Antonio Pinelli
Narrare con le immagini.
Gli artisti alle prese con la dimensione spaziale
del tempo
Il tema del rapporto tra la narrazione di una sequenza di azioni che si svolgono in
un arco temporale più o meno lungo e la loro rappresentazione figurativa nello
spazio unitario di un dipinto o di una scultura è una questione fondamentale per la
storia dell’arte, ma sulla quale non c’è una grande bibliografia né si riflette
abbastanza. Si tratta, a ben vedere, del rapporto tra parole e immagini o, più
specificamente, del rapporto tra arti visive e arti della parola. Come
rappresentare nello spazio unitario di una singola immagine (dipinta o scolpita) la
sequenza di azioni distinte, ma tra loro correlate, di una «storia»? Gli artisti non si
sono mai sottratti alla soluzione di questo problema, escogitando svariati
espedienti. Ma a livello di teoria dell’arte la questione è stata posta con chiarezza
solo attorno alla metà del XVIII secolo, perché prima, a partire dal mondo grecoromano, il problema era stato sostanzialmente rimosso e occultato da
un’affermazione teorica che, proclamando l’analogia tra arti visive e letteratura,
di fatto metteva la sordina sulle difficoltà che comportava la «traduzione» di un
soggetto narrativo a carattere storico, religioso o letterario in un’opera di pittura o
di scultura.
Fin dai tempi del poeta greco Simonide di Ceo, cui era attribuita la massima
«la pittura è poesia muta e la poesia pittura parlante», e del poeta latino Orazio,
che aveva dichiarato «ut pictura poësis», ovvero la poesia è come la pittura,
l’accento della teoria artistica cadde sulle analogie piuttosto che sulle differenze
tra il potere evocativo della parola e quello rappresentativo dell’immagine. La
sentenza oraziana fu ribadita infinite volte nella trattatistica rinascimentale e postrinascimentale, anche perché conferiva l’autorevole suggello dell’auctoritas degli
antichi a un tema – quello della similitudine tra arti figurative e letteratura – che
stava molto a cuore agli artisti del Rinascimento, impegnati a emanciparsi dalla
condizione subalterna in cui li confinava l’esercitare una professione socialmente
La filosofia e le questioni che contano
Firenze, 12 marzo 2009
inserita tra le «arti manuali o meccaniche». Equiparare la pittura alla poesia
equivaleva ad affermare che la pittura e la scultura erano degne di entrare nel
privilegiato consesso delle «arti liberali».
Il problema delle differenze tra arti figurative e arti della scrittura cominciò ad
affacciarsi timidamente nelle riflessioni teoriche seicentesche e settecentesche,
ma il primo a impostare con grande lucidità e nettezza il problema della
distinzione tra narrazione visiva e narrazione verbale fu il filosofo tedesco Jacob
Lessing in un suo libretto, il Laocoonte, ovvero sui limiti della pittura e della poesia
(1766), destinato a divenire celebre e a essere presto tradotto in varie lingue
europee. Lessing, in buona sostanza, demolì la vecchia massima dell’ «ut pictura
poësis», affermando che le arti della parola, ovvero la letteratura, sono «arti del
tempo», poiché la narrazione, sviluppandosi diacronicamente, possiede una
propria durata temporale, mentre le arti figurative sono «arti dello spazio», perché
si offrono allo sguardo simultaneamente, avendo, diremmo noi oggi, come proprio
«specifico» l’unità sincronica dello spazio visivo.
La riflessione di Lessing ebbe un enorme impatto sul piano teorico, ma poiché
includeva anche una puntualizzazione su quale fosse il miglior modo di
rappresentare un soggetto letterario forzando i limiti sincronici delle arti figurative,
ebbe un’eco immediata anche presso gli artisti. E infatti i due maggiori
protagonisti, rispettivamente, della pittura e della scultura neoclassiche – JacquesLouis David e Antonio Canova – mostrano di aver riflettuto e recepito le indicazioni
del filosofo tedesco volte a «intrappolare la durata» nello spazio figurativo, ovvero
a evocarla in maniera implicita all’interno della simultaneità spaziale
dell’immagine dipinta o scolpita. È il tema che verrà denominato, a partire da
Lessing, della scelta, in un soggetto, del «momento pregnante». Rappresentare un
«momento pregnante» significa scegliere di raffigurare quell’istante che è capace
di evocare ciò che lo precede e ciò che seguirà: l’antefatto di un’azione e le sue
conseguenze.
Ma prima di approfondire questo tema con alcuni esempi specifici, passeremo
in veloce rassegna i principali espedienti usati dai pittori e dagli scultori, nel corso
del Medioevo e dei primi secoli dell’età moderna, per forzare i limiti narrativi delle
arti figurative e intrappolare, nello spazio, una porzione di tempo.
Antonio Pinelli Docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Firenze, ha scritto molti saggi e libri, tra i quali: La bella maniera. Artisti tra regola e licenza (1993); Nel segno di Giano. Passato e futuro nell’arte europea tra Sette e Ottocento (2000); La bellezza impura. Arte e politica nell’Italia del Rinascimento (2004). Ha attualmente in corso di pubblicazione un libro intitolato La storia dell’arte: istruzioni per l’uso. i
La filosofia e le questioni che contano
Firenze, 12 marzo 2009
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