogni merito del
suo venire a capo di sé. Quasi dicesse: sono un disastro, ma qualcuno mi ha affrancato, alleluia!
Intanto a noi creature piccole piccole torna oltremodo consolante sapere che non siamo perduti; che
la nostra esperienza di fragilità ha un denominatore
comune anche nei Paolo, nei Pietro, negli Agostino,
nei Gerolamo: è marchio di fabbrica di ogni carne.
Non c’è persona umana - tripudio di voglia di vivere,
non di rado nella spensieratezza, nell’autonomia,
nella trasgressione - che non sperimenti la sensazione di essere venduta come schiava al peccato, creatura votata alla morte, quasi una possessione diabolica, come sembra suggerire l’espressione paolina
«il peccato che abita in me», il peccato costitutivo
dell’essere umano. Forse in Paolo risuonava ben radicato il detto del salmo davidico Ecco, nella colpa
sono stato generato, nel peccato mi ha concepito
mia madre. Sottovoce, detto fra noi: non è che il versetto abbia ispirato, impropriamente, inopportunamente, per secoli, i moralisti che hanno suggerito
agli sposi di confessarsi dopo aver fatto l’atto d’amore, come di cosa velatamente colpevole? Non è che
a questa concezione manichea abbia fatto capo la
definizione remedium concupiscentiæ (c’è bisogno
di traduzione?) appioppata all’atto coniugale quasi
fosse una benevola concessione al furore dei sensi,
in evidente contrasto con la visione del tutto ottimistica del libro della Genesi siate fecondi, voi fatti a
immagine e somiglianza di Dio, e moltiplicatevi,
riempite la terra? A volte per capire Dio ci vogliono
secoli!
Sembra aleggiare, in queste righe quasi costrette
a essere contorte come lo è, contorto, ogni travaglio
umano, lo squillo di tromba della sequenza pasquale: Mors et vita duello conflixere mirando! Dux vitæ
mortuus regnat vivus. Mi si perdoni la citazione in
lingua latina: rende meglio lo scontro titanico fra gli
opposti. Chi ne esce vincitore è la vita. Ciò è valso
per il prototipo, Gesù Cristo nostro Signore. Ciò vale
per quanti sono suoi. A cominciare da Paolo. Quando hai tra le mani della materia inerte, viscida, inconsistente, non sai come governarla: ti sfugge da ogni
parte: prova a tenere in palmo una manciata di sabbia! Da angoscia. Poi qualcuno le dà forma, forse
anche artistica. Ed è meraviglia, come fu meraviglia
che un morto, caduto in balia della fatidica falce cui
nessuno può opporre resistenza, ne smonta la ineluttabilità. E regna vivo! E dietro a lui, partecipi del
trionfo, i centoquarantaquattromila più folla immensa
innumerevole.
Simile a squillo di tromba in bocca a Paolo quel
Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo
nostro Signore! Strattonati fra voglia di ideale e pesantezza della carne è possibile uscirne vincenti.
Alla gente di Filippi scriveva, quasi parafrasando:
Tutto posso in colui che mi dà la forza! Un’iniezione
di fiducia anche per i suoi lettori, per i macedoni di
allora e per gli apolidi, i senza fissa dimora, inguaribili forestieri pellegrini di ogni tempo. Una lezioncina
preziosa, quella di Paolo: il bisogno di verità con se
stessi, senza sconti. La vera grandezza umana è, se
vogliamo, l’ammettere con coraggio la propria fragilità, i propri sbagli. E’ lì che l’Onnipotente mostra il
suo punto debole (debolezza d’amore): impotente,
obbligato, non può far altro che perdonare. Un Padre in trepida attesa, come da parabola. Nulla a che
vedere da parte nostra, beninteso, col pentitismo nostrano!
Per inciso: che non aiuti a valutare meglio se
stessi, costretti come si è a tradurre in parole il
guazzabugli interiore, il sacramento del perdono?
9
Dica forte chi l’ha provato: non si è trattato di un iper-dono? di un dono ‘da dio’?
Gente! “Rm 7,14-25” un rimando biblico cui ricorrere
familiarmente, a conforto-stimolo personale e per ri-
caricare di motivi la nostra chiamata alla misericordia.
10
Rm 7
25
Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del
peccato.
Figlioli e Piante n. 28 - ottobre 1993
E' la constatazione che chiude la lunga riflessione
sulla legge del peccato che Paolo sta conducendo
da diversi capitoli nella lettera ai Romani.
Ogni volta che riprendo questa lettera paolina, ho
l'impressione che l'apostolo usi il vocabolario comprimendo i termini e caricandoli di significato oltre
misura.
Forse per questo la prima parte della lettera ai Romani è lettura ostica e l'ostacolo lo si aggira prudentemente, concedendosi altri capitoli più immediati.
La frase riportata in neretto sembra poi un condensato di concetti che l'autore era andato via via esponendo.
Si fa cenno al concetto di servitù, esposto in chiusura al capitolo 6°: la nostra condizione umana, sembra dire l'apostolo, è - da qualunque parte la si consideri - una condizione di servitù, di schiavitù nei
confronti di qualcuno o di qualche cosa; l'uomo non
si sogni nemmeno lontanamente di pretendere di essere autonomo e di potersi dare un progetto di vita
in assoluta libertà, laicamente.
O ci si accosta e si apprezza la legge di Dio, ed è
vita, o ci tocca la sorte di lasciarsi invischiare nella
legge del peccato; e questa, inesorabilmente, conduce a quel senso di fallimento che, se non si traduce in suicidio fisico, è comunque impressione di
morte.
"Io con la mente servo la legge di Dio"
L'apostolo ragiona per sé e per il lettore: è esperienza personale, ma è anche lettura della condizione
umana. Vi si parla di legge: di legge di Dio e di legge del peccato.
Ma qui il lettore dei capp. 2-7 ha già imparato a decodificare i termini; il <lettore della domenica> ci casca e va con la mente al solito decalogo.
Invece è proprio il decalogo e i cinque ‘libri’ che lo incastonano ad essere la legge del peccato.
In che senso? la Torah, la legge, additandomi le varie possibili trasgressioni, me ne ha scatenato le voglie (7,5).
Liberi di fronte alla giustizia, sì; non condizionati dalle esigenze della vita nuova, sì; ma è una libertà che
conduce alla morte.
E’ una libertà che maschera una profonda schiavitù.
Credi di fare quello che vuoi, ma sei schiavo dell'impurità e dell'iniquità. (7,19ss).
La "legge di Dio" è l'insegnamento che è stato trasmesso (7,17) e che abbiamo accolto di cuore e
che, una volta accolto, ci ha fatti figli, ci ha giustificati
di fronte a Dio, ci ha fatto divenire "servi della giustizia", ci ha introdotto nella vita nuova ed eterna.
Purtroppo non si tratta di introduzione definitiva.
Quella la sigilla soltanto la morte.
E’ solo un assaggio di quanto sia su misura del cuore dell'uomo.
E', per ora, esercitazione, che esige costanza e continuo rifornimento di motivazioni, perché sulla carne
fa più breccia la legge del peccato.
Non urlava anche s. Paolo: "Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte"?
11
Rm 8
5
Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece
che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. 6Ma i desideri della carne portano alla
morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace
Figlioli e Piante n. 31 - giugno 1994
Il ritmo della riflessione cristiana durante l'anno liturgico non dà tregua: si è appena fatto Pasqua, protagonista il Risorto, e già sembra imporsi all'attenzione
delle comunità cristiane l'altro protagonista della restaurazione del mondo, lo Spirito.
Sembra: ma Gesù e lo Spirito sono tutt' uno, in certo
modo.
Lo Spirito, il Consigliere di Gesù quando questi condivideva la nostra vicenda terrena, è prolungamento
della presenza del Maestro, dono suo, per tutte le
generazioni che si sarebbero succedute nei secoli.
Ed ecco la restaurazione: la vita nuova.
Agli uomini piccoli piccoli è concesso di anticipare,
già qui e ora, quello che sarà lo stile di vita definitivo
nel Regno, quando Dio sarà tutto in tutti.
Ma che cos'è vivere secondo la carne e che cos'è vivere secondo lo Spirito? –
Forse che occorre rientrare nel seno di mamma per
poi uscirne a vivere di vita nuova? - obbiettava per
noi il nottambulo Nicodemo.
Forse che Paolo sta suggerendo un angelismo disincarnato, senza passioni e appetiti e concreti impegni
sociali e piccole grandi gioie familiari...?
E le cose dello Spirito son poi le veglie bibliche, le liturgie profumate di incenso, la contemplazione, l'astinenza, la fuga nel deserto lontani da questo mondaccio...?
A tutto questo potrebbe far pensare lo stesso Paolo,
quando, scrivendo ai Colossesi (3, 1) esortava a
pensare alle cose di lassù.
Anche Paolo si aggrappava all'avverbio di luogo, per
indicare qualcosa che con i luoghi non ha niente a
che fare.
Dire lassù è dire lo stile di Dio, che fu anche creatore ed è sempre potente conservatore di cose create,
materia compresa, carne compresa.
Lo stile di Dio, lo sappiamo e lo cantiamo, è amore.
Il pensare alle cose della carne quindi è continuare a
vivere come se non avessimo conosciuto il mistero
di Dio attraverso Gesù e lo Spirito che ce ne dà conferma.
E' il fare lo gnorri e non puntare a ripetere in noi i lineamenti di Dio, di lui che ama i serbi e insieme i
bosniaci, i tutsi e gli hutu e i batwa, i corrotti di S. Vittore, la nuora che ti fa le scarpe per bassi motivi di
eredità, il conoscente che ti ha tolto il saluto e magari il coniuge che se ne è andato con altri, scaricando
i figli anche suoi.
Lui li ama, li rivuole, ha impegnato suo Figlio per
questo; ora li rivuole per tuo tramite, li ama attraverso i tuoi gesti di pazienza, ti supplica attraverso Paolo di vincere il male con il bene quasi condensando
sul capo di chi ti sta qui una scarica di benefico elettroshock (cfr Rm 12,21).
Il pensare alle cose della carne è lasciare che dentro
il tuo cuore abbiano libera circolazione, fino a diventare despoti, pensieracci, ansietà come se tu fossi
orfano di Padre, ambizioni, atteggiamenti vendicativi, fascino delle cose belle.
Invece di usare delle cose della carne - ce n'è anche
di buone: sono la dote che il tuo Creatore, con tenerezza, ti ha riservato da quando ha pensato a te, da
sempre e ti ha dato in sposo alla vita invece di usarle, dico, per rendere grazie, per ridonarle trafficate al
tuo Signore, te ne fai un cappio di morte.
Così rischi il fallimento: novant’anni buttati!
E che cos'è l'inferno se non primariamente la sensazione di fallimento irreversibile? di aver sbagliato tutto?
Sarebbe tragico, per chi è stato chiamato alla vita e
alla pace e possiede, per raggiungere questo obbiettivo, lo stesso Spirito di Gesù!
12
Rm 8
8
Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in
voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione.
11
E se io Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito
che abita in voi.
Figlioli e Piante n. 21 - aprile 1992
Abbiamo celebrato da poco la Pasqua, con gli occhi
puntati sul mistero di morte e risurrezione del Maestro, condotti come siamo dalla liturgia a dedicare
attenzione e partecipazione ai singoli misteri, quasi
a centellinarli durante l'anno.
Ma la Pasqua è anche il momento in cui Gesù sì
dona ai suoi di tutte le generazioni attraverso il suo
Spirito.
L'aveva detto per tempo ai discepoli, frastornati dalla
disinvoltura con cui il Maestro aveva interpolato il
cerimoniale della Cena di tradizione millenaria, con
la dichiarazione sulle azzime: questo è il mio corpo
(sostituendo cosi - mi piace di pensare - il rito dell'agnello) e la dichiarazione sul boccale di vino: questo
è il mio sangue che sigilla il patto dell'alleanza definitiva.
L'aveva ribadito ai discepoli, frastornati da quel clima
plumbeo di addio, con tanto di disposizione testamentaria, che sembrava avallare la sensazione di
una minaccia incombente per la vita del Maestro.
Aveva detto loro: "E’ bene per voi che io me ne
vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il
Consolatore".
Secondo la redazione giovannea dei racconti di risurrezione, il mondo nuovo, la nuova creazione è
già realtà la sera stessa della risurrezione, il giorno
dopo il sabato.
E’ allora che Gesù, alitando sui suoi - come Dio aveva già fatto sul fantoccio di creta dei primordi, alla
prima creazione - consegna loro lo Spirito, il suo
Consigliere prezioso, anzi l'operatore del suo ingresso nel mondo tramite Maria, la benedetta nei secoli.
Ora noi non siamo più sotto il dominio della carne,
se veramente lo Spirito di Dio abita in noi.
Ora apparteniamo alla creazione nuova.
Ora siamo invitati a far morire ogni comportamento
carnale.
Sì, l'uomo biologico va verso la morte fisica: colpa
del peccato.
Ci si è assoggettato anche Lui.
Ma lo Spirito ( Maiuscolo! - suggerisce la TOB, traduzione ecumenica della bibbia) è la nostra vita,
perché siamo ormai gente restaurata, giustificata, da
che lo Spirito ha risuscitato Gesù.
Dunque, con la risurrezione di Cristo siamo stati trascinati e innestati nello stesso sistema vasco-linfatico di Dio (perdoni il Signore l'immagine degradante per il lettore spero sia biodegradabile).
Dunque Pasqua e Pentecoste scandiscono lo stesso
mistero o due misteri in contemporanea: me ne vado
fisicamente, per restare con voi fino alla fine dei
tempi, col mio Spirito.
Se lo Spirito è stato potenza di Dio al punto di rendere madre la ragazzina di Nazareth, se ha sottratto
il Cristo alla corruzione del sepolcro, se lo Spirito invocato fa corpo quel che è pane e sangue quel che
è vino, non farà dei nostri corpi mortali un miracolo
di vitalità, sorprendente per tutti; non farà dei credenti che non hanno necessariamente legami di
sangue "un solo corpo e un solo spirito"?
Com'è che Dio si fida tanto dì noi?!
13
Rm 8
14
Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. 15E voi
non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno
spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo «Abbà, Padre!» 16Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di
Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche
alla sua gloria"
Figlioli e Piante n. 26 - maggio 1993
La citazione è solo un assaggio di tutto un capitolo
delizioso della lettera ai Romani: il cap. 8. Prego rileggerlo.
Meglio sarebbe mandarlo a memoria!
E' lettura indispensabile per chi voglia capirci qualcosa di vita nuova.
E’ uno dei passi che presentano l'ospite dolce dell'anima, l'anima della Chiesa, l'altro Consolatore, avvocato presso il Padre dopo Gesù Cristo il giusto, Quegli per cui Gesù è con noi fino alla fine del mondo.
In altra traduzione, rispetto a quella della CEI, vi si
dice che "lo Spirito in persona si congiunge al nostro
spirito per testimoniare che siamo figli di Dio”! E’
un'affermazione che sottintende un connubio tra divino ed umano da far accapponare la pelle!
Peccato che l'omino fragile che è ciascuno di noi,
spesso anche credenti, nemmeno se ne accorga.
Non è vero che nell'estimazione comune la Pentecoste non assume la rilevanza di festa grande?
Vedo nella mia agendina che paesi come l'Austria, il
Belgio, la Francia e paesi di matrice protestante festeggiano persino il lunedì di Pentecoste.
Da noi no.
D'accordo: questo è ciò che rimane di antica tradizione: festa laica come da noi pasquetta; ma la partenza era partenza di fede, era consapevolezza che
Pentecoste era la festa della Chiesa.
E lo è tuttora! Ne siamo o non ne siamo consapevoli; flirtiamo o meno con lo Spirito di Gesù.
C'è da chiedersi continuamente: se lo Spirito in persona si congiunge al nostro spirito - cuore nucleare
in un motore atomico -, perché c'è così poca vita
nelle nostre comunità cristiane? Perché cosi poca
gente sembra essere mossa dallo Spirito? Che cosa
si oppone di refrattario a così potente propulsore?
Certa clero-dipendenza e certo clericalismo non
sono forse segno che non si respira ancora la novità
evangelica? Che da molti deve essere ancora conquistata la maggiore età spirituale?
Non dobbiamo lamentare ancora mancanza di creatività, lentezza nell'assunzione di responsabilità, timore reverenziale nei confronti dell'autorità ecclesiastica?
Paolo seppe dire in faccia, senza mezzi termini,
quanto andava detto al sommo pontefice Pietro.
Voi - dice Paolo - non avete ricevuto uno spirito da
schiavi per ricadere nella paura!
Certa difficoltà ad affrontare quel fastidioso eppur
nevralgico nodo della fede cristiana che è il rapporto
croce-gloria, non è forse segno che non siamo ancora in perfetta sintonia col Maestro?
Ci vien detto: "coeredi, se davvero partecipi alla sua
sofferenza ..." . Normalmente qui si è tentati di scantonare.
E’ l'argomento più rimosso del cristianesimo.
Viene spontaneo di incrociare metaforicamente le
dita, come sempre, del resto, quando si parla di
morte.
14
Rm 8
26
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché
nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede
con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa quali sono i
desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.
Figlioli e Piante n. 75 - giugno 2003
Tutto è Spirito (qualcuno ha detto: lo Spirito è l’anima del mondo).
E l’intero capitolo ottavo della lettera ai Romani ne è
quasi l’inno. Paolo aveva appena sopra sottolineato:
9
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma
dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita
in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non
gli appartiene. 10E se Cristo è in voi, il vostro corpo è
morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a
causa della giustificazione. 11E se lo Spirito di colui
che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui
che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche
ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che
abita in voi.
Faceva così balenare come Pentecoste non fosse
che il naturale coronamento di Pasqua: il Cristo svestiva la pesantezza del nostro corpo mortale, quello
soggetto alla forza di gravità, alla aggressione dei
microbi, alle reazioni meteoropatiche, alla tirannia
dell’orologio, ai limiti dello spazio (lo spazio, dico, del
suo corpo - p. Pio si bilocava più allegramente:
Gesù, guarda caso, mai!), per assumere la dimensione nuova, quella non più soggetta a dimensioni.
Lo Spirito di Dio l’aveva risuscitato dai morti e lo Spirito di Cristo prendeva possesso dei suoi dovunque:
i confini della Palestina perdevano la loro gelosa
prerogativa di custodi dell’esperienza umana di
Gesù; a tutti i credenti, in ogni latitudine, sarebbe
stato concesso di poter contare sull’avvocato di
Gesù, quello che con termine più ricorrente ma
meno perspicuo, data la sua veste grecizzante, chiamiamo Paraclito.
Lo Spirito, che Genesi 1,2 dice aleggiasse già dai
primordi su quella massa di acque fangose da cui
sarebbe emerso poi l’asciutto, ha preso ora definitivamente possesso dell’intera creazione e ne sta
operando il perfezionamento, man mano che ogni
nuovo figlio del Padre viene alla luce.
Nel passo che facciamo oggetto della nostra riflessione Paolo - apostolo fra i gentili a tutti i costi e impazientemente, anche per lettera - scrivendo a quelli
di Roma, cui per deferenza riserva un monumento di
alta teologia, svela dello Spirito un compito sorprendente.
Un correttore di bozze? Un interprete accreditato?
Un finisseur?
E’ lamento ricorrente di tanti cristiani quello di non
saper pregare.
Effettivamente noi abbiamo imparato a comunicare
guardando in faccia una persona, facendosi sentire,
prendendo per mano, mandando messaggi per
iscritto: tutti mezzi che impegnano i sensi.
Con Dio ti limiti a guardare in alto: ma non lo vedi;
mandi parole e aspirazioni: all’apparenza senza riscontro.
Di qui la sensazione di non saper pregare, di annaspare con le parole, di “monologare” - mi si passi l’espressione - anziché dialogare con Dio, di limitarci
quasi esclusivamente a chiedere, pressati dal bisogno.
Non di rado poi situazioni angosciose, che suscitano
interrogativi cui vorremmo si desse pronta risposta,
devastano il cuore. E la fiducia in Dio vacilla.
E viene da arrabbiarsi col Signore, proprio come
fanciullini che tentano di sottomettere mamma alla
propria volontà con i loro strilli, facendo - come si
usa dire - scene madri.
Che senso ha - sorge il dubbio - quel “chiedete e troverete, bussate e vi sarà aperto”?
Calma, gente! C’è lo Spirito, il correttore di bozze,
l’interprete accreditato, il finisseur!
Hai l’impressione di balbettare soltanto, quando ti rivolgi a Dio?
Ti riaffiora quel ritornello, caro alla “tigre di Cremona”
«parole, parole, parole …»?
Ti pare di strumentalizzare sfacciatamente la preghiera perché ti riduci soltanto a chiedere?
Non sai da che parte incominciare per capire te
stesso e ne vorresti parlare al Signore?
Lui, lo Spirito, viene in aiuto alla nostra debolezza.
Lui traduce e rende filialmente presentabili le nostre
richieste.
Lui le correda degli ingredienti necessari: Se voi,
che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito
Santo a coloro che glielo chiedono!".
L’affermazione è di Luca e a tutta prima lascia di
sasso. Ci si aspetterebbe, da un Padre buono, un
pronto completo esaurimento delle nostre concrete
richieste.
Invece l’impalpabile Spirito Santo. Come a dire: voi
chiedete che vi si liberi dal fastidioso mal di denti, e
lui va al fondo delle cose e vi dà l’interprete della
vita, mal di denti compreso.
Un’angustia vi mette allo stretto, e lui vi trasborda in
acque calme.
Sembra di leggere tra le righe, nello Spirito, un atteggiamento carico di affetto: intercede con insistenza, gemendo, con un linguaggio penetrante che arriva al cuore di Dio.
E colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.
Un po’ come mamma: le chiedi l’affilatissimo coltello
per giocare e lei ti stampa un bacione suasivo che
smonta la richiesta folle.
Rm 11
O mamma ha preso da Dio?
13
Ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al
mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne
alcuni. 15Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti? 16Se le primizie sono sante, lo
sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. 17Se però alcuni rami
sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così
partecipe della radice e della linfa dell'olivo, 18non menar tanto vanto contro i rami! Se ti
vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. 19Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! 20Bene; essi però
sono stati tagliati a causa dell'infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare
dunque in superbia, ma temi! 21Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te 22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti; bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso. 23Quanto a loro, se non persevereranno
nell'infedeltà, saranno anch'essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo!
24
Se tu infatti sei stato reciso dall'oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei
stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!
Figlioli e Piante n. 58 - dicembre 1999
É tramontata l’epoca in cui noi Gentili ci si radunava
il venerdì santo a commemorare la Passione e la
Morte del nostro Salvatore e si aveva l’ardire di indirizzare al Padre di tutti, anche dei discendenti di
Abramo, una supplica boriosa anziché no: preghiamo per i perfidi Giudei; e sembrava di commiserare,
mettendoci noi tre gradini sopra, questi nostri fratelli
quasi fossero condannati a star dietro alla lavagna.
Dal brano proposto alla riflessione, Paolo appare tutt’altro che schierato in opposizione alla sua gente.
Aveva appena finito di dire, sempre a quelli di Roma
(Rom 9, 3) – e tanti erano ebrei, come ce ne sono
ancor oggi – che avrebbe voluto essere anatema,
separato da Cristo (proprio lui!) a vantaggio dei suoi
fratelli, suoi consanguinei secondo la carne.
Il sangue non è acqua! Li vuole ingelosire.
Con lo strazio nel cuore deve ammettere che il loro
rifiuto di Cristo ha segnato la riconciliazione del
mondo. Proprio per questo mette in guardia i Gentili
dal correre rischio analogo, quasi dicesse: attenti,
può toccare anche a voi! Che fosse nell’aria già fin
da allora, sia pure in piccolo, nella zona di Roma
che sarebbe poi stata il ghetto, una guerra di religione?
Noi per secoli l’abbiamo in qualche modo alimentata
e solo ora si corre ai ripari, facendo le debite scuse
(ma c’è chi eccepisce, magari solo brontolando fra i
denti, perché con Voitila...).
Se tu, se noi, che pur siamo oleastri, ci si abbevera
alla stessa linfa che fu del popolo della promessa,
non è il caso di menar vanto contro i rami. Si può
essere, come loro, infedeli e potremmo essere a nostra volta tagliati, se non restiamo lì in ragione della
fede.
Già: restar lì in ragione della fede che cosa
significa?
I nostri fratelli maggiori battezzati nel taglio del prepuzio (se maschietti), nonostante il prezioso bagaglio della Parola di Dio ricevuto in dote, non hanno
saputo accogliere gli avvertimenti della Legge e dei
Profeti; non hanno saputo accogliere la Parola inviata dal Padre nella pienezza dei tempi. E’ passato
loro sotto il naso il Figlio di Dio e l’hanno scambiato
per un sovvertitore, consegnandolo al braccio secolare.
Continuarono poi imperterriti a manipolare la Parola,
spezzettandola in 613 precetti tutti da osservare
pena la maledizione della Legge, senza accogliere
l’autorevole interprete della volontà del Padre.
Restar lì in ragione della fede significa accettare in
pieno Gesù come Maestro e Signore e il suo progetto di vita, non accontentandoci di devozioncine che
ci fanno tanto sembrare buoni cristiani, non andando
a caccia di indulgenze a buon mercato, quasi ci esimessero da conversione, nemmeno convinti che basti timbrare il cartellino con l’oretta domenicale di
Eucarestia, in cui Parola e Pane vanno giù quasi per
forza di inerzia e tutto evapora sul sagrato. Non è
comunione quello che il Signore Gesù si attende da
noi?
Non è assomigliare alla Famiglia per eccellenza,
quella che vede il Padre e il Figlio formare una cosa
sola nello Spirito, e noi, Giudei o Greci, schiavi o liberi, essere fra di noi una cosa sola con lui? Se ne
vedono i sintomi nelle nostre comunità cristiane?
Restar lì in ragione della fede significa quindi acquisire l’occhio radioscopico che nel fratello, soprattutto
se impresentabile, indecente, scostante, ti fa vedere
il membro di Cristo che ancora non è arrivato allo
16
stato di uomo perfetto, nella misura che conviene
alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4, 13). Queste
cose si assimilano masticandole insieme. E’ ritrovandosi insieme che l’onda d’urto della Parola di Dio
non sconvolge, ma stimola, il credente e la comunità
cristiana.
E’ ritrovandosi insieme che è reso possibile quell’edificarsi a vicenda, espressione tanto cara all’Apostolo. Un oleastro riluttante all’innesto, o, se innesta-
to, rimasto infecondo, potrebbe incorrere nella severa minaccia: “Se infatti Dio non ha risparmiato quelli
che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!”
Ci liberi Dio dal rischio di ingollare Parola e Pane domenicali a guisa di placebo senza seguito! Ci aiuti il
buon Dio a gridare dai tetti le esigenze del Regno,
che nelle parole dell’Apostolo sono in qualche modo
adombrate.
17
Rm 13
1
Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non
da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. 3I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il
male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa il bene e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spa da; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. 5Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. 7Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto. 8Non abbiate
alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge.
Figlioli e Piante n. 67 - luglio 2001
Me lo sono imposto, questo brano.
Si presenta, per certi suoi modi di dire, come obsoleto, facilmente cucinabile come espressione di una
mentalità d’altri tempi.
Poi, poi … quel a chi le tasse non si confà alle orecchie smaliziate del contribuente italiano medio.
Senza voler raddrizzare - come si suol dire - le gambe ai cani, essendo anche questo passo Parola di
Dio, provo a leggervi tra le righe per capirci qualcosa.
Paolo usa con mano pesante l’invito a stare sottomessi.
Lo usa ad esempio qui.
Lo usa in Efesini 5, quando propone che nella dinamica di coppia la sottomissione competa alla moglie,
mentre al maschietto è riservato il grato compito di
amare la propria moglie come Cristo ha amato la
Chiesa.
Lo usa volentieri altrove, soprattutto quando esorta i
suoi ad un rapporto vero, ordinato, con Dio.
O con i fratelli: siate sottomessi gli uni con gli altri
nel timore del Signore.
Ecco, stare sottomessi traduce il verbo greco “tasso”
che indica ordine.
Anche la parola tasse, le famigerate tasse, brandite
come cavallo di battaglia nelle campagne elettorali
per blandire o mettere in guardia la plebe, hanno a
che fare con un ordinato rapporto sociale.
Stare sottomessi alle autorità costituite non significa
servilismo impotente né tanto meno piaggeria interessata. In democrazia le Autorità vengono elette, e
una volta elette vengono accettate, anche dalla opposizione, senza isterismi o reazioni viscerali, sebbene i loro provvedimenti non siano condivisi.
Probabilmente in questo senso si può capire quel
non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono
sono stabilite da Dio.
E’ cioè nell’ordine delle cose fare riferimento all’autorità costituita.
Quella massa di uomini e di donne che chiamiamo
comunità civile non può essere lasciata in balia delle
invenzioni dei singoli.
Sarebbe anarchia.
Discutono, decidono - almeno in una democrazia
matura, compiuta - ma sempre moderati dall’autorità.
E’ il cosiddetto ordine stabilito da Dio.
Niente interventismi dall’alto: siamo stati ideati così,
da prima che il mondo fosse.
Dunque il lemma sottomissione del linguaggio biblico ha sfumature diverse rispetto a come lo usiamo
noi, a volte col sapore di “essere messi sotto”.
E’ un’esigenza sociale quella di avere un Capo dello
Stato, un Presidente del Consiglio, un Direttore d’azienda, un Preside.
Chi ha a che fare abitualmente con la Parola di Dio
deve saper tradurre immediatamente la parola e non
lasciare che monti una protesta interiore.
Il sermoncino è rivolto a chi è suddito.
A chi è in autorità, probabilmente Paolo avrebbe ben
più di una cosa a ridire, perché allora come ai nostri
giorni vessazioni e appropriazioni indebite sono tentazioni ricorrenti per chi sta in alto, proprio perché
porta la spada. [Per transenna, tra parentesi quadra,
come a dire sottovoce: che a Paolo non si ponesse il
problema della pena di morte? Che altro significa
quel parlare di spada?
Ne è passata di acqua sotto i ponti!]
E le tasse?
E’ lecito evaderle, trovando dentro di sé mille giustificazioni, prudentemente non dichiarate, quasi a tacitare la coscienza?
Basta la scusa: se mi beccano pagherò?
Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto.
Ad una prima lettura sembra che questo qualcuno
sia il funzionario di Dio, l’esattore.
Oggi è più chiaro a tutti - se non ci si lascia invischiare dall’appiccicaticcio denaro - che si debba
rendere a ciascun cittadino ciò che gli è dovuto.
Se frodo le tasse frodo mio fratello, immetto dei virus
nella società civile, mi oppongo all’ordine stabilito da
Dio.
Altro che amore vicendevole!
Così non si agisce secondo ragioni di coscienza.
Così non si è liberi dentro.
Tutto ciò è in contrasto con il precetto del Signore:
vai, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, poi vieni e
seguimi.
18
Certi teologi moralisti del passato parlavano di leggi
mere poenales, cioè non vincolanti in coscienza, salvo pagare se colti in castagna, leggi che riguardavano l’obbligo di pagare le tasse, ad esempio.
Si erano architettati la restrictio mentalis, un modo
furbo di dir bugie o di dissimulare ciò che si sta pensando.
Come collega di confessionale chiedo perdono!
Si usa.
19
Rm 14
1
Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. 2Uno
crede di mangiare di tutto, l'altro invece, che è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia non disprezzi chi non mangia : chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché
Dio lo ha accolto. 4Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo ? Stia in piedi o cada,
ciò riguarda il suo padrone : ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare.
Figlioli e Piante n. 37 - settembre 1995
L'ardua lettera ai Romani dei primi capitoli, torrenti
impetuosi, lascia spazio, dal 12° capitolo in poi, a
uno slargo molto più navigabile.
La cosiddetta sezione parenetica di taglio più pastorale, più alla mano, esorta a vivere nella carità effettiva la dignità di figli di Dio, di figli della luce, una volta affrancati dalla Legge che non dà respiro.
Culto spirituale, umiltà e carità, carità con tutti anche
con i nemici, rispetto dell'autorità civile sono i temi
trattati in questo volgere alla fine della lettera. Paolo
si dilunga soprattutto a sottolineare l'obbligo della
carità verso i "deboli".
"Noi che siamo i forti" è l'espressione che apre il
cap. 15°.
"Noi" plurale maiestatico?
"Noi" finzione letteraria?
Oppure "noi" come espressione che blandisce il lettore perché, se si sente forte, si inoltri sulla via di
Cristo, che chiede una maturità umana somma, al
punto di vincere con il bene il male (cfr 12,21) alla
stregua di Gesù?
Quanto è importante che chi sa di essere chiamato
a comunione, e vive l'esperienza della comunità cristiana, impari la lezione, lui che si sente forte.
Forte sarà soltanto se abile a superare questo test:
quello di saper accettare accanto a sé il debole nella
fede, senza espellerlo dalla comunità, nè psicologicamente, nè con quelle scomunichette che sono
arma facile in mano a preti e anche a laici.
Notabene: fortezza non è virtù di chi mostra il muscolo all'avversario, semmai è esigente verso se
stesso.
Non ci venga in mente di ritenere che il brano su cui
stiamo riflettendo riguardi problemi comunitari di altri
tempi.
Non ci venga di pensare che tutto si riduca se accettare in comunità il vegetariano o no.
Se anticamente il problema dei mangialegumi in comunità doveva essere abbastanza frequente, perché
la cultura dell'epoca, di ambiente giudaico o pitagorico o esseno, portava a pratiche come quelle; oggi,
imparata la lezione da Paolo, chi è forte lo dimostra
nel saper accettare in comunità o accanto a sé in famiglia o nella cerchia di amici o fra colleghi di lavoro,
senza arricciare il naso, persone incerte, scrupolose,
suscettibili, dal carattere un po' originale, che si
scandalizzano facilmente, ancorate come sono ad
una mentalità preconciliare; gente che, nonostante
si sia chiamati a libertà, non possono far a meno di
sorbirsi il loro bravo oroscopo insieme con la tazzina
di caffé, persone più entusiaste di una Madonnina
che piange che dell'Eucaristia o della Parola di Dio.
Eh sì!: comunione non significa uniformità; significa
amore paziente.
Se l'uomo vecchio, l'uomo terreno, tende a donare il
cuore e l'attenzione a chi è simpatico, a chi è dotato,
a chi è gratificante, l'uomo nuovo tende a dare una
mano e una preferenza a chi è storpio cieco zoppo.
L'uomo nuovo non disdegna, non demolisce: partecipa della missione restauratrice che fu del Maestro.
Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni.
Allora non c'è più spazio per una chiacchierata a
quattr'occhi che renda forte il più debole?
C'è spazio!
Purché l'intervento non sia soffocante, perché il poveraccio non si senta il fiato sul collo.
E' saggezza saper intuire i tempi di crescita di ciascuno.
Del resto anche Paolo, dopo una splendida ode alla
libertà dei figli di Dio nei primi capitoli della lettera,
non autorizza a farne un maglio per arrivare ad una
sorte di pulizia etnica in seno alla comunità.
Il massimalismo non è mai cristiano.
Il motivo di fede per l'accoglienza del debole?
Perché Dio lo ha accolto.
Come a dire: non è affar tuo trinciare giudizi su chi
non ti compete, dovesse anche cadere.
E' affare di Dio.
Lui sa far stare in piedi anche chi sembra non avere
spina dorsale.
C'è dell'altro.
Poco più in là nella lettera, Paolo esorta chi sa stare
in piedi da sè a non farsi pietra d'inciampo per chi è
più malconcio: "Se per il tuo cibo il tuo fratello resta
turbato, tu non ti comporti più secondo carità.
Guardati perciò di rovinare con il tuo cibo uno per il
quale Cristo è morto" (14-15).
Non illuderti: chi non ha capito le esigenze della carità non appartiene al Regno.
Dove sarebbe il forte?
20
Rm 15
20
Ma mi sono fatto un punto d'onore di non annunziare il vangelo se non dove an cora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, 21ma come
sta scritto: Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunziato e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno. 22Per questo appunto fui impedito più volte di venire da
voi. 23Ora però, non trovando più un campo d'azione in queste regioni (da Gerusalemme fino
all'Illiria) e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, 24quando andrò in
Spagna spero, passando, di vedervi e di essere da voi aiutato per recarmi in quella regione,
dopo aver goduto un poco della vostra presenza
Figlioli e Piante n. 39 - dicembre 1995
In dirittura d'arrivo, una grande lettera come quella ai
Romani, ha la sua ovvia caduta di tensione.
L'alta teologia lascia spazio all'umanità dell'Apostolo.
Anche sulla bancarella dell'usato tuttavia si può trovare la pepita che ti fa bene. E una rubrica come
questa ne è ghiotta, se dà un contributo allo stile di
comportamento dei credenti e, nel caso, dei discepoli di Paolo. L'Apostolo si pone un problema di coscienza. Se ne fa financo un punto d'onore.
Ha ricevuto un mandato: di svolgere tra i pagani il
ministero di apostolo, di inviato con compiti speciali,
di fondatore di nuove comunità; non quello - che so di pastore e maestro, che sono ministeri più residenziali, più statici, di carattere più organizzativo.
Deontologia professionale vuole che un apostolo
non sovrapponga il suo intervento su terreno già dissodato da altri e passato ad episcopi o a presbiteri
per - diciamo così - l'ordinaria amministrazione.
In altre parole: un Paolo missionario, non parroco.
E' finezza di spirito saper rispettare il lavoro di un altro, non imporgli l'accecante presenza di un primo
della classe che ti dice: fatti più in là che son più bravo io.
Non sappiamo chi abbia dissodato per primo l'ambiente romano. Certo non Pietro. Le strade consolari
erano troppo invitanti perché il messaggio della buona novizia non le imboccasse d'infilata.
E l'andirivieni nella comunità ebraica che faceva
capo a Roma - si può dire: ab immemorabili - ne era
il veicolo naturale. Dunque un apostolo oscuro per
gli annali, il fondatore della chiesa romana, ma non
meno efficace se la Scintilla serpeggiava già fino in
pretorio, all'epoca di Paolo. Ora Paolo è sfaccendato.
Ha sparso la semente evangelica tutt'attorno a Gerusalemme fino all'Illiria (Neapolis, Filippi, Anfipoli,
Tessalonica, Berea...) dove ancora non era passato
nessuno. Roma ha già avuto la sua Scintilla e il fuoco sta covando finche tutta la romanità si incendi.
Non è posto per Paolo. Qualcuno gliel'ha puntualmente impedito: forse lo Spirito che l'aveva spinto ad
attraversare il Bosforo verso la Macedonia (cfr Atti
16,7ss) lo persuade intimamente a rispettare i ruoli.
Certo: l'invadenza non è carità; è l'anti-servizio; non
edifica, turba. Ma Roma può ben essere la sua meritata vacanza, tanto più che la foga di missionario gli
ha già fatto scrivere sul carnet il prossimo impegno:
la Spagna, che è sulla strada.
La Bibbia delle edizioni paoline, versione dai testi
originali, rende così il versetto 24: spero infatti di vedervi, passando da voi, e di essere da voi indirizzato
colà, se però prima, almeno in parte, avrò gustato,
fino a saziarmi, la vostra presenza.
Dunque una comunità cristiana agli antipodi di quelle praticate da Paolo è casa sua; non vi ha mai messo piede, ma su quella gente può contare, come poteva contare su quelli di Corinto e di Filippi, ai quali
aveva chiesto di fare una raccolta di fondi in favore
della comunità madre di Gerusalemme, in gravi difficoltà per una malefica carestia. Questa è la forza
della Scintilla: fa cadere confini, diversità culturali ed
etniche, impostazioni di carattere ideologico (io col
prepuzio, tu senza) anche in seno alla stessa fede.
Quando i vescovi italiani chiedono alle comunità cristiane di essere evangelizzate ed evangelizzanti, capaci di annuncio credibile perché intrise di valori cristiani, perché stanno diventando sempre più profumo di Cristo, perché non vendono soltanto parole,
chiede fra l'altro che siano accoglienti.
Ogni comunità si prepari a regalare all'ospite, sulle
spiagge o sui campi da sci o a chi non rientra nel
suo ambiente o a chi emigra da una comunità all'altra, un clima avvolgente che conforti nelle fatiche
della fede.
Anche il calore umano è talento che esprime in
modo concreto la carità: è verifica che i valori evangelici restaurano tutto l'uomo, anche nella sua sensibilità.
Il recente convegno di Palermo ha ribattuto il chiodo.
Se la comunità cristiana ha un dovere verso l'ospite,
l'ospite non si faccia complessi nel chiedere e quasi
pretendere l'accoglienza.
Potrebbe anche non trovarla e ciò significherebbe
che la Scintilla in quella comunità non ha ancora
preso: una religiosità senza cuore non sarebbe cristiana.
Una comunità, per essere vera, dev'essere riposante, almeno normalmente: se vi passano le tempeste,
passano presto.
Sto scrivendo a ridosso di quella che doveva essere
la spiaggia del Tevere, porto fluviale di Roma nei
pressi del mercato del bestiame e degli olii, dove alloggiavano commercianti allora come oggi in gran
parte membri della comunità ebraica.
Qui è approdata la lettera.
Qui Paolo voleva gustare, fino a saziarsi, della presenza dei fratelli in attesa di spiccare il salto verso la
Spagna. Vi avrebbe trovato il meno gradito domicilio
coatto, che non gli impedì, sia pure in catene, di annunziare il Cristo forse fin dentro la casa di Cesare.
21
Non guasti anche questo riferimento concreto che
unisce le nostre con le generazioni cristiane del passato.
22
Rm 16
25
A colui che ha il potere di confermarvi secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni 26ma rivelato
ora e annunziato mediante le scritture profetiche, per ordine dell'eterno Dio a tutte le genti perché obbediscano alla fede, 27a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei
secoli dei secoli. Amen."
Figlioli e Piante n. 13 - dicembre 1990
Così, in modo solenne a mo' di proclamazione liturgica come si conviene quando c'è la piena del cuore
e le parole escono ritmate e pregnanti, Paolo si congeda, nella sua lettera, dai fratelli di fede che abitano in Roma.
Il mistero taciuto per secoli interminabili, agognato
da profeti e sibille, inseguito dal cuore dell'uomo fin
da che abitava le caverne attraverso tentativi spesso
scoordinati e contraddittori di operare la giustizia e di
attuare la fratellanza universale, è finalmente diventata notizia, buona notizia.
Il segreto per un'armoniosa convivenza umana è ora
noto a tutti: è miniato, è stampato, è proclamato dagli amboni, è amplificato dai mass media, è fatto rimbalzare di padre in figlio, è incarnato in mille iniziative di amore.
Il segreto strategico più fondamentale per l'umanità il progetto che induceva la mente e il cuore di Dio al
big bang iniziale che si sarebbe srotolato poi, attraverso evoluzione, nello splendido universo che conosciamo, dove l'uomo è primattore regale - non è
più un mistero per nessuno, salvo forse che per
qualche tribù nascosta tra le pieghe di foreste impervie.
Paolo lo dice e lo ridice continuamente: ai Romani, a
quelli di Corinto, agli Efesini, ai cristiani dell'altopiano
galata, a quelli di Colossi, ai suoi collaboratori più diretti perché se ne facciano bandiera.
Sentite per esempio come scalda il cuore di Tito, il
suo inviato speciale presso i Corinti o quelli di Creta
o quelli della Dalmazia: " Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni
sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda.
Quando però si sono manifestati la bontà di Dio,
Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli
ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi
compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente
per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché
giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna" (Tt 3, 3ss).
Si è manifestata la bontà di Dio e noi, superato il timore reverenziale di creature, ci siamo ritrovati figli.
Possiamo guardare negli occhi il Padre, il migliore
dei padri, da cui ogni paternità e maternità prende
nome.
In lui, amante di ogni creatura, siamo invitati a rivalutare ogni uomo, riguardandolo con gli occhi di Dio,
sia che egli ci torni umanamente simpatico o antipatico, che sia semplice o dotto, sano o portatore di
handicap, di area cristiana o di area mussulmana,
del nord o del sud, del mio partito o del partito avverso, nullatenente o ricco sfondato, illibato o di dubbia
moralità.
Questo il progetto iniziale, prima del big bang.
Può sembrare un progetto mozzafiato per noi omuncoli dalla fragilità proverbiale.
Ma un progetto così autorevolmente firmato non poteva essere interlocutorio, non poteva fermarsi a
mezze misure.
Qui sta la soluzione del problema sociale, del diritto
internazionale, della moralità pubblica.
Di questo progetto si stanno gradatamente tingendo
la carta dei diritti umani, la carta dei diritti del bambino, del malato, i rapporti est-ovest nord-sud.
A questo progetto sembrano obbedire - ma quanto ci
vorrà? - la caduta dei confini a cominciare da quelli
europei dove già si parla di Casa comune, lo sgonfiarsi delle ideologie, l'umanizzarsi dell'economia di
mercato.
Questo nostro Dio, Padre-non-padrone, che solo è
sapiente, non si è limitato a mandarci lettera.
Ci ha mandato il Figlio, con raccomandazione che si
facesse prototipo dell'uomo amante e trascinasse
dietro a sé, sul suo esempio, innumerevoli discepoli.
La storia della Chiesa, la storia dell'umanità ha registrato questo miracolo, per cui uomini e donne si
sono rivestiti di Cristo e a volte capita di vederceli
camminare accanto, fermento nella massa.
A volte capita di sentire in noi stessi il fremito di vita
nuova, perché anche noi abbiamo accesso a colui
che ha il potere di confermarci secondo il vangelo,
secondo il messaggio di Gesù Cristo, così che a tutte le genti, anche a quelle delle nostre generazioni,
sia rivelato con le parole e coi fatti il mistero taciuto
per secoli eterni.
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