Montellik
L’amore alle spalle
Tredici storie di amore proibito
Indice
Introduzione
………………………………………………… 3
Caro diario
………………………………………………… 4
L’amico Fritz
………………………………………………… 7
La gatta col topo ………………………………………………… 10
Rosanna
………………………………………………… 11
Linda
………………………………………………… 15
Simona
………………………………………………… 17
Latin lover
………………………………………………… 20
Stella lìlùlà
………………………………………………… 25
Azzurro arancio ………………………………………………… 28
La prof
………………………………………………… 31
Black out
………………………………………………… 34
Laura
………………………………………………… 37
Ornella
………………………………………………… 40
Note
………………………………………………… 43
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Introduzione
Ho scritto di questi amori alle spalle perché é con le donne che ho iniziato a conoscermi.
Con loro sono andato in crisi e grazie a questo sono in crescita e vivo meglio. Le donne sono le
compagne di viaggio più care e migliori che ho, dal mio primo vagito all’ultimo appena fatto dopo
aver mangiato i tagliolini passati al forno di mia sorella, che erano una delizia, ho concesso anche
il bis. Ho iniziato dai fallimenti in amore perché è tra le loro macerie che ho visto le prime pepite
d'oro del vivere in pace, scintille periferiche della miniera senza fondo che è dentro di me e da cui
estraggo avidamente la mia fortuna. Ho scritto per sete di bellezza e prosperità . Raccontando
queste storie vedo che la vita, anche quando sbagliavo gli amori, era più bella di quanto mi
accorgessi, e ora che l’amore e la pace sono al sicuro, ne vivo tutta la prosperità .
Un ragazzo di diciassette anni andò da Maometto e gli disse che era disposto a combattere e
morire per la causa dell'Islam. Il profeta gli chiese se sua mamma fosse viva, e il ragazzo rispose di
si. Vai a casa da lei, disse allora il maestro, perché il paradiso é ai piedi delle donne.
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Caro diario *
Il primo tradimento in amore arrivò nel 1978 per grazia di Cristiana, che è stata una delle donne
più importanti della mia vita e, credetemi, non me l'aspettavo. Lei aveva diciassette anni ed io
ventiquattro.
Una sera, nel mio studio, parlavamo sdraiati sul lettone nel soppalco quando un tonfo attirò la nostra
attenzione. Guardammo giù ed era caduta la borsa di Cristiana, da cui spuntava un libretto rosa e
lucido che mi incuriosì.
– Cos'é?
– E’ il mio diario.
– Hai un diario?
– Sì.
– E cosa ci scrivi?
– Quello che mi capita, le cose che faccio, niente di speciale, è per passare il tempo.
Raccolsi la borsa e mentre stavo per rimetterci dentro il diario le chiesi – Posso leggerlo?
Lei molto tranquillamente rispose – Sì. Se vuoi.
Cominciai dall’inizio. Non volevo sapere i fatti suoi ma solo conoscerla meglio e vedere come si
esprimeva, magari a modo suo era un’artista. Non ricordo più cosa ci fosse scritto. Ricordo dei
disegnini e delle frasi adolescenziali dove non c’era nulla di artistico, ma andavo avanti sperando di
trovare interessante quello che scriveva.
Poi qualcosa mi colpì quando lessi il nome di Alceo. Alceo lo conoscevo bene. Faceva ginnastica
artistica e a undici anni era già stato campione italiano.
* Un disegno tra tanti di quel periodo con Cristiana come modella
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Era un po’ basso ma molto carino, e con un gran fisico. Aveva un certo fascino e girava con una
vecchia Mercedes, che allora faceva molto figo. Lo conoscevo dai primi anni 70, da quando ci
trovammo a un ritiro collegiale a Roma, lui nella ginnastica artistica e io nella lotta greco romana. Ci
si incontrava di quando in quando, non eravamo proprio amici, e Cristiana allora non era la mia
ragazza.
Le dissi – Lo conosco bene, siamo amici.
Lei rispose tra i denti – Si, me l’ha detto.
Continuai a sfogliare il diario e dopo qualche pagina rispuntò il nome di Alceo.
Non ricordo lo scritto, ma il senso: si erano casualmente rincontrati. Ma non pensai a nulla di
strano, nella vita ci si rincontra spesso. Mentre continuavo a girare le pagine notai che Cristiana
cominciava a essere un po’ nervosa e, come vergognandosi, diceva – Dai chiudi, che tanto sono tutte
cose così, senza senso, tutte uguali.
Invece io ero incuriosito, perché Alceo era ormai in tutte le pagine, tra commenti affettuosi e
disegnini floreali. Dettagli così si capiscono al volo, ma la capacità di leggere tra le righe era ancora
nel mio senno di poi. Avvertivo in lei una specie di tremore interno che attribuivo alla sua timidezza,
non certo a un qualche timore. Perché mai avrebbe dovuto averne?
Continuai a leggere. “Alceo mi ha detto che se capito dalle sue parti mi fa vedere lo stereo che si è
comprato, e mi ha dato il suo indirizzo”.
Fine pagina. Dentro di me dissi – Ah, gli è simpatica – e girai il foglio. Lei mi guardava con gli
occhi spalancati e le labbra tra i denti, e rompendo gli indugi disse – Dai basta, non ti sei stufato di
leggere ‘ste sciocchezze?
E con la mano tentò di chiudere il diario.
– No, dai sono curioso.
Lei, alzando la voce – È tutto lì, non ho più scritto niente!
Ma non era vero, c’erano ancora pagine scritte, e nel foglio successivo il mio desiderio di essere
colpito fu finalmente esaudito, quando lessi: “Oggi mi sono incontrata con Alceo a Ravenna e mi ha
portato a casa sua a vedere lo stereo… abbiamo ascoltato la musica e parlato e sono stata tanto
bene e lui era molto carino e gentile e abbiamo fatto l’amore”.
Vidi la luce di un brivido, che attraversandomi la schiena andò a spegnersi nel buco del culo, e
un'immagine mi apparve dal buio: Cristiana in piedi a gambe aperte che mi invita accarezzandosi tra
il pelo. Vado verso di lei ma la schiena di Alceo mi si para davanti e ci va lui, e lei ci sta, le piace, e
penso – Ha fatto l’amore con lui e le è piaciuto. Non sono più speciale. E sono solo!
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Con quel pensiero chiusi il diario. Non feci nessuna scenata di gelosia. Non so se dissi qualcosa,
ricordo solo che non mi sentivo né vittima, né inquisitore. Stavo vivendo la realtà della vita, privo di
pensieri forti, e constatavo la cosa come un bambino, vedendone anche il buono. Vedevo il suo stato
d’animo, come mi si avvicinò garbatamente per non alimentare il dolore che pensava di avermi
inflitto. Mi accarezzava il petto per addolcirmi il dolore perché mi amava. Sentivo che mi voleva
sempre bene, non ero solo e niente mi era negato. Sicuramente io allora con Cristiana non ero carino
e gentile come lo era Alceo, sicuramente la davo per scontata. Dormivo. Ma ora ero ben sveglio e
desideravo anch’io essere carino e gentile con lei, perché non glielo facevo sentire da tempo e ora
capivo quanto fosse importante. Mi appoggiai con la schiena al muro e le braccia sulle cosce
svuotate di forza, e stavo lì.
Lei cominciò ad abbracciarmi e baciarmi e a stringermi con tanta tenerezza e premura, che lasciarmi
andare e abbandonarmi a lei fu la cosa più bella e saggia che avessi mai fatto.
Fu così che da lì a poco lei si inginocchiò davanti a me e mi slacciò i pantaloni con una sacralità dei
gesti che ancora mi incanta.
Me lo tirò fuori e io pensai – Mi ama ancora – e lo prese in bocca.
Credevo fosse iniziato un solito e sempre caro pompino, invece era qualcosa di più, era l’inizio del
bacio più bello di tutta la mia vita.
Sentivo la sua bocca come mai prima, e perfettamente ogni sensazione di caldo, l'umidità, la
pressione delle labbra. Tutto era avvolgente e leggero. Andava lenta, lentissima, e se avesse
diminuito la pressione di un milionesimo di niente, la nostra pelle si sarebbe staccata. Quel piacere
senza peso mi faceva sentire amato e mi rassicurava. Non c'era nemmeno l’ombra del rifiuto che
avevo temuto.
Ho sentito dire che l'esperienza della devozione viene da Dio e a lui torna. Se è così perché mai
passò da me, che comunque me la godetti, senza alcun merito? Solo Dio lo sa.
In fondo a quel ricordo l'orgasmo fisico c'è, seppur vago e sfocato, ma è il prolungato e costante
orgasmo dei miei sentimenti quello che ricordo veramente bene e con tutto il cuore. Non so quanto
durò, ma non persi neanche un istante di quella esperienza divina. Fu una ferita curata col nettare
degli Dei, più prezioso dell’oro, con la devozione.
E questo fu il corno suonato per me, un'esperienza che non auguro al mio peggior nemico.
Dopo alcuni anni la storia con Cristiana finì, ma non sono mai finiti i ricordi che ho conservato, ci
potrei scrivere un volume.
P.S. Ogni tanto si incantava, lo sguardo si fermava nel vuoto e stava lì per un po’ in compagnia del
niente, poi faceva un bel respiro e tornava, più calma e più bella.
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L’amico Fritz
Era di scena il 1980 quando tradii Fritz, il mio carissimo amico.
Questo mio amico, ora ex amico, dopo anni di vita da bar si fidanzò con Paola e dopo qualche anno
la sposò. Paola era una ragazza bionda dal corpo esile e ben fatto, e aveva due occhi grandi e
azzurri, non era una vera bellezza ma era piacevole e molto simpatica, e quando ancora oggi la
incontro provo per lei la stessa simpatia.
Io allora facevo la lotta greco-romana e vincevo spesso anche in campionati internazionali, perciò
ero sempre molto allenato e avevo uno splendido corpo da atleta. Forse era per questo che nella
comitiva anche Paola aveva un debole per me ma, a differenza delle altre, a un certo punto dal
debole passò al forte. Parlavamo spesso, scherzavamo, e una volta che tra amici e amiche si
guardava un filmino porno in Super8, lei, davanti a tutti, amico Fritz compreso, mi saltò addosso
scherzando e ansimando. Alcuni dei più svegli capirono che non era solo uno scherzo ma che
desiderava realmente fare un corpo a corpo con me.
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Avevo iniziato a frequentare un circolo dove si parlava del “Messaggio di pace”, ne ero molto preso
e ne parlavo a dismisura con tutti.
Paola mostrò un certo interesse, le piaceva fare cose assieme a me e cominciò a “venire in sala”,
così come chiamavamo le nostre riunioni. Io passavo a prenderla e lei era sempre più provocante,
ogni volta elegante e profumatissima. Il suo invito alla danza era sempre più pressante.
A Fritz dicevo – Non è una setta, vieni anche tu, non fare lo scemo, vedrai che non ti annoi.
E lui carino mi rispondeva – No, non me ne frega niente.
Speravo che con lui presente la cosa sarebbe stata sotto controllo, perché lei stava spingendo molto
tutte le sue bellezze contro di me e io cominciavo a sentire segni di cedimento, anche per via delle
fantasie che mi venivano sempre più spesso su noi due avvinghiati nel sesso proibito. Se le sirene di
Ulisse cantavano così, capisco perché volle essere legato al palo maestro, se una donna vuole un
uomo se lo prende.
Morale: Fritz non volle mai venire, mentre Paola tutte le sere era lì con me.
Una sera si presentò tutta truccata, con una piuma di pavone tra i capelli e un vestitino attillato che
le metteva in risalto ogni sua bella cosa, e dentro di me capii che quella sera avremmo saltato il
fosso.
Finita la riunione ci mettemmo in viaggio per il ritorno. Durante il viaggio sentivo la sua attesa.
Arrivati vicino all'ultimo incrocio prima di voltare verso casa sua, lei si girò per un attimo a
guardarmi mentre io continuavo a fissare la strada. Avrei svoltato o che cosa? All’incrocio rallentai e
lei guardò oltre il finestrino, verso la strada di casa spalancata. Con un brivido diedi gas e tirai dritto
in direzione di che cosa, e il sorriso sotto il naso le dilatò le narici. Per tutto il viaggio verso la
campagna non fece altro che sospiri e sorrisi silenti.
Capii più tardi che troppi anni di desiderio bruciante l'avevano portata fino a lì, con me, quella sera.
Pensavo – Tra poco ci toccheremo in un modo che da lì in poi tutto sarà diverso.
Andai in una casa abbandonata perfetta per noi. Fermai l’auto lontano da possibili occhi indiscreti,
spensi il motore e restammo così per un po’. Non ricordo le parole che scambiammo ma il senso era:
ecco, siamo già in una situazione da porci. Se ci vedessero direbbero che abbiamo fatto questo e
quello.
Ricordo che parlammo anche di lasciare perdere, di uscirne da eroi, come quelli che hanno detto di
no alle sirene, ma non giurerei che ci credessimo, perché nei suoi grandi occhi azzurri che mi
guardavano non c’era la minima indecisione sul da farsi e il suo profumo mi riempiva il naso, e io
non ero legato a un palo.
Ci baciammo e fu eccitante. Una magia disperse tutto quello che era superfluo in quel momento.
Ricordo la sua bocca, come la muoveva, sembrava che gustasse i sapori.
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Ricordo i suoi abbracci e quelli delle nostre lingue comprensibilmente biforcute.
Era chiaro che non potevamo scopare completamente, Fritz se ne sarebbe accorto, almeno credo.
Comunque sia, in noi c'era un tacito accordo, niente coso nella cosa per quella sera. Durante il bacio,
staccò la mano destra dall'abbraccio e a palmo aperto andò sul mio affare che maneggiò a regola
d’arte da sopra il tessuto. C’era solo una cosa da fare.
… ziiip...
Il suono magico vibrò nell’abitacolo, le sue dita si infilarono dentro la patta dei miei pantaloni e
l'inafferrabile era nelle sue mani. Le presi il viso tra le mani e ci guardammo. Era bello guardarsi in
silenzio mentre mi masturbava, ci demmo un bacio ansimante e nei suoi occhi vidi l'impazienza
trattenuta dalla timidezza, e allora le dissi – Uso le tre parole magiche?
La mia domanda spudorata allontanò la sua timidezza. Fece si con la testa, l’impazienza salì e la sua
mano accelerò la risposta – Prendilo… in… bocca...
La piuma di pavone sussultò e mi accarezzò il volto. Ci avrà messo un istante a chinarsi ma per me
fu un viaggio. Per l'appetito che aveva e per l'incredibile senso di libertà che ci aveva presi, passai
un gran bel momento e potrei metterci la mano sul fuoco che fu così anche per lei.
Vedevo la penna di pavone che si muoveva su e giù con ondeggi laterali improvvisi. Avrei voluto
baciarla ma lei proprio non volle interrompersi, e quando sentì che stava per venire il mio momento,
la piuma di pavone decollò nell'aria, fece una giravolta e tornò giù. Ora la vedevo da dietro la piuma,
che vibrava esattamente su tutto il mio punto G. Era il momento dell'imprinting dei sensi, che si
sarebbe fissato nel nostro olimpo animale.
L'amante, la moglie, il mio migliore amico, una vera porcata, sapevo bene cosa stavo facendo e la
cosa mi eccitava. Per il bene che mi voleva Fritz non mi sarei sorpreso se, sapendo della nostra
attrazione, si fosse fatto da parte. Era da lui: i suoi amati che si amano.
Appena finito calò un silenzio assordante che amplificò ogni minimo rumore, lei con la testa sulle
mie gambe e io col mio ego che si ridimensionava al ritmo del respiro.
Mi interrogavo sul da farsi.
Poi finalmente lei si alzò e disse – Che bello!
Restammo ancora un po' lì abbracciati, fino a che da buoni strateghi decidemmo che era l'ora di
tornare. Il ritorno in macchina fu diverso dall'andata: eravamo appagati e complici.
Al rientro a casa trovammo gli amici e il marito che ci aspettavano, e ci chiesero come mai avessimo
tardato.
Dissi – E' che avevo voglia di un gelato e siamo andati a prenderlo.
Mi sentivo in difficoltà e Paola mi venne in soccorso chiedendo – Chi ne vuole?, e mise sul tavolo
una vaschetta di gelato già iniziata.
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– Questo é quello che resta, dai che si scioglie. Il suo aiuto funzionò, e fu in quel momento che
diventammo amanti. Fritz e compagni non ne lasciarono neanche un po'.
Lo guardavo mentre mangiava e pensavo: Cosa sono io?
Lei e Fritz poi si separarono, non per causa mia ma per gli effetti collaterali dell’esistenza.
P.S. Fritz...
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La gatta col topo
Il fatto è accaduto nel 1998 ma in questo caso non è ufficiale, nel senso che non fu trovata la
gatta col topo in bocca, ma lascio il giudizio a te lettore, dopo che avrò descritto il fatto per come è
accaduto.
Molti anni fa la mia casa era frequentata da studenti universitari, e uno di questi era Alessio, carino,
ventidue anni...
Mh. Ricomincio.
Mio cugino, sposato e ora divorziato proprio come me, anni fa mi raccontò questa sua esperienza
coniugale. Succedeva che da anni la sua casa – non la mia – fosse frequentata da studenti
universitari, e uno di questi era Alessio, carino, ventidue anni. Era corteggiato dalle ragazze – tutti
bazzicavano quella casa – e mio cugino notava che anche sua moglie era molto premurosa e gentile
con lui.
In quel periodo mio cugino stava facendo un lavoro in una villa a Ravenna, che lo teneva lontano da
casa per tutto il giorno.
Mio cugino sapeva che alcune mattine Alessio andava a casa sua ma non dava importanza alla cosa,
anche perché riteneva che nessun vincolo potesse impedire alle persone di fare ciò che gli sta a
cuore. Insomma, sapeva che sua moglie per Alessio aveva un debole ma era comprensivo.
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Una mattina al lavoro gli mancò una punta da trapano e tornò a casa a prenderla.
Entrò nel suo studio in cortile, dove teneva gli attrezzi, e quando uscì guardò verso le persiane e la
porta della cucina aperte. Se avesse visto sua moglie l'avrebbe salutata, ma non la vide e avendo
fretta andò via così. Tornato al lavoro si accorse però di aver preso la punta sbagliata e così ritornò a
casa di nuovo.
Uscendo dal suo studio per la seconda volta notò qualcosa di diverso: le persiane erano chiuse e
c’era una vecchia bicicletta nera appoggiata vicino all’uscio, chiuso anche quello.
Perché è tutto chiuso? si chiese, e ripensò all’ultimo ladro trovato in casa alle quattro del mattino. Di
ladri mio cugino era un esperto perché ogni tanto se ne ritrovava uno in casa. Una volta uno scappò
come un topo, un altro alzò le mani, ma la lista è lunga, meglio tornare ai fatti.
Mio cugino sapeva che ognuno è unico nell’agire, perciò questo che tipo sarebbe stato? Armato?
Feroce? Poi un brivido gelido: uno stupratore! Uno stupratore con sua moglie!
Gli si alzò il pelo sulla schiena. Si avvicinò alla casa camminando guardingo, non sentiva nessun
rumore provenire da dentro ma sentiva che c’era qualcuno. Sua moglie con la bocca tappata? La
ghiaia faceva rumore sotto i suoi passi, mentre si avvicinava alla porta della cucina. La aprì ed entrò
cauto con i nervi tirati.
La cucina era deserta.
– Chi c'è? – chiese a voce non troppo alta.
Si girò verso il tinello, fece tre passi e vide in penombra prima sua moglie e poi Alessio.
Lei era vestita carina e stava appoggiata con il gomito destro sul piano del comò. Guardò il marito
con indifferenza poi riportò lo sguardo su Alessio e gli fece un sorriso, come per riprendere un
discorso interrotto dalla sua entrata. Alessio era seduto sulla poltrona a due spanne da lei, anche lui
aveva visto mio cugino, e ora stava con gli occhi chiusi e tremava tutto come una foglia.
Sua moglie continuava a sorridere cercando di tranquillizzarlo ma Alessio invece di calmarsi e
riprendere il discorso interrotto, con grande coerenza continuava a tremare. Mio cugino guardò
stranito la strana situazione, non disse niente, uscì e tornò al lavoro.
La sera stessa lui le parlò della cosa e disse – Non ho bisogno di giustificazioni e neanche le voglio,
però ho visto, ho constatato i fatti, quelli che anche un bambino può leggere.
E lei – E no. Tu non hai visto proprio un bel niente, hai solo visto che eravamo lì, non ci hai visto
fare delle cose.
Oggettivamente aveva ragione lei, ma quello che lui non riuscì a esprimerle é che erano liberi di
dirsi la verità.
– Possiamo fare a meno di tutte queste commedie, non sono un bambino, lo sai. Siamo liberi,
possiamo essere veri e parlarci.
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Ma non si parlarono.
Comunque, dopo un po' di tempo i due si divisero e ognuno andò per la sua strada. Tra loro non
c’era più nulla di speciale, anche le bugie erano banali.
P.S. E pensare che lei la prima notte di nozze lo mandò a dormire sul divano, mio cugino.
Troppo banale, disse!
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Rosanna
Era l’estate del 1978 e stavo con Cristiana quando ebbi una mezza storia con Rosanna, che
conoscevo dal '71, ai tempi della mia prima ragazza Sabrina. Allora Sabrina ed io uscivamo spesso
la domenica con Rosanna e il suo ragazzo. Rosanna era molto bella, morbida, felina, con un buon
appetito per gli uomini, con i capelli neri a pagliaio, gli occhi scuri e le ciglia folte. Era una gran
fumatrice e a volte guardavo di nascosto le sue labbra carnose aspirare il fumo della sigaretta.
Un giorno nel bar si seppe che Rosanna fumava spinelli e io vietai a Sabrina di frequentarla. Era il
1974 e solo tre anni più tardi, grazie ad una canna, capii quanto fosse stato assurdo il mio
atteggiamento.
Col passare degli anni Rosanna continuavo a vederla perché lavorava nel bar che frequentavo. Era la
figlia del barista e quando la trovavo dietro al bancone ci facevamo grasse risate che attiravano
l'attenzione della fauna circostante, cosa che non mi era mai successa quando ero un moralista del
cazzo. Da quattro anni avevo aperto il mio studio di pittore e scultore, e gli amici ci venivano a volte
di giorno e a volte di notte. Ricordo che il 9 maggio del ’78, il giorno in cui uccisero Aldo Moro, ci
fu un tale sciopero generale che non si trovava un locale aperto a pagarlo oro, erano tutti chiusi, e
allora gli amici, e anche gente che semplicemente mi conosceva, cominciarono a venire da me, così
che in poco tempo lo studio fu pieno zeppo.
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Proprio nel mio studio un giorno d’estate arrivò Rosanna. Sentii il campanello di una bici che
suonava a tutto spiano e una voce familiare che mi chiamava – Franco… Francoo...
Mi affacciai e vidi il suo viso all'insù che mi aspettava. Proprio lei, dietro cui sbavano tutti nel bar,
era lì! Non mi era mai capitato di trovarmi solo con lei, al bar c'era un mondo di gente intorno, ma
ora eravamo soli e soprattutto senza morosi tra noi.
- Ciao Rosanna, che sorpresa!
- Ho visto l’ombrello sulla finestra.
L'ombrello lo agganciavo per fare ombra nel pomeriggio, quando il sole entrava nello studio, e senza
volerlo attirava l’occhio dei passanti.
- Vieni su?
Rispose aprendo le braccia - Siii.
Entrò nel corridoio e le andai incontro sul pianerottolo. La luce delle scale che stava salendo, era più
luminosa del solito. Ero emozionato che entrasse nel mio studio.
Si sedette? Non ricordo. Di cosa parlammo? Vattelapesca. Ricordo però che a un certo punto
eravamo sul lettone sotto alla finestra e che il sole le illuminava le dita, che magistralmente
rollavano una canna. Pensai a quando anni prima dissi a Sabrina di non parlare più con lei, la sua
amica del cuore, e realizzai quanto disagio avevo creato ad entrambe.
– Ti ricordi quando Sabrina smise di parlare con te, anni fa?
Lei annuì.
– Fui io a dirle di non parlarti più e mi sento così stupido per averlo fatto.
Pensavo che la cosa l’avrebbe turbata, che avrebbe spento un po' della sua luce, e invece,
sventagliando la mano, scacciò il mio senso di colpa.
La luce del sole la impreziosiva. La guardavo e mi mozzava il fiato, mi chiedevo se provandoci mi
avrebbe respinto, e avevo un po’ paura che potessi turbarla e interrompere quel bel momento. Perché
anche solo vederla, ascoltarla, annusarla e sfiorarla era bellissimo.
Ho visto molte donne belle, ma lei in quel momento oltre che bella era come una purosangue
selvaggia, imprendibile, che passava per la mia vita solo in quel momento, perché la sua energia non
la teneva mai ferma a lungo nello stesso posto.
Ma ci sono momenti dove la paura ti blocca e diventi di piombo. E quello era un momento simile a
quando, a tredici anni, volevo buttarmi nell’acqua alta dove non si toccava per vedere se galleggiavo
anch’io.
Mi butto! No, ho paura! Mi butto! No, affogo. Adesso mi butto. So che Morirò! Poi alla fine mi
buttai e mentre andavo a fondo per la spinta del tuffo, e pensavo che andando sempre più giù sarei
morto, una forza gentile e frizzante fermò l’affondamento e mi respinse su, a galleggiare.
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Ora si trattava di fare un tuffo in un mare dove con un NO affoghi e con un SI galleggi. Mi avvicinai
e prendendo coraggio la abbracciai. Lei si stese sulla schiena e io non affogai. Da sotto la grande
sottana aprì le gambe e disse – Ahh, si.
Parlava poco, la situazione non era adatta alle parole, ma quella che lei pronunciò in quel momento,
quel …si… accompagnato da un sospiro, per me fu il massimo. Nella mia testa i pensieri andavano
in tutte le direzioni. Le sono vicino. Mi vuole. Come è calda. Che buon odore. Come é buona. La
tocco lì.
Quando finalmente lo feci, toccai la figa più bella del mondo. Nel suo insieme la ricordo bella e
paffuta, con un sapore strepitoso, energetico, come appoggiare la lingua su una pila elettrica. Aveva
un sentore di frutti di bosco. Uhm, forse di muschio. Era meraviglioso. Mentre la gustavo in palme
di mano, pensavo: come faccio a mettere il cazzo qui dentro senza venire subito, non ce la farò mai,
lo so! Non solo lo sapevo, ma lo sentivo e lo vedevo pure. L'orgasmo era talmente in anticipo che
aveva già raggiunto il cupolone.
Allora faccio finta di niente e cerco di pensare a cose tristi ed avvilenti. Ma in quel momento trovo
erotiche anche quelle! Sono posseduto dall'Eros! E come avrei mai potuto smontarmi, con la bocca
attaccata all'ombelico magico di quella donna con gli occhi socchiusi e la bocca perfetta, che
finalmente potevo toccare e baciare, che era tutto un si e che rispondeva con lentezza e
accondiscendenza ad ogni mio movimento? Come fare?
Semplice, ti stacchi.
Ah.
Mi staccai da lei. Con la scusa di sfilarmi i pantaloni allontanai le nostre pelli, sperando di
raffreddarmi per evitare di tagliare il traguardo senza essere nemmeno partito. Rischiai molto,
perché nello sfilarmi i pantaloni avvicinai l'uccello alla sua faccia e lei con naturalezza aprì la bocca.
Fu un istante capire che non dovevo entrare in quel posto. Se ci entravo era finita. Lei credo lo intuì
e si sdraio sulla schiena, tirò su le gambe e l'abbondante sottana incorniciò il suo bacino, e con le
cosce e la fessura pronta iniziò a dondolare. Sembrava un fiore. Con le mani mi afferrò i fianchi e mi
spinse al centro delle sue gambe. Sapevo che non sarebbe durata molto ma resistere a quell‘invito
per ben due volte era un offesa, era rifiutare il paradiso anche solo per un istante.
Con i freni già saltati, le entrai tutto dentro in un unico affondo, uno di numero. Mi attaccai come
una calamita e spinsi a più non posso anche se più di così non si entrava, ma in ogni caso che bello
era spingersi dentro, un gusto irresistibile mi trascinava a farlo, e lei a quella pressione rispose con
una sola vocale, Oh, meravigliosa colonna musicale per il mio breve orgasmo.
Naturalmente, subito dopo mi sentii uno schifo perché non ero stato all’altezza, non l'avevo fatta
godere, e mi scusavo, mentre lei, ancora nell’onda calda, mi diceva senza parole – Va tutto bene.
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Le donne sono molto generose ma da poco tempo lo capisco. Sono un analfabeta dell’amore che
credeva di saperne scrivere di fino, ma in realtà sono solo agli inizi o quasi.
Con Rosanna non fui all’altezza di tanta grazia, per rapidità, certo, ma ancor di più per la mia trippa
mentale, ero troppo zuccone – un laureato nelle università dei bar – per cogliere tutto quello che mi
era stato offerto.
Quando ripenso a questa storia ho due sensazioni: una di grande fortuna, e l’altra di essermi perso il
grosso della festa. Quella fu l’unica volta che mi capitò un incontro così intimo con Rosanna.
La rividi due volte ancora, ma il campanello della sua bici non suonò più per me.
P.S. Quel giorno nel mio studio vide un caftano – bello, è tuo? Si spogliò e se lo mise, e le stava
bene, talmente bene che se ne andò via così.
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Linda
Nel 1972 avevo 18 anni e a fine anno ci organizzammo tra amici per passare la notte di
capodanno al mare, in un capanno di qualcuno che non conoscevo. Allora stavo con Sabrina, ma per fare
qualcosa di diverso, e con la speranza di esperienze sessuali nuove, scelsi di non passarlo in sua
compagnia.
Avevo saputo che ci sarebbe stata una ragazza, Linda, che lavorava in una lavanderia e che a quanto pare
si faceva smanacciare senza fare troppe storie, e la cosa …uhm. Non l’avevo mai vista prima, semmai
solo immaginata, e la conobbi quella notte al capanno. Il confronto con Sabrina era improponibile,
vinceva Sabrina dieci a zero, ma la voglia di novità a volte ti fa fare le stupidate più grandi senza
rendertene conto.
Quella notte faceva un gran freddo e non c’era il riscaldamento.
Cenammo, si fece mezzanotte, auguri e auguroni a tutti, e poi tutti gli accoppiati si ritirarono per
festeggiare il nuovo anno in disparte nelle altre stanze. Io rimasi con Linda nella stanza del cenone e,
così come le avevo proposto durante la cena, le feci un ritratto. Linda era mora, bassa e poco intrigante, e
diceva spesso òscia (òs-cia).
Attaccai con le chiacchiere, cosa fai, quanti anni hai, sei una bella ragazza, ti piace lo sci, eccetera.
Eravamo seduti su sedie di paglia uno di fianco all’altra, coi piedi tesi verso la parabola della stufa a gas
che ci scaldava solo fino al ginocchio. A me il freddo non mi dispiaceva ma lei era intirizzita e così,
mentre le mostravo il disegno, con la scusa di scaldarla la abbracciai.
Non volevo passare la notte di capodanno senza sesso, ne volevo almeno un po'. L'anno prima con
Sabrina ci facemmo degli auguri col triplo botto ma, anche se il paragone con lei era inesistente, un
fuoco artificiale lo volevo sparare lo stesso con un'altra, lo volevo a tutti i costi, era per me una cosa di
vitale importanza, una faccenda di vita o di morte.
18
Sentivamo provenire dalle stanze gli echi dei rumorosi amori delle altre coppie, e le chiesi – Hai freddo?
– Òscia, fa un freddo boia.
– Vuoi che ti scaldi di più? Lei scosse la testa.
– Dai, perché no?
Stette un po' in silenzio e poi disse – Non posso risponderti.
La tenevo abbracciata, e lei con la testa appoggiata alla mia spalla stava tutta rinchiusa nel suo
cappottone nero con la cintura in vita ben allacciata. Io ero vestito solo con una camicia di cotone
azzurra, attillata e aperta sul petto, pantaloni neri attillati e stivaletti col tacco.
La baciai e non ci mise niente a diventarmi duro, e i pantaloni attillati cominciarono a stringere in modo
insopportabile. Lei era ritrosa e non si lasciava andare, e più diceva no più aumentava la costrizione.
– E dai, non vedi che stai morendo di freddo?
Non c’era niente da fare. Allora decisi di tirare giù la lampo per liberare dal dolore il mio affare, che uscì
fuori baldanzoso.
– Cosa fai? Ho detto di no.
– Lo so, l’ho solo liberato un po’.
Lei tornò a guardarlo e disse – Òscia.
Non ricordo i discorsi, o forse non ce ne furono, ma da lì a poco la sua gelida mano si lasciò riscaldare
dal mio cazzo dritto. E con un certo stile. La scena l’ho ancora ben presente, molte ombre scure sui muri,
lei nel cappottone nero, le mie gambe dentro i pantaloni, i nostri volti vicini e la sua mano illuminata
dalla fiamma a gas. Io ne volevo di più.
– Dai scaldiamoci di più, non senti che freddo?
– No non mi va.
– Ma perché?
– Non posso dirtelo.
Quando venni lei non sbagliò un movimento e mi fece schizzare urbi et orbi nell’habitat circostante.
Mentre mi riallacciavo i pantaloni ora un po' meno stretti, le chiesi – Non sei pentita di non aver fatto
qualcosa di più?
Stette in silenzio per un po’ e poi disse – E’ lo stesso se non ti rispondo?
Non glie lo dissi ma era lo stesso. Solo adesso mi importa di quella risposta. Quella trasgressione
amorosa in se non fu niente di speciale, niente di ché, ma non so perché i ricordi di quella sera sono tutti
ancora ben distinti nella mia mente. Perché quel ricordo non svanisce come è successo con altri più
importanti? Dev'esserci ancora molto che non ho capito di Linda la lavandaia.
P.S. Il Decameron di Pasolini – e forse anche Linda – finiva chiedendo: perché realizzare un'opera
quando è così bello sognarla soltanto.
19
Simona
Nel 1974 stavo con Sabrina, che abitava davanti al bar che iniziai a frequentare proprio perché ci
abitava lei. Lì accanto lavorava una estetista che organizzava corsi per formare ragazze in quella
professione. Ogni tanto un nuovo gruppo di dieci, dodici ragazze iniziava a bazzicare il bar e
inevitabilmente ci si conosceva, e così una volta organizzai con una stagista qualcosa di trasgressivo
ma “ incompleto ” per ragioni di Stato.
Eravamo alla fine di Aprile del 1974 e io avevo 20 anni e un mese e mezzo. Il gruppo delle stagiste
era di Cesena, e in Romagna si dice che le donne più belle vengano proprio da lì. C’era una ragazza
veramente bella, mora, con i capelli lunghi, che mi faceva il filo e mi cantava spesso una
canzoncina: “… Tu il mio ragazzo diverrai...”.
Sapeva che io ero fidanzato con Sabrina e mi stuzzicava. Ma non fu con lei che scattò l'amore
clandestino, bensì con Simona, anche lei mora e un po’ robusta. Come succede con le cose
veramente eleganti, non la notai subito nel gruppo, non era rumorosa o appariscente. Col passare dei
giorni però il suo stile mi conquistò e finì che nel gruppo non vedevo che lei.
Ci vedevamo durante le pause caffè e il sentimento tra noi cresceva, non ce lo nascondevamo, ma
non potevamo certo abbracciarci lì davanti a tutti.
20
Lei sapeva che Sabrina abitava davanti al bar, vedeva quanto fosse carina e avesse un bel corpo, e
sopratutto quanto mi amasse.
Un giorno Simona parlando di Sabrina mi disse – Ah, se tu l'amassi veramente…
E mi guardò.
– Non starei qui con te? – le chiesi.
Lei ripeté – Se tu l'amassi…
Non sapendo cosa rispondere, dissi la prima cosa che mi passò per la testa – Ma no che non
l'amasso.
Lei batté le ciglia e scoppiò a ridere. Aveva una luce negli occhi adorabile mentre rideva, non
riusciva a smettere di ridere, e credo sia stato proprio in quel momento che accettò di vederci
segretamente e da soli. Nessuno doveva saperlo o accorgersene, e così andò. Ci accordammo per
andare in un capanno nella pineta di Marina Romea.
Ci andammo col mio cinquino bianco, verso le due del pomeriggio. Il capanno era un po'
sgangherato, ma c'era un odore muffito di resina e muschio che dava a quell'incontro un sano tono
animale. C’era un letto a castello scomodissimo, dove ci sedemmo accanto. Restammo seduti vicini
vicini. Lei aveva un capotto color nocciola che la costringeva un po’. Non era grassa, ma era
massiccia, forte, e a me le donne forti fisicamente sono sempre piaciute. Ma quando una donna mi
piace molto rischio la sindrome di Speedy Gonzales, l'orrenda eiaculazione precoce, e con lei
pensavo che non l'avrei scampata, mi piaceva troppo. Aveva una faccia buona da brava ragazza,
seria, di cui ci si poteva fidare, e per me questa cosa era affascinante, come dire, provavo un
sentimento di bene per lei, avevo voglia di abbracciarla, di esserle utile. Strano, ma era così.
E’ bello quando ci si accetta, quando ci si lascia avvicinare e ci si annusa e poi ci si bacia, è molto
intimo, delicato e intenso, e con lei iniziò così, nonostante lo scomodo letto del nostro castello. Era
bello tenerla abbracciata senza occhi intorno e poterle accarezzarle il viso, con quelle belle mascelle
forti e le belle labbra bacianti.
Poi non ricordo come fu, anzi ripensandoci si, ricordo. Lei era seduta sul bordo del letto e io su una
sedia, mi alzai e mi slacciai i pantaloni con un gesto lento e chiaro, così che se lei non avesse voluto,
avrebbe avuto tutto il tempo per farmelo capire. Mi guardava senza imbarazzo aprire i pantaloni e
liberare l'uccello. Lo presi in mano e glielo mostrai, e dovette farle tenerezza perché con la mano
iniziò ad accarezzarlo. Non mi veniva proprio duro, ma mentiva il vigliacco. Per quanto lei mi
piaceva avrebbe dovuto essere di marmo, e pensai che forse entrare un po' nella sua bocca lo
avrebbe risvegliato. Ma lei lo avrebbe fatto? Per capirlo dovevo solo avvicinarmi e vedere come
avrebbe reagito. Lo feci e lei aprì la bocca.
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Era così dolce e carina nel farlo, che io nel vedere quella bella testa di capelli e le sopracciglia nere e
quei lineamenti che cambiavano con il mio affare dentro, cosa posso dire, mentre si risvegliava le
venni in bocca e lei non fece una grinza. In quegli istanti, vedendo che le piacevo, il feeling che
provavo per lei diventò gratitudine. Le guardavo le labbra e le volevo un gran bene.
Però ci lasciammo con un senso di incompletezza e decidemmo di ritrovarci ancora per migliorare i
nostri rapporti personali e temporali. Ci accordammo per il martedì successivo, dopo tre giorni,
sempre lì nel capanno, e nel frattempo lei tornò a Cesena per il fine settimana. Già pregustavo il
prossimo incontro dove avrei goduto per più tempo di lei, non sapendo invece che lo Stato italiano
stava mandato tutto in malora.
Quando la sera tornai a casa trovai una cartolina che disponeva che il lunedì successivo, cioè tre
giorni dopo, dovevo trovarmi nella caserma del reparto carristi di Caserta per iniziare il mio periodo
di leva! LUNEDI’?! Ma martedì ho appuntamento con Simona! A tutti la mandano almeno un mese
prima e a me danno solo tre giorni! – Stato Di Merda!
Sembrerà strano, ma fu un trauma dal quale non mi sono ancora ripreso. Avvisai Simona mentre ero
già a Caserta, a fare fuoco e fiamme per evitare il servizio militare, che infatti alla fine non feci. Mi
dimenai due mesi buoni prima di riuscire a tornare a casa, ma intanto il corso di Simona finì e con
quello la nostra storia. Vaffanculo, ancora lo rimpiango.
Ecco, lettore, perché il rapporto fu incompleto: per gravissimi motivi istituzionali. Fu un atto di
inqualificabile arroganza verso un mite cittadino.
Ma si può? Ma si fa così con chi deve difendere la patria? Lo si distrugge nei propositi più cari? Con
quale spirito avrei potuto combattere un nemico? Per fortuna non l’ho combattuto. Per di più ora
l’Italia è in una crisi globale dalla quale usciremo con le ossa rotte, e sapere che il mio rimpianto
appuntamento, che quel rapporto incompleto, fu solo un minuscolo sopruso fra i tanti grandi soprusi
ed errori che ha commesso il nostro potere centrale fino a ridurci nello stato in cui siamo, non mi
consola nemmeno un po'.
P.S. Tu di cronico hai la paraculite, non la labirintite! disse rabbioso il capitano, andandosene col
referto medico che mi liberava dalla leva.
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Latin lover
Nel 1973 avevo 19 anni e andai in Romania con Marino, un amico che avevo conosciuto tre
anni prima. Mai visto e conosciuto, cercava allora uno che condividesse con lui un viaggio a Le
Havre, in Francia, con la sua cinquecento blu truccata: trovò me e fu una vacanza indimenticabile.
Era dal ritorno dalla Francia che non ci si vedeva, e un giorno venne da me con una Alfa Romeo GT
rossa e mi disse – Vieni con me a Brasov in Romania. Ho conosciuto una rumena l’anno scorso e le
ho detto che sarei tornato a trovarla. Si scopa come mandrilli e con una Alfa Romeo come questa
ancora di più. Vieni?
Turismo sessuale.
Io ero fidanzato con Sabrina e dirglielo sarebbe stata dura; tre anni prima ancora non la conoscevo
ma ora era diverso, dovevo muovermi con discrezione, e andare in Romania non era discreto per
niente. Tuttavia non trovai una scusa degna della sua intelligenza e decisi di dirle la verità. Con un
grosso sforzo Sabrina accettò il fatto che ci andassi, e oggi non ho parole nel vedermi così stronzo
con chi mi amava.
Anni fa in tv un giornalista chiese a un tale – Qual'é il problema più grande dell'umanità, secondo
lei?
– L'ingnorantità! – rispose l’altro dopo averci pensato bene.
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Era proprio come diceva Marino. Arrivammo in Romania facendo una tappa notturna nella periferia
campagnola di Timisoara, in una casa di due contadine. Ricordo che lui passò la notte con quella
mora e io desistetti dal farlo con l’amica che, non dico fosse brutta, ma solo che i belli sono fatti in
un altro modo.
Il giorno dopo ripartimmo e Marino si ricongiunse con Vania, la sua fidanzata rumena. Io però ero
senza una donna e così scattò l’operazione “ Trovare Donna Per Franco “.Vania mi fece conoscere
delle sue amiche che non erano male, ma non mi veniva altro che di essere educato. Dopo tre giorni
ero ancora a secco ma poi improvvisamente cominciai a rimorchiare a rotta di collo. Era tutto vero
quel che si diceva. La prima che mi fece scattare la molla la incontrai per strada, ero parcheggiato da
solo con l’Alfa lungo una strada centrale di Brasov. Si avvicina una ragazza mora e piuttosto carina,
che guarda l’auto con ammirazione e mi fa il pollice su. Le sorrido, mi sorride e scendo dalla
macchina.
– Ti piace?
– Molto.
– Vuoi salire?
– Posso davvero?
– Ma certo, sali.
Finalmente avrei fatto sesso con una rumena. Non fu né brutto né bello. Imboscati in un pineta a
pochi metri dalla strada, lei fece tutto quello che le chiesi. Dovevo essere contento e invece non lo
ero. Andrà meglio la prossima volta, pensai positivo.
Io e Marino alloggiavamo in un ostello per studenti usato durante le vacanze estive come albergo per
i turisti. Di storie ne avevamo consumate già diverse in quattro giorni, e la sera in albergo
pensavamo con nostalgia alle nostre ragazze a Ravenna. Marino un giorno si ammalò, gli venne una
gran febbre e un mal di gola tale che non riusciva a mandare giù niente. Una comitiva di turisti
svedesi alloggiava al nostro piano, e l'accompagnatrice, una bionda mozzafiato di nome Ingrid,
insieme a un ragazzo belga venne nella nostra stanza per aiutarci a capire cosa fare per curare
Marino. Dopo qualche discorso fu chiaro che bisognava andare in farmacia a comperare delle
medicine per la gola di Marino, e Ingrid si offrì di accompagnarmi. Io ero a torso nudo e, mentre mi
mettevo una camicia per uscire, lei parlò in francese con il ragazzo e capii che apprezzavano la mia
corporatura, e la cosa, non so come dire, non mi ferì per niente.
Io e la scandinava andammo in macchina in farmacia, dove comprai le medicine e delle bibite di
colore giallo limone per Marino, che riusciva solo a bere. Durante il ritorno lei mi chiese se avevo
cenato e io risposi di no.
– Andiamo a mangiare insieme?
24
Portai le medicine a Marino mentre lei andò in camera sua.
– Marino, vado a cena con la svedese.
Lo vidi pensare – Ma hai già mangiato.
– Tieni, queste sono le medicine, stai tranquillo e dormi, ci vediamo dopo.
Gli diedi l’estremo saluto e uscii dalla stanza, facendolo ridere un po’.
Andai a bussare alla porta di Ingrid, dalla quale uscì in punta di tacco e tiratissima. Il vestito nero
faceva risaltare magnificamente i suoi capelli biondi. Ogni cosa di lei era bella, la bocca carnosa, la
pelle lattea, gli occhi che da soli sembravano parlarmi. Mi sentivo Marcello Mastroianni, ero il
protagonista reale di questa dolce vita piovuta dal cielo, ero con Anita, stesso fisico leggermente in
ciccia, bella, perfetta per il cinema.
La portai a cena nell’albergo più bello di Brasov, l’Hilton, riuscendo a capirci anche se io non
parlavo né il francese né l'inglese e lei non capiva l’italiano. La nostra lingua comune era la
comunione d'animo. Fu una cena con tutti i crismi. Quando uscimmo, andammo sulle colline di
Brasov, verso una località turistica rinomata. Cercavo un posto dove imboscarci con l'auto ma non
riuscivo a trovarlo. Stavamo girando su e giù da un po’ quando lei mi chiese di una città vicino a
Venezia, che non avevo mai sentito nominare. Lei allora disse, più o meno: Ferma la macchina che
la cerchiamo sulla cartina.
Accostai al bordo della strada, tranquillizzato dal fatto che per tutto il tempo della ricognizione non
era passata mai anima viva, oltre alle nostre. La luna piena illuminava le cose al punto giusto, accesi
la luce del lunotto e presi la cartina stradale. Lei con il dito andò su e giù nella zona di Venezia, ma
capivo che era una scusa che aveva usato per fermare la macchina, credendo che io non avessi il
coraggio di farlo. Invece non era un fatto di coraggio, ma logistico.
Le tolsi la cartina di mano e la buttai dietro di me, spensi la luce e lei fu rassicurata dal fatto che
stavo prendendo l’iniziativa. Ero su di giri, una donna come quelle che vedevo solo nei film era lì e
mi voleva.
Dopo un po' ci togliemmo i pantaloni e feci per salirle sopra per scopare, ma lei non volle. Perché
no? Pourquoi pas?
– Perché no.
Non ci fu verso, non volle.
– E nel culo?
– No, nel culo no.
Boh, non capivo. Insistetti per un po’, ma non era cosa.
Poi Ingrid mi fece sedere al mio posto e me lo prese in bocca. Fu una cosa lunga, più di quello che
pensavo, per via di un fatto strano mai successo prima: non venivo.
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Nonostante il suo talento spiccato e genuino, io non venivo. Il tempo passava e io niente.
Quando non vuoi vieni e quando vuoi non vieni!, pensavo, e compresi che il potere di andare e
venire non era ai miei comandi. Cercai di immaginare le cose più porche mentre la manipolavo a
mio piacimento, ma niente, non riuscivo a venire e non ci potevo credere. Nella cosa colsi un tocco
di humour.
Poi finalmente venni e tutto finì, e per lei fu una liberazione, era veramente stanca. Ma mentre mi
rimettevo i pantaloni, un motore diesel si mise in moto dentro la mia pancia. Erano cinque giorni che
non andavo di corpo e quelli erano i primi segnali del count down. Ma come, proprio in quel
momento? La bionda felliniana si rivesti e controllò il trucco. Era molto languida con me, voleva un
po' di coccole, che in altri momenti avrei fatto molto volentieri, ma avevo dentro di me una specie di
rivoluzione. Mi vergognavo a dirle che dovevo cagare, non eravamo abbastanza intimi nonostante le
apparenze. Cercai di dissimulare meglio che potevo, e quando ripartimmo guidai piano nonostante
avessi delle fitte che per lunghi istanti mi toglievano il fiato. A fatica riuscii ad arrivare all’ostello,
scendemmo dalla macchina ed entrammo nel corridoio delle nostre camere.
Alien non era ancora uscito al cinema ma ne avevo un anteprima nella pancia e speravo in saluti
rapidi, ma Ingrid scambiò i miei occhi lucidi per commozione e pensò di consolarmi con dei bacini,
e non la smetteva più, fino a che io non potei più rimandare. La staccai da me e la salutai – Ciao – e
zoppicando andai verso il bagno che era proprio in fondo al lungo corridoio, mannaggia a
Ceausescu. Lei ci rimase un po’ male, ma per la patria non potevo dare di più. In bagno trovai
finalmente la liberazione, come se fossero arrivati gli alleati.
Ero tutto votato all'ideale che mi condusse fino a lì, a comportarmi da vero maschio anche a costo di
sofferenze fisiche, ma apparve all'orizzonte una esperienza che distrusse quella immagine e rinsavii.
Un giorno, in macchina con Marino e due ragazze, mentre cercavamo di capire come formare le
coppie, per la prima volta capitò che la più bella scegliesse me. Mai capitato prima, ma in quel caso
andò così. Guardavo compiaciuto quella ragazza, che ogni tanto mi accarezzava il braccio con
trasporto e che dai modi sembrava che tenesse a me. Assomigliava molto a Sabrina e per questo mi
piaceva ancora di più. Si chiamava Andrea.
Non andai con lei quel giorno, ma la notte dopo, a casa sua. Entrai in un appartamento popolare
dalla luce fioca, arredato con mobili semplici, con la scritta Marlboro come sfondo prezioso di
un'umile credenza: il suo anelito per l'America che mi mostrò con una certa sacralità.
C'era anche una sua cugina, che si ritirò in cucina e ci lasciò liberi di andarcene a letto. Sua madre
lavorava al turno di notte in fabbrica. Io ero un po' sullo sbrigativo, tipo mi piaci e sono contento ma
facciamo in fretta, pochi baci e poi via sul letto, aprire le gambe.
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Salendo sul letto mi sussurrò qualcosa che io non capii bene ma che mi colpì per un accento: vrigì, o
una cosa simile. Pensai che fosse una parola romantica e andai a sfregare la cappella tra il suo pelo
per trovare l'entrata. Lei non era molto rilassata e la cosa un po’ mi metteva a disagio, ma poi dopo
un poco le venni dentro, domandandomi se sarebbe rimasta incinta ma senza però interrompermi.
Lei mentre venni fu molto accogliente, ma non aveva goduto. Restai per un po' attaccato a lei, e
dopo un po' di effusioni goffe mi tolsi e mi misi di fianco, quando vidi una macchia di sangue sul
lenzuolo. La guardai e le chiesi – Eri vergine?
Si, rispose. Mi crollò il mondo sulle spalle. Era vergine. Capivo tutto all'improvviso. Mi aveva
scelto per un sentimento sincero, aveva fatto l'amore con me perché provava qualcosa per me, e io
non solo non me ero accorto, ma ci ero andato pure con le scarpe chiodate. Probabilmente le avevo
fatto male, anche se lei non lo dava vedere, ma non solo un male fisico, anche il male della
disattenzione. Me ne stavo sconsolato sul letto a testa bassa e lei mi accarezzava la spalla e mi
diceva che non le avevo fatto male.
Se solo avessi capito che vrigì significava vergine non mi sarei mai comportato così. Ma avrei
dovuto capirlo da solo, se solo non fossi stato accecato dalla bandiera del cazzo. Bandiera che in
quel momento sparì in un attimo, mettendo a nudo la mia realtà. Vidi che ero una patacca, altro che
storie, un cretino velenoso invece che un grande amatore, e iniziai a vedere quanto fossi sfigato. Alla
fine ci salutammo e le diedi il mio indirizzo, credo sbagliato, per evitare di ricevere una notizia di
paternità. Che testa di cazzo.
Al rientro in camera mi buttai sul letto e pensai a Sabrina, compresi che la stavo offendendo come
avevo appena offeso Andrea, e provavo una gran voglia di vederla e di stare con lei. La caccia alle
rumene era finita per sempre. Marino era laconico, e capivo che anche a lui mancava la sua ragazza.
– Cosa siamo venuti a fare qua, i tori da monta? Io sono già stufo, se penso che dobbiamo starci
un'altra settimana mi sento male. Torniamo a casa?
Marino annuì e il mattino successivo, con un fazzoletto rosso al collo, si mise alla guida dell’Alfa e
a scheggia partimmo in direzione Italia. Dopo dodici ore ero con la donna più bella del mondo, che
spesso trattavo a pesci in faccia, da grande latin lover qual'ero.
P.S. Al cameriere rumeno indicai un piatto sul menu e lui disse – Porco. Io annuii e lui scrisse Un
Pork.
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Stella lìlùlà
Era il 1981, avevo ventisei anni, ero senza una ragazza fissa da qualche mese e la cosa mi dava una
certa inquietudine, quando conobbi Stella, che abitava a Rimini, aveva venticinque anni ed era fidanzata.
Da due anni frequentavo il gruppo del “ Messaggio di pace “ * di Prem Rawat, e una sera la vidi nel bar
lì accanto, dove abitualmente ci si ritrovava prima e dopo le riunioni. Nei giorni successivi ci
conoscemmo meglio e c’era simpatia tra noi, la colpivano le espressioni che facevo quando parlava,
rideva divertita e a me faceva un gran piacere esserle simpatico. E' l'unica eredità avuta da mio padre,
che era una frana in tutto ma era simpatico. A volte. Nonostante l'avessi valutata come faccio sempre con
tutte le donne, e classificata come una che mi sarei fatto, non mi feci avanti perché non aveva senso
farlo, non era quella la ragione per cui entrambi ci trovavamo lì.
Un giorno Prem Rawat venne a Roma, così organizzammo un viaggio con diverse auto per andare ad
ascoltarlo e venne anche Stella. Il programma a Roma si svolse in una sola giornata, e la sera stessa si
rifecero gli equipaggi per il ritorno a casa, così finì che Stella salì sulla mia auto e facemmo il viaggio
assieme. Fu un bel viaggio. Stella mi raccontò che era un'insegnante di musica e che aveva un ragazzo da
qualche anno. L’atmosfera per tutto il viaggio fu magica, ma questo succede spesso dopo aver sentito
parlare quel gran bravo ragazzo di Prem Rawat. Portai Stella fino a casa sua a Rimini, lei mi diede il suo
numero di telefono e io le dissi che l’avrei chiamata. Lo avrei fatto la sera stessa, tanto mi piaceva, e
invece la chiamai dopo undici giorni.
– Ciao Stella, sono Franco, come stai?
– Insomma, qui è un po’ un casino.
– C’è qualche problema? Ho fatto male a chiamarti?
– No, hai fatto bene.
Parlammo per un po' e ci accordammo per vederci una sera nella sala di Ravenna, la sarei andata a
prendere a Rimini e poi l’avrei riaccompagnata. Il giorno dell’appuntamento il mio amico Primo, che
frequentava la sala, mi chiese se gli prestavo la mia station wagon per trasportare una lavatrice.
* Il “ Messaggio di pace “ menzionato nel racconto ha un sito: wopg.org
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– Mi dispiace ma stasera devo andare a Rimini.
– Vai con la mia, io uso la tua e stasera in sala te la restituisco.
Tentennai un po’ perché la sua macchina era un po’ sfigata e io volevo fare bella figura, ma alla fine
accettai e facemmo lo scambio. Andai a Rimini a prendere Stella e tornammo verso Ravenna, ma c'era
poco carburante per cui andavo piano per consumare meno, sperando così di riuscire ad arrivare fino alla
sala. Avevo già fatto il pieno alla mia e non avevo quasi più soldi, ma in ogni caso l'auto di Primo andava
a metano e io non sapevo maneggiare l'aggeggio per passare alla benzina, e i distributori erano già
chiusi, insomma avevo un filo di preoccupazione.
– Perché quando ti ho chiamato hai detto che era un casino?
– Il mio ragazzo, ci sono dei problemi.
Mi disse che nel viaggio di ritorno da Roma, in quelle poche ore passate insieme, aveva sentito più
intimità con me che in tutti gli anni passati con lui. Si mette bene. Le dissi che l’avevo pensata anch’io e
che mi prendeva molto, e la cosa le fece piacere. Io ero molto contento e pensavo che dopo la riunione
avremmo continuato a parlare di quello che ci stava capitando. Intanto canticchiava una nenia – lìlùlà...
Io mi mantenevo sempre sotto i cinquanta all'ora e arrivati alle porte di Ravenna, poco dopo la basilica di
Sant’Apollinare in Classe, la spia del metano era rosso fuoco. Vidi cento metri più avanti una macchina
ferma nella corsia opposta e con la freccia lampeggiante che, dovendo fare inversione a U, aspettava che
io passassi. Io però andavo a una lentezza esasperante e quando finalmente fui arrivato a pochi metri,
quello, forse spazientito, partì a tradimento e me lo trovai di traverso sulla strada. Piantai le mani nel
volante e il piede nel freno, ma capii che non avrei evitato lo scontro.
SBANG!
Vidi al rallentatore Stella muoversi dal sedile verso il vetro e con la testa spaccarlo, mentre il muso della
macchina si accartocciava contro l’altra, e una pioggia di vetri precipitava a terra. Stella rinculò e ricadde
sul sedile, uscì fumo dai motori, lei si portò le mani alla faccia e urlò – Ho perso un occhio ho perso un
occhio! –, e un fiume di sangue le colò dalla faccia. Dopo non ricordo bene la cronologia dei fatti, ma
arrivò un'ambulanza facendosi largo tra i curiosi che erano spuntati dal bar vicino, e portò Stella al
pronto soccorso. Non perse l’occhio, ma le diedero sedici punti di sutura sulla fronte. Primo fu un vero
signore quando seppe che la sua macchina era ko, e mi restituì la mia con la quale corsi subito
all’ospedale da Stella, la quale ne uscì tutta incerottata ma calma.
– Ti porto a casa con la mia macchina? – le chiesi.
– No, per stasera basta macchine. Vorrei stare con te a parlare. Come si può fare?
Non trovavo le chiavi del mio studio, non sapevo che erano rimaste nella macchina accidentata, e allora
vivevo ancora con i miei.
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Poi un lampo: avevo le chiavi della sala riunioni di Ravenna, che a quell’ora era già chiusa. – Possiamo
andarci, ho le chiavi, e nell’ufficio c’è un materasso che possiamo usare per stare comodi.
Dopo cinque minuti eravamo là e ci chiudemmo dentro. Sistemai il materasso e i cuscini, e siccome lei
aveva bisogno di coccole ne facemmo tante. La luce che entrava dalla strada era perfetta. Stella era
sdraiata sulla schiena e io la accarezzavo mentre le dicevo quello che provavo per lei, quanto mi piaceva,
quanto la trovavo sexy.
– Non sono brutta, così?
– Sei bellissima.
Ed era vero, la bellezza non si copre con un cerotto. Ti sembrerà strano, caro lettore, ma la cosa si fece
molto romantica e le carezze diventarono osé. Lei contraccambiò le mie tenerezze al di là di ogni
aspettativa. Facemmo l’amore e fu molto bello, anche se un paio di volte la urtai sulle bende.
– Scusa mi dispiace non succederà più lo giuro starò attentissimo.
– Lìlùlà Lìlùlà...
Restammo assieme fino al mattino e poi la riportai a casa. Da quel giorno successero molte cose tra noi,
lei mise in pausa il suo ragazzo e ci frequentammo a lungo. Era una vera maialina e ci sapeva fare. Un
giorno, ad esempio, in un albergo di Roma mi fece capire coi suoi modi particolari una cosa che le
piaceva. Stavamo scopando da un po' quando a un tratto si girò e si mise a pancia in giù, restando ferma
senza dire niente. Le chiesi cosa avesse e lei non rispose. Restava lì, ferma e in silenzio. Però la sua
strana immobilità mi diceva qualcosa, che a un tratto afferrai al volo. Le andai sopra e la bagnai con la
saliva, e lei inarcando la schiena spalancò le chiappe. Se mai si fosse chiesta cosa pensassi di quel suo
gusto personale, di certo non se lo chiese dopo.
– Lìlùlà Lìlùlà Lìlùlà...
I punti sulla ferita non le lasciarono nessun segno di cicatrice perché il medico che la cucì era un
chirurgo plastico che quella sera era casualmente di servizio al Pronto Soccorso, il quale trovò, sempre
per caso, un filo particolare usato per la chirurgia estetica. L'avvocato, più o meno per caso, le fece avere
dall'assicurazione ventitré milioni di lire, e Stella me ne regalò cinquecentomila come buonuscita quando
tornò a mettersi con il suo ex fidanzato.
La buonuscita. Mai più capitata una cosa del genere.
P.S. Lìlùlà lìlùlà... Ma sai che lo canto ancora?
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Azzurro arancio
Nel mese di luglio 1975 Sabrina era in vacanza con la famiglia a Marina Romea e ci vedevamo la
sera dopo la chiusura del mio studio, quando andavo a trovarla su al nord, dodici chilometri fuori
Ravenna. Durante quel periodo, un mattino sulle dieci passò a trovarmi Giorgio, un compagno di giochi
dell'infanzia diverso dagli altri. Aveva una natura gentile e discreta e stava più con le femmine che coi
maschi, e noi per quello lo chiamavamo Giorgina. Era per tutti il finocchio e gli si diceva alle spalle. Di
tutti i compagni di gioco lui é quello che ricordo con più affetto. Erano passati dieci anni da un certo
nostro gioco speciale, quando dunque passò a trovarmi una mattina nel mio primo studio di artista.
– Pittore… pittore... pittoreeeeee! – urlò, affacciato alla sbarre della finestra aperta sulla strada.
Dal retro mi affacciai e vidi in controluce, senza distinguerla bene, una sagoma seduta su una bicicletta.
Mi avvicinai e lui aggiunse – Non mi riconosci?
Ci parlammo per un po' attraverso le sbarre e notai com'era cambiato il corpo di quel bambino con cui
giocavo, com'era diventato atletico e al tempo stesso più femminile. Era un efebo davvero notevole, era
quasi la copia fisica di Sabrina, erano fatti alla stessa maniera. Non era certo di come lo avrei accolto ma
lo capì immediatamente, lo feci entrare e fu subito eccitante rivedersi. Dopo un rapido giro turistico dei
ventisette metri quadri dello studio ci fermammo nel retro, di fronte ad una scultura in lavorazione sul
cavalletto e coperta da un telo. Alzai il telo e gli mostrai mezza scultura, la parte posteriore di un cavallo
bianco montato a pelo da un uomo nudo. Giorgio la osservava a bocca aperta, che diventò a cuore
quando gli mostrai il resto. Davanti all'uomo seduto sul cavallo c'era una donna, con il sedere appoggiato
alla sua pancia. Lei gli teneva una mano sulla spalla e lo guardava in faccia, mentre lui, ad occhi chiusi,
stava con una mano sul cuore e l'altra alzata in segno di pace. Con l'altro braccio la donna abbracciava il
collo del cavallo, che con le zampe stava in equilibrio su una struttura a dondolo. Eravamo io e Sabrina,
gli dissi, l'avevo fatta pensando ai nostri corpi mentre facevamo l'amore, rivedendo le nostre immagini
riflesse negli specchi che avevo posizionato ad arte. Giorgio era ancora dolce e timido come lo
ricordavo, ma con una luce maliziosa in più negli occhi.
– Ha una bella coda – e con la mano toccò la scultura che iniziò a dondolare.
Io intanto lo osservavo mentre guardava la scultura con un'aria intenerita e un po' nostalgica, e mi
domandai: potrebbe essere lui quella donna sul cavallo? In effetti, perché no?
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Era un corpo che protendeva il culo ma non si vedeva il sesso, che era nascosto sul fondo della pancia.
Pensai a Giorgio in quella posa. Mentre flirtavamo attorno alla scultura, il colore azzurro dei suoi
pantaloncini richiamò il nostro primo incontro, e tutto diventò celeste. Qui occorre che racconti quel
gioco “azzurro” che facemmo di bambini. Un giorno andai a casa di Giorgina per vedere se c'era uno dei
suoi fratelli per giocare in cortile, ma non ci trovai nessuno oltre a lui. Mi disse che era a casa da solo
fino a sera.
– Vuoi restare a giocare con me?
Per me stare con lui non era bello come con gli altri maschi, ma qualcosa che mi tenne lì saltò subito
fuori.
– Guarda! – e tirò fuori un libretto nero che i suoi genitori tenevano in un posto segreto. Era una storia
pornografica disegnata a china da un bravo artista, con uno stile che oggi ricorderebbe Manara, ma più
robusto, probabilmente era un anonimo del periodo fascista. Il bel colore blu della china impreziosiva la
sua magnifica grafica, lo ricordo benissimo. Nel tempo, il libretto si era segnato e logorato specialmente
sui bordi, ma per il resto era ben conservato. Raccontava una storia attraverso una serie di sette, otto
disegni, le cui pagine erano attaccate a fisarmonica a formare una specie di cinemascope verticale, e se
scorrevi il soffietto con il pollice vedevi la storia disegnata in successione.
La storia io la lessi così: c'era un frate rozzo, dal fisico atletico e un po' tonto, una ragazzina e una suora,
la quale per bellezza e severità mi ricordava la regina cattiva di Biancaneve. La ragazzina é bionda, con
due lunghe trecce ai lati della testa che le scendono sulle cosce, che la gonna corta lascia vedere, cosa per
la quale la suora la sgrida e la punisce. La ragazzina é smarrita quando vede la punizione che la suora le
indica: l'enorme cazzone del frate. La ragazzina arrossisce e mentre apre le gambe si porta le mani alla
faccia, credendo che una cosa così le farà male, ma invece no e la punizione diventa una cavalcata
divertente. La suora quando se ne accorge la sostituisce e si diverte anche lei. Poi si toglie i vestiti e tutti
insieme giocano nudi, felici e contenti. Questa é la storia a lieto fine che lessi dalle immagini, ma fu lo
stile dei disegni a darmi il battesimo della conoscenza del sesso, a mostrarmene il fascino, ad attivare
quel richiamo che pulsa tuttora. Per come erano disegnate le facce e i gesti, capivo che a fare quelle cose
ci si divertiva un bel po', lo vedevo dalla faccia della suora e dalle espressioni ingenue della ragazzina.
Anche il frate tonto se la passava bene, era contento e simpatico, e aveva dato corda da torcere alle
madonne che alla fine lo avevano sfiancato.
Vedevo come usavano i loro corpi, vedevo il piacere, ma non lo comprendevo. Se avessero goduto
mangiando cioccolata l'avrei capito al volo, ma quelle cose erano un mondo sconosciuto che volevo
scoprire, e anche Giorgina. Lui essendo femmina era più sveglio di me, infatti non decisi io ma lui, di
andare sul lettone dei suoi genitori. Mi prese la mano e mi ci accompagnò, poi ci si stese sopra, con il
sedere in quella posa che ci era piaciuta tanto nei disegni. Il copriletto azzurro in raso di cotone
sembrava riverberare tutto di blu.
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Ricordo perfettamente una sua occhiata timida e coraggiosa, che mi invitava a imitare il disegno.
Ricordo poi un odore, anzi un profumo meraviglioso che non ho mai più sentito. Credo venisse da lui,
forse si era messo un profumo della mamma o lo aveva spruzzato nell'aria, non so. Ma era buono,
buonissimo, azzurro anche lui, e più mi avvicinavo a lui e più la meraviglia di quella sensazione
aumentava. Ovviamente non sapevo niente del sesso, se non quello che avevo orecchiato qui e là, e
senza quasi saperlo quella era la mia prima volta. Era proprio come in quei disegni, ma non era per
niente facile entrare: io spingevo e spingevo, ma niente, non entrava. Lui restava in un'attesa docile, io
mi sentivo tutt'uno con lui e a un certo punto sembrò quasi fatta. Poi lui si immobilizzò e disse – Sta
entrando!
Io tutto impegnato risposi – Mi sembra di si!
– No, mia mamma, sta entrando mia mamma! – urlò sottovoce.
Un lampo. Saltammo via dal letto tirandoci su i pantaloni corti, e ricordo che pensai: comodi i pantaloni
con gli elastici. Provai un vero rimpianto lasciando quell'atmosfera erotica e virginale che l'arrivo
materno evaporò. Finì lì, non ci furono altri giochi tra noi. Almeno fino a quel momento, quando un
bell'efebo con pantaloncini azzurri mi si offriva senza equivoci andando a sedersi sul letto.
– Il disegno ce l'hai ancora? Ti ricordi che ne feci tre copie? Una per Rosalba, una per me e l'altra non
ricordo, ma non erano belle come il tuo originale. Ce l'hai ancora?
Sorrise e rispose languido – Non so, guarderò. Perché, vuoi fare una scultura? – e si mise in quella posa
di allora.
Le cose erano cambiate. Sua mamma non sarebbe venuta e Sabrina nemmeno. Lui lo voleva e io pure.
Potevamo riprendere da dove fu interrotto quel disegno azzurro iniziale e andare avanti, magari verso
una scultura arancione finale. Ricordo che mi sentivo libero di disporre di lui. I suoi modi timidi e gentili
erano eccitantissimi, così come la sua bocca. Gli andai dietro come allora e lo accarezzai. Dalla finestra
la penombra calda della stanza era tagliata da un fascio di luce che illuminava un pezzo del letto. Misi un
po' di saliva nei punti giusti e quella volta non fu difficile entrare, e fu bello. Mi sentivo a mio agio con
lui.
– Ti fa male?
– No, va bene.
Si spinse indietro, piano e delicatamente fino a prenderlo tutto. Restò fermo un po' così e poi iniziò a
muoversi. Che bello stargli dentro, sentirlo col cazzo. E non solo, quel bello gli fece sparire la timidezza
che lo frenava nel dirmi quanto gli piacesse avermi alle spalle. Era mio, non mi scappava dalla greca. Ci
stavo dentro, andavo su e giù e ne godevo, e a lui piaceva che lo tenessi così tanto stretto, così a cuore. E
poi chiusi gli occhi e venni. Dopo una sigaretta e dopo avere parlato per un po' non ricordo più di cosa,
prima di salutarci mi disse – Se trovo il disegno te lo porto, così parliamo ancora di scultura.
Saltò sulla bici ridendo e non lo rividi più per quarant'anni.
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La rividi una sera di qualche anno fa in un ristorante al mare, dove ero al tavolo col mio amore, e la
cameriera che venne a servirci fu proprio lei. Giorgio si era operato ed era diventato una donna di nome
Alessia. Ci salutammo e fu molto cordiale e premurosa. Mentre prendeva l'ordinazione la guardavo e
vedevo una signora ben curata e con lo stesso sguardo gentile di un tempo. Non ho potuto evitare di
andare coi ricordi lassù, nell'azzurro dipinto di blu e l'arancio di quel tramonto.
P.S. Giorgio! – urlò qualcuno durante la cena. Tutti guardammo l’urlatore eccetto Alessia.
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La prof
Il tradimento che sto per raccontare l'ho commesso nei confronti di un mio cliente: un peccato
professionalmente imperdonabile.
Nel 1982 Ugo, un mio vecchio cliente che conviveva da tempo con S., che faceva l'insegnante, un giorno
mi disse che il suo ménage era agli sgoccioli, che era stanco e senza stimoli. Poco tempo dopo, in un
pomeriggio di maggio, la prof S., che solitamente veniva con Ugo, passò dal mio studio con i cocci di un
vaso che avevano comprato da me. Dopo un po’ di chiacchiere sul restauro da fare, mi confidò che Ugo
era andato in Cile ormai da venti giorni e che lo sentiva raramente, e che era distaccato. Non ricordo
come ci arrivò, ma mi invitò ad accompagnarla quella sera stessa a un concerto, credo tra Casola e
Faenza. La prof era carina e mi intrigava da sempre la sua aria focosa trattenuta, così accettai.
Passai a prenderla con la mia station e lei, in T-shirt e jeans, sandali di cuoio e voglia di aria fresca, salì
sportivamente e andammo. Era la prima volta tra noi senza Ugo, e l'atmosfera fu subito frizzante. S.
rideva spesso, guardava il cielo stellato e assaporava l’aria eccitante di quella sera di maggio. Io il posto
non lo trovavo, un po’ perché le sue indicazioni erano vaghe e un po’ perché ci distraevamo. Ad un certo
punto disse – Ma chi se ne frega del concerto, è già tardi e con una serata così si sta meglio fuori, non
credi?
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Lo credevo. Ero lì per lei e del concerto non mi importava niente.
– Cosa vuoi fare? – le chiesi.
– Andiamo in un bar a comperare qualcosa e mettiamoci tranquilli a parlare, bere e guardare le stelle.
Ti va?
Se mi andava? Trovammo un bar, fermai la macchina e scesi per andare a comperare da bere. Era
incredibile come il momento stuzzicasse l'astronomo che è in me.
– Vedi se hanno quelle bottigliette di spumante, mi piace tanto.
– Ok.
– Prendine due.
– Ok.
– E compra anche le cartine.
– Ok.
Avevano le cartine e le bottigliette, e non ne presi due ma ben tre, sapendo quanto la brace facesse venire
sete. Presi anche dei Tuc e dell'acqua. Ritornai con la roba e lei sorrise contenta. Misi in moto e mentre
andavamo in cerca di un posto tranquillo, stese la mano e disse – Cartine.
Gliele misi nel palmo e pensai a guidare, scrutando il paesaggio. Vedevo gli alberi da frutto in fiore nei
campi, e il firmamento: il solito vecchio sketch che funziona sempre. Trovai un posto che piaceva anche
a lei e spensi il motore, e nel silenzio intorno i grilli cantavano il loro concerto e le stelle sopra di noi
erano le luci di scena migliori che potessimo avere.
La prof, con la canna pronta tra le dita mi disse – Ci mettiamo dietro?
Dietro era un letto a due piazze lungo fino al portello posteriore, ci si stava belli sdraiati e c’era una
coperta imbottita che era quasi un materasso. Quindi solo ed esclusivamente per agio, con le bottigliette
tra le mani, ci trasferimmo dietro. S. aveva un bel corpo esile ma nervoso e una bella bocca, e due occhi
azzurri in stile Susan Sarandon. Finestrini un po’ abbassati, accendemmo la canna, stappai la prima
bottiglietta e la danza iniziò. E’ un po’ vago il ricordo di come arrivammo a metterci le mani addosso e
sotto ai vestiti, ma quello che ricorderò sempre é che con lei imparai a bere in un modo nuovo. La canna
era andata in fumo, e di conseguenza in circolo, e lo spumantino sgorgava dai bicchieri di plastica,
quando finalmente la prof si sfilò i jeans e tutta la sua nuda pelle mi fu offerta. La stavo leccando da
qualche tempo, quando dalla boscaglia del suo monte di Venere scese un rivolo di bollicine liquide. Alzai
gli occhi e la vidi guardarmi sorridente col bicchiere in mano, così assecondai quella libagione. La cosa
andò avanti per un po' e la bottiglietta si vuotò in fretta, così lei me ne passò un'altra per alimentare
l'happy hour. La stappai e feci per versarla nel bicchiere ma lei me la prese dalla mano e cominciò a
mescere nuovamente sul suo prato d'amore. Le donne hanno più fantasia sessuale dei maschi, c’è poco
da fare. A volte versava piano e sentivo il sapore della sua figa, a volte grondava e sentivo il fresco
frizzante del Brut con un retrogusto vaginale.
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Ci scolammo in questo modo tutte le bottigliette. La prof era anche una sommelier.
Poi Ugo tornò dal Sudamerica e ripresero la loro storia. S. me lo disse ritirando il vaso restaurato che lei
aveva rotto apposta il giorno che lui partì per il sud America. Ma durò poco. La parola fine sul loro
rapporto era già scritta e in lettura. A quella serata frizzante ne seguirono altre, e anche splendide
giornate al sole nella spiaggia dei nudisti di Lido di Dante. Ma poi come succede, ognuno proseguì per la
sua strada e da allora non ci rivedemmo mai più, nemmeno per caso.
P.S. Uscì Bollicine di Vasco Rossi in quel periodo, ma a lei non piacque.
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Blackout *
Una sera di settembre del 1980, mentre stavo chiudendo il mio studio entrò una amica di
Cristiana, almeno così disse.
– C’èè Crisssstiiaana? mi domandò strascicando le parole e con gli occhi quasi chiusi.
– E’ in campagna dai nonni – le risposi.
– Ahhh… daai noonniiii?
– Si.
E questa chi è, mi chiesi.
Restava lì in piedi a dondolare e io la guardavo scuotere la testa in avanti.
– Mi siedo un momeennn…
Non finì la frase che le si piegarono le gambe. La presi al volo prima che cadesse contro il tavolo e la
feci sedere su un divano in disparte, in fondo.
Stava con la testa in avanti e non riusciva a rispondere alle mie domande, o forse non le sentiva
nemmeno.
E adesso cosa faccio?
Andai nel bagno a prendere un asciugamano umido e tornando la trovai sdraiata con un braccio sotto la
guancia, che dormiva pesantemente.
Ah no!
La scuoto, ma lei niente, la scuoto più forte, la chiamo.
– Ehi, sveglia. Devo chiudere. Mi senti? Come ti senti?
* Disegno originale della modella in coma.
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Le do degli schiaffetti per farla rinvenire, ma nulla, niente, non un cenno. Il battito però era regolare e il
respiro normale, insomma sembrava stesse bene, considerando quello che si era messa in corpo.
Cosa faccio, cosa non faccio? Siccome abitavo a trenta metri dallo studio, era già tardi e avevo una gran
fame, pensai di lasciare quella salma così come stava e andai a mangiare qualcosa, guardai Happy Days
e tornai, sperando che nel frattempo si fosse risvegliata dal suo torpore chimico. Macché.
Improvvisamente andò via la luce e fu tutto buio. Neanche dalla strada entrava più la luce. Dalle altre
case sentivo alzarsi le tapparelle e le voci che si chiamavano. Eravamo in blackout.
Accesi delle candele e le controllai ancora il polso. Mi sembrava tutto normale, date le circostanze, così
la lasciai nella penombra e andai nella stanza dietro, dove mi rollai una canna che tornai a fumare
davanti a lei che dormiva. Aveva una bella posa e la luce delle candele le dava una specie di vibrazione.
Vincendo la pigrizia presi carta e matita e feci al volo un disegno del suo volto addormentato.
Mentre la guardavo per coglierne le linee da disegnare i miei pensieri andavano in libertà, e iniziarono ad
essere strani. Non sapevo chi fosse, come si chiamava e che storia avesse. Vedevo però che aveva la
bellezza della gioventù. Incontrandola per la strada in condizioni normali l'avrei notata, avrei
immaginato come era sotto i vestiti.
Ora la puoi vedere senza problemi – fu il primo pensiero che mi passò per la mente, e poi – Vedi,
nessuno può impedirtelo, puoi fare quello che vuoi.
Durante i blackout nelle città gli esseri umani danno sfogo ai loro istinti, quello che é nel profondo e
nascosto all’esterno viene fuori, e fanno quello che non farebbero mai alla luce solo perché nessuno li
vede.
Anche io ero dentro al blackout. A ripensarci adesso, mi vedo come un ragazzino senza patente che
guida contromano nella vita altrui solo perché non c'è nessuno in giro.
L’idea mi stuzzicava, sentivo con un brivido di piacere il potere che avevo su quella ragazza, su quel
corpo addormentato. Per fortuna non sono un serial killer.
Le osservai le tette, poi mi piegai in avanti sulla poltrona e gliele toccai.
Poi, facendo molta attenzione che non si svegliasse, sollevai l'elastico con l'indice e guardai dentro alle
sue mutandine.
Era piacevole farlo, accarezzarla e vedere che non si opponeva, sentire la sua inerzia. Nessuna
opposizione, anzi di più: nessuna coscienza, e per me nessun equivoco, nessuna paura di osare o di dire
cose sceme per farmi piacere. Tutto molto semplice.
Non andai oltre, mi bastò così, ero pago. Mi bastava quella sensazione inebriante e proibita di dominio
che avevo provato. Si, era curioso e diverso dal solito, ma non un gran ché meglio che con un umano
sveglio e consenziente. Ma era la mia mente a non essere paga. La mia mente poi cos'é? La mia
intelligenza é la mente? Questo ho creduto per molto tempo. Sviluppare la mente, si sente dire, mens
sana in corpore sano, dicevano i latini.
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La mente é una cosa buona, ma allora come mai questa cosa buona mi dice di fare anche cose che di
buono non hanno nulla? Con l'intelligenza costruisco una bomba e poi é sempre lei, l’intelligenza, che
me la fa esplodere sulla gente? Oppure é un altra cosa? O é solo maleducata? Non avevo le idee chiare
su come stessero andando le cose dentro di me, e non era chiaro chi comandava e chi mi era amico e chi
nemico.
Con il tempo e l’esperienza ho capito che in me c’è qualcosa che si dimena e non dà pace, se mi
costringo a stare in posti e fare cose che non voglio, proprio come successe quella volta là.
Fatto sta che continuai a guardarla e fantasticare, costringendomi a farlo, per la verità, perché come ho
detto c’era qualcosa in me che recalcitrava. Alla fine mi misi le mani nelle mutande e cominciai a
menarmelo davanti alla faccia della sconosciuta incosciente.
Tirai fuori il coso anche se non ne voleva sapere di drizzarsi, ma io continuai a smanettare,
impegnandomi con tutto me stesso perché almeno si drizzasse, così da venire e farla finita con tutta la
faccenda.
Dai che ci sei, stai venendo. Non era vero ma continuavo a pensarlo, era diventata una gara fra me e me,
non ero più libero di smettere. Tanto feci che alla fine le venni addosso, e senza alcun piacere, ma solo
col sollievo che tutta quella fatica e ansia fossero finite.
Lo rimisi nelle mutande, pulii le mie poche tracce dai vestiti della ragazza e andai nel retro a sedermi
sulla poltrona sotto al soppalco.
Cominciai a vedere dei luccichii. Cazzo, la “ Maria “ che avevo fumato era più tosta di quello che mi
avevano detto e il fatto che avessi cenato da poco non andava affatto bene, e neanche tutto il resto.
La luce delle candele mi dava fastidio e le spensi, e restò solo l’illuminazione soffusa dell’altra stanza,
dove dormiva l'inconsapevole modella stuprata. Anche solo a girare la testa da una parte mi veniva la
nausea, dovevo stare immobile, assolutamente fermo. Non so il tempo che restai così, ma ad un certo
punto sentii la ragazza tirarsi su e farfugliare qualcosa che non capii. Risposi con un grugnito. Sentii un
gran casino e poi – Chi c’é?
– Io.
– Io chi?
– Il rrragaazz di Crisstiaaaa – risposi a fatica.
La radio all'improvviso si riaccese e la nausea mi richiuse gli occhi. Un rumore del divano mi disse che
la ragazza si alzava, socchiusi le palpebre e la vidi affacciarsi, entrò e venne verso di me. In tre passi la
luce che le contornava i capelli sparì, lasciando solo una sagoma ombrosa. Quando mi fu davanti mi
venne col viso vicino e mi guardò a lungo.
Era una scena irreale e mi sentivo terribilmente a disagio. Restammo per un po' così, solo la radio diceva
qualcosa sottovoce. Poi lei si rialzò e andò via dicendo – Che storia!
Rimasi lì come un cretino, con il disegno in mano e le candele spente.
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Non la incontrai più dopo quella volta, e mi chiedo ancora cosa volesse e perché venne a cercarla da me.
La risposta non è dentro di me e neanche nel blackout.
P.S. Quando tornò la corrente e la radio si riaccese, stava trasmettendo Black is Black dei Los Bravos.
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Laura
Con la mia ex moglie eravamo agli sgoccioli ed era verso la fine del 2000. Facevamo sesso una volta
al mese, quando ruggivano gli ormoni, i suoi. Incontrai Laura, una mia compagna delle scuole medie,
che fin da allora aveva una cotta per me per via di una mia rassomiglianza con l'Ulisse dell’Odissea,
diceva lei, quello dello sceneggiato con Irene Papas, anche se allora non avevo un pelo di barba. Ci
incontrammo una mattina in un bar e da allora cominciai a passare a trovarla a casa, ma tenendo sempre
le distanze per via che ero pur sempre sposato.
Un bel giorno, arrivato all'esasperazione per la fame d’amore saziabile solo col sesso, mi accordai con
Laura per andare a trovarla di sera. Ma non volevo il peso di complicati sotterfugi. Del resto, uscire di
casa la sera senza giustificazioni cosa poteva voler dire, in quel periodo così poco felice? Ero in cucina
con mia moglie, che da tempo era stanca di me, e le dissi – Io stasera esco, e se esco sai cosa succede.
Deciditi, mi vuoi o vuoi perdermi?
Ci dicemmo poche parole. Uscii e andai da Laura, gettandomi alle spalle la storia del mio matrimonio.
Laura era mora, con le sopracciglia marcate e lo sguardo vivo, né bella né brutta, per la verità, ma io la
trovavo molto intrigante e quindi bella. Era una passionale disperata fin dalle scuole, quando preferivo la
sua compagna di banco a lei, e mi raccontò che da allora non ebbe altro che delusioni in amore. Era una
ragazza in gamba, che non aveva ancora avuto il piacere di essere amata con la sua stessa generosità, ed
ero contento di essere con lei.
Le portai un regalo, una copia speciale in gesso del " Trionfo ", la scultura del cesto di frutta del
Caravaggio che avevo modellato e dipinto, e che le piaceva molto. In quella copia, il cesto di vimini era
dorato con oro zecchino e dietro aveva una dedica: A Laura che l'amo.
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Ci andammo a stendere sul suo letto, e inizialmente era forse un po' preoccupata, ma poi successe che
con vero trasporto la guardai e le feci una carezza sulla testa, e questo cambiò tutto e lei si lasciò andare.
Tempo dopo mi confidò che fu proprio quella carezza che le fece sciogliere le briglie.
Era buona, aveva un buon sapore in bocca, nella pelle e specialmente là. Nuda era molto carnale ed
eccitante e aveva i capezzoli più scultorei che avessi mai visto, e glieli baciai per piacer mio quanto suo.
Ognuno di noi ha il suo modo di muoversi nella vita e ovviamente anche nel sesso, e il suo era originale.
Quando venne il momento di infilarmi tra le sue gambe, lei le aprì e le alzò a mezz’aria e poi reggendosi
i talloni con le mani le tenne sospese invitandomi ad entrare così. Quel modo di offrirsi fu travolgente
per me. Che bello era sentirsi desiderati e fare l’amore con chi voleva proprio me. Stavamo facendo una
gran bella scopata, lo vedevo nel suo volto che guardavo con attenzione mentre la tenevo abbracciata. Il
suo respiro e i movimenti del mio cazzo uscivano ed entravano al medesimo tempo. Nel bel mezzo di
questa altalena, con meraviglia e sconcerto disse – Dio, vengo!
Le vidi, tra le palpebre socchiuse, le pupille roteare da destra a sinistra, sembrava che cercasse un
appiglio a cui aggrapparsi per non cadere ma l’unico appiglio a cui poteva aggrapparsi era già dentro di
lei, e così fece. Tolse le mani dai talloni e si avvinghiò stretta a me e alle mie spinte. Le sue pupille si
fermarono e andarono all’insù, mentre dalla gola le usciva un respiro melodioso. La abbracciai stretta
anch'io e chiusi gli occhi per vederla meglio. Nell'essere così vicini avemmo un orgasmo simultaneo, le
nostre solitudini si toccarono e si abbracciarono, e restammo così, in compagnia e nel silenzio di un
abbraccio vero e profondo. Quel momento magnifico, dopo tanto tempo mi fece sentire ancora vivo,
ecco come si concluse il nostro primo incontro d’amore.
Il giorno dopo, quando uscii in bicicletta per il mio giro quotidiano, invece di svoltare per andare da lei
tirai dritto. Sapevo che mi stava aspettando. Ci vado domani, mi dissi, non capendo cos'era che me lo
impediva. Tornai da lei ventuno giorni dopo e la trovai che era una biscia.
– Sono passati ventun giorni e non ti sei mai fatto sentire, mai, nemmeno una volta! – e scuoteva la testa
in avanti fulminandomi con gli occhi.
Mi diede un altra chance, ma la feci soffrire ancora, ripetendo le mosse che sapevo essere sbagliate.
Perché? Qualcuno mi ha spiegato che la cosa ha a che fare con la paura e con la mia identità di maschio,
oltre al fatto che non eravamo cresciuti assieme intimamente. Sarà. Però Laura e io ci conoscevamo dalle
medie; mi sa che c'entrava mia moglie.
Una volta Laura mi disse – Promettimi che starai con me per sempre.
– Non posso prometterlo, un giorno morirò.
– Quello non conta!
– Insomma...
Non si fidò più di me.
Peccato.
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Magari se avessimo avuto un po' più di tempo, se lei avesse pazientato ancora un po', almeno il tempo di
leggere il libro che mi aveva dato e che a quanto pare rispondeva alla domanda sul perché le donne e gli
uomini non riescono ad amarsi, chissà. In quel periodo ero arrivato alla conclusione che la colpa fosse di
Dio, che lo faceva apposta a mandare all'aria le nostre storie perché voleva essere il solo ad amarci per
sempre. Quel libro mi rispose che invece la colpa era la mia, e mi informò sul come far bene l'amore e,
volendo, per sempre. E imparai davvero qualcosa che ancora funziona, e avrei speso questo sapere con
lei se avesse pazientato ancora un po', il tempo di leggere, appunto, il libro che mi passò*. Non le avrei
più mancato di attenzione e rispetto. Ma sedici anni di matrimonio non si risolvono in un lampo. Le
storie non finiscono ad un'ora esatta – ci siamo lasciati alle due e un quarto –, quando mai? Le
separazioni avvengono lentamente, a volte non basta il resto della vita e in maggioranza non finiscono
mai.
Quando incontro Laura mi fa sempre piacere vederla e salutarla. A parte l'intimità magica di quella sera,
la conosco dai tempi della scuola e le vorrò bene fino a quando la ricorderò. Ciao Laura, cara compagna
di scuola e di sesso!
P.S. Un giorno mi guardò con uno sguardo speciale. Che bello, le dissi, sembravi un cane, lei capì e
disse grazie.
* Il libro che Laura mi passò è “ Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere “ di John Gray, Ed. Tea, 1992
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Ornella *
Era il 1979 quando parlai con Ornella per la prima volta. Dal marciapiede fuori del mio studio
sentivo urlare. Incuriosito dal frastuono aprii la porta: era il mio vicino di negozio, un macrobiotico
integralista, che urlava in faccia ad una ragazza dal viso pulito, Ornella, che conoscevo di vista dal 1975,
il periodo dell'accademia di belle arti di Ravenna. Lei studiava pittura e io scultura, ci incrociavamo ogni
tanto nei corridoi e quando succedeva ci sorridevamo in segno di saluto, senza che nessuno dei due
aggiungesse mai una parola. Da allora la rividi lì, con gli occhi spalancati sotto una raffica di insulti.
– Si, il tuo maestro si mangia dei gelati grossi così – e segnava la quantità con le mani – Così!
E giù a dirne peste e corna mentre lei, come un agnellino, non reagiva a quei pugni mentali. Non sapevo
di chi stesse parlando il tizio e non mi importava, ero rapito dall'espressione pacata di lei. Non si
sporcava e nemmeno si vergognava mentre lui le buttava merda in faccia.
– E’ un coglione e voi siete più coglioni di lui!
Finito di scaricare il suo livore, l'integralista girò sui tacchi e se ne andò piantandola su due piedi. Volli
saperne di più, mi avvicinai e ci facemmo il solito sorriso, al quale io questa volta aggiunsi parola e le
chiesi – Cos’è ‘sta storia?
Conversammo un po’, e la sera stessa andai in un posto dove delle persone parlavano del “mangia gelati”
e del suo “messaggio di pace”, e fu così che cominciai a frequentare Ornella e quella strana comunità.
A farla breve, dopo un mio risentimento per non avere ricevuto le tecniche di quella pratica nei tempi e
modi da me supposti, decisi di mandare tutti a cagare. Annunciai la cosa a Ornella e Piero, il suo
fidanzato, alla fine di un evento pubblico organizzato in una sala comunale vicino al mio studio, nel
quale tornai subito dopo arrabbiatissimo. Ero lì da almeno mezz’ora quando sentii il campanello
tintinnare, la porta si aprì e vidi a mezz'aria un gran mazzo di fiori dentro ad un vaso, tenuto dalle braccia
di una persona di cui vedevo solo le gambe. Quel mazzo di fiori entrò e venne verso di me, e dietro c'era
Ornella.
* Disegno originale della bocca di Ornella.
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La guardai un po’ stupito e lei mi disse – Posso lasciarli qui stasera? Domani li porto in sala.
Come dire di no. Appoggiò il vaso su un tavolo e mi venne vicino, stette un po’ in silenzio e mi chiese
come stavo.
– Sto che non me ne frega più niente, se danno la Conoscenza a degli sfigati come ho visto e non la
danno a me, amen, che se la tengano.
Ornella capiva che a parlare non era il mio cuore e non disse niente, voleva sapere un'altra cosa.
– Allora non vieni più in sala?
– NO!
Stette un po’ in silenzio con la testa bassa, poi con un fil di voce disse – Non ci vedremo più?
Nel tono della sua domanda c’era qualcosa di accorato che mi colpì. Parlammo e venne fuori che le
dispiaceva, che le sarei mancato, e mi disse di quel massaggio al collo che mi aveva fatto alcuni giorni
prima mentre guidavo perché aveva voglia di toccarmi, più che curarmi una improbabile contrattura, e
temeva che Piero lo capisse. Le piacevo, e la cosa mi sorprese. Anche lei mi piaceva, e molto, ma era
fidanzata e per questo non l'avevo corteggiata.
Iniziò così il periodo magico dell’innamoramento, che non guarda alle incertezze apparenti. Ornella
abitava a Brisighella e qualche sera dopo passai a prenderla da casa. Lei era in maglia e pantaloni neri,
una specie di Marilyn Monroe romagnola, e aveva un “che” di speciale nel viso. Di me invece non
ricordo nulla, potrei solo giurare sul colore dei miei capelli. Il viaggio in macchina da casa sua alla mia
iniziò con un po’ di imbarazzo, ma poi sempre più occupò la scena il piacere di essere insieme, di notte,
e liberi di fare quello che volevamo alle spalle di tutti. Non ricordo un istante di quella storia in cui ho
sentito di nuocere a qualcuno, ad esempio il suo fidanzato, come invece spesso succede in questi casi, e
direi che fosse così anche per lei. Era una cosa tra noi e nessun altro, che andava oltre i timori e la colpa.
Il viaggio fu platonico, tra le curve dei colli romagnoli, poi diventò frizzante vicino a Ravenna ed infine
addirittura toccante arrivati a destinazione. Andammo nel mio studio, dove avevo già cambiato le
lenzuola, la coperta e le federe dei cuscini, e c'era un buon odore di fresco e pulito ad accoglierla. Accesi
la luce rossa che si espanse ovunque e salimmo sul letto a soppalco, dove quella notte sprigionammo
l'amore fra noi.
Quello che mi affascinò di Ornella e mi lasciò inebriato per almeno tre o quattro giorni fu il modo nel
quale tutto successe. Lei non aveva nessun tabù e quello che facemmo mi appagò come mai prima. Con
lei le cose iniziarono subito bene e andarono avanti per un bel po’. La sua bella faccia pulita e sorridente,
la sua voce, la gioia fisica completa che provavo con lei mi colpivano come mai prima e di più delle
parole. Parlavamo anche di cose che ci stavano a cuore ma, a parte quello, tra il parlare o farci sesso,
preferivo sempre la seconda cosa.
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Lo facevamo ovunque, in luoghi appartati o alla luce brillante del sole, come una volta sulla duna nella
spiaggia di inverno, dove io seduto guardavo il mare mentre lei con la testa tra le mie cosce non vedeva
che me. Ogni tanto passava gente sulla battigia, ma solo io vedevo come mi amava.
Una volta ci trovammo casualmente a dormire con Paola mentre Fritz era in Medio Oriente. Io ero in
mezzo a loro, e nessuna sapeva che ero l'amante di entrambe. Tutti avevamo voglia di farlo ma nessuno
si muoveva. Io non mi muovevo. Però a un certo punto la mano di Ornella venne a cercarmi, e in pochi
attimi la situazione si fece dura. Sentivo che anche Paola era sveglia e non volevo che si accorgesse delle
manovre militari in corso. Allora mi piegai un po' di lato in modo da facilitare le operazioni, ma dopo un
po' si presentò anche la mano di Paola alle mie spalle, che mi stava risalendo la coscia. Quando arrivò
all'altezza delle mie palle, per impedirle la collisione con quella di Ornella, la mia mano sinistra le andò
incontro e la prese, come se mi interessasse tenerci un po' per mano. Funzionò per tre secondi, perché
Paola aveva un'altra mano pronta all'azione, la sinistra, che partì in direzione del mio cazzo, un posto che
cominciava ad affollarsi. Presi anche la mano di Ornella, che come Paola ne fu felice, tanto ne aveva
un'altra. A quel punto controllavo solo due mani su quattro, e forse mi giocai un'offerta del destino,
perché anziché lasciare che le cose andassero come dovevano, mi drizzai di colpo a sedere.
– Devo pisciare – dissi lasciando le due mani, e andai in bagno al buio. Il resto della notte fu altrettanto
movimentato. Chissà che piega avrebbero preso le cose se avessi fatto un bel respiro e non avessi
intralciato quella libera circolazione di mani.
Il periodo magico del nostro innamoramento durò molto, ma poi terminò e il primo segnale lo colsi un
giorno per strada. Passeggiavamo mano nella mano, quando lei vide da lontano qualcuno che la
conosceva e staccò la sua mano velocemente dalla mia. Non le dissi niente, perché nulla ebbi da dirle.
P.S. La felicità è avere fiori in ambo le mani (proverbio giapponese)
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Note
In copertina il dipinto a olio “ L’amore alle spalle “ 1976 – cm 50x70.
Questo libro è stato scritto in vari momenti fra il 2009 e il 2014. Gianfranco Tondini mi è
stato di grande aiuto per farlo al meglio. Grazie Tondo.
La traduzione in inglese è di Giancarlo Gini. – Sarebbe meglio se il traduttore ti conoscesse
bene, mi ha detto una volta qualcuno. Giancarlo lo conosco dal 1982, l’ho incrociato di
recente alle Canarie, gli ho proposto il lavoro e lui ha accettato, facendo una eccellente
traduzione.
Questo libro è prodotto dall’associazione La Ghianda, che dal 1992 sta realizzando un
monumento dedicato alla pace: La Davida ( ladavida.com )
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L`amore alle spalle