“IL VENTAGLIO”,
DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
di Ginette Herry
I
l ventaglio è stato
pubblicato per la prima
volta, senza lettera
dedicatoria e senza “A chi
legge”, nel tomo quarto
dell’edizione Zatta (Venezia,
1789). La commedia era
andata in scena il 4 febbraio
1765 a Venezia, quinta e
penultima mandata da Parigi
per onorare il contratto che
continuava, dopo la partenza
dalla patria, a vincolare
Goldoni a Francesco
Vendramin, il nobile padrone
del Teatro di San Luca.
21
GINETTE HERRY
«Avrei piacere di far vedere in
Venezia come si fanno le
commedie di trasformazione,
senza le fiabe, senza i diavoli,
e senza le piazzate. Tutto sta nelle
poche cose che ordinerò, siano
bene eseguite».
(Carlo Goldoni, Lettera a Stefano
Sciugliaga, Opere, XIV, 126, p.
326)
«La fama di un autore spesso
dipende dall’esecuzione degli
attori. Non bisogna nascondersi
questa verità, abbiamo bisogno gli
uni degli altri, dobbiamo amarci e
stimarci a vicenda. Servatis
servandis».
(Carlo Goldoni, Memorie, I, 41,
pp. 204-206)
«Questo rigoroso precetto di
adattar le parti agli Attori non lo ha
lasciato scritto nessuno, ma io me
ne sono fatta una legge, e me ne
trovo contento. Da ciò riconosco la
maggior fortuna delle opere mie
sui Teatri rappresentate, e da ciò
riconoscono i Commedianti il loro
concetto. (…) Le Commedie
stampate e lette sono sempre le
stesse, ma rappresentate
cambiano aspetto, a tenore de’
Recitanti».
(Carlo Goldoni, Lettera dedicatoria
a Pietro Priuli, Opere, I, pp. 858859)
22
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
La commedia è lo sviluppo di un canovaccio che
l’autore ha fatto rappresentare alla Comédie-Italienne
di Parigi il 27 maggio 1763. Aveva avuto l’idea di
comporre questo scenario in reazione alla situazione
in cui si era ritrovato in quanto autore a contratto
della Comédie-Italienne già dall’autunno precedente.
Per sei mesi, la necessaria dedizione esclusiva degli
Italiani di Parigi alla Commedia dell’Arte lo aveva
costretto, dopo il mezzo fiasco dell’Amor paterno
interamente scritto, a tornare alle maschere e a
ricavare canovacci dalle sue passate commedie,
adattandoli ai nuovi attori; ma sentiva ferita la propria
dignità di autore-riformatore e la sua creatività si
ribellava.
Nella primavera del 1763 decide di cambiare metodo
quando vede gli attori criticati per la loro pessima
recitazione del canovaccio Arlecchino erede ridicolo
tratto dal Ricco insidiato (1758). Per la prima volta
Goldoni dà loro una commedia a soggetto del tutto
nuova, una commedia in cui ha cercato di coniugare
il proprio desiderio di rinnovamento con le cattive
disposizioni della compagnia. È quanto illustra al
marchese Albergati Capacelli di Bologna, in una
lettera del 18 aprile 1763: «Ora ho pensato a un
nuovo genere di commedie per vedere se da questi
attori posso ricavare qualcosa di buono. Essi non
imparano le scene studiate; non eseguiscono le scene
lunghe, ben disegnate, ed io ho fatto una commedia di
molte scene, brevi frizzanti, animate da una perpetua
azione, da un movimento continuo, onde i comici non
abbiano a far altro che eseguire più coll’azione che
colle parole. Vi vorrà una quantità grande di prove sul
luogo dell’azione, vi vorrà pazienza e fatica, ma vuò
veder se mi riesce di far colpo con questo metodo
nuovo. Il titolo della commedia è L’Eventail.
Un ventaglio da donna principia la commedia,
la termina e ne forma tutto l’intrigo. La scena è
stabile, e rappresenta una piazza di villa con varie case
e botteghe, e viali d’alberi. Al primo alzar della tenda,
tutti i personaggi si vedono in scena, in situazioni,
impieghi ed attitudini differenti. Tutti agiscono.
Si vuota e si riempie la scena, e termina con tutti
Pietro Longhi, La tazza di caffè
(part.), Firenze, raccolta privata.
Nella pagina precedente, Nicolas
de Largillière, Studio di mani
(part.), 1715 circa, Parigi, Louvre.
i personaggi in situazioni diverse» (Tutte le opere di
Carlo Goldoni, ed. Mondadori, vol. XIV, p. 280).
Tale il canovaccio dell’aprile 1763 il cui testo non ci è
pervenuto. Ma sappiamo, da una nuova lettera al
marchese Albergati Capacelli, che il 27 maggio la
doppia attesa di Goldoni fu crudelmente delusa:
«Si è data la mia commedia intitolata Il ventaglio, ma
non ha fatto quell’incontro, che io credeva. È troppo
inviluppata per l’abilità di questi comici. Sono stato
risarcito dai Due fratelli rivali, picciola commedia in
un’atto che è una cosa da niente, ed ha fatto incontro
grandissimo. Non ostante il suo incontro, non la credo
buona per Lei. È troppo comica, è troppo bassa, e
questo è quel che piace a Parigi al Teatro Italiano».
(lettera del 13 giugno 1763, ibid., p. 287).
Trascorrerà ancora più di un anno prima che Goldoni
torni al canovaccio del Ventaglio e ne faccia una pièce
interamente scritta, da mandare al Teatro di San Luca.
Rimette mano all’argomento non soltanto per
soddisfare Sua Eccellenza Vendramin che attende con
impazienza le sei commedie promesse, ma perché, in
quel periodo, è preoccupato dalla questione del
meraviglioso a teatro: Il ventaglio, malgrado la sua
scena stabile e il suo totale rifiuto delle magiche
“trasformazioni”, dimostra che il vero meraviglioso quello del semplice e del naturale, non quello del
magico fiabesco - si può scoprire là dove non ci si
aspetta di trovarlo.
Mandando Il ventaglio a Venezia, Goldoni scrive:
«È una gran commedia, è una gran commedia perché
mi ha costato una gran fatica, e una gran fatica costerà
ai comici rappresentarla. Fatica d’attenzione,
di qualche prova di più. […] Da un atto all’altro
[i personaggi] sono sempre concatenati, né mai resta
un momento la scena vuota. […] Il colpo d’occhio
della prima scena, la scena muta del terzo atto, e il
gioco perpetuo di tutte le parti della scena e di tutti i
personaggi, secondo me sono cose che dovrebbero far
bene… Raccomandate che facciano diverse prove.
Tutto dipende dall’esecuzione… La commedia
dipende dai comici. E so che sono in sicuro».
(lettera del 27 novembre 1764 a Stefano Sciugliaga,
23
GINETTE HERRY
Giovanni Paolo Panini,
Galleria immaginaria con le
vedute di Roma moderna, 1759,
Parigi, Louvre.
«I miei amici volevano
assolutamente che mi dessi a
qualche altro argomento da
romanzo: per risparmiarmi,
dicevano, la fatica dell’invenzione.
Stanco delle loro insistenze, finii
col dire che invece di leggere un
romanzo, per cavarne una
commedia, preferivo comporne
una con la quale si potrebbe fare
un romanzo. Gli uni scoppiano a
ridere, gli altri mi pigliano in
parola: “Bene - dissero - fateci un
romanzo in azione, una commedia
complicata come un romanzo”.
(…) Torno a casa e infiammato
dalla scommessa attacco
commedia e romanzo tutt’insieme,
senza aver l’argomento né dell’una
né dell’altro. Mi dissi che
occorreva molto intreccio, elementi
di sorpresa e meravigliosi, e nello
stesso tempo interesse, comico e
patetico».
(Carlo Goldoni, Memorie, II, 11,
pp. 291-295)
24
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
ibid., p. 327). Malgrado queste raccomandazioni,
anche a Venezia «la pazienza e la fatica» furono
indubbiamente insufficienti se Il ventaglio, pure
rimasto in cartellone per sette giorni di seguito, non
arrivò alla fine del Carnevale e se, prima del proprio
scioglimento (1770), la compagnia lo riprese una sola
volta. […] Per anni e anni la commedia continuò ad
avere poca fortuna fino al ventesimo secolo in cui fu
considerata, da Renato Simoni (1936) in poi, come
puro gioco di teatro.
Ma quando si pensa che è l’ultima pièce “italiana”
che Goldoni invia al Teatro di San Luca, quando ci si
lascia portare dal suo flusso e si osserva con quale
economia e felicità di scrittura Goldoni ne tracci il
percorso e ne convogli l’energia, quando si sa,
d’altronde, che i ruoli del calzolaio Crespino e della
contadina Giannina erano stati concepiti a Parigi
per Carlo Bertinazzi e Camilla Veronese, sul cui
talento Goldoni ha condotto in Francia le sue più
nuove esperienze drammaturgiche, è difficile ridurre
Il ventaglio a puro meccanismo teatrale, a virtuosismo
gratuito, o a testimonianza di una presupposta rottura
fra mondo e teatro apparsa nel Goldoni degli “anni
francesi”.
Già nel 1979 Squarzina constatava che Il ventaglio
è l’unico dei duecento testi teatrali goldoniani ad
avere per titolo il nome di un oggetto e che questo
oggetto mediatore che “forma tutto l’intrigo” si carica
lungo la sua corsa di molte emozioni contraddittorie.
Bisogna dunque interrogare attentamente la pièce e la
singolarità del fascino che emana, accettando di
pensare che la maestria, come in Mozart, possa farsi
induttrice di poesia, anziché costituire un ostacolo o
rimanere un’illusione. […]
Perché non immaginare che, ripercorrendo, da Parigi,
gli innumerevoli aspetti del proprio teatro ricordiamoci che sta allora rileggendo e correggendo
le proprie opere, per pubblicarle in tanti volumi
successivi presso l’editore Pasquali di Venezia Goldoni faccia il punto sull’insieme del proprio
percorso, lo interroghi e perfezioni il proprio sapere
drammaturgico con il metterlo in pratica nel
Giuseppe Maria Crespi,
Gli sportelli della libreria di padre
Martini, 1720-30 circa, Bologna,
Conservatorio G. B. Martini.
Ventaglio? Perché non pensare che ci stia consegnando
con questo testo, come Shakespeare con La tempesta,
o Pirandello con I giganti della montagna, la sua
pièce metateatrale per eccellenza e il suo capolavoro
“d’addio”?
Ovviamente, vi chiama in campo la propria scienza
del palcoscenico. Quella della costruzione dinamica
dello spazio, ad esempio. La scena fissa del Ventaglio,
con le sue azioni simultanee in diversi luoghi, non è
nuova, e Goldoni l’ha già sperimentata nella Bottega
del caffè (1750), nel Filosofo inglese (1754), nel
Campiello (1756) e nelle Baruffe chiozzotte (1762).
Tuttavia, nella lettera citata indirizzata a Sciugliaga,
insiste sulla perfetta concatenazione delle azioni e dei
personaggi, e sulla scena che non rimane mai vuota,
dal momento che i suoi diversi luoghi funzionano
insieme o in alternanza. Così riesce a coniugare con
gradevole libertà lo spazio scenico unico, coerente e
verosimile nato nel Rinascimento, con il sistema dei
“luoghi deputati” della tradizione medievale.
Ma va oltre. Crea dei luoghi deputati nel retro della
scena, sorta di nicchie in cui accadono cose
fondamentali di cui lo spazio scenico accoglierà
soltanto gli effetti. Sono di questo tipo, in modo
minore, l’osteria di Coronato (con la stanza in cui il
barone decide di confidarsi con il conte e la cantina
dove l’oste dimentica il ventaglio su una botte), la casa
di Geltruda (con il salone dove il barone chiede la
mano di Candida e la camera in cui la ragazza si
rifugia e la zia trova alcune lettere significative),
la bottega di Timoteo, dove il barone va a sbrigare
la corrispondenza e il conte a chiedergli indietro il
ventaglio… Sono di questo tipo, in modo maggiore,
il giardino del caffè sul quale affaccia la finestra di
Candida che permette ad Evaristo di ritrovare l’amata,
il giardino di Susanna, in cui Geltruda e la merciaia si
scambiano informazioni e dove Geltruda chiede a
Evaristo quali intenzioni nutra nei confronti di sua
nipote… Insomma, il modo secondo il quale sono
costruite le scene a vista del Ventaglio ci obbliga ad
immaginare le scene fuori campo e lo spessore della
scenografia. Il che perfeziona, ovviamente, la tecnica
25
GINETTE HERRY
Giandomenico Tiepolo,
Svaghi della villeggiatura, 1791,
affresco, Venezia, Ca’ Rezzonico.
26
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
teatrale ma spostandola e intrecciandola a quella del
romanzo. Il discorso vale anche per il tempo.
Qualunque sia l’intensità delle azioni in scena, lo
spettatore non può fare a meno di chiedersi quali
siano i pensieri di Evaristo quando è a caccia nel
bosco con Moracchio, o quando riposa sul letto di
quest’ultimo dopo aver creduto di morire; quale sarà
lo stato d’animo di Candida chiusa nella propria
camera fino a quando la zia la farà chiamare in piazza.
O quello di Crespino, quando cerca Evaristo fuori
della piazza, e quello di Geltruda, dopo che ha
allontanato il conte e il barone e ha letto le lettere
scoperte nella camera di Candida…
Per Geltruda, enigmatica figura di madre-padre di
sostituzione, siamo addirittura obbligati ad
immaginare un prima e un dopo: come capirla senza
raccontarci, come già faceva Squarzina, la sua vita di
sposa felice e il disastro della morte del marito, senza
chiederci cosa ne sarà di lei quando non avrà più la
nipote da tutelare. Ovviamente, questa bella vedova
definita “la più saggia e
onesta donna del mondo”,
non è fatta per continuare a
regnare sulla piazza di un
villaggio milanese in
compagnia di un maturo
conte un po’ matto… Occupa
d’altronde nella commedia il
posto dell’autore, il quale,
come lei, veglia sereno sul
mondo che ha creato e
interviene quando occorre.
Pure per Evaristo bisogna
immaginare un prima.
Cosa potrebbe giustificare la
sua presente familiarità
affettuosa con Giannina e
Moracchio se non il fatto che,
in passato, siano stati
compagni di gioco, all’epoca
delle vacanze in campagna
del giovane figlio del
«Mi ha fatto un dettaglio esatto
delle regole non della Commedia,
ma dei Commedianti, che mi ha
fatto talvolta ridere e talvolta
arrabbiare. La regola la più ridicola
delle altre, e che mi ha più
disgustato, è questa: le prime
Donne, i primi Amorosi, non
cedono le prime parti a nessuno.
Sieno vecchi, cadenti, non
lasciano di rappresentare le parti
di giovani amanti, di semplici
giovanette, e che la Commedia
precipiti, e che il teatro perisca,
piuttosto che perdere il diritto del
loro posto. (…) Sono i Comici tutti,
e buoni e cattivi, e Italiani e
Francesi, inflessibili su questo
punto, e tutte le opere teatrali che
ho poi composte, le ho scritte per
quelle persone ch’io conosceva,
col carattere sotto gli occhi di
quegli Attori che dovevano
rappresentarle, e ciò, cred’io, ha
molto contribuito alla buona
riuscita de’ miei componimenti, e
tanto mi sono in questa regola
abituato, che trovato l’argomento
di una Commedia, non disegnava
da prima i Personaggi, per poi
cercare gli Attori, ma cominciava
ad esaminare gli Attori, per poscia
immaginare i caratteri
degl’Interlocutori. Questo è uno
de’ miei secreti».
(Carlo Goldoni, Prefaz. Pasquali,
Tomo IX, Opere, I, pp. 692-695)
padrone, il quale, più tardi, è tornato a trascorrere in
paese alcune stagioni dell’anno: non ha forse invitato
alle Case Nuove, per la stagione della caccia, certo
barone diventato suo amico in Dio sa quale
amministrazione milanese? Nell’Ufficio della Guerra,
indubbiamente…
Se non tutti gli spettatori hanno il tempo e il desiderio
di porsi tali domande nel corso della rappresentazione,
gli attori vi sono costretti durante le numerose prove
che Goldoni pretende da loro perché ognuno inventi
un personaggio vero e rinunci al codice astratto e alle
solite variazioni della propria parte. […]
«Queste figure non sono ben dipinte, ma mi pare che
non siano mal disegnate» dice il conte che esamina il
ventaglio (III, 8), e Goldoni diceva: «Questa commedia
dipende dagli attori». Il disegno è ascrivibile all’autore,
il colore è responsabilità di quelli che gli daranno vita
recitando. Il ventaglio dipinto diventa così la metafora
della pièce alla quale dà, assai legittimamente, il
proprio nome per titolo. A quali attori pensava
Goldoni quando “disegnava non male” tali
personaggi? Chi chiamava in campo per occupare la
precaria posizione di chi fronteggia insieme la
necessità di dare vita e colori originali ai personaggi,
sulla base di un testo scritto ben congegnato ma avaro
di parole, e la necessità, perciò, di improvvisare, ma
fuori dai canoni delle parti e sulla base della propria
esperienza del mondo e di se stesso? Sappiamo che,
da tempo, l’autore si era fissato come unica regola di
costruire i personaggi sui “caratteri” personali degli
attori che avrebbero dovuto recitarli. Con la sfida del
Ventaglio sembra essersi tenuto a una certa distanza
dagli attori del momento, e senz’altro, da quelli della
Comédie-Italienne e del Teatro di San Luca che non
sono riusciti, di fatto, a impersonare bene il piccolo
mondo delle Case Nuove […] Goldoni pare rivolgersi
a una compagnia ideale, composta dai migliori attori
con cui ha lavorato nel corso della sua carriera:
l’elegante e multiforme Truffaldino Sacchi della fine
degli anni ’30 al Teatro di San Samuele, se
acconsentisse a imparare a memoria il ruolo del
ciabattino Crespino per farne il proprio trampolino in
27
GINETTE HERRY
Jean-Honoré Fragonard,
L’altalena, 1766, Londra, Wallace
Collection.
28
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
luogo di una banale parte; la petulante Marliani dei
primi anni ’50 al Teatro di Sant’Angelo, se sapesse
scoprire in sé la generosità della contadina Giannina e
rinunciare ad essere una “donna vendicativa”; la fiera
Bresciani dei contrastati anni del Teatro di San Luca,
se accettasse di calarsi nel lutto tranquillo e radioso
della bella vedova Geltruda…
Goldoni si rivolge inoltre a una compagnia in cui gli
attori “buffi” abbiano il diritto di interpretare
i personaggi nobili, mentre le convenzioni dell’epoca
vogliono questi impersonati esclusivamente da attori
“seri”: una compagnia in cui Pantalone possa divenire
il conte, o il dottore l’acrimonioso barone…
Una compagnia introvabile, inconcepibile, nel suo
tempo, una compagnia del sogno e della memoria.
Ma paradossalmente fondata sul ricordo dei desideri
mai appagati, di ciò che non è mai stato, che mai è
potuto essere, per via degli accidenti della vita e dei
ritardi del mondo sulle esigenze poetiche del teatro,
sulla precisa aspettativa che il teatro potrebbe sempre
avere di “case nuove” in cui inventare insieme
tecniche nuove e poemi teatrali autentici.
L’accidente e il ritardo. Due parole portanti nella
drammaturgia di questo “singolare gioiello” (Manlio
Dazzi) che Goldoni ci offre e si permette di offrire a se
stesso a mo’ di primo addio al teatro. Se da tempo
l’accidente ha preso il posto della “crisi” classica nella
costruzione delle sue commedie, lacerando il tessuto
sociale per svelarne lo spessore e il rovescio, il suo
abbinamento al ritardo, che costruisce tutta l’azione
del Ventaglio, è, questo sì, completamente nuovo.
Del “ritardo”, di tutti i ritardi Goldoni carica il conte
nel microcosmo di un villaggio in cui coesistono tutte
le classi e dove città e campagna si sfiorano. Il conte
se ne crede, se ne dice protettore. Goldoni lo pone al
centro della piazza e della pièce, ma il conte ha occhi
e spirito tuffati in un libro di favole: «Eravi una
donzella di tal bellezza…». Credendo di sapere tutto,
non vede nulla però, e nulla sa degli amori segreti di
Evaristo e Candida.
È Geltruda che, dalla terrazza, le dita occupate a «fare
de’ gruppetti», osserva quel che accade e bada a
Gabriel de Saint-Aubin,
Il Salon del 1765, Parigi, Louvre.
limitare gli abusi. Ma lei stessa condivide il ritardo.
Se ha tosto intuito l’attaccamento di Candida per
Evaristo, non ha immaginato che le cose potessero
essere così avanti come in seguito le rivelano alcune
lettere. Nell’atto I, scena 3, si era affrettata a ricevere
il conte venuto a leggerle una delle sue “favole”, e
aveva dunque abbandonato la terrazza troppo presto
per vedere Evaristo dare qualcosa a Giannina;
fraintende di conseguenza il comportamento di
Candida nei confronti della ragazza e poi del barone;
non sospetta che la nipote sia diventata tutta gelosia e
dispetto. Dovrà scendere in piazza e iscriversi
nell’azione per recuperare il proprio ritardo e riparare
alle conseguenze della sua mancata lettura della
realtà. Se Geltruda è effettivamente una proiezione di
Goldoni, vediamo a quale tipo di attenzionedistrazione appartenga il rapporto dell’autore con le
proprie creature e quanto relativa sia l’onnipotenza
che si concede nei confronti dei desideri che ha
generato in loro, e nei quali essi si perdono: soltanto
in extremis il disordine lo obbliga a intervenire per
vedere rinconciliati e fusi insieme, sulla piazza delle
Case Nuove, la “natura” e la “cultura”, la ragione e gli
29
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
Giandomenico Tiepolo,
La passeggiata estiva, 1757, affresco
Vicenza, Villa Valmarana ai Nani.
oscuri desideri. […] Oltre alla maestria teatrale,
Goldoni investe nel Ventaglio la propria arte del
racconto. Questa gli deriva dalle numerose “lettere”,
“a chi legge” e prefazioni che accompagnano, sin dal
primo volume delle edizioni Bettinelli (1750), la
pubblicazione delle sue commedie e che contengono
spesso veri e propri frammenti di vita. Dal 1761 al
1772, inventa addirittura l’autobiografia a puntate con
le diciassette prefazioni successive dell’edizione
Pasquali, dedicate ai momenti importanti della sua
esistenza. A partire dalla prefazione del quinto
volume, la prima scritta a Parigi, la narrazione si
amplia, si diversifica, si organizza per diventare, a
capitoli, un vero e proprio racconto di vita ben
concertato.
L’anno in cui compone Il ventaglio, Goldoni scrive le
prefazioni ai volumi VII e VIII che evocano una svolta
essenziale della sua vita, il periodo attorno ai 18 anni
nel quale, invece della “sua fortuna”, fece “la propria
sventura” e fu escluso dal prestigioso Collegio
Ghislieri di Pavia. La stessa Pavia è la città dove si
svolgono, in tre commedie concatenate, Le avventure
di Zelinda e Lindoro, la cui redazione definitiva
precede di poco quella del Ventaglio.
A Parigi, Goldoni non solo si sente in esilio ma rischia
di perdervi il sentimento della propria identità poetica,
tanto le condizioni del suo lavoro per la ComédieItalienne lo sconcertano e tanto la «uniformità di
vivere e di costume» dei francesi lo priva «del piacere
di far delle osservazioni particolari» dalle quali trarre
l’argomento di commedie nuove (lettera a Francesco
Albergati, 25 ottobre 1762, cit., p. 269). Possiamo
quindi intuire che si sarà consolato e avrà dato ristoro
alla propria anima con il ricordare e narrare gli
accidenti salienti della propria vita, quelli che hanno
determinato ciò che sarebbe diventato poi in Italia:
autore di teatro e riformatore della commedia […]
Allo stesso modo, possiamo intuire che, nel 1764,
la scrittura integrale per Venezia di questa «gran
commedia» che è Il ventaglio sia stata per lui una
sorta di riparazione narcisistica anticipata e una sorta
di rimedio. Il rimedio al suo allontanamento da
31
GINETTE HERRY
Giandomenico Tiepolo,
Donne in conversazione, Firenze,
Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle
Stampe.
Sopra, Giandomenico Tiepolo,
Il mondo novo (part.), 1791,
Venezia, Ca’ Rezzonico.
32
“IL VENTAGLIO”, DOVE LA VITA SI FA FAVOLA
Venezia e alla sua difficoltà di integrazione a Parigi,
alle gelosie che lacerano le compagnie e mettono in
pericolo la realizzazione delle sue opere sia a Venezia
sia a Parigi, alla routine e alla versatilità del pubblico
in entrambe le capitali, alla stagnazione artistica
rappresentata a Parigi dal gusto esclusivo per le
maschere e a Venezia dal successo delle Fiabe di
Carlo Gozzi. […]
Nel Ventaglio, per gli abitanti delle Case Nuove, come
per Goldoni a Parigi, il tempo si è fermato sin dalla
precedente primavera. Gli amori allora nati non sono
stati consacrati dai soliti sposalizi del ridente maggio,
perché Crespino ha troppa
paura del ruvido fratello della
sua Giannina, perché Evaristo
teme segretamente Geltruda
così bella, serena e saggia.
Pure l’estate è passata, sono
apparsi dei rivali, ma…
Ma, improvvisamente, un
“ventaglio da donna”, caduto
un mattino d’autunno da una
terrazza per rompersi sulla
piazza sollecitando di essere
sostituito, diventa una sorta di
oggetto magico o, piuttosto,
per tutta la collettività delle Case Nuove, l’oggetto
“transizionale” nel significato che Winnicott dà a
questo termine: un oggetto che condensa le forze
del desiderio senza criterio, rivela ciò che è rimasto
latente e, come un furetto, costringe i vari personaggi
a seguirlo tutta la giornata, facendo “girare la testa”
a tutti, come afferma Giannina nell’ultima scena.
Tutto quanto, però, con il fine, quando tramonterà
il sole, di rimettere l’orologio a posto, di consacrare
finalmente le giuste coppie e di legittimare, forse,
ancora, il nome “Case Nuove”.
Come nei medievali jeux de la feuillée, una sorta di
iniziazione, una successione di prove che permettono
di conoscere il diritto e il rovescio della realtà sempre
presa nelle illusioni delle apparenze, trova la sua
verifica sulla piazza di Case Nuove, alla fine di una
«Io per altro non iscrivo sermoni
per insegnare, ma Commedie per
onestamente divertire».
(Carlo Goldoni, L’autore a chi
legge, Opere, VII, p. 7)
calda e già breve giornata d’autunno. Qui, non ci sono
demoniaci Hellekin o spiriti della foresta; nessun
personaggio con un abito a losanghe rosse e verdi
conduce il gioco; ma, a celebrare il rito di riparazione,
c’è un “semplice ventaglio”, incantatore-ingannatore e
induttore: se corre e “fa girare” le persone, è solo
per farle diventare più robuste, selezionarle, farle
accoppiare prima dell’inverno, far vivere loro
ludicamente le prove dell’inganno e la loro
attitudine a smontarne i meccanismi nelle prove
della vita. Ma non sarà pura retorica attribuire a
quell’oggetto una tale potenza? Sono coloro che lo
hanno in mano che ingarbugliano e poi sbrogliano i
propri desideri, che scoprono di avere in se stessi
l’altro, e credono di morire o imparano ad
ammansirlo, quell’altro. Il ventaglio è solo l’emblema
della commedia, la quale ci dice che il mutevole è
dentro le persone, la magia negli stratagemmi e nei
sotterfugi del desiderio, il meraviglioso nella vita
stessa di ognuno di noi. Una “favola”, dunque,
Il ventaglio? Sì. Ma una favola filosofica, come sono
“filosofici” i Racconti di Voltaire che sono tutt’altro
che virtuosismo gratuito e mai hanno testimoniato di
una rottura qualsiasi del “patriarca” con il mondo.
Una fiaba esistenziale è Il ventaglio, che confessa di
voler coniugare i racconti medioevali così cari al conte
e nei quali, per una “donzella di tal bellezza”, si
affrontano campioni rivali, con le favole morali di
Geltruda che “istruiscono e divertono” (I, 3).
Ma questa favola, che intreccia pure il teatro con il
romanzo e i personaggi con l’autore, permette anche a
quest’ultimo di insinuarsi ogni tanto nel racconto per
ricordarsi quello che fu e che non fu, ciò che fece e
ciò che non osò fare, per collocarsi, insomma, nella
“storia della propria vita” come in “quella del proprio
teatro” che saranno, vent’anni dopo, l’oggetto dei
Mémoires. E per trovare una collocazione nella storia
del teatro tout court.
(tratto da Carlo Goldoni, Les Années Françaises, volume III, Introduction à
“L’Éventail”, in “Le Spectateur Français”, collezione diretta da Jean-Loup
Rivière, Imprimerie Nationale Éditions, Parigi, 1993 - per gentile concessione
dell’autrice)
33
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
di Myriam Tanant
A
ll’inizio dell’agosto
1761, l’ambasciatore di
Francia a Venezia, il Conte
di Baschi, consegna
a Goldoni una lettera di
Francesco Zanuzzi, il “Primo
Amoroso” della ComédieItalienne di Parigi, per la
quale svolgeva, in un certo
senso, il ruolo di
amministratore. Zanuzzi era
un amico di vecchia data di
Goldoni ed aveva fatto
rappresentare con successo,
a Parigi, il suo canovaccio
Il figlio di Arlecchino perduto
e ritrovato.
35
MYRIAM TANANT
Frontespizio del IV tomo,
dell’edizione Zatta, stampata a
Venezia nel 1789, e dove per la
prima volta è pubblicato il testo
de Il ventaglio.
Nella pagina precedente,
manoscritto di copista con correzioni
autografe di Goldoni, 1773,
Comédie-Française.
36
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
Che bella novità Goldoni va a Parigi!
In quella lettera gli proponeva un ingaggio di due anni
da parte dei Gentilshommes de la Chambre du Roi,
perché rinnovasse il repertorio della compagnia.
Probabilmente, Goldoni desiderava fare un viaggio a
Parigi fin dall’epoca del suo soggiorno del 1757 a
Parma, che all’epoca era la corte più francese d’Italia.
La tentazione di accettare immediatamente la
proposta fu quindi grande ma, come scrive nei
Mémoires, doveva prima liberarsi degli impegni
veneziani: «Avevo una pensione dal duca di Parma e
un impegno a Venezia: dovevo chiedere il permesso al
principe e ottenere il consenso del nobile veneziano,
proprietario del teatro San Luca. Né l’uno né l’altro
mi sembravano difficili». (Mem. II, 43) E in effetti, un
mese dopo, in una lettera del 5 settembre 1761,
annuncia la propria partenza al marchese Francesco
Albergati quasi con esaltazione: «Oh che bella novità
le recherà questa lettera! Goldoni va a Parigi, e
partirà, a Dio piacendo, nella ventura quaresima. […]
Che cosa (dirà ella) vai tu a fare a Parigi? Sono tre
anni che si carteggia col Teatro Italiano per andare a
dirigerlo, cioè a dar colà delle opere mie, sul gusto di
quel paese». Questo dimostra che l’invito dello
Zanuzzi era giunto alla fine di numerose trattative tra
Goldoni e la Comédie-Italienne di Parigi per stabilire
le basi di una futura collaborazione che lo sollecitasse
tanto in veste di autore drammatico quanto di
librettista. Più oltre nella lettera, Goldoni afferma che
«il progetto è per due anni: viaggi pagati di andata e
ritorno, e seimila franchi di assegnamento per anno.
In detto tempo ho più da vedere, da osservare, che da
operare. Se acquisterò qualche merito, resterò colà
con patti molto migliori; se non farò niente, me ne
tornerò in Italia; avrò veduto Parigi, avrò arricchita la
fantasia per delle cose nuove in Italia […]». Colpisce il
fatto che, quando scriverà l’ultima commedia
veneziana, sotto forma di allegoria autobiografica, Una
delle ultime sere di Carnovale, Goldoni farà dire la
stessa cosa al disegnatore Anzoletto, che parte per
Mosca: «se la mia insufficenza no permeterà che sia
aplaudito in Moscovia le mie operazion, almanco
«Dove manca per dir vero la nostra
Italia, è nel Teatro Comico, poiché
la Francia, l’Inghilterra e la Spagna
lo superano di gran lunga. S’io
avessi lo spirito di Molier, farei nel
Paese nostro quello ch’egli ha
fatto nel suo. Ma troppo debole io
sono per reggere tanto peso; e
può bene Vostra Eccellenza
incoraggiarmi e tutta impiegare la
sua eloquenza, per farmi sperare
che dalle mie fatiche la cara mia
Nazione qualche ristoro in questa
parte ricever possa, poiché oltre il
conoscer me stesso, che poco
vaglio, convien riflettere che l’Italia
non è il Paese che abbia una sola
Metropoli, un sol genio ed un
popolo solo. Per piacere in
Francia, basta piacere a Parigi; per
avere gli applausi dell’Inghilterra,
basta ottenerli da Londra; così
almeno fra noi risuona, e da quelli
Dominanti soltanto veggiamo
uscire le opere rinomate.
In Italia non è così: sovente quello
che piace ad un Paese, non piace
all’altro». (Carlo Goldoni, Lettera
dedicatoria a Federigo Borromeo,
Opere, II, pp. 881-882)
cercherò d’imparar; tornerò qua con delle nuove
cognizion con dei nuovi lumi». Si può dunque pensare
che, quando Anzoletto dichiara che «se vuol provar, se
una man italiana, dessegnado sul fatto, sul gusto dei
Moscoviti, possa formar un misto, capace de piàser ale
do nazion. La cosa no xe facile, ma non la xe gnanca
impussibile», Goldoni riproduca i termini dell’accordo
che egli stesso ha stretto con la Comédie-Italienne.
Non si tratta tanto di esportare la propria riforma,
quanto di formare un misto tra il gusto francese e la
creatività italiana, al fine di sperimentare una scrittura
originale e nuova. Un simile progetto non può non
dinamizzare la creatività di un autore che, prima di
lasciare Venezia, si mette in scena, attraverso
Anzoletto, come uomo giovane, tutto rivolto verso
l’avvenire. Ma Goldoni parte «col cor strazzà» come il
suo personaggio? Probabilmente. Ama la sua patria e
lo scriverà durante tutto il soggiorno parigino.
Ma questo non è incompatibile col desiderio di far
avanzare la propria carriera. Giorgo Padoan ha ben
dimostrato che, contrariamente a quanto si credeva, la
partenza di Goldoni per Parigi è stata provocata da un
desiderio d’internazionalità e che si tratta di un atto
volontario e non di un esilio forzato.
Goldoni lascia Venezia, accompagnato dalla moglie e
dal nipote Antonio, probabilmente il 22 aprile 1762.
Non prende subito la direzione di Parigi, ma va a
Bologna, dove si ammala e dove scrive il libretto
La bella Verità. Poi si reca a Modena, per sistemare
alcuni affari col notaio, si ferma a Parma,
probabilmente per migliorare il suo francese, passa
per Piacenza e Genova perché sua moglie, oriunda di
questa città, possa salutare la famiglia, prima di
entrare in Francia e invocare «l’ombra di Molière»
perché lo guidi (Mem. II, 46). Goldoni non vedrà più
l’Italia e vivrà trent’anni in Francia, il che ha
permesso di dire che sia stato l’unico scrittore italiano
ad aver vissuto due vite: una italiana ed una francese.
In questa seconda vita sarà inizialmente autore per la
Comédie-Italienne, poi, dal 1765, diventerà maestro di
italiano della principessa Adelaide, figlia di Luigi XV e
vivrà a Versailles fino al 1769. Tornerà a Parigi, dove
37
MYRIAM TANANT
«Che le Commedie mie abbiano
avuto un grato accoglimento
dagl’Italiani, l’ho attribuito al zelo
che hanno concepito, per il
decaduto nostro Teatro; e in grazia
del genio mio, che per il comune
compiacimento ed onore a faticar
mi ha spronato, perdonate ho
giudicato mi sieno tutte quelle
mancanze che nelle Opere mie,
per difetto di miglior cognizione;
pur troppo ho lasciato correre. Non
ho sperato che egual fortuna sortir
potessero fra le Nazioni straniere,
poiché consistendo più nel dialogo
che nell’intreccio la forza,
qualunque siasi, delle Commedie,
è necessaria una perfetta
cognizioni de’ termini, de’ sali,
delle sentenze e dei costumi di
quel paese, per cui sono state
scritte principalmente».
(Carlo Goldoni, Lettera dedicatoria
al Conte di Purgstall, Opere, III,
p. 569)
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
vivrà grazie ad una pensione di 3.600 lire, concessagli
dal re, e scriverà direttamente in francese due
commedie per gli attori del Théâtre Français, una
delle quali è il Bourru bienfaisant, rappresentata con
successo nel 1771. Dal 1775 al 1781 è di nuovo a
Versailles, dove insegna l’italiano alle sorelle di Luigi
XVI. Tornato a Parigi, scrive in francese, tra il 1784 e
il 1786, Les Mémoires de M. Goldoni pour servir à
l’Histoire de sa vie, dedicate al re, che verranno
pubblicate in tre tomi nel 1787 «Chez La Veuve
Duchesne, Librairie, rue Saint-Jacques, au Temple du
Goût». Infine si troverà in una situazione critica
quando, nel 1792, un decreto dell’assemblea
legislativa sopprimerà le pensioni concesse dalla corte;
morirà il 6 febbraio 1793. Il 7 febbraio, su proposta di
Marie-Joseph Chénier (fratello minore del poeta
Andrea Chénier, n.d.r.), la Convenzione Nazionale
ristabilisce la pensione, destinandola alla vedova. Il 18
febbraio, i Citoyens Acteurs du Théâtre national
daranno una rappresentazione del Bourru bienfaisant
in favore di Nicoletta Goldoni.
Non è ch’io non ami Parigi, ma mi pare di essere
fuori dal mio centro
A Lione, dopo un viaggio di quattro mesi, Goldoni
aveva trovato una lettera di Francesco Zanuzzi che, a
causa del suo ritardo, «conteneva alcuni rimproveri, a
dire il vero assai pungenti, ma non così energici come
avrei meritato». Ma, oltre ai rimproveri, la lettera
conteneva l’informazione che «alla Comédie-Italienne
si era unita l’Opéra-Comique, il nuovo genere aveva la
meglio sull’antico, e i Comici italiani, che erano un
tempo il fondamento di quel tipo di teatro, non erano
che elementi superflui in quest’altro» (Mem. III, 1).
Goldoni, fiducioso nella capacità dei suoi compatrioti
di raccogliere questa sfida, non misurò subito la
portata di tale novità. Arrivando a Parigi, che scopre
con entusiasmo, viene ben accolto dagli attori italiani
e francesi, che fanno a gara per invitarlo. Seguendo la
propria abitudine di scrivere in funzione del carattere
e delle capacità degli interpreti, Goldoni prende in
affitto un appartamento vicino alla Comédie, installata
38
Frontespizio dei Mémoires,
pubblicati in tre tomi in Francia,
nel 1787.
Sopra, frontespizio de Il burbero
benefico (Le bourru bienfaisant),
pubblicato nel VIII tomo
dell’edizione Zatta, Venezia, 1789.
nell’ex-Hôtel de Bourgogne, «per poter meglio
conoscere gli attori della Comédie-Italienne». Ha
come vicina Madame Riccoboni, alla quale si rivolge
per avere informazioni preliminari sugli attori (Mem.
III, 2). A parte Zanuzzi, Goldoni conosce già
l’eccellente Pantalone Collalto, «attore nell’animo»,
con cui aveva lavorato a Venezia.
La troupe annovera tra gli altri il Dottore Federico
Rubini, lo Scappino Luigi Ciavarelli, “Camille”
Giacomina Veronese la soubrette della troupe,
eccezionale tanto nelle parti comiche quanto nelle
scene commoventi, la Prima e la Seconda Donna,
Elena Savi e Maria Anna Piccinelli, quest’ultima
anche grande cantante. Ma c’è soprattutto «il preferito
del pubblico» l’Arlecchino Carlo Bertinazzi, detto
Carlin, «che aveva saputo guadagnarsi così bene il
consenso della platea che le si poteva ormai rivolgere
con una facilità e una familiarità che nessun altro
attore si sarebbe potuto permettere» (Mem. III, 3).
Goldoni dispone dunque di una troupe interessante e
variegata, ma il suo repertorio lo sorprende: «i miei
cari compatrioti non facevano che rappresentare
commedie assai logore, commedie all’improvviso di un
genere pessimo, quel genere che io avevo riformato in
Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci penserò io a dare
caratteri, sentimento, progressione, condotta e stile»
(Mem. III, 3). Quando espone il proprio progetto alla
troupe, alcuni dei suoi elementi rifiutano di seguirlo.
In particolare Arlecchino e Scappino, che sono
diventati le colonne della Comédie-Italienne e che
temono di perdere il favore del pubblico, conquistato
a forza di lazzi. È vero che la critica goldoniana
recente tende a sottolineare che Bertinazzi era un
attore pronto invece a sperimentare nuove strade.
Tuttavia il successo dei due Zanni proveniva anche
dal fatto che erano i soli a recitare in francese di
fronte a un pubblico che capiva sempre meno, se pur
lo capiva, l’italiano. Problema, e non piccolo, che
dovrà affrontare il drammaturgo, che farà dire ad uno
dei suoi personaggi in una delle sue future commedie
che un autore italiano non riuscirà mai, se scrive nella
propria lingua, a riempire il teatro. E d’altra parte
39
MYRIAM TANANT
Frontespizio de Il ventaglio,
pubblicato nel IV tomo
dell’edizione Zatta, Venezia, 1789.
Sopra, frontespizio de Gli amori
di Zelinda e Lindoro, pubblicato
nel III tomo dell’edizione Zatta,
Venezia, 1788.
40
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
scriverà a Francesco Albergati: «Le donne franzesi non
intendono l’italiano, e quando al teatro mancano le
donne scarseggiano ancora gli uomini. Bisogna ch’io
procuri di obbligare questo sesso difficile; per farlo,
bisogna interessarlo, e come? Con delle novità, con
dei spettacoli, e con molto franzese». Prima di
cominciare a scrivere, Goldoni vuole concedersi il
tempo di capire, di osservare quello che piace al
pubblico parigino. Nonché il tempo di osservare quel
mondo che sembra sfuggirgli: «Parigi è un mondo.
[…] Ma più andavo avanti più mi trovavo confuso di
fronte ai ranghi, alle classi, ai modi di vita, alle diverse
maniere di pensare. Non sapevo più chi fossi, che cosa
volessi, che cosa stessi per diventare. Il turbine mi
aveva completamente inghiottito, mi rendevo conto di
aver bisogno di tornare in me, ma non ne trovavo o
per meglio dire non ne cercavo i mezzi» (Mem. III, 3).
Dopo quello che sembra essere un momento di crisi
di identità, si riscuote e propone per il proprio debutto
una commedia scritta interamente in italiano, L’amore
paterno, che riesce a far accettare agli attori.
Bellissima pièce, nella quale parla, in forma allegorica,
del suo progetto per la Comédie-Italienne e dei
difficili rapporti tra lui, nuovo arrivato, e gli attori
italiani già noti. Pantalone - parte molto elaborata che
scrive per Collalto - che viene a Parigi con le sue due
figlie, una poetessa e l’altra musicista, serve di
supporto alla sua identificazione come già gli era
servito Anzoletto. Dice del resto nella prefazione:
«Tu mi vedi, lettor carissimo, passato d’Italia in
Francia. Conoscerai dalla commedia ch’io ho scritto
per un paese a me nuovo, e che ho cercato in qualche
scena di produr me medesimo per implorare
quell’indulgenza, che io sapea di non meritare».
Per Bertinazzi scrive una parte di Arlecchino odioso e
misantropo: un contre-emploi, poiché il talento di
questo attore era fatto di grazia, allegria e agilità.
La commedia è interessante anche perché presenta,
nella struttura (una commedia breve come lo richiede
l’uso francese) e nelle scelte linguistiche, almeno nella
versione pubblicata (un italiano semplificato, quasi
astratto, perché risulti comprensibile al maggior
«Per me nessun Personaggio è
inutile. Ciascheduno ha qualche
carattere particolare, che può
servire al Teatro; chi più, chi
meno, egli è vero, ma i mezzi
caratteri son necessari ancora,
come le mezze tinte ai Pittori. (...)
Il male si è che regna ancora fra
alcuni di tal mestiere la
pretensione del primo luogo, onde
ne avviene che si rovinano da loro
stessi. (...) Chi va al Teatro e
spende il suo denaro per aver
piacere, non è impegnato a
sostenere il grado degli Attori, ma
il merito: e se può accorgersi che
per causa de’ loro puntigli abbiano
i Commedianti distribuita male una
Commedia, s’arrabbia contro di
loro e li maledice».
(Carlo Goldoni, L’autore a chi
legge, Opere, IV, pp. 7-9)
numero possibile di persone), alcuni segni dell’esilio.
Essa non ebbe un gran successo, nonostante Goldoni
avesse preso la precauzione di scriverne un estratto e
di farlo tradurre in francese. Dopo questo insuccesso,
gli attori non vollero più sentir parlare di commedie
scritte, e pretesero delle commedie a canovaccio, che
Goldoni si risolse a scrivere: «Non si può dire, però,
che i divertimenti mi abbiano impedito di compiere il
mio dovere: nello spazio di quei due anni apprestai
ventiquattro commedie. […] Di tali commedie, otto
furono affidate al teatro e mi costarono più fatica così
che se le avessi scritte per intero. Non potevo piacere
se non a forza di situazioni interessanti, di un comico
preparato con arte e al riparo delle fantasie
improvvisate dagli attori» (Mem. III, 4). Affermazioni
che fanno pensare che Goldoni sperimenti e inventi
piegandosi a quel teatro d’attore senza rinunciare alla
propria creatività. Alcuni di quei canovacci servirono
da materiale per l’elaborazione di commedie scritte
che Goldoni continuava a mandare a Venezia.
Tra queste, Il ventaglio e la Trilogia di Zelinda e
Lindoro, che rappresentano rispettivamente gli esempi
più compiuti delle due strade che Goldoni, come ha
dimostrato Ginette Herry, ha esplorato e tentato di
rinnovare a Parigi: la strada dell’imbroglio, caricato di
memoria affettiva, e quella del serio e del patetico che
sfocia nella trasformazione della commedia di
carattere in studio psicologico. La Trilogia di Zelinda
e Lindoro venne elaborata a partire dalla Trilogie des
aventures de Camille et Arlequin, scritta per la
Veronese e per Bertinazzi: il solo vero successo di
Goldoni al Théâtre Italien. «Finalmente ho ottenuto a
Parigi tutto quel piacere e tutto quell’onore ch’io
poteva desiderare - scrive a Francesco Albergati il 3
ottobre 1763 - Voilà ma seconde année commencée on
ne peut mieux. Oggi ho dato al pubblico una mia
commedia intitolata Les amours d’Arlequin et de
Camille. Questa ha avuto un incontro sì universale e sì
pieno, che ora posso dire che la mia reputazione è
stabilita a Parigi. Mi avevano dato due anni di tempo
per cercare la via di piacere; l’ho trovata a metà del
cammino. Ella sa che i Francesi amano di piangere
41
MYRIAM TANANT
Frontespizio dell’edizione Pasquali
di tutte le opere goldoniane,
pubblicata a Venezia nel 1761.
42
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
alle tragedie, e non sono persuasi del patetico delle
commedie. A questa mi hanno riso ed hanno pianto
con egual piacere». Goldoni pensa con soddisfazione
che le sue tre commedie a canovaccio che
compongono questa trilogia (Les Amours d’Arlequin et
de Camille, La Jalousie d’Arlequin e Les Inquiétudes
de Camille) abbiano sensibilizzato i francesi alla
commistione del comico col patetico, abbiano acuito
la loro curiosità con «una sorta di romanzo comico»,
e gli abbiano permesso di farsi «a forza di situazioni,
di accidenti, di pantomimo, di verità, di natura,
d’interesse» intendere da coloro che non capivano
l’italiano, e di riportare in
questo modo il pubblico
alla Comédie-Italienne.
Ma Goldoni, in quanto
autore, resta tuttavia
insoddisfatto e lo esprime
in un’altra lettera a
Francesco Albergati (10
gennaio 1764): «Ora le
dirò che anche la terza
commedia inseguito delle
due suddette, cioè
L’inquiétude de Camille,
ha incontrato
estremamente onde ecco
con tre commedie
stabilita la mia
riputazione a Parigi. Ora
per questa parte sono
contento, ma se potessi
partirei domani per
rivedere l’Italia. Non è
che io non ami Parigi, ma
mi pare di essere fuori dal
mio centro, ed è assai
difficile di continuar
senza farmi intendere col
dialogo ed a forza di
situazioni, o ridicole, o
patetiche, o interessanti.
La Cosa è troppo faticosa e troppo incerta». La
scontentezza di Goldoni deriva anche dal crescente
disaccordo con gli attori, come lo attestano altre
lettere sempre a Francesco Albergati (16 aprile 1764 e
3 dicembre 1764), nelle quali allude al fatto che gli
attori italiani, sempre più impertinenti nei suoi
confronti, l’hanno quasi costretto a lasciare Parigi: «ho
sofferto assai; finalmente, vedendo che chi comanda
non sa, o non vuole mettergli freno, ho domandato il
mio congedo per Pasqua». Finalmente liberato dagli
attori, come dice lui stesso, riceve la proposta di
diventare professore di italiano a Versailles.
«Chi fa il Poeta Comico per
professione, di tutto dovrebbe
essere infarinato. Arti, scienze,
professioni, costumi, leggi, nazioni:
tutto può essere soggetto di
Commedia, o per deridere il vizio,
o per esaltar la virtù, che il buono
ed il cattivo di ciascheduna cosa
costituisce. Io sono ignorante di
tutto, e se fosse vero che di tutto
sapessi un poco, sarebbe anche
verissimo che niuna cosa
perfettamente saprei. Nelle mie
Commedie non sfuggo l’incontro di
ragionare di tutto, in quella
maniera ch’io farei se fossi in un
caffè, in una conversazione:
qualche cosa si dice per aver letto,
alcuna se ne dice per averla
sentita dire. (...) Chi pratica, chi
osserva, e non è un ceppo, trova
gli argomenti a bizzeffe».
(Carlo Goldoni, L’autore a chi
legge, Opere, IV, p. 75)
Aspiravo a scrivere una cosa in francese
Arrivando a Parigi, Goldoni aveva visto una
rappresentazione del Misantropo di Molière alla
Comédie-Française ed aveva ammirato molto
l’interpretazione degli attori. Da allora sognava di
vedere una delle sue commedie rappresentata da loro.
Ma c’era in lui anche il desiderio di vedersi
riconosciuto anche da coloro che non sapevano
l’italiano. Per questa ragione, infatti, non può
dimostrar loro, attraverso la lettura del suo teatro,
di occupare un posto tra gli Autori drammatici.
È animato, probabilmente, anche dalla volontà di
rispondere a Diderot, «il solo scrittore francese che
non mi abbia onorato della sua benevolenza» (Mem.
III, 5). Il filosofo conosceva l’italiano ma, furioso con
Goldoni da quando Fréron l’aveva accusato di aver
plagiato Il vero Amico, aveva scritto nel suo Discours
sur la poésie dramatique che tutto ciò che Goldoni
aveva composto era una sessantina di farse. Quando
arriva a Parigi, Goldoni parla e legge il francese; ma lo
conosce abbastanza da poter creare più di qualche
battuta come ha fatto in Una delle ultime sere di
Carnovale? Niente è meno sicuro, come fa supporre
ciò che scrive nei Mémoires: «Il mio orecchio non si
era ancora familiarizzato con la lingua francese, molto
mi sfuggiva nelle conversazioni in società e ancor più
a teatro» (III, 5).
Però va a teatro per istruirsi, afferma di imparare
anche dalle sue nobili allieve a Versailles e frequenta
43
MYRIAM TANANT
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
Accanto, frontespizio del copione
manoscritto per il suggeritore
de L’avare fastueux, rappresentato
nel 1776 a Fontainebleau.
A destra, frontespizio de L’avaro
fastoso (L’avare fastueux),
pubblicato nel IX tomo
dell’edizione Zatta, Venezia, 1789.
volentieri le società letterarie, dove incontra «persone
che conoscevano perfettamente la loro lingua» (Mem.
III, 10). Fa indiscutibili progressi, come dimostra il
suo tentativo di comporre, su invito dei musicisti,
l’opera comica La bouillotte, anche se deve
rinunciarvi, perché «finchè si trattava del dialogo me
la cavavo discretamente, e mi credevo in grado di
arrischiare la mia prosa in un teatro in cui il pubblico
era indulgente nei confronti degli stranieri. Ma in
un’opera buffa occorrevano anche le ariette e
bisognava comporre bei versi per una buona musica.
Conoscevo il meccanismo dei versi francesi; avevo
superato tutte le difficoltà che inevitabilmente
incontra l’orecchio di uno straniero e mi ero proposto
buoni modelli da imitare. […] Vidi che la mia musa
agghindata alla francese non aveva l’estro, la grazia e
la facilità che un autore acquisisce in giovinezza e
perfeziona nella maturità».
44
Perché allora Goldoni non traduce una
delle sue commedie? Perché non crede
alla traduzione. Afferma infatti che
bisogna creare e inventare: tanto vale
allora scrivere qualcosa di nuovo. È in
occasione delle feste che
accompagnano il matrimonio del futuro
Luigi XVI con Maria Antonietta che
Goldoni trova il coraggio di accettare la
sfida e scrive il Bourru bienfaisant per i
Comédiens Français. Rousseau, cui
Goldoni vuole sottoporre la commedia,
gli risponde stupito che non ci si mette
a scrivere in un’altra lingua alla sua età.
La risposta di Goldoni nei Mémoires è
senza appello: «Non solo ho composto
la commedia direttamente in francese,
ma anche pensavo alla francese quando
l’ho concepita: essa porta l’impronta
della sua origine nelle idee, nelle
immagini, nei costumi, nello stile»
(Mem. III, 16). Rappresentata per la
prima volta nel 1771, la commedia
ebbe un successo enorme, e non solo in
Francia. In Germania acquisì una tale fama che
Goethe cita nel Wilhelm Meister la prima scena tra
Geronte e Angelica, senza neanche precisare il nome
dell’autore e il titolo dell’opera. La seconda commedia
scritta in francese, L’Avare fastueux, che, dopo una
prima lettura gli venne rimandata perché vi apportasse
delle correzioni, fu recitata in condizioni difficili nel
1776 di fronte alla corte. Venne accolta in modo tanto
glaciale che Goldoni la ritirò, sperando in una ripresa
meglio preparata, che non si dette mai.
Goldoni, sappiamo, ha scritto anche i suoi Mémoires
in francese. Sono una costruzione romanzesca le cui
tre parti appartengono a tre diversi generi: il
Bildungsroman (romanzo di formazione, n.d.r.),
l’esercizio poetico e il racconto di viaggio.
Naturalmente non bisogna cercarvi la verità obiettiva,
bensì una verità interpretata da un artista che, alla
fine dell’esistenza, cerca di fissare frammenti di vita e
45
MYRIAM TANANT
LA SECONDA VITA DI CARLO GOLDONI
di quell’effimero eterno che è il teatro. Bisogna anche
tener conto del fatto che Goldoni, ottuagenario, fa
confusione con le date, si perde talvolta nei meandri
della memoria e tace certi avvenimenti, soprattutto
nella terza parte, che riguarda «la vicenda della mia
emigrazione in Francia»; e questo tanto più che il
testo è dedicato al re di Francia Luigi XVI. Nella
prefazione l’autore spiega che «già bisogna pur
informare i posteri del fatto che solo in Francia
Goldoni ha potuto trovare riposo, calma e tranquillità,
e che ha terminato la carriera con una commedia
francese, la quale ha avuto la fortuna di riscuotere
successo sulle scene di quella nazione». Eppure, in
certe allusioni tra una frase e l’altra, si capisce la
difficoltà dovuta al fatto di essere straniero.
Soprattutto negli episodi che riguardano i suoi
soggiorni a Versailles, nei quali ripete continuamente
che sta alla corte, è vero, ma non è un cortigiano.
Tuttavia, come segnali alla posterità, Goldoni inserisce
dei micro-racconti nel racconto, come il riassunto
di un libretto che scrisse per Venezia, I volponi, in cui
appare un’altra realtà: «Nel corso del 1777 mi venne
chiesta per Venezia una nuova opera buffa; mi ero
proposto di non scriverne più, ma pensando che quel
lavoro mi sarebbe stato utile anche a Parigi,
acconsentii a soddisfare i miei amici e composi
un’opera che potesse piacere egualmente all’una e
all’altra nazione; il suo titolo era I volponi.
Si trattava di cortigiani gelosi di uno straniero; gli si
facevano molte cortesie per divertirlo, ma si
tramavano cabale contro di lui per rovinarlo» (Mem.
III, 26). Sullo sfondo della nostalgia dell’Italia, il
libretto sviluppa una forte accusa contro la vita di
corte, la sua ipocrisia e la sua violenza. Il personaggio
di supporto all’identificazione qui è Girardino,
veneziano, che si distingue dai cortigiani per la sua
ingenuità e la sua bonomia.
La terza parte dei Mémoires riserva ampio spazio al
dibattito sulla musica che agitava Parigi e che aveva
come protagonisti i sostenitori di Piccinni e quelli di
Gluck. Tratta anche della vita musicale in genere, alla
quale Goldoni, librettista prolifico e di fama europea,
46
si interessa; ma in questa terza parte non mancano
approfondimenti critici sulla vita teatrale con, a volte,
giudizi severi, come quelli che Goldoni esprime, pur
riconoscendo il suo straordinario successo, sulla pièce
di Beaumarchais Il matrimonio di Figaro. Goldoni
delinea un quadro di Parigi dove descrive il fermento
della vita culturale e mondana alla quale lui stesso
partecipa, ma anche i luoghi, come il giardino delle
Tuileries, dove ama passeggiare, e il giardino del
Palais Royal, alla trasformazione del quale assiste in
prima persona; senza dimenticare tutte le notizie che
riguardano la costruzione di nuovi palazzi o di nuovi
teatri. E, in conclusione, alcuni passaggi dedicati
all’organizzazione della pubblica sicurezza, della
circolazione, del mondo del lavoro rivelano che la sua
capacità di osservazione e la sua curiosità non si
limitano al proprio universo personale: ne fanno un
vero e proprio rappresentante dell’epoca dei “Lumi”.
Questo testo costituisce anche una testimonianza sulla
vita degli italiani a Parigi nel XVIII secolo e sui
rapporti, stimolanti ma a volte difficili, che hanno con
i francesi. Si tratta anche della storia dell’integrazione
di Goldoni nella sua nuova patria, uno scrittore in
esilio volontario che guarda con nostalgia la terra
d’origine: un tema che attraversa anche le undici
commedie scritte in Francia dal drammaturgo
veneziano. Anche se compone in francese le sue
ultime opere, Goldoni tuttavia non dimentica la lingua
italiana. Scrive: «Felice di stare in Francia, di tanto in
tanto mi piace conversare con persone della mia
nazione o con francesi che parlano l’italiano - e
ancora - La nazione francese mi è oggi cara tanto
quanto la mia, ed è per me un piacere quando
incontro francesi che parlano l’italiano» (Mem. III, 24).
47
Carlo Goldoni (1707-1793)
L’amore per il teatro fu trasmesso
a Carlo Goldoni - nato a Venezia il
25 febbraio 1707 - dalla sua
stessa famiglia di origine
modenese: dal nonno, dalla
madre e, soprattutto dal padre,
il quale era solito organizzare a
Perugia spettacoli filodrammatici
durante le pause della sua
professione di medico.
A Perugia il ragazzo, che aveva già
recitato ed anche scritto giovanissimo - qualche scena,
compì gli studi inferiori presso
i Gesuiti, ma poi non volle seguire
la carriera del padre. A Rimini,
poco più tardi, invece di recarsi
alle lezioni di filosofia si unisce a
una compagnia di comici in un
avventuroso viaggio fino a
Chioggia. Infine si decide a
iscriversi alla facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di
Pavia: da allora la legge e il teatro
saranno i due interessi di Goldoni,
ma sarà il secondo a dominare.
Da Pavia, però, viene presto
espulso per una satira giudicata
irriguardosa: così accetta un
incarico presso la Cancelleria
criminale di Chioggia e soltanto
nel 1731 si laurea a Padova dopo
la morte del padre. I suoi primi
lavori teatrali spaziano nel campo
del melodramma e della tragedia
musicale: fallito un tentativo a
Milano, ottiene a Venezia, con
un’opera dal titolo Belisario, un
discreto successo, valido se non
altro ad aprirgli le porte
dell’ambiente teatrale. Nel 1734
Goldoni diviene poeta ufficiale
Ritratto di Carlo Goldoni
(pastello su carta da un’incisione
di Lorenzo Tiepolo e Marco Alvise
Pitteri).
della compagnia Imer e negli anni
successivi le sue esperienze si
moltiplicano: conoscenza del
mondo del teatro e consapevolezza
dei casi della vita attraverso una
serie di esperienze in diverse città
(nel 1736 sposa a Genova
Nicoletta Connio, che rimarrà la
sua inseparabile compagna).
Nel 1748 firma con la compagnia
Medebach un regolare contratto
come poeta ufficiale; comincia
così il periodo più fecondo della
sua vita, ma già tre anni innanzi
aveva scritto Il servitore di due
padroni, il cui canovaccio iniziale
venne più volte modificato e
precisato fino alla forma definitiva:
l’Arlecchino venne rappresentato a
Milano dalla compagnia Sacchi nel
1747. Goldoni si avviava alla sua
decisiva “riforma” teatrale,
testimoniata dalla stesura della
commedia Il teatro comico (1750)
e da altri scritti non di carattere
drammatico: un “no” radicale alla
tradizione erudita e pomposa del
Seicento, cioè al teatro aulico ed
eroico, e allo stesso tempo alla
tradizione della Commedia
dell’Arte, divenuta puro gioco
comico basato sui lazzi e le
buffonerie gratuite, legato
all’improvvisazione arbitraria
dell’attore. D’ora innanzi,
attraverso la sua riforma, Goldoni
cercherà di cogliere, senza
pregiudizi e falsificazioni, l’umanità
vera, svilupperà la commedia di
costume senza mai abbandonare
una spontanea simpatia per il
popolo, fino a giungere ad una
osservazione ironica e critica della
società del suo tempo.
Con Medebach, al teatro
Sant’Angelo, rimane cinque anni,
per poi passare al San Luca col
Vendramin dove rimane altri nove
anni, ottenendo molti successi ma
divenendo anche oggetto di
accanite polemiche da parte degli
avversari che rifiutano le sue
innovazioni. Infine, nel 1762,
accetta l’invito della Comédie
Italienne di Parigi e si allontana
per sempre da Venezia e
dall’Italia. In Francia - dove scrive
peraltro Il ventaglio - diviso tra
Parigi e Versailles, rimane fino alla
morte (6 febbraio 1793), un buio
periodo di scontento, malattia e,
alla fine, povertà.
Del volontario esilio francese
rimangono, come maggior
risultato, i Mémoires, la sua
autobiografia di uomo e di artista.
Le commedie di Goldoni sono
circa centoventi, ma molte
risultano occasionali o scritte solo
per soddisfare certe esigenze di
repertorio delle compagnie presso
le quali egli operava. I suoi
capolavori si collocano quasi tutti
intorno al decennio “fortunato”
dal 1750 (anno al quale risalgono
anche le famose sedici commedie
che egli scrive per sfida) al 1760:
La putta onorata, La locandiera,
Il campiello, Sior Todero brontolon,
I rusteghi, La trilogia della
villeggiatura, Le baruffe chiozzotte
e, rappresentata proprio alla vigilia
della sua partenza per Parigi, Una
delle ultime sere di Carnovale.
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