UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
Dipartimento di Studi umanistici
Lingue, mediazione, storia, lettere, filosofia
DOTTORATO DI RICERCA IN
“LINGUE E LETTERATURE COMPARATE”
CICLO XXII
Il romanzo multigenerazionale di
Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly
Herrera ed Edward Rivera
TUTOR e COORDINATRICE
Chiar.ma Prof.ssa Marina Camboni
ANNO 2013
DOTTORANDA
Dott.ssa Mara Salvucci
Alla mia famiglia
per il nutrimento affettivo che mi ha sempre dato
RECORDAR:
Del latín re-cordis,
Volver a pasar por el corazón.
El libro de los abrazos, Eduardo Galeano.
To Walt Whitman
hey man, my brother
world-poet
prophet democratic
here’s a guitar
for you
-a chicana guitarso you can spill out a song
for the open road
big enough for my people
-my Native American race
that I can’t seem to find
in your poems
Angela de Hoyos
INDICE
Introduzione ................................................................................................................1
PARTE PRIMA
1 IL ROMANZO MULTIGENERAZIONALE........................................ 11
1.1 Verso una definizione ........................................................................ 11
1.2 L’immaginazione genealogica ........................................................... 16
1.3 L’identità generazionale ..................................................................... 22
1.4 Linee guida .......................................................................................... 26
1.5 Ibridità del genere .............................................................................. 30
2 LA LETTERATURA LATINA NEGLI STATI UNITI..................... 39
2.1 Latino Social Force .............................................................................. 39
2.2 Latino Writing Force ........................................................................... 55
2.2.1 Letteratura chicana: da Aztlán a Borderlands ..................... 55
2.2.2 Letteratura portoricana: dal jíbaro all’hip-hop ................. 64
2.2.3 Letteratura cubano-americana: da Martí ai Mambo Kings .. 75
2.3 Dalla scrittura del sé al Romanzo multigenerazionale ................... 84
PARTE SECONDA
3 Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera ed Edward Rivera ..... 95
3.1 Nash Candelaria: A True Child of New Mexico.................................. 95
3.2 Edward Rivera: The Pioneering Bilingual Persona .............................. 113
3.3 Andrea O’Reilly Herrera: Una cubanita pasada por agua ................. 126
4 Analisi comparata delle opere primarie ................................................139
ANALISI NARRATOLOGICA
4.1 The Pearl of the Antilles, Andrea O’Reilly Herrera ................... 139
4.1.1 Dall’acquarello alla pubblicazione ................................... 139
4.1.2 Quadro sinottico ............................................................... 141
4.1.3 Intrecciando voci e prospettive ...................................... 152
4.1.4 Women’s Language ............................................................... 161
4.2 Family Installments, Edward Rivera ............................................. 168
4.2.1 Sul solco dell’Underclass Lit........................................... 168
4.2.2 Quadro sinottico............................................................. 170
4.2.3 Il narratore autocratico .................................................... 180
4.2.4 Tra generi letterari e marginalità ................................. 188
4.3 A Daughter’s a Daughter, Nash Candelaria................................. 192
4.3.1 Un romanzo di strong women ........................................... 192
4.3.2 Quadro sinottico ............................................................... 193
4.3.3 Il matriarcato narrativo .................................................... 204
ANALISI LINGUISTICA
4.4 Surface Deviant English vs Latent, Underlying Spanish ................. 213
ANALISI CULTURALE
4.5 Los nadies della storia ...................................................................... 239
4.6 Dalla storia alla “mnemostoria”.................................................. 245
4.7 La post-memoria: tra genealogia e generazioni....................... 268
4.8 La loca, la mulata, la mestiza e la loro ombra sul presente .............. 273
5 Intervista con gli autori ............................................................................... 283
5.1 Introduzione ..................................................................................... 283
5.2 Intervista con Nash Candelaria ...................................................... 286
5.2.1 Versione originale ................................................................. 286
5.2.2 Versione tradotta .................................................................. 297
5.3 Intervista con Andrea O’Reilly Herrera ..................................... 309
5.3.1 Versione originale ................................................................. 309
5.3.2 Versione tradotta .................................................................. 328
Conclusioni ....................................................................................................................... 349
Appendice: foto, opere d’arte e immagini ................................................. 361
BIBLIOGRAFIA ......................................................................................... 375
Introduzione
La tesi prende in esame un settore estremamente specifico della letteratura
angloamericana contemporanea: il romanzo multigenerazionale di tre autori
provenienti dalle principali comunità ispaniche degli Stati Uniti: A Daughter’s a
Daughter di Nash Candelaria (messico-americano), Family Installments:
Memories of Growing Up Hispanic di Edward Rivera (portoricano) e The Pearl of
the Antilles di Andrea O’Reilly Herrera (cubano-americana).
I tre romanzi sono caratterizzati dalla presenza di almeno tre generazioni
della stessa famiglia, in una narrazione dal respiro plurisecolare che abbraccia
variazioni
geografiche,
temporali,
linguistiche e
culturali
estremamente
significative: dall’epoca coloniale all’età contemporanea, dai Caraibi agli Stati
Uniti, dalla campagna sottosviluppata alla metropoli o dallo spagnolo all’inglese,
solo per citare alcuni esempi.
Le tre opere vengono esplorate attraverso un approccio comparativo e
transatlantico, che non perde mai di vista la dimensione intercontinentale delle
due Americhe e integra studi letterari, culturali, di genere ed etnici, attingendo sia
alla tradizione europea, sia a quella americana. Quello che ne emerge è uno studio
approfondito della dimensione umana e letteraria dei tre autori, che non esisteva
prima di questo lavoro e che ha il pregio di illustrare l’esperienza minoritaria dei
Latinos in tutta la sua complessità e senza ridurla a facili stereotipi.
Trattandosi di autori poco noti sia al pubblico italiano cha a quello
mainstream statunitense, tuttavia, prima di immergermi nell’analisi comparata
1
delle tre opere primarie ho ritenuto necessario delineare il contesto socioculturale
in cui l’esperienza dei loro autori si inserisce, oltre che fornire una dettagliata
analisi dei concetti chiave di genealogia, generazione, memoria e identità etnica.
Interamente dedicato alla definizione del romanzo multigenerazionale, il
primo capitolo mette a confronto questa tipologia narrativa con altri generi
letterari affini (il romanzo genealogico, il Bildungsroman, il romanzo familiare) e
individua due linee guida per l’analisi e l’interpretazione dei testi: quella
dell’immaginazione genealogica e quella dell’identità generazionale. Entrambe si
configurano come strategie di costruzione del sé da parte dei protagonisti e come
ricerca continua di un senso per il proprio percorso esistenziale, in un panorama
globale sempre più frammentato, delocalizzato, fluido e multiculturale. Ciò che ne
risulta è dunque un romanzo ibrido in cui confluiscono inglese, spagnolo,
Spanglish, dialetti di strada e afro-caraibici, oltre che diverse tradizioni letterarie,
inclusa quella del realismo magico, del romanzo storico e del non-fiction novel.
Dal punto di vista teorico-critico, nel primo capitolo ho fatto riferimento,
in particolare, agli studi di Eviatar Zerubavel, Arjun Appadurai e Benedict
Anderson per far emergere come le proiezioni genealogiche – personali e
collettive – possano essere considerate delle narrative selettive e soggettive del
passato, create secondo gli stessi meccanismi culturali di costruzione di “comunità
immaginate”, da parte di individui e gruppi storicamente situati e sparsi in tutto il
mondo.
Per quanto riguarda la ricerca sociale sulle generazioni ho attinto invece a
Karl Mannheim, Maurice Halbwachs, Ron Eyerman, Bryan Turner e Pierre
2
Bourdieu, approndando poi alla definizione di “identità generazionale” grazie al
contributo dell’antropologa Aleida Assmann.
Dopo questa messa a punto dei parametri necessari per l’analisi del
romanzo multigenerazionale, nel secondo capitolo procedo a delineare l’universo
sociale e letterario dei Latinos negli Stati Uniti: un gruppo etnico estremamente
diversificato, in forte espansione e con una sempre maggiore ascendenza politica.
È emblematica, a questo proposito, la scelta di un inaugural poet ispanico, per la
prima volta nella storia, in occasione della cerimonia di insediamento del
presidente Barack Obama, il 21 gennaio 2013. Si tratta del poeta cubanoamericano Richard Blanco che nella poesia “One Today”, composta per
l’occasione, ha fatto riecheggiare il suono della propria lingua materna, così come
delle tante lingue emblema dell’unità nella diversità su cui si fondano gli Stati
Uniti:
Hear: squeaky playground swings, trains whistling,
or whispers across café tables, Hear: the doors we open
for each other all day, saying: hello, shalom,
buon giorno, howdy, namaste, or buenos días
in the language my mother taught me—in every language
spoken into one wind carrying our lives
without prejudice, as these words break from my lips.1
I Latinos comprendono infatti sia gli immigrati – più o meno recenti – dai
Caraibi e dall’America Latina, sia i discendenti dai territori messicani ceduti agli
Stati Uniti nel Diciannovesimo secolo, per un totale di circa 50 milioni di persone,
secondo le stime del censimento del 2010. È proprio oltrepassando il confine
fisico e simbolico del Río Grande, nell’incontro/scontro tra il mondo anglo-
1
Il testo integrale della poesia “One Today” letta da Richard Blanco in occasione della seconda
cerimonia d’insediamento del presidente Barack Obama del 21 gennaio 2013 è disponibile nella
pagina dedicata del Los Angeles Times: <http://www.latimes.com/news/politics/la-pninauguration-2013-richard-blanco-poem-20130121,0,5626688.story>. Data di accesso, 21 gennaio
2013.
3
americano e quello ispanico che essi sembrano ritrovare un senso comune di
Latinidad e un patrimonio culturale condiviso. Ed è la ricostruzione di una storia
che precede e segue quell’incontro che segna indelebilmente anche la letteratura
messico-americana, portoricana e cubano-americana – come emerge dal breve
excursus storico con cui si conclude questo capitolo.
A livello critico-teorico faccio riferimento ai maggiori esperti di letteratura
dei Latinos (Nicolás Kanellos, Ilan Stavans, Harold Augenbraum, Juan BruceNovoa, Ramón Saldivar, Gustavo Pérez Firmat, Luis William, Juan Flores, solo
per citare alcuni esempi), le cui teorie vengono rielaborate attraverso la lente degli
studi culturali di Jurij Lotman, José Vasconcelos, Gilles Deleuze e Felix Guattari,
Homi Bhabha e Itamar Even-Zohar. Cerco inoltre di far interagire teoria critica e
produzione artistico-letteraria, includendo esempi rilevanti dalle opere di scrittori
ispanici come Julia Álvarez, Lourdes Casal, Sandra María Esteves, Gloria
Anzaldúa, Pedro Pietri, Miguel Algarín, Miguel Piñero, Piri Thomas o Abraham
Rodríguez, tra gli altri.
Nel terzo capitolo descrivo dunque l’esperienza umana e letteraria dei tre
autori oggetto di questa tesi, cercando di portare alla luce le vicende biografiche
più significative e il rapporto complesso con il passato della famiglia e con la
comunità di origine, rielaborate nei romanzi e intessute nella Grande Storia. Nelle
parti dedicate a Nash Candelaria emerge la peculiare identità dei New Mexican
Hispanics, oltre che lo spiccato senso di appartenenza dell’autore a una delle più
antiche famiglie di Albuquerque. La vita di Edward Rivera è invece emblematica
della diaspora portoricana della metà dello scorso secolo e delle immani difficoltà
affrontate dagli immigrati, nel tentativo di ritagliarsi un futuro migliore a partire
4
dai quartieri più poveri e multietnici di New York. Andrea O’Reilly Herrera fa
invece emergere le profonde ferite che segnano l’esperienza degli esiliati cubani
negli Stati Uniti. Per questo il recupero di un senso di cubanía che vada oltre i
confini dell’isola, diventa una strategia fondamentale di sopravvivenza.
Nel quarto capitolo, la memoria e la dimensione etnica dei tre autori viene
ampliata ed esplorata nel respiro multigenerazionale e plurisecolare che
caratterizza i loro romanzi. Attraverso l’analisi comparatistica delle tre opere
(narratologica, linguistica e culturale) emerge infatti come i narratori-protagonisti
si collochino all’incrocio tra genealogia e generazione, costantemente inquadrati
da una doppia lente che li vede muoversi, allo stesso tempo, sia sul piano
sincronico (come discendenti di una famiglia), sia su quello diacronico (come
parte di una determinata epoca storica). Essendo membri di una comunità etnica
minoritaria, le loro vicende sono inoltre emblematiche di un percorso identitario
simultaneamente individuale e collettivo.
Per l’analisi narratologica ho utilizzato prevalentemente l’approccio di
Gérard Genette, ma ho attinto anche alle teorie di Monika Fludernik, Ansgar
Nünning e Susan Sniader Lanser. Per l’analisi linguistica ho invece fatto
riferimento, in primis, agli studi sul bilinguismo letterario di Gary Francisco
Keller e, in seconda istanza, alle opere di Manuel Martín Rodríguez, Anna
Scannavini e Shana Poplack. Attraverso l’analisi culturale ho invece rielaborato il
concetto di transculturazione di Fernando Ortiz, Angel Rama e Antonio BenítezRojo, gli studi sulla diaspora di James Clifford e Stuart Hall, la critica femminista
di Susan Sniader Lanser, Carol Gilligan e Marina Camboni, ma soprattutto gli
5
studi sulla trasmissione della memoria culturale di Marianne Hirsch, Astrid Erll e
Jan Assmann.
Il quinto capitolo è invece dedicato alle interviste con Nash Candelaria e
Andrea O’Reilly Herrera, frutto dell’incontro con i due autori avvenuto nel 2011.
La loro testimonianza diretta sul ruolo della scrittura e dei legami
intergenerazionali, sul senso di appartenenza etnica e sulla dialettica tra
conservazione, meticciato e trasformazione nei processi culturali mi permettono di
chiudere il cerchio sul valore del romanzo multigenerazionale.
Di fatto, nelle conclusioni evidenzio come le opere analizzate siano
strumenti pulsanti di transculturazione, capaci di elevare l’esperienza minoritaria
dei Latinos a paradigma universale di trasmissione e rielaborazione della memoria,
del ricordo e di una coscienza culturale. Propongo inoltre che l’approccio
utilizzato in questa tesi per analizzare i tre romanzi possa essere esteso ad altri
ambiti artistici dei Latinos, in particolare alle arti visive.
In ogni fase della mia scrittura ho cercato di far emergere il mio punto di
vista di donna europea, la mia formazione linguistico-letteraria inglese e spagnola
e la mia passione per l’universo culturale panamericano. Ho inoltre cercato di
rielaborare i preziosi stimoli intellettuali, gli scambi di idee e i contatti umani di
cui, negli anni, ho potuto far tesoro, in Italia, in occasione dei seminari del Centro
Studi Americani di Roma o dei convegni dell’AISNA2, e all’estero, durante i miei
soggiorni più significativi: presso la Universidad de León in Spagna, nel Clinton
Institute for American Studies dello University College Dublin in Irlanda, nel
Center for Inter-American Studies della Karl-Franzens Universitaet Graz in
2
L’Associazione Italiana di Studi Nord-Americani.
6
Austria e presso l’Hispanic Research Center (HRC) dell’Arizona State University
negli Stati Uniti.
È stata proprio quest’ultima esperienza ad aver maggiormente segnato la
mia scrittura, in primis, per la scelta dei tre autori, individuati grazie alla guida del
prof. Gary Francisco Keller. In secondo luogo, per la possibilità di approfondire la
mia ricerca in un ambiente umanamente e intellettualmente ricchissimo, per di più
circondata da migliaia di coloratissimi libri della Bilingual Press e dagli splendidi
quadri di artisti ispanici che abbelliscono le pareti dell’HRC. Infine, per la
possibilità unica di vivere in una zona di confine, percependone le tensioni
politico-sociali ma anche la straordinaria storia, la fioritura culturale e la
dirompente creatività espressiva che proprio da essa emerge, in un intreccio di
colori, leggende, antiche divinità e razze, costantemente tradotto in due lingue,
l’inglese e lo spagnolo.
Infine, nella pagine di questa tesi rivivono la musica del programma radio
di NPR Alt.Latino, i fumetti di Lalo Alcaraz e le conversazioni appassionate sulla
letteratura, sulle Americhe e sull’incontro tra culture che ho potuto intessere con
amici sparsi in tutto il mondo. Anch’io, come un’abile “giocoliera”, ho cercato di
mantenere tutti questi elementi sempre sospesi in aria, per ricreare una mia
immagine dell’universo umano e letterario di Nash Candelaria, Edward Rivera e
Andrea O’Reilly Herrera.
7
8
Parte Prima
Il Romanzo multigenerazionale e la
letteratura Latina negli Stati Uniti
9
10
Capitolo 1
IL ROMANZO MULTIGENERAZIONALE
1.1 Verso una definizione
La definizione di romanzo multigenerationale, all’interno della Latino
Literature negli Stati Uniti, racchiude i concetti chiave di genealogia, generazione,
memoria e identità etnica, particolarmente significativi all’interno delle società
multiculturali
–
come
quella
statunitense
–
stratificate
e
strutturate
simultaneamente sia in comunità etniche, sia in gruppi generazionali.
Il termine inglese “multigenerational” è ampiamente usato in svariati
campi, come nelle scienze applicate (in particolare in genetica e in biologia) e
nelle scienze umane – soprattutto in riferimento all’antropologia sociale,
all’economia, agli studi sui cambiamenti della forza lavoro, alle scienze della
formazione e alle terapie familiari3.
In ambito letterario, lo stesso aggettivo viene generalmente utilizzato in
riferimento a film o a opere narrative che abbiano come protagoniste diverse
3
Citerò, solo a scopo esemplificativo, un titolo per ognuno degli ambiti menzionati: Elizabeth P.
Lacey, et al. “Multigenerational Effects of Flowering and Fruiting Phenology in Plantago
lanceolata” (Ecology 84.9, 2003), 2462-2475; Torsten M. Pieper, Mechanisms to Assure Longterm Family Business Survival (Frankfurt: Lang, 2007); Stephen A. Anderson, Family Interaction:
a Multigenerational Developmental Perspective, (Boston: Allyn & Bacon, 2011); Diane Sue
Piktialis, Bridging the Gaps: How to Transfer Knowledge in Today’s Multigenerational
Workplace (S.l.: Conference Board, 2008); Donald R. Collins, Conducting Multi-generational
Qualitative Research in Education (New York: Lang, 2011); David S. Freeman, Multigenerational
Family Therapy (New York: Haworth Press, 1992).
11
generazioni di una o più famiglie. Inoltre, note compagnie di commercio
elettronico di libri come Amazon.com e AllBookstores.com – solo per citare
alcuni esempi – utilizzano le categorie “Multigenerational fiction” o “FamilyMultigenerational” per designare un gruppo molto variegato di opere letterarie che
vanno dalla narrativa per ragazzi, ai libri di avventura, alle saghe familiari o alle
cronistorie, che non trattano necessariamente le avventure di molteplici famiglie e
sono “multi-generazionali” perché fruibili da lettori di diverse età, più che per la
discendenza dei protagonisti.
Eppure, ad oggi, non esiste una vera e propria definizione di
Multigenerational Novel come genere letterario, e gli usi ambivalenti del termine,
evidenti già dai pochi esempi citati finora, rendono necessaria un’analisi più
approfondita delle sue implicazioni.
L’aggettivo “multigenerational” è composto innanzitutto dal prefisso
latino Multi-, riferito sia alla quantità (more than one) che alla frequenza (many
times over)
4
, e dall’aggettivo anch’esso di origine latina “generational”
riconducibile alle due accezioni semantiche del sostantivo “generazione – che può
far riferimento allo stesso tempo ad una realtà familiare o sociale.
Si può distinguere infatti, una “family generation” e una “social
generation”. La “family generation” o genealogia, si riferisce alla successione
diacronica dei membri di una stessa famiglia (nonno, padre, figlio, etc…), mentre
la “social generation” o “generationality” indica la formazione sincronica di
gruppi di individui che hanno approssimativamente la stessa età (coevals), vivono
4
Merriam Webster Dictionary: Multi- <http://www.merriam-webster.com/dictionary/multi>. Data
di accesso 04 giugno 2012.
12
nella stessa epoca (contemporaries) o si identificano in un repertorio condiviso di
esperienze o pratiche culturali5.
Lo storico tedesco Jürgen Reulecke enfatizza il duplice significato di
“generationality”:
On the one hand it refers to characteristics resulting from shared
experiences that either individuals or larger “generational units”
collectively claim for themselves. On the other hand, it can also mean
the bundle of characteristics resulting from shared experiences that are
ascribed to such units from the outside, with which members of other
age groups – and often also public opinion as expressed in the media –
attempt, in the interest of establishing demarcations and reducing
complexity, to identify presumed generations as well as the
progression of generations.6
In entrambe le accezioni, le operazioni di classificazione o il senso di
appartenenza ad una determinata categoria (ad esempio prima o seconda
generazione, piuttosto che Baby Boomers o Generazione X) è di per sé un atto
sociale e non univoco, al contrario di ciò che accade in ambito economico e in
biologia, in cui il termine “generazione” denota un mero meccanismo di
sostituzione (nel tempo) di organismi o merci considerati superati. Non è un caso
che le aziende definiscano sempre più spesso i loro prodotti più innovativi, in
termini di “generazioni”, studiate per rimpiazzare gli esemplari precedenti ad un
5
Per una maggiore chiarezza, all’interno di questo capitolo utilizzerò il termine “genealogia” in
riferimento alla generazione familiare e “generazione” in riferimento alla generazione sociale.
6
“Da un lato è il risultato di caratteristiche derivate da esperienze condivise che sia gli individui
sia unità generazionali più ampie rivendicano collettivamente per se stessi. Dall’altro lato, può
anche indicare l’insieme di caratteristiche derivate da esperienze che sono attribuite a tali unità
dall’esterno. Attraverso queste caratteristiche, i membri di altri gruppi di età – e spesso anche
l’opinione pubblica espressa dai media – cercano di identificare presunte generazioni, così come la
progressione delle generazioni, allo scopo di stabilire dei confini e di ridurre la complessità”.
Jürgen Reulecke, “Generation/Generationality, Generativity and Memory”, Cultural Memory
Studies: An International and Interdisciplinary Handbook, eds. Astrid Erll, Ansgar Nünning e
Sara B. Young (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 119. Tranne ove indicato, le traduzioni italiane
sono mie.
13
ritmo sempre più rapido, come confermano i sociologi Eyerman e Turner: “The
‘neo’ style replaces the ‘paleo’ with alarming speed”7.
Questo modello biologico-funzionale di generazione non può quindi essere
applicato alle famiglie o alle società nelle quali, in generale, il principio di
successione dal vecchio al nuovo non è mai brusco o automatico, ma sempre
dilazionato nel tempo e soggetto a sovrapposizioni complesse che richiedono ai
singoli individui uno sforzo continuo di ridefinizione della propria posizione
genealogica
(family
generation)
e
generazionale
(social
generation).
Nell’analizzare quanto il legame con la propria famiglia e con altri gruppi (di
coetanei o di contemporanei) influiscano sulla costruzione dell’identità
individuale, è interessante mettere a confronto due approcci distinti ma
complementari recentemente sviluppati in ambito anglo-americano ed europeo.
Sul versante nordamericano, la psicologa Jean M. Twenge descrive lo stato
d’animo dei giovani statunitensi nati nell’ultimo decennio del XX secolo (definiti
“Generation Me”), sottolineandone l’individualismo spiccato, la perdita del senso
del dovere nei confronti della famiglia, l’estrema concentrazione su se stessi, le
maggiori possibilità di realizzazione personale; ma anche la conseguente
competizione esasperata, l’isolamento e la malinconia che li farebbero vivere in
un “Age of Anxiety (and Depression, and Loneliness)” 8 , individuata anche
dall’acronimo “YO-YO (You Are On Your Own)” 9 . Sul versante europeo, la
studiosa tedesca Aleida Assmann parla, al contrario, di “post-individual age”:
7
Ron Eyerman e Bryan Turner, “Outline of a Theory of Generations” (European Journal of Social
Theory 1.1, 1998) 95.
8
“Età dell’ansia (e della depressione e della solitudine)”. Jean M. Twenge, Generation Me: Why
Today’s Young Americans Are More Confident, Assertive, Entitled – and More Miserable than
Ever Before (New York: Free Press, 2006) 104.
9
“YO-YO (Sei solo)”. Ibidem, 4.
14
People today no longer define themselves exclusively by what
distinguishes them from all other people, but also by what connects
them with other people. They no longer define themselves exclusively
by what they have accomplished and created, but also by what they
have experienced and suffered in common. Young persons – and this
is also a new development – no longer focus exclusively on what they
have consciously experienced and absorbed but are also more and
more keenly interested in the history of the family into which they
were born. Individuals are less and less given to conceive of
themselves as autonomous entities and more and more as members of
groups which they have not joined voluntarily, such as their family or
their generation.10
Mentre Twenge descrive i lati oscuri e le contraddizioni del dilagante
individualismo americano11, rafforzato da una diffusa “language of the self”12 e da
un imperante culto del singolo (“we worship the altar of self-esteem and selffocus”13); l’epoca post-individualista delineata da Assmann poggia le sue basi su
di un desiderio opposto: la costruzione del sé e la ricerca continua di un senso per
il proprio percorso esistenziale attraverso l’appartenenza ad un “gruppo” (famiglia
o gruppi generazionali in primis, ma anche comunità etniche, confraternite, etc.)
con il quale ci si può identificare, di volta in volta, per un legame di sangue, per
un passato comune, per affinità di interessi, o per un trauma condiviso.
10
“Le persone oggi non si definiscono più esclusivamente in base a ciò che le distingue dal resto
della gente, ma anche da ciò che le mette in relazione con le altre persone. Non si definiscono più
esclusivamente in base a ciò che hanno realizzato e creato, ma anche in base alle esperienze ed alle
sofferenze comuni. I giovani – e anche questo è un nuovo sviluppo – non si concentrano più
esclusivamente su ciò che hanno consapevolmente vissuto e assorbito, ma si appassionano sempre
di più alla storia della famiglia nella quale sono nati. Gli individui tendono sempre meno a
concepire se stessi come entità autonome e sempre più come membri di gruppi dei quali non sono
entrati a far parte volontariamente, come la loro famiglia o la loro generazione”. Aleida Assman,
“Limits of Understanding: Generational Identities in Recent German Memory Literature”, Victims
and Perpetrators: 1933-1945. (Re)presenting the Past in Post-Unification Culture, eds. Laurel
Cohen-Pfister and Dagmar Wienroeder-Skinner (Berlin: Walter de Gruyter, 2006) 31.
11
“Like McDonald’s and Coca-Cola, American individualism is spreading to all corners of the
globe. / Come i McDonald’s e la Coca-Cola, l’individualismo Americano si sta diffondendo in
ogni angolo del globo”. Twenge 7.
12
“Lingua del sé”. Ibidem, 2.
13
“Veneriamo l’altare dell’autostima e della concentrazione su noi stessi”. Ibidem, 60. Twenge
sottolinea inoltre il ruolo della cultura dominante nell’incoraggiare il primato dell’individuo anche
attraverso politiche educative istituzionali come i “Self-esteem Programs” di cui si occupa nel
secondo capitolo di Generation Me.
15
Questa tendenza spiegherebbe il recente rinnovato interesse sia per le
genealogie familiari, sia per lo studio dei cambiamenti sociali in termini di
generazioni, sia per la formazione di nuove categorie identitarie, fondamentali per
la definizione di Multigenerational Novel, come i concetti di “genealogical
imagination” e di “generational identity”.
1.2 L’immaginazione genealogica
Per arrivare ad una definizione esaustiva di “genealogical imagination” è
bene soffermarsi sul recente boom di ricerche genealogiche e ricostruzioni degli
alberi familiari che ha investito in particolar modo gli Stati Uniti, divenendo un
fenomeno di massa.
Lo dimostrerebbero il successo di serie televisive del tipo di “Who Do You
Think You Are?”14, le centinaia di pagine web15 e softwares16 dedicati agli alberi
familiari e alla ricerca di antenati ignoti, e il fitto numero di aziende che offrono i
cosiddetti genetics ancestry tests, permettendo il calcolo dettagliato della
14
NBC Home Page: Who Do You Think You Are? <http://www.nbc.com/who-do-you-think-youare/>. Data di accesso 4 giugno 2012.
15
In ambito americano: Ancestry.com <http://www.ancestry.com/>, Familytreedna.com
<http://www.familytreedna.com/>, Familysearch.com <https://familysearch.org/>. In ambito
europeo: Tuttogenealogia.it <http://www.tuttogenealogia.it/>, Genea.net <http://it.geneanet.org/>,
Roglo <http://roglo.eu/roglo> , MyHeritage <http://www.myheritage.it/>, Cindy’s List
<http://www.cyndislist.com/>, Fil D’Ariane <http://www.entraide-genealogique.net/>. Data di
accesso 4 giugno 2012.
16
Oltre a quelli elencati da Wikipedia <http://en.wikipedia.org/wiki/Comparison_of_genealogy_software>,
Genealogica.it <http://www.genealogica.it/genealog.htm>, Geneweb
<http://opensource.geneanet.org/projects/geneweb>, Ages <http://www.daubnet.com/en/downloads>, Gramps
<http://www.gramps-project.org>, Generation X <http://sourceforge.net/projects/generationx/>, PhpGedView
<http://www.phpgedview.net/>. Data di accesso 4 giugno 2012.
16
prossimità genealogica con parenti lontani 17 , oltre che la percentuale esatta di
“africanità”, “asiaticità”, etc., presente nel DNA di chi lo richiede.
Nel tentativo di dare un’interpretazione esaustiva e transdisciplinare al
mondo della genealogia, il sociologo israeliano Eviatar Zerubavel utilizza
espressioni
estremamente efficaci
come “[t]remendous
fascination
with
genealogy” 18 , “obsession with ancestry”, “recreational genomics” o “thirst for
tracing lineages”19. Lo stesso autore sottolinea inoltre quanto conoscere i nostri
antenati e poter calpestare la terra in cui sono nati influisca sul nostro senso di
identità, sulla percezione che abbiamo di noi stessi e sull’immagine che
proiettiamo all’esterno, soprattutto nel panorama globale di “ethnoscapes […] in
motion”20 delineato da Arjun Appadurai.
Di fatto secondo l’antropologo indiano, in un’epoca di globalizzazione e
migrazioni di massa, l’economia culturale non può più esser ridotta ad un
semplice modello centro-periferia, ma andrebbe invece riorganizzata in “imagined
worlds”21 dai confini estremamente labili, che si formerebbero transnazionalmente
all’interno di flussi ininterrotti (di individui, comunità, tecnologie, merci, beni
finanziari, informazioni e ideologie), da cui siamo inevitabilmente suggestionati,
17
Non a caso, in uno dei romanzi che verranno presi in considerazione nella parte di analisi
comparativa di questa tesi (A Daughter’s a Daughter) è proprio attraverso un genetics ancestry
test che viene rivelato un mistero sepolto nel passato della famiglia protagonista.
18
“Straordinario interesse per la genealogia”. Eviatar Zerubavel, Ancestors and Relatives:
Genealogy, Identity, and Community (New York: Oxford University Press, 2012), xi. Zerubavel
conferma inoltre che le ricerche genealogiche sono esistite fin dall’antichità e non sono quindi una
pratica unicamente contemporanea o occidentale. Mentre prima riguardavano quasi
esclusivamente le famiglie di ascendenza aristocratica, quella che si registra ora è una
democratizzazione e massificazione inedita del fenomeno.
19
“Ossessione per gli antenati”, “genomica ricreativa”, “sete di delineare la stirpe”. Ibidem, 4.
20
“Etnoflussi in movimento”. Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference in the Global
Cultural Economy”, Theorizing Diaspora: A Reader, eds. Jana Evans Braziel and Anita Mannur
(Malden: Blackwell, 2003) 31.
21
“Mondi immaginati”. Ibidem, 31.
17
sia viaggiando in prima persona, sia indirettamente per l’esposizione ai mezzi di
comunicazione di massa o per l’uso di tecnologie22.
Alla luce del modello disgiuntivo introdotto da Appadurai per descrivere
la dinamicità e la fluidità dei sistemi culturali contemporanei, le ricostruzioni
genealogiche possono esser viste come un tentativo per ristabilire quella
“transgenerational stability”23 su cui le famiglie non possono più fondarsi e che
veniva invece data per scontata in un’epoca in cui “place, identity, culture and
ancestry coincided”24.
A partire da Darwin, che per primo ha teorizzato come l’intero sistema
naturale sia basato sul principio di discendenza e ha parlato di evoluzione in
termini di processi genealogici, i rapporti di sangue e le comunità che su di essi si
basano (come le famiglie o i gruppi etnici) sono stati concepiti come naturali e
organicamente delineati. In realtà, l’individuazione dei legami genealogici e di
parentela va oltre la realtà biologica ed è fondamentalmente una costruzione
culturale, basata su convenzioni socio-cognitive che determinano il modo in cui
creiamo parentele, tradizioni, ricordi o lacune.
Le genealogie quindi sono una pratica tipicamente umana (nessun altro
animale ha percezione dei legami di parentela con i propri avi) e in quanto tale
22
In Modernity at Large, la sua opera più famosa, Appadurai delinea cinque “mondi immaginati”:
gli ethnoscapes (persone che si muovono tra nazioni, come turisti, immigrati, esiliati, lavoratori o
rifugiati), i technoscapes (che includono strumenti tecnologici, spesso legati alle multinazionali), i
financescapes (ovvero il capitale globale, i mercati monetari, le borse), i mediascapes (che
comprendono media elettronici e di ultima generazione), e gli ideoscapes (derivanti da ideologie
dominanti e contro-ideologie). Arjun Appadurai. Modernity at Large: Cultural Dimensions of
Globalization. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996. Nella versione italiana l’opera è
stata intitolata “Modernità in polvere” e i cinque mondi immaginati sono stati tradotti da Piero
Vereni in “etnorami”, “tecnorami”, “finanziorami”, “mediorami”, e “ideorami”. Arjun Appadurai,
Modernità in polvere, trad. di Piero Vereni (Roma: Meltemi, 2001).
23
“Stabilità transgenerazionale”. Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 42.
24
“Luogo, identità, cultura e discendenza coincidevano”. Catherine Nash, “‘They are Family’!:
Cultural Geographies of Relatedness in Popular Genealogy”, Uprootings/Regroundings: Questions
of Home and Migration, ed. Sara Ahmed (Oxford: Berg, 2003) 179.
18
non costituiscono il riflesso passivo di elementi naturali, né meri archivi storici;
sono invece il frutto della cosiddetta “genealogical imagination”25, attraverso la
quale i singoli individui costruiscono una narrativa selettiva e soggettiva del
proprio passato, trasformando una serie di predecessori in antenati, in linea con
logiche culturali di inclusione o esclusione che, di volta in volta, si considerano
rilevanti. Ecco perché ci sentiamo più legati a determinati parenti (nel presente) o
avi (nel passato), piuttosto che ad altri. Questo spiegherebbe il disagio con cui
alcune comunità vivono la presenza di predecessori di origini meticcie all’interno
della propria stirpe o la tendenza ad occultare i “mixed-blood” o gli “half-breed”
dalle narrative di costruzione individuale e nazionale della propria identità.
L’immaginazione
genealogica
si
rivela
inoltre
particolarmente
significativa per le comunità diasporiche, vista la loro necessità di ricostruire un
patrimonio culturale e familiare simbolico che possa reggersi oltre i confini di
appartenenza ad un luogo fisico. Ricopre un ruolo fondamentale anche per le
popolazioni vittime di schiavitù o dei soprusi coloniali per le quali l’impossibilità
di ricostruire la propria stirpe, inghiottita nell’oblio per le operazioni di
cancellazione del passato operate dai bianchi, e lo scontro con il cosiddetto
“genealogical brick wall”26, corrisponde spesso ad una dolorosa crisi esistenziale
e ad un senso di disorientamento e deprivazione.
25
“Immaginazione genealogica”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 11. Nella nota 59 della
stessa monografia, Zerubavel spiega l’origine del termine introdotto alla fine degli anni Novanta
da Andrew Shyrock in Nationalism and the Genealogical Imagination: Oral History and Textual
Authority in Tribal Jordan (Berkeley: University of California Press, 1997). Tra i riferimenti più
recenti, Zerubavel cita inoltre: Catherine Tyler, “The Genealogical Imagination: The Inheritance of
Interracial Identities” (The Sociological Review 53, 2005), 476-494; e Judith Shulevitz, “Roots and
Branches”, The Book: An Online Review at the New Republic (2010)
<http://www.tnr.com/book/review/roots-and-branches> . Data di accesso 4 giugno 2012.
26
“Muro di mattoni genealogico”. Henry Louis Gates, In Search of Our Roots: How 19
Extraordinary African Americans Reclaimed Their Past (New York: Crown, 2009) 374.
19
Poiché la memoria dei nostri avi e degli avvenimenti cruciali della storia
continua ad animare il nostro vissuto e la realtà contemporanea in una condizione
di “symbolic immortality”27 (consolidata da musei, banconote, monumenti, nomi
di strade, tradizioni o cimeli di famiglia), ogni operazione di ricostruzione
genealogica non è soltanto un tentativo retrospettivo di organizzare il passato, ma
anche e soprattutto una strategia per dare un senso al presente e per prefigurare il
futuro. Le proiezioni genealogiche personali e collettive rispondono quindi agli
stessi meccanismi culturali attraverso i quali costruiamo nella nostra mente le
cosiddette “Imagined Communities” 28 , termine con cui Benedict Anderson
individua i molteplici mondi “costruiti” (includendo nazioni, etnicità, etc.) che
prendono forma da immaginazioni storicamente situate di individui e gruppi,
sparsi in tutto il mondo.
Nell’ottica di relazioni familiari che diventano sempre più volatili per i
continui flussi29 a cui sono esposti o di cui sono protagonisti i suoi membri, risulta
ancora più comprensibile l’impulso a concepire “the family-as-microcosm of
culture” 30 e il ricorso agli alberi genealogici, nel tentativo di fissare delle
tradizioni (o delle etnicità, parentele, etc…) a cui potersi aggrappare, ristabilendo
un illusorio e darwiniano principio genealogico di co-discendenza.
La successione genealogica si basa infatti sulla più elementare delle
relazioni: quella tra genitore e figlio. Eppure è la “Grandfatherhood”, ossia la
capacità di riconoscere i nonni come nostri avi, nonostante non ci sia un nesso
27
Raymond L. Schmitt, “Symbolic Immortality in Ordinary Contexts: Impediments to the Nuclear
Era” (Omega 13, 1982) 95-116.
28
“Comunità immaginate”. Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin
and Spread of Nationalism (London: Verso, 2006).
29
Siano essi migratori, diasporici, determinati da motivi di lavoro, di studio o dalla circolazione
globale delle informazioni, dei capitali o delle tecnologie.
30
“Famiglia come micro-cosmo di cultura”. Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 43.
20
diretto che ci unisca a loro, la chiave di volta per capire il modo in cui nella nostra
mente creiamo relazioni con gli antenati. Diversamente dagli animali, infatti,
l’essere umano è dotato di memoria genealogica ed ha la capacità di andare oltre il
binomio genitore/figlio, sentendosi legato anche a membri di generazioni non
consecutive o defunti molti anni prima della propria nascita o dei quali non si ha
avuto una conoscenza diretta.
Questa primordiale consapevolezza ci induce a concepire la nostra
discendenza come un continuum di cui ci sentiamo parte e che rappresentiamo
attraverso metafore come “line”, “river”, “thread”, “rope” o “chain” 31 , che
rafforzano l’idea di unità, oltre che le modalità tipicamente occidentali di
organizzazione lineare dello spazio e del tempo, secondo un principio di
causalità32.
Il senso di appartenenza a questa struttura dinastica ininterrotta fa sì che le
generazioni più giovani sentano una certa pressione per la continuazione della
stirpe, sia preservando la memoria degli antenati, sia dando alla luce futuri
discendenti. Allo stesso tempo, come riflesso del legame mentale ricreato con i
nostri avi, ciascuno di noi può prender parte alla cosiddetta “genealogical
experience of history”33, percependo eventi storici lontani o traumi del passato
come quasi auto-biografici ed ereditandoli quindi, simbolicamente, come
patrimonio tacito, capace di influenzare la propria “identità generazionale” del
presente.
31
“Linea”, “fiume”, “filo”, “corda”, “catena”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 20.
Di fatto, il termine inglese lineage (stirpe), deriva proprio dal latino linea.
33
“Esperienza genealogica della storia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 21.
32
21
1.3 L’identità generazionale
Grazie alla pubblicazione del saggio “Das Problem der Generationem”34
del 1928, il sociologo tedesco di origini ungheresi Karl Mannheim viene oggi
considerato il fondatore della ricerca sociale sulle generazioni. Da allora, con il
declino del concetto marxista di classe nelle teorie dei cambiamenti sociali, lo
studio delle dinamiche generazionali ha acquisito un ruolo sempre più strategico
in molteplici discipline: non più solo in sociologia (dove si sta delineando una
cosiddetta “Theory of Generations”35), ma anche nella critica letteraria (con la
tendenza a rileggere le opere primarie, sottolineando il ruolo dei conflitti
generazionali che in esse emergono36) e in economia (dove, dalla fine degli anni
Novanta, si è diffuso il nuovo approccio del “Generational Marketing”37).
La descrizione originaria che Mannheim fa di generazione sociale rimane
ancora oggi un valido punto di partenza. Egli la definisce come un gruppo fisico e
intellettuale
di
contraddistinguersi
contemporanei,
dalla
accomunati
generazione
dal
precedente,
medesimo
attraverso
impeto
a
differenze
volutamente marcate di stile di vita, attitudini e valori. Sempre secondo
Mannheim, a delineare i confini di una generazione concorrerebbero
simultaneamente sia le esperienze esplicite e il modo in cui vengono rielaborate
34
Karl Mannheim, “Das Problem der Generationen”, Wissenssoziologie Auswahl aus dem Werk:
Auswahl aus dem Werk (Berlin: Luchterhand, 1964), 509-65. In italiano il saggio è stato tradotto
come “Le generazioni”. Karl Mannheim, Le generazioni, trad. di M. Gagliardi e T. Souvan
(Bologna: Il Mulino, 2008).
35
Ron Eyerman and Bryan Turner, “Outline of a Theory of Generations” (European Journal of
Social Theory 1.1, 1998), 91–106.
36
In occasione dell’ultimo convegno annuale dell’American Comparative Literature Association,
tenutosi a marzo 2012 presso la Brown University, un panel di tre giorni dal titolo “Breaking In,
Out and Away: Generational Change” è stato proprio dedicato a questo tema
<http://acla.org/acla2012/?page_id=1037>. Data di accesso 26 gennaio 2013.
37
Si vedano testi come: Walker J. Smith and Ann S. Clurman, Rocking the Ages: The Yankelovich
Report on Generational Marketing (New York: HarperCollins, 2010); o Jane Ronnfeldt,
Generational Marketing: Baby Boomers, Generation X and the Net Generation (San Bernardino:
California State University, 2001).
22
dalla memoria, sia la cosiddetta “unbewussten Lebensfonds” 38 , vale a dire, un
insieme implicito e incontestabile di convinzioni, ideali e predisposizioni che
vengono acquisite e rafforzate inconsapevolmente. Visto il carattere tacito di
questi valori, essi sono analizzabili solo a posteriori, dalle generazione successive.
Il filosofo francese Pierre Bourdieu parla invece di habitus39 per definire
un sistema sotteso di pratiche, abilità e modi di agire che determinano le scelte di
un gruppo e la sua interazione con il contesto storico-culturale di riferimento.
L’habitus viene codificato in primis dal corpo, concepito da Bourdieu come
strumento mnemonico, che registra una serie di demarcatori culturali acquisiti fin
dalla più giovane età, in un tacito processo di apprendimento e socializzazione a
cui tutti siamo esposti. Il corpo può quindi fungere da indicatore esplicito
dell’appartenenza ad una generazione40, divenendo specchio delle sue mode, del
suo particolare stile di vita, delle sue aspirazioni professionali e dei suoi gusti in
senso lato.
Bourdieu arricchisce la definizione originaria di Mannheim integrandola
anche con la teoria della chiusura sociale di Max Weber, in una sorta di politica
economica delle generazioni. Il filosofo francese enfatizza infatti come ogni
gruppo generazionale abbia accesso privilegiato a un insieme di opportunità e
risorse collettive (culturali e materiali) che vengono preservate attraverso pratiche
di esclusione nei confronti delle altre generazioni. Questo spiegherebbe, ad
esempio, il manifestarsi tra le generazioni più mature di sentimenti “anti-youth”41
38
“Dimensione tacita dell’esistenza”. Mannheim 538.
Pierre Bourdieu, The Logic of Practice (Cambridge: Polity Press, 1990) 53.
40
Il principio del corpo come demarcatore di identità/appartenenza ad un gruppo vale anche per le
differenze di genere, etnia, sociali, etc.
41
“Anti-giovani”. Eyerman and Turner 95.
39
23
o il loro conservatorismo diffuso o il fenomeno del “credenzialismo” 42 per
ostacolare l’ingresso dei più giovani nel mondo del lavoro.
Nell’ottica di un’economia morale, Bourdieu sottolinea inoltre le modalità
che regolano il circuito del dono e gli scambi intergenerazionali di beni (simbolici
o materiali) dettati da logiche spesso ambigue di dovere ed obbligo, come nei casi
delle eredità o dei cimeli di famiglia.
I sociologi Ron Eyerman e Bryan Turner sottolineano invece come, per
trasformare un gruppo di coetanei in una generazione, occorra sempre un evento
significativo o traumatico comune (una guerra, una rivoluzione, una crisi
economica, una catastrofe naturale, l’assassinio di un leader politico, etc.) che
funga da spartiacque irrevocabile tra il prima e il dopo, tra chi lo ha vissuto e chi
non lo ha fatto, come nel caso della Prima guerra mondiale che rappresentò “a
watershed, a breaking point which clearly and cleanly divided ‘youth’ from ‘the
elders’ in terms of outlook and experience, as it separated an old from a new
world order”43.
Aver avuto esperienza diretta di un trauma contribuisce in modo
determinante alla formazione di un bagaglio culturale condiviso e di un mito delle
origini che ciascuna generazione cerca di perpetuare nel tempo e nello spazio,
attraverso rituali condivisi (che presuppongono anche immagini, canzoni, mode,
luoghi di culto) e ideologie comuni; elementi, questi, oggi estremamente più
semplici da conservare e far circolare, grazie all’uso di Internet, dei social
networks e delle tecnologie.
42
Importanza data ai titoli (ad esempio le lauree) come prerequisito per l’accesso alle professioni,
soprattutto le più remunerative.
43
“Uno spartiacque, un punto di rottura che ha chiaramente e nettamente diviso la ‘gioventù’ dagli
‘anziani’, in termini di aspetto esteriore ed esperienze, poiché ha separato un vecchio ordine del
mondo da uno nuovo”. Eyerman and Turner 100.
24
Nonostante i numerosi criteri adottabili per demarcare una generazione,
occorre sempre tener presente che ogni classificazione è comunque un atto sociale
e un’esemplificazione; già Mannheim sottolineava questa idea, citando lo storico
dell’arte Wilhelm Pinder che aveva parlato di “Ungleichzeitgkeit des
Gleichzeitigen” 44 o “non-sincronicità del sincrono”, mettendo in discussione la
nozione astratta di omogeneità temporale all’interno di una data epoca e
sottolineando invece le innumerevoli differenze intra-generazionali e soggettive
con cui ogni individuo rielabora lo stesso periodo storico, in linea o in disaccordo
con le posizioni del proprio gruppo di riferimento.
Di fatto, è solo a partire dagli anni ’80 – quando si comincia a dare
maggior enfasi alla dimensione mnemonica ed esperienziale dell’individuo – che
alcuni intellettuali45 iniziano ad occuparsi delle generazioni in termini di identità e
memoria. Con il concetto di “Generational Identity”46, ad esempio, l’antropologa
Aleida Assmann arricchisce le considerazioni dei maggiori sociologi delle
generazioni che l’hanno preceduta, con un rinnovato interesse per le modalità con
cui determinati traumi o eventi storici significativi vengono trasformati e
tramandati dai singoli e dal gruppo. L’appartenenza ad una generazione si somma
quindi agli altri “identity-markers” 47 per aggiungere la memoria e la sua
trasmissione intergenerazionale alle implicazioni di razza, lingua, religione e
genere48.
44
Citato in Mannheim 517.
Soprattutto nel filone di area germanica che studia gli effetti della Seconda guerra mondiale e
dell’Olocausto sulle generazioni successive
46
Assmann, “Limits of Understanding”, 30.
47
“Demarcatori di identità”. Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 42.
48
Precedentemente emerse sulla scia degli studi post-coloniali e dei movimenti in difesa dei diritti
delle donne e delle minoranze etniche degli anni Settanta.
45
25
Assmann sottolinea in particolare l’influenza normativa e bidirezionale che
lega il passato al presente. Partendo dalle teorie del sociologo francese Maurice
Halbwachs che aveva definito la memoria “a reshaping operation […] under the
influence of the present social milieu”49, Assmann conferma il condizionamento
che la generazione di appartenenza ha sul modo in cui forgiamo e reinterpretiamo
continuamente i nostri ricordi. Allo stesso tempo però riconosce anche la capacità
del passato di proiettarsi sul presente, rimodellandolo a sua volta, soprattutto nel
caso di memorie dolorose o cariche di sensi di colpa che possono gravare sulle
generazioni successive, lacerandole con una carica negativa di “emotional discord
and moral dilemma”50.
Lo stesso filosofo americano Ralph Waldo Emerson sembrava avallare
questa convinzione, quando parlava di “negative power” evidenziando come
alcuni fattori determinanti della nostra vita non sono il prodotto di un disegno o di
azioni consapevoli, ma il frutto di influenze tacite ed ancestrali: “Once we thought
positive power was all. Now we learn that negative power, or circumstances, is
half”51.
1.4 Linee guida
Aver approfondito i concetti di “Genealogical Immagination” e di
“Generational Identity” renderà ora possibile una comprensione più ampia del
Romanzo Multigenerazionale come genere letterario, all’interno della Letteratura
49
“Operazione di rimodellamento, influenzata dal milieu sociale del presente”. Maurice
Halbwachs, On Collective Memory (Chicago: University of Chicago Press, 1992) 49.
50
“Discordia emotiva e dilemmi morali”. Assmann, “Limits of Understanding”, 40.
51
“Prima pensavamo che il potere positivo fosse tutto. Ora abbiamo appreso che il potere negativo,
o le circostanze, è la metà”. Ralph Waldo Emerson, The Collected Works (Cambridge: Wilson,
2003), 8.
26
Latina negli Stati Uniti. Esso si caratterizza infatti per la presenza di almeno tre
generazioni della stessa famiglia, in una narrazione che abbraccia diversi secoli e
include spostamenti geografici e variazioni temporali, linguistiche e culturali
estremamente significative: dall’epoca coloniale all’età contemporanea, dai
Caraibi agli Stati Uniti, dalla campagna sottosviluppata alla metropoli o dallo
spagnolo all’inglese, solo per citare alcuni esempi.
I suoi personaggi sono “inquadrati” simultaneamente da una doppia lente,
che li vede muoversi sia sul piano sincronico sia su quello diacronico, come
membri di una famiglia da un lato, e come parte di una determinata epoca storica
dall’altro. Essi si collocano quindi all’incrocio tra genealogia e generazione e sono
inevitabilmente descritti sia nel loro ruolo di discendenti (genitori, figli, fratelli,
etc.) sia come protagonisti di eventi rilevanti del passato (flussi migratori,
rivoluzioni, movimenti di protesta, guerre, etc.). Nel caso specifico dei tre
romanzi presi in considerazione in questa tesi, i loro autori sono membri di
comunità etniche minoritarie – la cubano-americana, la messico-americana e la
portoricana – e le vicende narrate diventano emblema di un percorso identitario
simbolico, allo stesso tempo individuale e collettivo.
Uno dei maggiori pregi di questa tipologia di romanzo consiste proprio
nell’abile intreccio di storiografia ufficiale e storie familiari spesso sconosciute,
difficilmente accessibili o rimaste fino a quel momento inascoltate. Gli eventi più
noti del passato vengono infatti mescolati e riletti alla luce della memoria dell’io
narrante (spesso di ispirazione autobiografica) che fa emergere il “non detto”,
ovvero gli aspetti impliciti o inconsapevoli della storia52, le tensioni tra memoria
52
Compresa la rete tacita di valori e pratiche indiscusse di cui parlava Karl Mannheim, che proprio
grazie a testi come i Multigenerational Novels possono essere oggetto di maggiore riflessione.
27
collettiva e ricordi intimi, tra cultura ufficiale e leggende familiari tramandate di
generazione in generazione.
Ciò che affiora è proprio quella sottile “kognitive Dissonanz”53 tra voce
pubblica e voce privata a cui oggi si riconosce un valore storico sempre maggiore,
soprattutto per il carattere fortemente ibrido di questi romanzi in cui si
amalgamano, non solo punti di vista inediti (in particolare quelli delle donne, delle
classi disagiate e delle minoranza linguistiche o etniche) ma spesso anche
molteplici tipologie di testi (lettere, articoli di giornali, diari) e di media (musica,
arti visive, fotografie), che ricreano un’idea di verosimiglianza storica e mettono
in discussione i confini di narrativa e opera documentaria54.
Il narratore o la narratrice, sia in prima sia in terza persona, vengono spinti
al racconto dall’impulso incombente di affermazione personale loro o dei
protagonisti, che devono sciogliere un complesso nodo identitario e superare
l’impasse dovuta proprio alla frizione creata dalla propria posizione genealogica,
etnica e generazionale. Essi devono infatti trovare un delicato equilibrio tra
continuità e cambiamento, attraverso un percorso di riscoperta delle proprie radici
etniche e del legame con gli antenati, che richiederà un’ardua mediazione tra il
passato e il “social framework”55 del presente di cui essi sono inevitabilmente il
frutto.
Provenendo da famiglie che hanno subito, a un certo punto della storia, un
forte sradicamento culturale o un trauma (dovuto a circostanze molto diverse
53
“Dissonanza Cognitiva”. Claus Leggewie e Erik Meyer, Ein Ort, an den man gerne geht: das
Holocaust-Mahnmal und die deutsche Geschichtspolitik nach 1989 (München: Hanser, 2005) 16.
54
Non è un caso che alcuni Multigenerational Novels siano stati etichettati come Non-fiction
Novels. La nascita di questo genere (detto anche Faction dalla fusione di “fact” e “fiction”) risale
alla pubblicazione di In Cold Blood (1965) di Truman Capote, ed è basato sulla descrizione di
eventi di cronaca, o fatti e personaggi reali, attraverso tecniche tipiche della narrativa.
55
“Struttura sociale”. Halbwachs, On Collective Memory, 49.
28
come migrazioni, rivolte politiche, invasioni, carestie, etc.), essi devono inoltre
fare i conti con le esperienze spesso ardue di acculturazione dei propri
predecessori, con le ferite del passato e con le lacune della memoria, tutte
convogliate in una narrazione che assume i tratti di un “post-memorial work”56,
secondo la definizione di Marianne Hirsch.
Sarà ricorrendo all’immaginazione57 e al potere creativo del racconto che
essi potranno “‘prendere insieme’, integrandoli in una storia intera e completa,
eventi molteplici e dispersi”58, ritrovando la propria posizione nella genealogia
familiare e riscrivendo la propria identità generazionale nel presente, senza mai
perdere di vista il legame con la storia.
Infine, poiché i romanzi multigenerazionali di cui mi occuperò in questa
tesi rientrano nell’ambito della “letteratura minore”59, essi hanno la capacità di
operare come macchina collettiva di espressione, in cui l’esperienza
dell’individuo nell’esiguità del suo spazio sembra essere ingrandita al
microscopio divenendo emblema di una storia “altra”, fino a quel momento non
raccontata. Ecco perché il Multigenerational Novel funge anche da “portable
monument”60 e da racconto mitico, che ha il potere di legittimare e dare un senso
alle vicende del singolo e del gruppo etnico che rappresenta, divenendo veicolo
privilegiato della sua memoria culturale61.
56
“Opera di memoria postuma”. Marianne Hirsch, “The Generation of Postmemory” (Poetics
Today 29, 2008), 103.
57
Nel senso più ampio del termine già visto con Anderson, Appadurai e Zerubavel.
58
Paul Ricoeur, Tempo e racconto. Trad. di Giuseppe Grampa. Vol. 1. (Milano: Jaca Book, 1986)
8.
59
Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka: Per una letteratura minore (Milano: Feltrinelli, 1975).
60
Ann Rigney, “Portable Monuments: Literature, Cultural Memory and the Case of Jeanie Deans”
(Poetics Today 25.2, 2004) 361-396.
61
La studiosa tedesca Astrid Erll definisce “Cultural Memory” quell’insieme di “cultural
formations which shape individual memories and which build ‘cultures of memories’, with their
rituals and media constructing and representing a shared past. / [F]ormazioni culturali che
29
1.5 Ibridità del genere
Il Multigenerational Novel si colloca all’incrocio di vari generi letterari con i
quali instaura un dialogo di analogie e differenze, alimentando la riflessione sulle
caratteristiche intrinseche di ognuno di essi e sulla aleatorietà di ogni tentativo
rigido di classificazione.
Il primo riferimento di rilievo è quello al “Genealogical Novel” che A.E.
Zucker nel 1928 definisce “a new type of fiction ruled by science […] a direct
result of the widespread discussion of Evolution during the third quarter of the
nineteenth century and the new interest aroused in the doctrine of heredity”62 .
Nasce quindi sulla scia del determinismo biologico di Darwin e del Naturalismo
francese e si caratterizza per l’approccio semi-scientifico ed oggettivo con cui gli
autori intendono descrivere le vicende di diverse generazioni della stessa famiglia.
Al contrario del romanzo biografico, il Genealogical Novel non ruota intorno
alle avventure di un unico eroe e la sua narrazione non ha inizio necessariamente
in corrispondenza (o subito prima) della nascita del protagonista, come nei più
classici dei Bildungsromans. La trama vede invece interagire membri di
molteplici generazioni, di cui si enfatizzano in particolare i caratteri ereditari,
intesi sia in senso fisico (malattie, malformazioni, somiglianze, etc.) sia in senso
modellano le memorie individuali e che costruiscono ‘culture delle memorie’ con i loro riti e
media, costruendo e rappresentando un passato condiviso”. Astrid Erll, “Narratology and Cultural
Memory Studies”, in Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Narrative Research, eds.
Sandra Heinen e Roy Sommer (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 216 (nota 8).
62
“Un nuovo tipo di narrativa, dominato dalla scienza […] un risultato diretto del dibattito
allargato sull’Evoluzione nella seconda metà del XIX secolo e dell’interesse sollevato dalla
dottrina dell’eredità”. A.E. Zucker, “The Genealogical Novel: A New Genre” (PMLA 43.2, 1928),
551. Lo stesso termine di “romanzo genealogico” è stato utilizzato anche a partire dagli anni
Ottanta e Novanta del Novecento per definire le opere di scrittori di origine ebrea, provenienti da
diversi Paesi, che ripercorrono la genealogia della propria famiglia alla riscoperta della propria
“judéité”, ossia di quel patrimonio culturale ed etico che va al di là della fede religiosa. Si veda il
saggio di Dominique Budor, “Il ‘romanzo genealogico’ ovvero la memoria viva dei morti”, in
Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, eds. Raniero Speelman,
Monica Jansen e Silvia Gaiga (Utrecht: Utrecht Publishing and Archiving Services, 2007) 115-128.
30
più astratto (nel carattere, nelle abilità innate o in alcune manifestazioni del
proprio destino).
I primi esempi di questo nuovo genere citati di Zucker sono Émile Zola con
Les Rougon-Macquart, romanzo seriale che inizia nel 1868 e pubblica fino al
1893, e Samuel Butler con The Way of the Flesh, divulgato postumo nel 1903. In
entrambi i casi, l’effetto artistico dato dal fato, tipico delle tragedie greche, viene
sostituito con l’idea positivista di “eredità”, a indicare come il legame genealogico
tra famiglie sia rafforzato da uno spirito dinastico unitario, capace di influenzare
indelebilmente i discendenti, per generazioni e generazioni:
Accidents which happen to a man before he is born, in the persons
of his ancestors, will, if he remembers them at all, leave an indelible
impression on him; they will have moulded his character so that, do
what he will, it is hardly possible for him to escape their
consequences.63
L’esempio più raffinato del genere, secondo Zucker, è l’opera Die
Buddenbrooks (1901) di Thomas Mann, che riesce nell’ardua impresa di creare “a
single unified work of art, comprising a thousand pages”64. La famiglia patrizia
dei Lübeck, protagonista dell’opera, è infatti un monumento al cosiddetto “genetic
optimism”65di Mann, e incarna la sua fede in un ordine genealogico e cronologico
superiore, assicurato dalla successione coerente e continuativa di padri e figli.
Scopo del romanzo è infatti dimostrare la concatenazione logica di passato e
presente nel susseguirsi di quattro generazioni, attraverso una narrazione che
esplicita sempre la linea dinastica maschile e la necessità di esser devoti agli
63
“Gli incidenti che capitano prima della nascita di un uomo, ai suoi antenati, anche se li
ricordasse, lasceranno un marchio indelebile su di lui; avranno modellato il suo carattere a tal
punto che, volente o nolente, gli sarà quasi impossibile sfuggire alle loro conseguenze”. Samuel
Butler, The Way of the Flesh, Cit. in Zucker, “The Genealogical Novel”, 555.
64
“Un’opera d’arte unica e singolare, composta da mille pagine”. Ibidem, 556.
65
“Ottimismo genetico”. Cit. in Patricia Tobin, “García Márquez and the Genealogical
Imperative” (Diacritics 4.2, 1974), 54.
31
eventi del passato e rispettosi degli obblighi morali nei confronti dei padri, dai
quali dipende la legittimità stessa dei successori e delle loro azioni, come è
evidente dal monito del capofamiglia dei Lübeck alla figlia smarrita:
We are not free, separate, and independent entities, but like links
in a chain, and we could not by any means be what we are without
those who went before us and showed us the way by following the
straight and narrow path, not looking to the right or left”.66
A distanza di un secolo il Multigenerational Novel aggiunge notevoli livelli di
complessità al romanzo genealogico, così come lo aveva concepito Zucker,
soprattutto perché la continuità rispetto al passato, il legame con gli antenati e il
valore fondante della tradizione non vengono mai acquisiti tacitamente ma sono
sempre il frutto di un arduo percorso di negazione, recupero e mediazione da parte
dei protagonisti più giovani, che riscrivono e reinventano il proprio passato
familiare, facendolo interagire con il presente.
Quest’evoluzione è possibile anche grazie a generi intermedi come ad esempio
la Erinnerungsliteratur, ovvero la “letteratura della memoria” di tradizione
germanica, classificata da Assmann 67 nelle due sottocategorie di Väterliteratur
(“letteratura dei padri”) e Familienroman 68 (“romanzo familiare”). La prima
raggiunge il suo apice di popolarità negli anni ’70-’80 del Novecento, la seconda
emerge invece a partire dagli anni ’90 ed è ancora ampiamente in voga. In
entrambi i casi il fulcro della narrazione risiede nella tensione intergenerazionale
tra rottura e continuità, innescata dalla ricerca di autoaffermazione di
66
“Non siamo entità libere, separate ed indipendenti, ma anelli di una catena, e non potremmo in
nessun modo essere ciò che siamo senza coloro che ci hanno preceduti e che ci hanno mostrato il
cammino, seguendo il percorso stretto e rettilineo, senza guardare a destra o a sinistra”. Ibidem, 53.
67
Assmann, “Limits of Understanding” , 33.
68
Il primo a coniare il termine fu Sigmund Freud con l’opera “Der Familienroman der Neurotiker”,
in Gesammelte Werke, Hrsg. Anna Freud (Frankfurt: Fischer, 1966) 115-128.
32
io/personaggio in prima persona (e spesso di carattere autobiografico), che si pone
in relazione sia alla propria famiglia, sia alla storia ufficiale tedesca.
La “letteratura dei padri” si concentra solo sul rapporto binario genitore-figlio,
descrivendone le rotture irreparabili, le dispute e i regolamenti dei conti che
sembrano ricreare simbolicamente il dramma del senso di colpa e le accuse di
complicità che hanno lacerato le generazioni tedesche successive al secondo
dopoguerra. Nel “romanzo familiare” – che ha svariate caratteristiche in comune
con il Multigenerational Novel – il racconto si estende invece retrospettivamente
per svariati secoli e generazioni, all’interno delle quali l’io narrante viene descritto
come un “searching, suffering, interpreting, and learning individual” 69 . Il
protagonista interiorizza infatti i conflitti esterni ed esplora il proprio passato per
ricucirne le ferite più dolorose, cercando sia una propria posizione (genealogica e
storica), sia una comprensione transgenerazionale più ampia, che sembra mancare
invece nella “letteratura dei padri”.
Nonostante le analogie, il Multigenerational Novel aggiunge comunque
ulteriori linee di riflessione rispetto sia al “romanzo familiare” sia alla “letteratura
della memoria” nel suo complesso. Innanzitutto a livello di narrazione, dove non
troviamo più necessariamente una prima persona autobiografica, ma una polifonia
di voci che amplificano e rendono più problematici i punti di vista sulle vicende
familiari e storiche descritte. In secondo luogo, a livello simbolico-culturale,
perché alla già complessa identità genealogica e generazionale si va ad aggiungere
la dimensione multietnica70, apparentemente non determinante nella “letteratura
69
“Un individuo che cerca, soffre, interpreta, apprende”. Ibidem, 34.
70
Di cui il prefisso “multi-”, in Multigeneratinal novel, rappresenta comunque un rimando.
33
della memoria”, che rifletterebbe la società tedesca del secondo Novecento,
definita da Assman ancora “largely monocultural”71.
Volendo mettere a confronto il Multigenerational Novel con una delle opere
più popolari del secondo Novecento, soprattutto tenendo conto della sua natura di
romanzo ibrido, postmoderno e di confine, non possiamo non metterlo in
relazione con l’anti-romanzo genealogico per eccellenza: Cien años de soledad di
Gabriel García Márquez. Di fatto, l’opera dell’autore colombiano si fonda proprio
sulla rottura del cosiddetto “Genealogical Imperative” 72 , ovvero dell’assunto
tipico del pensiero occidentale che lega il principio di causa-effetto con
l’organizzazione spazio-temporale dell’esperienza umana e la discendenza
genealogica. In base a questo approccio, l’identità del singolo acquisisce un senso
proprio perché inseribile in una linea dinastica con un’origine (gli antenati) e uno
scopo (la discendenza e la sua perpetuazione).
Allo stesso modo, gli eventi storici e le azioni dei nostri predecessori sono
ammantati di un valore ulteriore, proprio perché contengono in nuce il presente e
ci fanno percepire la nostra vita come parte di una totalità più ampia e dotata di un
fine ultimo. Il medesimo principio domina anche la narrativa più tradizionale
basata sulla “linear pursuit of order”, in cui la trama stessa viene organizzata
cronologicamente in una successione di sequenze che riveleranno il loro
significato ultimo al termine della storia.
71
“Largamente monoculturale”. Ibidem, 29. Nella nota n.1 del suo saggio, Assman traccia una
linea di demarcazione tra le società multiculturali (come quella statunitense o britannica) suddivise
in identità etniche e quelle ancora prevalentemente monoculturali (come quella tedesca) che si
suddividerebbero per sole linee generazionali. In realtà, in questo passaggio Assman tralascia la
sovrapposizione simultanea e costante delle componenti etniche e generazionali implicite in ogni
società multiculturale. Inoltre, alla luce della teoria disgiuntiva dei flussi di Appadurai, sembra
poco giustificabile il riferimento ad una società monoculturale.
72
“Imperativo genealogico”. Tobin, “García Márquez and the Genealogical Imperative”.
34
In Cien años de soledad Márquez riesce a decostruire l’imperativo genealogico,
nelle tre linee di coerenza interna che lo determinano: la linea familiare, la linea
temporale e la linea della storia. Di fatto, la trama è un conglomerato di eventi e
personaggi, senza continuità, senza un’apparente struttura generale, né un
significato sovracostruito. La famiglia Buendía (protagonista dell’opera) vive in
un presente sospeso e scollegato sia dal passato sia dal futuro, in assenza di
memoria storica e in una condizione di prolungata amnesia, che impedisce ai
personaggi di andare oltre l’immediatezza del “qui” e dell’“ora”. Così concepita,
la trama decostruisce quindi sia il modello originario di romanzo genealogico di
Zucker, sia quello del “romanzo familiare” di area germanica.
Da un lato, infatti, il principio dinastico che dominava opere come Die
Buddenbrooks e la “paternal promise”73 – ovvero la linea di continuità (morale,
materiale e simbolica) tra padri e figli – su cui si fondavano vengono radicalmente
messe in discussione. In Cien años de soledad la paternità, ad esempio, assume i
tratti di un incidente biologico e non dà legittimità, né alcun tipo di eredità; la
sessualità non è necessariamente finalizzata alla procreazione e i figli bastardi non
sono rinnegati; i nomi, i tratti fisici e le caratteristiche comportamentali dei vari
membri della famiglia riappaiono dopo generazioni ma in modo casuale e
imprevedibile.
Infine, mentre Mann riconosce soltanto la successione verticale maschile
(padre-figlio) e non prende invece in considerazione i ruoli laterali di madri e
figlie, le donne di Macondo (il villaggio dei Buendía), sono invece il cuore
pulsante della comunità: come dimostra Ursula Iguarán Buendía, moglie del
73
“Promessa paterna”. Ibidem, 54.
35
patriarca e donna capace di operosità e generosità incondizionata, estesa anche ai
figli illegittimi e a coloro che non sono parte della famiglia.
Dall’altro lato, l’idea di memoria storica e la sua interazione con il presente
tipica del “romanzo familiare” e del Multigenerational Novel viene totalmente
negata dall’incapacità dei Buendía di sviluppare una consapevolezza storica.
Vivendo in una condizione di atemporalità, essi non hanno bisogno di conoscere il
loro passato perché non devono realizzare un destino familiare, né perpetuare un
patrimonio culturale o materiale.
Al pari di Cien años de soledad, anche i Multigenerational Novels
rappresentano un superamento dell’imperativo genealogico in senso stretto, per
l’uso esteso della “genealogical immagination” da parte dei suoi personaggi e la
conseguente ricostruzione simbolica e soggettiva (più che patriarcale o basata su
principi di sangue) della loro stirpe. Va inoltre riconosciuto il ruolo fondamentale
ricoperto dalle donne che nel romanzo multigenerazionale acquisiscono una voce
propria e decisiva sia nella perpetuazione del patrimonio culturale della famiglia,
sia nella conservazione dell’identità etnica e nella rilettura della storia ufficiale a
cui le loro vicende si intrecciano.
Infine al pari di Cien años de soledad, il Multigenerational Novel ricrea un
forte senso di straniamento nel lettore, anche se basato su una logica diversa dalla
“accommodation of chaotic abundance”74 dell’opera di Márquez. Il superamento
dell’“automatismo della percezione”75 e il recupero della realtà come “visione” e
come “miracolo”, possibile secondo Viktor Šklovskij solo grazie all’arte ed alle
74
75
“Adattamento dell’abbondanza caotica”. Tobin, “García Márquez”, 65.
Viktor Šklovskij, Teoria della prosa (Torino: Einaudi, 1976), 13.
36
sue tecniche di straniamento, nel romanzo multigenerazionale sono date dalla sua
estrema ibridità linguistica e culturale.
Chi legge deve infatti confrontarsi con una serie di termini stranieri (in
spagnolo, nel caso dei testi che prenderò in esame) non tradotti, o addirittura
inventati, mescolati a sottili giochi di parole o calchi da altre lingue. A tutto
questo si aggiungono infiniti riferimenti culturali (culinari, musicali, religiosi, di
costume, geografici, etc.) ad un universo (come quello caraibico o messicano)
spesso estraneo o poco noto alla maggioranza dei lettori di lingua inglese, che
devono quindi mettere in atto uno sforzo immaginativo ulteriore di ricostruzione
dei significati (denotativo e connotativo) dell’opera. Essi sono quindi spinti a
superare il confine lotmaniano 76 tra lo spazio del “noi” o spazio In (interno,
organizzato e strutturato), in contrapposizione allo spazio del “loro” o spazio Es
(esterno, apparentemente disomogeneo e senza limiti) per immergersi in una zona
di confine e intraprendere lo stesso processo di “deterritorialization” e
“reterritorialization” 77 da cui i Multigenerational Novels che prenderò in esame
hanno origine.
76
Jurij M. Lotman, “Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura”, Jurij M.
Lotman e Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, (Milano, Bompiani, 1987), 145-181.
77
“Deterritorializzazione”, “Riterritorializzazione”. Gilles Deleuze e Félix Guattari, A Thousand
Plateaus: Capitalism and Schizophrenia (London: Athlone, 1988) 10.
37
38
Capitolo 2
LA LETTERATURA LATINA
NEGLI STATI UNITI
2.1 Latino Social Force
Is the next Latin music craze already on its way? Has the first
Spanish-speaking astronaut already reached orbit? Will all taco lovers
please stand up? There is no doubt about it, Latinos are a social force
rapidly revolutionizing the texture of America. But who are they? A
single homogenized group or a sum of minorities? Are they all linked
through a common language and ancestry?78
Prendendo in prestito le parole di Ilan Stavans, la “forza sociale” che sta
rapidamente rivoluzionando la struttura degli Stati Uniti è costituita dagli oltre
cinquanta milioni di persone (il 16.3% della popolazione totale) che nel
censimento del 2010 si sono autodefinite “of Hispanic, Latino or Spanish
origins” 79 e che oggi costituiscono il secondo gruppo etnico del Paese (dopo i
bianchi), e quello in maggiore espansione – con una crescita del 43% dal 2000 al
78
“E’ già emersa la nuova moda musicale latino-americana? Il primo astronauta ispanofono ha
già raggiunto lo spazio? Gli amanti dei tacos si possono alzare per favore? Non ci sono dubbi, i
Latinos sono una forza sociale che sta rapidamente rivoluzionando la struttura dell’America. Ma
chi sono? Un gruppo unico ed omogeneo o una somma di minoranze? Sono tutti legati da una
lingua e da un’eredità comune?”. Ilan Stavans, Latino U.S.A.: A Cartoon History (New York:
Basic Books, 2000). La citazione è stata ripresa dal retro del libro di questo manuale di storia a
fumetti, scritto da Stavans e illustrato da Lalo Alcaraz.
79
“Di origini ispaniche, latine o spagnole”. United States, Department of Commerce Economics
and Statistics Administration, U.S. Census Bureau, Sharon R. Ennis, et al., “The Hispanic
Population:
2010”.
2010
Census
Briefs,
May
2011
<http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf>. Data di accesso 26 giugno 2012.
39
2010 che supera di quattro volte l’aumento medio della popolazione globale
statunitense, fissato al 10%, nello stesso periodo.
Gli ispanici rappresentano quindi un gruppo etnico consistente ed
estremamente diversificato, all’interno del quale si possono distinguere tre
principali comunità, che corrispondono ai tre quarti del totale dei Latinos: i
messico-americani (63%), i portoricani (9.2%) ed i cubani (3.5%)80; seguiti dai
dominicani (2.8%) e da immigrati provenienti da altri Paesi del Centro e Sud
America (principalmente salvadoregni, guatemaltechi, honduregni, colombiani,
ecuadoriani e peruviani).
La presenza degli ispanici è significativa in tutto il territorio statunitense
ed in particolare negli otto stati in cui superano il milione, che sono nell’ordine:
California, Texas, Florida, New York, Illinois, Arizona, New Jersey, e Colorado.
Esemplari sono poi i casi del New Mexico in cui gli ispanici rappresentano il 46%
dei residenti81, o di aree come East Los Angeles, El Paso, e San Antonio, in cui la
loro concentrazione raggiunge picchi rispettivamente del 97%, 81% e 63%,
rispetto al totale della popolazione. Ognuna delle tre maggiori comunità, inoltre,
ha una sua capitale simbolica, per l’elevata densità di residenti: Los Angeles per i
messico-americani, New York per i portoricani e Miami per i cubani.
Altro dato significativo per cogliere la “forza sociale” dei Latinos, è che
essi non solo rappresentano anagraficamente la minoranza più “giovane” del
Paese, composta per la maggior parte da persone tra i 17 ed i 25 anni, ma anche
quella che può vantare la più antica presenza sul territorio. Nonostante i continui
flussi migratori che ne infoltiscono costantemente il numero, i Latinos non sono
80
Per una questione di rappresentatività, in questa tesi analizzerò tre opere primarie di autori
appartenenti proprio alle tre principali comunità ispaniche appena citate.
81
La concentrazione più alta rispetto alla popolazione di ogni altro stato.
40
solo immigrati o figli di immigrati. In Florida e in tutto il Sud-ovest infatti, gli
insediamenti della comunità messico-americana precedeno di quasi un secolo e
mezzo l’arrivo dei puritani del Mayflower (del 1620) e risalgono ai tempi
dell’incontro/scontro dei primi conquistadores spagnoli con le popolazioni
indigene locali (maya ed azteche)82. A questo primo impatto hanno fatto seguito
quattro secoli di usurpazioni coloniali, disuguaglianze sociali e squilibri socioeconomici che il poeta Miguel Algarín sintetizza in poche efficaci parole: “a very
simple story of greed and amorality”83.
Di fatto, l’esperienza dei Latinos è il frutto delle relazioni asimmetriche di
potere che vedono il Sud-ovest degli Stati Uniti, i Caraibi e tutta l’America latina
passare dal dominio degli spagnoli alla sfera d’influenza geo-politica degli Stati
Uniti, avallata dalla Dottrina Monroe (1823) e dalla politica imperialista lanciata
dal presidente Jackson tra 1829 ed il 1837. È in questo periodo dunque che gli
Stati Uniti iniziano una penetrazione massiccia a Sud del Río Grande, volta a
contrastare il dominio europeo ed a costruire la basi di nuova super potenza
mondiale.
Tappe fondamentali di questo processo di inglobamento sono il trattato
Adams-Onis (1819), che trasferisce la proprietà della Florida dalla Spagna agli
Stati Uniti; la guerra messico-americana, conclusa nel 1848 con il Trattato di
Guadalupe-Hidalgo e la vendita da parte del generale messicano Antonio López
de Santa Anna di due terzi del Messico alla Casa Bianca (gli attuali California,
82
Come dimostrano fin dagli inizi del Cinquecento le opere letterarie di esploratori, missionari e
inviati imperiali come Fray Bartolomé de las Casas, Pánfilo de Narváez, Alvar Núñez Cabeza de
Vaca, ed Hernando de Soto.
83
“Una storia molto semplice di avidità ed amoralità”. Miguel Algarín, “Nuyorican Literature”,
The Norton Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans, et al., (New York and London:
Norton, 2010), 1351.
41
Arizona, New Mexico, Utah, Nevada e parte del Colorado, in aggiunta al Texas,
già annesso nel 1846); la guerra ispano-americana del 1898, che porta al
definitivo sgretolamento della potenza coloniale spagnola e permette agli USA di
trasformare Cuba in un proprio protettorato fino al 1902, oltre che di acquisire
Guam, Filippine e Porto Rico, quest’ultimo trasformato in Commonwealth nel
1952, dopo la concessione della cittadinanza statunitense ai suoi abitanti, con il
Jones Act del 1917.
Le sorti dei territori a Sud del Río Grande, dell’America latina e dei
Caraibi negli ultimi due secoli sono state quindi segnate, nel bene e nel male,
dall’imperialismo degli Stati Uniti, legittimato da un senso di superiorità morale e
politica. Questa superiorità è reclamata anche dal presidente Roosevelt nel
messaggio annuale al congresso del 1904, in cui dice di voler frenare il dilagante
“chronic wrongdoing” e il generale “loosening of the ties of civilized society”84
che affligge i cubani, i dominicani, gli haitiani, i nicaraguensi e tutti i popoli del
cosiddetto “backyard” dell’America85. Corollario di questa dottrina saranno una
serie di interventi militari, politici ed economici con cui gli Stati Uniti hanno
consolidato la loro egemonia sul continente per tutto il Ventesimo secolo. Oltre
agli interventi militari che sono seguiti ai moti indipendentisti dell’Ottocento,
Alan West-Durán cita altre controverse azioni come:
counterinsurgency warfare (in El Salvador, Guatemala, Nicaragua,
and Colombia), CIA-engeneered coups (in Guatemala and Chile),
military intervention (in Cuba, Haiti, Panama, and the Dominican
Republic), or the propping up of military dictatorships in Chile,
84
“Iniquità croniche”, “allentamento dei vincoli di una società civilizzata”. Citato in Silvio TorresSaillant, “Vision of Dominicanness in the United States”, in Borderless Borders: U.S. Latinos,
Latin Americans, and the Paradox of Interdependence, ed. Frank Bonilla (Philadelphia: Temple
University Press, 1998) 139-141.
85
“Cortile”, termine dispregiativo con cui gli Anglos identificavano le aree a sud del Río Grande,
l’America latina ed i Caraibi, che ritenevano parte della loro sfera d’influenza.
42
Bolivia, Brazil, Argentina, El Salvador, Guatemala, and Ecuador (in
the 1960s, 1970s, and 1980s).86
Ma l’Eccezionalismo americano – con i connessi ideali di democrazia,
libertà, individualismo e liberismo economico – ha rappresentato anche un
impulso determinante nella rottura con il passato coloniale, apportando nuovi
stimoli economici, culturali ed intellettuali, con cui l’America latina si è
proficuamente confrontata. A tal proposito, Daniela Ciani Sforza sottolinea
abilmente i proficui scambi economici, culturali, turistici ed industriali – facilitati
dalla vicinanza geografica – che hanno legato Stati Uniti e Cuba (solo per fare un
esempio) fin dal Diciannovesimo secolo:
While North-America looked at Cuba as a prosperous source of
economic income, political control over the Caribbean Sea and an
ideal vacation resort, Cuba looked at the United States as a means for
the development of its material and intellectual conditions.87
Esemplare è il caso di José Martí, poeta ed eroe nazionale cubano che
proprio durante l’esilio a New York, dal 1881 al 1895, oltre a ricoprire un ruolo
fondamentale nell’organizzazione del Movimento indipendentista cubano, ha
potuto pubblicare alcuni dei suoi scritti più significativi, tra i quali la sua opera
cardine “Nuestra America” apparsa sulla Revista Ilustrada nel 189188. Anche se
negli ultimi anni del suo esilio prevalsero la disillusione ed i timori per la
minaccia crescente rappresentata dall’imperialismo statunitense, il confronto con
86
“Interventi antiguerriglia (in El Salvador, Guatemala Nicaragua e Colombia), colpi di stato
architettati dalla CIA (in Guatemala e Cile), interventi militari (a Cuba, Haiti, Panama e nella
Repubblica dominicana), o il sostegno di dittature militari in Cile, Bolivia, Brasile, Argentina, El
Salvador, Guatemala ed Ecuador (negli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta)”. Alan West-Durán,
“Crossing Borders, Creative Disorders: Latino Identities and Writing”, Latino and Latina Writers,
ed. Alan West (New York: Charles Scribner’s Sons, 2004) 27.
87
“Mentre l’America del Nord vedeva Cuba come una fonte prosperosa di introiti economici e di
controllo politico sul Mare dei Caraibi, e come località vacanziera ideale; Cuba vedeva gli Stati
Uniti come un mezzo per lo sviluppo delle sue condizioni materiali ed intellettuali”. Daniela M.
Ciani Forza, “American-Cuban and Cuban-American”, Alma Cubana: Transculturación,
Mestizaje e Hibridismo, ed. Susanna Regazzoni (Madrid: Iberoamericana, 2006) 64.
88
A New York l’opera fu pubblicata il primo gennaio 1891, mentre in Messico apparve su El
Partido Liberal il 30 gennaio dello stesso anno.
43
gli ideali democratici di Walt Whitman e le discussioni con gli intellettuali
sudamericani che come lui avevano trovato rifugio a New York e che poté
incontrare nelle tertulias e nei circoli culturali della metropoli, fornirono uno
stimolo costante e cruciale per la sua scrittura.
Ancora oggi intellettuali da tutto il continente come Jaime Manrique, Luis
Leal, Lourdes Casal, Franklin Gutiérrez, rispettivamente nati in Colombia,
Messico, Cuba e Repubblica Dominicana, solo per citarne alcuni, continuano a
trasferirsi negli Stati Uniti, alla ricerca di un’atmosfera intellettuale più aperta e
favorevole allo scambio, o anche per trovare una via di fuga alle persecuzioni
politiche nei Paesi di origine. Stavans non manca di evidenziare le contraddizioni
che si celano in questo ribaltamento delle sorti quando afferma, nella sua
introduzione alla Norton Anthology of Latino Literature: “Surely, Martí would
have perceived the irony of this reversal of fortunes: The same ‘formidable
neighbor’ supporting the tyrannical regimes that propel some writers out of their
homelands also opens its doors as a safe haven”89.
Eppure è proprio in questo complesso rapporto, definito da West-Durán
“not an innocent relationship”, che ha origine il concetto di Latinidad e che
prende forma sia il forte senso di usurpazione vissuto dai portoricani e dai
messico-americani “derubati” delle proprio terre, sia il costante flusso da Sud a
Nord di emigranti in cerca di migliori condizioni di vita, che rivendicano
simbolicamente una parte di quello che Juan Gonzalez ha denominato “harvest of
empire”:
89
“Martí avrebbe sicuramente colto l’ironia di questo ribaltamento delle sorti: lo stesso ‘nemico
formidabile” sostenitore dei regimi tirannici che spingevano alcuni scrittori a lasciare le loro patrie,
apriva anche le sue porte come un rifugio”. Ilan Stavans, “Introduction: The Search for
Wholeness”, The Norton Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans et al., (New York and
London: Norton, 2010) Ixv.
44
If Latin America had not been raped and pillaged by U.S. capital
since its independence, millions of desperate workers would not now
be coming here in such numbers to reclaim a share of that wealth; and
if the United States is today the world’s richest nation, it is in part
because of the sweat and blood of the copper workers of Chile, the tin
miners of Bolivia, the fruit pickers of Guatemala and Honduras, the
cane cutters of Cuba, the oil workers of Venezuela and Mexico, the
pharmaceutical workers of Puerto Rico, the ranch hands of Costa Rica
and Argentina, the West Indians who died building the Panama Canal,
and the Panamians who maintained it.90
Nonostante le differenze storiche, razziali, linguistiche e di estrazione
sociale che rendono unica e peculiare l’esperienza di ciascuno dei Latinos; e
nonostante i messicani, i cubani o i portoricani diventino “comunità etniche”
attraverso processi profondamente diversi, è proprio negli Stati Uniti che essi
sembrano ritrovare un senso condiviso di Latinidad, ben oltre le loro diverse
origini nazionali.
Uniti da un comune senso di sradicamento, da secoli di subalternità
coloniale, dall’estrema emarginazione vissuta nei grandi centri urbani e dalle
discriminazioni spesso legate a sentimenti anti-ispanici da parte dell’élite WASP
del Paese, riconoscersi come Latinos diventa una strategia di sopravvivenza e allo
stesso tempo una necessità politica per ottenere maggiore visibilità, una più ampia
mobilità sociale e un più elevato livello di istruzione, come confermano le parole
di Silvio Torres-Saillant:
they are bound by political imperatives to see themselves as one […]
to lift the banner of their oneness despite differences in the
circumstances under which each of the distinct groups came to the
90
“Se l’America latina non fosse stata violentata e saccheggiata dal capitale statunitense fin dalla
sua indipendenza, milioni di lavoratori disperati non verrebbero così numerosi a reclamare una
parte di quella ricchezza; e se gli Stati Uniti oggi sono la nazione più ricca del mondo, in parte è
anche per il sudore ed il sangue dei lavoratori del rame del Cile, dei minatori di stagno della
Bolivia, dei raccoglitori di frutta del Guatemala e dell’Honduras, dei tagliatori della canna da
zucchero di Cuba, dei lavoratori del petrolio del Venuzuela e del Messico, dei lavoratori
farmaceutici di Portorico, dei lavoratori dei ranch di Costa Rica ed Argentina, degli indios
occidentali morti durante la costruzione del Canale di Panama ed dei panamensi che lo hanno
mantenuto”. Juan Gonzalez, Harvest of Empire: A History of Latinos in America (New York:
Viking, 2000) xviii.
45
United States. The language of unity functions as an instrument of
survival.91
Ecco perché il termine Latinos viene oggi comunemente preferito dai
membri della stessa comunità ad altre “etichette” come Hispanic, Hispano,
iberoamericano, Spanish-speaking o Spaniard92 – un tempo maggiormente in uso
– per il suo valore pan-etnico, neutrale ed inclusivo e per la memoria del passato
coloniale che conserva. Esso deriva infatti da Latin American, aggettivo coniato
all’inizio del Diciannovesimo secolo da Simón Bolívar, eroe delle lotte di
liberazione dall’impero spagnolo, in riferimento ai popoli delle neonate
repubbliche sudamericane che egli aveva cercato invano di fondere in un’unica
federazione capace di contrastare le grandi potenze dell’epoca. In linea con il
disegno del leader venezuelano, il termine Latinos rimanda quindi anche ad
un’idea di unità culturale delle Americhe che, come sostengono diversi
intellettuali tra i quali Gerald Torres, oggi potrebbe realizzarsi proprio grazie agli
ispanici negli Stati Uniti93.
Il censimento del 2010, in cui si utilizza l’espressione “of Hispanic, Latino
or Spanish origins”94, dimostra come anche il governo nei suoi documenti ufficiali
abbia modificato nel tempo le categorie-ombrello per definire coloro che
provengono da Paesi ispanofoni, affiancando alle denominazioni di carattere
91
“Sono costretti da imperativi politici a considerarsi come un tutt’uno […] ad innalzare lo
stendardo della loro unità, malgrado le differenti circostanze in cui ogni gruppo distinto è arrivato
negli Stati Uniti. La lingua dell’unità funziona come strumento di sopravvivenza”. West-Durán,
“Crossing Borders, Creative Disorders”, 63.
92
In questa tesi il termine Latinos sarà giustapposto ad altri considerati di volta in volta pertinenti.
93
Diversi intellettuali, tra i quali Gerald Torres, sostengono che grazie al senso di unità che
accomuna i Latinos, il sogno del patriota venezuelano Bolívar possa realizzarsi proprio negli Stati
Uniti. Gerald Torres, “The Legacy of Conquest and Discovery: Meditations on Ethnicity, Race,
and American Politics”, Borderless Borders: U.S. Latinos, Latin Americans, and the Paradox of
Interdependence, ed. Frank Bonilla (Philadelphia: Temple University Press, 1998) 30.
94
“Di origini ispaniche, latine o spagnole”. United States, Department of Commerce Economics
and Statistics Administration, U.S. Census Bureau, Sharon R. Ennis, et al., “The Hispanic
Population:
2010”.
2010
Census
Briefs,
May
2011
<http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf> . Data di accesso 26 giugno 2012.
46
eurocentrico come “of Spanish origin” or “Spanish-speaking” utilizzate fino agli
anni Sessanta, nuovi termini come “Hispanic” – introdotto nel 1969 dal presidente
Richard M. Nixon in occasione dell’istituzione della prima “Hispanic Heritage
Week” – o “Latino”, utilizzato per la prima volta nel censimento del 2000.
In realtà, vista l’estrema eterogeneità di questa minoranza etnica e viste le
sue origini multinazionali, non tutti si sentono rappresentati da queste “etichette”
pan-etniche. Alcuni preferiscono infatti le designazioni “hyphenated” come
Mexican-American o Cuban-American per indicare la loro “americanità” ed allo
stesso tempo affermare le proprie radici culturali. Altri, come i portoricani,
rifiutano polemicamente di adottare il trattino preferendo termini come
Puertorriqueño, Puerto Rican o Boricua 95 , che denotano una certa resistenza
all’idea di assimilazione culturale. Parallelamente, essi rilanciano anche la
necessità di una “cross-group identification”96 che includa le altre minoranze nonispaniche, ugualmente vittime del passato coloniale, come gli afroamericani e gli
indiani d’America.
Non mancano inoltre designazioni con un valore generazionale e storicopolitico più marcato come Marielito97, Pachuco98 o Chicano99. Quest’ultimo, ad
95
Dal nome originario dell’isola di Portorico denominata Borikén dagli indios– le tribú degli
igneri, i ciboney, gli arawak, i caribe, i taíno – e successivamete Borinquén dai conquistadores.
96
“Identificazione intergruppo”. Juan Flores, From Bomba to Hip-Hop: Puerto Rican Culture and
Latino Identity (New York: Columbia University Press, 2000) 10.
97
Marielitos è il nome dato ai circa 125.000 Cubani che tra aprile e ottobre del 1980 lasciarono
l’isola dal Puerto de Mariel per raggiungere le coste della Florida, grazie a un permesso
temporaneamente concesso da Fidel Castro dopo le tensioni scaturite dall’irruzione di 10.000
persone all’ambasciata peruviava dell’Avana per richiedere asilo politico. Fidel fece imbarcare
non solo prigionieri politici, operai o familiari di esuli già emigrati negli Stati Uniti, ma anche
criminali dalle carceri e pazienti di ospedali psichiatrici. La diversa estrazione sociale dei
Marielitos, rese estremamente complessa l’integrazione con gli esuli dei precedenti flussi
migratori in Florida, principalmente di estrazione borghese e ben istruiti.
98
Pachucos è il nome dato ai giovani messico-americani poveri e violenti che appartenevano alle
bande di strada nate nei barrios delle grandi città. Il fenomeno fu esacerbato dalla dura propaganda
anti-messicana e dalla xenofobia alimentata dal governo statunitense negli anni della Seconda
47
esempio, implica da parte dei messico-americani sia un senso di orgoglio per
l’appartenenza a La Raza100, sia un certo attivismo politico per il richiamo alle
rivendicazioni portate avanti dal Chicano Movement negli anni Settanta.
Molteplici sono inoltre i nomi che riflettono le esperienze di vita uniche e
soggettive di chi li adotta. Per il loro carattere fortemente ibrido, queste
definizioni mettono in discussione ogni classificazione semplicistica e stereotipata,
restituendoci tutta la complessità e la fluidità dell’identità dei Latinos. L’autrice
dominicana Julia Alvarez, ad esempio, si definisce innanzitutto una scrittrice e
solo in seconda istanza una “Dominican Gringa” 101 . La poetessa cubanoamericana Lourdes Casal, trapiantata a New York all’età di 24 anni, rivela tutto il
cosmopolitismo ma anche la marginalità ereditate nella metropoli americana, nei
versi in cui si descrive: “too habanera to be newyorkina, / too newyorkina to be /
– even to become again – anything else”102.
guerra mondiale, in cui si consolida l’immagine del chicano come gangster, simbolo
dell’ignoranza, della miseria, del risentimento e dell’oppressione delle minoranze etniche.
99
Il termine chicano si riferisce a tutte le persone di origine messicana che risiedono stabilmente
negli Stati Uniti. L’origine del termine è incerta. Per Ricardo Sánchez deriverebbe da Meshicano,
nome originale degli Aztechi, mentre per Tino Villanueva si tratterebbe di una palatalizzazione
della velare x nel vocabolo Mexico (x in č) da cui mechicano che subendo un’aferesi produrrebbe
chicano. Il termine è stato usato per designare, di volta in volta, gli Spanish-Americans, i LatinAmericans o i Mexican-Americans, ma nel tempo ha assunto anche altri significati, spesso
dispregiativi, come Okie, Southerner o rebel: espressioni con cui si indicavano le popolazioni
autoctone del Sud-ovest, mescolate con le razze dei conquistatori europei (Mestizos o Criollos). A
partire dagli anni ’60 il suo valore cambia, assumendo una connotazione politica e sociale oltre che
etnica. Diviene infatti emblema di orgoglio culturale e di coscienza politica per i militanti del
Movement nella loro lotta contro l’emarginazione sociale e il sistema nord-americano. Nonostante
ancora oggi sia rifiutato dal settore meno progressista di tale comunità, il termine rimane il più
usato per designare storia, cultura e letteratura della comunità messico americana. Per maggiori
approfondimenti si può far riferimento a Ricardo Sánchez, Canto y grito mi liberación (El Paso:
Mictla Publications, 1971); Tino Villanueva, ed., Chicanos: Antología Histórica y Literaria
(México, Fondo de Cultura Económica, 1980).
100
L’espressione La Raza designa l’identità collettiva e simbolica dei messico-americani, fatta
risalire alle popolazioni indigene precolombiane. È composta da un misto di sentimento
nazionalistico e rifiuto dell’egemonia yankee.
101
“Gringa dominicana”. Citato in West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 22.
102
“Troppo habanera per essere newyorkese, / troppo newyorkese per essere / – o per diventare
ancora – / qualsiasi altra cosa”. Lourdes Casal, “For Ana Veldford”, Bridges to Cuba / Puentes a
Cuba, ed. Ruth Behar (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1996) 21-22.
48
L’intellettuale e accademico Alan West-Durán, nato a La Havana e vissuto
a San Juan (Porto Rico) prima di stabilirsi negli Stati Uniti, si definisce “a Boston
BoriCuban Latino” che cerca costantemente di spiegare e tradurre “(to Anglos and
Latinos alike) the textures and transculturations of Latino identity and culture”103.
A frantumare ogni categoria etnica rigida e monolitica contribuisce in modo
significativo anche la poetessa Nuyorican 104 Sandra María Esteves – nata nel
Bronx nel 1948 da padre portoricano e madre dominicana – quando nella poesia
“Not Neither” 105 risponde alla domanda “Y qué Soy?” con un amalgama di
aggettivi in inglese, spagnolo e slang che rendono quasi impossibile persino
tradurre in un’unica lingua la sua esperienza di vita:
Being Puertorriqueña-Dominicana
Borinqueña-Quisqueyana
Taina-Africana
Born in the Bronx. Not really jíbara
Not really hablando bien
But yet, not gringa either
Pero ni portorra
Pero sí, portorra too
Pero ni qué what am I? Y qué soy?106
Le testimonianze appena citate fanno emergere tutta la tensione vissuta dai
membri di queste minoranze costantemente in bilico tra il desiderio di rivendicare
l’unicità delle proprie esperienze e la tendenza del mainstream ad essenzializzare
e vestire di folclore la loro cultura, riducendola a pochi tratti comuni, rassicuranti,
facilmente catalogabili e soprattutto mercificabili. Per contrastare questo
103
“Un Latino BoriCubano di Boston”, “Sia agli Anglos sia ai Latinos, le strutture e le
trasculturazioni dell’identità e della cultura latina”. West-Durán, “Crossing Borders, Creative
Disorders”, 63.
104
Dal nome del movimento di poeti di origini portoricane, nato nel Lower East Side negli anni
Settanta. Si veda a questo proposito il paragrafo dedicato alla storia della letteratura portoricana.
105
“Né, neanche”. Sandra María Esteves, “Puerto Rican Discovery #3: Not Neither”, in The
Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans et al., (New York and London: Norton, 2010)
1398.
106
“Essendo portoricana-dominicana / Borinqueña-Quisqueyana / Taina-Africana / Nata nel Bronx.
Non proprio jíbara / Non proprio hablando bien / Eppure, neanche gringa / Ma neanche portorra /
Ma si, anche portorra / Ma neanche che cosa sono? Y qué soy?”. Ibidem.
49
fenomeno che Manuel Martín-Rodríguez ha definito “Tacobellization of the
Latino/a image” 107 è sempre maggiore il numero degli stessi membri della
comunità ispanica che si oppongono polemicamente a un uso troppo semplicistico
della “pan-ethnic Latino label”108.
Il giornalista del Los Angeles Times Gregory Rodríguez, ad esempio, in un
articolo del 2006 critica efficacemente l’uso indiscriminato dell’aggettivo Latino
da parte della stampa e della classe dirigente, smascherando il pericolo di
“disumanizzazione” degli individui ai quali questa etichetta viene applicata 109 .
Rodríguez cita vari esempi, tra i quali anche il caso della star dell’NBA Kobe
Bryant, accusato di stupro nell’estate del 2003. In un articolo comparso proprio
sul Los Angeles Times che fa riferimento anche a Vanessa, moglie del cestista,
quest’ultima viene definita in modo troppo riduttivo “Latina”. Rodríguez dimostra
come in ambito giornalistico non si possa giustificare un uso così semplicistico
del termine, che trascura discriminanti fondamentali per una comprensione più
accurata dei fatti, come l’estrazione sociale della protagonista, da quale parte
dell’America Latina provenga, se sia nata o no negli Stati Uniti, etc. D’altronde,
come sottolinea lo stesso Rodríguez in riferimento al caso di Vanessa, “[t]here is
no nation of Latinoland, and if her heritage is important to the story, then why not
connect her (or her family) to a country with a unique culture and tradition”110.
107
“‘Tacobellizzazione’ dell’immagine dei Latinos”. Manuel M. Martín-Rodríguez, Life in Search
of Readers: Reading (in) Chicano/a Literature (Albuquerque: University of New Mexico Press,
2003) 131. Dal nome della famosa catena di fast food, Taco Bell, dedicati alla cucina messicoamericana.
108
“Etichetta pan-etnica dei Latinos”. Juan Flores, From Bomba to Hip-Hop, 13.
109
Gregory Rodriguez, “Gregory Rodriguez: Look beyond the ‘Latino’ Label”, Los Angeles Times,
12 Nov. 2006 <http://www.latimes.com/news/la-op-rodriguez12nov12,1,1839578.column>. Data
di accesso 26 giugno 2012.
110
“Non c’è una nazione di Latinolandia e se la sua eredità culturale è importante per la storia
perché non mettere in relazione lei (o la sua famiglia) ad un Paese con una cultura ed una
tradizione uniche”, Ibidem.
50
Rodríguez fa risalire l’origine controversa di questi termini generici e
onnicomprensivi, entrati in voga negli anni Settanta, da un lato all’esigenza del
Chicano Movement del Sud-ovest di far causa comune con i Portoricani di New
York, acquisendo quindi maggior visibilità e peso politico; dall’altro lato, alla
necessità del governo Nixon di attirare gli elettori ispanici, convogliandoli in una
categoria etnica unica, da contrapporre con più facilità agli interessi della
controparte Afro-americana. Ciò è confermato da un “memo” della Casa Bianca
del 1971 scoperto dallo storico John D. Skrentny : “Spanish-speaking Americans
will take what they can get from whomever will give it… We should exploit
Spanish-speaking hostility to blacks by reminding Spanish groups of the
Democrats’ commitment to blacks at their expense”111.
Di fronte al rischio di facili strumentalizzazioni, acquisiscono quindi
maggior significato posizioni provocatorie e radicali come quella dello scrittore
portoricano Abraham Rodríguez Jr., autore di The Boy Without a Flag: Tales of
the South Bronx (1992), che nega di essere “Hispanic”, rifiutando ogni
meccanismo semplicistico di demarcazione di una “alterità”:
Some Hispanics are white, some Hispanics are black, some
Hispanics are even Asian. Hispanic is not a race… I grew up with the
idea that I’m a minority, I’m Hispanic. I threw it off. I don’t need
somebody else to define me. I don’t need someone else to tell me what
I am or what my concerns are, or the concerns of Hispanics. I’m not
Hispanic.112
111
“Gli americani ispanofoni prenderanno qualsiasi cosa possano prendere da chiunque gliela darà.
Dovremmo sfruttare l’ostilità degli ispanofoni nei confronti dei neri, ricordando ai gruppi spagnoli
dell’impegno dei democratici per i neri, a loro discapito”. Ibidem.
112
“Alcuni ispanici sono bianchi, alcuni ispanici sono neri, alcuni ispanici sono persino asiatici.
Essere ispanico non è una razza... Sono cresciuto con l’idea di essere una minoranza. Me la sono
levata di torno. Non ho bisogno che qualcun altro mi definisca. Non ho bisogno che qualcun altro
mi dica chi sono o quali siano le mie preoccupazioni, o le preoccupazioni degli ispanici. Non sono
ispanico”. Abraham Rodríguez Jr., “Abraham Rodríguez Jr.”, Puerto Rican Voices in English:
Interviews with Writers, ed. Carmen Dolores Hernández (Westport, CT: Praeger, 1997) 143.
51
Rodríguez richiama l’attenzione anche su di un altro aspetto chiave degli
ispanici: la loro diversità razziale, avvalorata anche dal Census Bureau che
definisce “Hispanic” o “Latino”: “a person of Cuban, Mexican, Puerto Rican,
South or Central American, or other Spanish culture or origin regardless of
race” 113 , separando in due punti distinti del questionario, i concetti di origini
etniche (ispaniche o non ispaniche) e razza114.
Già nel 1925, l’intellettuale messicano e ministro dell’istruzione José
Vasconcelos, aveva celebrato il miscuglio di razze che caratterizza il Messico e
l’America latina, rivendicando la nascita di una “raza cósmica”115 dalla fusione
delle allora quattro maggiori categorie razziali (nero, asiatico, indiano e bianco).
La “raza de bronce” che secondo Vasconcelos avrebbe, in un futuro prossimo,
dominato demograficamente e culturalmente le Americhe, si è incardinata nel
Nuovo mondo fin dall’epoca coloniale, quando l’incrocio tra gli spagnoli e gli
indigeni diede origine ad una terza categoria etnica: el mestizo. Nei secoli,
soprattutto nella aree di snodo dei traffici commerciali europei e della tratta dei
113
“Una persona di origini o di cultura cubana, messicana, portoricana, del Centro o del Sud
America o di altre origini culturali spagnole, a prescindere dalla razza”. Sharon R. Ennis et al.,
“The
Hispanic
Population:
2010,”
2010
Census
Briefs,
2
May
2011
<http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf>. Data di accesso 26 giugno 2012.
114
Recependo le direttive introdotte dall’Office of Management and Budget (OMB) nel 1997, già
dal censimento del 2000, a coloro che si definiscono Hispanics or Latinos (in base al proprio
patrimonio linguistico, storico o culturale, alla nazionalità, all’origine dei propri antenati o al luogo
di nascita) si richiede comunque un’ulteriore auto-classificazione all’interno di una o più delle sei
categorie razziali individuate dagli standard federali: “White, Black or African American,
American Indian or Alaska Native, Asian, Native Hawaiian or other Pacific Islander, and Some
other race”, categoria quest’ultima, in cui confluiscono tutte le designazioni non ascrivibili alle
voci precendenti come “Spaniard”, “Latin”, “Latin American”, “Mexican” “Salvadoran”,
“Puertoriqueño”, “Boricua”, etc. La direttiva dell’OMB del 1997 (Revisions to the Standards for
the Classification of Federal Data on Race and Ethnicity) è consultabile alla pagina
<www.whitehouse.gov/omb/fedreg/1997standards.html>.
115
José Vasconcelos, La raza cósmica: misión de la raza iberoamericana (Madrid: Aguilar, 1966).
52
neri, il processo di mescolanza razziale ha prodotto ulteriori incroci generando i
cosiddetti mulattos o zambos116.
Questo processo incessante di meticciato, a partire dagli anni Ottanta del
Novecento è stato rielaborato con orgoglio da scrittori come Gloria Anzaldúa o
Richard Rodríguez, che lo hanno elevato a metafora del mestizaje fisico, sociale,
linguistico, ideologico, religioso, politico e culturale, che caratterizzerebbe le
popolazioni frontaliere in primis ma anche, in un’epoca di globalizzazione, la
società contemporanea in generale.
Se Anzaldúa si concentra sull’idea di inclusività, mobilità, fluidità e
rigenerazione costante possibile proprio nella zone di confine (fisiche o
simboliche) ed in particolare lungo le duemila miglia che separano il Messico
dagli Stati Uniti, Rodríguez condensa invece nel concetto di “brownness” la forza
dirompente che può sprigionarsi mettendo in discussione il sistema binario
bianco/nero a favore di una posizionalità inclusiva, liminale ed ibrida, di cui gli
Hispanic negli Stati Uniti sono un emblema.
Esperienze come quella di Lourdes Casal (“a light-skinned china
mulata”117) incarnano il crocevia di culture ed etnie che hanno segnato la storia
dei Caraibi e di tutto il Nuovo Mondo e la rigenerano nel terzo spazio118 che i
Latinos ridefiniscono costantemente con la loro identità pluralistica e cangiante,
capace di amalgamare imprevedibilmente Nord e Sud, inglese e spagnolo, passato
e presente, campagna e città, rock’n’roll e polka, etc…
116
Il mulatto nasce dell’incrocio di un africano e di un europeo. Lo zambo o sambo indica invece
un africano nato nelle Americhe.
117
“Una cinese-mulatta dalla pelle chiara”. Susan Ware et al., Notable American Women: a
Biographical Dictionary Completing the Twentieth Century (Cambridge: Belknap, 2004) 105.
118
Il concetto di “Third Space” è di Homi Bhabha, The Location of Culture (London: Routledge,
1994) 37.
53
Tanto più che la cultura ispanica viene costantemente consolidata e
rivitalizzata dai flussi migratori da sud (continui e non limitati ad un unico
periodo storico), dalla vicinanza con amici e parenti in Messico, dal pendolarismo
con i Paesi di origine, oggi facilitato dai collegamenti aerei, e dall’alta
concentrazione di hispanohablantes che caratterizza alcuni quartieri. A partire
dagli anni Novanta dobbiamo inoltre considerare il ruolo fondamentale dei mass
media e la nascita di un vero e proprio Latino market, oggi guardato con estremo
interesse dal mondo dell’economia, che alimenta continuamente questa fetta di
mercato con un proliferare di pubblicità, pubblicazioni, servizi dedicati.
Da un lato, si registra il boom dei mezzi di comunicazione in lingua
spagnola, ed in particolare il ruolo dei tre maggiori canali televisivi ispanici –
Galavisión, nato nel 1979, Univisión Television e Telemundo Group, fondati nel
1987 – che hanno permesso la diffusione massiccia di musica in spagnolo, film,
telenovelas, talk shows e programmi innovativi ormai entrati di diritto nella
cultura popolare statunitense. Dall’altro l’uso sempre più diffuso delle nuove
tecnologie, Internet e social networks, accorcia le distanze e facilita enormemente
la conservazione del legame con la cultura d’origine.
La dirompenza dei Latinos e della loro “social force” va dunque cercata
nelle molteplici e mutevoli sovrapposizioni degli ethnoscapes, mediascapes,
technoscapes, financescapes e ideoscapes119 che essi influenzano e da cui sono a
loro volta influenzati. Allo stesso tempo, essa va individuata anche in quel
miscuglio unico di elementi gringos e latinos, di tradizioni sudmericane,
caraibiche ed angloamericane che possono far rivivere, proprio negli Stati Uniti,
119
Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 31.
54
quell’idea di America “una en alma e intento” 120 , fondata sull’uguaglianza, la
dignità e l’armonia delle razze, concepita da José Martí.
Per carpire come questi -scapes si riflettono nella scrittura degli ispanici ed,
in particolare, nel Multigenerational Latino Novel, è utile rivisitare la storia della
letteratura dei tre gruppi etnici che prenderò in esame.
2.2 Latino Writing Force
2.2.1 La letteratura messico-americana: da Aztlán a Borderlands
Si tende a identificare la letteratura messico americana o chicana con la
produzione del Movement e con i suoi sviluppi successivi legati all’acquisizione
di un’identità culturale e politica. Di fatto si tratta solamente della più recente
manifestazione di un complesso processo evolutivo. Le sue radici più profonde
risalgono infatti all’incontro-scontro tra popolazioni autoctone messicane di
origine precolombiana e conquistadores europei. È su questa duplice eredità che
nel 1848 si innesta violentemente la cultura angloamericana. Dopo più di due anni
di combattimenti, infatti, il trattato di Guadalupe-Hidalgo pone fine alla guerra tra
Stati Uniti e Messico sancendo la sconfitta di quest’ultimo e la cessione agli
Anglos dei territori a nord del Río Grande: gli attuali stati della California,
dell’Arizona, del New Mexico, dello Utah, del Nevada e parte del Colorado, oltre
al Texas già annesso nel 1846. Le popolazioni di questi stati si vedono costrette da
un giorno all’altro alla dolorosa scelta tra l’abbandono della propria terra,
120
“Una nell’anima e nell’intento”. José Martí, “Nuestra América”, Obras completas (La Habana:
Editorial Nacional de Cuba, 1963, vol. 6) 22.
55
divenuta territorio statunitense, e la perdita d’identità nazionale con la
conseguente acquisizione di elementi culturali anglosassoni.
Il trauma della separazione e le difficoltà d’inserimento in un ambiente
culturale ostico e estraneo danno vita, lungo tutto il confine, al fenomeno de La
Raza: un misto di sentimento nazionalistico e rifiuto dell’egemonia yankee che si
traduce nelle prime manifestazioni letterarie messico-americane, giornali, lettere,
pamphlets e diari. Ma il lungo confine tra Stati Uniti e Messico non è mai stato
invalicabile. Negli anni si è assistito a continui flussi migratori e contaminazioni
culturali, tanto che oggi la comunità chicana ha dovuto reinventare sé stessa,
mescolando elementi indigeni, spagnoli e angloamericani in una nuova identità,
ibrida e priva di un centro.
Il 1848 rimane comunque il punto di partenza di questa complessa
letteratura, radicata da 150 anni nel limbo di due culture, quella messicana e
quella angloamericana, e allo stesso tempo ricca di tutta l’eredità pre-colombiana
e spagnola che si estende in un arco di cinque secoli.
Felipe de Ortego y Gasca
121
divide questa esperienza letteraria
plurisecolare in cinque grandi periodi. Il primo corrisponde al “Periodo coloniale
spagnolo” (1542-1810) ed è caratterizzato da scritti di natura storica (cronache,
annali, memorie e relazioni lasciate dagli esploratori) ma anche da un ricchissimo
patrimonio di racconti: ballate, narrazioni, favole, canti e leggende di notevole
valore antropologico e religioso in quanto sintesi originale di elementi indigeni e
spagnoli. Sempre in questo periodo fanno la loro comparsa anche personaggi
121
Felipe de Ortego y Gasca, “An Introduction to Chicano Poetry”, in Modern Chicano Writers,
eds. Tomás Ybarra-Frausto e Joseph Sommers (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1979) 110111.
56
come la Llorona, la curandera, la bruja122 e altre figure religiose del pantheon
azteco, ricettacolo di temi e simboli per i futuri poeti chicani.
Il “Periodo nazionale messicano” (1810-1848) è segnato invece
dall’instabilità politica e sociale dovuta a due grandi eventi: nel 1821
l’indipendenza del Messico dalla madre patria spagnola dopo undici anni di
estenuante lotta; e nel 1848 il trattato di Guadalupe-Hidalgo con gli Stati Uniti. I
conflitti spirituali e la precarietà economica di questi anni si ripercuotono sulla
produzione letteraria, rappresentata soprattutto da opere di natura storico-politica
e dalle numerose rappresentazioni teatrali di folklore religioso.
Sempre in questo periodo ha inizio l’infiltrazione dei nordamericani nel
territorio messicano, favorita dal governo di Città del Messico che, per le precarie
condizioni economiche, rilascia concessioni terriere in loro favore. Dai primi
insediamenti a San Felipe de Austin in Texas si passa ben presto a un progetto
deliberato di conquista che culmina nel trattato di Guadalupe-Hidalgo. Da questo
momento i messicani che decidono di rimanere nei nuovi stati divengono, di fatto,
una minoranza diversa per razza, lingua, cultura, religione e modello di vita. In
costante conflitto con gli angloamericani, vedono i loro diritti sanciti nel trattato
continuamente violati, la loro lingua e la loro cultura negate e le loro terre
gradualmente sottratte con la frode e la violenza.
Il “Periodo di transizione” (1848-1912) riveste un ruolo fondamentale per
la letteratura chicana che, pur ponendosi in aperto antagonismo con la cultura
dominante, ne rivela anche i primi influssi. Agli scrittori si presenta per la prima
volta il problema della lingua: inglese o spagnolo? Anche se la maggior parte
122
Letteralmente: colei che piange, la guaritrice, la strega.
57
sceglie lo spagnolo (Eusebio Chocón, F. Junípero Serra e altri), non mancano
personaggi come Miguel Otero, integrati nella società angloamericana, che optano
invece per l’inglese.
Nel “Periodo moderno o di interazione” (1912-1942) si realizza un
processo contrastante. Da un lato, il continuo flusso di immigrati dal Messico alla
ricerca di migliori condizioni di vita rafforza la cultura e le tradizioni dalla madre
patria, favorendo la formazione di una coscienza etnica. Dall’altro, si fa più
evidente la convinzione che la sopravvivenza richieda un rinnovamento e un
adattamento alla realtà degli Stati Uniti: una sorta di compromesso culturale con
l’inevitabile perdita di messicanità di cui i pochos, i messicani divenuti cittadini
statunitensi – loro malgrado – dopo il 1848, sono il simbolo più evidente
soprattutto in relazione ai più recenti immigrati. È proprio in questo periodo che si
formano numerose associazioni di carattere economico, sindacale e socioculturale, nel tentativo di tutelare i diritti della comunità e di rafforzarne i vincoli
di solidarietà. Vengono pubblicate riviste, manifesti, periodici ricchi di racconti
ma soprattutto poesia. Gli scrittori si propongono di creare una lingua
rappresentativa della sintesi culturale, ritenuta inevitabile e necessaria.
Incoraggiano il rispetto per le tradizioni e la lingua spagnola ma sostengono anche
l’esigenza di apprendere l’inglese per motivi pratici e utilitaristici.
L’avvento della Seconda guerra mondiale, oltre ad aprire il cosiddetto
“Periodo chicano”, porta con sé un accelerato processo di urbanizzazione verso i
grandi centri industriali e un arruolamento di massa: fenomeni che favoriscono sia
l’immersione nella lingua e nel modello di vita nordamericano, sia aperte forme di
intolleranza razziale enfatizzate dai mezzi di comunicazione di massa sempre
58
pronti a sottolineare l’analfabetismo, la delinquenza e l’elevato tasso di natalità
della comunità chicana. Il forte sentimento anti-messicano porta a due gravi
episodi, entrambi accaduti a Los Angeles nel 1943. Si tratta dello Sleepy Lagoon
Case e degli Zoot-Suit Riots: un’ingiusta incriminazione nel primo caso e una
spedizione punitiva nel secondo, sempre ai danni di giovani messico-americani123.
In questi stessi anni la tensione razziale è aggravata dal diffondersi dei pachucos,
bande di giovani poveri e violenti nate nei barrios delle grandi città che
rispondono in questo modo alla dura propaganda anti-messicana e alla xenofobia
alimentata dal governo statunitense negli anni della guerra. Si consolida così
l’immagine del chicano come gangster, pachuco 124 o zoot-suiter 125 , simbolo
dell’ignoranza, della miseria, del risentimento e dell’oppressione delle minoranze
etniche.
Il processo di autodeterminazione continua e si accresce negli anni ’60,
quando la protesta diviene vera e propria militanza. Nel clima di generale
scontento suscitato dalla guerra in Vietnam e sulla scia del Movimento per i diritti
civili degli afro-americani la lotta dei messico-americani per il riconoscimento dei
propri diritti si organizza nel cosiddetto Chicano Movement. La letteratura di
questo periodo si articola in due fasi: una prima fase di attivismo pre-accademico
in cui si utilizzano le forme della tradizione popolare per trasmettere i nuovi
messaggi politici; e una seconda fase di sodalizio con gli ambienti universitari. È
123
Prendendo spunto da questi episodi, Luis Valdez ha scritto l’opera teatrale del 1979 Zoot Suit,
poi trasformata in film nel 1981. Luis Valdez, Zoot Suit, Universal, 1981.
124
Variante dialettale con cui si indicava El Paso dove nacquero le prime gangs di immigrati
messicani al principio degli anni ’30.
125
Termine coniato negli anni ’40 dal gangster e venditore di vestiti Harold C. Fox, per indicare
l’abbigliamento insolito e vistoso dei giovani Latinos appartenenti alle bande di quartiere. Essi
indossavano infatti lo zoot-suit, un completo caratterizzato da una giacca a tre quarti con spalle
imbottite e da pantaloni color kaki con risvolto all’altezza della caviglia, solitamente portati su
scarpe francesi a punta. Si distinguevano inoltre per i capelli tagliati a “coda d’anitra” e per il
frustino.
59
il 1968 a fare da spartiacque, segnando il passaggio da opere letterarie scritte da e
per un pubblico proletario a una produzione più matura e vicina ai valori
accademici.
Il primissimo impulso di questo processo si ha in California nel 1962
quando César Chávez, un ex-bracciante agricolo, crea lo United Farm Workers
Organizing Committee: primo sindacato di campesinos ad organizzare uno dei più
grandi scioperi del paese. L’iniziativa innesca una sorta di reazione a catena e nel
1965 porta Luis Valdéz (oggi considerato padre del teatro chicano) alla creazione
de El Teatro Campesino. Sorto allo scopo di politicizzare i contadini itineranti
della California attraverso brevi rappresentazioni di actos, il suo teatro in seguito
si aprirà a nuove cause (lotte studentesche, movimento contro la guerra in
Vietnam) elaborando strutture drammatiche più complesse legate al corrido e alla
mitologia della cultura chicana.
Nel 1968 il Movimento chicano accede al mondo accademico per
iniziativa di un gruppo di intellettuali dell’Università della California a Berkeley.
Essi animano le manifestazioni studentesche in favore di un rinnovamento
radicale dei programmi che preveda l’apertura alla cultura messico-americana.
Incontratisi a Denver, l’anno successivo, in occasione della prima National
Chicano Youth Conference voluta dall’intellettuale Rodolfo “Corky” Gonzales,
gli studenti del Movimento approvano il Plan Espiritual de Aztlán, primo
manifesto del nazionalismo culturale chicano. Nucleo del documento è l’esigenza
di far riferimento a una nuova nazione: Aztlán, termine ripreso dalla lingua
Nahuatl che significa “terra del nord” e indica, secondo la leggenda, il luogo da
cui erano venuti gli Aztechi. Nella nuova accezione Aztlán è il simbolo di una
60
patria spirituale; è un rifugio, un’utopia, una terra promessa senza frontiere, dove
è possibile la sintesi di due realtà e culture.
Gli sforzi sostenuti porteranno all’inserimento di corsi di storia e cultura
chicana nelle università e nei college; alla fioritura di poeti, narratori, artisti e
giornalisti; alla diffusione di quotidiani e periodici; e a un crescente potere
politico, soprattutto locale. In generale si assiste a un interessamento inedito e
repentino per la letteratura chicana che al contrario di quella afroamericana non
aveva avuto nessuna Harlem Renaissance ed era rimasta ignorata fino a quel
momento: seppellita negli archivi, nei vecchi giornali, nei manoscritti non
pubblicati.
Ben presto nascono le prime case editrici chicane come la Quinto Sol,
fondata dall’organizzazione studentesca di Berkeley e promotrice della più
influente rivista del Movimento, El Grito alla quale collaboreranno i futuri
portavoce della letteratura messico-americana: Tomás Rivera, Rolando Hinojosa,
Rudy Anaya, Estela Portillo, José Montoya, Alurista, Miguel Méndez. Sempre per
iniziativa della Quinto Sol nel 1979 viene pubblicata la prima antologia di
letteratura chicana, El Espejo/The Mirror, e viene introdotto un premio letterario
per la miglior opera chicana dell’anno. Nel frattempo altri autori esterni al gruppo
di Berkeley fondano piccole tipografie per pubblicare in proprio le loro opere. È il
caso di Rodolfo Gonzales, Abelardo Delgado, Ray Barrio, Luis Valdés, Ricardo
Sánchez.
Nel 1970, con la pubblicazione di opere come Chicano di Richard
Vázquez o Pocho di José Antonio Villareal (ignorate nel 1959), si apre quella che
è stata definita Chicano Renaissance: il momento di massima fioritura e interesse
61
per la produzione messico-americana. Da allora, la Bilingual Review Press
fondata nel 1973 ed ancora oggi diretta da Gary Francisco Keller (presso
l’Hispanic Research Center dell’Arizona State University) e la Arte Público Press
istituita nel 1979 e da allora diretta da Nicolás Kanellos (presso la University of
Houston) continuano ad essere le più affermate case editrici nell’ambito della
promozione e della diffusione della letteratura ispanica.
Ad animare gli artisti di questi anni sono da un lato le rivendicazioni
socio-politiche, dall’altro la drammatica ricerca di un’identità storica ed etnica di
fronte al timore che il mondo chicano possa scomparire, assorbito dal grande
melting pot nordamericano. Alurista, Montoya, Gonzales, De Hoyos, Tafolla e
Delgado condividono infatti la convinzione che l’artista debba essere attivamente
coinvolto nella lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia e che le sue opere
debbano rappresentare la voce collettiva della Raza nella sua complessa natura.
Nasce così l’esigenza di riesaminare il passato per creare uno sfondo storicomitologico alla nazione chicana.
Mentre i poeti della generazione precedente avevano esaltato il passato
spagnolo, in questo momento si riscoprono la storia precolombiana, le radici
indigene, la cultura e la filosofia nahuatl, dalle quali trarre immagini e valori
autentici contrapposti alla vacuità del modello angloamericano e occidentale.
Aztlán, terra d’origine degli aztechi, diviene così simbolo di continuità culturale e
di liberazione da un’oppressione inaccettabile. Si rivendica con orgoglio lo
splendore delle culture indigene e si esalta l’identità meticcia come essenza stessa
della natura chicana. Tutto questo viene legato saldamente al presente in una sorta
62
di processo storico-dinamico in cui rituali, personaggi e divinità aztechi
divengono metafore della realtà chicana contemporanea.
Verso la metà degli anni ’70 inizia per la letteratura chicana un periodo di
profondi cambiamenti. Ci si allontana sempre di più dalla concezione dell’opera
letteraria come strumento di trasformazione politica e sociale o dalla figura dello
scrittore come attivista e apostolo di una comunità. Si inizia invece la ricerca di
una letteratura più libera e aperta all’esperienza umana al di là di ogni provenienza
etnica. La stessa critica chicana si spacca in diverse correnti, proponendo nuovi
criteri di valutazione delle opere d’arte, che prendano in considerazione l’abilità e
il talento reale di chi scrive e non più esclusivamente le sue origini chicane o il
suo coinvolgimento politico. Questo permette, negli anni ’80, da un lato, la
riscoperta di scrittori precedentemente ignorati perché poco rappresentativi del
canone chicano, come il romanziere gay John Rechy. Dall’altro, la comparsa di
nuove opere letterarie che ampliano i confini della letteratura messico-americana:
come The Road to Tamazunchale di Ron Arias o Caras Viejas y Vino Nuevo di
Alejandro Morales, che mostrano un’evidente apertura al realismo magico di
Borges e García Márquez.
Abbandonate le utopie del Movement e i programmi di conservazione
culturale ci si rende conto che l’assimilazione con gli Stati Uniti è inevitabile e
addirittura auspicabile e che il futuro della letteratura chicana dipenderà dalla sua
capacità di essere una cultura di sintesi in un flusso costante e dinamico. Ma
intanto gli anni ’70 si chiudono in un’atmosfera di generale pessimismo. La
recessione economica, i tagli del governo ai fondi destinati alla cultura, la perdita
di interesse nella ricerca d’identità e un diffuso conformismo agli standard della
63
società nordamericana influiscono negativamente sugli scrittori. La letteratura
chicana sembra perdere il suo centro per approdare a un punto fermo dal quale
uscirà solo grazie alla forza rinnovatrice delle nuove generazioni.
Uno dei cambiamenti più significativi è l’apparizione di scrittrici fino a
quel momento escluse dalla scena letteraria chicana. Esse cominciano
pubblicando da sole i loro libri proprio come avevano fatto circa dieci anni prima i
loro colleghi uomini, consapevoli però di dover affrontare una doppia
discriminazione: quella delle case editrici americane e quella delle stesse
tipografie chicane nate per promuovere un canone tutto al maschile. È il caso per
esempio di Estela Portillo, Alma Luz Villanueva, Lucha Corpi, Lorna Dee
Cervantes o di Bernice Zamora, che nel 1976 con Restless Serpents firma il primo
manifesto del femminismo chicano.
L’altra grande spinta al rinnovamento è data, ancor più in generale, da una
nuova generazione di scrittori decisi ad abbandonare i vecchi clichés per una
scrittura fresca, ironica, tecnicamente ineccepibile e capace di esaltare
l’esperienza umana superando le frontiere del proprio gruppo etnico. Raccolti
intorno alle nuove riviste letterarie, Mango e Cambios/Phideo, autori come
Orlando Ramírez, José Saldívar, Gary Soto, Sandra Cisneros, Cherríe Moraga,
Gloria Anzaldúa e Richard García amplieranno i confini della letteratura chicana.
2.2.2 La letteratura portoricana: dai jíbaros all’hip-hop
The four-hundred-year plus history of Puerto Rico is really a very
simple story of greed and amorality. The men who ventured to cross
the great Atlantic arrived greedy for gold and the acquisition of land,
and in their wake they left whole generations of people, whole tribes
of people, dead and without any semblance of a history because all
historical records were destroyed. And then, in 1917, we were all
made United States citizens by Jones Law. By 1946 Puerto Rico was
64
allowed to have its first Puerto Rican-born governor, and there are
reforms in the Jones Law that make it possible for Puerto Ricans from
the lower classes to come to America looking for bread, land, and
liberty. This maxim really is the thing under which the idealized trip
up North is sold, and so, in 1948, the Department of Labor initiated
the migration to the North that was to result in a mass evacuation of
the island of Puerto Rico.
What does it mean, then, to the New York Puerto Rican to have
been moved to the North and to find once he gets to the North that
there is no real hot opportunity going on – that the dollars are really
hard to get to, that the jobs are demeaning, and that historical
continuity has been totally severed?126
Denominata Borikén dagli abitanti originari – le tribú indigene degli igneri,
i ciboney, gli arawak, i caribe, i taíno – e successivamete Borinquén dai
conquistadores, Portorico è stata una delle più floride e pregiate colonie della
corona spagnola, tanto da guadagnarsi il nome di “Ricco porto” e l’epiteto “isla
del encanto”. Eppure, come confermano le crude parole di Miguel Algarín, dietro
a questo “incanto” si sono celati quattro secoli di sofferenze e sfruttamento, che
hanno visto il massacro della popolazione locale (e la cancellazione della sua
storia), seguito dall’arrivo di altri gruppi etnici, in particolare gli schiavi neri
africani, importati per lavorare nelle piantagioni di tabacco, caffè e canna da
zucchero.
126
“I quattrocento e più anni di storia di Porto Rico sono veramente un racconto molto semplice di
avidità ed amoralità. Gli uomini che si avventurarono nel Grande Atlantico, arrivarono avidi di oro
e di terre da acquisire e, al loro passaggio, lasciarono intere generazioni di persone, intere tribù di
popoli, morti e senza una parvenza di storia perché ogni sua traccia fu distrutta. Poi, nel 1917,
siamo diventati tutti cittadini statunitensi, attraverso la legge Jones. Nel 1946 a Porto Rico fu
concesso di avere il suo primo governatore portoricano di nascita, e si riformò la legge Jones per
fare in modo che i portoricani dalle classi più basse andassero in America alla ricerca di pane, terra
e libertà. Questa massima è veramente ciò per cui è venduto il viaggio idealizzato verso Nord, e
così, nel 1948, il Dipartimento del Lavoro ha dato inizio alla migrazione verso Nord che ebbe
come risultato un’evacuazione massiccia dell’isola di Portorico. Che cosa significa, dunque, per il
portoricano di New York esser stato spostato a Nord per scoprire, una volta arrivato a Nord, che
non c’è nessuna strepitosa opportunità reale – che i dollari sono difficili da ottenere, che i lavori
sono degradanti, e che la continuità storica è stata totalmente interrotta?”. Algarín, “Nuyorican
Literature” , 1351.
65
Nel 1898, al termine del conflitto ispano-americano, che Theodore
Roosvelt ha definito “la splendida guerricciola”127, l’isola passa dalla condizione
di colonia spagnola a quella di appendice degli Stati Uniti. Con il referendum
democratico del 1952, Portorico diviene membro del Commonwealth e “Stato
libero associato”: soggetto ai pieni poteri del Congresso statunitense e dotato di
autonomia di governo e costituzione ma solo per le questioni locali128.
A partire dall’annessione, l’incrocio di razze che ha caratterizzato per
secoli il suo tessuto sociale viene quindi esasperato in maniera drammatica
dall’inizio dell’esodo dei suoi abitanti verso gli Stati Uniti, una diaspora lunga ed
ininterrotta che nel Ventesimo secolo diventerà un vero e proprio fenomeno di
massa tanto che, in base al censimento del 2010, il numero dei portoricani negli
Stati Uniti (4.623.716) ha superato quello degli abitanti dell’isola (3.725.789).
I primi a lasciare Portorico sono i militanti indipendentisti (tra i quali
Arturo Schomburg, Luis Muñoz Marín e Lola Rodíguez de Tío) che Mario Maffi
definisce “un rivolo carsico che affiora nelle strade di New York seguendo i
sentieri già aperti dall’eroe nazionale cubano José Martí”. Un esodo che
aumenterà significativamente, incorporando ogni classe sociale129, in particolare
dopo il 1917 con il Jones Act e l’acquisizione della cittadinanza statunitense,
127
Mario Maffi, Voci di frontiera: Scritture dei Latinos negli Stati Uniti (Milano: Feltrinelli, 1997)
12.
128
Per la mancanza di piena autonomia politica e vista la forte subordinazione economica agli Stati
Uniti, alcuni intellettuali come Juan Flores sostengono che Portorico debba essere ancora
considerata una colonia: “this island nation is still a colony by all indicators of International
relations, its economic and political life fully orchestrated by its mighty neighbor to the north, the
putative leader of world democracy and sovereignty / questa isola nazione è ancora una colonia in
base a tutti gli indicatori delle relazioni internazionali, la sua vita economica e politica totalmente
orchestrata dal suo potente vicino a nord, il leader putativo della democrazia e della sovranità
mondiale”. Flores, From Bomba to Hip Hop, 9.
129
In particolare le classi più disagiate, tra cui gli operai di sigarifici e dell’industria di
abbigliamento ed i jíbaros (o contadini), da impiegare come manodopera a basso costo nella
fiorente industria di New York o come soldati da inviare al fronte della Prima guerra mondiale.
66
quando quello stesso rivolo iniziale “comincerà ad ingrossarsi, a scorrere in
superficie, a divenire flusso permanente nelle due direzioni”130.
Seguendo le alterne vicende dell’economia e della vita politica portoricana
e di quella statunitense, le principali ondate migratorie hanno coinciso con il
crollo del costo della canna da zucchero negli anni Trenta, con la Seconda guerra
mondiale, con gli scompensi al tessuto economico e sociale causati dalla
Operazione Bootstrap che si proponeva di industrializzare l’isola a “tappe forzate”,
per raggiungere un picco negli anni Settanta quando i portoricani arrivano a
costituire l’80% dei Latinos di New York.
Parallelamente ai flussi migratori, le lotte indipendentiste diventano
sempre più acute, culminando in due eventi che hanno attirato l’attenzione di tutto
il mondo sul nazionalismo portoricano: la manifestazione di Ponce del 1937
repressa nel sangue e l’attacco armato alla sede del Congresso nel marzo del 1954
al quale prese parte, tra gli altri, anche Lolita Lebrón, divenuta in seguito una
figura quasi leggendaria alla quale anche la poetessa Sandra María Esteves, dedica
i suoi versi: “We are a whole culture once romoved / Lolita alive for twenty-five
years / Ni soy, pero soy Puertorriqueña cómo ella”131.
Fin dalla metà dell’Ottocento, la letteratura dell’isola viene quindi
plasmata dal suo status di subalternità. Se in opposizione all’egemonia spagnola,
durante l’epoca coloniale, gli intellettuali avevano enfatizzato le proprie radici
meticce e promosso la riscoperta della cultura indigena, il folclore e gli archetipi
nazionali; come reazione al potere statunitense, scelgono di difendere tenacemente
130
Maffi, Voci di frontiera, 13.
“Siamo un’intera cultura un tempo rimossa / Lolita viva per venticinque anni / Né sono, ma
sono portoricana come lei”. Esteves, “Puerto Rican Discovery #3: Not Neither”, 1398.
131
67
l’uso dello spagnolo e di valorizzare il legame con la nascente estetica del
modernismo sudamericano, nel tentativo di definire una propria identità nazionale.
Luis Palés Matos è stato tra i primi a rendere omaggio al forte retaggio
africano ed afro-caraibico dell’isola, sviluppando una stile poetico ispirato ai ritmi
ed alle lingue del “Black Caribbean” in opere dal titolo quasi intraducibile come
l’onomatopeico Tun tun de pasa y grifería (1937), in cui il primitivismo ed i versi
liberi diventano veicolo della sua posizione critica verso Europa e Stati Uniti. Lo
dimostrano poesie come “La Plena de Menéalo” (1952) in cui Porto Rico è
impersonata da una mulata che traspira rum in una danza seducente, in cui si
avvicina ed allo stesso tempo sfugge – senza mai farsi raggiungere – dalle mani di
un divertito Uncle Sam.
Gli scrittori dell’isola continuano per tutto il Novecento ad essere in buona
parte influenzati dalla necessità di difendere l’integrità linguistica e culturale di
Portorico dalle ingerenze degli angloamericani. Utilizzando uno spagnolo quanto
più possibile standard, le loro opere ruotano intorno al tema del jíbaro come
“buon selvaggio” – emblema di un passato edenico e del trionfo dei valori
tradizionali – e alla descrizione satirica sia della borghesia portoricana
“americanizzata” e compiacente, sia della fredda efficienza degli yankee. Altro
topos ricorrente sono le disavventure dello “spic”132, ovvero dell’emigrato a New
York – simbolo di perdizione e decadenza. In Spiks (1956) di Pedro Juan Soto,
quest’ultimo viene descritto nella sua condizione di estrema povertà, oppressione
132
Il termine derogatorio “Spic” o “Spik”, con il quale si indicavano gli immigrati ispanici (in
particolare i portoricani) a New York, deriva dalla loro pronuncia erronea del verbo “to speak”.
Potrebbe inoltre derivare dal detergente universale Spic & Span, con un chiaro riferimento ai
lavori di basso profilo che essi svolgevano nella metropoli. Altri termini denigratori simili sono
“pachuco” per i messico-americani del Sud-ovest o “greaser” per gli italoamericani.
68
e sradicamento, come cittadino di serie B, irrimediabilmente inghiottito nella
viscere della metropoli.
A rompere lo stile spesso trito ed artificiale degli autori più conservatori,
contribuisce il genio di scrittori come Luis Rafael Sánchez con La guaracha del
Macho Camacho (1976), che conferisce dignità letteraria al vernacolo portoricano
– ricco di idiosincrasie, espressioni dialettali ed anglicismi – dimostrando che la
lingua “corrotta” dei colonizzati (più che lo spagnolo standard) può farsi veicolo
di una pungente critica sociale ed evidenziare i lati oscuri del processo di
“americanizzazione” di Portorico.
Le prime manifestazioni letterarie dei portoricani emigrati a New York
risalgono ai quotidiani pubblicati in lingua spagnola
133
fin dalla fine
dell’Ottocento, in cui si possono trovare notizie, ma anche saggi, poesie, racconti
e romanzi seriali. A partire dagli anni Trenta appaiono i primi articoli anche in
inglese, come la rubrica che Jesús Colón cura sul Daily Worker, organo di stampa
del partito comunista americano, in cui si fa portavoce delle condizioni disagiate e
delle discriminazioni vissute dei portoricani di New York, ben diverse dalla vita
agiata condotta dalla maggior parte degli intellettuali dell’isola, che proveniva da
un’élite istruita e colta.
Ad aprire la strada alle successive generazioni di poeti e drammaturghi,
marcando una transizione simbolica tra la produzione “of the island” e “of the
mainland”134 saranno due autori chiave della letteratura portoricana dell’isola che,
133
Alcuni esempi sono El Mensajero Semanal (1828-1830), El Mercurio de Nueva York (18281833), La Patria (1892-1898), La Voz de la América (1865-1867) e Las Novedades (1893-1918).
134
La dicotomia tipicamente portoricana tra “island” e “mainland” in italiano è stata tradotta da
Mario Maffi in “isola” e “urbe”. Mario Maffi, “Ritratto dell’autore da scarafaggio”, Scarafaggi
metropolitani e altre poesie, Pedro Pietri, trad. di Mario Maffi (Milano: Baldini & Castoldi, 1993)
7-22.
69
per diverse circostanze, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta sono attivi a
New York: Julia de Burgos e René Marqués.
Julia de Burgos, militante del partito nazionalista e del movimento per la
difesa dei diritti civili delle donne e delle popolazioni afro-caraibiche, è oggi
considerata tra le più grandi poetesse del Sud America. Dal 1940 la scrittrice
soggiorna alternativamente a La Habana e a New York, città quest’ultima in cui si
dedica alla scrittura creativa, collabora con il quotidiano progressista Pueblos
Hispanos e infine muore tragicamente, dopo esser stata trovata in fin di vita, sul
marciapiede di Spanish Harlem dove oggi sorge il Julia de Burgos Cultural Center.
René Marqués, tra i più illustri commediografi portoricani, proprio a New
York poté produrre nel 1953 la sua opera teatrale più famosa La carreta che mette
magistralmente in scena i conflitti religiosi, morali e linguistici di una famiglia
portoricana trapiantata nella “grande mela”, descrivendo lo smembramento ed il
senso di profonda alienazione derivati dal continuo pendolarismo fra isola e
metropoli.
Sempre in questo periodo, mentre i flussi migratori verso la “mainland” si
fanno sempre più intensi, si assiste a due fenomeni paralleli: “mentre la isla
rinasce faticosamente nei ghetti di Manhattan e dintorni […] a Portorico dilaga
irresistibile l’America”135. E così il Lower East Side, Spanish Harlem e il South
Bronx si popolano di immigrati portoricani, ammassati negli angusti tenements e
relegati ad una condizione di povertà e marginalità estrema. Nelle vie della città i
jíbaros si uniscono ai grafiteros136 e nascono nuovi luoghi di incontro come le
135
136
Maffi, Voci di frontiera ,14.
Il grafitero è l’artista di graffiti, tipica figura delle metropoli.
70
bodegas, le bótanicas137, le trattorie con specialità portoricane, i club di salsa e
merengue. Di contro, a Portorico si moltiplicano i turisti angloamericani, i
cartelloni pubblicitari, i grattacieli, le grandi banche e le multinazionali, i locali
notturni e le luci al neon che stravolgono in breve tempo l’assetto
tradizionalmente rurale e provinciale dell’isola in maniera così radicale da indurre
il poeta-bandito del Lower East Side Miguel Piñero a scrivere “this is not the
place where I was born”138.
Intellettuali e poeti iniziano quindi ad incanalare nell’attivismo politico o
nell’arte la rabbia e la frustrazione per il proprio senso di sradicamento e
oppressione, per la disgregazione sociale e per i gravi fenomeni di alienazione
giovanile che alimentano il gangsterismo e la violenza di strada139. Da un lato
nascono quindi gli Young Lords (gruppo politico nazionalista ispirato alle Pantere
nere) ed altre organizzazioni che portano la causa portoricana oltre i confini
angusti del barrio, ricollegandosi al Movimento chicano ed alle manifestazioni di
protesta contro la guerra in Vietnam e per la difesa dei diritti fondamentali delle
minoranze etniche, delle donne, e del Terzo mondo.
Dall’altro lato, appaiono i primi bardi di strada come Jorge Brandon, detto
anche “El coco que habla”140, che contribuisce a diffondere consapevolezza etnica
per le vie di “Loisaida”141 e nella zona di Union Square, improvvisando versi ed
137
Erboristerie o drogherie di erbe medicinali.
“Non è il posto in cui sono nato”. Miguel Piñero, “This Is Not the Place Where I Was Born”,
The Norton Anthology of Latino Literature, 1394.
139
Descritte, se pur in forma edulcorata, in West Side Story (1961): musical epocale scritto da
Jerome Robbins (regia e coreografia), Arthur Laurents (libretto), Leonard Bernstein (musiche) e
Stephen Sondheim (testi), che fisserà per decenni nell’immaginario collettivo americano lo
stereotipo del gangster portoricano di New York.
140
“Il pazzo che parla”.
141
Termine con cui i portoricani ribattezzano il “Lower East Side”, dalla loro pronuncia della
nome.
138
71
opere teatrali 142 o leggendo poesie ed estratti per gli operai e la popolazione
analfabeta del quartiere, che risponde con entusiasmo e partecipazione alle sue
performance. Mentre il numero di intellettuali e poeti borinquen che danno voce
alle problematiche del barrio continua a crescere, nel 1967 viene pubblicata
l’opera simbolo del fermento culturale portoricano a New York: Down These
Mean Streets di Piri Thomas.
Descrivendo la condizione di estrema povertà, violenza, e razzismo vissuta
in prima persona a Spanish Harlem e, ispirandosi alla propria esperienza di
redenzione dal carcere e dalla criminalità, Thomas traccia un quadro crudo e
disincantato dell’infrangersi dell’American Dream. Gli immigrati portoricani,
esclusi dalle strutture simboliche dell’identità nazionale sia negli Stati Uniti che a
Portorico, devono finalmente accedervi e sentirsi parte integrante della società in
cui vivono.
Così come era accaduto con The Autobiography of Malcolm X (1965) per
la comunità afroamericana, il suo mémoir forgia un’identità etnica collettiva, ed
allo stesso tempo fonda un genere letterario inedito, con uno strabiliante successo
di vendite, che influenzerà tutta la successiva narrativa ambientata nei ghetti
ispanici: dalle opere di Nicholasa Mohr (come Nilda del 1973 o Going Home del
1986), passando per Edward Rivera (Family, Installments: Memories of Growing
Up Hispanic del 1982) ed Ed Vega (da The Comeback del 1985 a Casualty Report
del 1986), fino a The Brief Wondrous Life of Oscar Wao (2007) dello scrittore
dominicano Junot Díaz, vincitore del premio Pulitzer nel 2008.
142
Attraverso le opere sperimentali della compagnia El teatro ambulante.
72
Sul versante della poesia nel 1975 viene pubblicata Nuyorican Poetry: An
Anthology of Puerto Rican Words and Feelings, opera-cardine di quella che
Nicolás Kanellos ha definito “the true avant-garde of United States letters”143 .
L’opera-manifesto a cura di Miguel Algarín e Miguel Piñero da il nome ai poeti
Nuyorican, gruppo particolarmente attivo nel Lower East Side che si riappropria
con orgoglio, attraverso quello che Anna Scannavini definisce un “gioco
apertamente metalinguistico”144, del termine dispregiativo con cui gli intellettuali
dell’isola si riferivano alla produzione letteraria dei loro compatrioti emigrati145.
Dopo i primi incontri a casa di Miguel Algarín, divenuta subito troppo
piccola, nel 1972 il gruppo fonda nel Lower East Side (quartiere multiculturale
per eccellenza) il Nuyorican Poets Cafe: luogo simbolo della straordinaria
fioritura culturale che vede protagonisti Miguel Piñero, Lucky Cienfuegos, Sandra
María Esteves, Bimbo Rivas, Jesús Papoleto Meléndez e gli altri poeti e artisti che
negli anni prenderanno parte all’esperienza Nuyorican. Il Cafe diviene fin da
subito un laboratorio di sperimentazioni multietniche e multiculturali, aperto a
performance di poesia, musica, hip hop, teatro, ed arti visive e frequentato da un
vivacissimo pubblico di ogni estrazione sociale ed etnia, tra i quali anche i poeti
beat Allen Ginsberg e William Burroughs e il commediografo Amiri Baraka che
contribuiscono ad aumentarne la popolarità, oltre i confini del barrio146.
143
“La vera avanguardia della letteratura degli Stati Uniti”, Nicolás Kanellos, “Introduction”,
Biographical Dictionary of Hispanic Literature in the United States: The Literature of Puerto
Ricans, Cuban Americans, and Other Hispanic Writers (New York: Greenwood Press, 1989) xiii.
144
Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti: osservazioni su
‘Family Installments’ di Edward Rivera”. (Letterature d’America: 47-48, 1992), 59.
145
Così come stavano facendo i messico-americani con il termine “chicano”.
146
Ancora oggi il Nuyorican Poets Café, nella sua sede in 3rd Street, sempre nel Lower East Side,
continua ad essere gestito da Miguel Algarín e rappresenta un luogo di culto per la cultura
alternativa di New York.
73
Di fatto, i Nuyoricans si inseriscono nello stesso scenario anticonformista
ed altamente sperimentale creato della Beat Generation, che rendono ancor più
drammatico per la reale condizione di marginalità e disagio da essi stessi
provenivano. La maggior parte di loro ha infatti ha origini proletarie e non può
permettersi una formazione universitaria 147 . Solo per citare due esempi: Pedro
Pietri viene spedito come soldato in Vietnam, esperienza che segnerà tutta la sua
produzione poetica, mentre Miguel Piñero finisce due volte in carcere per rapina e
per furto a mano armata.
La loro poesia è quindi “street-rooted”148 e composta da “liberated urban
base verses”149 che fondono la tradizione orale dei trovatori portoricani150, con le
ritmicità afro-americane, l’hip hop, e lo slang della strada, alternando e
mescolando liberamente l’inglese e lo spagnolo fino a rigenerarli entrambi, come
conferma il poeta Tato Laviera: “I am the grandson of slaves transplanted from
Africa to the Caribbean, a man of the New World come to dominate and revitalize
two Old World tongues”151.
Il multilinguismo delle loro opere riflette un’identità marginale, ibrida e di
frontiera – né portoricana, né statunitense – che non aveva mai avuto un proprio
spazio letterario fino a quel momento. Ecco perché il ruolo dei Nuyoricans è così
cruciale: attraverso una lingua radicata nella realtà vissuta essi fungono da
collante dell’intera comunità etnica di cui riscrivono il passato, proiettandolo nel
147
Mentre Burroughs aveva studiato ad Harvard e Ginsberg e Kerouac alla Columbia University.
“Radicata nella strada”. Miguel Algarín e Miguel Piñero, Nuyorican Poetry: An Anthology of
Puerto Rican Words and Feelings (New York: William Morrow & Co, 1975) 16.
149
“Versi liberati a base urbana”. Pedro Pietri, “Telephone Booth number 654875”, Out of Order /
Fuori Servizio, trad. di Mario Maffi (Cagliari: CUEC, 2001) 234.
150
Poeti di strada che intrattenevano i contadini con canti e poesie, spesso improvvisate.
151
“Sono il nipote di schiavi trapiantati dall’Africa ai Caraibi, un uomo del Nuovo mondo, venuto
a dominare e rivitalizzare due lingue del vecchio mondo”. Citato in Kannellos, xi.
148
74
futuro. In definitiva, essi sono “responsible for inventing the newness. The
newness needs words, words never heard before or used before152”.
Il “nuovo”, evocato da Algarín, richiede un coinvolgimento diretto ed
attivo proprio della comunità. Le loro opere sono infatti concepite per essere
declamate e lette a voce alta, per catturare le emozioni del pubblico e provocare in
loro una reazione, per dar vita ad un’esperienza collettiva e terapeutica, capace di
diffondere consapevolezza etnica e provocare una trasformazione, un senso di
riscatto in chi ascolta. Uno degli esempi più celebri della spiccata dimensione
performativa dei Nuyoricans 153 è Pedro Pietri. Nelle numerose letture ancora
disponibili su YouTube della sua poesia più famosa, “Puerto Rican Obituary”, il
ritmo incalzante ed ipnotico delle parole ricorda da vicino il rap e l’hip-hop: a
dimostrazione di quanto le avanguardie dei Nuyoricans abbiano influenzato non
solo la cultura letteraria ma anche quella musicale e delle arti visive154 fino ai
giorni nostri.
2.2.3 Letteratura cubano-americana: da Martí ai Mambo Kings
L’isola [Cuba] divenne ben presto modello di sincretismo sociale,
paradigma di confluenze europee, americane, africane ed asiatiche in
assetto dinamico, di concezioni ideologiche, politiche e culturali
globali. Aldilà di ogni canone prestabilito, all’isola, dunque,
convergono le contraddizioni, e le analogie, del nord e del sud, dell’est
e dell’ovest del mondo, tra civiltà e barbarie, erudizione e cultura. Una
condizione che ne fa spesso definire l’identità ibrida, instabile, incerta.
O forse, più propriamente, a nostro avviso “americana”.155
152
“Responsabili dell’invenzione del nuovo. Il nuovo ha bisogno di parole, parole mai ascoltate o
usate prima”. Miguel Algarín e Miguel Piñero, Nuyorican Poetry, 9.
153
Non è un caso che la maggior parte dei poeti del gruppo, fossero anche attori (Piñero reciterà
anche in serie televisive di successo come “Miami Vice”) o drammaturghi (ancora oggi Algarín è
promotore del “Nuyorican Theater Festival” e del “Puerto Rican Playwrights’/Actors’ workshop”).
154
Basti pensare ai numerosi murales che ricoprono le strade di “Loisaida”.
155
Daniela M. Ciani Forza, America periferica: Letteratura cubano-americana (Venezia:
Mazzanti, 2003) 30-31.
75
Cuba ha da sempre rappresentato un “singolare paradigma di ‘americanità’
all’interno del macrotesto nord-americano” 156 per la sua posizione strategica di
“chiave dei caraibi” 157 che si infila simbolicamente nel Golfo del Messico,
rappresentando il punto di unione tra Nord e Sud del continente, e tra Vecchio e
Nuovo mondo.
Fin dal 1509, quando – a diciassette anni dal primo sbarco di Cristoforo
Colombo – il conquistador Diego Velázquez de Cuéllar vi ha stabilito una
postazione speciale per il controllo dei traffici caraibici, sull’isola sono iniziati a
confluire migliaia di schiavi africani per sopperire alla carenza di manodopera
locale: gli indios taíno, siboney e guanajatabey, sterminati dalle malattie, dal
lavoro forzato e dai genocidi. Nei secoli, mentre l’isola diviene sempre più
appetibile per la ricchezza delle sue produzioni di zucchero, caffè e tabacco, sono
poi approdati gli inglesi – che nel 1762 hanno occupato La Habana da marzo ad
agosto, all’interno della Guerra dei Setti anni158 – i francesi in fuga da Haiti, i
braccianti emigrati da altre isole dei Caraibi (i contrados), i cinesi e vari emigrati
politici dal Sud America e dall’Europa.
È a partire dal 1898, che il destino dell’isola si intreccia indelebilmente
con quello degli Stati Uniti. Dopo l’intervento di questi ultimi nella Guerra di
indipendenza cubana e la sconfitta della Spagna, l’isola diviene infatti un
protettorato statunitense. Nel 1902 con la nascita della Repubblica Cubana essa
riacquisisce la propria indipendenza formale ma gli Stati Uniti conservano
156
Ibidem, 17.
Si veda la chiave presente nello stemma dell’isola, che chiude simbolicamente l’ingresso al
Golfo dei Caraibi.
158
Che la Spagna combatté su due fronti (contro la Francia e contro l’Inghilterra) dal 1756 al 1763.
157
76
comunque la facoltà di interferire negli affari interni dell’isola 159 , attraverso
ordinamenti specifici come il Platt Amendment (1901)160, o il Treaty of Relations
(1934) 161 . Per tutta la prima metà del Novecento quindi Cuba viene inglobata
nella sfera di influenza statunitense, subendo forti ingerenze sia economiche sia
politiche, come l’alternarsi di regimi spalleggiati dagli Stati Uniti, l’ultimo dei
quali, quello del generale Batista, verrà scalzato dalla rivoluzione di Fidel Castro
del 1959, che spingerà centinaia di migliaia di cubani che ricoprivano posizioni di
rilievo, a cercare rifugio sulle coste della Florida.
L’esodo massiccio che inizia a partire da questo momento, non è che il
culmine di una lunga tradizione di scambi politici, commerciali, economici, e
culturali tra Cuba e gli Stati Uniti che Ciani Forza definisce una “lunga storia
parallela e di reciprocità”162, meno conflittuale rispetto alle relazioni con gli altri
stati del Sud America.
Per la vicinanza, per la posizione strategica e per la ricchezza delle sue
piantagioni Cuba ha sempre rappresentato una potenziale estensione del territorio
statunitense. Dal canto loro, invece, i cubani erano stati a lungo attratti dagli Stati
Uniti, soprattutto a partire dai primi dell’Ottocento, quando i rapporti con la
159
Il Trattato di Parigi aveva posto fine al conflitto Ispano-Americano nel 1898, ma era stato
siglato senza concedere a Cuba il diritto di sedere al tavolo delle trattative. Nell’articolo IV
stabiliva che Cuba poteva mantenere la sua sovranità e indipendenza ma gli Stati Uniti avrebbero
conservato il diritto di intervento su di essa, qualora la pace dell’isola fosse messa a repentaglio.
160
Voluto dal Presidente McKinley per la sua convinzione che i cubani fossero incapaci di
governarsi, l’Emendamento Platt sosteneva il diritto dell’isola ad amministrarsi liberamente,
assegnando però agli Stati Uniti facoltà d’intervento diretto per preservare l’indipendenza di Cuba
qualora fosse minacciata da forze interne o esterne. Gli Stati Uniti si riservavano inoltre il diritto di
installare basi navali da poter gestire autonomamente, come quella di Guantánamo, creata nel 1902,
per poter garantire un controllo continuativo dell’isola. L’emendamento fu abolito nel 1934
durante il breve mandato del presidente cubano Ramón Grau San Martín, che fu preceduto e
seguito da governi dittatoriali e corrotti.
161
Il trattato con cui Cuba veniva fatta rientrare nella “Good Neighbor policy”: la strategia
politico-diplomatica del presidente Franklin Delano Roosevelt nei confronti dei Paesi del Sud
America.
162
Ciani, America Periferica, 17.
77
madre patria spagnola erano diventati sempre più critici per l’inasprirsi delle tasse
e delle misure di controllo esercitate sull’isola. Molti sono i cubani che visitano la
Florida per brevi periodi, per turismo, per studio o per affari e a decine di migliaia,
appartenenti alle più svariate classi sociali, dagli agricoltori agli intellettuali,
decidono proprio a partire dal 1959 di trasferirvisi, in particolare in città come
Tampa e Key West, dove si moltiplicano gli hotel, le bodegas, le panetterie
cubane e le fabbriche di tabacco.
Parallelamente, gli Stati Uniti erano riusciti a penetrare nel tessuto
economico e culturale dell’isola rilevando ingenti piantagioni di zucchero, caffè e
tabacco, ma anche introducendo innovazioni tecnologiche – come la linea
ferroviaria o il telegrafo163 – che avevano aumentato notevolmente la produttività
dell’isola. Insieme alle opere di modernizzazione, essi esportarono anche uno stile
di vita attraente e nuovi ideali di democrazia e libertà che offrono al popolo
cubano, stimoli e spunti di riflessione per definire la propria identità nazionale.
La sua posizione di crocevia dei Caraibi e la relazione complessa che ha
unito a doppio filo Cuba agli Stati Uniti si riflette inevitabilmente nel dibattito
culturale “on and off the island” ed in particolare, nella letteratura cubanoamericana degli ultimi centocinquanta anni. Lo dimostrerebbero intellettuali del
calibro di José Martí che esprime più volte nelle sue opere il timore per “el desdén
del vecino formidabile”164 e per il rischio che Cuba ne potesse essere inghiottita; o
Fernando Ortiz, che introduce il concetto di transculturación come strategia
adottata nei secoli dalle culture subalterne (come quella cubana) per incorporare,
163
Già nel 1830 a Cuba un sistema ferroviario di oltre seicento miglia collegava i maggiori snodi
di produzione dello zucchero. Il telegrafo fu invece introdotto nel 1851 a soli cinque anni dalla sua
invenzione.
164
“Lo sdegno del terribile nemico”. José Martí, “Nuestra América”, 22.
78
trasformare e sovvertire creativamente la cultura che gli viene imposta 165 ; o
ancora José Lezama Lima, che nei suoi scritti dedicati all’identità cubana adotta
un approccio inter-americano e richiama l’attenzione non solo sulle radici
spagnole o sud-americane ma anche su quelle nord-americane ed europee in
generale166.
Infine è emblematica la posizione di Jorge Mañac, che critica l’isola per il
suo cosmopolitismo caotico e dispersivo che l’avrebbe privata di un suo stile
autoctono, rendendola una “patria sin nación” 167 . La sua posizione però è
diametralmente opposta a quella di Gustavo Pérez Firmat, che attribuisce un
risvolto positivo al “mundialismo” cubano, grazia al quale nell’isola si è
sviluppata una spiccata “translation sensibiliy” 168 ovvero la capacità di creare
forme autoctone nuove proprio a partire dalla necessità di distinguersi da un
originale, da un precedente.
Tema fondamentale della letteratura Cubana fuori dall’isola è poi quello
dell’esilio, del destierro, dello sradicamento, condizione che accomuna sia gli
esuli indipendentisti dell’epoca di José Martí, sia i dissidenti che hanno lasciato
l’isola a partire dalla rivoluzione comunista 169 , scegliendo come destinazione
preferenziale proprio gli Stati Uniti.
Di fatto, come conferma il poeta e critico d’arte Ricardo Pau-Llosa, “exile
– indeed displacement – has been a constant in the development of the Cuban
165
Fernando Ortiz, “Del fenómeno social de la ‘transculturación’ y de su importancia en Cuba”,
(Revista bimestre cubana 46, 1940).
166
José Lezama Lima, El reino de la imagen (Caracas, Venezuela: Biblioteca Ayacucho, 1981).
167
José Mañac, Historia y estilo (La Habana: Minerva, 1944) 64.
168
“Sensibilità traduttiva”. Gustavo Pérez Firmat, My Own Private Cuba: Essays on Cuban
Literature and Culture (Boulder: Society of Spanish and Spanish-American Studies, 1999) 11.
169
I flussi migratori sono stati principalmente tre: dal 1959 al 1962 (250.000 cittadini cubani in
disaccordo con i principi della rivoluzione), dal 1965 al 1973 (400.000 persone con il consenso
straordinario di Castro), e nel 1980 in concomitanza con l’episodio del porto di Mariel.
79
imagination for almost two centuries”170 e gli esuli cubani di ogni generazione
hanno convogliato nella propria scrittura il forte vincolo mitico-simbolico171 che
continua ad unirli a Cuba, facendoli sentire parte di una comunità diasporica più
ampia e transnazionale, slegata dalla propria collocazione geografica o dalla
cittadinanza e radicata invece nel comune senso di Cubanía 172 . Con questo
termine Fernando Ortíz designa la consapevolezza di essere cubani e il
desiderio/responsabilità di mantenere vivo il proprio legame con una patria
interiore “que no se puede ni dejar ni perder” e per questo è fortemente sentita, sia
dentro sia fuori dall’isola stessa.
Non è un caso quindi che tra le prime testimonianze scritte della letteratura
cubano americana, ci sia la raccolta di poesie patriottiche El laúd del Desterrado
pubblicata a New York nel 1858 ad opera di poeti esiliati, come José María
Heredia, autore dell’Himno del desterrado (1825), che prova la longevità della
scrittura cubana negli Stati Uniti. Altri esempi significativi sono: il quotidiano El
Habanero, papel político, científico y literario pubblicato a Philadelphia a partire
dal 1824 dal prete-filosofo Félix Varela per esortare all’indipendenza cubana dalla
Spagna; il romanzo abolizionista di Cirilio Villaverde Cecilia Valdés (1882), che
ha avuto un ruolo di rilievo nella storia letteraria nazionale di Cuba ma è stato
pubblicato durante gli anni che l’autore ha trascorso in esilio a New York; ed
infine, il significativo corpus di opere che José Martí, padre fondatore della
170
“L’esilio – anzi lo spostamento – è stata una costante nello sviluppo dell’immaginazione
cubana per quasi due secoli”. Ricardo Pau-Llosa, “Identity and Variations: Cuban Visual Thinking
in Exile since 1959”, Outside Cuba: Contemporary Cuban Visual Artists = Fuera de Cuba:
Artistas Cubanos Contemporaneos, eds. Ileana Fuentes-Pérez et al. (Miami: University of Miami,
1989) 41.
171
In particolare i figli degli esiliati, molti dei quali non hanno mai messo piede sull’isola.
172
Fernando Ortiz, “Los factores humanos de la cubanidad” (Revista Bimestre Cubana 46, 1940).
80
nazione cubana e creatore di forti legami di solidarietà tra i popoli del Sud
America, ha scritto dal 1881 al 1895 durante gli anni del suo esilio a New York.
Proprio nella metropoli nordamericana, Martí può conoscere Walt
Whitman e leggere Leaves of Grass venendone profondamente influenzato, ma
può anche entrare in contatto con altri intellettuali cubani, dominicani e
portoricani con i quali pubblica saggi, storie, poesie ed articoli in numerose riviste
in lingua spagnola come El Mensajero Semanal (1828-1830), El Mercurio de
Nueva York (1828-1833), La Patria (1892-1898), La Voz de la América (18651867) e Las Novedades (1893-1918). In quell’epoca, gli Stati Uniti offrivano ai
pensatori sudamericani nuovi stimoli intellettuali per poter gettare le basi
dell’indipendenza dei propri paesi d’origine e forgiare una nuova identità
nazionale, scaturita dal confronto con i concetti di civiltà, progresso e modernità
colà elaborati.
L’altro grande impulso alla letteratura cubano americana viene dalle
ondate migratorie che, a partire dal 1959, proseguono ininterrotte fino ad oggi173.
A differenze di ciò che avviene nella produzione portoricana, la letteratura degli
esiliati cubani non è ossessionata dal rigetto per la cultura anglo-americana o
dalla necessità di conservare lo spagnolo. Trattandosi di dissidenti politici con un
livello medio-alto di istruzione174, o di persone che cercano di sfuggire al regime
castrista in cerca di migliori condizioni di vita, essi hanno una maggiore
173
Centinaia di migliaia di persone cercano costantemente di raggiungere le coste degli Stati Uniti
con mezzi di fortuna o a bordo di zattere (los balseros). Molti perdono tragicamente la vita proprio
nella striscia di terra di novanta miglia (circa centoquarantacinque kilometri) che separano la
Florida da Cuba.
174
Molti dei quali, soprattutto a seguito della prima ondata migratoria, concepivano la loro
presenza negli Stati Uniti come un soggiorno temporaneo, in attesa della caduta del regime di
Fidel Castro.
81
motivazione e preparazione per superare l’iniziale isolamento linguistico e sociale,
e realizzare le proprie aspirazioni.
La critica Isabel Álvarez Borland 175 suddivide gli scrittori cubani negli
Stati Uniti in due grandi gruppi: una prima generazione di autori che hanno
lasciato l’isola da adulti, dopo avervi studiato o lavorato; e una seconda
generazione cha ha abbandonato Cuba con la propria famiglia in tenera età o è
nata negli Stati Uniti da immigrati della prima generazione. Il primo gruppo scrive
principalmente in spagnolo e nelle proprie opere dà voce al risentimento anticastrista, all’indignazione per le amare conseguenze della rivoluzione ed allo
sradicamento politico e psicologico dovuto alla condizione di “desterrados”. Gli
Stati Uniti per questi autori rappresentano soltanto uno sfondo temporaneo da
contrapporre all’immagine nostalgica ed idealizzata dell’isola. Un esempio di
questa produzione è la cosiddetta “poesía del presidio politico” ad opera di autori
come Angel Cuadra, Heberto Padilla o Armando Valladeres.
Per gli scrittori del secondo gruppo, l’inglese diviene invece la lingua
predominante e la loro scrittura sembra riflettere la ricerca costante di un
equilibrio tra il voler esser cubani (attraverso la Cubanía, intesa come patria
“scelta” ed interiore) ed allo stesso tempo statunitensi. La mediazione tra una
cultura “ricordata” ed una “presente” permette a questi autori di analizzare
introspettivamente la storia di Cuba ma anche di affrontare con humour ed ironia
temi spesso considerati tabù come la critica al modello di vita yankee o allo
sfruttamento dei lavoratori immigrati. Figure chiave di questa generazione sono
Virgil Suárez, Gustavo Pérez Firmat, Celedonio González, Dolores Prida, Roberto
175
Isabel Álvarez Borland, Cuban Literature of Exile: From Person to Persona (Charlottesville:
University of Virginia Press, 1998) 1-13.
82
Fernández, ed Oscar Hijuelos, il primo autore Latino ad aver ricevuto un premio
Pulitzer per la narrativa nel 1990 con il best seller The Mambo Kings Play Songs
of Love.
Sulla scia del successo di Oscar Hijuelos, alla fine degli anni Novanta si è
assistito a un vero e proprio “boom” nella produzione degli autori cubano
americani di seconda generazione, che non mostra segni di declino, come
dimostra l’interesse costante per le loro opere, da parte delle case editrici – sia
specializzate in letteratura ispanica, come Arte Público o Bilingual Press, sia
mainstream come Doubleday, Farrar and Straus, e Knopf, solo per citarne alcune.
L’apice di questa fioritura si è raggiunto tra il 1996 e il 1997, con la pubblicazione
di sei romanzi di successo: Memory Mambo di Achy Obeja, Mango, Bananas and
Coconut di Himilce Novás; The Agüero Sisters di Cristina García, Going Under di
Virgil Suárez e il suo mémoir Spared Angola: Memory from a Cuban American
Childhood; per finire con The Chin Kiss King di Ana Veciana Suárez.
Sempre alla fine degli anni Novanta, tra il 1994 ed il 1996, sono state
inoltre pubblicate cinque significative antologie che hanno dato spazio a ben
settanta autori cubano-americani, consolidando quindi la loro “writing force”
nell’editoria statunitense: Bridges to Cuba (1994) di Behar and León; Cuba la isla
posible (1995) di Ballester, Escalona, e De la Nuez; Puentelibre: más allá de la
isla (1995) di Barquet; Little Havana Blues: A Cuban-American Literature
Anthology (1996) di Suarez and Poey; e A Century of Cuban Writers in Florida
(1996) di Hospital and Cantera. Era dalla pubblicazione nel 1978 di Contra viento
y marea, antologia di racconti ed estratti anonimi ad opera dei figli dell’esilio che
83
non si assisteva uno sforzo così notevole di definizione di un’identità collettiva
cubano-americana in letteratura.
2.3 Dalla scrittura del sé al Multigenerational Novel
My life as a writer, translator, and academic, then, embodies an
ethnoscape that is becoming more common for Latinos in the U.S.:
one that is carried on over vast geographical spaces, multiple
languages, intricate and overlapping histories, and differing ideologies,
religions and cuisines. We are fiercely nationalistic and local, and yet
carry multiple loyalties that are global; in a country obsessed with
racial definition we say, “None of the above” (or “all of the above”).
We are Catholics, santeros, and believers in shamanism in a Protestant
country. Within us coexist pre-Columbian beliefs, biblical
commandments, West African practices of magic, and a collectivist
ethos, tested daily in a market-drenched milieu of individualism, work
at the expense of family, trivialization of sex and violence, and
deification of money. With our rice and beans, we might have a spring
roll, along with mashed potatoes and ham. In a country where the
1960s seems as remote (and misunderstood) as ancient Egypt, we
carry within us the movements of history: its voluntary and
involuntary displacements, migrations, political upheavals, and exiles
(the fallout of loyalties and treasons).176
Le parole di West-Durán sono una testimonianza vivente dell’esperienza
contrappuntistica ed ibrida vissuta dai Latinos negli Stati Uniti, che proprio nella
scrittura, attraverso una costante “dialettica delle differenze”177, sembrano trovare
il terreno ideale per mediare le tensioni culturali, razziali, religiose, storiche e
linguistiche vissute quotidianamente. Rivendicando il diritto di esistere “tra” ed
176
“La mia vita da scrittore, traduttore e studioso, dunque, incarna un etnoflusso che sta
diventando sempre più comune per i Latinos negli Stati Uniti, e si espande attraverso vasti spazio
geografici, molteplici lingue, storie intricate e sovrapposte, e diverse ideologie, religioni e cucine.
Siamo fortemente nazionalisti ed attaccati ad un luogo, eppure abbiamo uno spirito di
appartenenza molteplice e globale; in un Paese ossessionato dalle definizioni razziali diciamo
‘Nessuna di queste’ (o ‘tutte’). Siamo cattolici, santeros, e fedeli dello sciamanesimo in un Paese
protestante. Dentro di noi coesistono culti pre-colombiani, comandamenti biblici, pratiche magiche
dell’Africa occidentale ed un’etica collettivista, messa alla prova quotidianamente da un
individualismo intriso dalle leggi del mercato, dal lavoro che va a discapito della famiglia, dalla
banalizzazione del sesso e della violenza, dalla deificazione del denaro. Con il nostro riso e fagioli,
passiamo mangiare un involtino primavera, insieme ad un purè di patate e prosciutto. In un Paese
in cui gli anni Sessanta sembrano tanto lontani (e fraintesi) come l’antico Egitto, portiamo in noi i
movimenti della storia: i suoi spostamenti, le migrazioni, le agitazioni e gli esili (la ricaduta di
fedeltà e tradimenti)”. West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 35.
177
Ramón Saldívar, Chicano Narrative: The Dialectics of Difference (Madison: University of
Wisconsin Press, 1990).
84
“oltre” i confini dei molteplici orizzonti culturali di riferimento, essi possono
maturare un punto di vista privilegiato, contemporaneamente interno ed esterno
sia alla società anglo-americana, sia a quella messicana, portoricana, cubana o
latino-americana di provenienza.
Come dimostra, pur nella sua esiguità, l’excursus sulle tre letterature
appena prese in esame, la spazio culturale dei Latinos può essere configurato
secondo il modello lotmaniano di semiosfera178, in cui testi, codici e linguaggi si
intrecciano continuamene dando vita ad un cosmo organico ed in perenne
espansione. Ogni nuova opera entra di diritto in questo sistema, crea nuove
tensioni, ne sposta il centro e lo costringe di volta in volta a ridefinire i confini tra
passato e presente, campagna e metropoli, inglese e spagnolo, cristianesimo e culti
afro-caraibici, jazz e salsa, fast food e cucina tradizionale, etc. Eliminare una di
queste componenti significherebbe smettere di essere Latinos anche se ciascun
individuo è libero di oscillare da un lato o dall’altro creando, in particolare nella
pagina scritta, una sintesi continua di elementi contrastanti, uno spazio liminale ed
estremamente fertile, in cui forgiare continuamente una nuova identità. Ecco
perché la definizione che Juan Bruce-Novoa da di Chicanismo, può essere estesa a
tutta la produzione letteraria dei Latinos:
Chicanismo is the product/producer of ongoing synthesis,
continually drawing from what seem to outsiders to be opposing
cultural elements. Therefore, the literature proposes an alternative, an
“inter” space for a new ethnic identity to exist.179
178
Jurij M. Lotman, La semiosfera: L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti. Venezia:
Marsilio, 1985.
179
“Il chicanismo è il prodotto/produttore di una sintesi continua, costantemente generata da
elementi che agli estranei sembrano culturalmente opposti. La letteratura propone dunque
un’alternativa, un ‘inter’ spazio per l’esistenza di una nuova identità etnica”. Juan Bruce-Novoa,
RetroSpace: Collected Essays on Chicano Literature, Theory, and History (Houston: Arte Público
Press, 1990) 31.
85
L’“inter-spazio” costituito dalla Latino Literature nasce quindi all’incrocio
tra Stati Uniti e America Latina: quest’ultima a sua volta frammentata in ventuno
entità nazionali diverse180, ciascuna dotata di un proprio assetto geo-politico, con
origini storiche peculiari ed un ricco e variegato passato culturale.
Poiché nessuna di queste realtà è in sé monolitica e compatta, ogni
tentativo di mediazione messo in atto attraverso un’opera letteraria non può che
produrre un caleidoscopio di stili, generi e lingue altrettanto composito e
polivalente, che amplifica e da forma alla tensione costante tra “nuestra América”
e “América del Norte”181, simbolicamente divise (ed unite) dal Río Grande: una
vena aperta di 1.800 miglia, dal Colorado al Golfo del Messico, che condensa
nelle sue acque la storia travagliata dell’intero continente.
Le guerre di cui è stato teatro ed i molteplici popoli che lo hanno
attraversato, ciascuno con la sua lingua, il suo folklore ed il proprio sistema socioeconomico, si riflettono infatti nei settantotto modi diversi182 con cui il fiume è
stato denominato nei secoli, tanto da conservare ancora oggi due diversi nomi:
Río Bravo del Norte in spagnolo e Río Grande in inglese (o anche “Tortilla
Curtain”183 secondo la definizione sarcastica di Stavans, dal titolo del romanzo
omonimo di Tom Coraghessan Boyle).
180
Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana,
Ecuador, El Salvador, Guatemala, Guyana Francese, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua,
Panamá, Paraguay, Perù, Uruguay, Venezuela, più Porto Rico (stato libero associato degli Stati
Uniti).
181
José Martí, “Nuestra América”, 16.
182
Tooh Baʼáadii, Kótsoi, Río Caudaloso, Río de Buenaventura del Norte, Río de la Concepción,
Río Guadalquivir, Río de las Palmas, Río of May, Tiguex River, solo per citare alcuni esempi. A
nessun altro fiume al mondo sono mai stati attribuiti così tanti nomi.
183
“Tenda tortilla”. Ilan Stavans, “Foreword”, Growing Up Latino: Memoirs and Stories, eds. Ilan
Stavans e Harold Augenbraum (Boston and New York: Mariner Books, 1993) xi.
86
Gli scrittori Latinos sono quindi paragonabili a degli “hybrid vessel[s]”184
che navigano nelle acque turbolente delle due Americhe e, allo stesso tempo,
nell’“oceano delle idee” 185 in cui secondo Salman Rushdie ogni autore è
inevitabilmente immerso, in una fitta rete di influenze (consapevoli o
inconsapevoli che li fa essere tutti parte di un “polisistema”186 globale.
Ecco perché la mia definizione di Latino Multigenerational Novel inizia
riconoscendo il contributo fondamentale di esperienze letterarie diversissime ed
ambivalenti come quella di José Martí, influenzato tanto dall’estetica del
Modernismo sudamericano quando dal verso libero di Walt Whitman; o quella di
César Chávez, che nel difendere i diritti civili dei braccianti chicanos, raccoglie
simultaneamente l’eredità di Martin Luther King e del rivoluzionario messicano
Emiliano Zapata; o quella di Pablo Neruda, che dal Cile prende a cuore la causa
dei messico-americani e dei portoricani, dedicando versi indimenticabili ai martiri
del Moviemento187; o ancora quella di Gabriel García Márquez che con Cien años
de soledad ha composto un’“opera-mondo”188, segnando indelebilmente tutta la
narrativa multi-generazionale successiva.
Trattandosi di un romanzo incentrato sul processo di formazione di un
personaggio o narratore attraverso la scrittura, il Latino Multigenerational Novel
si ricollega inoltre alla tradizione europea del Bildungsroman, genere letterario
184
Ilan Stavans, “Introduction: The Search for Wholeness”, ixv.
Salman Rushdie, Harun e il Mar delle Storie (Milano: Mondadori, 2003) 6.
186
Itamar Even-Zohar, “Polysystem Studies” (Poetics Today 11.1, 1990).
187
Tra gli esempi più noti vi sono l’opera teatrale ispirata al bandito e patriota ottocentesco
messicano Joaquín Murrieta e la poesia “La tierra se llama Juan” dedicata a Juan de la Cruz,
contadino sessantenne ucciso nel 1973 durante una delle manifestazioni dello United Farm
Workers Union. Pablo Neruda, Fulgor y muerte de Joaquín Murieta, bandido chileno injusticiado
en California el 23 de julio de 1853 (Santiago de Chile: Zig-Zag, 1967); Pablo Neruda, “La tierra
se llama Juan”, Canto General (Fundación Pablo Neruda, 2010).
188
Franco Moretti, Opere mondo: Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine
(Torino: Einaudi, 2003).
185
87
che Franco Moretti ha definito “forma simbolica della modernità 189 per la sua
capacità di rappresentare la crisi dei valori che investe l’Europa a partire dal
Settecento, dando voce ai dilemmi che le giovani generazioni – sempre più mobili,
instabili, inquiete e disilluse – si trovano ad affrontare.
A partire da quel momento, insieme ad altri generi narrativi affini, come il
romanzo autobiografico, i mémoirs, i testimonios, le confessioni o i coming-ofage novels, il Bildungsroman ha offerto nei secoli delle soluzioni armoniche al
conflitto tra individualità e socializzazione, ovvero tra l’aspirazione all’autodeterminazione (dettata dalla ricerca di felicità e dall’ideale di costruzione del
proprio destino) e l’integrazione sociale (che richiede l’interiorizzazione delle
contraddizioni e la loro legittimazione simbolica da parte del singolo).
È sulla tradizione del Bildungsroman e sull’idea di crescita personale come
conquista dall’“agio sociale” 190 che si innesta anche la scrittura del sé angloamericana – favorita da un diffuso culto dell’individuo, che crea un ambiente
favorevole per la condivisione pubblica delle vicende private – con capisaldi che
vanno da The Autobiography of Benjamin Franklin (1793), alle opere di
ispirazione autobiografica di Harold Brodkey, come Stories in an Almost
Classical Mode (1988) o The Runaway Soul (1991).
Anche le minoranze etniche si riappropriano di questo genere come
reazione alla propria condizione di invisibilità e subalternità, aggiungendo però ai
tradizionali modelli narrativi di definizione del sé, la dimensione razziale ed i
conflitti interiori derivanti dalla necessità di trovare un equilibrio tra assimilazione
ad una cultura acquisita (o imposta) e conservazione delle proprie radici.
189
190
Franco Moretti, Il romanzo di formazione (Torino: Einaudi, 1999) 5.
Ibidem, 15.
88
Attraverso la scrittura in questo caso, non solo si crea un “third path” 191 tra le due
culture, ma si rende l’esperienza delle minoranze etniche più comprensibile ed
accessibile per il pubblico anglo-americano tanto che, riferendosi in particolare
alla “ethnic autobiography”, Nicolás Kanellos parla di “melting pot genre par
excellence”192.
I primi esempi di scrittura del sé da parte di minoranze etniche193 negli
Stati Uniti risalgono alla pubblicazione di Narrative of the Life of Frederick
Douglass, an American Slave (1845), seguita da Up from Slavery (1901) di
Brooker T. Washington che, grazie anche alle riflessioni di W.E.B. Du Bois in
The Souls of Black Folk gettano le basi per la nascita di un’identità e di una
tradizione letteraria afro-americana.
Se le narrative di auto-definizione dei Black Americans ruotano
principalmente intorno all’esperienza della schiavitù, quelle degli ebrei americani
che emergeranno di lì a poco, si incentrano soprattutto sull’esperienza
dell’emigrazione e sulla dissoluzione dei valori tradizionali importati dall’Europa
dell’Est. Mary Antin con The Promised Land (1912) e Abraham Cahan con The
Rise of David Levinsky (1917) saranno i precursori di un filone di opere narrative
semi-autobiografiche oggi ampliato e reso popolare da autori come Henry Roth,
Saul Bellow, Philip Roth e Cynthia Ozick.
Sul versante degli ispanici, invece, le due opere cardine delle “Latino
coming-of-age stories”, scritte a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono
191
“Terza via”. Harold Haugenbraum e Ilan Stavans, “Introduction: Soldiers of the Culture Wars
growing up latino”, Growing Up Latino: Memoirs and Stories, ed. Ilan Stavans e Harold
Augenbraum (Boston and New York: Mariner Books, 1993) xx.
192
“Il genere del melting pot per eccellenza”. Nicolás Kanellos et al.eds., Herencia: The Anthology
of Hispanic Literature of the United States (Oxford: Oxford University Press, 2002) 11.
193
Definizione con cui, all’interno di questo paragrafo, mi riferirò indistintamente ai
Bildungsroman, ai romanzi autobiografici, ai mémoirs, ai coming-of-age novels e alle opere
narrative concepite come auto-definizione da parte di un personaggio o narratore.
89
Pocho romanzo di José Antonio Villareal (1959) e A Puerto Rican in New York
and Other Sketches (1961), raccolta di saggi e racconti di Jesús Colón. Anche in
questi casi emergono i drammi dell’esperienza migratoria e il senso di
usurpazione, territoriale o psicologico, vissuto dai personaggi e fortemente legato
all’esperienza autobiografica dell’autore. Nella prima opera, il protagonista
messico-americano Richard Rubio esplora i sentimenti contrastanti che lo portano
a rigettare sia la cultura dominante angloamericana, sia l’etica ispanica
tradizionale dei genitori. Nella raccolta di Colón, invece si descrivono le dure
condizioni di vita di un giovane portoricano emigrato a New York, nella prima
metà del Novecento.
Di lì a pochi anni, si assiste ad una vera e propria fioritura – che continua
ininterrotta ancora oggi – di romanzi imperniati sul percorso di crescita di giovani
Latinos. A New York si pubblicano Down These Mean Streets (1967) di Piri
Thomas, El Bronx Remembered (1975) di Nicholasa Mohr e Family Installments
(1982) di Edward Rivera. In California e nel Sud-ovest i primi esempi sono Bless
me Ultima (1972) di Rudolfo Anaya, Barrio Boy (1971) di Hernesto Galarza e
Hunger of Memory (1982) di Richard Rodríguez.
L’urgenza di contrastare l’“invisibilità” rispetto alla cultura dominante che
fa da filo conduttore a queste opere, nel prologo di Down These Means Streets si
traduce nel grido irriverente che il protagonista Piri alza dai tetti di New York:
YEE-AH! Wanna know how many times I’ve stood on a rooftop
and yelled out to anybody:
“Hey, World – here I am. Hallo, World – this is Piri. That’s me.
“I wanna tell ya I’m here, you bunch of mother-jumpers – I’m here,
and I want recognition, whatever that mudder-fuckin’ word means”.194
194
“Yee-ah! Voglio sapere quante volte, in piedi su di un tetto, ho gridato a chiunque: ‘Hey,
Mondo – sono qui. Ciao, Mondo – questo è Piri. Sono io. ‘Voglio dirvi che sono qui, voi ammasso
di maglioni della mamma – Sono qui, e voglio essere riconosciuto, qualsiasi cosa questa fottuta
parola voglia dire’”. Piri Thomas, Down These Mean Streets (New York: Vintage Books, 1997) ix.
90
Sul “vascello” degli autori Latinos, grazie ad una spiccata “Translation
sensibiliy”195, la scrittura del sé nata dai modelli narrativi tipici della tradizione
Europea ed Anglo-americana, viene quindi rielaborata e rinnovata dal di dentro
dagli scrittori Latinos ed utilizzata per esplorare le proprie radici etniche. Viene in
questo modo forgiato un nuovo spazio culturale che, come conferma Rubén
Martínez, “is much more than two. Because wherever I am now, I must be much
more than two. I must be North and South in the North, and in the South”196.
È da questa rigenerazione e trasformazione interna che nasce anche il
romanzo multigenerazionale, attuando quella che Stavans definisce “Silent
revolution” o “Moctezuma’s revenge”197. Il riferimento è alla leggenda popolare
in base alla quale, non potendo sopraffare il nemico angloamericano con la forza o
le armi, l’America Latina ha iniziato a contrastarlo con la creatività. Nel
Multigenerationa Novel infatti, alla dimensione genealogica e generazionale della
scrittura – approfondite nel primo capitolo – si aggiunge infatti la dimensione
etnica, profondamente legata alla complessa storia dei Latinos negli Stati Uniti.
Ognuno di questi aspetti (genealogico, generazionale ed etnico) viene
ampliato ed esplorato nel respiro multigenerazionale e plurisecolare che
caratterizza questo genere, ricreando un’interazione unica tra componenti
diacroniche e sincroniche nel processo di definizione di un’identità, portato avanti
dai personaggi.
195
“Sensibilità traduttiva”. Gustavo Pérez Firmat, My Own Private Cuba, 11.
“E’ molto più di due. Perché, ovunque io mi trovi ora, devo essere molto più di due. Devo
essere Nord e Sud a Nord, e a Sud”. Rubén Martínez, The Other Side: Fault Lines, Guerrilla
Saints, and the True Heart of Rock’n’ Roll (London & New York: Verso, 1992) 5.
197
“Rivoluzione silenziosa”, “La vendetta di Moctezuma”. Ilan Stavans, “Foreword”, Growing Up
Latino, xiii.
196
91
Sarà proprio questa interazione, calata nel contesto socio-culturale più
specifico delle comunità etniche messico-americana, portoricana e cubana, che
verrà presa in esame nei prossimi capitoli, attraverso le tre opere primarie scelte:
A Daughter’s A Daughter (2008) di Nash Candelaria, The Pearl of the Antilles
(2001) di Andrea O’Reilly Herrera e Family Installments: Memories of Growing
Up Hispanic (1983) di Edward Rivera.
92
Parte Seconda
Gli autori e i loro romanzi
93
94
Capitolo 3
Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly Herrera ed
Edward Rivera
3.1 Nash Candelaria: A True Child of New Mexico
Nash Candelaria is one of our most enduring U.S. Hispanic writers.
He is not only personally enduring; his oeuvre is inextricably tied to
the struggle to sustain Hispanic culture in the face of countless
adversities, and both he and his works cross two centuries. Nash
started before the full advent of Chicanismo and Chicano literature,
when he and others, such as Aristeo Brito, Ana Castillo, Rodolfo
“Corky” Gonzales, and Miguel Méndez, had to self-publish for their
work to see daylight. Then his historical novels won major awards and
recognition, and his writing began to appear in what eventually has
become too many anthologies to mention.198
Le parole con cui Gary Francisco Keller 199 apre la sua introduzione a
Second Communion – il mémoir che Candelaria pubblica nel 2010 – racchiudono
due dei tratti distintivi dell’esperienza umana e professionale dell’autore:
198
“Nash Candelaria è uno dei più duraturi scrittori ispanici negli Stati Uniti. Non è soltanto una
persona longeva; la sua opera è indissolubilmente legata alla lotta per sostenere la cultura ispanica
di fronte ad infinite avversità, e sia lui che la sua narrativa attraversano due secoli. Nash ha iniziato
prima del pieno avvento del Chicanismo e della letteratura chicana, quando lui e altri, come
Aristeo Brito, Ana Castillo, Rodolfo ‘Corky’ Gonzales e Miguel Méndez, dovevano pubblicare in
proprio le loro opere, affinché potessero vedere la luce. In seguito i suoi romanzi storici hanno
vinto prestigiosi premi e riconoscimenti ed i suoi scritti sono apparsi in antologie, che alla fine
sono diventate troppo numerose per essere citate. Gary Francisco Keller, “Introduction: Nash
Candelaria in the Round”, Second Communion. Nash Candelaria (Tempe: Bilingual Press/Editorial
Bilingüe, 2010) xiii.
199
Nel 2008, dopo essersi convertito alla religione cattolica, Gary Keller aggiunge al suo nome il
middle name Francisco, in onore a San Francesco di Assisi, per il quale nutre una profonda
devozione. Per rendere omaggio al ruolo che il santo ha svolto e continua a svolgere nella storia
della cristianità e in particolare nelle Americhe, dal 2010 Keller coordina anche il progetto di
ricerca Saint Francis and the Americas/San Francisco y las Américas (SFA) i cui risultati sono
pubblicati nella pagina web: <http://sanfrancisco.asu.edu/index.htm>. Data di accesso 27 gennaio
2013.
95
l’appartenenza alla comunità messico-americana e l’impegno con cui ha cercato di
darne una rappresentazione letteraria quanto più possibile genuina e veritiera,
attraverso la sua narrativa. Alla pubblicazione del suo primo romanzo storico –
Memories of the Alhambra (1977), oggi considerato un caposaldo della letteratura
chicana – seguono infatti le altre saghe familiari che compongono la tetralogia
della famiglia New Mexican dei Los Rafas: Not by the Sword (1982) – con il
quale si aggiudica l’American Book Award nel 1983 – Inheritance of Strangers
(1985) e Leonor Park (1991). Nel frattempo, i suoi racconti vengono pubblicati in
due raccolte: The Day the Cisco Kid Shot John Wayne (1988) e Uncivil Rights and
Other Stories (1998) e, allo stesso tempo, appaino in numerose riviste ed
antologie200.
La sua carriere culmina quindi con le più recenti opere narrative: il
romanzo multigenerazionale A Daughter’s a Daughter (2008) ed il mémoir
Second Communion (2010) grazie al quale nel mese di maggio 2011 riceve due
significativi riconoscimenti: una recensione nel New Mexico Magazine – fondato
a Santa Fé nel 1923 ed oggi considerato la più antica rivista a tiratura nazionale –
e una menzione d’onore in occasione dell’International Latino Book Award, tra le
biografie in lingua inglese.
200
Tra le antologie più significative in cui appaiono le sue opere si vedano: Francisco Jiménez e
Gary D. Keller eds., Hispanics in the United States: An Anthology of Creative Literature
(Ypsilanti, MI: Bilingual Review Press, 1980); Nicolás Kanellos ed. A Decade of Hispanic
literature: An Anniversary Anthology (Houston, TX: Revista Chicano-Riqueña, 1982); Gillan,
Maria M., e Jennifer Gillan eds., Growing up Ethnic in America: Contemporary Fiction about
Learning to Be American (New York: Penguin Books, 1999); Ilan Stavans ed., Wachale!: Poetry
and Prose about Growing Up Latino (Chicago: Cricket Books/Marcato, 2001); Ilan Stavans et al.,
The Norton Anthology of Latino Literature (New York and London: Norton, 2010). I suoi racconti
e saggi sono inoltre apparsi in numerose riviste letterarie come Aztlán: A Journal of Chicano
Studies, Bilingual Review/Revista Bilingüe, De Colores, Hopscotch: A Cultural Review, Puerto del
Sol, Revista Chicano-Riqueña e RiverSedge.
96
Nonostante sia nato a Los Angeles nel 1928 ed abbia trascorso la maggior
parte della sua vita in California, Candelaria si è sempre considerato “by heritage
and sympathy […] a Nuevo Mexicano”
201
per la sua appartenenza ad
un’antichissima famiglia di coloni di Albuquerque e per i continui spostamenti tra
la California e il New Mexico che hanno caratterizzato la sua infanzia. Dovuti sia
al lavoro del padre (impiegato del servizio postale ferroviario – sulla linea che
collegava Los Angeles a El Paso), sia alle frequenti visite estive a nonni e parenti
(“our annual summer […] pilgrimage”202), questi viaggi gli hanno permesso di
cogliere gli aspetti più salienti dell’identità degli ispanici del New Mexico.
Come è emerso dalla meticolosa ricerca genealogica che lo stesso autore
ha condotto negli anni Settanta con l’intento di trasmettere ai figli la propria
genealogia di chicano (“Chicano heritage”203), i primi Candelaria di cui si ha una
testimonianza storica, sono i sopravvissuti alla Rivolta Pueblo del 1680, che
costrinse interi villaggi di coloni e missionari ad abbandonare l’allora provincia
spagnola del Nuovo Messico204.
Grazie ad una menzione nel libro del frate francescano Angélico Chávez,
Candelaria scopre che Ana, vedova di Blas de Candelaria, fa coraggiosamente
ritorno nei territori perduti tra il 1692 e il 1693, in occasione della riconquista,
201
“Per eredità ed affinità […] un Nuevo Mexicano”. Juan Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An
Interview” (De Colores 5.1-2, 1980) 116.
202
“Il nostro annuale pellegrinaggio estivo”. Nash Candelaria, Second Communion (Tempe, AZ:
Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2010) 15.
203
“Eredità chicana”. Candelaria, Second Communion 180. Candelaria dedica ampie pagine del
suo mémoir all’indagine genealogica sui primi antenati di famiglia. La sua fonte principale è stata
l’opera di un frate francescano originario del New Mexico: Fray Angélico Chávez, Origins of New
Mexico Families (Museum of New Mexico, 1992).
204
A seguito dell’insurrezione delle tribù indigene Pueblo, sollevatesi contro l’oppressione dei
conquistatori. Per maggiori approfondimenti storici sulla Rivolta Pueblo, si veda Robert W.
Preucel ed., Archaeologies of the Pueblo Revolt: Identity, Meaning, and Renewal in the Pueblo
World (Albuquerque: University of New Mexico Press, 2002); in particolare il capitolo 1, scritto
dallo stesso Preucel, “Writing the Pueblo Revolt”, 3-32.
97
insieme ai figli Feliciano e Francisco, che saranno tra i fondatori dell’allora Villa
de Albuquerque, nel 1706. Da quel momento, la sua famiglia si stabilizza nella
piccola comunità agricola dei Los Candelarias, a Nord di Albuquerque, dove
avranno i natali la maggior parte dei suoi antenati, fino al padre José Ignacio (nel
1905). Tra questi spicca un avo con il quale Candelaria sembra identificarsi più di
ogni altro: Juan Antonio, che intorno al 1776, superati gli ottanta anni, pubblica
un manuale di storia del New Mexico. Il suo racconto però non sempre è
attendibile e rigoroso, tanto da far scrivere al suo discendente che “Juan Antonio
might have been described as a fiction writer than a historian, and perhaps it was
from him that I inherited my inclinations”205.
La fervida immaginazione genealogica di Nash Candelaria, avvalorata
dalle ricerche condotte dallo stesso autore sarà determinante per la formazione
della sua identità di “American of New Mexican Ancestry”206, oltre che per la sua
sensibilità di scrittore. Da un lato, questa rafforza infatti la sua profonda passione
per la storia e lo rende consapevole dell’influsso che essa proietta sulla realtà
presente; dall’altro, accresce la sua identificazione con il passato della propria
famiglia e con le vicende del Sud-ovest degli Stati Uniti, di cui l’autore si
riappropria attraverso una spiccata “Genealogical experience of history”207, che
permea tutta la sua opera letteraria:
205
“Juan Antonio potrebbe essere definito un romanziere, più che uno storico, e forse è da lui che
ho ereditato le mie inclinazioni”. Candelaria, Second Communion, 26.
206
“Americano con origini New Mexican”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 121.
207
“Esperienza genealogica della storia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 21. La profonda
consapevolezza storica di Candelaria è alimentata da quello che Raymond Smitt definisce uno
stato di “Immortalità simbolica”, ovvero l’insieme di musei, banconote, monumenti, nomi di
strade, tradizioni o cimeli di famiglia che rafforzano l’influsso del passato sul nostro presente.
Questa condizione è particolarmente rilevante per Candelaria, basti pensare che, ancora oggi,
Candelaria Road è una delle arterie principali di Albuquerque. Lo stesso autore lo ribadisce con
orgoglio nel suo mémoir quando afferma: “Candelaria Road, named after my family. […] [E]nded
98
There is something in our genes that is an emanation of our history.
For I swear that a thin umbilical connects me back through the
generations to those pioneer settlers whose inscription on Morro Rock
simply reads ‘pasó por aquí’. It connects me with pride in their
courage and faith, in their toughness and tolerance, in spite of
whatever cruelty and ignorance existed at the time. It connects me to
what brought these strangers to this alien country long ago to help
create this land of many cultures.208
Candelaria riesce quindi a ritrarre, come nessun altro aveva fatto prima,
l’esperienza peculiare e minoritaria dei New Mexican Chicanos il cui passato –
più che quello di altre minoranze ispaniche – è indelebilmente segnato da ripetute
sconfitte ed espropriazioni. Come indios sono stata infatti vittime degli spagnoli
nel XVI secolo, successivamente come mestizos sono stati invece vittime degli
anglo-americani, nel XIX secolo.
La colonizzazione dei conquistadores – a discapito degli indiani Pueblos
che si erano insediati nelle alte valli del Río Grande ed in varie altre zone del New
Mexico fin dall’Undicesimo e Dodicesimo secolo – inizia nel 1598 quando Juan
de Oñate, su ordine di Filippo II di Spagna, avvia la spedizione che lo porterà a
creare la provincia di Santa Fé de Nuevo México, di cui sarà il primo governatore.
Dopo duecentoventitre anni di appartenenza al vicereame della Nuova Spagna, nel
1821, a seguito della Guerra di indipendenza messicana, il New Mexico si
emancipa dalla madre patria divenendo parte del primo Impero Messicano di
Agustín de Iturbide, trasformato – di lì a pochissimi anni – nella prima Repubblica
Federale Messicana. L’annessione al Messico sarà però una parentesi breve, che si
at the Río Grande / Candelaria Road, che prende il nome dalla mia famiglia. […] [T]erminava nel
Río Grande”. Candelaria, Second Communion, 17.
208
“C’è qualcosa nei nostri geni che è un’emanazione delle nostra storia. Perché credo
fermamente che un sottile nodo ombelicale mi ricollega alle generazioni passate, fino a quei coloni
pionieri che scrissero nella Morro Rock ‘pasó por aquí’. Mi ricollega con orgoglio al loro coraggio
e alla loro fede, alla loro forza e tolleranza, nonostante la crudeltà e l’ignoranza che potevano
esistere al tempo. Mi ricollega a ciò che ha portato questi forestieri in questo paese sconosciuto
tempo fa, per contribuire a creare questa terra di molte culture”. Candelaria, Second Communion,
11.
99
chiude nel l846 con lo scoppio della Guerra messico-americana e la successiva
incorporazione ai territori degli Stati Uniti, sancita dal trattato di Guadalupe
Hidalgo209.
L’esser sopravvissuti a secoli di avversità e scorrerie, conservando con
fermezza le proprie radici spagnole in una terra ostile, teatro di scontri con i nativi
d’America ma anche di invasioni militari e “culturali” da parte degli
angloamericani, conferiscono ai cosiddetti “old-time New Mexicans”210 – un forte
orgoglio ed uno spiccato senso di identificazione con i propri antenati iberici. La
loro fierezza li porta a prediligere la discendenza dai Conquistadores bianchi
spagnoli, rinnegando ogni “disonorevole” forma di meticciato con i nativi
d’America o con la popolazione messicana. Come conferma Juan Bruce-Novoa:
“La historia justifica esta actitud: Nuevo México estuvo incorporado a México
sólo durante unos veintisiete años y no participó en los proyectos y luchas
nacionales que han llegado a forjar el México moderno”.211
Oltre al peso della storia, vanno considerati i pregiudizi razziali
angloamericani, che condizionano tanti membri di minoranze etniche durante tutto
il Novecento, come conferma anche l’esperienza del padre di Nash Candelaria.
Ignacio prova infatti a farsi strada nella cultura dominante bianca del Sud-Ovest,
209
Per approfondimenti sui primi insediamenti indiani nel Sud-Ovest si vedano: il volume 1 di
Bruce E. Johansen e Barry Pritzker eds., Encyclopedia of American Indian History (Santa Barbara,
CA: ABC-CLIO, 2008), in particolare i “Chronological Essays”, 2-39; e Marc Simmons, New
Mexico: An Interpretive History (Albuquerque: University of New Mexico Press, 1977), in
particolare il capitolo 2 “The Pueblos” 45-77. Sulla storia del New Mexico tra Diciannovesimo e
Ventesimo secolo e sulla formazione dell’identità “novomexicana”, oltre al volume di Simmons
appena citato, si veda: John M. Nieto-Phillips, The Language of Blood: The Making of SpanishAmerican Identity in New Mexico, 1880s-1930s (Albuquerque: University of New Mexico Press,
2004).
210
“New Mexican di altri tempi”. Candelaria, Second Communion, 23.
211
“La storia giustifica questo atteggiamento: il New Mexico è stato incorporato al Messico solo
per ventisette anni e non ha partecipato ai progetti e alle lotte nazionali che hanno permesso di
forgiare il Messico moderno”. Juan Bruce-Novoa, “Candelaria, novelista” (Plural 16. 191, 1987),
41.
100
in un’epoca di forti discriminazioni, in cui erano ancora frequenti cartelli come
“No Mexicans or dogs allowed”212. Nonostante le origini meticcie, evidenti anche
dal suo aspetto (“His dark face with a hint at the Pueblo”213) – Ignacio ha sempre
rivendicato con orgoglio le proprie radici spagnole, arrivando a modificare la voce
riguardante la razza sul certificato di nascita del figlio: “Color or race of father
and mother were changed from Mexican to white Spanish American for father and
white Spanish-Anglo American for mother”214.
Grazie anche a questo “Game of self-identification as Spanish”215 – che
Candelaria riconduce ad una strategia di sopravvivenza del padre – l’autore
prende parte simultaneamente a due mondi: il meanstream angloamericano e la
cultura tradizionale ispanica. Cresce infatti in un quartiere bianco e benestante di
Los Angeles, appositamente scelto da Ignacio per garantire ai figli un’istruzione
di qualità, in un ambiente adeguato 216 . Negli studi raggiunge sempre ottimi
risultati, spinto anche da un certo “drive to excel” 217 che, a posteriori, Candelaria
rileggerà come una reazione inconsapevole ai pregiudizi contro gli ispanici.
L’inglese è fin da subito la sua lingua madre sia a scuola, sia in famiglia, poiché i
genitori evitano volutamente di utilizzare lo spagnolo, per una più facile
integrazione nella cultura dominante.
212
“Messicani e cani non possono entrare”. Candelaria, Second Communion, 30.
“Il suo viso scuro con un accenno di Pueblo”. Ibidem, 28. Le origini meticcie di Ignacio sono
evidenti anche dalle foto che arricchiscono il mémoir di Candelaria.
214
“Il colore o la razza di padre e madre furono cambiati da Messicano a Ispano-americano bianco
per il padre e Ispano-angloamericana bianca per la madre”. Ibidem, 30.
215
“Gioco di auto-identificazione come spagnolo”. Ibidem.
216
Di fatto, la loro fu la prima famiglia ispanica a comprare una casa a 1247 West 59th Street, in
un’epoca in cui “Los Angeles […] was a ghettoized city – as it probably still is. Housing may not
have been overtly segregated by law, but in essence that’s the way things worked out / Los Angeles
[…] era una città ghettizzata – come forse è ancora. Le abitazioni non erano segregate per legge,
ma in sostanza le cose funzionavano così ”. Ibidem, 62.
217
“Impulso ad eccellere”. Ibidem.
213
101
Contemporaneamente Nash può conoscere anche la realtà, rurale e
periferica del New Mexico, grazie alle ripetute visite ai nonni ed ai numerosi
parenti, che accolgono la sua famiglia con grande calore ed affetto. Ad
Albuquerque Candelaria può immergersi nella cultura New Mexican: entra in
contatto con la storia della propria famiglia e con le tradizioni cattoliche, gioca
con i cugini (“who were tolerant of their city cousins’ inability to speak much
Spanish”218) e interagisce con la nonna Eutemia, che gli fa provare un forte senso
di inadeguatezza per l’incapacità di parlare spagnolo: “I often wondered what
stories she would have told if I had seen her more often and could have
understood Spanish better. She never learned English even though she was born in
U.S. territory”219.
Questa continua frizione tra universi culturali “Anglo” e New Mexican,
sarà fondamentale per la definizione di una propria identità personale:
There was Los Angeles and mainstream middle America where we
were different and in the minority, making our way in the Anglo
world. And there was New Mexico where family and friends were
warm, receptive, and definitely like us. We faced difficult questions:
Could we belong to both worlds, or must we, like others we knew,
belong to only one? If so, which one? Or would we be like those rare
tortured and alienated souls who belong to neither?220
Durante la sua infanzia Candelaria non è consapevole dello “schism”
esistente tra questi due mondi e si muove “like a fish unconscious of the water in
218
“Che tolleravano l’incapacità di parlare spagnolo dei loro cugini dalla città”. Candelaria,
Second Communion, 18.
219
“Mi chiedevo sovente quali storie avrebbe raccontato se l’avessi vista più spesso e se avessi
potuto capire meglio lo spagnolo. Lei non imparò mai l’inglese, sebbene fosse nata in territorio
statunitense”. Ibidem, 174.
220
“C’era Los Angeles e la cultura dominante in cui eravamo diversi e in minoranza, cercando di
farci strada nel mondo ‘Anglo’. E c’era il New Mexico in cui la famiglia e gli amici erano calorosi,
aperti e decisamente come noi. Affrontavamo quesiti difficili: potevamo appartenere ad entrambi i
mondi o, come altri che conoscevamo, dovevamo appartenere solo ad uno? Se così fosse, a quale?
O saremmo stati come quelle anime rare, torturate ed alienate che non appartengono a nessuno dei
due?”. Ibidem, 22.
102
which it swam”221. Crescendo inizia però a prenderne gradualmente coscienza,
soprattutto per i numerosi “ethnic incidents” che gli fanno percepire la sua
diversità, da entrambe le parti. Durante il suo primo giorno di scuola elementare
ad Albuquerque, ad esempio, alcuni compagni meticci come lui lo cacciano dalla
classe chiamandolo “traitor” perché incapace di parlare spagnolo: Candelaria
ricorda l’episodio come una delle sue “early lessons in intolerance”222. Più tardi,
in una scuola di Los Angeles, si sentirà fortemente in imbarazzo durante una
lezione di educazione artistica in cui gli viene richiesto di indossare un costume
da Charro e di posare come modello mentre il resto della classe avrebbe fatto il
suo ritratto: “I hated it! What did this Mexican cowboy suit have to do with me?
My heritage was New Mexican. We were poor farmers who never wore charro
suits. We had been American for a hundred years”223.
Durante la nostra intervista invece, Candelaria ha ricordato il giorno in cui
suo padre lo ha presentato agli amici come il figlio “americanizzato”, in un misto
di imbarazzo ed orgoglio: “my father once took me when he visited friends – I
was ten or eleven years old – and described me as ‘muy agringado’, very
gringoized, with a mixture of apology and pride”224.
Eppure, al contrario di suo padre Ignacio o di José – il protagonista del
suo primo romanzo storico Memories of the Alahambra, che muore senza essersi
mai riconciliato con le proprie origini meticcie – Candelaria accetterà fino in
221
“Scisma”; “Come un pesce inconsapevole delle acque in cui nuotava”. Ibidem, 63.
“Traditore”, “Lezioni precoci di intolleranza”. Ibidem, 12.
223
“L’ho odiato! Che cosa c’entravo io con quest’abito da cowboy messicano? Le mie origini
erano New Mexican. Eravamo contadini poveri che non hanno mai indossato un abito da charro.
Eravamo americani da cent’anni”. Ibidem, 64.
224
“Mio padre una volta mi ha portato con lui durante una visita a degli amici – avevo dieci o
undici anni – e mi ha descritto come ‘muy agringado’, molto aggringato in un misto di scuse e
orgoglio”. Nash Candelaria e Mara Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”. Il romanzo
multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara
Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. 2013. Capitolo 5.
222
103
fondo le molteplici e contrastanti componenti culturali che forgiano la sua
esistenza, trovando, in particolare nella scrittura, le risposte ai difficili quesiti che
ogni ethnic American si trova a dover rispondere:
I am a true child of New Mexico’s culture: the Spanish whose
surname I bear, the Native American whom many in the family will
not admit to and whose looks and complexion I share, and a dollop of
Anglo, like a latter-day grace note, to remind me that I am part of the
mainstream, no matter what anyone else may surmise from my
physical appearance.225
Ecco perché la definizione di chicano con cui Candelaria si identifica
maggiormente è quella fornita da José Antonio Burciaga in Drink Cultura:
Chicanismo, che include tutti coloro che risiedono negli Stati Uniti ed hanno
origini messicane (discendenti dagli indios del Sud-est, dal Messico stesso o da
altri Paesi del Sud America), sottolineando in particolare che “[a] Chicano is both
Hispanic and Indian. […] Our ancestors are not only the conquistadores, but the
conquered. It is our vanquished heritage that has haunted us and been ignored”226.
Ed ecco perché nel descrivere il matrimonio con la moglie Doranne
Godwin, discendente dai primi immigrati inglesi e irlandesi che colonizzarono il
Sud degli Stati Uniti, Candelaria ricorre ad un’efficace metafora fluviale, che
rievoca la secolare fusione di razze al cuore della storia di tutto il Nord America:
The daughter of the American Revolution meets one of Oñate’s
orphans, while lurking dimly in both backgrounds are the first
Americans who greeted both English and Spanish when they came
ashore without visas or green cards. In another sense it was like the
Mississippi River and the Río Grande joining to form the Great
American Mainstream.227
225
“Sono un vero figlio della cultura del Nuovo Messico: lo spagnolo del mio cognome, l’indiano
d’America che molti nella famiglia non riconoscono e di cui porto lo sguardo e la carnagione, e un
pizzico di anglo, come un abbellimento dell’ultima ora, per ricordarmi che sono parte della cultura
dominante, a prescindere da ciò che gli altri possano supporre dal mio aspetto fisico”. Candelaria,
Second Communion, 11.
226
“Un chicano è sia ispanico sia indiano. […] I nostri antenati non sono solo i conquistadores, ma
i conquistati. Sono le nostre origini da sconfitti che ci hanno perseguitato e sono state ignorate”.
José Antonio Burciaga, Drink Cultura: Chicanismo (VNR AG, 1993) 49.
227
“La figlia della Rivoluzione Americana incontra l’orfano di Oñate, mentre celati oscuramente
in entrambi gli ambienti vi sono i primi americani che accolsero sia l’inglese che lo spagnolo
104
Di fatto, Candelaria è totalmente immerso nel “Great American
Mainstream” e quando Tom Clagett, nell’intervista per il New Mexico Magazine,
gli chiede come si possano conciliare l’impegno nel descrivere le difficoltà di chi
cresce messicano in California con l’importanza della competitività americana,
Candelaria risponde: I’m American first and, culturally, New Mexican Spanish
second. I can be called Hispanic, Latino, or Chicano, but I have to emphasize I’m
American. […] I see myself as an American writer.228
Di fatto, fin dagli anni della scuola, la sua formazione è tipicamente
angloamericana, come è evidente dalle sue prime letture che, oltre ai classici del
teatro – i greci, Henrik Ibsen ed Eugene O’Neill – includono James Joyce, Ernest
Hemingway, Scott Fitzgerald e William Faulkner. Il suo contatto con la letteratura
ispanica avverrà invece molto più tardi, e sempre attraverso traduzioni in inglese
delle opere originali, come conferma lo stesso autore: “My early reading did not
include Spanish literature other than Don Quixote, nor material in Spanish. I was,
for better or worse, an Anglicized Chicano”229. Sarà sempre attraverso le versioni
tradotte che potrà leggere ed apprezzare sia le poesie azteche anonime dedicate
alla Conquista, sia le opere di Octavio Paz o Carlos Fuentes, quest’ultimo definito
“a marvelous writer of world class”230.
quando sbarcarono senza visto, né carte verdi. In altre parole, era come se il fiume Mississippi ed
il Río Grande si unissero per formare la Grande cultura americana”. Candelaria, Second
Communion, 164.
228
“Sono in primo luogo americano e – in secondo luogo, culturalmente – uno spagnolo del New
Mexico. Posso esser chiamato ispanico, latino o chicano, ma devo sottolineare che sono americano.
[…] Mi vedo come uno scrittore americano. Tom Clagett, “Bringing It Home. Featured Author:
Nash Candelaria” (New Mexico Magazine 89.5, 2011) 67.
229
Le mie prime letture non includevano letteratura spagnola eccetto il Don Chisciotte, né
materiale in spagnolo. Nel bene e nel male, ero un chicano anglicizzato”. Bruce-Novoa, “Nash
Candelaria: An Interview”, 119.
230
“Uno scrittore straordinario di classe mondiale”. Ibidem, 121.
105
I suoi autori chicani di riferimento sono invece Raymond Barrio e Rudolfo
Anaya. Il primo in particolare – autore di The Plum Plum Pickers (1969),
romanzo che denuncia lo sfruttamento dei contadini messico-americani in
California – sarà fondamentale per la sua carriera di scrittore. A metà degli anni
Settanta, dopo aver cercato invano una casa editrice per Memories of the
Alhambra, Candelaria decide di frequentare il corso universitario tenuto proprio
da Raymond Barrio sulla pubblicazione in proprio di un’opera letteraria. Durante
le lezioni, Barrio coglie le grandi potenzialità del manoscritto di Candelaria e lo
sprona a fondare la Cíbola Press, attraverso la quale potrà stampare e distribuire il
suo primo romanzo.
La sua ammirazione per Rudolfo Anaya – autore di Bless Me Ultima, oggi
considerato un classico del canone narrativo chicano – è invece rafforzata dal
sostrato culturale comune dei due autori. Entrambi provengono infatti dal New
Mexico e sono guidati da un comune desiderio di descrivere genuinamente le
tradizioni rurali della propria terra, includendo figure leggendarie e mitologiche
come la curandera o la llorona. Nonostante le affinità, le opere dei due autori si
contraddistinguono però per una differenza cruciale: il punto di vista interno (per
l’uno) ed esterno (per l’altro) sulla propria terra d’origine, come lo stesso
Candelaria spiega:
I read more of the work of another New Mexico Latino writer,
Rudolfo Anaya, than of other Latinos. He grew up in a small town in
New Mexico, didn’t speak English until he attended school (6 years
old?), worked professionally as a public school and university teacher,
and knows the culture from the inside. I know the culture from the
outside growing up in urban California, had parents who did not speak
Spanish to me and my sister, wanted us to be mainstream Americans,
and I worked in advertising mostly for companies in Silicon Valley. I
observed the New Mexico Latino Culture on summer vacations to
Albuquerque visiting relatives who mostly lived on small farms. Rudy
writes about the culture. I write as an ouside observer dealing more
106
with the history of Latinos in New Mexico and with making their way
in an Anglo world.231
Candelaria mantiene questa posizione di “osservatore esterno” (ed interno
allo stesso tempo) non solo relativamente alla cultura New Mexican, ma anche
rispetto al mondo letterario in generale. Il suo approccio anti-accademico emerge
in particolare dalla sua risposta alla domanda di Bruce-Novoa sull’utilità o meno
dell’istruzione formale nell’attività di uno scrittore creativo:
“My own bias is that too much formal education can hurt a
creative writer. Some of the American writers I admire the most
(Hemingway, Faulkner, O’Neill) are not college-trained people. But,
if you go to college to study something other than writing in order to
make a living – that’s fine”232.
Questo
atteggiamento
deriva,
in
primis,
dalla
formazione
non
tradizionalmente umanistica dell’autore che, nel 1948, è stato tra i primi studenti
di origini ispaniche a conseguire un titolo universitario, laureandosi in chimica
231
“Rispetto al resto degli autori Latinos, leggo maggiormente le opere di un altro scrittore
ispanico del New Mexico, Rudolfo Anaya. Cresciuto in un piccolo paese del New Mexico, ha
iniziato a parlare inglese a scuola (a circa 6 anni), ha lavorato da professionista come docente sia
nella scuola pubblica sia all’università e conosce la cultura dal di dentro. Io conosco la cultura dal
di fuori, essendo cresciuto in una California urbana, con genitori che non parlavano spagnolo né a
me né a mia sorella e volevano che diventassimo Americani mainstream. Ho lavorato
prevalentemente in ambito pubblicitario per aziende della Silicon Valley. Osservavo la cultura
ispanica del New Mexico durante le vacanze estive ad Albuquerque, quando andavamo a trovare i
parenti che vivevano principalmente in piccole fattorie. Rudy descrive la cultura. Io scrivo da
osservatore esterno e mi occupo di più della storia dei Latinos del New Mexico e del loro farsi
strada nel mondo Anglo”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5.
232
“La mia convinzione è che troppa istruzione formale possa danneggiare uno scrittore creativo.
Alcuni degli scrittori americani che ammiro di più (Hemingway, Faulkner, O’Neill) non hanno
avuto una formazione universitaria. Ma se vai all’università per studiare qualcosa di diverso dalla
scrittura, per sopravvivere – allora va bene”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 119.
Sempre nell’intervista condotta da Bruce-Novoa, Candelaria ribadisce ripetutamente il suo
approccio anti-accademico alla scrittura e il suo essere esterno al mondo della critica letteraria, con
espressioni come: “Not being very knowledgeable about Chicano literature, I find it hard to answer
this question / Non essendo molto esperto di letteratura chicana, è difficile per me rispondere a
questa domanda” (120); “I’m not familiar enough with Puerto Rican literature to comment on it
other than briefly / Non conosco sufficientemente la letteratura portoricana, posso fare solo brevi
considerazioni” (124); “I’m not well enough versed in Chicano literature / Non sono
sufficientemente esperto di letteratura chicana” (125); “The outstanding qualities of the little
Chicano literature I’ve read is its passion / Il pregio lampante della poca letteratura chicana che
ho letto è la passione” (127); “I am not knowledgeable enough about Chicano literature to know
the important milestones. I’ll live that to the professors. I’m only a writer / Non sono
sufficientemente competente di letteratura chicana per conoscerne le pietre miliari. Lascerò
questa [risposta] ai professori. Io sono soltanto uno scrittore (128)”.
107
presso la University of California di Los Angeles e iniziando a lavorare subito
dopo per un’azienda farmaceutica californiana233.
Durante l’attività da tecnico di laboratorio Candelaria porta avanti la
carriera militare, arruolandosi nello U.S. Naval Reserve nel 1948 e prestando
servizio attivo per l’aeronautica militare dal 1952 al 1953, anno in cui viene
congedato, successivamente alla firma dell’armistizio che pone fine alla guerra in
Corea. Dopo aver lavorato come redattore per le pubblicazioni scientifiche della
North American Aviation, Candelaria viene assunto da un’agenzia pubblicitaria di
Los Angeles, e continuerà ad occuparsi di questo settore, fino alla decisione di
dedicarsi appieno alla scrittura, a partire dagli anni ottanta.
Parallelamente ai suoi impegni lavorativi e familiari (sarà padre di due
figli, David e Alex), Candelaria ha sempre nutrito una profonda passione per la
scrittura che ha coltivato attraverso corsi serali di psicologia, filosofia,
antropologia e scrittura creativa: “the desire to write was like a candle flickering
in the dim recesses of my mind […] ready to become a bonfire at the proper
time” 234 . Ma è durante il servizio prestato per l’aeronautica militare nel
Mississippi che Candelaria inizia a dedicarsi in modo continuativo ai suoi
esperimenti narrativi, scrivendo nei momenti liberi e leggendo in particolare
Faulkner, al quale si appassiona profondamente, per lo stile asciutto ed oggettivo
con cui descrive le popolazioni del Sud degli Stati Uniti.
All’età di quarantanove anni, dopo sette tentati romanzi ed innumerevoli
sforzi per trovare case editrici o riviste disposte a dare visibilità alle sue opere,
233
Candelaria testimonia la bassissima percentuale di studenti Latinos nel campus universitario
dell’UCLA sia nell’articolo “Education in Gringoland: UCLA 1944-1948” (Aztlán: A Journal of
Chicano Studies 30.1, 2005), 149-152; sia nel capitolo 28 di Second Communion, 110-113.
234
“Il desiderio di scrivere era come una candela tremolante nei recessi oscuri della mia mente […]
pronta a diventare un falò al momento opportuno”. Candelaria, Second Communion, 178.
108
Candelaria pubblica Memories attraverso la Cíbola Press, che gestisce con l’aiuto
della moglie Doranne. In questo modo riesce a superare sia le difficoltà derivanti
dalla sua estraneità al mondo accademico e dell’editoria, sia i pregiudizi per la
provenienza da una minoranza etnica, all’epoca ancora poco conosciuta. Come lo
stesso autore osserva, in quegli anni: “publishers did not understand Chicano
books because they didn’t know about the culture. This no doubt created a barrier
to seeing any quality or sales potential in Chicano writing”235.
Memories è la prima opera che Candelaria dedica all’identità di New
Mexican, spinto dal desiderio di trasmettere ai figli la propria eredità culturale
chicana, ma anche per l’ispirazione improvvisa che gli arriva ascoltando il brano
“Recuerdos de la Alhambra”, interpretato dal chitarrista Andrés Segovia. Dopo
aver condotto per anni una scrupolosa ricerca genealogica sulla propria famiglia
(che si vede costretto ad interrompere per una lacuna nelle fonti), Candelaria
capisce che è arrivato il momento di ricucire insieme la storia ufficiale del New
Mexico e le vicende dei propri antenati, facendo emergere il nodo più
problematico della loro identità: la cosiddetta “Mexicanness and the acceptance of
it”236.
Nasce in questo modo il suo progetto di scrivere una tetralogia di romanzi
storici – Memories of the Alhambra (1977), Not by the Sword (1982), Inheritance
of Strangers (1985) e Leonor Park (1991) – che potessero rendere omaggio
all’esperienza minoritaria, e fino a quel momento inascoltata, delle popolazioni
rurali del New Mexico, attraverso le avventure dei Los Rafas. Utilizzando una
235
“Le case editrici non apprezzavano i libri chicani perché non ne conoscevano la cultura.
Indubbiamente questo ha impedito di vedere la qualità e le potenzialità di vendita della scrittura
chicana”. Ibidem, 189.
236
“La messicanità e la sua accettazione”. Ibidem, 185.
109
narrativa quanto più possibile oggettiva e fedele ai fatti, Candelaria cerca dunque
di calarsi nei panni dei propri avi, dando voce ai cosiddetti “losers”237: gli umili,
gli analfabeti, i reietti, che erano stati esclusi sia dalla narrativa del mainstream,
sia
dalla
storiografia
ufficiale,
entrambe
appannaggio
dei
“vincitori”
angloamericani:
Memories è ambientato nel Ventesimo secolo e ruota intorno al viaggio
intrapreso da José Rafa per ricostruire le proprie origini, spinto dall’illusoria
convinzione di discendere dagli hidalgos: i conquistadores “bianchi” spagnoli.
José cerca di dare un senso alla propria esistenza e soprattutto alle numerose
discriminazioni razziali subite, rinnegando le proprie origini spurie indiane a
favore di quelle spagnole. Decide quindi di abbandonare la famiglia senza alcun
preavviso per condurre le proprie ricerche prima in Messico e poi in Spagna, dove
si rivolge a un esperto genealogista, sempre continuando ad appigliarsi alla
purezza delle proprie origini.
Il suo viaggio termina però tragicamente quando – di fronte ad una statua
di Hernán Cortés, conquistatore del Messico – José deve ammettere le proprie
origini meticce e riconoscere la Malinche come madre simbolica di tutti i chicanos:
“If Cortés was your father, José thought, then your mother was –
He did not want to think the next words. They popped out anyway.
Malinche. Never mind that the Spaniards called her Doña Marina. It
was Malinche. An Indian. And you, child of the Old World and the
New, are Mexican”.238
Dopo questa funesta presa di coscienza, José muore di infarto, lasciando al
figlio Joe, protagonista della seconda parte dell’opera, l’arduo compito di
237
“Perdenti”. Nash Candelaria, Memories of the Alhambra (Palo Alto, CA: Cíbola Press, 1977),
181.
238
“Se Cortés fu tuo padre, José pensò, allora tua madre fu – non voleva pensare alle parole che
seguivano. Spuntarono fuori comunque. Malinche. Non importa se gli spagnoli la chiamavano
Doña Marina. Era la Malinche. Un’indiana. E tu, figlio del vecchio mondo e del nuovo, sei
messicano”. Candelaria, Memories, 173.
110
risolvere il dilemma identitario che attanaglia i New Mexican Hispanics. Grazie ad
un complesso percorso di assimilazione culturale, Joe può accedere all’università
e sposare un’angloamericana, arrivando non solo ad accettare le origini messicane
della propria famiglia, ma anche a riconoscere l’assimilazione al gruppo
dominante ed il mestizaje come veicolo di rinnovamento culturale e di evoluzione
storica.
Not by the Sword è invece ambientato negli anni della guerra messicoamericana (1846-1848) e approfondisce le vicende storiche già evocate in
Memories. Le parole iniziali con cui il protagonista José Antonio Rafa III
annuncia l’arrivo dei nemici, “Well, Grandfather. They say that we are to become
Yankees now”239, ci introducono fin da subito al tema generale dell’opera: la lotta
per la conservazione dell’identità ispanica, affrontando gli inevitabili cambiamenti
che l’incontro/scontro con una nuova cultura comporta.
Inheritance of Strangers descrive invece i quarant’anni successivi al
Trattato di Guadalupe Hidalgo, facendo emergere i casi di resistenza organizzata
da parte degli ispanici, contro la potente elite angloamericana. Il protagonista è
ancora una volta un membro dei Los Rafas, l’anziano Tercero, affiancato dalle
nuove generazioni: il figlio ed il nipote, coinvolti nelle manifestazioni di dissenso
contro le elezioni corrotte dell’ennesimo sceriffo bianco. La narrazione è
intervallata da ampie digressioni sulla storia del New Mexico, attraverso i racconti
che Tercero fa ai propri nipoti Leonardito e Carlos.
Con Leonor Park la narrazione si sposta al 1928, nell’Albuquerque dei
Roaring Twenties, alla vigilia della Grande depressione. Sullo sfondo delle lotte
239
“Bene, nonno. Dicono che siamo destinati a diventare Yankee ora”. Nash Candelaria, Not by the
Sword (Ypsilanti, MI: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1982) 3.
111
portate avanti dai fratelli protagonisti Magdalena Soto e Nicolás Armijo per
conservare i terreni ereditati dal padre, si descrive il percorso di crescita della
giovane Leonor, figlia di Nicolás.
Con le raccolte di racconti – The Day the Cisco Kid Shot John Wayne
(1988) e Uncivil Rights and Other Stories (1998) – e con A Daughter’s a
Daughter Candelaria continua a concentrarsi sul New Mexico del Ventunesimo
secolo, descrivendone le tensioni sociali ed esplorandone la complessa cultura di
confine, sempre con un forte legame agli eventi storici reali.
La sua narrativa vuole quindi rileggere e ampliare il concetto di identità
chicana, ricollegandosi anche a una dimensione americana continentale e
transnazionale. Candelaria individua infatti un particolare sodalizio tra le
letterature meticcie del continente americano, unite da un comune sostrato
culturale, religioso e linguistico: “[t]he Indo-Hispano brotherhood cuts across
national boundaries from the U.S. south through Mexico to South America. And
the literature reflects this. From Carlos Fuentes to Gabriel García Márquez”240.
Candelaria è inoltre fermamente convinto del carattere universale della
buona letteratura, che da voce alle esperienze peculiari di un gruppo o di un
singolo e veicola l’unicità dello loro visione del mondo, ma è capace, allo stesso
tempo, di trattare temi universali che possano arrivare ad ogni lettore, a
prescindere dalla loro etnicità.
240
“Il sodalizio indo-ispanico oltrepassa i confini nazionali dagli Stati Uniti verso Sud, attraverso
il Messico e verso il Sud America. E la letteratura lo riflette. Da Carlos Fuentes a Gabriel García
Márquez”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 124.
112
3.2 Edward Rivera: The Pioneering Bilingual Persona
Eddie Rivera, who was born in Orocovis, an internal island where
the villagers did not know the sea on an island in a stream of islands.
Eddie Rivera, who traveled to the island of Manhattan, to a new heart
of darkness.241
Edward Rivera nasce ad Orocovis, Porto Rico, nel 1939, ma la sua vita è
indissolubilmente legata a New York, dove si trasferisce all’età di sette anni e
dove rimane fino al giorno della sua morte, avvenuta per infarto, nell’agosto del
2001. Sempre nella “grande mela”, il percorso scolastico ed educativo di Rivera
inizia nelle scuole di Spanish Harlem (dove frequenta istituti pubblici e religiosi),
e prosegue fino agli studi universitari, con un B.A. in Letteratura inglese presso il
City College of New York ed un M.F.A. presso la Columbia University.
Durante gli anni dell’adolescenza, Rivera svolge piccoli lavori impiegatizi
o in fabbrica, che lo portano anche a trascorrere un breve periodo nella sede
centrale della New York Public Library, prima di arruolarsi con le forze armate
per sei mesi, all’età di diciannove anni, quando lavora come stenografo nel
quartier generale dell’esercito statunitense di Heidelberg.
A pochi anni dalla laurea, conseguita nel 1967, inizia a lavorare come
professore di inglese sia presso il City College di New York, sia presso il Center
for Worker Education della stessa università, dedicandosi all’insegnamento con
grande passione, fino alla sua tragica scomparsa, all’età di sessantadue anni.
Parallelamente all’attività accademica, Rivera si è sempre dedicato alla scrittura,
ed i suoi racconti e saggi sono apparsi in antologie e riviste come la New
American Review, la Bilingual Review ed il New York Magazine. Grazie al
241
“Eddie Rivera che nacque ad Orocovis, un’isola interna dove i paesani non conoscevano il mare,
un’isola in un insieme di isole. Eddie Rivera, che si spostò sull’isola di Manhattan, verso un nuovo
cuore di oscurità”. Gary D. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”
(Centro Journal 14.1, 2002) 128.
113
sostegno economico del National Endowment for the Arts, nel 1982 Rivera
pubblica Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic (1982), il suo
unico romanzo: opera ignorata per oltre venti anni dalla critica letteraria, ma non
dai numerosi lettori – Latinos e non – come dimostrano le regolari ristampe, che
proseguono fino ai giorni nostri.
Al pari del suo romanzo, anche la sua vita è rimasta nell’ombra per anni,
ed il suo talento letterario non è stato adeguatamente valorizzato né dal mondo
accademico, né dalla comunità portoricana, tanto che, ad oggi, esiste un unico
studio esaustivo sulla personalità e sull’opera di Rivera: il numero della primavera
del 2002 della rivista specializzata Centro Journal, appositamente concepito come
omaggio all’autore, a pochi mesi dalla sua morte. Lyn Di Iorio Sandín, critica
letteraria e amica di Rivera, apre la sua introduzione alla rivista, con un domanda
cruciale:
Why has there been such a dearth of criticism on a book that many
scholars of Puerto Rican diasporic literature recognize as an important
achievement, and that some well-known younger Puerto Rican and
Latino writers – Ernesto Quiñonez and Abraham Rodriguez, […] as
well as Junot Díaz – cite as a significant influence? Why has such an
important Nuyorican literary personage been relegated to relative
oblivion by his Latino peers?242
Ciascuno degli autori dei contributi successivi – tra cui amici intimi come
Gary Keller o suoi ex-studenti come Diana Vélez, Ernesto Quiñonez e Abraham
Rodríguez – cerca di dare una riposta, enfatizzando aspetti diversi e problematici
della sua vicenda umana e letteraria. Molti sottolineano l’unicità del suo romanzo
242
“Perché c’è stata una tale carenza di critica su di un libro che molti studiosi di letteratura
diasporica portoricana riconoscono come un importante successo, e che alcuni noti scrittori
Latinos o portoricani più giovani – Ernesto Quiñonez e Abraham Rodríguez, così come Junot Díaz
– citano come influenza significativa? Perché un personaggio letterario Nuyorican così importante
è stato relegato a un relativo oblio dai suoi pari Latinos?”. Lyn Di Iorio Sandín, “Introduction”
(Centro Journal 14.1, 2002) 107.
114
non ascrivibile al modello dell’influente “crime-to-success street story genre”243
che ha monopolizzato per anni il mercato della narrativa dei Latinos, sulla scia del
successo indiscusso di Down These Mean Streets, sottraendo però spazio e
visibilità a tutti quegli autori che sperimentavano nuove modalità espressive o
tematiche alternative.
A conferma dei forti condizionamenti subiti, lo stesso Rivera si vede
costretto a cedere alle pressioni della sua casa editrice, che promuove Family
Installments come romanzo autobiografico – nonostante non fosse stato concepito
come tale – per ambire al boom di vendite del mémoir di Piri Thomas. L’autore
esprime tutta la sua amarezza per la scelta della sua redattrice sia in una lettera a
Diana Vélez244, sia in un articolo pubblicato nel 1996 sul Massachusetts Review in
cui conferma che: “Thomas’s belly-of-the-beast ‘memoir’ was what the times
(and apparently, the N.Y.Times) wanted at the time, and what they got. And it
seemed they wanted more of the same while the trend lasted”245.
A dimostrazione di come neanche l’accademia abbia saputo cogliere le sue
grandi potenzialità, Alfredo Villanueva-Collado ricorda con amarezza il momento
in cui, a metà degli anni Ottanta, i suoi colleghi della City University of New
York respingono la sua proposta di utilizzare Family Installments come testo di
riferimento per il corso English as a Second Language, preferendo all’irriverenza
243
“Genere del racconto ambientato sulla strada, che narra il percorso dal crimine al successo”. Di
Iorio Sandín, “Introduction”, 109.
244
Edward Rivera, “Letter to Diana Vélez” (Centro Journal 14.1, 2002) 125.
245
“Il mémoir da pancia-della-bestia di Thomas era ciò che i tempi (ed apparentemente anche il
New York Times) volevano al tempo, e ciò che ottennero. E sembrava che ne volessero ancora, fino
a che la tendenza durava”. Edward Rivera, “Stable Manners; or How the Publication of Family
Installments Was Stalled for Three Years and $ 3,000”, (Centro Journal 14.1, 2002) 125.
L’articolo è stato originariamente pubblicato in The Massachusetts Review 36.3 (1996), 377-385.
115
ed alla pungente ironia di Rivera, il conformismo stilistico ed il messaggio
assimilazionista di Hunger of Memory di Richard Rodríguez246.
Dopo aver utilizzato tre diversi motori di ricerca ed aver trascorso una
notte intera su Internet, nel suo contributo “Looking for Ed Rivera”, Abraham
Rodríguez lamenta invece la grave carenza di informazioni sull’autore,
inspiegabilmente assente anche dalla rete247. L’ex-allievo di Rivera constata con
rabbia la miopia della comunità portoricana, incapace di rendere omaggio ad uno
dei suoi più abili testimoni (“[s]o it is that the self-satisfied Puerto Rican literary
community failed to even note the passing of one of its princes”248), così come di
onorare degnamente molti altri suoi bardi.
It is a disgrace that this community I come from spares little time
to pay tribute to its heroes, and writers who tell the story of this
community are heroes, whether poets or rappers or dingy street talkers
who chant for dimes. This is the worst reflection of us as a
community?249
All’invisibilità di Rivera – in vita e postuma – potrebbe aver contribuito
anche la sua profonda umiltà e il suo costante basso profilo, che si riflette sia nella
percezione di se stesso, sia nella sua attività di insegnante e di scrittore. Come
confermano amici e colleghi, la sua è stata una vita di “hardship and
invisibility”250, in cui si è dedicato con passione all’insegnamento ed alla scrittura,
rifuggendo sempre da facili elogi (“Ed couldn’t take a compliment let alone give
246
Alfredo Villanueva-Collado, “Edward Rivera’s Family Installments: An Agonistic Reading”,
(Centro Journal 14.1, 2002), 160.
247
A dieci anni dalla ricerca di Abraham Rodríguez, ancora oggi il numero di pagine Internet con
riferimenti all’autore è estremamente ridotto e non esiste ancora neanche una voce sulla popolare
enciclopedia online, Wikipedia.
248
“E così accade che la comunità letteraria portoricana, compiaciuta di sé, non è riuscita neanche
a notare il passaggio di uno dei suoi principi”. Abraham Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”,
(Centro Journal 14.1, 2002) 149.
249
“È una disgrazia che questa comunità da cui provengo, dedichi poco tempo a rendere omaggio
ai suoi eroi, e gli scrittori che raccontano la storia di questa comunità sono eroi, siano essi poeti o
rapper o oratori di strade sudice, che cantano per pochi centesimi”. Ibidem, 153.
250
“Difficoltà ed invisibilità”. Ibidem, 151.
116
himself one”) e ricorrendo ad una dose costante di modestia e autoironia: come
dimostra la battuta ricordata da Quiñonez (“This book is good for wrapping
fish”251) che Rivera pronuncia dopo aver visto il suo libro, Family Installments,
sul banco dell’allievo.
Anche Lyn Di Iorio Sandín ribadisce la sua spiccata remissività, ma è
anche l’unica ad indagare più a fondo nella sua maschera di riservatezza, facendo
emergere i lati più oscuri e contraddittori della sua personalità. Da amica e collega,
Di Iorio Sandín cita i tratti distintivi del suo carattere che lo differenziava dai suoi
pari:
Contrary to most of his colleagues ‘Ed had no ego’. […] Ed’s
personality was so different from his Latino – and non-latino – writing
peers, young and old. […] The Ed I knew was gentle to the point of
passivity. […] He never said anything during faculty meetings. […]
[His] looking down and silence were signs of humility.252
Ma la stessa ricorda anche i suoi improvvisi scoppi d’ira; il suo essere – a
volte – intrattabile, sfuggente e schivo; i suoi periodi di profondo malessere
psichico e di insonnia; l’ansia per il suo non sentirsi mai all’altezza o per i
prolungati blocchi della scrittura; la frustrazione di chi non si identifica negli
stereotipi sui Latinos e non riesce a trovare un proprio spazio d’espressione.
He was both passive and active, humble and proud. Hungry for
intimacy, he often avoided it. His closest friends felt they did not
really know him. He was driven by the tension between the thought
that he wasn’t “good enough,” and the side that didn’t want to show
the world how bright and gifted he really was because people would
never understand or appreciate him.253
251
“Ed non riusciva a ricevere un complimento, figuriamoci a farselo da solo”, “Questo libro è
buono per incartare il pasce”. Ernesto Quiñonez, “A Final Installment” (Centro Journal 14.1,
2002), 156 e 155.
252
“Al contrario della maggior parte dei suoi colleghi ‘Ed non aveva un ego’. […] La personalità
di Ed era così diversa dai suoi colleghi scrittori – Latinos e non, giovani o vecchi. […] L’Ed che
io conoscevo era gentile fino alla passività. […] Non diceva mai niente durante le riunioni
accademiche. […] Il suo guardare in basso ed il suo silenzio erano segni di umiltà”. Lyn Di Iorio
Sandín, “Latino Rage: The Life and Work of Edward Rivera”, Killing Spanish: Literary Essays on
Ambivalent U.S. Latino/a Identity (New York: Palgrave Macmillan, 2004) 87.
253
“Era sia passivo sia attivo, umile ed orgoglioso. Affamato di intimità, spesso la evitava. I suoi
amici più stretti sentivano che non lo conoscevano realmente. Era spinto dalla tensione tra il
117
Di Iorio Sandín interpreta quindi la sua apparente umiltà, come una
corazza creata per reprimere la sua rabbia, per celare la sua identità frammentata e
mettere a tacere le inquietudini più profonde che turbano e dividono gli animi di
tutta la comunità dei Latinos. L’ironia caustica delle sue opere, alcune figure
inquietanti che le animano, così come i suo improvvisi scatti d’ira in pubblico ed
in privato, o l’acuto malessere che lo porterà all’alcolismo ed all’incapacità di
continuare a scrivere, sarebbero quindi tutti il frutto di una “suppressed rage”254
che emerge con chiarezza ripercorrendo le sue vicende biografiche.
Al contrario di Nash Candelaria, che compone un intero mémoir
autobiografico e rilascia diverse interviste, o di Andrea O’Reilly Herrera, che
parla apertamente della sua infanzia in diversi saggi, contributi creativi e
conversazioni, Rivera non scrive in modo diretto della sua vita e le poche
informazioni disponibili sull’autore – fatta eccezione per gli esigui trafiletti
biografici che appaiono sulle copertine del suo libro o nelle recensioni critiche
delle sue opere – provengono da suoi conoscenti ed, in ogni caso, non coprono gli
anni trascorsi a Porto Rico, né la sua infanzia a New York. Da Family
Installments possiamo intuire il contesto socio-culturale in cui è cresciuto, ma solo
in forma indiretta e romanzata poiché l’opera,
nonostante sia stata
commercializzata come tale, per ammissione diretta dell’autore non è un romanzo
autobiografico.
Nel saggio “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”,
ad esempio, Gary Francisco Keller ricorda con toccanti parole la profonda
pensiero che non era ‘sufficientemente bravo’, e il lato di sé che non voleva mostrare al mondo
quanto fosse brillante e dotato, perché le persone non lo avrebbero mai capito e apprezzato”.
Ibidem, 100.
254
“Rabbia repressa”. Ibidem, 84.
118
amicizia che lo legava all’autore, fin dall’epoca dei loro studi alla Columbia
University, nel cuore degli anni Sessanta, quando “Eddie was not only urban but
urbane, and he was so New York”255. Per Keller, che aveva studiato in una piccola
università di Città del Messico e si sentiva un “fayuquero” cresciuto “around
border dumps” 256 , Rivera rappresenta fin da subito un nutrimento intellettuale
unico, anche grazie alla sua venerazione per le lettere ed al suo amore per
Cervantes, Shakespeare e per i capisaldi della letteratura europea.
Nonostante nessuno dei due provenisse da “book-buying families or
backgrounds” 257 , Rivera ha sempre mostrato un vero culto per i libri, come
confermerà anche Quiñonez, ricordando che: “[b]esides his family, books were
his true loves. His apartment had more books than clothes or food because books
were what sustained him”258. Dalle parole di Keller apprendiamo anche come i
due scrittori ed amici in quegli anni fossero “busy intellectually sharing” e di
come – malgrado le loro ristrettezze economiche – cercassero di prender parte alla
vita teatrale, cinematografica, letteraria ed artistica di New York, che animava le
loro appassionate “literary ruminations”259 e le loro lunghe conversazioni notturne.
A Broadway assistono a numerose rappresentazioni di Shakespeare come
lo storico Hamlet interpretato da Richard Burton, ma anche a Rosencratz and
Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard. Al cinema sono colpiti da film come
Zorba the Greek di Michael Cacoyannis e Dr. Strangelove di Stanley Kubrick. Le
255
“Eddie non era soltanto urbano ma raffinato, ed era molto New York”. Keller, “The Pioneering
Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 128.
256
“Contrabbandiere”, “Discariche di frontiera”. Ibidem, 128. Keller si riferisce al confine tra
Messico e Stati Uniti in cui è cresciuto.
257
“Famiglie o ambienti in cui si comprano libri”. Ibidem.
258
“Oltre alla sua famiglia, i libri erano il suo vero amore. Il suo appartamento aveva più libri che
vestiti o cibo perché i libri erano ciò che lo sostenevano”. Quiñonez, “A Final Installment”, 156.
259
“Impegnati nella condivisione intellettuale”, ”Riflessioni letterarie”. Keller, “The Pioneering
Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 129 e 131.
119
letture che più li segnano in questi anni sono Papa Hemingway di A.E. Hotchner,
Slaughterhouse-Five di Kurt Vonnegut, Armies of the Night di Norman Mailer o
Portnoy’s Complaint di Philip Roth260.
Il loro interesse per una “Hispanic-focused literature” in questi anni è
ancora lontano dalla produzione Chicana, Portoricana o di altre minoranze
ispaniche degli Stati Uniti e si concentra invece sui grandi nomi della letteratura
Spagnola e Sudamericana 261 . Di García Lorca, ad esempio, apprezzano sia il
carattere urbano di Poeta en Nueva York, sia il multilinguismo ed il
multiculturalismo ricreato in “Seis poemas gallegos” o Poema del cante jondo
attraverso un abile uso del gallego, nel primo caso, o della voce poetica gitana, nel
secondo262.
Profonda è anche la loro ammirazione per Pablo Neruda (che proprio nel
1971 vince il Premio Nobel per la poesia), Carlos Fuentes, Julio Cortázar,
Guillermo Cabrera Infante, Mario Vargas Llosa e soprattutto Gabriel García
Márquez, le cui opere possono circolare facilmente negli ambienti universitari
frequentati da Rivera e Keller, anche grazie alle traduzioni di El coronel no tiene
quien le escriba e Cien años de soledad ad opera rispettivamente di Jerome
260
Gli spettacoli teatrali, i film ed i libri che influenzano maggiormente gli anni universitari di
Rivera e Keller sono citati da quest’ultimo alle pagine 129 e 130 del suo contributo nel Centro
Journal.
261
“Letteratura di stampo ispanico”. Ibidem, 130. Rivera e Keller in questo periodo non entrano
ancora in contatto con scrittori cosiddetti Latinos, fatta eccezione per William Carlos Williams che
i due autori leggono con spiccato interesse anche se – come conferma Keller – le origini
portoricane di Williams, non venivano enfatizzate dalla critica letteraria di quegli anni.
262
Federico García Lorca, Libro de poemas, Primeras canciones, Canciones, Seis poemas
gallegos (Buenos Aires: Editorial Losada, 1938); Poema del cante jondo (Madrid: Espasa-Calpe,
1986); Poeta en Nueva York (Madrid: Cátedra, 1987).
120
Bernstein, professore presso il City College di New York, e Gregory Rabassa,
docente della Columbia University263.
La profonda influenza che il romanzo multi-generazionale dello scrittore
colombiano esercita su Rivera è confermata dallo stesso Keller, che inserisce
Family Installments nel solco tracciato non solo da García Márquez, ma anche da
William Faulkner e Rolando Hinojosa:
The man from Aracataca created the world of Macondo, just as the
man from Oxford, Mississippi, had created Yoknapatawpha County.
Beginning in 1973, with the publication of Estampas del Valle y otras
cosas, the man from the Rio Grande/Río Bravo valley, Rolando
Hinojosa-Smith […] created Belken County, Texas. Over a decade
later, Eduardo/Edward from New York City by way of Orocovis was
to publish a book about El Barrio of New York, founded on the
magical clay of the world of Bautabarro. […] This book was
published in 1982, the year Gabriel García Márquez won the Nobel
Prize in Literature.264
Secondo Di Iorio Sandín, Rivera definiva Márquez “the Master”265, mentre
Quiñonez ricorda – in linea con il suo basso profilo e la sua modestia – che, in una
delle sue lezioni di letteratura, l’autore si era definito “a second-rate García
Márquez”266. Sempre Quiñonez, dopo aver riconosciuto l’influenza che Cien años
de soledad aveva esercitato su Bautabarro (il nome del villaggio da cui ha origine
la famiglia protagonista di Family Installments), elogia l’originalità di Rivera e la
sua capacità di ricreare una saga familiare con un inedito “twist” portoricano267.
263
Gabriel García Márquez, One Hundred Years of Solitude. Trad. di Gregory Rabassa (New
York: Harper & Row, 1970); No One Writes to the Colonel and Other Stories. Trad. di J. S.
Bernstein (New York: Harper Perennial, 1979).
264
“L’uomo da Aracataca creò il mondo di Macondo, così come l’uomo da Oxford, Mississippi,
aveva creato la contea di Yoknapatawpha. A partire dal 1973, con la pubblicazione di Estampas
del Valle y otras cosas, l’uomo dalla valle del Rio Grande/Río Bravo, Rolando Hinojosa-Smith […]
creò la contea di Belken, Texas. Dopo oltre una decade, Eduardo/Edward dalla città di New York,
passando per Orocovis, avrebbe pubblicato un libro su El Barrio di New York, fondato sulla terra
magica del mondo di Bautabarro. […] Questo libro fu pubblicato nel 1982, l’anno in cui Gabriel
García Márquez vinse il Premio Nobel per la letteratura”. Keller, “The Pioneering Bilingual
Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 131.
265
“Il maestro”. Di Iorio Sandín,” Latino Rage”, 88.
266
“Un García Márquez di second’ordine”. Quiñonez, “A Final Installment”, 155.
267
Ibidem.
121
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta cresce l’interesse che Rivera e
Keller nutrono per la scrittura multilingue. A partire dalle sperimentazioni di
James Joyce ed Ernest Hemingway, i due autori mirano a ricreare un nuovo
linguaggio letterario bilingue, ispirato al mescolamento reale di inglese e spagnolo
che caratterizza le comunità ispaniche negli Stati Uniti, di cui essi stessi si fanno
portavoce, attraverso le proprie opere dal linguaggio ibrido, come il racconto di
Rivera “Antecedentes”, pubblicato nel 1972 su New American Review268.
E mentre i due autori cercano di dare una forma artistica alla lingua parlata
da una nuova generazione di americani bilingue, si rendono anche conto che il
mercato editoriale offriva ben poco spazio per le opere dei Nuyoricans, dei
Chicani o di altre minoranze ispaniche, così come per la letteratura al femminile
(scritta da donne o sulle donne).
Per colmare questo vuoto, nel 1973, insieme ad un gruppo di altri
intellettuali e studenti di vari atenei americani, decidono allora di fondare The
Bilingual Review/La Revista Bilingüe, alla quale Rivera e Keller collaborano
attivamente fin dagli esordi: “writing in tandem, consulting each other, and
publishing like-minded writers who pioneered the bilingual medium of the late
1960s and early 1970s, including Emilio Díaz Valcárcel, Alurista, and Juan
(Felipe) Herrera”269.
268
Eduardo Rivera, “Antecedentes”, New American Review 13, 1972.
“Scrivendo in tandem, consultandosi a vicenda e pubblicando scrittori con le stesse idee, che
sperimentavano il mezzo espressivo del bilinguismo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta,
compresi Emilio Díaz Valcárcel, Alurista e Juan (Felipe) Herrera”. Keller, “The Pioneering
Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 133. Ancora oggi, The Bilingual Review/La
Revista Bilingüe (insieme alla casa editrice che la pubblica, la Bilingual Review Press) continua ad
essere diretta da Keller, affiancato dalla caporedattrice Karen S.Van Hooft, anch’essa tra le
fondatrici della rivista, la cui finalità è rimasta la promozione di saggi e opere letterarie di autori
Latinos o latinoamericani. Tra i fondatori citati da Keller nel suo saggio vi sono: Eugenio ChangRodríguez, Jerry Bernstein, José Luis Martín, Philip Silver, Irwin Stern, Elliot Glass, Hernán La
Fontaine, Francisco “Pancho” Jiménez, Randolph Pope e Nicanor Parra.
269
122
Sempre in quegli anni Rivera si dedica appieno all’attività di docenza
universitaria, che porta avanti con grande passione e coinvolgimento, come
confermano i suoi ex-studenti, in particolare Quiñonez e Rodríguez, oggi scrittori
affermati. Il primo ricorda come le sue lezioni riflettessero la sua personalità ed il
suo approccio anti-accademico e anti-conformista alla letteratura: “Ed’s classes
were extensions of himself – subtle, unpretentious, and humble, but with a hidden
fire underneath”270.
Come confermano i moniti con cui Rivera è solito minimizzare i saggi
critici di Di Iorio Sandín (“you’re reading too much into it, Lyn” 271 ), più che
concentrarsi su teorie critiche e rigidi schemi interpretativi, l’autore mira sempre a
stimolare una reazione emotiva negli studenti, cercando di infondere in loro un
nuovo senso di identità, anche a partire dalla riflessione su di un’opera letteraria.
Rodríguez, ad esempio, trova in lui un mentor capace di cogliere le sue
potenzialità di scrittore, instillandole di una rinnovata consapevolezza etnica: “He
gave me the confidence to say, ‘I’m a writer’, and not only that, but a Puerto
Rican writer”. Rivera lo incoraggia infatti a scrivere del Bronx e delle crudezze
della realtà urbana da cui il giovane allievo proveniva, consapevole del profondo
bisogno di dar voce alla diversità dei Latinos ed in particolare di far emergere un
nuovo: “Puerto Rican Balzac”272.
Parallelamente all’insegnamento, durante tutti gli anni Settanta, Rivera
porta avanti la scrittura del suo unico romanzo, che conclude a distanza di dieci
anni dai primi racconti ispirati alla famiglia Malánguez, apparsi singolarmente in
270
“Le lezioni di Ed erano un prolungamento di se stesso – acute, senza pretese ed umili, ma con
un fuoco nascosto sotto”. Quiñonez, “A Final Installment”, 156.
271
“Stai interpretando troppo, Lyn”. Di Iorio Sandín, “Latino Rage”, 98.
272
“Mi ha dato la sicurezza di dire, ‘sono uno scrittore’, e non solo questo, ma uno scrittore
portoricano”, “Balzac portoricano”. Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”, 152.
123
riviste dell’epoca. Il lungo processo che porta alla pubblicazione dell’opera nel
1982, corrisponde anche alla fase più oscura e travagliata della sua vita: fatta di
blocchi della scrittura, crolli di autostima, assunzione cronica di alcol e scontri
con le case editrici che rifiutavano il suo manoscritto. Quando finalmente la
William Morrow and Company si offre di pubblicare il romanzo, Rivera deve
sottostare alla scelta della redattrice di commercializzare l’opera come mémoir
autobiografico, nonostante fosse “full of fabrications”273. Solo a distanza di anni
l’autore supererà il disagio di fronte alla sua “falsa” autobiografia, soprattutto nei
confronti della propria famiglia; d’altronde, come ribadisce lo stesso Rivera: “I
was in no position to argue, so all of a sudden I’d written an autobiography. Just
like that. It makes no difference to me anymore, but at the time I was ready to
jump into the Hudson (the pollution discouraged me)”274.
La frustrazione per i diktat dall’industria libraria e per i clichés che
mortificano quella che l’autore definisce sarcasticamente la “Latino stable” or
“Hispanic pool”275, provocano in lui un rigetto categorico del mondo dell’editoria
e lo spingono a rifugiarsi nell’insegnamento come autentica missione: “he had
traded one way for another, […] teaching had become his mission. The book had
brought him there, to that other revolutionary place where he quietly worked
behind the lines, seeding young minds and opening new doors”276.
273
“Pieno di invenzioni”. Rivera, “Letter to Diana Vélez”, 125.
“Non ero nella posizione di controbattere, così all’improvviso avevo scritto un’autobiografia.
Proprio così. Ora non fa più alcuna differenza per me, ma all’epoca ero pronto a saltare nello
Hudson (l’inquinamento mi ha scoraggiato)”. Ibidem.
275
“Scuderia latina”, “Riserva ispanica”. Rivera, “Stable Manners”, 123.
276
“Aveva scambiato una via per l’altra, […] l’insegnamento era diventato la sua missione. Il libro
lo aveva portato a questo, all’altro luogo rivoluzionario in cui lavorava silenziosamente dietro alle
linee, alimentando giovani menti ed aprendo nuove porte”. Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”,
152.
274
124
Dopo Family Installments, questo rifiuto per la scrittura, unito alla sua
morte precoce, lascia un vuoto significativo all’interno della sua biografia, poiché
l’autore interrompe (almeno nella pagina scritta) il processo di rielaborazione
genealogica e generazionale della sua esperienza umana e letteraria. Pochissimi
sono infatti gli articoli che pubblica negli anni Ottanta e Novanta e, in ogni caso,
non vi sono testimonianze non-romanzate o riflessioni di prima mano sulla sua
relazione con il passato della propria famiglia, con la storia di Porto Rico o con la
comunità boricua di New York.
Questo atteggiamento fa emergere i lati più problematici dell’identità dei
portoricani negli Stati Uniti, costantemente imbrigliati nel “vaivén” 277 , ovvero
nella fluttuazione costante tra riferimenti culturali mutevoli e frammentari,
intensificata dalla facilità di movimento tra il continente e l’isola; aspetto
quest’ultimo che differenzia radicalmente la diaspora portoricana da quella cubana.
L’inquietudine costante di Rivera, la sua ironia corrosiva, la sua maschera di
umiltà ed il suo percorso incompiuto di ricostruzione del sé sembrano alludere al
doppio processo di esclusione vissuto dai portoricani del continente, messi al
margine, sia dal progetto di unità nazionale dell’isola, sia da quello statunitense.
Infine, il silenzio dell’autore rievoca quella che Arcadio Díaz-Quiñones ha
definito “La memoria rota”278: ovvero la strategia del silenzio messa in atto dalla
storiografia ufficiale portoricana per occultare episodi non funzionali alla
memoria collettiva dell’isola, celando, ad esempio, gli esodi massicci e costanti
verso gli Stati Uniti ed il ruolo che i Nuyoricans ricoprono nella ridefinizione di
un’identità portoricana.
277
“Viavai”. Jorge Duany, The Puerto Rican Nation on the Move: Identities on the Island & in the
United States (Chapel Hill and London: University of North Carolina Press, 2002) 2.
278
Arcadio Díaz Quiñones, La memoria rota (Río Piedras, Puerto Rico: Huracán, 1993).
125
3.3 Andrea O’Reilly Herrera: Una cubanita pasada
por agua
But where, then, do I begin to explain the fact that even though my
mother tongue is English and I was partly weaned on cheese steaks,
soft pretzels, TastyKakes, and scrapple, the soft, sing-songy rhythm of
Spanish pulses within me like a kind of inner cadence, and I can
somehow find continuity between the past and the present in the ritual
preparation of a “pie” de guayaba or a Catalán paella (al Avi)?
Perhaps, I tell myself, my response represents some distant ancestral
call or echo that manifests itself, […] in the three generations of
Cuban women inhabiting my name and my person (Carmen for my
grandmother, Andrea for my great-grandmother, and Teresa for my
mother).279
Andrea O’Reilly Herrera ha svolto (e continua a svolgere) un ruolo
cruciale per l’affermazione ed il consolidamento della cultura cubano-americana
contemporanea negli Stati Uniti, grazie al suo instancabile impegno su molteplici
fronti: accademico, critico, letterario ed artistico. In qualità di professoressa
universitaria, a partire dal 1993, si è dedicata ininterrottamente all’attività di
docenza mostrando, anche attraverso i suoi corsi, una spiccata sensibilità non solo
per la letteratura cubano-americana, ma anche per le letterature minoritarie,
caraibiche e post-coloniali in generale. Negli anni, ha sempre nutrito uno spiccato
interesse per le questioni di genere e razza, come dimostra anche il suo ruolo di
direttrice del Women’s and Ethnic Studies Program che attualmente ricopre
presso la University of Colorado, Colorado Springs280.
279
“Da dove inizio a spiegare il fatto che, anche se la mia madre lingua è l’inglese e sono stata
tirata su a bistecche di formaggio, salatini morbidi, TastyKakes e polpettone, il ritmo dolce e
musicale dello spagnolo pulsa in me come una sorta di cadenza interiore, e posso in qualche modo
ritrovare continuità tra il passato ed il presente nella preparazione rituale di una torta de guayaba o
di una paella Catalán (al Avi)? Forse, mi dico, la mia reazione rappresenta un qualche richiamo o
eco distante ed ancestrale che si manifesta, […] nelle tre generazioni di donne cubane che vivono
nel mio nome (Carmen per mia nonna, Andrea per la mia bisnonna e Teresa per mia madre).
Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, ReMembering Cuba: Legacy of a
Diaspora (Austin: University of Texas Press, 2001) 318.
280
Dopo aver conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Letteratura inglese presso la University of
Delaware nel 1993, O’Reilly Herrera ha insegnato presso la University of New York in Fredonia e
successivamente presso la University of Colorado, Colorado Springs (UCCS) dove continua a
svolgere la sua attività di docenza. Tra i numerosissimi corsi da lei tenuti, i titoli che confermano
126
Come ricercatrice e critica letteraria ha curato le raccolte Cuba: Idea of a
Nation Displaced (2007) e ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora (2001), e
l’antologia di scrittrici sudamericane A Secret Weavers Anthology (1998). Ha
inoltre pubblicato in volumi e riviste specializzate numerosi saggi sulle tematiche
dell’esilio e della diaspora cubana, oltre che recensioni delle opere di Cristina
García, Sandra Cisneros, Ron Arias ed innumerevoli altri autori.
Sul versante delle arti visive e della fotografia, ha curato molteplici mostre
e, in particolare, due edizioni di Café281 : lo show itinerante di artisti cubani e
cubano-americani, culminato nel 2011 con la pubblicazione della monografia
Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House (2011) e
con le celebrazioni di Cuba Transnational: la manifestazione svoltasi in Colorado
da maggio ad ottobre dello stesso anno, dedicata agli artisti della diaspora cubana
ed articolata in mostre, conferenze, laboratori, tavole rotonde e reading, di cui
O’Reilly Herrera è stata tra le principali organizzatrici282.
Parallelamente alle attività accademiche e di ricerca, O’Reilly Herrera si è
sempre dedicata anche alla scrittura creativa, con poesie e racconti apparsi in
maggiormente il suo interesse accademico per le letterature minoritarie e per le questioni di genere
e di razza sono: U.S. Latino/a Literature; Literature of the Cuban Diaspora; The Cuban-American
Experience; Caribbean Literature; Latina Writers; Colonial & Post-Colonial Literature & Theory;
The Ethnic Minority Experience; Race, Writing and Difference; Women of Color: Image and
Voice; Introduction to Race & Gender. Per un elenco più esaustivo, si veda il suo curriculum
accademico
disponibile
alla
pagina:
<
http://www.uccs.edu/Documents/west/andreacurriculum%20vitae%20101909.pdf>. In qualità di
docente universitaria, O’Reilly Herrera ha ricevuto numerosi riconoscimenti come il SUNY
Chancellor’s Award for Excellence in Teaching nel 1997 ed il Chancellor’s Award for Excellence
in Research, Scholarship and Service presso la UCCS nel 2004. E’ stata inoltre Fulbright
Distinguished Chair in American Studies presso la Maria Curie-Sklodowska University a Lublin
(Polonia) nell’a.a. 2005-2006.
281
Café II (nel 2003) e Café XII (nel 2011).
282
Il programma dettagliato di Cuba Transnational è disponibile alla pagina:
<http://cubatransnational.blogspot.it/>. Si vedano inoltre le fotografie che ho avuto modo di
scattare durante la mia visita alle quattro mostre in programma, fornite in appendice a questa tesi.
Altra mostra significativa curata dall’autrice è stata Cuba: A Jewish Journey, dedicata al fotografo
Errol Daniels e tenutasi presso la UCCS nel 2003.
127
svariate antologie e riviste, fino alla pubblicazione del romanzo The Pearl of the
Antilles (2001), del quale nel 2004 ha curato anche l’adattamento teatrale283. Per
passione, la scrittrice si dedica inoltre alla musica ed alla pittura: come dimostra
l’acquarello che appare nella copertina del suo romanzo, realizzato sempre da lei.
Quando in un’intervista per la newsletter della University of Colorado le chiedono
come riesca a combinare gli impegni accademici con la vita contemplativa di
un’artista, l’autrice risponde:
It’s a little bit like balancing a hippopotamus on a laundry line. In
the United States, virtually the only sanctuary for the writer and/or
artist is academia. This is the path I chose consciously to follow long
ago as both a writer and an artist; yet this choice has had its drawbacks.
In the first place, academia rarely allows one the space or time for
contemplation and solitude. In addition, at most universities creative
expression is treated by most academics as something exclusive or
unrelated to scholarly work. To my great fortune, I am a member of a
unique academic community at UCCS that values and honors equally
scholarship, teaching, creative expression and a commitment to
community activism. It is most unusual to find a place that recognizes
these multiple aspects of a single self.284
Durante il nostro incontro dello scorso anno, la sua personalità poliedrica e
travolgente è emersa fin dall’inizio quando, vedendomi sorpresa per i molteplici
ruoli che ricompre simultaneamente nella sfera culturale statunitense, O’Reilly
Herrera mi ha spiegato con estrema spontaneità:
283
I suoi racconti e le sue poesie sono apparsi in numerose riviste letterarie come Caesura, Latino
Stuff Review, Sugar Mule, Masthead, Literary Arts Magazine, The Seed, Mangrove. Il suo
racconto “Homecoming” è stato inoltre pubblicato nella prima antologia di letteratura cubanoamericana: Poey, Delia, e Virgil Suarez eds., Little Havana Blues: A Cuban-American Literature
Anthology (Arte Público Press, 1996) 192-199.
284
“È un po’ come far stare in equilibrio un ippopotamo su di un filo per stendere i panni. In
pratica negli Stati Uniti l’unico santuario per gli scrittori e/o gli artisti è l’accademia. Questo è il
percorso che ho scelto di seguire consapevolmente tempo fa, in qualità sia di scrittrice che di
artista; eppure questa scelta ha avuto i suoi inconvenienti. In primo luogo, l’accademia ti lascia
raramente lo spazio o il tempo per la contemplazione o la solitudine. In aggiunta, in gran parte
delle università l’espressione creativa è considerata dalla maggior parte degli accademici come
qualcosa di esclusivo ed estraneo al lavoro scientifico. Per mia grande fortuna, appartengo ad una
comunità accademica unica presso la UCCS che apprezza e rende onore, in egual misura, alla
cultura, all’insegnamento, all’espressione creativa e all’impegno nell’attivismo della comunità”.
University of Colorado, Colorado Springs, Faculty and Staff Newsletter, “Five questions for
Andrea O’Reilly Herrera” <https://www.cusys.edu/newsletter/2009/09-16/five-questions.html>.
Data di accesso 16 agosto 2012.
128
The kind of positioning you are referring to is actually not unusual
in Cuba, as opposed to the U.S. In fact, it’s typical. Many of the artists
in CAFÉ, the art exhibit I write about in Cuban Artists Across the
Diaspora: Setting the Tent Against the House are, in addition to being
artists, musicians, writers, poets, and/or dancers. I don’t have any
explanation for why this is true, but in this regard I am very Cuban.
I’m also an amateur musician and an untrained artist. For me music
and painting and writing are all linked together. Most Cubans I know
understand this and think it’s perfectly normal, but for most
Americans it’s not. Even though I was born in the U.S., I was not
raised or acculturated like a typical American. Even though I was
conceived in Havana, I was born the first week of January ’59 [in
Philadelphia]; but I was raised in the United States like a Cuban, so
my consciousness was always Cuban—something that took me a long
time to figure out. As a result, I always feel like an outsider, even
though I am an American.285
Concepita a L’Avana ma nata a Philadelphia, O’Reilly Herrera proviene
da una famiglia cubana rifugiatasi in Pennsylvania a ridosso della rivoluzione
castrista del 1959, a poche settimane dalla sua nascita. Da allora, non ha mai
potuto mettere piede sull’isola e, nonostante il padre fosse di origini irlandesi e la
madre si identificasse come americana, la sua vita è stata segnata da un senso di
sradicamento che l’autrice definisce anche “second-hand exile”286:
I […] grew up longing for and dreaming about a world that no
longer exists and a physical place I have never seen, except in
photographs, but somehow know. As a result, I am confronted with a
sense of deep personal loss, which is at once ephemeral and
haunting.287
285
“Il tipo di posizionamento a cui ti riferisci in realtà non è inusuale a Cuba, diversamente dagli
Stati Uniti, anzi è tipico. Molti degli artisti di CAFÉ, la mostra di cui parlo in Cuban Artists
Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House , oltre a essere artisti, sono musicisti,
scrittori, poeti e/o ballerini. Non so spiegare perché accada ma, rispetto a questo, sono molto
cubana. Io sono anche una musicista amatoriale e un’artista senza una formazione specifica. Per
me la musica, la pittura e la scrittura sono legate insieme. La maggior parte dei cubani che io
conosco lo capiscono e pensano che sia perfettamente normale, ma per la maggior parte degli
americani non lo è. Sebbene sia nata negli Stati Uniti, non sono cresciuta e non sono stata educata
come una tipica americana. Anche se sono stata concepita a L’Avana, sono nata la prima settimana
di gennaio del ’59 [a Philadelphia]; ma sono cresciuta negli Stati Uniti come una cubana, quindi la
mia consapevolezza è sempre stata cubana – cosa che ho capito dopo molto tempo. Di
conseguenza, mi sento sempre un’estranea, anche se sono americana”. Andrea O’Reilly Herrera e
Mara Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”. Il romanzo multigenerazionale di Nash
Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato.
Università degli Studi di Macerata. 2013. Capitolo 5.
286
“Esilio di seconda mano”. Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 319.
287
“Sono cresciuta desiderando e sognando un mondo che non esiste più ed un luogo fisico che
non ho mai visto, eccetto in fotografia, ma che in qualche modo conosco. Di conseguenza, mi
confronto con un profondo senso di perdita personale, che è allo stesso tempo effimero ed
incancellabile. Ibidem, 318.
129
Nonostante il distacco fisico, Cuba ha sempre animato il suo mondo
interiore, come dimostra il suo “ancestral yearning for all things Cuban”288 che
l’ha spinta, fin dalla più tenera infanzia, a definirsi cubana (“calling myself an
American never entered my mind”289) e ad ascoltare con curiosità insaziabile i
racconti della vita sull’isola dei propri familiari, nei quali vedeva rivivere “a place
– a world – none of them would ever revisit again, except in memory and
imagination”290.
L’autrice, insieme ai cinque fratelli, i genitori ed i nonni, è infatti cresciuta
in una famiglia cubana allargata, che ospitava anche per lunghi periodi amici e
parenti, ricreando una sorta di “Island unto themselves” 291 in cui si parlava
spagnolo, si ascoltava Beny Morè, insieme a Frank Sinatra, ai Beatles e alla
musica tradizionale irlandese, si cucinavano piatti caraibici ed angloamericani ed
a tavola si discuteva animatamente di Cuba e della sua storia. Negli anni, questo
ambiente ha contribuito a rafforzare la sua profonda nostalgia per Cuba, che l’ha
portata a non identificarsi come bianca, segnando indelebilmente anche la sua
coscienza politica e sociale:
It wasn’t until adulthood that I came to the realization that my
social and political consciousness was displaced, […] for it had been
shaped not nearly as much by the Civil Rights Movement as by the
historical events in Cuba, which were discussed every Sunday at my
grandparents’ house.292
288
“Un desiderio ancestrale per ogni cosa cubana”. Andrea O’Reilly Herrera, “Preface”,
ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora (Austin: University of Texas Press, 2001) xi.
289
“Non mi è mai passato per la mente di chiamarmi statunitense. O’Reilly Herrera, “Una cubanita
pasada por agua”, 317.
290
“Un luogo – un mondo – che nessuno di loro avrebbe rivisto, eccetto nella memoria e
nell’immaginazione”. Ibidem, 317.
291
“Isola di se stessi”. Ibidem, 319.
292
“Solo in età adulta, sono arrivata a capire che la mia coscienza sociale e politica era dislocata,
[…] perché era stata forgiata, più che dai Movimenti per i diritti civili, dagli eventi storici di Cuba
che si discutevano ogni domenica a casa dei nonni”. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por
agua”, 317.
130
L’impulso alla scrittura e all’esplorazione creativa ed intellettuale del suo
rapporto con Cuba nascono quindi da un duplice desiderio: da un lato, di ricucire
insieme gli elementi contrastanti della sua identità culturale; dall’altro, di
custodire i preziosi ricordi di famiglia – un patrimonio culturale unico per le
popolazioni diasporiche – seguendo quell’impulso ancestrale che l’aveva spinta
fin da bambina, a chiedere ripetutamente al nonno di raccontargli del suo passato
sull’isola:
I used to beg to hear my grandparents repeat their stories about
their lives on the Island – stories that fed my imagination and have
since become the wellspring of my scholarly work and much of my
fiction. At one point I even followed my grandfather, Pipa, around the
borders of his beloved garden with a tape recorder, watching him pull
the stubborn weeds from among the lavender and blue hydrangeas.
We all knew he had been involved in some type of clandestine activity
in Cuba following the revolution, but he persistently refused to talk
about it. […] “In the first place”, he told me in his booming voice
(which usually sent his grandchildren scattering in all directions), “I
cannot tell you those stories – mostly because I am afraid”. “For
whom?” I asked. “For those who are left behind”, he answered,
lowering his voice. “In the second place”, he added, “no one would
ever believe me if I told them what I knew”.
Over the years, I have never forgotten his response – little did he
know that his words had only sharpened my desire to act as the
guardian of our stories, our history.293
Non a caso O’Reilly Herrera inizia ad occuparsi di Remembering Cuba, ed
a scrivere The Pearl of the Antilles (la sua “creative counterpart”
294
)
successivamente alla morte della nonna e dopo un toccante incontro con le zie
materne di Miami, Yoyín e Asela che le raccontano in spagnolo, dei cambiamenti
293
“Supplicavo i miei nonni di ripetere le storie della loro vita sull’isola – storie che alimentavano
la mia immaginazione e che da allora sono diventate la fonte della mia ricerca scientifica e di gran
parte della mia narrativa. Ad un certo punto ho iniziato a seguire mio nonno, Pipa, intorno al suo
amato giardino con un registratore a cassette, osservandolo mentre toglieva le erbacce resistenti
dalla lavanda e dalle ortensie blu. Sapevamo tutti che era stato coinvolto in qualche tipo di attività
clandestina a Cuba, in seguito alla rivoluzione, ma rifiutava ostinatamente di parlarne. […] ‘In
primo luogo’, mi disse con la sua voce tonante (che di solito faceva scappare i suoi nipoti in tutte
le direzioni), ‘Non posso raccontarti quelle storie – principalmente perché ho paura’. ‘Per chi?’,
chiesi. ‘Per coloro che sono rimasti là’, rispose abbassando la voce. ‘In secondo luogo’,
aggiungeva, ‘nessuno mi crederebbe mai se raccontassi ciò che so’. Negli anni, non ho mai
dimenticato la sua risposta – Non si era reso conto che le sue parole avevano acuito il mio
desiderio di essere la guardiana dei nostri racconti, la nostra storia. O’Reilly Herrera, “Preface”,
Remembering Cuba, xii.
294
“Controparte creativa”. “Andrea O’Reilly Herrera” (Contemporary Authors 193, 2001) 192.
131
subiti da Cuba dopo il 1898, ma soprattutto dei traumi della Rivoluzione ed, in
particolare, del giorno in cui i soldati hanno fatto irruzione nella loro casa,
costringendole a sgombrare tutto in mezz’ora: “We had only half an hour to pack
our bags, […] a lifetime of memories, […] in only one bag”295. Quando Asela – la
matriarca della famiglia – muore all’età di centodue anni, O’Reilly Herrera non
può fare a meno di pensare che la donna sarebbe stata seppellita in terra straniera e
che la sua esistenza si era conclusa senza poter realizzare il sogno di rivedere la
sua amata patria. E’ in quel momento che, per la prima volta, l’autrice percepisce
il dramma più profondo dell’esilio: “Exile, for her, was a permanent mutilation, a
wound that would not heal. Never before had the proportions of this loss, this
tragedy, seemed so immediate and so great to me”296.
Raccogliendo le testimonianze in prosa e poesia che formeranno
Remembering Cuba, O’Reilly Herrera capisce che, nonostante le notevoli
differenze – generazionali, di classe, di genere, di razza, etc. – gli artisti e la gente
comune che avevano deciso di contribuire al progetto, erano tutti accomunati da
un senso di sradicamento e frammentazione (fisica e psichica), derivanti
dall’impossibilità di conoscere Cuba o di tornarvi. Alcuni di loro avevano trovato
nel potere terapeutico dell’arte, uno spazio in cui esprimere creativamente le
lacerazioni dell’esilio, rovesciando in positivo, il loro status nomadico: “several
295
“Avevamo solo mezz’ora per fare le valigie, […] una vita di ricordi, […] in una sola valigia”.
O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xii.
296
Per lei, l’esilio era una mutilazione permanente, una ferita che non si sarebbe curata. Le
dimensioni di questa perdita, di questa tragedia, non mi erano mai sembrate così immediate ed
immani prima di allora. Ibidem, xiii.
132
among us seem to enjoy the freedoms that our gypsy status allows – for like
tricksters we can easily cross cultural borders”297.
Per altri, l’esilio è stato inizialmente psicologico e poi fisico, in riferimento
alla condizione di “insilio” 298 , o esilio interiore, che hanno vissuto prima di
lasciare l’isola (e che molti cubani continuano ancora a oggi a subire), per le
repressioni fisiche o emotive a cui sono stati sottoposti dal regime castrista, a
causa del loro dissenso politico. Buona parte della comunità cubana insediatasi in
Florida subito dopo il cinquantanove invece, tende a rifiutare il concetto di
“diaspora” – che evocherebbe una dispersione caotica – e promuove l’idea che
Miami sia il nuovo “autentico” centro di irradiazione della cultura cubana.
Ad eccezione di quest’ultimo gruppo, tutti hanno vissuto una “lifetime of
unbelonging and dislocation”299, sospesi in un limbo interculturale che li spinge a
ridefinire quotidianamente una nuova patria simbolica, mediando il ricordo
(diretto o indiretto) della Cuba del passato, con la contemporaneità statunitense,
nel tentativo di ricreare una casa simbolica, come tante popolazioni diasporiche.
Di fronte ad una tale eterogeneità di esperienze, O’Reilly Herrera sente
innanzitutto l’esigenza di scendere in campo nella “war […] over labeling” 300
creando una nuova terminologia, elastica ed inclusiva, che possa ricomprendere la
297
“Molti di noi sembrano trarre giovamento dalla libertà che la nostra condizione di nomadi ci
concede – perché, come prestigiatori, possiamo facilmente attraversare i confini culturali. O’Reilly
Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 319.
298
Rifacendosi alle parole del poeta cubano Lezama Lima, Leandro Soto apre il suo contributo in
Remembering Cuba, proprio con una definizione di “insilio”: “To be in exile is an interior feeling
that you experience for the first time living inside Cuba, something which Lezama Lima, in a 1960
letter to Orbon, refers to as ‘insilio’ or interior exile. You begin by wishing that you were born in
another place, that you spoke another language other than your native tongue / Essere in esilio è
una sensazione interiore che vivi per la prima volta dentro Cuba, qualcosa che Lezama Lima, in
una lettera ad Orbon del 1960, definisce ‘insilio’ o esilio interiore. Inizi con il desiderio di esser
nato in un altro posto, di parlare un’altra lingua diversa dalla tua lingua madre”. Leandro Soto,
“Testimonio de un artista”, in Remembering Cuba, 3.
299
“Una vita intera di non-appartenenza e dislocamento”. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada
por agua”, 319.
300
“Guerra […] delle etichette”. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xxviii.
133
polifonia e la complessità delle voci cubane negli Stati Uniti. Se etichette come
“Hispanics”, “Latinos” o “Cuban American” risultano troppo monolitiche e vuote
di significato, alcuni dei collaboratori di ReMembering Cuba hanno osservato che
gli stessi termini utilizzati dall’autrice nel questionario distribuito nella fase di
raccolta delle testimonianze, erano troppo riduttivi e semplicistici, perché il
ricorso a degli acronimi o a dei numeri, spersonalizza e svilisce la complessità di
ogni identità culturale. O’Reilly Herrera aveva infatti ripreso le famose definizioni
generazionali con cui Gustavo Pérez Firmat ha descritto lo status di sospensione
tra due culture che caratterizzerebbe sia la “ABC generation (American-Born
Cubans)”, sia la “1.5” o “one-and-a-half generation”, ovvero coloro che sono nati
a Cuba ma hanno raggiunto la maturità ed hanno studiato negli Stati Uniti301.
L’autrice conia allora l’espressione aperta “Cuband ‘presences’” 302 ,
rievocando l’isola come spazio allo stesso tempo reale ed immaginato, che esiste
non solo come luogo fisico, ma anche e soprattutto come “transnation-space”303 ,
come mondo ricordato, sognato, perduto e frammentato, che rinasce
continuamente e nell’immaginario collettivo di chi vive nella diaspora. La “d”
finale rievoca invece le infinite sfumature culturali (oltre che di genere, di
religione, di razza, di preferenze sessuali, di generazione, etc.) e le molteplici
301
“Generazione ABC (Cubani Nati in America)”; “Generazione uno e mezzo”. Pérez Firmat
descrive queste categorie generazionali nell’introduzione alla celebre monografia Life on the
Hyphen: The Cuban-American Way (Austin: University of Texas Press, 1994), 1-20. La
definizione di “one-and-a-half generation” viene ripresa dall’opera del sociologo cubano Rubén
Rumbaut, “The Agony of Exile: A Study of the Migration and Adaptation of Indochinese Refugee
Adults and Children”, Refugee Children: Theory, Research, and Services, eds. Frederick L.
Ahearn e Jean L. Athey (Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 1991), 61.
302
“‘Presenze’ Cuband “. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xxviii.
303
“Spazio transnazionale”. Andrea O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering:
History, Imagination, and the Recovery of the Lost Generation”, Cuba: Idea of a Nation
Displaced. (Albany, NY: SUNY Press, 2007) 179.
134
associazioni identitarie che ogni individuo è libero di scegliere, andando oltre
l’“hyphen” e frantumando ogni logica binaria di appartenenza.
Infine la parola “presence” richiama la stratificazione storica e le cicatrici
lasciate da secoli di colonialismo, dai flussi migratori, dalla rivoluzione, dalle
separazioni dell’esilio che ogni cubano porta dentro di sé, più o meno
consapevolmente, in un “palimpsest of visible/invisible ‘inheritances’”304.
In Cuba: Idea of a Nation Displaced O’Reilly Herrera amplia le sue
riflessioni sulla diaspora cubana, descrivendo lo status ambiguo e marginale che
ricopre la cosiddetta “Lost Generation”, di cui la stessa autrice si ritiene parte
integrante305. In questa categoria si includono quei cubani nati o cresciuti fuori
dall’isola che, pur non avendo vissuto direttamente i traumi dell’esilio, li hanno
ereditati dalla propria famiglia. Essi concepiscono Cuba come un’entità
transnazionale e dai confini porosi, si sentono parte di una comunità diasporica
più ampia e sono accomunati dallo sforzo costante di ridefinire la propria cubanía,
in uno spazio delocalizzato, ibrido, multilinguistico e pluriculturale.
La loro è una generazione “dimenticata” perché inghiottita dai due
“competing discourses of Cuban national identities”, entrambi basati su di una
visione statica, totalizzante ed essenzializzata dell’identità cubana306. Da un lato,
la politica ufficiale del governo cubano, volta a negare ogni affiliazione con la
diaspora ed a screditare coloro che abbandonano l’isola, anche attraverso i termini
derogatori e spersonalizzanti con cui vengono definiti, come gusanos, escorias,
304
“Palinsesto di eredità visibili ed invisibili”. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba,
xxx.
305
“Generazione perduta”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering”, 177.
306
“Discorsi concorrenti di identità nazionale cubana”. Ibidem, 184.
135
traidores, o balseros307. Dall’altro, l’enclave dei nazionalisti cubano-americani,
che riproducono la logica binaria centro/periferia, spostandone il fulcro a Miami,
concepita come nuovo epicentro dell’“eccezionalismo” cubano. Questo gruppo,
che gode di grande visibilità nei mass media nordamericani, corrisponde in buona
parte alla prima generazione di esiliati immediatamente successiva alla
rivoluzione, composta principalmente da cubani bianchi, istruiti e provenienti
dalle classi più agiate. In risposta alle logiche di esclusione della retorica castrista,
essi elaborano un contro-discorso altrettanto rigido e centralizzato, basato
sull’idealizzazione nostalgica del periodo repubblicano (pre-rivoluzionario) e
sull’illusione di una comunità cubana omogenea ed univoca, che non contempla
divergenze nelle posizioni politiche o ideologiche, e non si mette in relazione con
le successive generazioni di esiliati cubani (molto diversi per età, estrazione
sociale e razziale), né con le altre minoranze etniche del Paese308.
Poiché la Lost Generation non rientra in questi estremi, e non è collocabile
in nessuna “hierarchy of authenticity”, essa è stata vittima della “cultural and
307
“Vermi, scorie, traditori, rifugiati”. “Balsero” deriva dalle “balsas” le precarie zattere con cui
alcuni cubani cercano di raggiungere la costa statunitense. Il termine è diventato così diffuso nel
linguaggio comune, da essere addirittura tradotto sul vocabolario on-line Word Reference come “A
name for Cubans who try to enter the U.S. by sailing to Florida in small boats and rafts / Nome
dato ai cubani che cercano di entrare negli Stati Uniti via mare attraverso la Florida, in piccole
barche o zattere”). WordReference, Online Language Dictionaries, “Balsero”
<http://www.wordreference.com/es/en/translation.asp?spen=balsero>. Data di accesso 16 agosto
2012.
308
Il ruolo di questa prima generazione di esiliati cubani è molto controverso e spesso malvisto
dalle altre minoranze etniche americane. Motivo di frizione con gli altri gruppi è stato innanzitutto
l’appoggio politico ed il trattamento preferenziale – rispetto agli altri immigrati – ricevuto da
Washington al loro arrivo, sulla scia della retorica della Guerra Fredda. In secondo luogo, va
considerato il fatto che, nonostante abbiano tratto profitto dalle conquiste del Movimento per i
diritti civili degli anni Sessanta, hanno sempre rifiutato di essere identificati come “minoranza
etnica”, in virtù dell’esemplarità con cui si sono ricostruiti una vita in esilio e del contributo
fondamentale dato alla società americana (grazie soprattutto alla loro alto livello di istruzione).
Questi aspetti sono approfonditi in diversi saggi di Cuba: Idea of a Nation Displaced, come ad
esempio nei contributi di María Cristina García, “The Cuban Population in the United States: An
Introduction”, 75-89; e di Susan D. Greenbaum e Linda M. Callejas “‘We All Lived Here
Together’: The Hidden Topic of Race between White and Black Cubans in Tampa”, 132-140. Lo
stesso tema viene trattato anche in Remembering Cuba da Enrique Patterson in “Sin Calcetines”,
34-42; e da Ileana Fuentes in “Portrait of Wendy at Fifty, With Bra”, 58-63.
136
historical nullification” messa in atto da entrambe le parti309. Alla luce di questa
assenza, acquisisce un significato ancora più rilevante l’impegno con cui O’Reilly
Herrera cerca di dar voce e di legittimare le “Cuband presences”, sia nella sua
scrittura, sia attraverso le manifestazioni artistiche e culturali di cui si fa
promotrice.
L’autrice vuole valorizzare il ruolo del ricordo e della continuità culturale
all’interno di una nazione frammentata, sparpagliata e minacciata dall’oblio, che
cerca di ricomporre una propria identità, mescolando storia, memoria, sogno ed
immaginazione. Ispirandosi al concetto di “Mnemohistory” elaborato da Jan
Assmann 310 e consapevole delle distorsioni nella ricostruzione del passato,
O’Reilly Herrera propone quindi un nuovo approccio critico per riconsiderare le
dinamiche identitarie e le espressioni artistiche della Lost Generation, che
enfatizzi i legami genealogici e la trasmissione multigenerazionale del senso di
appartenenza culturale, sminuendo parallelamente il ruolo delle origini
geografiche.
Infine, in Cuban Artists Across the Diaspora, O’Reilly Herrera racchiude
emblematicamente le dinamiche che caratterizzano l’identità in perenne divenire
delle “Cuband ‘presences’”, nella descrizione della genesi di Café (acronimo per
Cuban American Foremost Exhibitions), la mostra itinerante nata da un idea
dell’artista cubano Leandro Soto (oggi trapiantato in Arizona). Soto rivede nel
309
“Gerarchia di autenticità”; “Nullificazione culturale e storica”. O’Reilly Herrera, “The Politics
of Mis-ReMembering”, 182 e 183.
310
“Mnemostoria”. Jan Assmann, “Mnemohistory and the Construction of Egypt”, Moses the
Egyptian: The Memory of Egypt in Western Monotheism (Cambridge, MA: Harvard University
Press, 1997), 1-22.
137
rituale della preparazione e condivisione del caffè fatto in un “Cuban way”311, un
atto di rigenerazione del proprio senso di “cubanità”, arricchito di volta in volta
degli elementi innovativi (ingredienti, atmosfere, conversazioni, etc.) apportati dal
luogo in cui lo stiamo prendendo o dalle persone con cui lo condividiamo.
311
“Secondo lo stile cubano”. Andrea O’Reilly Herrera “Repeating the Unrepeatable: CAFÉ and
the journeys of Cuban Artists”, Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the
House (Austin: University of Texas Press, 2011) 15-25.
138
Capitolo 4
ANALISI COMPARATA
DELLE OPERE PRIMARIE
ANALISI NARRATOLOGICA
4.1 The Pearl of the Antilles, Andrea O’Reilly Herrera
4.1.1 Dall’acquarello alla pubblicazione
La cosa es que yo siempre he querido escribir este libro, desde
cuando era una niña siempre dije, “Voy a escribir una novela”. Y todo
el mundo quería saber qué novela, y yo decía “I don’t know, pero va a
salir, no sé cuándo”. Yo estaba muy cerquita de mis abuelos los
cubanos. Mi abuelo murió cuando yo tenía 19 años y después mi
abuela. En 1986 yo estaba embarazada de mi hijo y tres semanas
después de su nacimiento, en marzo, ella murió. Me sentía muy triste.
Tenía muchas fotos de cuando ella era joven y quería pintarlas, pues
una noche me levanté y empecé con una foto de mi abuela, de cuando
ella tenía 16 años. Al día siguiente mientras estaba sentada en una
mecedora con mi hijo, empecé a escribir la novela, en ese momento.
El cuadro de mi abuela (que ahora es la cubierta de la novela) fue la
inspiración.1
L’impulso alla scrittura dell’unica opera in prosa di O’Reilly Herrera,
nasce da un disegno ad acquarello, raffigurante una giovane donna dai capelli
raccolti, con il viso reclinato verso il basso e lo sguardo apparentemente oscurato
da un velo di tristezza. Ad illuminare le tonalità lilla dell’abito e dello sfondo, vi
1
“Io ho sempre voluto scrivere questo libro, fin da quanto ero bambina dicevo sempre ‘Scriverò
un romanzo’. E tutti volevano sapere che romanzo e io dicevo ‘I don’t know, ma mi verrà, non so
quando’. Io ero molto vicina ai miei nonni cubani. Mio nonno è morto quando avevo 19 anni e
dopo di lui mia nonna. Nel 1986 ero incinta di mio figlio e, tre settimane dopo la sua nascita, a
marzo lei è morta. Ero molto triste. Avevo molte foto di quando era giovane e volevo dipingerle,
allora una notte mi sono alzata e ho iniziato con una foto di quando mia nonna aveva 16 anni. Il
giorno successivo, mentre ero seduta su di una sedia a dondolo con mio figlio, ho iniziato a
scrivere il romanzo, in quel momento. Il quadro di mia nonna (che ora è la copertina del romanzo)
è stato l’ispirazione”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”,
Capitolo 5.
139
sono due rose rosse cucite sullo scollo del vestito ed alcune chiazze di colore sul
ventaglio che ha in mano. Il ritratto è stato realizzato dalla stessa autrice nel 1986,
sulla base di alcune foto d’epoca della nonna cubana, alla quale voleva rendere
omaggio a poche settimane dalla morte2.
La visualità del disegno enfatizza il presentarsi del romanzo quale
“modello finito di un mondo infinito”3. L’universo storico culturale che il quadro
racchiude anticipa infatti la genesi dell’intera opera, che compone un susseguirsi
di immagini, visioni, storie di famiglia e aneddoti in un insieme che diviene
romanzo. Solo apparentemente frammentaria, la narrazione difatti ricostruisce “a
portrait of that lost world and its attendant Weltanschauung – a world that many
claim only exists in a cloud bank of nostalgia and memory or the realm of the
vicarious imagination”4.
La narratrice fa riferimento all’acquarello anche all’interno del racconto,
quando descrive una foto della giovane Rosa, la protagonista denominata “The
Pearl of the Antilles”, epiteto che rende omaggio alla sua bellezza ma anche alla
storia di Cuba, conosciuta come “Perla delle Antille” fin dall’epoca coloniale, per
lo splendore e la ricchezza delle sue risorse naturali5.
2
La foto dell’acquarello originale (incluso nella mostra itinerante CAFÉ) è fornita in appendice a
questa tesi.
3
Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico (Milano: Mursia, 1980) 253.
4
“Un ritratto di quel mondo perduto e la relativa Weltanschauung – un mondo che, molti
sostengono, esiste solo in una nube di nostalgia e memoria o nel regno dell’immaginazione vissuta
di riflesso”. “Andrea O’Reilly Herrera”, Contemporary Authors 193 (2001): 191.
5
L’immagine della perla nella tradizione letteraria anglo-americana, richiama inevitabilmente
anche la bellezza e il carattere di Pearl in The Scarlet Letter, che la madre Hester ama vestire con
abiti riccamente decorati e con motivi floreali, nonostante la bambina fosse il simbolo del suo
amore adultero. Nel capitolo 7, ad esempio, Hester porta la figlia dal Governatore Bellingham con
indosso un vestito rosso: “abundantly embroidered in fantasies and flourishes of gold thread /
abbondantemente decorato con fantasie floreali di filo dorato”. Il romanzo è disponibile in forma
di e-book dal sito del Progetto Gutemberg: <http://www.gutenberg.org/ebooks/33>. Data di
accesso, 20 gennaio 2013. La perla inoltre è notoriamente un simbolo di fertilità e femminilità,
come conferma il dizionario dei simboli della University of Michigan: “The pearl is a symbol of
perfection and incorruptibility; it is a symbol of long life and fertility, and because of its luster it is
140
Dopo un lungo processo di scrittura e dopo un passaggio da una casa
editrice ad un’altra, lo stesso acquarello illustra anche la copertina del romanzo,
pubblicato nel 2001 (a distanza di anni dalla realizzazione del disegno originale),
suggellando in questo modo la trasformazione di un’immagine in un’opera
compiuta.
4.1.2 Quadro sinottico
L’opera si apre con la misteriosa descrizione di un’anziana donna – “the
ancient one”6 – che contempla dall’alto di una montagna le celebrazioni per la
festa della Vergine del Monte Carmelo del 16 luglio, che si stanno svolgendo nel
paese sottostante. Mentre osserva la statua della Madonna portata in processione
dai fedeli, la donna ha un’inquietante visione: dodici figure incappucciate con una
veste bianca seguono un prete anziano e barbuto che impugna un bastone ricurvo
in una mano ed una scopa nell’altra. Accompagnato dal suono dei tamburi batá, il
gruppo raggiunge la cima della montagna dove si unisce a una folla di altre
persone in una danza circolare, frenetica e convulsa, “like a serpent with its tail in
its mouth” 7 . L’atmosfera festosa viene improvvisante rotta quando i dodici si
sfilano il cappuccio, mostrando i loro volti mostruosi con sembianze da corvi.
often considered a moon symbol. Buried within the oyster shell, the pearl represents hidden
knowledge, and it is highly feminine. Many eastern philosophies (Buddhism, Taoism, Hindu)
relate the ‘flaming pearl’ to wisdom and spiritual awareness. / La perla è un simbolo di perfezione
e incorruttibilità, di lunga vita e fertilità e, per la sua lucentezza, è spesso considerata un simbolo
della luna. Custodita all’interno del guscio dell’ostrica, la perla rappresenta la conoscenza
nascosta ed è altamente femminile. Molte filosofie orientali (buddismo, taoismo, induismo)
mettono in relazione la ‘perla fiammeggiante’ con la saggezza e la consapevolezza spirituale”.
University of Michican, “Pearl”, Symbolism Dictionary <http://www.umich.edu/~umfandsf/>.
Data di accesso, 20 gennaio 2013.
6
“L’anziana”. Andrea O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles (Tempe, AZ: Bilingual
Press/Editorial Bilingüe, 2001) s.n.
7
“Come un serpente con la coda in bocca”. Ibidem, s.n.
141
La folla li riconosce ma non ha il coraggio di pronunciare i loro nomi e tra
tuoni e grandine si inginocchia, emettendo grida di rabbia e disperazione. Il prete
li obbliga a gettare i loro figli in mare, facendoli rotolare dal fianco della
montagna. Richiama poi uno stormo di uccelli neri che si accaniscono contro la
folla disarmata, beccando i genitali degli uomini, strappando i gioielli alle donne e
portando via con sé “their futures and their pasts” 8 . Mentre le persone
all’improvviso si trovano con le mani ed i piedi incatenati l’uno all’altro nel
mezzo di una voragine di fuoco, un terremoto spacca la montagna e ne fa staccare
una parte, che si muove e si allontana nel mezzo del mare. Proprio da questo
pezzo di isola i figli, precedentemente gettati in mare, riemergono a riva,
lanciando grida altisonanti, “like a cloud of doves”9.
Quando l’anziana donna rinviene, si rende conto di aver perso il senso del
tempo, mescolando passato e presente. E mentre il suo sguardo ricade
nuovamente sulla processione che si stava svolgendo in paese, viene trafitta
dall’improvvisa consapevolezza che qualcosa è andato irrimediabilmente e
drammaticamente perso: “He perdido una perla, la he perdido en el mar”. Una
voragine inattesa – simile a una ferita – si apre in lei e la donna si rimette in
cammino, nella pioggia e nell’oscurità.
A questa inquietante scena iniziale, apparentemente isolata dal resto del
romanzo – senza numerazione di pagine, né riferimenti di luogo o tempo, né titolo
– segue un articolato albero genealogico della famiglia protagonista dell’opera,
con nomi e cognomi di cinque generazioni, collocati graficamente tra i rami
frondosi di un imponente arancio. Tra questi, spiccano soprattutto nomi femminili
8
9
“I loro futuri e i loro passati”. Ibidem, s.n.
“Come una nube di colombe”. Ibidem, s.n.
142
– diciotto, contro i sei maschili – tutti di origine ispanica, tranne l’ultimo, quello
di Lilly.
Nella prima scena dell’opera che si svolge nel maggio del 1946, la
narratrice in terza persona ci descrive il diverbio tra i coniugi Amargo: Rosa e
Pedro. Quest’ultimo ha ereditato dalla madre Fina una casa in Calle Semilla, a
L’Avana, e sta cercando di convincere la moglie a lasciare la tenuta periferica di
Cienfuegos per trasferirvisi. Dopo essersi ripetutamente opposta per il forte
legame con la tenuta che era stata fondata dal bisnonno Paolo, Rosa deve piegarsi
alla volontà del marito, separandosi dall’amata serva nera Tata (che si era presa
cura di lei fin dalla nascita) per andare a vivere con le sorelle di Pedro nella
capitale, in cui le figlie Caridad e Margarita avrebbero avuto anche migliori
opportunità di trovare un marito all’altezza del loro ceto sociale.
Durante tutta la prima parte dell’opera, al racconto primo incentrato sulle
vicende familiari di Rosa in una Cuba pre-rivoluzionaria, si alternano lunghe
digressioni sulla vita dei bisnonni Mariela e Paolo Moro, emigrati sull’isola dalla
Spagna, per rivendicare una concessione terriera ricevuta dal re, come
riconoscimento della fedeltà e del servizio prestato per la corona spagnola. Dopo
aver deforestato l’area remota e depressa di Cienfuegos e avervi costruito una
sontuosa dimora in stile neoclassico (denominata Tres Flores), Paolo fa piantare
nel cortile di casa un arancio portato direttamente dalla Spagna, come simbolo
delle proprie origini iberiche (a cui allude anche l’albero genealogico iniziale).
L’arancio viene più volte citato dalla narratrice e farà da salda linea di continuità
per le successive generazioni.
143
Avvia quindi le piantagioni di zucchero e tabacco, servendosi della
manodopera degli schiavi (stipati nei “barracones”10). Tra questi, un ruolo a parte
è assegnato a Tata, comprata da un colono inglese che l’aveva denominata “the
ancient one”11. Tata potrebbe essere quindi la misteriosa anziana che appare nella
scena iniziale. Tata aveva vissuto da sempre a Cienfuegos e, grazie alle sue doti di
guaritrice ed alle amorevoli cure con cui si occupa della famiglia Moro, negli anni
rappresenterà un solido punto di riferimento emotivo ed educativo, in particolare
per le generazioni più giovani.
Mentre la ricchezza terriera dei Moro si va consolidando, Paolo conquista
– attraverso laute donazioni – i favori di Padre Rabia, il parroco gesuita del
villaggio, anch’egli venuto dalla Spagna con un gruppo di suore carmelitane.
Grazie alla sua intercessione ed ai succulenti dolci preparati da Tata ed offerti agli
abitanti del paese, la famiglia si integra gradualmente nella comunità locale,
riuscendo anche a far accettare la presenza dell’anziana serva, inizialmente
malvista dalla comunità locale ed accusata di essere un pericolosa “cimarrona” o
una “bruja” 12 venuta dalle montagne.
La narrazione si sposta quindi in avanti di cinque anni, rispetto alla scena
iniziale, e ci mostra Rosa – ormai stabilitasi all’Avana con la sorella María e le
figlie adolescenti Caridad e Margarita – incinta, dopo una serie di pericolosi aborti
e nonostante l’ammonimento dei medici ad evitare ulteriori gravidanze. Pedro
continua a recarsi con frequenza a Cienfuegos per controllare l’andamento delle
10
“Baracche”. Ibidem, 66.
“L’anziana”. Ibidem, 13.
12
“Schiava fuggiasca”, “strega”. Ibidem.
11
144
piantagioni ereditate dal suocero Antonio e ormai coltivate da braccianti locali,
estremamente devoti agli Amargo13.
Proprio nelle settimane finali della sua gestazione, ignorando l’espresso
divieto di Pedro, Rosa decide di raggiungerlo a Cienfuegos con le due figlie,
intraprendendo un lungo viaggio in treno, scortata dal servo Manuel, per poter
riabbracciare nuovamente l’amata Tata e ricongiungersi al marito. Quest’ultimo,
offeso dall’irriverenza della moglie e seccato dalla sua intrusione che intralciava
anche la messa in atto dei suoi abusi sulla serva mulatta Casandra, non accoglie
favorevolmente la sua visita a sorpresa. La mattina successiva al suo arrivo, dopo
aver contemplato la bellezza della moglie ancora addormentata, parte per visitare
le coltivazioni della tenuta, senza svegliarla né salutarla. Nel frattempo, la figlia
tredicenne Margarita, esce dal recinto della casa e si avventura da sola per le vie
del paese, gremite di gente in occasione dei festeggiamenti della Vergine del
Carmelo.
Quando Rosa apre gli occhi svegliata da una “Mayan Goddess”14 che le si
era presentata in sogno, inizia a sentire alcuni dolori e – mentre cerca di
tranquillizzarsi – vede lo spirito della madre defunta Rafaela, seduta al tavolo
della sua stanza. Rosa vive quest’apparizione con estrema naturalezza, anche
grazie alla convinzione diffusa che le donne incinta siano più sensibili ai segnali
dell’aldilà, e ne approfitta per chiedere alla madre quale sarà il sesso del nascituro,
mossa dalla speranza di poter finalmente soddisfare le aspettative del marito,
dando alla luce un figlio maschio. Rafaela evita però di risponderle e, per la prima
13
La schiavitù a Cuba viene abolita nel 1886, come conferma la cronologia curata da J.A. Sierra
su “The Timetable of the History of Cuba” <http://historyofcuba.com/>. Data di accesso 04
novembre 2012.
14
“Divinità maya”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 131.
145
volta, le confida in lacrime le angherie subite in vita: prima dal padre Paolo e poi
dal marito Antonio. Quest’ultimo, oltre ad esser stato estremamente freddo ed
autoritario, non le aveva mai perdonato la morte prematura dell’unico figlio
maschio che aveva messo al mondo.
Di lì a poco, Rosa viene trafitta da un dolore lancinante che la fa cadere a
terra, priva di vita. La serva Casandra, alla quale Tata aveva lasciato il compito di
vigilare sulla donna in sua assenza, dal cortile della casa si accorge dell’accaduto
e corre in suo soccorso. Quando Tata fa ritorno dai monti dove era solita recarsi,
trova la giovane mulatta distesa sul corpo senza vita di Rosa nel tentativo di
ripararla dalla pioggia battente. Casandra aveva inoltre già provveduto a lavare e
proteggere i due gemelli che Rosa aveva messo al mondo – uno dei quali, era nato
morto.
Nel frattempo, Pedro cade da cavallo e si ferisce gravemente, durante la
strada di ritorno dalle piantagioni; mentre Margarita, dopo aver assistito alla
processione ed aver fatto visita alla chiesa del paese, rientra a casa sempre da sola,
quando la mamma è ormai morta. La prima parte dell’opera di chiude proprio con
le parole di Tata che accoglie la ragazzina al suo rientro, “I couldn’t help her, niña.
There was nothing I could do”15.
A fare da ponte tra la prima parte (denominata “Part One”) e l’ultima
(denominata “Part Two”), vi sono una serie di lettere che María, la sorella di Rosa,
scrive alla nipote Margarita, nel frattempo trasferitasi negli Stati Uniti. Queste
epistole coprono un arco temporale di circa venti anni, dal febbraio del 1964 al
marzo del 1982 e si differenziano dal resto del romanzo sia per il carattere
15
“Non sono riuscita ad aiutarla niña. Non ho potuto fare niente”. Ibidem, 193.
146
tipografico utilizzato sia per lo sfondo su cui sono stampate, che vuole imitare,
anche graficamente, una corrispondenza reale.
Nelle sue lettere María descrive alla nipote la dura situazione storicopolitica della Cuba post-rivoluzionaria, alludendo alle ristrettezze alimentari, alla
drastica perdita di libertà d’espressione, alle inique azioni della polizia politica, ai
campi di lavoro per gli omosessuali e alle espropriazioni messe in atto dai seguaci
della rivoluzione, nel tentativo di realizzare l’ideale castrista di una società senza
classi. Le racconta anche di come Pedro, il padre, avesse perso la lucidità e stesse
degenerando in uno stato di malattia mentale, per il dolore legato alla perdita di
Rosa e per l’incapacità di accettare le scelte di vita della figlia, che rinnega
fermamente, chiedendone addirittura la cancellazione dai registri parrocchiali.
Pedro si rifugia in un cieco sostegno delle ideologie rivoluzionarie che, ad un
certo punto, gli si ritorceranno però contro, facendolo sprofondare in una voragine
di disillusione. La sua casa di Calle Semilla all’Avana, viene infatti posta sotto
sequestro, costringendolo a tornare dalla cognata e da Tata nella tenuta di
Cienfuegos.
Alcune delle lettere non sono né firmate né datate, altre sono solo
frammenti, altre ancora sono ripetute ed in ogni caso non appaiono in
progressione cronologica. La voce della zia María si alterna di tanto in tanto a
quella di Tata che, essendo analfabeta, chiede aiuto a Checha o ad altre serve, per
scrivere a Margarita. Nelle sue rare lettere anche Tata racconta il suo punto di
vista su Cuba e sulla situazione della sua famiglia, fornendo sempre una visione
alternativa e più profonda, come quando le rivela che si è messa in contatto con lo
spirito di Rosa, anticipandole la morte imminente del padre. Proprio mentre la
147
morte di Pedro si avvicina, l’uomo cambia idea sulla figlia e comincia a chiedere
ripetutamente di lei e del figlio che la donna ha messo al mondo nel frattempo.
Poiché le lettere non ricevono nessuna risposta da Margarita – anche se
sappiamo da due riferimenti della zia, che la donna ha fatto arrivare sue notizie a
Cienfuegos (“we haven’t heard from you in over three years”; “he makes me read
your letters over and over again” 16 ) – l’ultima parte dell’opera (“Part Two”)
sembra proprio colmare il vuoto di informazioni amplificato da questa
corrispondenza a senso unico.
La
protagonista
dell’ultima
parte
è
infatti
una
Margarita
quarantacinquenne, descritta nel marzo del 1986 mentre riapre per le vacanze di
Pasqua la casa di famiglia sulla costa del New Jersey. Attraverso i ricordi della
donna, ora sposata con Joey e madre di due figli – Lilly e Peter – si ricompongono
i tasselli mancanti della narrazione, in particolare le parti che seguono la morte
della madre, le circostanze che hanno portato Margarita ad abbandonare l’isola, il
suo adattamento alla vita negli Stati Uniti ed infine la sua nuova dimensione
coniugale e familiare.
Apprendiamo quindi che dopo tre settimane trascorse a letto per lo shock
dovuto alla perdita della madre, quando la piccola Margarita si riprende scopre
che il padre l’aveva abbandonato a Cienfuegos. Era infatti tornato nella casa della
capitale, dopo aver disposto che le figlie fossero affidate tutte e tre (includendo la
neonata, battezzata Violeta) alle suore carmelitane del villaggio. Margarita è
l’unica che viene sottratta a questo destino, grazie al fermo diniego di Tata, che
impedisce a Pedro di consegnarla al convento.
16
“Non sappiamo niente di te da tre anni”, “mi fa rileggere le tue lettere continuamente”. Ibidem,
194, 215.
148
Il giorno del suo quindicesimo compleanno il padre, pentito, riappare a
Cienfuegos per riportarla con sé nella casa de L’Avana, dove Margarita può
rientrare nella stanza della mamma (rimasta ancora sorprendentemente intatta, a
distanza di due anni), riscoprendo alcuni suoi preziosi cimeli: come lo specchio
decorato, la valigia personale, il porta cipria di pelle, ed in particolare il suo diario.
Spinta da Tata che l’aveva più volte incoraggiata a non dimenticare il passato
della propria famiglia, né i sogni che animavano le sue notti, Rosa aveva infatti
trascritto per anni i suoi pensieri nel suo “green Morocco note book”17, su cui
anche Margarita scriverà fino al 1964.
Nel frattempo, attanagliato dai sensi di colpa per non aver svegliato e
salutato Rosa l’ultima mattina in cui l’ha vista in vita, e vivendo nell’angoscia di
perdere anche sua figlia, Pedro preso da un forte spirito di protezione, la educa
con rigore e severità, scoraggiando ogni vanità femminile fino al punto da
impedirle di usare l’amato specchio decorato della mamma.
Dopo diversi anni, le annuncia di averla promessa in sposa a Raúl
Casagrande – figlio di un suo collega d’affari. La ragazza tuttavia non accetta la
proposta e rivela al padre di essere incinta di un altro uomo, Pedro reagisce con
estrema durezza e la caccia di casa. Nonostante la fiducia riposta in lui, la ragazza
viene allontanata crudamente anche dal suo compagno, un fervente seguace degli
ideali rivoluzionari. Questi di fatto, non può accettare di vedersi associato a lei e
al passato colonialista della sua famiglia. La abbandona quindi in mezzo ad una
17
“Taccuino verde in pelle marocchina”. Ibidem, 145.
149
strada, gridandole contro parole spietate: “words [that] stung her like a sharp thorn
in her side […]: ‘Go back to your rich father. Eres una puta’”18.
Dopo essersi vista negare ospitalità anche dalla zia María, che non accetta
la vergogna di un nipote illegittimo, Margarita trova finalmente rifugio dai cugini
Ignacío e Lucía. In seguito alla nascita del bambino e alla presa di potere da parte
delle milizie rivoluzionarie, Margarita comincia a temere ripercussioni contro di
lei e del figlio. In uno stato di forte incertezza politica e sociale, decide allora di
prendere contatti con il consolato americano, per poter lasciare l’isola. Le viene
quindi spiegato che per ottenere un visto sarebbe dovuta partire da sola, lasciando
il figlio ad un’abbiente famiglia americana sull’isola, per poi chiedere il
ricongiungimento, non appena avesse ottenuto la cittadinanza statunitense.
Pur tra laceranti titubanze Margarita accetta la proposta e parte per Miami
stringendo tra le mani la foto del figlio. Al suo arrivo la donna trova lavoro come
inserviente per una famiglia cubana, i Maradona, ma è subito scioccata dalla
superficialità e dal materialismo della cultura che la circonda e decide di
racimolare al più presto possibile il denaro necessario per poter tornare dal figlio.
Passa quindi da un lavoro all’altro, fino al giorno in cui riceve un telegramma che
spezza definitivamente in due la sua vita: il consolato americano la informa della
tragica morte del figlio, a seguito di un attentato messo in atto dal gruppo
antirivoluzionario “The Freedom Fighters”19.
Sentendosi tradita da ogni parte (dalla famiglia, dal compagno sostenitore
della rivoluzione e persino dai seguaci della libertà), decide allora di tagliare
drasticamente i ponti con il proprio passato. Si trasferisce ad Atlanta, lontano dalla
18
“Parole [che] la punsero come una spina acuminata nel fianco […]: ‘Tornatene dal tuo ricco
padre. Eres una puta’”. Ibidem, 278.
19
“I lottatori della libertà”. Ibidem, 283.
150
comunità cubano-americana di Miami, cambia il suo nome in Daisy ed inizia a
studiare ossessivamente inglese, pur di dimenticare la sua lingua materna. Sempre
in Georgia conosce e sposa Joey, con il quale si trasferirà nel Nord-est senza mai
far menzione della propria vita precedente. Quando dopo dieci anni di matrimonio
rimane incinta, la donna crede finalmente di poter riscattare la perdita del figlio,
mettendo al mondo un “sostituto”. Ma le sue illusioni si frantumano di fronte alla
nascita di una bambina – Lilly, che ha nel viso gli stessi tratti somatici della
mamma: “Rosa’s features had been repainted onto her granddaughter’s face”20.
Dopo appena otto mesi, Margarita rimane nuovamente incinta, ma questa
volta il suo desiderio viene esaudito e la donna partorisce un figlio maschio, Peter,
che sarà fin da subito il suo favorito. Lilly cresce dunque all’ombra del fratello,
sentendosi trascurata dalla madre, ma soprattutto incapace di penetrare il muro di
silenzio sul passato della famiglia, che Margarita ha eretto tra sé e la figlia.
Frugando tra i cassetti della madre, Lilly ritrova il prezioso diario che la
mamma aveva ereditato da Rosa e comincia ad esplorarlo, cercando di intuire il
significato dei misteriosi scritti in spagnolo, o di immaginare l’identità delle
persone dai visi familiari che appaiono nelle foto in bianco e nero che conteneva.
Ad un certo punto la ragazza sente l’impulso di trascrivere nello stesso diario
alcune visioni esotiche e suggestive che avevano iniziato a popolare la sua mente,
dal giorno del ritrovamento.
Contemporaneamente, Margarita si rende conto della lontananza che la
stava irrimediabilmente isolando dalla figlia e sente l’urgenza di fare i conti con il
proprio passato. Decide allora di aprire il pacco di lettere che negli anni aveva
20
“I tratti di Rosa erano stati ridipinti sul viso della nipote”. Ibidem, 258.
151
ricevuto da Cuba e che aveva consapevolmente deciso di non leggere (ad
eccezione della prima), per evitare il dolore del ricordo. Margarita aveva risposto
alla zia soltanto due volte, per annunciare la nascita del nipote e per accertarsi
delle condizioni di salute di Tata, di cui presentiva la morte.
Mentre si trova con tutta la famiglia nella casa estiva sulla costa del New
Jersey, trascorre allora un’intera notte a leggere le parole della zia e di Tata.
Apprende dunque che cosa era successo nei ventisei anni in cui era stata lontana
dall’isola, venendo a conoscenza anche delle drammatiche condizioni di vita dei
cubani e della morte del padre che, fino all’ultimo, aveva chiesto di lei.
Si rende conto allora che è giunto il momento di perdonarlo, liberandosi
dalla sofferenza che l’aveva imbrigliata in sé stessa per anni. Dopo essersi punta
con le spine di un cactus del proprio giardino, Margarita emette un grido profondo
che le permette di rielaborare il proprio dolore e di liberarsi dalla rabbia che aveva
covato fino a quel momento. Raggiunge quindi la figlia nella sua stanza e la trova
circondata dalle foto, dai ritagli a dagli scritti del “green Morocco notebook”. È il
giorno del suo compleanno e Margarita, dopo averle fatto gli auguri, asseconda il
desiderio della ragazza che le chiede di raccontarle di Cuba. Inizia così un lungo
racconto che Lilly ascolta (e forse trascriverà) “like a disciple”21.
4.1.3 Intrecciando voci e prospettive
L’opera è caratterizzata da un’architettura romanzesca corposa e non
lineare che, andando avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mescola scene
della Cuba coloniale, precomunista e post-rivoluzionaria, a episodi ambientati a
21
“Come una discepola”. Ibidem, 353.
152
Miami, Atlanta, e nel New Jersey, fino a coprire un arco temporale di due secoli
(dal XIX al XX), ed una geografia che va dai Caraibi alle coste del Nord Est degli
Stati Uniti.
Il romanzo si configura quindi come un trittico (“Parte One”, lettere e
“Part Two”) sorretto da un’unica voce narrante in terza persona, femminile,
onnisciente e in posizione eterodiegetica, con una focalizzazione variabile, da zero
a interna, che assume di volta in volta il punto di vista delle tre protagoniste
dell’opera: Rosa (la prima generazione), Margherita (la seconda) e Lilly (la terza).
Non è soltanto la focalizzazione a cambiare ma anche il linguaggio (fortemente
condizionato dall’età delle protagoniste e dal tempo della narrazione), che
contribuisce a ricreare le modalità espressive dei personaggi e, più in generale, la
loro prospettiva, ovvero “everything that exists in the mind of a character, […] the
sum of all the models he/she has constructed of the world, of others and of
herself”22.
Nella prima parte, ad esempio, nonostante i tempi verbali siano tutti al
passato, si ricrea un effetto di immediatezza e di assenza di filtri nella narrazione,
grazie all’universo puerile di una Margarita poco più che tredicenne, reso
attraverso un linguaggio infantile, semplice e diretto, puntellato di immagini
vivissime, con le quali spesso si compensano le carenze lessicali o le difficoltà di
comprensione dei fatti.
E così ad esempio, mentre nella casa di Calle Semilla assiste alle
chiacchiere da salotto delle zie, costretta a stare in silenzio perché la buona
22
“Tutto ciò che esiste nella mente dei personaggi, […] la somma di tutti i modelli che essi hanno
costruito del mondo, degli altri e proprio”. Ansgar Nünning, “On the Perspective Structure of
Narrative Texts: Steps towards a Constructivist Narratology”, New Perspectives on Narrative
Perspective, eds. Peer, Willie Van e Seymour Benjamin Chatman (Albany: State University of
New York Press, 2001) 211.
153
educazione prescrive che “girls should be seen and not heard unless they’re
invited to speak” 23 , Margarita non può fare a meno di notare la corporatura
pasciuta di una delle zie (tanto dissimile da quella esile e aggraziata della sorella
Rosa), descrivendola con le immagini che le erano più familiari: “[h]er fingers
were like chorizos. How can one be so slim and the other such a gordita?”24. Allo
stesso modo, il mondo degli animali è un prezioso serbatoio di immagini per la
sua candida fantasia e quando osserva i facchini neri che spostano freneticamente
le pesanti valige della mamma, li paragona a delle “giant ants”25. Il giorno della
sua prima Comunione invece, Margarita è talmente emozionata con non osa
neanche cantare per la paura che “a cloud of yellow butterflies would escape from
her churning stomach and fly through the air above her head”26.
In un’altra occasione, dopo aver ascoltato di sfuggita una conversazione su
di una certa “condizione” in cui si trovava Rosa, la piccola inizia subito a
preoccuparsi per la salute della madre (“Can you die from a condition?”27) ma le
sue insistenti richieste di spiegazioni sono eluse dalle zie imbarazzatissime, che
non hanno il coraggio di parlare della gravidanza di Rosa, e finiscono per definirla
misteriosamente un sacrificio: “it’s a small sacrifice, dear niece, that all of us,
must learn to accept”28.
Grazie ad un occhio interno sul suo stato d’animo, apprendiamo che la
piccola – scoraggiata e confusa dalle risposte sibilline delle adulte – non desidera
23
“Le ragazze si devono vedere ma non sentire, a meno che non siano invitate a parlare”. O’Reilly
Herrera, The Pearl of the Antilles, 44.
24
“Le sue dita erano come chorizos. Come può una essere così magra e l’altra una tale gordita”.
Ibidem, 32.
25
“ Mosche giganti”. Ibidem, 108.
26
“Una nube di farfalle gialle potesse fuoriuscire dal suo stomaco in subbuglio, volando nell’aria
sopra la sua testa”. Ibidem, 76.
27
“Si può morire per una condizione?”. Ibidem, 28.
28
“È un piccolo sacrificio cara nipote, che tutte noi dobbiamo imparare ad accettare”. Ibidem, 30.
154
altro che poter tornare nel suo rifugio prediletto: Tres Flores (il nome dato alla
loro casa di Cienfuegos), per ascoltare, senza complicazioni né orpelli, le amate
storie di Tata e della zia Marta e potersi finalmente liberare delle sue scarpe
scomode, tanto rigide quanto l’educazione imposta dalle zie:
Now, sitting among the circle of women, who insisted upon
talking in riddles, Margarita felt more confused than ever, and Tata
wasn’t there to explain. Imprisoned in her stiff shoes and her starched
dress, Margarita could not help but think how miserable she was, and
how much more she preferred the long, balmy evenings at Tres Flores
when she and Caridad, along with Tía María and her mother, would sit
in a circle listening to her great-aunt, Tía Marta, tell stories.29
E poiché nessuna le aveva mai spiegato dei cambiamenti del corpo
femminile, il giorno della sua prima mestruazione la povera Margarita è convinta
di essere stata ferita: “somehow she had been wounded during the night. […] She
was certain that she had contracted the very same condition her mother and aunt
had spoken about in whispers”30.
O ancora è attraverso gli occhi candidi e privi di artifici della piccola
protagonista, che il narratario apprende della povertà che dilaga nell’isola e di cui
il padre inspiegabilmente sembra non accorgersi, quando sfoggia la sua
scintillante auto cromata americana, nei sobborghi de L’Avana:
Despite her father’s insistence that there was no poverty in Cuba –
“it’s a paradise”, he would insist whenever she questioned him –
Margarita could not shake herself free of the memory of the children
by the side of the road – with their bare feet and large, distended
bellies – though they seemed to be invisible to everyone but her.31
29
“Ora, seduta in mezzo al cerchio di donne che continuavano a parlare per enigmi, Margarita si
sentiva più confusa che mai e Tata non era lì a darle spiegazioni. Imprigionata nelle sue scarpe
rigide e nel vestito inamidato, Margherita non poté fare a meno di pensare a quanto fosse triste e a
quanto preferisse le lunghe e tiepide serate a Tres Flores, quando lei e Caridad, insieme a Tía
María e a sua madre, sedevano in cerchio ad ascoltare la prozia, Tía Marta, che raccontava storie”.
Ibidem, 30.
30
“In qualche modo era stata ferita durante la notte. […] Era sicura di aver contratto la stessa
condizione di cui la mamma e la zia avevano parlato bisbigliando”. Ibidem, 67.
31
“Nonostante il padre insistesse che non c’era povertà a Cuba – ‘è un paradiso’, ripeteva
ogniqualvolta lei glielo chiedesse – Margarita non riusciva a liberarsi dal ricordo dei bambini sul
bordo della strada – a piedi scalzi e con grandi pance dilatate – che sembravano invisibili agli
occhi di tutti, tranne i suoi”. Ibidem, 128.
155
Quando le posizioni degli adulti e le loro costruzioni culturali vengono
filtrate dagli occhi della bambina, si rivelano assurde e prive di fondamento. Per
questo la sua ottica infantile ed estraniata viene spesso usata per portare alla luce i
temi tabù dell’educazione femminile dell’epoca, i cliché della cultura tradizionale
e le ipocrisie dell’aristocrazia terriera.
Nell’ultima parte del romanzo, quando la focalizzazione interna torna su
Margarita – ormai donna di mezza età, disillusa e sfiorita, che ricorda il proprio
passato sull’isola, attraverso frequenti analessi – l’effetto che si ricrea è quello di
una narrazione “ulteriore”32 ed estremamente lontana dal tempo in cui si suppone
si siano svolti i fatti. La voce narrante stessa assume quindi toni più maturi e
consapevoli, mentre a livello di immagini scompare il linguaggio altamente
figurato, ricco di sinestesie (“a white electric pain”; “red chaos”33) e di vivide
descrizioni del paesaggio rigoglioso dei Caraibi, per lasciare spazio a figure
retoriche più cupe e spente: come in una transizione simbolica del personaggio
dall’eterna primavera di Cuba, all’autunno degli Stati Uniti.
Nella prima parte abbondano i riferimenti ai colori, ai profumi ed alla
natura lussureggiante:
“while she spoke, the fabric sprouted and bloomed beneath her needle
like a tropical garden” (30); “an anarchy of colors and smells that
drowned Rosa’s senses” (130); “the women […] balanced baskets
filled with succulent, exotic fruits and brightly colored flowers upon
their heads” (140); “they formed a riot of shapes and colors (182)”.34
Nell’ultima parte, al contrario, prevalgono le immagini spente e asfittiche
in cui si concretizza lo stato d’animo di Margarita. Ciò accade, ad esempio
32
Gérard Genette, Figure III: Discorso del racconto (Torino, Einaudi, 1986) 264.
“Un bianco dolore elettrico”, “caos rosso”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 183, 188.
34
“Mentre parlava, il tessuto sbocciò e fiorì sotto il suo ago, come un giardino tropicale” (30);
“un’anarchia di colori e odori che inondò i sensi di Rosa” (130); “le donne [...] tenevano in
equilibrio sulla testa ceste piene di frutti esotici e succulenti, e fiori variopinti” (140); “Formavano
un tripudio di forme e colori” (182). Ibidem.
33
156
quando riceve la notizia della morte della zia María (“something had snapped
within her like a branch caught underfoot on an autumn day […], the life she had
kept so tightly wrapped, like the leaves of her father’s thick black cigars, had
come undone”35); o quando la donna si guarda allo specchio e descrive il suo
avvilimento:
“the person who stared back at her from the glass looked like a
faded flower” (272); “The years had gutted her like the deer that Joey
brought home from the mountains during hunting season on the roof
of his car, […] the years had lacquered and sealed her up like one of
the polished Chinese boxes on her mother’s dressing table” (273).36
Quando lo sguardo di Margarita si rivolge al passato, la voce narrante fa
invece emergere chiaramente la frizione tra l’“io” che ricorda” e l’“io” che ha
vissuto 37 , con commenti che rivelano come la percezione del vissuto sia
rimodellata in base alla consapevolezza presente del personaggio. Lo dimostrano
le riflessioni più meditate e fatte a posteriori con cui vengono descritti alcuni
episodi della vita a Cuba di Margarita, nell’ultima parte dell’opera; come quando
nel raccontare il funerale della madre, la donna realizza che quel giorno ha
segnato la fine della sua infanzia: “Now, in retrospect, she realized that in a single
afternoon the world as she had known it had simply vanished and her childhood
35
“Qualcosa si era spezzato dentro di lei come un ramo pestato in un giorno di autunno [...], la vita
che aveva tenuto così strettamente avvolta, come le foglie degli spessi sigari neri di suo padre, si
era srotolata”. Ibidem, 248.
36
“La persona che la fissava dal vetro sembrava un fiore appassito” (272); “Gli anni l’avevano
sventrata come il cervo che Joey portò a casa dalle montagne durante la stagione della caccia sul
tetto della sua auto, [...] gli anni l’avevano laccata e sigillata come una delle scatole cinesi lucide
sul tavolino di sua madre” (273). Ibidem.
37
Erll li definisce “remembering I” e “experiencing I”. Astrid Erll, “Narratology and Cultural
Memory Studies”, Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Narrative Research, eds. Heinen,
Sandra e Roy Sommer (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 223.
157
abruptly ended” 38 , una considerazione che non poteva appartenere ad una
Margarita tredicenne.
La parte centrale, quella delle lettere, segna invece il passaggio da una
voce narrante eterodiegetica ad una omodiegetica, in particolare nelle epistole di
María, in cui la donna prende personalmente la parola per dare a Margarita la sua
testimonianza sulla condizione della famiglia e sugli accadimenti della Cuba postrivoluzionaria. Il tempo della narrazione in questo caso è “intercalato”39, ma non
secondo lo standard canonico del romanzo epistolare, per la totale assenza di
risposte da parte del destinatario – fatta accezione per i due riferimenti indiretti a
delle lettere che Margarita sembra aver spedito ma che, in ogni caso, non vengono
fornite nel testo. Le voce di María si dilata quindi fino ad assumere quasi le
sembianze di un monologo, che conserva una delle maggiori peculiarità di questa
forma di narrazione, ovvero la lieve discordanza temporale tra la simultaneità
assoluta nell’esposizione dei pensieri (o il “quasi monologo interiore”) ed il
resoconto successivo allo svolgimento dei fatti. Prendendo in prestito il
linguaggio radiofonico, Genette descrive questo sfasamento come la distinzione
tra il “collegamento in diretta” e la “trasmissione in differita”40.
Pur considerando la vicinanza e la quasi simultaneità tra la storia ed il
racconto nelle lettere di María, ci troviamo comunque di fronte a due protagoniste
successive (quella che vive i fatti e quella che li racconta), in cui solo la seconda
corrisponde in pieno alla narratrice delle epistole. Di fatto, le considerazioni e gli
avvenimenti esposti, sono in ogni caso mediati e rispecchiano il punto di vista
38
“Ora, in retrospettiva, si rese conto che in un unico pomeriggio il mondo, così come lo aveva
conosciuto, era semplicemente svanito e la sua infanzia era terminata all’improvviso”. O’Reilly
Herrera, The Pearl of the Antilles, 252.
39
Genette, Figure III, 264.
40
Ibidem, 265.
158
ponderato di una María che ha potuto riflettere su ciò che è accaduto (anche solo
poche ore prima) e che negli anni ha acquisito un occhio critico più disincantato,
soprattutto alla luce delle esperienze precedenti.
E così, se nelle prime lettere, scritte dopo aver assistito a detenzioni
ingiuste da parte del governo, María continua a farsi portavoce della convinzione,
diffusa in quel momento, che tutto sarebbe tornato alla normalità nel giro di un
anno (“in a year or so things will get back to normal”); nelle ultime missive non
solo non cita più questa possibilità, ma si appella alla nipote affinché invii viveri
(“If you can, send us some Lipton Chicken Noodle”) o affinché possa attivarsi per
accedere al piano di ricongiungimento familiare (“The government has
inaugurated the family reunification program. Por favor, nena, ven con tu hijo”) 41.
La comunicazione con la nipote – comunque a senso unico – è inoltre
ostacolata da una serie di “rumori” che intralciano la trasmissione del messaggio.
Si tratta di interferenze fisiologiche (come l’artrite o la vecchiaia della zia) o di
evidenti interferenze esterne, come la forte censura del regime castrista ed il
terrore dei cubani di essere intercettati e detenuti, che induce María a non firmare
molte delle sue lettere, a omettere i cognomi o i nomi dei luoghi, a riscrivere più
volte le stesse missive, pur di farle arrivare alla nipote etc.:
Fear keeps me from signing my letters or using the last names of
our relatives and friends. We are told that the revolution has
guaranteed all Cubans freedom of speech – qué chiste – so I trust that
with a little help from a few friends here and there, my letters will
reach your hands. […] You know my arthritis bothers me, but I
promise to write whenever I can.42
41
“In un anno o poco più, le cose torneranno alla normalità”, “Se puoi, mandaci la minestra di
pollo Lipton”, “Il governo ha inaugurato il programma di riunificazione familiare. Por favor, nena,
vieni con tuo figlio”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 195, 219, 229.
42
“La paura mi impedisce di firmare le mie lettere o di usare i cognomi dei nostri parenti e amici.
Dicono che la rivoluzione ha garantito a tutti i cubani la libertà di parola – qué chiste– così credo
che con un piccolo aiuto da alcuni amici qua e là, le mie lettere arriveranno nelle tue mani. [...] Sai
che la mia artrite mi dà fastidio, ma prometto di scrivere tutte le volte che potrò”. Ibidem, 197.
159
A posteriori apprenderemo poi attraverso Margarita, che molte lettere sono
comunque andate perse, vista l’irregolarità delle date d’arrivo e i riferimenti
confusionari che esse contengono, mentre l’ultima arriva priva di contenuto: “with
this letter María had failed, for the envelope was empty and the bottom had been
sliced open with a sharp object like a bloodless wound”43.
L’altro tipo di rumore che ostacola la comunicazione tra le due donne è
invece di carattere psicologico e consiste nel blocco interiore e nel rifiuto che
Margarita oppone al suo passato. Questo atteggiamento la porterà a rigettare ogni
collegamento con Cuba (a cui niente sembra legarla dopo il ripudio del padre e
della stessa zia María, oltre che dell’uomo che aveva amato). Questa resistenza si
trasforma nel vuoto di scambio e comunicazione delle lettere morte. Margarita
sembra chiudere le orecchie della mente, del cuore e dell’immaginazione come
Ulisse, rifiutandosi di cedere alla voce delle sirene di Cuba per ventisei anni. Tanti
infatti ne passano dall’apertura delle lettere, fatta accezione per la prima:
Though she had continued to write to Tata and her aunt, Margarita
had never bothered to open up the letters that arrived from time to
time. Fearing that if she read them, she’d be tempted to return to
Cienfuegos – something she had vowed she’d never do – she had left
them untouched and forgotten in the top drawer of her writing desk.
She had read the first only to be sure that Tata had recovered. The
others remained sealed in their envelopes and arranged in the order in
which she’d received them”.44
Per le poche lettere scritte da Tata invece, nonostante l’uso della prima
persona e l’inevitabile sfasamento temporale tra storia e racconto, va considerato
anche un altro fattore: poiché l’anziana donna è analfabeta, le sue parole vengono
43
“Con questa lettera María aveva fallito, poiché la busta era vuota e il fondo era stato aperto con
un oggetto appuntito, come una ferita senza sangue”. Ibidem, 343.
44
Anche se aveva continuato a scrivere a Tata e alla zia, Margarita non si era mai preoccupata di
aprire le lettere che arrivavano di tanto in tanto. Temendo che, se le avesse lette, avrebbe avuto la
tentazione di tornare a Cienfuegos – cosa che aveva giurato di non fare mai – le aveva lasciate
intatte e le aveva dimenticate nel cassetto più alto della sua scrivania. Aveva letto la prima solo per
esser sicura che Tata fosse guarita. Le altre rimasero sigillate nelle loro buste, ordinate nell’ordine
in cui le aveva ricevute. Ibidem, 325.
160
trascritte da Checha, aggiungendo quindi un filtro ulteriore al suo discorso
(“Checha has offered to write for me, corazón”45). In ogni caso, grazie ai poteri
soprannaturali di Tata e alla speciale sintonia che la lega istintivamente e
telepaticamente a Margarita, l’anziana è al corrente di ciò che le sta accadendo ed
è più volte in grado di predirne il futuro, mostrando quindi i tratti tipici di un
narratore onnisciente. Lo confermano le parole di María, sorpresa dal fatto che
Tata sapesse già della nascita del figlio di Margarita, prima ancora che arrivasse la
lettera con cui la donna lo annunciava: “She knew you had given birth to a son
even before your father’s letter arrived” 46 ; o le prolessi in cui Tata anticipa a
Margarita il tragico futuro del figlio o la morte imminente del padre: “In time you
will learn to live without him”; “Don’t worry about your father, m’ija. He has
talked with your mother and soon they will be together again”47.
4.1.4 Women’s Language
Nonostante il carattere variabile della focalizzazione ed i cambiamenti nel
linguaggio con cui si ricrea l’universo interiore ed esteriore dei vari personaggi,
c’è una elemento della voce narrante che rimane invariato: il suo farsi veicolo di
personaggi di sesso femminile. Dall’inizio alla fine dell’opera, a tenere le redini
del racconto è sempre e comunque una narratrice donna, presumibilmente
identificabile con una Lilly adulta divenuta scrittrice.
45
“Checha si è offerta di scrivere per me, corazón”. Ibidem, 198.
“Sapeva che avevi partorito un bambino prima che arrivasse la lettera di tuo padre”. Ibidem, 195.
47
“Col tempo imparerai a vivere senza di lui”, “Non ti preoccupare per tuo padre, m’ija. Ha
parlato con tua madre e presto saranno di nuovo insieme”. Ibidem, 198, 216.
46
161
La prospettiva predominante del narratore – intesa come “the system of
preconditions or the subjective worldview of a narrating instance” 48 – è infatti
tutta costruita al femminile. All’interno delle 353 pagine che compongono l’opera,
ascoltiamo prevalentemente voci di donne, di diverse generazioni, età ed
estrazioni sociali. Gli uomini sono presenti, ma prendono la parola solo nelle
circostanze emblematiche della cultura patriarcale dell’epoca (per pianificare il
matrimonio delle figlie, per discutere di affari, per dettare le norme di
comportamento che si confanno ad una donna, etc.), sono autoritari, poco
sfaccettati, non disposti al dialogo e sempre presentati o attraverso una
focalizzazione zero, o tramite il punto di vista di una donna49.
È lo spirito di Rafaela, ad esempio, a ricordare le prevaricazioni subite dal
padre Paolo e dal marito Antonio nella sua conversazione con Rosa; mentre di
Joey sappiamo ben poco, se non dalle parole di Margarita, che lamenta la sua
superficialità, la mancanza di empatia e la profonda incomunicabilità che li separa.
Seguendo l’approccio della narratologia femminista di Susan Sniader Lanser che
coniuga identità sociale e forme narrative e analizza il sesso di una voce e la sua
autorevolezza a partire dalla “conjunction of social and rethorical properties”50,
quello che emerge è il discorso tipicamente femminile, frutto degli stereotipi
codificati fin dalla scrittura vittoriana.
48
“Il sistema di condizioni preliminari o la visione soggettiva del mondo di un’istanza narrativa”.
Nünning, “On the Perspective Structure of Narrative Texts”, 212.
49
Solo il personaggio di Pedro, in alcuni limitati episodi, viene descritto attraverso una
focalizzazione interiore.
50
“Combinazione di caratteristiche sociali e retoriche”. Susan Sniader Lanser, Fictions of
Authority: Women Writers and Narrative Voice (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1992) 6.
162
Questo si riflette in quella “women’s language, […] polite, emotional,
enthusiastic, gossipy, talkative, uncertain, dull, and chatty”51 comune alla maggior
parte dei personaggi femminili dell’opera, nel loro ruolo primario e quasi
obbligato di mogli devote. Ma emerge anche nella costruzione del racconto, con
l’abbondanza di pause, di scene descrittive, di analessi e di mises en abîme
associate all’universo femminile, che rallentano notevolmente il ritmo della
narrazione; contro i sommari, l’azione e le scene più rapide che caratterizzano il
discorso maschile.
Da qui i lunghi passaggi, soprattutto nella prima parte, dedicati alle
conversazioni da salotto tra donne, su tematiche ricorrenti, come l’ossessione per
l’erede maschio, la necessità impellente di trovare un marito (per non morire come
la zia María, sola e senza figli) o il rispetto del decoro. Ma anche l’ampio spazio
dedicato alla sfera dell’irrazionale e alle visioni, inserite come mises en abîme, e
frequenti in particolare durante la gravidanza, secondo la convinzione comune che
“pregnancy […] heightened women’s intuitions and dreams and made them more
receptive to visions and visitations”52; o ancora i numerosi e dettagliati racconti
dei sogni notturni delle protagoniste, spesso talmente reali da essere percepiti
come veri (“Rosa opened her eyes and looked around in disbelief. It had all been
so real, she was certain that it couldn’t have been a dream”53). Il mondo del sogno,
sembra infatti più ricco di quello vissuti da svegli.
51
“Lingua delle donne, […] educata, emotiva, entusiasta, pettegola, loquace, incerta, tenue e
chiacchierona”. Questa descrizione delle caratteristiche stereotipate attribuite alla voce femminile
appartiene a Cheris Kramarae ma è citata da Lanser in Fictions of Authority, 10.
52
“La gravidanza […] intensificava le intuizioni e i sogni delle donne, rendendole più ricettive alla
visioni e alle apparizioni”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 160.
53
“Rosa aprì gli occhi e si guardò intorno incredula. Era stato tutto così reale, che era sicura non
potesse essersi trattato di un sogno”. Ibidem, 131.
163
La “women’s language” della narratrice emerge anche a livello di scelte
lessicali, con immagini che prediligono campi semantici tipicamente femminili: i
fiori, le perle, le gemme, i ricami, ed altri elementi che caratterizzano la
quotidianità di una donna. Le figure retoriche che rimandano al mondo dei fiori
sono sicuramente le più numerose; e così, le anziane zie di Margarita, “looked like
a garish bunch of knotted flowers”; le madri prendono i loro figli in braccio “like
broken flowers” per salvarli da una violenta scorreria di banditi, che dopo aver
trucidato tre uomini “left the three men tied together like a bloody bouquet”;
Rafaela, costretta al silenzio e alla sottomissione dal marito, viene descritta come
un “curio case, a vase of cut flowers”; mentre, poco prima di morire, Rosa si piega
“like a cut orchid” e le sue mani si chiudono “like night flowers”54.
Sempre Rosa annota le sue memorie sul diario “stringing them together
like pearls on a string”; le parole del servo Tomás si perdono nell’aria “like
unstrung pearls in the wind”. O ancora la pioggia penetra nei vestiti “like cold
needles”, mentre il sole sbuca inaspettatamente tra le nuvole “[l]ike an unexpected
wedding guest”55.
Osservata più da vicino, l’architettura femminile costruita con minuzia
dalla narratrice, rivela però degli elementi di disturbo e dei tratti contraddittori,
che sembrano “incrinarla”, mostrandone il rovescio. I riferimenti lessicali ai fiori,
alle perle o ai ricami, ad esempio, vengono utilizzati anche per descrivere scene
sanguinose o inquietanti, non appropriate all’“ingenuity” 56 che si confà ad una
54
“Sembravano un mazzo sgargiante di fiori annodati” (16); “come fiori rotti” (143); “li lasciarono
legati insieme come un bouquet sanguinante” (145); “come un cofanetto di rarità, un vaso di fiori
tagliati” (174); “come un orchidea tagliata” (183); “come fiori notturni” (189). Ibidem.
55
“Infilandole insieme come perle su di un filo” (146); “come perle sciolte al vento” (187); “come
aghi freddi” (185); “[c]ome un invitato inatteso ad un matrimonio” (191). Ibidem.
56
“Ingenuità”. Lanser, Fictions of Authority, 9.
164
donna. Allo stesso modo, i cliché dell’educazione patriarcale, apparentemente
indiscussi ad un livello più superficiale del discorso, vengono in realtà più volte
“decostruiti” proprio da altre donne, in particolare da Tata e da Margarita, con il
loro linguaggio scarno e privo di sovrastrutture, che mette a nudo “la dimensione
propriamente simbolica del dominio maschile”57.
Quando l’anziana donna (che al contrario delle zie, non si tira indietro di
fronte alle domande di Margarita) deve spiegare alla piccola perché le donne non
siano ammesse nei cimiteri, le fa capire che “men like your father believe that
women are too delicate to handle la muerte […], [w]hat he doesn’t realize is that
every woman who has carried a child has ridden on La Pelona’s shoulder”58. Tata
trasmette a Margarita l’arbitrarietà culturale di alcuni preconcetti sulla donna
(come appunto la sua fragilità), utilizzando un linguaggio semplice e diretto, e
soprattutto riferito ad una sfera femminile e familiare per la bambina, che può
quindi coglierne con più facilità il messaggio. Di fatto, all’interno della stessa
conversazione, Tata paragona la consuetudine di non far entrare le donne nel
cimitero, all’abitudine delle cuoche di casa di friggere il pesce tagliandone
sistematicamente la testa e la coda. In origine, questa pratica era stata introdotta da
Manola che aveva a disposizione una padella troppo piccola e doveva quindi
necessariamente ridurre le dimensioni del pesce. Oggi che le cuoche utilizzano
padelle il doppio più grandi, continuano a ripetere lo stesso gesto in maniera
meccanica, senza neanche chiedersi il motivo.
57
Pierre Bourdieu, Il dominio maschile (Milano: Feltrinelli, 2009) 9.
“Uomini come tuo padre credono che le donne siano troppo fragili per gestire la morte […],
[c]iò che non capisce è che ogni donna che abbia partorito ha cavalcato la spalla della Pelona”.
O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 51.
58
165
Con le sue parole, Tata fa emergere il lato illogico ed irrazionale degli
automatismi culturali, mettendo quindi in discussione il valore assoluto di quelle
consuetudini, in realtà contingenti, su cui si basano le società androcentriche. La
sua critica sottile viene elaborata proprio utilizzando la stessa “women’s
language” (familiare a Margarita e a ogni altra donna), questa volta però per
veicolare una messaggio nuovo. Più che imporre il suo punto di vista, Tata mira a
spingere la piccola a farsi delle domande, per poter un giorno essere libera di
scegliere.
E così, in una loro conversazione successiva, quando Margarita le chiede
come mai avesse scelto di rimanere a Cienfuegos una volta finita la schiavitù,
l’anziana risponde proprio:
I chose to stay at Tres Flores. No one forced me to stay here. […]
The trick is to know the difference between when you are choosing for
yourself and when you are allowing others to choose for you. Always
remember, only you can choose to be happy, m’ija”.59
La stessa logica e lo stesso linguaggio essenziale e legato alla sfera del
femminile vengono estesi anche alla religione, che Tata reinterpreta dalla sua
ottica lucida ed estraniata, stimolando sempre Margarita a non dare nulla per
scontato. Per questo, quando la piccola le domanda perché si rifiutasse
sistematicamente di accompagnarla a messa, attraverso le parole della narratrice,
Tata paragona le chiese a delle zucche svuotate, e spiega quindi di preferire gli
elementi della natura (e quindi lo spazio aperto), come sue cattedrali simboliche:
“she preferred to pray at her place on the mountain, rather than in a building
carved out by human hands like a hollow gourd. The clouds were her cathedrals,
she insisted”. E quando la piccola intimorita le dice che così facendo, in base agli
59
“Ho scelto io di restare a Tres Flores. Nessuno mi ha costretto a stare qui. [...] Il trucco è sapere
la differenza tra quando si sceglie per se stessi o quando si lascia che siano gli altri a scegliere per
noi. Ricordalo sempre, solo tu puoi scegliere di essere felice, m’ija”. Ibidem, 81.
166
insegnamenti di Padre Rabia, sarebbe finita “laggiù”, l’anziana risponde
serenamente: “[b]ut maybe down there is really up there or over here. […] Who’s
to say m’ija?” 60.
Infine, il ribaltamento della “women’s language” e dei ruoli che essa
rafforza, non avviene solo a livello di linguaggio e di tematiche, ma anche al
livello del discorso, come dimostrano diversi passi che riguardano Pedro, l’unico
personaggio maschile ad essere presentato con una focalizzazione interna. La
narratrice dedica infatti ampio spazio ai suoi ricordi, con delle analessi che
rallentano notevolmente il ritmo della narrazione, come quando l’uomo ricorda il
suo primo incontro con Rosa61. Pedro è inoltre protagonista di quelle visioni a
metà strada tra sogno e realtà, di norma attribuite alle donne. Ad esempio,
nell’ultimo giorno di vita di Rosa, mentre si trovava nelle piantagioni sotto a un
sole rovente, l’uomo ha infatti un’allucinazione funesta in cui vede la moglie
sanguinare e cadere a pezzi, proprio mentre la donna stava morendo.
Perché, dunque, dopo aver costruito un discorso in apparenza
tradizionalmente e impeccabilmente femminile, l’autrice decide di farlo
“traballare”? La sua strategia potrebbe rientrare nelle “Fictions of authority” 62
utilizzate per acquisire autorevolezza e mettere in discussione le stesse retoriche
dominanti che sembra, solo apparentemente, rafforzare.
60
“Preferiva pregare nel suo posto in montagna, piuttosto che in un edificio simile a una zucca
vuota, scavata da mani umane. Le nuvole erano la sua cattedrale, insisteva”, “[m]a forse quel
laggiù in realtà è lassù o forse qui. […] Chi può dirlo m’ija?”. Ibidem, 134.
61
Da pagina 117 a 120 del romanzo.
62
“Narrative/finzioni di autorevolezza”. Lanser, Fictions of Authority, 8.
167
4.2 Family Installments: Memories of Growing Up
Hispanic, Edward Rivera
4.2.1 Sul solco dell’Underclass Lit
One of the editors who got in touch with me thought the
manuscript was “okay in its own way”, but not fictional enough.
Another editor suggested I make it less fictional, more “sociological”,
more “ethnic”, more like the saga of an “oppressed minority” instead
of the “inbred, self-absorbed family” I had cooked up. What they were
looking for was something more like an “updated” version of what
Piri Thomas’s ground-breaking Down These Mean Streets, an El
Barrio version of Claude Brown’s Manchild in the Promised Land,
had done for what I called to myself “Underclass Lit”: Spanglish to
spare, racism, drug dealing and addiction, violence, Sing Sing,
deliverance, Jesus Saves. Thomas’s belly-of-the-beast “memoir” was
what the times (and apparently, the N.Y.Times) wanted at the time,
and what they got. And it seemed they wanted more of the same while
the trend lasted.63
Come ho già illustrato nel capitolo 3, l’ombra che Piri Thomas proietta
sulla scrittura di Rivera, gli interessi commerciali della case editrici che spremono
fino all’ultima goccia i clichés di successo della “scuderia Latina”64, uniti alla
rabbia a lungo repressa dell’autore, al suo carattere schivo e a quella che è stata
definita “internalized ethnic shame” 65 sono essenziali per capire il lungo e
travagliato processo di scrittura dell’opera (durato oltre dieci anni), ma anche il
63
“Uno dei redattori che era in contatto con me pensava che il manoscritto fosse ‘accettabile, a
modo suo’, ma non sufficientemente romanzato. Un altro redattore mi ha suggerito di renderlo
meno romanzato e più ‘sociologico’, più ‘etnico’, più simile alla saga di una ‘minoranza oppressa’,
invece che a quella della famiglia di consanguinei assorta nei propri affari, che avevo inventato.
Cercavano una versione ‘aggiornata’ di quella che io chiamo tra me e me ‘letteratura del
sottoproletariato’, così come era stato fatta dall’innovativo Down These Mean Streets di Piri
Thomas, una rivisitazione ne El Barrio di Manchild in the Promised Land di Claude Brown:
Spanglish in abbondanza, razzismo, spaccio e tossicodipendenza, violenza, canzoncine,
assoluzione, ‘Gesù è la salvezza’. Il mémoir da pancia-della-bestia di Thomas era ciò che i tempi
(e apparentemente anche il New York Times) volevano al tempo, e ciò che ottennero. E sembrava
che ne volessero ancora, fino a che la tendenza durava”. Rivera, “Stable Manners”, 123.
64
Nello stesso articolo, Rivera si riferisce infatti agli autori Latinos commerciali di questo periodo
come “Latino stable”. Ibidem, 123.
65
“Vergogna etnica interiorizzata”. Alfredo Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating:
Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, in U.S. Latino Literature: A Critical Guide for Students
and Teachers, eds. Augenbraum, Harold, e Margarite Fernández Olmos (Westport, CT:
Greenwood Press, 2000) 76.
168
rigetto per la narrativa che investe l’autore subito dopo la pubblicazione di Family
Installments.
Rivera sente infatti sulle proprie spalle, il peso dei diffusi stereotipi
negativi sui latinos, ribaditi da espressioni ampiamente in uso fino agli anni
Novanta come “HisPANIC Causing Panic” 66 , che si riversano in particolare
contro i Portoricani di New York. Nell’immaginario collettivo, alimentato anche
da rappresentazioni di enorme successo come il musical West Side Story, i
Nuyoricans continuano infatti ad essere identificati come gangsters, forieri di
tensioni sociali, che tendono a non assimilarsi e sono restii a cercare un riscatto
dalla loro condizione di marginalità.
Quelle che in sintesi sono state definite “the social pathologies of the
‘Puerto Rican problem’” 67 , vengono però controbilanciate dallo strabiliante
successo della narrativa che a esse attinge, culminato nel boom di vendite di Down
These Mean Streets. È dunque nel difficile solco tra il mémoir etnico e le forme
spesso sclerotizzate della “Letteratura del sottoproletariato” che Rivera deve dar
forma alla sua voce autoriale, cimentandosi in un’impresa di fronte alla quale
autori a lui vicini per età e per origini come Ed Vega, si sono tirati indietro:
I started thinking about publishing a book, a novel. Then it hit me.
I was going to be expected to write one of those great American
immigrant stories like Studs Lonigan, Call It Sleep, or Father, which
was written by Charles Calitri, one of my English teachers at
Benjamin Franklin High School. Or maybe I’d have to write
something like Manchild in the Promised Land or a Piri Thomas’
Down These Mean Streets […]. I suppose I could do it if forced to, but
I can’t imagine writing a great autobiographical novel about being an
immigrant. In fact, I don’t like ethnic literature all that much except
when the language is so good that you forget about the immigrant
writing it.68
66
“IsPANICO causa panico”. Flores, “Pan-Latino/Trans-Latino: Puerto Ricans in the ‘New Nueva
York’”, From Bomba to Hip-Hop, 150.
67
“Le patologie sociali del ‘problema portoricano’”. Ibidem, 155.
68
“Ho iniziato a pensare alla pubblicazione di un libro, un romanzo. Poi mi è venuto in mente che
si sarebbero aspettati che scrivessi una di quelle grandi storie americane di immigrati come Studs
169
4.2.2 Quadro sinottico
Seguendo una traiettoria circolare, il racconto autobiografico di Santos
Malánguez – che nasce a Portorico ma cresce negli Stati Uniti continentali – si
apre e si chiude a Bautabarro, il villaggio sperduto tra le montagne dell’isola, da
cui ha origine tutta la sua famiglia. In linea con la tradizione delle biografie
eroiche, l’azione inizia però diversi anni prima della nascita del protagonista che,
nei primi due capitoli, ricostruisce in chiave eroicomica la genealogia dei propri
antenati e i luoghi in cui sono vissuti, descrivendo l’estrema miseria,
l’analfabetismo, la bigotteria e la precarietà che caratterizzavano le aree rurali e
più sperdute dell’isola, all’inizio del Novecento.
Il romanzo si apre con il suicidio dell’eclettico bisnonno paterno Xavier,
“itinerant school teacher, part-time painter, poetaster, guitar-picker, and
Mariolater”69 che getta vergogna sull’intera famiglia. Poiché la moglie Sara era
morta pochi mesi prima per una misteriosa malattia, i tre figli – Elias, Mitos e
Gerán (il futuro padre del protagonista) – rimasti orfani, vengono adottati da
Santos Malánguez, suocero di Xavier e uomo dall’infinita bontà d’animo, da cui il
protagonista riprenderà il nome. L’uomo è sposato con Josefa (“a loca”70), una
donna violenta ed in preda alla pazzia, che grida di notte e semina terrore per la
Lonigan, Call It Sleep, o Father scritta da Charles Calitri, uno dei miei insegnanti di inglese alla
Benjamin Franklin High School. O forse avrei dovuto scrivere qualcosa come Manchild in the
Promised Land o Down These Mean Streets di Piri Thomas […]. Suppongo che avrei potuto farlo
se fossi stato costretto, ma non riesco a immaginare di scrivere un grande romanzo autobiografico
sull’esperienza di immigrato. Difatti, non mi piace più di tanto la letteratura etnica salvo se la
lingua è così ben riuscita, da farti dimenticare dell’immigrato che l’ha scritta”. Ed Vega,
“Introduction”, The Comeback (Houston: Arte Público Press, 1985) xix.
69
“Insegnante di scuola itinerante, pittore part-time, poetastro, strimpellatore di chitarra e
adoratore di Maria”. Edward Rivera, Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic
(New York: Penguin books, 1983) 13.
70
“Una matta”. Ibidem, 16.
170
casa durante il giorno, lasciando escrementi sul pavimento o cercando
ripetutamente di uccidere i figliastri, armata di machete.
Alla morte del padre adottivo, Gerán poco più che adolescente, inizia a
lavorare come bracciante per Gigante Hernández: proprietario terriero, rozzo,
tirannico e bigotto, che sfrutta i suoi lavoratori e maltratta moglie e figlie (“las
hermanas humildes”71). Sarà proprio una di queste, la devota ed ubbidiente Lilia,
a diventare moglie di Gerán e madre del protagonista.
Stanco di essere schiavizzato da Gigante 72 e aspirando ad una vita più
dignitosa per sé e per la moglie, Gerán inizia a pensare ad una via d’uscita dalla
situazione di estrema indigenza in cui vivono. Un giorno, decide di chiedere una
mula in prestito al suocero, per vendere una parte in eccedenza del raccolto al
mercato di Jayuya e poter guadagnare una buona somma di denaro. L’iniziativa si
converte però in un’impresa disastrosa: Gerán raggiunge infatti troppo tardi il
paese, si addormenta per la stanchezza una volta arrivato sul posto e quando si
sveglia, a mercato finito, è costretto a svendere le verdure per pochi centesimi.
Come se non bastasse, durante la strada del ritorno, Mafofa – la mula anziana e
malmessa datagli in presto dal suocero – muore, costringendolo a indebitarsi con
Gigante al quale dovrà subito ripagare l’animale, dandogli come prima rata i
pochi centesimi appena guadagnati73.
Quando anche il tentativo di entrare in affari con il fratello Mito,
convertendo una baracca abbandonata in una piccola drogheria (un “colmado”), si
rivela un autentico fallimento, capisce che a Bautabarro non avrebbe avuto
71
“Le sorelle umili”. Ibidem, 23.
Gerán si definisce infatti un “hired slave / schiavo assunto”. Ibidem, 28.
73
La parola “installment”, che sarà poi ricorrente in tutta l’opera, appare per la prima volta in
occasione di questo episodio, a pagina 41.
72
171
nessuna possibilità di risollevarsi dalla miseria. Eppure è proprio in quel momento,
grazie ad un prestito della moglie di Mito, che gli si presenta l’occasione per
potersi trasferire negli Stati Uniti, la terra che tanto aveva sognato per la
possibilità di ottenere un lavoro dignitoso, guadagnando abbastanza da poter
mettere i risparmi in banca, come aveva sentito raccontare da parenti ed amici di
chi vi era già emigrato. Parte quindi da solo per New York con un “one-way,
shopping-bag, cardboard-suitcase, late-night flight to the North”74 con l’intento di
racimolare il denaro necessario per poter far arrivare la famiglia nel minor tempo
possibile.
L’inizio del terzo capitolo coincide con l’apparizione del piccolo Santos, il
narratore e protagonista che, a partire da questo momento, abbandona le memorie
genealogiche della propria famiglia per dare spazio, con un tono sempre ironico e
caustico, alla cronistoria del suo presente. Dopo la partenza di Gerán, Santos è
rimasto a Bautabarro insieme alla madre, al fratello maggiore Tego ed al cugino
Chuito, l’orfano quattordicenne che la famiglia aveva accolto in casa pochi mesi
prima. In assenza del padre, Chuito era diventato l’uomo di casa, ricoprendo
questo ruolo fino al punto di iniziare i piccoli Malánguez al voyeurismo ed al
sesso con gli animali.
Nel frattempo, per Gerán la vita a New York si rivela fin da subito
“[w]orse than the infierno”75 per le ristrettezze economiche, le umiliazioni subite e
le difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, che lo obbligano a rimandare di mese
in mese il riavvicinamento della famiglia. L’uomo invia frequentemente sull’isola
pacchi regalo e lettere per la moglie e i figli, in cui descrive la propria nostalgia e
74
75
“Volo notturno con borsa della spesa e valigia di cartone, solo andata verso nord”. Ibidem, 51.
“Peggio dell’infierno”. Ibidem, 54.
172
il proprio malessere con toni accorati e patetici. Eppure i suoi tentativi di contatto
non sortiscono nessun effetto sul piccolo Santos che diventa sempre più diffidente
e distaccato nei confronti del padre e delle sue parole altisonanti: “But none of
that meant much to me, […] none of that was the same as the man himself, the
slanted, meticulous calligraphy and the snapshots made flesh. All his assurances
of amor and ansiedad for us were second-rate substitutes, just words”76.
Quando finalmente Lilia riceve la busta con i biglietti per New York,
scopre che il marito è riuscito ad acquistarne soltanto tre e che Chuito sarebbe
dovuto rimanere da solo sull’isola per alcuni mesi, aspettando che Gerán potesse
avere i soldi necessari per il suo riavvicinamento.
Inizia a questo punto il percorso scolastico del protagonista che, dopo aver
frequentato un anno di elementari a Bautabarro con l’amata maestra “Mees
Lugones” 77 , una volta trasferitosi a New York, viene iscritto alla Saint
Misericordia’s Academy di East Harlem: la scuola cattolica (gestita da suore e
frati gesuiti di origini irlandesi), in cui vige una rigida disciplina, che comprende
punizioni corporali e offese dirette agli alunni più poveri, indisciplinati, scarsi o
con difficoltà linguistiche. Mentre Gerán ribadisce più volte ai figli il valore degli
studi e l’importanza di padroneggiare l’inglese (la loro “adopted language”78) per
poter avere un futuro migliore, i maestri non perdono occasione per umiliare gli
studenti stranieri deridendoli per la loro lingua “broken and mispronounced” ed
infierendo contro di loro con vocaboli altisonanti (come “dawdle” o “tardy” 79) o
76
“Nulla di tutto questo significava un granché per me, […] niente era come l’uomo in sé, la
calligrafia meticolosa e inclinata e le istantanee fatte di carne. Tutte le sue rassicurazioni di amor e
ansiedad per noi erano sostitute di seconda qualità, soltanto parole”. Ibidem, 53.
77
“Signoora Lugones”. Ibidem, 70.
78
“Lingua adottiva”. Ibidem, 130.
79
“Lingua frammentata e mal pronunciata”, “bighellonare”, “ritardatario”. Ibidem, 84.
173
con testi al di sopra della loro portata. Il più emblematico è l’“incomprensibile”
Giulio Cesare di Shakespeare, la “tradegy”80 che darà adito ad esilaranti giochi di
parole, storpiature e interpretazioni erronee da parte degli alunni, mandando su
tutte le furie il frustrato maestro Bro’Leary.
È in questo ambiente che Santos entra in contatto per la prima volta con la
storia – sistematicamente reinterpretata in chiave cattolica – e con la religione,
anch’essa utilizzata (come la lingua) per rimarcare le differenze razziali e di classe.
Anche il giorno della sua Prima comunione si converte in un autentico disastro,
quando l’ostia si spezza e cade dalle mani del prete, mentre Santos per l’emozione
si fa la pipì addosso in chiesa, sporcando l’abito comprato a loro spese dalle suore
per gli alunni meno abbienti e provocando le ire di Sister Felicia: “Ssantoss
Malánguezzz, […] you are not fit for First Communion, and maybe never will
be”81.
Sempre ne El Barrio, il quartiere latino di New York, Santos vive in prima
persona anche le prime infelici esperienze di razzismo inverso. Una domenica,
dopo aver deciso di saltar messa, rivendicando la libertà di poter scegliere, senza
le pressioni di frati e suore (“out of their clutches […]. I was beginning to feel like
a real grown up”82), si perde in una zona poco nota di Central Park, finendo “In
Black Turf”: nel territorio “ostile” di una gang afro-americana. Vedendo un
ragazzo bianco, per di più perfettamente in grado di parlare inglese, i membri
della banda difendono la loro area gettandolo in una pozza di letame. Umiliato e
in lacrime, Santos viene salvato dall’arrivo dell’amico Panna, portoricano come
80
“Tradegia”. Ibidem, 116.
“Ssantoss Malánguezzz, […] non sei adatto per la Prima Comunione e forse non lo sarai mai”.
Ibidem, 105.
82
“Fuori dalle loro grinfie […]. Iniziavo a sentirmi come un vero adulto”. Ibidem, 147.
81
174
lui ma di colore e con un forte “East Harlem accent”83, che conosceva uno dei
gangsters e viene quindi accolto favorevolmente. Una dura lezione per il povero
Santos, che aveva sempre cercato di nascondere il proprio accento e le proprie
origini, coltivando con grande orgoglio la lingua appresa a suon di punizioni e con
grandi sacrifici nella scuola cattolica, per poter finalmente: “melting smoothly and
evenly into the great Pot”84.
Nel frattempo Gerán racconta al figlio delle immani difficoltà e delle
mortificazioni subite nei primi mesi dal suo arrivo nella metropoli quando, posto
di fronte alla scelta tra “hard cash and swallowing his self-respect”85 opta per la
seconda via, accettando i lavori più umilianti e vivendo nei più squallidi SRO (che
denomina sarcasticamente “Single Cave Occupancy”
86
). La sua unica
consolazione in quei momenti era la musica che ascoltava dalla vecchia radio
ricevuta in regalo dal fratello Mito e che avrebbe portato con sé di casa in casa,
fino alla fine. Quando la famiglia lo raggiunge, Gerán deve fare i conti anche con
il risentimento di Lilia, che fa fatica ad accettare di aver lasciato l’amato villaggio
natale, per immergersi nello squallore della metropoli e, per di più, gli rinfaccia
continuamente di aver abbandonato Chuito.
Dopo ripetuti litigi tra i due e numerose notti che Gerán passa
misteriosamente fuori casa, quando finalmente riescono a far arrivare anche
Chuito, il ragazzo è molto sfuggente, cova astio nei confronti della famiglia e,
anche dopo esser stato arruolato per diversi mesi nell’esercito, continua a mancare
83
“Accento di East Harlem”. Ibidem, 148.
“Fondersi senza intoppi e in modo uniforme nel grande Calderone”. Ibidem.
85
“Soldi contanti e ingoiarsi il rispetto per se stessi”. Ibidem, 187.
86
“Cantina uso singola”. Ibidem, 181. In realtà SRO sta per “Single Room Occupancy”.
84
175
sistematicamente di rispetto a Gerán e Lilia. Il loro rapporto migliora solo quando
Chuito lascia la casa per sposarsi e metter su famiglia.
Nel frattempo, i sacrifici dei Malánguez e i loro problemi economici
rimangono una costante, tanto che Gerán deve pagare tutto in interminabili rate: la
casa in cui vivono, lo specchio che compra per coprire una vistosa crepa sul muro,
l’enciclopedia che un venditore ambulante appioppa a Lilia, etc. Per far
sopravvivere l’intera famiglia, l’uomo deve inoltre ricorrere a continue trovate
tutt’altro che legali (le cosiddette “maromas”87): come attingere agli Home Funds
(che, in realtà, erano destinati solo a chi non aveva lavoro) o rubare la corrente
elettrica con un marchingegno di suo creazione, “El Pícaro”88.
Nonostante una quotidianità fatta di stenti, Gerán non rinuncia alle sue
passioni più grandi: la musica e l’oratoria. Passa infatti molto del suo tempo a
suonare con la chitarra canzoni nostalgiche, allietato dalla sua inseparabile radio,
perennemente sintonizzata su “La voz hispana del aire” 89 : la stazione di sola
musica portoricana che trasmette continuamente “El Lamento”, il suo inno
nazionale preferito, tra i quattro che possiede Porto Rico. Trascorre inoltre ore e
ore declamando i discorsi altisonanti dei grandi maestri di oratoria, che legge dal
suo amatissimo Manual del Orador.
Un giorno, Santos riceve dal vicino di casa Iñigo Boluchen un’antologia di
poesia inglese, insieme ad un libro di folclore e a un dizionario (“The real bona
fide Webster’s”90). Iñigo, anch’egli di origini portoricane ma nato a New York,
aveva deciso di lasciare gli studi di teologia e di tornare sull’isola per condurre
87
In italiano le “maromas” sono “salti mortali, trucchetti, stratagemmi”. Ibidem, 202.
“Il Picaro”. Ibidem, 214.
89
“La voce ispanica in onda”. Ibidem, 231.
90
“Il vero e genuito Webster”. Ibidem, 229.
88
176
una ricerca genealogica (“‘a little digging’ into his forefathers and mothers”91).
Dopo che il padre era stato ucciso per errore in una sparatoria, avendo preso la
decisione di partire, aveva quindi regalato i tre volumi al giovane Santos,
incoraggiandolo a leggerli per potersi sollevare dall’ambiente asfittico e
deprimente del quartiere: “if you read this one, Santos, you’ll be miles ahead of
everyone else on this gloomy block”92.
Santos si appassiona a tal punto ai poeti dell’antologia (“from Chaucer to
Eliot” 93 ), da lasciare il lavoro part-time che stava svolgendo – aggravando
ulteriormente le condizioni economiche della famiglia – per passare ore ed ore
immerso nella lettura dei classici inglesi, mosso dalla convinzione di poter
posporre i propri doveri: “I was not pulling my share of the load, and justified it
by telling myself that this was the way it had to be for a while. ‘First the books,
then the real responsibilities’” 94 . Ma lo scarto tra la desolante realtà che lo
circonda e il mondo aulico della letteratura in cui si rifugia è tale, che il ragazzo
deve ricorrere alle cosiddette “disparity walks”95: le frequenti passeggiate notturne
e solitarie per le vie della metropoli, che lo aiutano ad ossigenarsi e a smorzare la
propria insofferenza.
In una di queste camminate, passando per Central Park, Santos viene
fermato ed umiliato dalla polizia, che lo perquisisce come se fosse un criminale,
avendo scambiato la penna che gli sbuca dalla tasca per un’arma impropria. La
sera stessa, in preda alla rabbia e alla frustrazione, getta l’antologia nel cestino
91
“Un po’ di scavo tra i suoi antenati e antenate”. Ibidem, 228.
“Se leggi questo, Santos, starai miglia avanti a tutti gli altri in questo cupo quartiere”. Ibidem,
229.
93
“Da Chaucer a Eliot”. Ibidem.
94
“Non stavo portando la mia parte del carico e mi giustificavo dicendo a me stesso che sarebbe
stato così per un po’. ‘Prima i libri, poi le responsabilità vere’”. Ibidem, 232.
95
“Passeggiate della disparità”. Ibidem, 235.
92
177
dell’immondizia di casa, per poi recuperarla pentito il giorno seguente: “looking
for odes and sonnets of self-pity”96.
Anche Gerán incappa in una simile disavventura con la polizia. Viene
infatti erroneamente scambiato per un pedofilo ed arrestato in malo modo davanti
ad una folla di persone, tra cui molti suoi conoscenti. Anche se, di lì a poco,
l’uomo viene liberato, “it took him a while to get over the humiliation,
helplessness, and depression”97.
Nel frattempo Santos ricomincia a lavorare e si iscrive all’università serale
frequentando, tra le altre, lezioni di sociologia e di letteratura con cui alimenta la
sua passione per la poesia, ma anche la tendenza ad isolarsi e a rigettare lo
squallore che lo circonda. Durante il periodo degli studi universitari di Santos, il
padre scopre di essere affetto da sclerosi multipla. Le sue condizioni di salute
degenerano rapidamente e l’uomo decide di tornare a Porto Rico, per poter morire
in patria. Gerán e Lilia si trasferiscono quindi sull’isola, ospiti di Tego: il figlio
maggiore che, dopo aver abbandonato gli studi, si era sposato ed aveva fatto
ritorno a San Juan per lavorare come croupier in hotel di lusso.
Mentre si sta preparando per gli esami finali, Santos riceve il telegramma
del fratello che gli annuncia l’aggravarsi delle condizioni di salute del padre,
prende quindi il primo volo disponibile e raggiunge la famiglia sull’isola. Ma al
suo arrivo, Gerán è già morto, lasciando al giovane l’amarezza di non esser
riuscito a laurearsi prima: “he should have waited until I’d finished with my finals.
I had planned on making a photocopy of my diploma and sending it to them as
96
97
“Alla ricerca di odi e sonetti di autocommiserazione”. Ibidem, 239.
“Gli ci volle un po’ per superare l’umiliazione, l’impotenza e la depressione”. Ibidem, 239.
178
proof of something”98. Santos trascorre alcuni giorni sull’isola, durante i quali ha
modo di parlare con il fratello Tego che gli propone di restare definitivamente a
Porto Rico, allettandolo con le nuove opportunità di lavoro che l’isola offre, in
particolare grazie al turismo, e con il rinnovato stile di vita che si sta infiltrando
nella cultura tradizionale (“This place is becoming more American all the time”99).
Ma Santos non è interessato a rimanere e, prima di tornare a New York, fa
una breve visita all’amata zia Celia – la più ribelle ed anticonformista delle sorelle
della madre – nel villaggio di Bautabarro. La zia lo accoglie amorevolmente e gli
racconta dei profondi cambiamenti che l’isola sta subendo: le capanne sono state
gradualmente sostituite da edifici moderni e hotel, le spiagge sono ormai solo
appannaggio dei turisti, mentre la gente locale continua a vivere in una condizione
di indigenza: “We cannot afford our own food anymore. Most of it is sold to the
North, and then they sell it back to us for twice the price”100.
Santos osserva i segni del progresso e chiede alla zia di accompagnarlo
sulla tomba del nonno Xavier, il maestro, poeta e trovatore frustrato 101 morto
suicida, di cui il padre gli aveva accennato. La donna lo accompagna quindi in
cima alla collina dove le tombe dei defunti, nel tempo, venivano inghiottite dalla
vegetazione incolta della zona, fino a scomparire: “that’s not the kind of thing we
keep track of around here” 102 . Di fatto, indicando un piccolo cumulo di terra
vicino ai due alberi che Gerán aveva piantato in occasione della nascita dei due
98
“Avrebbe dovuto aspettare che terminassi i miei esami finali. Avevo programmato di fare una
fotocopia del mio diploma e di spedirgliela per dimostrare qualcosa”. Ibidem, 287.
99
“Questo posto diventa sempre più americano”. Ibidem, 291.
100
“Non possiamo più permetterci il nostro stesso cibo. La maggior parte viene venduto al Nord, e
poi ce lo rivendono al doppio del prezzo”. Ibidem, 295.
101
Santos lo definisce infatti “frustrated troubadour”. Ibidem, 298.
102
“Non è il genere di cose di cui teniamo traccia da queste parti”. Ibidem, 297.
179
figli, Celia gli spiega: “you’re almost standing on him”103. Chiudendo il cerchio
intorno alla propria genealogia, Santos capisce dunque che le sue radici sono
andate perse, ma allo stesso tempo corrispondono con l’isola intera, e termina il
romanzo cercando di ricordare i versi dedicati alla sepoltura, di una poesia che
sembra avere in testa.
4.2.3 Il narratore autocratico
Come l’autore rivela nell’articolo “Stable Manners”, pubblicato nel 1996
sul Massachusetts Review, o nella lettera scritta nel 1986 a Diana Vélez104, Family
Installments non è un romanzo autobiografico ma venne commercializzato come
tale dalla casa editrice che ne curò la prima edizione, allo scopo di aumentarne le
vendite. Lo confermano le parole dell’allora caporedattrice che Rivera riferisce
alla sua ex-allieva: “she said it would sell better as an autobiography”105. Eppure
molte delle recensioni e delle critiche dedicate a Family Installments, alimentano
più o meno consapevolmente l’idea di una corrispondenza tra autore reale, autore
implicito e narratore.
Il carattere pseudo-reale dell’opera ha infatti dato vita ad una scala di
classificazioni che spaziano da “frankly autobiographical fiction”
106
e
“autobiographical text” 107 , a “semifictional ‘memoir’” 108 e “superb novelized
103
“Sei quasi in piedi sopra di lui”. Ibidem.
Gli articoli a cui faccio riferimento sono “Stable Manners” (Centro Journal 14.1, 2002) –
originariamente pubblicato in The Massachusetts Review 36.3 (1996): 377-385 – e “Letter to
Diana Vélez” (Centro Journal 14.1, 2002).
105
“Disse che avrebbe venduto meglio come autobiografia”. Rivera, “Letter to Diana Vélez”, 125.
106
“Romanzo apertamente autobiografico”. Earl Shorris, “In Search of the Latino Writer” (New
York Times, 1990): 4.
107
“Testo autobiografico”. Juan José Cruz, “Edward Rivera and American Mythology: A Reading
of ‘Family Installments’”, Nor Shall Diamond Die: American Studies in Honour of Javier Coy, eds.
Carme, Manuel e Paul Scott Derrick (Valencia: Universitat de Valéncia, 2003): 79.
104
180
autobiography”109 a “romanzo autobiografico a carattere etnico”110. Philip Lopate,
ad esempio, pur riconoscendo il distacco di Rivera dalla narrazione, reso esplicito
dalla scelta del nome fittizio del protagonista, nella sua critica su The New York
Times sfalda il confine tra diegetico ed extradiegetico, incappando in quelle che
Fludernik ha definito “narratologically infelicitous phrases” 111 , con espressioni
come:
“Mr. Rivera starts his family saga with a fictional reconstruction of
events before his own birth. […] Mr. Rivera rises to the artistic
demands of the occasion by documenting his father’s last illnesses and
death in a manner that is honest, simple, classical and true. […] In
Family Installments, when Mr. Rivera is being a showoff the writing
falters, but when he settles down and lets the natural life of the story
happen, he sings”.112
Nonostante l’ambiguità che posizioni come quella di Lopate possono aver
accresciuto, la scelta di Santos Malánguez come narratore fittizio in prima persona,
permette all’autore implicito di prendere le distanze dal testo, rinunciando al
cosiddetto “authorial privilege”113 che avrebbe conferito autenticità alle vicende
del protagonista a partire dall’esperienza reale di Rivera. In questo caso invece si
costruisce un discorso più ampio e diversificato, instaurando un diverso tipo di
contratto con il lettore implicito che deve ricreare la sua “truth”, associando
liberamente il sottotitolo Memories of Growing up Hispanic al protagonista
Santos, all’autore reale o alla comunità etnica di cui si fanno portavoce, secondo
un gioco di rimandi (dal singolo alla collettività) che caratterizza tutta la
108
“Mémoir semiromanzato”. Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 71.
“Superba autobiografia romanzata”. Irvine Stark, “To the Editor” (New York Times, 1982): 31.
110
Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 66.
111
“Frasi narratologicamente infelici”. Monika Fludernik, An Introduction to Narratology (New
York: Routledge, Taylor & Francis, 2009) 144.
112
“Il signor Rivera inizia la sua saga familiare con una ricostruzione romanzata di eventi
antecedenti alla sua nascita. […] Il signor Rivera risponde alle esigenze artistiche dell’occasione
documentando la malattia terminale del padre e la sua morte in modo onesto, semplice, classico e
veritiero. […] In Family Installments quando il signor Rivera è esibizionista la scrittura vacilla, ma
quando si stabilisce e lascia che la storia accada secondo la sua vita naturale, canta”. Phillip Lopate,
“From Puerto Rico to El Barrio” (New York Times, 1982): 5.
113
“Privilegio autoriale”. Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 72.
109
181
letteratura minore o deterritorializzata. Pur nell’esiguità del suo spazio e del suo
tempo, l’esperienza della famiglia Malánguez opera quindi come macchina
collettiva di espressione di una minoranza etnica, tanto marginale (e inascoltata)
quando centrale per la storia degli Stati Uniti.
A tenere le redini della narrazione durante tutti e tredici i capitoli in cui si
struttura è la voce apparentemente unica del protagonista bilingue Santos, definito
da Marta Sánchez un “autocratic narrator” che “does not permit characters to
speak in their own defense, allowing only his own voice to be heard”114. Di fatto,
la sua narrazione omodiegetica, assume una focalizzazione prevalentemente zero
o interna su Santos, che si fa portavoce della sua storia e di quella della propria
famiglia, attraverso un racconto realistico e con un andamento prevalentemente
cronologico, che riduce però al minimo la presenza dei dialoghi.
Se il protagonista appare per la prima volta soltanto nel terzo capitolo,
l’azione inizia però molto prima della sua nascita, con le vicende dei bisnonni e
gli aneddoti di paese tramandati oralmente e rielaborati dal narratore in chiave
eroicomica. È sempre attraverso il filtro di Santos, quindi, che vengono riportate
le voci dei genitori (i suoi maggiori informatori), con un’abbondanza di
espressioni che richiamano in modo esplicito le modalità del racconto orale o del
ricordo, come “That was Papi’s version, and my mother’s” o “According to Papi’s
cloudy recollection”115, solo per citare alcuni esempi.
È inoltre evidente un’abbondanza di discorso indiretto libero che
controbilancia la quasi totale assenza di dialoghi ben evidenziata dall’analisi e
114
“Narratore autocratico”, “Non permette ai personaggi di parlare in loro difesa, facendo
ascoltare solo la propria voce”. Marta Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in
Edward Rivera’s ‘Family Installments’” (American Literary History 1.4, 1989): 855.
115
“Quella era la versione di papà e di mia madre”, “Secondo il vago ricordo di mio padre”. Rivera,
Family Installments, 13, 16.
182
dagli esempi di Anna Scannavini, quando osserva che nel primo capitolo: “Le
marche del discorso diretto non arrivano ad una decina e, il più delle volte, si
riferiscono a vere e proprie citazioni estrapolate dal contesto conversazionale. […]
Oppure a commenti a posteriori da parte di chi racconta gli eventi”116.
Le parole dei personaggi e le loro memorie vengono tutte “inghiottite” dal
narratore, che le orchestra abilmente decidendo spazi e tempi da dare al punto di
vista di ciascuno. È emblematico a questo proposito il passo in cui si mettono a
confronto le diverse vedute di Gerán e Lilia sulla possibilità di trasferirsi negli
Stati Uniti, sempre manipolate dal narratore:
How could he possibly save up when he was just barely keeping
his stomach fed on the wages Don Gigante paid him? Unless God
worked a miracle on his behalf, he would either remain a hired slave
all his life, or – something he’d been giving serious thought to lately –
move north to Los Estados. […] He was convinced, as she was, as
most Bautabarreños were, that man is put on earth to suffer. But
unlike her, he believed that men and women are entitled to some
felicity, that life doesn’t have to be totalmente un martirio. […] She
could see him wanting to leave the village, moving to San Juan,
Santurce, Ponce, Mayagüez, or any other of the “big” cities and towns
on the island where someone with ambition (and he seemed to have a
good deal of that) could go into business for himself or find a decent
world. But Los Estados Unidos de América? No. […] She was
suspicious.117
Siamo molto lontani dall’immediatezza e dall’apparente assenza di filtri,
con cui invece la narratrice di The Pearl of the Antilles ricrea le diverse vedute dei
coniugi Amargo, nella scena del litigio iniziale sull’opportunità o no di trasferirsi
a L’Avana. In questo caso, non solo i personaggi si esprimono attraverso il
116
Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 72.
“Come avrebbe potuto risparmiare quando riusciva appena a riempirsi lo stomaco con i salari
che Don Gigante gli pagava? A meno che Dio non avesse compiuto un miracolo in suo favore,
sarebbe rimasto o uno schiavo assunto per tutta la vita, o – cosa a cui aveva pensato sul serio
ultimamente – si sarebbe trasferito a nord, verso Los Estados. […] Lui era convinto, come lei e
come la maggior parte dei Bautabarreños, che l’uomo è messo sulla terra per soffrire. Ma
diversamente da lei, credeva che gli uomini e le donne avessero diritto a un po’ di felicità, che la
vita non dovesse essere totalmente un martirio. Lei poteva capire che lui volesse lasciare il
villaggio per trasferirsi a San Juan, Santurce, Ponce, Mayagüez o in qualsiasi altra ‘grande’ città o
paese sull’isola, dove chi aveva delle ambizioni (e lui sembrava averne molte) poteva entrare in
affari o trovare un mondo decente. Ma Los Estados Unidos de América? No. [...] Era sospettosa”.
Rivera, Family Installments, 28-29.
117
183
discorso diretto ma i loro punti di vista vengono riportati in parallelo anche nella
disposizione grafica della pagina:
(Rosa)
“It doesn’t matter what you think. I
couldn’t leave her. Besides, you and I know
perfectly well that Nélida could have taken
care of your mother without your help. She’s
more than capable when she wants to be. And
don’t try to tell me that she had other
responsibilities, either. Por Dios, Pedro. She
was over fifty years old when your father died.
It still amazes me how helpless your sisters can
be when they want to be”118.
(Pedro)
“Your mother has been gone for almost six
months now, Rosa. Stop using her as an excuse
for why you won’t move to Havana. If it’s not
one thing, it’s another. What is it with you? I
turn myself inside out trying to please you and
this is all the thanks I get. Maybe I made a
mistake. Maybe I should have stayed with
Mother and the girls. At least they appreciate
all that I have done for them”.
La tendenza del narratore ad inglobare la parola altrui è particolarmente
significativa nei primi due capitoli in cui – come sottolinea Anna Scannavini –
alla “multi-vocalità”119 nel rapporto tra Santos ed i personaggi rappresentati, si
sovrappone anche il multilinguismo, per l’alta concentrazione di ingerenze dallo
spagnolo (commutazioni di codice, calchi, inserimento di parole mal scritte o mal
pronunciate, di termini dialettali o in Spanglish). Queste forme ibride hanno
sicuramente una funzione di caratterizzazione dei personaggi ma, come vedremo
meglio nei prossimi paragrafi, segnano anche il rapporto tra il narratore e
l’acquisizione della lingua seconda, in un sottile gioco di rimandi tra inglese e
spagnolo.
La voce del narratore non rinuncia alla sua “inclusività” neanche quando
deve caratterizzare i personaggi femminili che, al pari di quelli maschili, vengono
118
(Rosa) “Non importa quello che pensi. Non potevo lasciarla. E poi, io e te sappiamo
perfettamente che Nélida avrebbe potuto prendersi cura di tua madre senza il tuo aiuto. Lei è più
che in grado, quando vuole esserlo. E non provare neanche a dirmi che aveva altre responsabilità.
Por Dios, Pedro. Aveva più di cinquanta anni quando tuo padre è morto. Mi stupisce quanto
possano essere impotenti le tue sorelle quando vogliono esserlo”; (Pedro) “Tua madre non c’è più
da quasi sei mesi, Rosa. Smetti di usarla come una scusa per non volerti trasferire a L’Avana. Se
non è una cosa, è un altra. Che ti succede? Faccio di tutto per compiacerti e questa è tutta la
riconoscenza che ottengo. Forse ho sbagliato. Forse avrei dovuto restare con mia madre e le
ragazze. Almeno loro apprezzano tutto quello che ho fatto per loro”. O’Reilly Herrera, The Pearl
of the Antilles, 9.
119
Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 75.
184
sempre presentati con un linguaggio scarno e pungente, come quello utilizzato per
introdurre le due donne che più spiccano dal primo capitolo: Socorro, moglie
sottomessa dell’ignobile Gigante (“a kitchen martyr and a bedroom madonna”) e
Josefa la pazza (“[she] added much misery to Papá Santos hard-luck life. She was
a loca”120).
I ritmi del racconto orale, i tempi della reiterazione e l’indeterminatezza
del ricordo – che caratterizzano l’incipit dell’opera e la ricostruzione della
genealogia familiare – si affievoliscono gradualmente nei capitoli successivi, in
cui l’ambientazione passa dal villaggio alla metropoli, e l’apparizione del
protagonista-narratore in prima persona segna due importanti scarti stilistici: una
maggiore presenza di drammatizzazione e di dialogo, da un lato, e il passaggio da
una focalizzazione zero ad una interna dall’altro. Quest’ultimo è sicuramente
l’aspetto più rilevante se si considera che, prima del terzo capitolo, l’“I” e il punto
di vista personale del protagonista sono totalmente assenti, mentre da questo
momento balzano in primo piano grazie a una focalizzazione interna su Santos
bambino, resa attraverso una voce infantile e disincantata, che continua comunque
a mediare le parole dei personaggi, senza mai perdere il tono ironico caratteristico
di tutta l’opera.
È da un’ottica evidentemente puerile che Santos ci racconta della sua
iniziazione sessuale con la mucca La Manca (“the cow with a broken horn”121),
proprio nel capitolo (il terzo) intitolato “Chuito and La Manca”, con un eco
ironico al più famoso eroe tragicomico della letteratura spagnola: El ingenioso
hidalgo Don Quixote de la Mancha. Sempre dal suo punto di vista infantile e
120
“Una martire della cucina e una Madonna della camera da letto”, “[lei] aggiungeva molta
infelicità alla vita sfortunata di Papá Santos. Era a loca”. Rivera, Family Installments, 23, 16.
121
“La mucca con un corno rotto”. Ibidem, 56.
185
parziale apprendiamo degli inspiegabili litigi tra Gerán e Lilia nei primi mesi del
loro ricongiungimento a New York, quando il padre, che non avevano visto per
mesi, torna a casa incomprensibilmente stanco: “But way did he always come
home looking so tired, half-corpse, half-human?”122.
Santos bambino continua inoltre a costruire la multi-vocalità e il
multilinguismo dei personaggi, con le continue commutazioni di codice o
esplicitando la lingua dei dialoghi che sta mediando, come nello scambio di
battute con il padre a cui sta nascondendo la scarpa destra: “‘So there’s no sense
in inspecting that one for the size of your foot, is there?’ I said no, there wasn’t.
‘Maybe a mouse stole it last night’, he said in Spanish. ‘When you was sleeping’.
That came out in English”123.
La sua narrazione arriva addirittura ad inglobare le lettere dei personaggi, a
cui non riserva uno spazio a parte, integrandole invece nel testo in un miscuglio di
lingue, virgolette, mispellings, discorso pseudo-diretto e marche del narratore. Ne
sono un esempio le missive che Gerán scrive alla moglie ed ai figli, rimasti
sull’isola dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti:
“My dear wife”, they usually began, and the rest went usually like
this: As he took pen in hand he was full of the impedimentos,
importunidades, and tropiezos, the stumbling blocks, of life, and the
ansiedades of an absent husband and father.124
O lo scambio di lettere tra Santos e Tego quando quest’ultimo si stava occupando
del padre malato, tornato a Porto Rico:
122
“Perché tornava sempre a casa con un aspetto così stanco, mezzo-cadavere, mezzo-umano?”.
Ibidem, 189.
123
“‘Quindi non ha senso controllare quella per la misura del tuo piede, no?’ Ho detto di no, non
ne aveva. ‘Forse un topo l’ha rubata la notte scorsa’, ha detto in spagnolo. ‘Quando tu stava
dormendo’. Quello gli è uscito in inglese”. Ibidem, 86.
124
“‘Mia cara moglie’, di solito iniziavano, e il resto normalmente continuava così: Dal momento
in cui prendeva la penna in mano era pieno di impedimentos, importunidades, e tropiezos, i grandi
ostacoli, della vita, e le ansiedades di un marito e di un padre assente”. Ibidem, 53.
186
In his letter he told me he had pebbles on his lawn. “Its cheaper
than keeping up grass, Santos. I don’t have time for grass”. […] His
son and both girls were enrolled in a parochial school. […] “They
have good sports and dicsipline. Thats what I needed more of myself,
dicsipline, instead of playing cards all the time with the guys”. “You
didn’t do too badly, Tego”, I wrote back.125
Anche in questo caso, la complessa mediazione del narratore è in netto
contrasto con la scelta dell’autore implicito di The Pearl of the Antilles, che alle
lettere scritte da Tía María e da Tata dedica tutta la parte centrale dell’opera,
lasciando i personaggi liberi di esprimersi in prima persona ed addirittura
simulando, anche a livello grafico, la calligrafia e la carta utilizzata dalla donne.
Mano a mano che Santos cresce, portando avanti il suo percorso di
acculturazione negli Stati Uniti, anche la sua voce diventa più matura e meditata,
come quando riflette sulla sua decisione di tagliare i ponti con la religione:
Giving up the Holy Ghost and the rest of the religious business
was a serious decision, the most serious I’d made to date. I was
beginning to feel like a real grown-up. But because it was a critical
decision, I couldn’t bring myself to make it all at once; growing up, I
knew, was a slow process, and I was in no hurry to become a fullgrown man before my time.126
Allo stesso tempo, la sua voce si fa anche più onnisciente, aumenta
l’incidenza delle prolessi e lascia più spazio ad altri personaggi, come nei capitoli
10 e 11 incentrati sul rapporto tra Santos e il padre: sicuramente il personaggio più
sfaccettato (dopo lo stesso protagonista) e quello che suscita maggiore empatia nel
narratario. Gerán viene descritto come un uomo poliedrico e sensibile, che coltiva
svariate passioni, dalle canzoni tradizionali portoricane alla lavorazione della pelle,
125
“Nella sua lettera mi ha raccontato che aveva dei ciottoli sul prato. ‘É più economico di tenere
l’erba, Santos. Non ho tempo per l’erba’. [...] Suo figlio ed entrambe le ragazze frequentavano una
scuola religiosa. [...] ‘Hanno del buono sport e dicsiplina. Questo è ciò di cui io stesso avevo più
bisogno, dicsiplina, invece di giocare tutto il tempo a carte con i ragazzi’. ‘Non hai fatto troppo
malamente, Tego’, gli ho risposto”. Ibidem, 285.
126
“Rinunciare allo Spirito Santo e al resto dell’attività religiosa era una decisione impegnativa, ad
oggi, la più impegnativa da prendere. Stavo cominciando a sentirmi un vero e proprio adulto. Ma
poiché era una decisione critica, non riuscivo a prenderla una volta per tutte: crescere, lo sapevo,
era un processo lento e io non aveva fretta di diventare un uomo adulto prima del tempo”. Ibidem,
147.
187
e non si lascia ingrigire dalla vita, nonostante le innumerevoli difficoltà e le
umiliazioni di cui è vittima. La sua voce viene costruita attraverso le due arti che
più lo appassionano: la musica (che ascolta alla radio, compone e suona per ore
mentre Santos studia) e l’oratoria (con le sue infinite esercitazioni di eloquenza,
che legge a voce alta e talvolta ripete inconsapevolmente anche di notte).
Padre e figlio sembrano dunque aver trovato, ciascuno a suo modo, il
proprio rifugio dallo squallore della vita che li circonda, eppure le loro voci sono
solo giustapposte, i due personaggi non interagiscono in un dialogo costruttivo e
in occasione di una delle tante declamazioni di Gerán: “Oh, my country! Sublime
Eve, hosts the soul, chalice of life…”, il narratore si limita a far seguire le parole
del padre, direttamente dai versi della propria antologia: “My anthology: ‘A hand
that can be clasped no more…’”127.
Nonostante l’opera mantenga fino alla fine una spiccata ibridità linguistica,
il numero di inserti in spagnolo e di alternanze va diminuendo mano a mano che
Santos cresce padroneggiando sempre meglio la lingua inglese, quasi ad indicare
che la maturità del narratore procede di pari passo con l’acculturazione negli Stati
Stati Uniti e l’acquisizione di una nuova lingua.
4.2.4 Tra generi letterari e marginalità
A quale genere letterario appartiene Family Installments? Secondo Marta
Sánchez l’opera potrebbe essere considerata “a composite of an ethnography, a
bourgeois autobiography, and a rite-of-passage-through-literature novel” 128 ;
127
“Oh, il mio paese! Eva Sublime, ospita l’anima, calice della vita”, “La mia antologia: una
mano che non può più essere afferrata”. Ibidem, 233.
128
“Una combinazione tra un romanzo etnografico, un’autobiografia borghese e un romanzo
d’iniziazione”. Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family
Installments’”, 855.
188
presenta infatti evidenti analogie con ognuno di questi generi e, allo stesso tempo,
se ne discosta creando punti di tensione e discordanze. Per la sua descrizione della
realtà portoricana da narratore “autocratico”, che non permette ai personaggi di
parlare con la propria voce, Santos sembra infatti vestire i panni dell’etnografo,
tipici delle narrazioni antropologiche. In realtà sarebbe più giusto considerarlo un
etnografo indigeno perché il narratore non solo non è un osservatore esterno ma è
anche parte integrante di entrambe le dimensioni culturali che sta descrivendo.
Se è vero, come avviene nella “bourgeois autobiography”, che nell’opera
assistiamo alla crescita intellettuale e spirituale di un io, è anche vero che nei
primi due capitoli questi è totalmente assente, mentre predomina la dimensione
collettiva della sua comunità d’origine, descritta in retrospettiva seguendo il ritmo
dello storytelling e delle memorie di famiglia. Proprio questa coralità della
dimensione genealogica sembra vanificare la concezione individualistica della
soggettività borghese comunemente descritta nei Bildungsromans o in generi
simili.
Neanche la tipica organizzazione del “rite-of-passage-through-literature
novel” sembra esser rispettata, poiché Santos non solo non si riappacifica con la
sua cultura d’origine, ma il suo percorso identitario sembra ancora del tutto in fieri
alla fine del romanzo.
Infine, proprio per la natura “autocratica” del narratore e per la sua ironia
caustica, l’opera si scosta anche da The Pearl of the Antilles e da A Daughter’s a
Daughter in cui si privilegiano le focalizzazioni interne e la polifonia dei
personaggi.
189
Perché dunque si creano apparenti analogie con altri generi familiari al
lettore Anglo che a livello più profondo vengono però smentite? Perché si crea
l’illusione di una voce inclusiva (ad esempio attraverso lo spiccato ibridismo
linguistico) quando poi nessuno dei personaggi dell’opera può totalmente
svincolarsi dal filtro della voce di Santos? Inoltre, perché il narratore costruisce
un’architettura multilingue così articolata, dando l’illusione di “inclusività”,
quando invece un’ampia fetta di lettori dovrà fare i conti con un profondo senso di
estraniamento e alterità, non potendo cogliere le molteplici sfumature del racconto
(virtualmente accessibili solo a una lettrice o un lettore bilingue e che abbia
un’approfondita conoscenza di entrambe le culture)?
Nel suo tentativo di integrazione e nel suo sforzo costante per appianare le
differenze tra cultura anglosassone e cultura portoricana, Santos porta infatti alla
luce tutte le difficoltà insite nei processi di negoziazione culturale, comprese le
barriere linguistiche, le incomprensioni o le frustrazioni costanti di chi lotta per
avere un proprio spazio d’espressione e deve comunque sottostare alle regole
prestabilite dal sistema in cui vorrebbe integrarsi – proprio come fanno i
personaggi, le cui voci sono comunque assorbite e rimodellate da quella del
narratore.
Santos compie dunque un’intensa operazione di demistificazione,
defamiliarizzazione e distorsione sia della cultura d’origine sia di quella acquisita,
reinterpretando la realtà che lo circonda in chiave ironica e tragicomica. Così
facendo, il protagonista mette in discussione la centralità e i capisaldi di entrambe
le culture (in particolare le due istituzioni che ne rafforzano l’egemonia: la scuola
190
e la Chiesa) e, allo stesso tempo, ne fa emergere la complessità e la disomogeneità
interna.
Insieme a Santos, anche i lettori devono quindi fare i conti con gli aspetti
più assurdi e paradossali delle due sfere culturali e vengono chiamati a compiere
un’intensa operazione di mediazione sia a livello di tecniche narrative (mettendo
in discussione i genere letterari dominanti) sia a livello linguistico (per la
necessità di una costante negoziazione del significato)129.
129
Sono emblematiche, a questo proposito, le parole di Marta Sánchez secondo la quale: “This text
calls for a reader who will self-consciously negotiate the cultural divide at the level of language
and narrative technique / Questo testo reclama una lettrice che deve consapevolmente negoziare il
divario culturale sia a livello di lingua sia a livello di tecnica narrativa”. Sánchez, “Hispanic and
Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, 857.
191
4.3 A Daughter’s a Daughter, Nash Candelaria
4.3.1 Un romanzo di strong women
Nash Candelaria pubblica A Daughter’s a Daughter dopo il successo della
sua tetralogia di romanzi storici, con cui si è guadagnato il titolo di “historical
novelist of the Hispanic people of New Mexico”130 per la sua narrativa credibile,
onesta e ricca di autenticità storica 131 . Subito dopo A Daughter’s a Daughter
Candelaria pubblica il suo mémoir. Come nasce l’idea di un romanzo al femminile,
nel mezzo di questi due importanti traguardi?
Quando in occasione della nostra intervista gli ho chiesto come avesse
avuto l’idea di scrivere un’opera interamente dedicata a tre donne della stessa
famiglia, l’autore ha subito ricordato il suo desiderio sia di descrivere i forti
cambiamenti del New Mexico, sia di rendere omaggio alle donne della sua
famiglia: la capostipite dei Candelaria, la nonna, la madre, la sorella e la moglie:
I wanted to write about the change of New Mexico Latinos’ situations
and attitudes over three generations. […] To me the change in the
roles of women was one of the biggest and more important changes in
this country during my lifetime. The examples of strong women I
knew or knew of in the family occurred to me.132
130
“Romanziere storico della popolazione ispanica del New Mexico”. Candelaria, Second
Communion, 201.
131
Lo confermerebbero diversi saggi critici e recensioni. Trujillo, ad esempio, elogia la sua prosa
affermando: “he has a basic mastery of the craft that makes the narrative and the characters
believable, that causes the reader to care about them. […] Candelaria’s prose is honest. His
characters are not gilded stereotypes mouthing platitudes and/or rhetoric. They are individuals. /
Ha una padronanza basilare dell’arte, che rende la narrativa e i personaggi credibili, e coinvolge
i lettori. […] La prosa di Candelaria è onesta. I suoi personaggi non sono stereotipi dorati che
riproducono banalità e/o retoriche. Sono individui”. David F. Trujillo, “Memories of the
Alhambra”, De Colores 5.1-2 (1980): 130-32. Márquez definisce invece la sua narrativa ricca di
“historical authenticity / autenticità storica”. Antonio C. Márquez, “Algo viejo y algo nuevo:
Contemporary New Mexico Hispanic Fiction”, Pasó por aquí: Critical Essays on the New
Mexican Literary Tradition, ed. Erlinda Gonzales-Berry (Albuquerque: University of New
Mexico Press, 1989) 263.
132
“Volevo descrivere il cambiamento delle condizioni e degli atteggiamenti dei Latinos del New
Mexico attraverso tre generazioni. […] Per me, il cambiamento nel ruolo delle donne è stato uno
dei più significativi e importanti avvenuto in questo Paese durante la mia vita. Mi sono venuti in
mente gli esempi delle donne forti che conoscevo o di cui avevo sentito nella mia famiglia”.
Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5.
192
4.3.2 Quadro sinottico
Nella scena d’apertura del primo capitolo intitolato “Veterans Day” la
protagonista più giovane, Irene (avvocato con anni di esperienza alle spalle), sta
guidando verso casa della nonna Liberata a sud di Albuquerque, in direzione del
Río Grande. Il tragitto rappresenta per la donna un simbolico “journey back in
time”133 durante il quale riflette sui profondi cambiamenti della città ma anche
sugli elementi di continuità, rispetto all’infanzia di sua nonna. Rafas Road, ad
esempio, era stata asfaltata ed i campi di grano erano scomparsi, ma c’erano
ancora delle enclave di “adobe houses” 134 che avevano resistito all’avanzata di
case costose e ultra moderne.
Sempre mentre guida, la donna ricostruisce mentalmente la genealogia
della propria famiglia (Los Rafas), dalla capostipite Magdalena fino alla nonna
Liberata. La prima a stabilirsi nella zona era stata proprio la vedova Magdalena
Gutiérrez Rafa sopravvissuta insieme ai figli alla Rivolta Pueblo del 1680. Grazie
ad una concessione del re di Spagna i suoi discendenti acquisirono 9.000 acri di
terreno in cui fondarono la comunità agricola dei Los Rafas, dando vita all’allora
villaggio di Albuquerque. A distanza di trecento anni, nonostante la famiglia
avesse perduto gran parte dei possedimenti originari, Liberata ne possedeva
ancora alcuni e guardava con disprezzo l’insediarsi degli “Anglos” con il loro stile
di vita tanto distante dalla cultura agricola tradizionale della zona: “Anglos with
133
“Viaggio all’indietro nel tempo”. Nash Candelaria, A Daughter’s a Daughter (Tempe, AZ:
Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2008) 2.
134
“Case di adobe”. Ibidem, 2.
193
their money and their cars and hacienda-style houses who now inhabited much of
what she still viewed as family property”135.
Giunta a casa della nonna, Irene vi trova anche la madre María, che si
occupa di Liberata (ormai quasi ottantenne e a malapena autosufficiente) nei
momenti liberi dal lavoro. Mentre le due parlano, l’anziana si addormenta e nel
sonno sembra rivivere a voce alta un abuso subito (“I was too frightened. If I
came out he might still – Oh, God!”136) che María tende più volte a minimizzare
di fronte alla figlia (“You shouldn’t listen to her foolishness […]. She wasn’t
molested. It’s just her imagination”137).
La scena successiva si svolge durante il Veterans Day, giorno in cui Irene
accompagna la madre María al Santa Fe National Cemetery per visitare la tomba
del padre Daniel, morto per malattia a 43 anni, dopo aver combattuto nella guerra
in Vietnam. In questa occasione Irene ricorda con affetto le parole di stima e
incoraggiamento del padre, il giorno in cui si era laureata in giurisprudenza (“You
can be anything you want, honey […] Don’t let anything stop you”138).
La sintonia e l’affiatamento che la univa al padre contrasta fin da subito
con la diversità di vedute rispetto alla madre (“She was […] more her father’s
child than her mother’s”139). Il loro rapporto è segnato infatti da incomprensioni e
divergenze – in particolare sul ruolo della donna – dovute sia a differenze
generazionali sia a filosofie di vita contrastanti. Mentre María si attiene alla
135
“Anglosassoni con i loro soldi e le loro auto e le case in stile hacienda che ora occupavano gran
parte di ciò che lei vedeva ancora come proprietà di famiglia”. Ibidem, 2.
136
“Ero troppo spaventata. Se uscissi potrebbe ancora – Oh, Dio!”. Ibidem, 5.
137
“Non dovresti dar retta alla sua pazzia […]. Non ha subito molestie. È solo la sua
immaginazione”. Ibidem, 13
138
“Puoi diventare chi vuoi tu, tesoro […] Fa in modo che nulla ti fermi”. Ibidem, 9.
139
“Era […] la figlia di suo padre, più che di sua madre”. Ibidem, 10
194
cosiddetta “holy trinity” della donna (“church, kitchen, and children”140), Irene è
emancipata e indipendente e non condivide la fissità dei ruoli delle famiglie
patriarcali ispaniche, in cui la priorità dell’uomo era arruolarsi nell’esercito,
mentre quella della donna era essere totalmente devota alla famiglia ed alla Chiesa:
“La raza men were definitely defined by war. As the women were defined by their
men”141.
Mentre discutono sulle condizioni di salute della nonna e su come potersi
occupare al meglio di lei – ad esempio vendendo i suoi possedimenti per
permettere a María di lasciare il lavoro e occuparsi a tempo pieno della madre142 –
Irene va su tutte le furie quando apprende che la donna, insieme al fratello minore
Daniel, si era rivolta a Henry López, un avvocato-uomo ed esterno al nucleo
familiare, per gestire la situazione, dimostrando in questo modo di non riporre
fiducia in lei (nonostante gli anni di esperienza che aveva alle spalle), per il fatto
di essere donna.
Il secondo capitolo, intitolato “Liberata”, è dedicato alla storia della più
anziana delle tre protagoniste femminili, cresciuta nella comunità agricola dei Los
Rafas nella prima metà del Novecento. Liberata proviene da una famiglia
amorevole e benestante, rispettata da tutto il villaggio come esempio di onestà,
devozione religiosa e generosità. La madre Gabriela e il padre Carlos –
quest’ultimo in particolare, colonna portante e paladino delle tradizioni – la
educano secondo le virtù femminili che erano state tramandate di generazione in
generazione e che prevedevano il rispetto dei propri doveri domestici e religiosi e
140
“Santa trinità”, “chiesa, cucina e figli”. Ibidem, 8
“Gli uomini de la raza venivano sicuramente definiti dalla guerra. Così come le donne
venivano definite dai loro uomini”. Ibidem, 15
142
María le dice infatti “I’m going to do my duty to my mother / Farò il mio dovere con mia
madre”. Ibidem, 3.
141
195
“a recognition that men were the stronger, superior beings. Thus the role of a
woman was circumscribed as it had been passed down through the generations”143.
Liberata cresce anche insieme a Eduardo (Eddie), il cugino rimasto orfano
e preso in affidamento dalla sua famiglia, con il quale instaura fin da subito un
rapporto di profonda complicità e affiatamento. Quando la ragazza inizia a
frequentare Benito Sánchez – un uomo estremamente attraente ma proveniente da
una famiglia povera e poco raccomandabile – sia i genitori sia Eddie cercano di
metterla in guarda e di dissuaderla, provocando però in lei una reazione opposta:
“The more people objected to Benito, the more determined Liberata became in her
desire to be his sweetheart”144.
Nonostante le obiezioni dei genitori e nonostante la cattiva impressione
che la famiglia di Benito aveva fatto sulla ragazza – (“How could my beautiful
Benny be their son?” 145 ) per i modi rozzi e poco rispettosi del padre Arturo,
soprattutto nei confronti della moglie Paciencia – Liberata è sempre più convinta
di voler sposare l’uomo e riesce a far accettare l’idea anche a Gabriela e Carlos.
Subito dopo il matrimonio, la donna deve però fare i conti con un brusco e
inatteso cambio nel comportamento di Benito che diventa dedito all’alcool,
scontroso e violento. Non solo l’uomo abusa di lei sessualmente e la tratta come
se fosse un mero oggetto (“You’ll do what I tell you. I own you!”146), ma sfrutta a
proprio piacimento la ricchezza e la generosità della famiglia Rafa (che aveva
143
“Quindi il ruolo di una donna era circoscritto così come era stato tramandato per generazioni”.
Ibidem, 30.
144
“Più le persone si opponevano a Benito, più Liberata era determinata nel suo desiderio di essere
la sua amata”. Ibidem, 26.
145
“Come poteva il mio splendido Benny essere figlio loro?”. Ibidem, 37.
146
“Farai quello che ti dico. Sei mia!”. Ibidem, 65
196
donato loro la casa e una macchina), oltre che lo stipendio della donna che
lavorava come cassiera in un bar.
Un giorno Liberata riceve una visita inattesa e sconvolgente: una donna
incinta (Rachel) le piomba in casa accompagnata dal fratello, per reclamare dei
soldi che Benito le doveva per le spese mediche del figlio che portava in grembo:
“Our baby. Mine and Benny’s”; Rachel le rivela anche che l’uomo non l’aveva
mai amata: “He just married you for your money. […] He never loved you. It was
always me. He should have married me”147.
In preda alla disperazione Liberata – che fino a quel momento aveva
vissuto nel terrore, continuando a chiedersi se stesse sbagliando qualcosa, senza
avere il coraggio di raccontare nulla ai genitori per la vergogna – decide allora di
confessarsi e di rivelare il suo “terrible, dark secret” 148 a Father López.
Quest’ultimo non solo ignora la sua richiesta di aiuto, ma la congeda rapidamente
ricordandole il dovere di ogni donna di compiacere il proprio marito (“This
sounds no worse than many marriages I hear about. […] The important thing is
that you must try to please your husband”149).
Il giorno stesso, mentre torna a casa furibonda ed esasperata (“She was
furious! […] Was there anybody who would listen to her!”), Liberata incontra
Eddie e trova il coraggio di raccontargli cosa stava succedendo. L’uomo si offre
di aiutarla ma Liberata lo dissuade: “It’s my problem, […] I don’t want you to get
147
“Il nostro bambino. Il mio e di Benny”, “Ti ha sposato solo per i soldi. […] Non ti ha mai
amato. Sempre me. Avrebbe dovuto sposare me”. Ibidem, 68-69.
148
“Terribile, oscuro segreto”. Ibidem, 71.
149
“Non è peggio di molti altri matrimoni di cui sento. […] La cosa importante è cercare di
compiacere tuo marito”. Ibidem, 72.
197
mixed up in it”150 . Più tardi al rientro dal lavoro, Benito va su tutte le furie
quando scopre che la moglie non ha ubbidito alla sua richiesta di chiedere un
prestito al padre Carlos. Mentre l’uomo le si scaglia contro minacciandola (“I’ll
kill you!”151) la scena si chiude.
Il terzo capitolo è invece dedicato a María, figlia di Liberata e futura
madre di Irene, che nasce nel 1942 e cresce in una Albuquerque in grande
espansione, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, quando un’ondata di
ottimismo e modernità invade l’intera area. Insieme a nuove imprese e strade
asfaltate, arrivano anche nuovi abitanti di origini anglosassoni, specialmente dal
Texas, che si vanno ad aggiungere e mescolare alle comunità ispaniche locali.
Anche María eredita i valori della cultura tradizionale e condivide in pieno
le pietre miliari di una donna (battesimo, prima comunione, maturità, matrimonio
e maternità), convinta che la vita fosse “an endless cycle of generations” in cui si
fa tesoro degli insegnamenti degli antenati poiché “when it came to day-to-day
living, the old ways were the best”152.
María cresce senza aver mai conosciuto il padre che, secondo i racconti di
Liberata, era morto in guerra dopo sei mesi dalla sua nascita. Lo aveva però visto
nella foto del matrimonio dei genitori che la mamma conservava in camera. In
sala, la donna aveva invece appeso una foto in uniforme dello zio Edoardo, anche
questi morto in guerra nel 1942. Poiché la mamma non era molto propensa a
parlare del passato, María cerca di saziare la propria curiosità sul padre e sulla
giovinezza di Liberata, facendo ripetutamente domande alla nonna (Nana). Dai
150
“Era furiosa! […] C’era qualcuno che l’avrebbe ascoltata?”, “È un problema mio, […] non
voglio che ti immischi”. Ibidem, 76.
151
“Ti ammazzo!”. Ibidem, 79.
152
“Un ciclo infinito di generazioni”, “Quando si trattava della vita di tutti i giorni, i modi di una
volta erano i migliori”. Ibidem, 128, 100.
198
suoi sguardi e dai suoi silenzi (“María could sense coolness in her lack of
response”) María intuisce la presenza di ricordi conturbanti, nel passato della
famiglia (“Nana’s eyes narrowed, reminded of something that she might not have
wanted to remember”153).
Al termine della scuola superiore María non è intenzionata a proseguire
con gli studi universitari convinta che siano inutili per una donna (“higher
education for girls was a waste”154). Seguendo gli insegnamenti della madre che
l’aveva sempre messa in guardia sull’inaffidabilità degli uomini, accetta con
entusiasmo la proposta di matrimonio di Daniel, un ragazzo di origini ispaniche e
proveniente dalla stessa comunità agricola155.
Ma Daniel, che è molto devoto alla propria famiglia e vorrebbe contribuire
ad un futuro più dignitoso sia per i propri genitori sia per María, decide di
arruolarsi nell’esercito, subito prima del matrimonio. Attraverso le lettere che
l’uomo invia alla futura moglie, raccontando dei diversi luoghi che visita e degli
accampamenti militari in cui viene inviato, anche gli orizzonti culturali e
geografici di María si espandono ben oltre i ristretti confini della comunità dei
Los Rafas.
In una di queste lettere, Daniel informa María di esser stato scelto per una
missione speciale oltreoceano e, prima di partire, avendo alcune settimane di
congedo, i due giovani si sposano. Subito dopo le nozze, Daniel parte per il
Vietnam dove viene però gravemente ferito in un attentato, a seguito del quale gli
153
“María percepiva una certa freddezza nella sua mancata risposta”, “La nonna socchiuse gli
occhi, ricordando qualcosa che non avrebbe voluto ricordare”. Ibidem, 107.
154
“Gli studi universitari per le ragazze sono uno spreco”. Ibidem, 99.
155
Memore dell’esperienza di Benito, Liberata infatti le diceva continuamente: “Men are not worth
fighting over, and the better looking they are, the more you’ll have to fight. / Non vale la pena
lottare per gli uomini, e più sono belli, più dovrai lottare”. Mentre Daniel viene descritto
positivamente come “a nice old-fashion boy / un ragazzo bravo e all’antica”. Ibidem, 99, 126.
199
viene amputato il piede e parte della gamba. Una vota tornato ad Albuquerque,
l’uomo non si perde d’animo e con gran determinazione, continua gli studi
frequentando un istituto tecnico che gli permette di lavorare e sentirsi utile (“a
useful member of society”156).
Nel frattempo la loro famiglia cresce: María mette al mondo cinque figli
(Irene, Marta, Daniel, Lisa e Samuel) e Irene, la maggiore, sarà la preferita del
padre. Nello stesso periodo però muoiono anche Carlos, il padre di Liberata, e
Matías, il padre di Daniel, lasciando i giovani coniugi con la sensazione di essere:
“caught between the mortality of the older generations and the demanding
innocence of the new”157.
Quando all’età di quarantatre anni muore all’improvviso anche Daniel per
un tumore, María si sente completamente persa per la rottura di quel ciclo
generazionale e genealogico che aveva sempre reso solida la sua vita: “Her life
was shattered. […] The lessons from the past no longer applied. The cycle was
broken”158.
Il terzo capitolo è quindi dedicato a Irene, la prima delle tre protagoniste a
rinnegare la sua eredità femminile, lasciando Albuquerque “and the way of life
her family had lived for generations” 159 per realizzare le proprie aspirazioni
personali e professionali. Dopo aver gradualmente preso le distanze dalla
religione e dalla Chiesa durante la sua adolescenza, una volta terminata la scuola,
Irene decide di frequentare l’università in California, dove viene coinvolta in
156
“Un utile membro della società”. Ibidem, 143.
“Intrappolati tra la mortalità delle generazioni più anziane e l’impegnativa innocenza delle
nuove”. Ibidem, 144.
158
“La sua vita era a pezzi. […] Le lezioni del passato non funzionavano più. Il ciclo era stato
rotto”. Ibidem.
159
“E il modo di vivere che la sua famiglia aveva perpetuato per generazioni”. Ibidem, 159.
157
200
prima persona nelle lotte femministe e nel Movimento per i diritti civili delle
minoranze etniche.
Grazie al suo attivismo, al confronto con le amiche chicane e ai suggestivi
murales messico-americani che ricoprono le pareti dell’università, Irene prende
coscienza delle proprie origini meticcie (che i Rafa avevano sempre rinnegato) e
della propria condizione di Latina. Capisce inoltre che, nonostante le sue umili
origini e nonostante si sentisse penalizzata in un mondo prettamente maschile e
bianco, proprio grazie agli studi avrebbe potuto rendersi utile nella società e
realizzare il suo sogno di diventare avvocato160.
Le sue ambizioni e il suo senso di immortalità vengono però stroncati dalla
morte improvvisa del padre che l’aveva sempre sostenuta e che, proprio sul letto
dell’ospedale in uno dei suoi ultimi giorni di vita, le aveva chiesto di essere
comprensiva con la madre, nonostante la radicale diversità di vedute che le
divideva: “Be kind to your mother. […] Sometimes she’s hard to take but she
really wants the best for you”161.
Forse memore di queste parole, dopo il fallito matrimonio con Paul
Mizrahi, figlio di una ricca famiglia del Nord Est che l’aveva fin da subito trattata
con superiorità – Irene decide di lasciare la California e tornare nel New Mexico,
riavvicinandosi alla sua famiglia. Deve quindi riadattarsi, non solo alla società più
chiusa ed arretrata di Albuquerque – in cui le persone sembravano imbrigliate nel
passato (“stuck in the same place, trapped in old ways that prevented them from
160
Irene dice infatti di sentirsi una “underdog in a male, Anglo world / una svantaggiata in un
mondo maschile e anglosassone”. Ibidem, 189.
161
“Sii buona con tua madre. […] A volte è difficile da trattare, ma lei vuole veramente il meglio
per te”. Ibidem, 190.
201
moving forward”162) – ma anche alle forti divergenze con la madre, che non riesce
ad accettare la sua indipendenza, né tanto meno il suo divorzio: “it was better to
remain a true daughter of the Church in a miserable marriage than to defy the
Pope and commit the damning sin of divorce”163.
Negli anni, nonostante le pressioni esasperanti di María perché si trovi un
marito e nonostante avesse una relazione stabile con Robert (che descrive come
un ragazzo all’antica) Irene decide di non risposarsi, consapevole di essere ormai
troppo emancipata per seguire “[her] Mother’s mold”164.
L’ultimo capitolo, “The Skeleton in the Cornfield”, si ricollega
direttamente al primo e riporta l’attenzione sull’anziana Liberata e sui suoi ultimi
giorni di vita. Non essendo più autosufficiente e soffrendo di demenza senile, la
famiglia ha deciso di vendere la sua proprietà ad un’impresa edile per poter così
pagare una casa di cura che si potesse occupare di lei. María vive con un forte
senso di colpa questa decisione, sentendo di aver rotto quella continuità
genealogica che proprio quel terreno, tramandato di generazione in generazione
per quasi trecento anni, sembrava racchiudere.
Un giorno, durante i lavori di scavo, gli operai dell’impresa edile trovano
uno scheletro umano intero nel campo di grano adiacente a quella che era stata la
casa di Liberata. La polizia inizia a fare delle indagini per capire a chi
appartenesse il corpo senza però arrivare a nessun risultato, soprattutto perché si
trattava di uno scheletro che nessuno aveva reclamato, risalente ad oltre sessanta
anni prima. Irene invece si insospettisce e decide di condurre da sola delle
162
“Bloccate nello stesso posto, intrappolate in abitudini antiche che impedivano loro di andare
avanti”. Ibidem, 200.
163
“Era meglio rimanere una vera figlia della Chiesa in un matrimonio infelice, piuttosto che
sfidare il Papa commettendo il palese peccato del divorzio”. Ibidem, 147.
164
“Il modello di sua madre”. Ibidem, 146.
202
indagini. Un giorno si reca nel laboratorio di analisi in cui lavorava un vecchio
amico (Charlie Carrillo) per cercare di avere maggiori informazioni sullo
scheletro. Scopre quindi che apparteneva a un uomo di circa vent’anni di origini
New Mexican e acconsente a fare un test del DNA per verificare se si trattasse di
un loro parente.
Contemporaneamente inizia a prestare più attenzione alle strane frasi sul
marito Benito che la nonna continua a pronunciare (e che tutti considerano frutto
della sua demenza): “Have me put somewhere far, far away from Benito”, “I’m
going to meet Benito in hell, and I don’t look forward to that”165. Chiede inoltre
alla madre di farsi raccontare tutto quello che aveva appreso sulla misteriosa
scomparsa dell’uomo, avvenuta proprio sessant’anni prima.
Mettendo insieme ricordi di famiglia, dicerie di paese e intuizioni
personali, Irene capisce dunque che Liberata, probabilmente aiutata da Eddie,
aveva ucciso il marito Benito per difendersi dalle sue violenze e continuava ad
essere perseguitata dal ricordi di quel tragico gesto. Solo nel suo ultimo giorno di
vita Irene trova la nonna completamente rasserenata, forse per esser stata assolta
durante la sua ultima confessione.
Dopo i funerali di Liberata, Irene e la madre rimangono a lungo da sole e
finalmente riescono ad aprirsi l’una all’altra, accettandosi pur nella loro diversità,
come fanno intuire la parole di Irene: “I’m sorry I’m such a worry for you. […] I
can’t help being who I am and thinking what I think”166. Nei giorni successivi la
donna riceve una telefonata dal suo amico del laboratorio Charlie che la informa
165
“Fatemi mettere da qualche parte lontano, lontano da Benito”, “Incontrerò Benito all’inferno, e
non lo aspetto con impazienza”. Ibidem, 213, 225.
166
“Mi dispiace di farti preoccupare così tanto. […] Ma non posso fare a meno di essere così come
sono e di pensare ciò che penso”. Ibidem, 245.
203
del legame di parentela tra lei e il misterioso scheletro, emerso dal test del DNA.
Irene a questo punto sa che le sue intuizioni sul tragico segreto rimasto sepolto per
anni sono vere. E mentre contempla il Río Grande e i profondi cambiamenti a cui
il fiume ha assistito nei secoli, si chiede se sarà possibile progredire quando anche
i migliori esseri umani sono indotti a compiere gesti terribili.
4.3.3 Il matriarcato narrativo
L’opera è suddivisa in cinque capitoli, di cui il primo e l’ultimo –
ambientati nel presente – fungono da cornice per i capitoli centrali, dedicati in
successione alla vita di ciascuna delle tre protagoniste femminili: Liberata, María
e Irene. Le loro vicende sono presentate da una voce narrante in terza persona che
ripercorre la storia della famiglia Rafa mettendola in relazione con i principali
eventi storici che hanno segnato gli Stati Uniti, negli ultimi quattro secoli.
La continuità genealogica e culturale della famiglia viene enfatizzata dal
forte legame con la terra d’origine: il New Mexico e in particolare la comunità
agricola dei Los Rafas, nell’area di Albuquerque, in cui i primi antenati si
stabilirono nel Diciassettesimo secolo e in cui tutti i successivi membri della
famiglia hanno vissuto per trecento anni, fino alla protagonista più giovane, Irene.
Quest’ultima spezza la stabilità geografica e culturale dei Rafa quando decide di
lasciare la “land of enchantment”167 per studiare in California168.
Già dal primo capitolo, sempre attraverso la voce narrante in terza persona,
l’autore mette a nudo i tratti salienti del romanzo che verranno poi sviluppati con
167
“La terra d’incanto”, soprannome del New Mexico. Ibidem, 249.
Di fatto la voce narrante si chiede più volte: “Was California where her troubles began? / È
stato in California che sono iniziati i suoi problemi?”. Ibidem, 159.
168
204
varie sfumature nelle 249 pagine che compongono l’opera: il forte peso della
storia e la predominanza di voci femminili.
Dopo una breve descrizione del viaggio in macchina di Irene verso casa
della nonna – in direzione del Río Grande – si fissano infatti fin dalla scena
d’apertura le coordinate spazio-temporali in cui si innesta il racconto, ricostruendo
la genealogia della famiglia Rafa a partire dalla capostipite: la vedova Magdalena
Gutiérrez Rafa, la prima a stanziarsi con i figli nell’area in cui nascerà
Albuquerque.
Le vicende di Magdalena sono avvalorate fin da subito dal riferimento a
due eventi storici reali che la donna vive in prima persona: la Rivolta Pueblo del
1680 e la fondazione di Albuquerque nel 1706169. Di fatto, durante tutta l’opera le
storie delle tre protagoniste verranno continuamente intrecciate a fatti noti e
concreti, come la Grande depressione, la Prima e Seconda guerra mondiale, la
guerra in Vietnam, le proteste studentesche degli anni Settanta, i movimenti civili
per i diritti delle minoranze etniche e delle donne, fino ai nostri giorni.
Come prefigura la stessa genealogia della famiglia (insolitamente fondata
da una donna), si tratta però di un excursus storico alternativo perché elaborato da
un punto di vista doppiamente minoritario ed escluso per secoli dalla storiografia
ufficiale: quello delle tre protagoniste, tutte donne ed appartenenti ad una
comunità etnica minoritaria negli Stati Uniti. È attraverso la loro prospettiva,
marginale e fino a quel momento inascoltata, che l’autore ricostruisce la
quotidianità dei villaggi rurali e periferici del New Mexico, così come le
ripercussioni che su di essi ebbero i grandi eventi storici dello scorso secolo.
169
Lo stesso stemma ufficiale della città riporta al centro la data del 1706.
205
Gli anni Sessanta, ad esempio, vengono introdotti attraverso lo sguardo di
una María preoccupata per i possibili rischi che il marito, da poco arruolatosi
nell’esercito, potrebbe correre:
After Daniel enlists, María became more aware of the outside
world. There were sit-ins in the South protesting segregation. Fidel
Castro confiscated U.S. property in Cuba, and in retaliation the United
States embargoed exports to the island. The presidential election was
hotly contested, with John F. Kennedy and Richard Nixon debating on
television. For her the world was suddenly a dangerous place,
threatening her Daniel. She had been living a dream before, thinking
that Los Rafas was isolated from the rest of the world.170
E mentre rilegge la storia ufficiale da un’ottica femminile (quindi anche
attenta alla dimensione sociale e al mondo interiore della donna), Candelaria non
incappa negli stereotipi della voce prettamente femminile descritti da Susan
Sniader Lanser. È invece sempre attento a investire di autorevolezza e credibilità
la voce delle protagoniste, attraverso un linguaggio poco figurato e asciutto, che
adotta uno stile realistico e segue un andamento prevalentemente cronologico
nella presentazione degli eventi, con un ridottissimo numero di anacronie – così
come vorrebbe proprio la scrittura storiografica.
L’effetto di realtà è inoltre fortemente rafforzato nell’ultimo capitolo, in
cui Irene assume i panni di una detective, altro ruolo (insieme a quello dello
storico) tipicamente maschile. Eppure anche in questo caso, l’autore riesce a
reinterpretare il personaggio standard dell’investigatore attraverso la prospettiva
tutta al femminile di Irene. Nonostante il coinvolgimento diretto della famiglia,
grazie alla sua formazione da avvocato, la donna conduce infatti le indagini con
170
“Dopo l’arruolamento di Daniel, María divenne sempre più consapevole del mondo esterno. Al
Sud c’erano occupazioni di protesta contro la segregazione. Fidel Castro confiscava le proprietà
statunitensi a Cuba e, per rappresaglia, gli Stati Uniti avevano imposto l’embargo sulle
esportazioni verso l’isola. Le elezioni presidenziali erano fortemente contestate, con John F.
Kennedy e Richard Nixon che discutevano in televisione. Per lei il mondo era improvvisamente un
luogo pericoloso, che minacciava il suo Daniel. Aveva vissuto in un sogno prima, quando pensava
che Los Rafas fosse isolato dal resto del mondo”. Ibidem, 130.
206
competenza e lucidità, ricorrendo anche agli strumenti scientifici più appropriati
(come l’analisi del DNA).
Di fronte ai racconti confusi e deliranti della nonna e dopo aver ascoltato
le versioni discordanti sul passato di Benito dei parenti o le dicerie di paese
riportate dalla madre, la donna mette insieme i vari pezzi e risolve l’enigma dello
scheletro con grande intuito, ricorrendo anche all’immaginazione per colmare le
lacune della memoria.
Anche in questo caso, l’autore riesce a trovare un equilibrio tra
l’autorevolezza dell’investigatore e la sensibilità della voce femminile, soprattutto
a livello di focalizzazione. Di norma nei gialli o nei non-fiction novels al detective
si applica una “‘camera’s eye’ or ‘fly on the wall’ perspective – recounting actions
without giving us access to characters’ thoughts”171. Nei momenti chiave in cui
riveste il ruolo di investigatrice, Irene continua invece ad essere presentata
attraverso una focalizzazione interiore, che permette al narratario di comprenderne
meglio le difficoltà, i dubbi, i timori con cui conduce le sue ricerche: “Irene
connected disparate bits of information, a jumble of memories, never quite sure if
the things she was hearing had truly happened or if they were her grandmother’s
senile imaginings”172.
Inoltre, durante lo pseudo-interrogatorio a cui Irene sottopone la madre per
carpire i suoi ricordi sul rapporto tra la nonna e il marito scomparso, Candelaria
riesce a dosare con grande equilibrio narrazione e dialogo. Dà infatti ampio spazio
171
“Punto di vista da ‘macchina fotografica’ o ‘da mosca sul muro’ – raccontando le azioni senza
farci accedere ai pensieri dei personaggi”. Jonathan Culler, Literary Theory: A Very Short
Introduction (Oxford: Oxford University Press, 2000) 89.
172
“Irene collegava pezzi diversi di informazioni, un miscuglio di ricordi, mai sicura se le cose che
sentiva fossero realmente accadute o se si trattasse delle fantasie senili della nonna”. Candelaria, A
Daughter’s a Daughter, 234.
207
sia alle voci e alle dicerie ricordate da María attraverso il discorso indiretto
(“María began. […] There were rumors, […] her cousin told her. […] Another
cousin from the Sánchez side of the family said […]. But there were other
rumors”173), sia al rapido scambio di battute tra le donne, con il discorso diretto.
Anche in quest’ultimo caso, emerge sempre la sensibilità e la difficoltà delle
protagoniste nel portare a galla un passato famigliare così scomodo e intricato, ma
spicca anche la perseveranza di Irene, che non demorde e continua a fare domande
come una vera detective:
“This is not about courts”, María said angrily. “Why do you have
to say that?”
Irene sighed. “I’m sorry, Mother. It’s just that it’s so – so nothing.
Just talk. Was there anything you knew for certain?”.174
La prospettiva femminile è sicuramente quella predominante in tutta
l’opera, che si configura come una sorta di matriarcato narrativo, in cui gli uomini
sono quasi del tutto assenti a livello del discorso anche se non a livello di storia
(fatta eccezione, come vedremo successivamente, per Daniel il padre di Irene). I
personaggi maschili sono infatti tutti presentati con una focalizzazione zero, o
attraverso le parole delle loro mogli o figlie. Sono figure monolitiche e
sclerotizzate che si attengono rigidamente ai ruoli imposti dalla cultura
tradizionale ispanica, senza mai metterla in discussione. Tutti muoiono comunque
prima delle loro mogli – non a caso nell’opera ci sono moltissime vedove – e tutti
si arruolano nell’esercito: scelta realmente comune tra gli ispanici nella prima
metà del Novecento, come confermano le parole di Irene:
173
“María iniziò. […] C’erano voci, […] sua cugina le aveva ditto. […] Un’altra cugina dal lato
Sánchez della famiglia diceva […]. Ma c’erano altre voci”. Ibidem, 227-8.
174
“‘Non si tratta di tribunali’, María disse con rabbia. ‘Perché lo devi dire?’ / Irene sospirò. ‘Mi
dispiace, mamma. Solo che è così – quindi niente. Si fa per parlare. C’era qualcosa che sapevi con
certezza?’”. Ibidem, 228.
208
What was it about these men? she thought. Then she remembered
her ex-husband and nearly laughed. No way would Paul ever have
served in the military. He’d have found a way out, one way or another.
But then he wasn’t Hispanic New Mexican with roots on the farm,
raised to obey and to die for his country if need be.175
L’autorevolezza del discorso storico, sembra quindi voler avvalorare
costantemente la prospettiva femminile e minoritaria che l’autore porta avanti.
Tuttavia questa stessa autorevolezza e verosimiglianza di fondo, viene più volte
smentita e messa in discussione sia a livello di discorso, sia di storia.
A una lettura più attenta, emergono infatti numerosi casi in cui la
narrazione passa dalla prima alla terza persona, in maniera quasi impercettibile,
facendo scomparire le virgolette del discorso diretto, espediente quest’ultimo non
riconducibile alla scrittura storiografica e che sembra annullare la distanza tra la
voce narrante e i personaggi:
“As María approached, she thought, if Mother lost a few pounds,
she and I would look like sisters. But we would never be sisters under
the skin”(10); “Yes, Irene thought. What she thinks is best. Which is
what she would do, not what I would do. I can’t live her life over
again” (190).176
Inoltre, ai numerosi riferimenti storici reali, nella narrazione si affiancano
anche elementi fittizi, apparentemente presentati come autentici. Ne è un esempio
la “Humane Organization for Women Lawyers” 177 , l’organizzazione che invita
Irene a parlare della propria esperienza di avvocato in un mondo prettamente
maschile. Poiché vi si fa allusione dopo aver citato le più note lotte per i diritti
civili, non è facile per il narratario intuire che si tratta di un’organizzazione
175
“Che cosa gli succedeva a questi uomini? Pensò. Poi si ricordò del suo ex-marito e quasi
scoppiò a ridere. Paul, non avrebbe mai fatto il militare. Avrebbe trovato una scappatoia, in un
modo o in un altro. Del resto, non era un New Mexican ispanico con radici in campagna, cresciuto
per obbedire e morire per il suo Paese, se necessario”. Ibidem, 15.
176
“Mentre María si avvicinava, pensò, se la mamma perdesse qualche chilo, io e lei
sembreremmo sorelle. Ma non saremmo mai sorelle sotto la pelle”(10); “Sì, Irene pensò. Quello
che lei pensa sia meglio. Che è quello che farebbe lei, non quello che farei io. Non riesco a rivivere
la sua vita da capo” (190). Ibidem.
177
“Organizzazione umanitaria in favore delle donne avvocato”. Ibidem, 203.
209
totalmente inventata. O ancora, ad un certo punto della sua storia Liberata
racconta le vicende della santa cui deve il nome (Santa Liberata, figlia del re di
Portogallo che riesce a farsi crescere barba e baffi pur di non sposare l’uomo che
il padre le aveva imposto) come se fosse un fatto storico. In realtà, come accade
spesso per i racconti agiografici, esistono molteplici versioni della sua vita,
mescolate a leggende e folclore ed alcuni storici mettono addirittura in
discussione la sua esistenza.
Perché, dunque, Candelaria crea una voce autorevole che sembra però
vacillare inaspettatamente in diversi punti dell’opera? Se è evidente che l’intero
romanzo viene costruito sul sottile confine tra “factual” e “imaginable” 178 ,
spingendo i lettori a non dare mai nulla per scontato, è anche vero, però, che la
scoperta finale dello scheletro riporta alla luce la cosiddetta “inemendabilità”179
del reale. Ciò che emerge è il fatto nella sua cruda realtà, quanto non può essere
corretto né trasformato, il carattere saliente del reale, come lo scorrere del Río
Grande o il permanere della terra, nonostante gli stravolgimenti che il progresso
ha inflitto sul terreno: “no longer being a farm, like it had been for generations. It
was going to become a development”180.
Di fatto, nonostante i cambiamenti inesorabili, l’opera si chiude proprio
con la contemplazione che Irene fa dei punti fermi e inemendabili della storia
della sua famiglia:
West of the farthest extent of the property was the Rio Grande,
which fed this high desert land and had supported past generations of
farmers. Land of enchantment, she thought. Land of my ancestors.
178
“Reale” e “immaginabile”. Hayden White, “The Historical Text as Literary Artifact.” Tropics
of Discourse, Essays in Cultural Criticism (Baltimore: John Hopkins University Press, 1978) 98.
179
Maurizio Ferraris, “Il ritorno al pensiero forte”. La Repubblica, 8 agosto 2011, 37.
180
“Non più di campagna, come era stato per generazioni. Era destinato a diventare un’area di
sviluppo urbano”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5.
210
Generations come and go. We come to terms with a world that moves
too fast. We change. Earth abides.181
A livello di generi letterari, dunque, l’opera è in bilico tra le modalità del
romanzo storico e quelle del New Realism, così come viene descritto nel
Manifesto di Ferraris182.
181
“A ovest della parte più lontana della proprietà c’era il Río Grande, che ha irrigato questa alta
terra desertica e ha dato sostentamento alle generazioni passate di agricoltori. Terra di incanto,
pensò. Terra dei miei antenati. Le generazioni vanno e vengono. Veniamo a patti con un mondo
che si muove troppo velocemente. Noi cambiamo. La terra resta”. Nash Candelaria, A Daughter’s
a Daughter, 249.
182
Maurizio Ferraris, Il manifesto del nuovo realismo (Bari: Laterza, 2012).
211
212
ANALISI LINGUISTICA
4.4 Surface, Deviant English vs Latent, Underlying
Spanish
My parents belonged to a generation that wanted to move out to
the mainstream and to the broader world. They did not speak Spanish
to me or my sister at all when we grew up in Los Angeles. They did
speak it among themselves occasionally when they wanted to keep a
secret from us. As a result I grew up ‘1.1 lingual’ as I call it, I handle a
little Spanish.183
Candelaria è di madre lingua inglese ma conosce lo spagnolo (nonostante i
genitori non lo utilizzassero in casa) grazie ai ripetuti soggiorni in New Mexico –
per il lavoro del padre o per visite ai parenti più stretti – che hanno caratterizzato
la sua infanzia. Per le sue insicurezze con la sua seconda lingua e per la limitata
capacità di parlarla, in occasione della nostra intervista l’autore si è definito “1.1
lingual”, collocandosi nello spazio intermedio e fluido di chi è più di un
monolingue, senza essere propriamente bilingue.
Anche per O’Reilly Herrera la prima lingua è l’inglese, ma l’autrice ha
sempre nutrito una forte passione per lo spagnolo che ha ascoltato e imparato in
casa, fin da bambina, grazie alla presenza di amici e parenti ispanofoni ospitati
anche per lunghi periodi dalla sua famiglia:
My mother didn’t speak Spanish to us, but we had lots of different
people living with us from Pedro Pan for example [Operation Peter
Pan] and relatives who didn’t speak English. So we learned Spanish
from everyone but my mother, although she would talk to the others in
Spanish.184
183
“I miei genitori appartenevano ad una generazione che voleva fare ingresso nella cultura
dominante ed in un mondo più ampio. Non parlavano per niente spagnolo con me e mia sorella
mentre crescevamo a Los Angeles. Lo parlavano tra di loro, occasionalmente, quando volevano
mantenere un segreto. Di conseguenza sono cresciuto ‘1.1-lingue’ come dico io, conosco solo un
po’ di spagnolo”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5.
184
“Mia madre non parlava spagnolo con noi, ma c’erano molte persone che vivevano con noi, ad
esempio da Pedro Pan [Operazione Peter Pan] e parenti che non parlavano inglese. Quindi
213
O’Reilly Herrera ha quindi un’ottima padronanza dello spagnolo e una
spiccata propensione a utilizzarlo ogni volta che se ne presenti l’occasione, come
dimostra la nostra stessa intervista, iniziata in castigliano per iniziativa
dell’autrice e proseguita in inglese, dopo fasi intermedie di mescolamento delle
due lingue che O’Reilly Herrera alterna con estrema naturalezza.
Come confermano le parole di Keller, Rivera era invece pienamente
bilingue:
Eddie was bilingual. Eduardo/Edward Rivera was bilingual at full
strength, with all that goes with it. He was this plenitude in his
creative writing, in his professional life, and in his social and
community constructs.185
Il complesso rapporto tra identità linguistica ed etnica dei tre autori, che
verrà qui sviluppato, evidenzia fin da subito l’impossibilità di individuare un
idioma letterario unico e riconoscibile per tutti i Latinos. A questi si possono
invece estendere le stesse considerazioni che Juan Bruce-Novoa aveva formulato,
già alla fine degli anni Settanta, in riferimento alla letteratura chicana:
The instinctual use of one’s personal native idiom is, however,
much more complex than a simple preference for English over
Spanish. It is interlingualism – not bilingualism. Chicanos blend
Spanish and English, at times in obvious ways, such as juxtaposing
words from both languages, but more often in such subtle fusions of
grammar, syntax or cross-cultural allusions that monolingual readers
will hardly notice. […] This interlingual form of expression is the true
native language of Chicano communities, even though some members
speak only English or only Spanish – as a whole, the language
spectrum covers these and every potential blend.186
abbiamo imparato spagnolo da tutti meno che da mia madre, anche se lei parlava in spagnolo con
gli altri”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5.
185
“Eddie era bilingue. Eduardo/Edward Rivera era bilingue alla massima potenza, con tutto ciò
che ne consegue. Questa abbondanza si rifletteva nella sua scrittura creativa, nella sua vita
professionale e nelle sue costruzioni sociali e di comunità”. Gary D. Keller, “The Pioneering
Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 128.
186
“L’uso istintivo del proprio idioma nativo è, tuttavia, molto più complesso di una semplice
preferenza per l’inglese o per lo spagnolo. È interlinguismo, non bilinguismo. I chicani mescolano
spagnolo e inglese, a volte in modo ovvio, ad esempio giustapponendo parole da entrambe le
lingue ma, più spesso, in una fusione sottile di grammatica, sintassi e allusioni interculturali che i
lettori monolingui difficilmente notano. […] Questa forma d’espressione interlingue è la vera
lingua nativa delle comunità chicane, anche se alcuni membri parlano solo spagnolo o solo inglese
214
Sulla base delle interviste condotte a quattordici autori chicani e in
contrasto con ogni sorta di sistema binario, Bruce-Novoa non riconduce la lingua
adottata dagli scrittori messico-americani ai soli standard dell’inglese o dello
spagnolo ma parla piuttosto di interlinguismo, considerando i due codici come un
patois, un impasto molteplice e fluido, modellato e arricchito di volta in volta in
base alle esigenze espressive e alla libera creatività artistica.
Se in molti casi infatti i due idiomi vengono semplicemente giustapposti,
ancor più spesso si creano fusioni profonde (a livello grammaticale, morfologico o
sintattico) o allusioni interculturali così sottili da essere difficilmente captabili
dall’ascoltatore/lettore monolingue.
A prescindere dal grado o dalla modalità di ibridazione del vernacolo dei
Latinos, nella comunicazione letteraria esso avrà sempre un valore aggiunto
fondamentale: quello di condurre i lettori WASP in una zona di contatto in cui
lingue e culture diverse interagiscono, rendendo necessario un decentramento del
punto di vista e uno sforzo “to stretch la imaginación”187, così come auspicavano
già nel 1983 le curatrici dell’antologia bilingue Cuentos: Stories by Latinas. Ogni
parola o struttura linguistica percepita come anomala richiede infatti una
compensazione immaginativa che rende evidente la parzialità dei processi di
interpretazione (non possiamo capire tutto) e l’ambivalenza del significato:
“termine intermedio tra due parti, il risultato di una costruzione che procede per
prova ed errore, lungo il confine che separa gli interlocutori”188.
– nel suo insieme, la gamma delle lingue comprende questi e ogni potenziale fusione”. Juan BruceNovoa, RetroSpace: Collected Essays on Chicano Literature, Theory and History (Houston: Arte
Público Press, 1990) 50.
187
“Estendere l’immaginazione”. Alma Gómez, Cherríe Moraga, Mariana Romo-Carmona, eds.,
Cuentos: Stories by Latinas (New York: Kitchen Table/Women of Color, 1983) 10-11.
188
Anna Scannavini, Giochi di giochi (Roma, Nuova Arnica, 2003) 14.
215
Estendendo agli autori Latinos le osservazioni che Ernst Rudin elabora in
riferimento
agli
scrittori
messico-americani,
possiamo
quindi
definirli
“translator[s] between cultures”, portando in evidenza che “the Spanish-language
elements in their texts constitute one of the most salient and revealing markers of
these processes of translation”189. Candelaria, O’Reilly Herrera e Rivera quindi,
ciascuno attraverso diversi livelli di fusione di spagnolo e inglese, non solo
rompono l’ordine default della comunicazione, ma intraprendono un’operazione
costante e spesso impercettibile di negoziazione culturale, che la stessa Andrea
O’Reilly Herrera cerca sempre di rendere esplicita per i suoi lettori, frustrati di
fronte alla complessità di opere multilingua:
When my readers come across the Spanish passages in Pearl (in
the green Morroco notebook), many get annoyed and frustrated. […]
In response, I ask people to consider who’s reading the notebook.
Who’s looking at it in the novel? It’s Lilly, of course. So imagine,
what would you be feeling if you were her, facing this impenetrable
wall of language? […] So as a reader you need to ask yourself why
writers incorporate foreign languages into their works. It’s not
gratuitous, it’s not to make you angry. […] [Y]ou cannot always
translate everything – especially when it comes to experience and
culture. As a reader-outsider, you are always in the act of translating.
Ultimately what you are translating becomes something different and
new. Metaphorically, this act of translating represents a way of
negotiating cultures linguistically.190
Come si può evincere anche dai titoli, in A Daughter’s a Daughter, Family
Installments e The Pearl of the Antilles la lingua dominante è sicuramente
189
“Traduttori tra culture”, “gli elementi della lingua spagnola nei loro testi sono uno dei più
rilevanti e significativi indicatori di questo processo”. Ernst Rudin, Tender Accents of Sound:
Spanish in the Chicano Novel in English (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1996) xxi.
190
“Quando i miei lettori si imbarcano nei passi in spagnolo di Pearl (nel taccuino verde in pelle
marocchina), molti sono seccati e frustrati. […] In risposta io chiedo alle persone di considerare
chi sta leggendo il taccuino. Chi lo sta guardando nel romanzo? Naturalmente è Lilly. Quindi
immaginate come vi sentireste nei suoi panni, ad affrontare questa barriera impenetrabile della
lingua? […] Chi legge si deve chiedere perché gli scrittori incorporino lingue straniere nelle loro
opere. Non è gratuito, non è per farli arrabbiare. […] [N]on si può sempre tradurre tutto –
specialmente se si tratta di esperienza e cultura. Nel ruolo di lettori-estranei, ci si trova sempre a
tradurre. In definitiva ciò che si sta traducendo diventa qualcosa di diverso e nuovo.
Metaforicamente, questo atto di traduzione rappresenta un modo per negoziare le culture
linguisticamente”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”,
Capitolo 5.
216
l’inglese e il monolinguismo rimane un forte vincolo. I testi sono però costellati di
termini in spagnolo che, a colpo d’occhio, non sono immediatamente individuabili
nell’opera di Candelaria e di O’Reilly Herrera (dove vengono lasciati in tondo),
mentre risaltano sicuramente con più facilità nell’opera di Rivera sia perché più
numerosi, sia perché segnalati tipograficamente dal corsivo. In tutti e tre i casi, le
alternanze con lo spagnolo sono distanziate abbastanza da non impedire la
comprensione del testo, pur impegnando pienamente l’attenzione di chi legge.
Volendo classificare i tre romanzi per il loro ibridismo linguistico, nel
livello più basso potremo collocare A Daughter’s a Daughter dove le
commutazioni allo spagnolo sono più limitate e controllate per quantità, scelta
lessicale e ortografia. L’autore predilige infatti la trascrizione in inglese anche per
termini ripresi da un contesto ispanico, come “El Santuario de Chimayo” o
“piñon” (anziché “El Santuario de Chimayó” o “piñón”) 191. Quando sceglie lo
spagnolo spesso non vengono rispettate le regole d’ortografia, come in “Que
suave” (anziché “Qué suave”, trattandosi di un’esclamazione) 192 . Per questi
esempi si può parlare di “spelling variations for literary purposes”193 fenomeno a
cui Gary Keller riconduce tutte le variazioni di ortografia che rivelano le
interferenze profonde tra inglese e spagnolo nelle società bilingui. In questo caso,
la propensione dell’autore per la grafia inglese sembra evocare l’assimilazione
culturale del New Mexico moderno e l’esperienza biografica dello stesso
Candelaria, segnata proprio da una formazione Anglosassone, nonostante il forte
191
Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 149.
Ibidem, 54.
193
“Variazioni ortografiche per scopi letterari”. Gary D. Keller, “The Literary Stratagems
Available to the Bilingual Chicano Writer”, The Identification and Analysis of Chicano Literature,
ed. Francisco Jiménez (New York: Bilingual Press, 1976) 309.
192
217
legame con la cultura ispanica e con l’amato New Mexico dove tutt’oggi l’autore
vive.
La tendenza a prediligere l’inglese sembra confermata anche dal fatto che
molte delle parole apparentemente in castigliano sono in realtà prestiti dallo
spagnolo ormai ampiamente riconosciuti e diffusi nel vocabolario inglese, come
“hacienda”, “fiestas […] plazas”, “Anglos”, “guerrillas”, “pueblo”, “macho”, o
“Hispanos”194. Infine, va segnalato anche che le commutazioni di codice – ben
distribuite tra voce narrante e dialoghi – si limitano a singoli sintagmi lessicali,
fenomeno riconducibile all’importanza delle informazioni pragmatiche e
semantiche che essi contengono, ma anche alla maggiore libertà e facilità con cui
possono essere inseriti all’interno dell’inglese, anche da un autore non
propriamente bilingue come Candelaria. Includo alcuni esempi a scopo
esemplificativo:
“she was his princesa” (30); “Ah, Señora Rafa, that was delicious”
(37); “You are católicos, of course?” (39); “Pagaron cash?” (38); “Oh,
Mamacita, she thought” (169); “Tell that cabezón that you can’t paint
this church red” (198); “She would gobble down the bizcochitos
Grandmother had baked” (244); “Irene turned toward the nicho with
the photograph” (245).195
The Pearl of the Antilles si colloca invece in un livello più alto di
ibridismo linguistico soprattutto considerando il maggior numero di ingerenze
dello spagnolo che si estendono a intere frasi, esclamazioni e detti peraltro sempre
accurati sia dal punto di vista ortografico, sia per la punteggiatura come: “¡No me
diga!”, “¿Qué les parece, señores? […] ¡Qué barbaridad!”, o “En boca cerrada
194
Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 2, 107,127, 149, 137, 161, 200.
“Lei era la sua princesa” (30); “Ah, Señora Rafa, era delizioso” (37); “Voi siete católicos di
certo?” (39); “Pagaron in contanti?” (38); “Oh, Mamacita, pensò” (169); “Dì a quel cabezón che
non si può pitturare questa chiesa di rosso” (198); “Lei si ingozzava con i bizcochitos che nonna
aveva cotto al forno” (244); “Irene si girò verso il nicho con la fotografia” (245). Ibidem.
195
218
nunca entran moscas”, “Rey muerto. Rey puesto” 196 . Questi inserimenti fanno
intuire la competenza in entrambe le lingue della voce narrante e, indirettamente,
dell’autrice. In tutte e tre le parti dell’opera, incluse le lettere, vi sono esempi delle
tre tipologie di commutazione individuate dalla linguista Shana Poplack, con
numerosi casi di “intrasentential switching” o mescolanza, “intersentential
switching” e “tagswitching”197, come si evince dai seguenti esempi:
[Intrasentential switching] “she picked a sprig of hierbabuena from
her iced tea” (43); “Por qué a next world? Let me tell you something,
m’hija” (53); “convinced that my sister had poured an extra gotita or
two of rum” (53); “The old man was already on his eighth tasita of
café” (109); “only Lobo (el tercero) know him” (203); “they were
given only a cup of water and un pedazo de pan” (207); “Agua sucia,
and they call it café” (307).198
[Intersentential switching] “We are told that the revolution has
guaranteed all Cubans freedom of speech – qué chiste” (197); “Go
back to your rich father, eres una puta” (278).199
[Tagswitching] “Forgive me, mi amor” (8); “¡Ay Dios mío! I’ll
remember that day as long as I live” (36); “I insulted your wife,
Señor?” (39); “Life is only a thin skin, corazón” (50); “we are nearly
starving to death and she has a car, sin vergüenza! […] Menos Mal.
He died the next morning, el pobre” (232); “They live their children to
the nuns, m’hija” (257); “Watch what you say to him, nena” (264);
“Gracias a Dios, José later told his friends at the bar” (287).200
196
“Non mi dica!” (24); “Che cosa vi sembra, signori? […] Accidenti!” (41); “Nella bocca chiusa
non entrano mai le mosche” (44); “Morto un papa se ne fa un altro” (201). O’Reilly Herrera, The
Pearl of the Antilles.
197
“Commutazione intrafrastica”, “commutazione interfrastica”, “commutazione emblematica”.
Shana Poplack, “Sometimes I’ll Start a Sentence in Spanish ‘y Termino en Español’: Toward a
Typology of Code-Switching” (Working Paper 4, 1979) 16. L’intrasentential switching si ha
quando l’alternanza avviene all’interno di una frase, l’intersentential switching avviene al confine
tra due frasi, mentre il tagswitching riguarda elementi slegati dalla frase (esclamazioni, riempitivi,
espressioni coda, frasi idiomatiche) o parole molto connotate etnicamente. Quest’ultima è
sicuramente la tipologia più facile da governare e la meno influente a livello grammaticale, a meno
che essa non funga da trigger innescando cioè, a sua volta, un passaggio di lingua.
L’intrasentential e l’intersentential switching, invece, richiedono un adattamento costante alle
regole sintattiche di entrambe le lingue.
198
“Prese un ramoscello di hierbabuena dal suo tè freddo” (43); “Por qué un mondo a venire?
Fammiti dire qualcosa, m’hija” (53); “convinto che mia sorella avesse versato un gotita o due di
rum in più” (53); “L’anziano era già alla sua ottava tasita di café” (109); “solo Lobo (el tercero) lo
conosceva” (203); “gli diedero solo una tazza d’acqua e un pedazo de pan” (207); “Agua sucia, e
la chiamano caffè” (307). Ibidem.
199
“Ci dicono che la rivoluzione ha garantito a tutti i cubani libertà di parola – qué chiste” (197);
“Ritornatene dal tuo ricco padre, eres una puta” (278). Ibidem.
200
“Perdonami, mi amor” (8); “¡Ay Dios mío! Ricorderò quel giorno fin quando vivo” (36); “Ho
insultato sua moglie, Señor?” (39); “La vita è solo una buccia sottile, corazón” (50); “noi stiamo
quasi morendo di fame e lei ha un’auto, sin vergüenza! […] Menos Mal. Morì la mattina dopo, el
219
La tipologia predominante è il Tagswitching o commutazione emblematica
che riguarda elementi slegati dalla frase (connettori, espressioni coda, frasi
idiomatiche) e abitudini verbali fossilizzate e stereotipate che difficilmente
vengono “spezzate” da un’alternanza, come “sin vergüenza!”, “gracias a Dios”,
“Menos Mal” etc. In generale, il Tagswitching coinvolge parole molto connotate
etnicamente, spesso con un valore prettamente simbolico come “Señor”, “m’hija”,
“mi amor”, “corazón”. Questo tipo di alternanza è dunque ascrivibile ai cosiddetti
“identity markers”201 utilizzati per dare maggiore autenticità al testo ed anche per
creare un contatto diretto con i lettori di origine ispanica.
In The Pearl of the Antilles abbondano però anche casi più complessi di
alternanza come quella intrafrastica, tra l’altro sempre riconducibile ai due vincoli
principali che governano il code-switching: l’“equivalence constraint” e il “freemorpheme constraint”202. In base al primo vincolo l’alternanza può verificarsi in
un determinato punto solo se gli elementi che la precedono e che la seguono sono
sintatticamente equivalenti in entrambe le lingue, mentre il free-morpheme
constraint stabilisce che la commutazione non è consentita tra due morfemi
indivisibili (ad esempio la radice e il suffisso all’interno di una parola) o tra
elementi fortemente legati semanticamente (ad esempio le formule di saluto o i
connettori come you know).
pobre” (232); “Lasciano i loro figli alle suore, m’hija” (257); “Attenta a cosa gli dici, nena” (264);
“Gracias a Dios, José più tardi disse ai suoi amici al bar” (287). Ibidem.
201
“Demarcatori di identità”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano
Writer”, 284.
202
“Vincolo dell’equivalenza”, “vincolo del morfema libero”. Poplack, “Sometimes I’ll Start a
Sentence in Spanish”, 17-18. La radicale novità nell’approccio di Poplack è l’aver descritto il
code-switching come una capacità verbale che implica un ampio grado di competenze in più lingue
e non un’anomalia derivante da una scarsa conoscenza dell’una e dell’altra, smentendo
l’atteggiamento generalmente negativo dei monolingui nei confronti della commutazione di codice,
considerata una mistura senza grammatica e definita da peggiorativi diffusi come franglais, italiese
o Tex-Mex.
220
L’universo multiculturale e multilinguistico dei Caraibi viene evocato
anche attraverso l’inserimento di detti, versi, canzoni e filastrocche in lingua
spagnola. Si tratta di materiale inventato o ripreso dai ricordi d’infanzia
dell’autrice o dalla tradizione folclorica e letteraria cubana. Non esiste, ad
esempio, nessun riscontro immediato sull’origine della filastrocca dedicata
all’anatroccolo “araquitico”203 nato senza ali, né zampe, né becco e citato dalla zia
María (in una delle sue lettere alla nipote), come metafora della generazione di
giovani cubani venuti al mondo senza libertà, subito dopo la rivoluzione. Mentre
la preghiera “Cuatro Angelitos” che Margarita recita insieme a Tata – e di cui la
narratrice trascrive i primi due versi – è una formula molto comune per far
addormentare i bambini e appare tra i canti popolari dell’opera di Francisco
Rodríguez Marín con delle lievi varianti, tipiche dei testi tramandati oralmente204.
La canzone “Sambala, culembe, sambala, culembe” 205 – che Tata canta
alla piccola Rosa ogniqualvolta le racconta di quando ha ucciso un serpente in
giardino – è invece un omaggio al grande poeta cubano Nicolás Guillén, che la
cita ricordando il giorno in cui compone la poesia afrocubanista “Sensemayá”.
Malato e costretto in una stanza di hotel il 6 gennaio del 1932, lo scrittore mescola
infatti gli echi ancestrali di questo canto, con le parole del padre dell’antropologia
cubana Fernando Ortiz e le suggestioni dell’Epifania della Cuba coloniale:
one of the black people’s songs had kept resounding in my ears, a
popular song composed for killing a snake: “Sambala culembe;
sambala culembe…”. How, and why, did that song come to me then?
Perhaps because I had been reading the pages of Fernando Ortiz, the
203
O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 235.
Francisco Rodríguez Marín, Cantos populares españoles (Sevilla: Editorial Renacimiento,
1948) 141.
205
O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 143.
204
221
ones about black sorcerers, maybe it was the spirit of that day, the
evocation of what had existed in colonial Cuba, the Día de Reyes.206
Con quelli che in apparenza sembrano semplici richiami alla spagnolo, l’autrice
non solo rievoca le memorie della propria infanzia e le storie ascoltate da nonni e
parenti, ma riesce anche a rendere omaggio ai capisaldi della cultura cubana a cui
si sente profondamente legata, pur nella sua condizione di “esilio indiretto”
(perché ereditato dalla propria famiglia).
Family Installments si colloca invece nel livello più alto di ibridismo
linguistico tra i tre romanzi presi in esame. Come in The Pearl of the Antilles,
l’opera è infatti intessuta di commutazioni allo spagnolo che non si limitano mai
alle forme stereotipate e che avvengono sempre laddove sono sintatticamente
consentite, facendo quindi intuire che – pur scrivendo in inglese – non solo il
narratore Santos, ma anche l’autore è competente in ambedue le lingue207.
Family Installments ricrea infatti la dimensione multiculturale di Spanish
Harlem attraverso un intreccio ancora più complesso di codici e registri, uniti a
mispellings, doppi sensi, riferimenti interculturali e giri di parole difficilmente
traducibili e che, nella maggior parte dei casi, possono essere colti pienamente
soltanto da un lettore bilingue. Si va dalla contrapposizione dell’inglese colto
delle suore, degli insegnanti irlandesi o di Santos maturo, allo slang del quartiere,
con un massiccio ricorso allo Spanglish e al Black English :
206
“Continuava a risuonarmi nelle orecchie una delle canzoni della gente di colore, una canzone
popolare composta per ammazzare un serpente: ‘Sambala culembe; sambala culembe…’. Come e
perché quella canzone mi è rivenuta in mente? Forse perché avevo letto le pagine di Ferando Ortiz,
quelle relative agli stregoni di colore, forse era lo spirito di quel giorno, l’evocazione di ciò che era
esistito nella Cuba coloniale, il Día de Reyes”. L’intervista originale è di Angel Augier ma viene
citata da Antonio Benítez-Rojo in The Repeating Island: The Caribbean and the Postmodern
Perspective (Durham, NC: Duke University Press, 1996) 296.
207
Per un’analisi accurata e approfondita della lingua in Family Installments, si potrà far
riferimento al saggio di Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati
Uniti”, in particolare le pagine 66-76.
222
[Inglese colto] “‘Don’t dawdle on the way home’. They actually used
words like that. Sometimes they even said ‘tardy’” (84); “A tiny
tumulus, I thought, pulling out another Lit I word” (297).208
[Slang] “It’s gotta have a fatal flaw” (119); “It’s my ass, Tego.
Whatchu worried about?” (132); “Some kinda jelly bean?” (138);
“‘Thataway, partnuh’. He pointed” (152); “I’ll betchu” (153);
“Whatchu doin’ in there, white boy?” (154).209
[Spanglish] “‘Fakerías, Santos’. Fake furniture […] junkerías” (209);
“I never went inside any of those ‘bakerías’” (234).210
Numerose sono inoltre le trascrizioni fonetiche dei difetti di pronuncia
dell’inglese parlato da ispanici o dagli insegnanti irlandesi, così come gli errori di
ortografia, le sillabe invertite o gli accenti mal posti che riguardano sia l’inglese,
sia lo spagnolo:
[Trascrizione fonetica di difetti di pronuncia dell’inglese] “That’s why
is so funny, you esnob” (112); “It’s gonna be chit, with all that focken
homework” (118); “It’s a Roman empruh” (119); “They are more
esmart, that is why. Very ambishows” (165); “Should be sended away
or gasséd to dead […] ‘in the place where they are stuckéd’” (168).211
[Misspellings in inglese e/o spagnolo] “‘Absolutelymente, Sister’”
(81); “‘he will give to you a free cruficixion claps’ […] ‘It’s cruci-fix,
Mr. Mercado’, she corrected. ‘And clasp. Claps is a verb, sir.” (83);
“THOU SHALT NOT COMMIT ADULTREY” (112); “Get your
dirty, filthy hands off of me, you aminal!” (113); “Caesar and the
Bruteses: A Tradegy” (116); “Dandy’s Inferno” (117); “That is
absolute-lily what it is” (126); “He had let the blond alemánes from
the north inside” (128); “Porqué, mija? Why?” (176); “We house the
Classics in Accecsible Editions” (252).212
208
“‘Non bighellonare nel tornare a casa’. Usavano realmente parole come questa. A volte
dicevano addirittura ‘bighellone” (84); “Un piccolo tumulo, pensai, sfoderando un’altra delle mie
parole da corso di letteratura” (297). Rivera, Family Installments.
209
Gli esempi forniti nelle note che seguono evidenziano aspetti legati all’uso dialettale, gergale,
etnico e ibrido della lingua di Family Installments e sono perciò difficilmente traducibili in altri
idiomi. Mi limito dunque a evidenziarne la tipologia e il senso, senza però fornire una vera e
propria traduzione. “Deve avere un difetto fatale” (119); “È il mio culo, Tego. Di che ti
preoccupi?” (132); “Un tipo di caramella gommosa?” (138); “Da quella parte, amico. Indicò”
(152); “D’accordo” (153); “Che ci fai qui ragazzo bianco?” (154). Ibidem.
210
“‘Falserías, Santos’. Mobili falsi […] cianfrusaglierías” (209); “Non sono mai entrato dentro a
una di quelle ‘fornerías’” (234). Ibidem.
211
“Ecco perché è così strambo, tu esnob” (112); “Sarà un incubo, con tutti quei fottuti compiti”
(118); “È un imperato’ romano” (119); “Sono più furbos, ecco perché. Molto ambishowsi” (165);
“Dovrebbe essere cacciato o ammazzato con il gas […] ‘nel posto dove si sono ficcati’” (168).
Ibidem.
212
“Absolutelymente, Sorella” (81); “‘Le darà un applaude di croficissione gratis’ […] ‘È crocifisso, Signor Mercado’, lei lo corresse. ‘E fermaglio. Applaude è un verbo signore’” (83); “NON
COMMETTERE ADULTRERIO” (112); “Toglimi di dosso le tue mani sporche e luride,
aminale!” (113); “Cesare e i bruti: una tradegia” (116); “L’Inferno del Dandy” (117); “È assolutamente ciò che è” (126); “Aveva fatto entrare i biondi alemánes dal nord” [la parola alemanes
223
La sperimentazione linguistica e l’ironia di Family Installments raggiunge
però il suo acme in quelle espressioni in cui questi espedienti vengono combinati,
ricreando esilaranti giochi di parole, doppi sensi e connotazioni molteplici,
praticamente intraducibili, come nei seguenti esempi in cui tanto l’inglese quando
lo spagnolo vengono ingegnosamente storpiati e reinventati:
[Giochi di parole e doppi sensi] “the dark-haired Latins had been
brunette ‘in-cog-knee-toes’ in disguise, boys’” (126); “The plommers,
they get good pega […]. And they don’t have to estudy this Chekspier
chit” (143).213
Basti pensare agli inattesi riferimenti al corpo che genera la parola “incognito”
trasformata in ‘in-cog-knee-toes’”, o alla comicità che si innesca sostituendo la
parola spagnola “paga” con il colloquiale “pega” (bega, rogna, bastonata).
I virtuosismi linguistici di Rivera ricordano da vicino il bilinguismo di
Hemingway e la sua capacità di creare “a manifest, surface, deviant English that
evoked latent, underlying Spanish”214, puntellando i suo romanzi di termini che
richiamano lo spagnolo a livello sia semantico sia sintattico. Conoscendo quanto
Rivera ammirasse le tecniche di Hemingway, Gary Keller afferma che non solo
l’amico Edward eguaglia il maestro, ma lo supera “by fusing Spanish and English
in novel ways”215. Oltre a combinare parole estranianti come “rare name” o “much
woman” emulando sottilmente i modi dello spagnolo, Hemingway ricorre infatti
(tedeschi) al plurale in spagnolo non richiede l’accento] (128); “‘Porqué, mija? Perché?’” [La
grafia corretta sarebbe ¿Por qué?] (176); “Offriamo i Classici in edizioni accecsibili” (252). Ibidem.
213
“I latini dai capelli neri si erano mascherati in ‘inc-occhi-to’ da ragazze more” [Ho cambiato
‘knee’ (ginocchio) della parola originale in ‘occhi’ per mantenere il riferimento ad una parte del
corpo] (126); “Gli idraulici, si prendono delle belle beghe/paghe […]. E non devono estudiare
questo schifo di Chekspier” (143). Ibidem.
214
“In superficie un inglese manifesto e deviante che rievoca uno spagnolo latente e sottostante”.
Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 132.
215
“Fondendo spagnolo e inglese in modo innovativo”. Ibidem. Per uno studio approfondito del
bilinguismo in Hemingway si potrà far riferimento al saggio di Gary D. Keller “The Analysis of
Hispanic Texts: Current Trends in Methodology” (New York: Bilingual Press, 1976), in
particolare alle pagine 133-136.
224
anche a frequenti “rodeos”: giri di parole e circonlocuzioni con cui andava
incontro al lettore monolingue, fornendogli degli indizi connotativi per intuire il
significato dei termini in spagnolo.
Rivera, al contrario, non solo combina inglese e spagnolo senza forme di
compensazione o spiegazioni per il lettore monolingue (a parte rare eccezioni che
vedremo in seguito), ma mescola liberamente anche registri non-standard di
ciascuna lingua, forme colloquiali e persino idioletti – come in “Tough tetas”,
“tossing florecitas” o “hard-up jíbaros” 216 – intensificando ulteriormente la
complessità sintattica e semantica del testo. In sostanza, quella che viene creata
nella pagina scritta è una zona di contatto marcatamente transculturale, che va ben
oltre il bilinguismo e si alimenta di costanti contrasti interculturali217.
La sottile tensione tra commutazione di codice e di registro, si esplica
anche attraverso le varianti regionali dello spagnolo che intensificano il livello di
espressività intralinguistica delle tre opere: il messicano per A Daughter’s A
Daughter, il cubano per the Pearl of the Antilles e il portoricano per Family
Installments:
[Spagnolo messicano] “Qué suave” (40); “New Mexico was part of
the Mexican nation before the Manifest Destiny gabachos stole it”
(168).218
216
“Tough (‘duro’, ma anche ‘energumeno’) tetas (‘tette’, ma anche ‘da sballo’)”; “Tossing
(“lanciando” ma anche “masturbando”, “rovistando”), florecitas (‘fiorellini” ma anche
“complimenti” o “verginità”) (25); “Un burino al verde” (20). Rivera, Family Installments.
217
Il concetto di “contact zone” è stato coniato da Mary Louise Pratt nell’articolo “Arts of the
Contact Zone” in riferimento alle aree “where cultures meet, clash, and grapple with each other,
often in contexts of highly asymmetrical relations of power / in cui le culture si incontrano, si
scontrano e lottano le une con le altre nell’ambito di relazioni di potere fortemente asimmetriche”.
Mary Louise Pratt, “Arts of the Contact Zone” (Profession 91, New York: MLA 1991), 34.
218
Nelle note che seguono ho tradotto in italiano anche le espressioni che nel testo originale sono
in castigliano, poiché si tratta di varietà regionali meno accessibili ai non-madrelingua spagnoli o a
chi non abbia familiarità con le rispettive culture. “Che figo!” (40); “‘Il New Mexico era parte
della nazione messicana prima che gli americanacci del Manifest Destiny lo rubassero’” (168).
Candelaria, A Daughter’s a Daughter.
225
[Spagnolo cubano] “Eventually, even the calambucas grew tired” (26);
“Oye muchacha, your father was really a majadero” (56); “‘¿Ya,
Caballero?’ the mulata asked” (92); “he would return to Cienfuegos
from the city for the zafra” (120); “It’s people like him […] who put el
cura in power, Margarita, not the guajiros or the negritos, […]. He’s as
bad as the ‘come candelas’” (199); “the official rhetoric which
denounces jineteras” (228); “the pinchos are buying all the food that
they want” (239); “The plan to reunite the exiles – the gusanos”
(230).219
[Spagnolo portoricano] “Papa Santos Malánguez was a poor hillbilly,
a jíbaro desgraciado” (16); “‘los cucubanos’ – the fireflies” (165).220
Il sostrato spagnolo sommerso delle tre opere, si insinua nel testo inglese
anche attraverso una sottile distorsione sintattica che a tratti sembra deformare sia
la narrazione sia i dialoghi in inglese dei personaggi. In Family Installments
questo fenomeno emerge da espressioni come “a wild herb called ‘good grass’”221
che ricalca lo spagnolo “yerba buena” ma allude anche alla forma colloquiale
inglese per marijuana. Nel leggere alcuni passi di The Pearl of the Antilles, invece,
ho avuto istintivamente l’impressione di ascoltare alcuni intercalari tipici dello
spagnolo parlato:
[per lo spagnolo ‘¡imagínate!’] “Tata traveled the city alone
(imagine!)” (199), “he was afraid I was trying to poison him –
imagine!” (213), “I’m an old lady now (almost sixty-two years old –
imagine!)” (241); [per lo spagnolo ‘¡te puedes imaginar!’] “Can you
imagine that?” (236); [per lo spagnolo ‘¿no?’] “You must wear a
blindfold, no? (199); [per lo spagnolo ‘¿Sabes qué…?’] “Do you
know that they were arrested for organizing an ‘unauthorized
gathering?’” (227); [per lo spagnolo ‘fíjate’] “Who didn’t have the
nerve to defend him in public, mind you” (232).222
219
“Alla fine anche le credenti più fanatiche si stancarono” (26); “Ascolta ragazzina, tua padre è
veramente un idiota” (56); “‘¿Sì, signore?’ chiese la mulata” (92); “sarebbe tornato a Cienfuegos
dalla città per il raccolto della canna da zucchero” (120); “Sono persone come lui […] che hanno
dato potere al prete, Margarita, non i contadini o i neri, […]. È marcio quanto i fanatici della
rivoluzione” (199); “la retorica ufficiale che denuncia le prostitute” (228); “i dirigenti si comprano
tutto il cibo che vogliono” (239); “Il progetto di riunire gli esiliati – i vermi” (230). Andrea
O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles.
220
“Papa Santos Malánguez era un povero montanaro, un burino disgraziato” (16); “le lucciole”
(165). Rivera, Family Installments.
221
“Un’erba selvatica chiamata mentuccia [letteralmente “erba buona”]. Rivera, Family
Installments, 17. Keller definisce questo fenomeno “direct transfer / trasferimento diretto” e ne
descrive gli effetti in “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, 278.
222
“Tata attraversò la città da sola (immaginati!)” (199); “aveva paura che stessi provando ad
avvelenarlo – immaginati!” (213); “Sono una vecchia signora ora (quasi sessantadue anni –
226
Non essendo di madre lingua né inglese né spagnola ho quindi chiesto una
conferma direttamente all’autrice, in occasione della nostra intervista. Quando le
ho fatto notare che alcune frasi del romanzo, pur essendo in inglese, rievocano il
suono e la struttura dello spagnolo, O’Reilly Herrera ha confermato le mie
osservazioni e mi ha raccontato del suo sforzo immaginativo per cercare di
ricordare e ricreare – sempre attraverso l’inglese – lo spagnolo ascoltato durante la
sua infanzia o il ritmo delle molteplici e colorite conversazione a cui ha assistito
da bambina:
It’s amazing, nobody has ever said that to me. When I was writing
the dialogues as well as the letters in Pearl, I kept saying the lines out
loud because I wanted to imitate the conversations I had heard
growing up, as well as the letters that were read to us from relatives
who had remained in Cuba. I was very consciously trying to figure out
how all of the women at the Havana Yacht Club would have spoken to
each other and what they would have said, for instance. […] I recalled
our own dinner table. Everyone would be talking at the same time; I
was passionate and emotional. So as I was writing I just opened my
ears and I could hear the conversations and the debates. Even in
English I was trying to imagine, “How would so-and-so phrase this?
What words would they use to say this?” So, what you have observed
is just wonderful!223
Proprio
queste
animate
conversazioni
familiari
hanno
segnato
indelebilmente sia la sua identità linguistica, sia la sua coscienza politica e sociale:
Each Sunday afternoon, as we gathered at my grandparents’ home,
I listened in silence to the sometimes fantastic stories my relatives and
our family friends would recount, in counterpoint, about their lives in
Cuba. I was also privy to painful and passionate discussions regarding
immaginati!)” (241); “Te lo immagini?” (236); “Devi indossare una benda, no? (199); “Sai che
furono arrestati per aver organizzato un ‘incontro non autorizzato’” (227); “Che non ha avuto il
coraggio di difenderlo in pubblico, intendiamoci” (232). O’Reilly Herrera, The Pearl of the
Antilles.
223
“È sorprendente, nessuno me lo aveva mai detto. Quando scrivevo i dialoghi e anche le lettere
in Pearl, continuavo a ripetere le righe a voce alta perché volevo imitare le conversazioni che
avevo ascoltato crescendo, così come le lettere dei parenti che erano rimasti a Cuba e che ci
venivano lette. Ho cercato intenzionalmente di immaginare cosa avrebbero detto le donne
dell’Havana Yacht Club parlando tra di loro, ad esempio. […] Mi sono rivenute in mente le nostre
cene in cui tutti parlavano contemporaneamente; io ero appassionata ed emotiva. Quindi mentre
scrivevo ho semplicemente aperto le mie orecchie per ascoltare le conversazioni e le discussioni.
Anche in inglese cercavo di immaginare ‘Come avrebbe formulato questo il tal dei tali? Quali
parole avrebbero usato per dirlo?’. Quindi quello che mi dici è fantastico”. O’Reilly Herrera e
Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5.
227
the persecution they had been subjected to, the unbearable losses and
separations they had sustained, and their struggle to start life over
again, and survive and adapt – both psychically and physically – in
what was to them ultimately a foreign land (despite the formidable
presence of the United States in Cuba before the revolution). As a
result, both my consciousness and my imagination were indelibly
marked by their experience of exile and loss.224
L’autrice descrive infatti l’ambiente multiculturale in cui avvenivano
queste
conversazioni
e
l’atmosfera
contemporaneamente
caraibica
ed
angloamericana che si respirava in casa nell’intervista per la newsletter della
University of Colorado in cui dice:
We had strangers—who didn't speak a word of English—living
with us for extended periods of time. We listened to Beny Morè,
Frank Sinatra and the Beatles. We somehow learned to participate in
five simultaneous conversations at the dinner table while eating an
assortment of dishes, including scrapple, cheese steaks, macaroni and
cheese, maduros (fried plantains), empanadas, arroz con pollo
(chicken and rice), pie de guayaba (guava pie), and malanga con
mojito (a tropical tuber adorned with oil and garlic).225
Ma il sottotesto spagnolo dei romanzi analizzati emerge anche attraverso le
intrusioni con cui il narratore informa chi legge – in inglese – della lingua
realmente usata dai personaggi:
224
“Ogni domenica pomeriggio, quando ci riunivamo a casa dei miei nonni, ascoltavo in silenzio
le storie a volte fantastiche che i miei parenti e i nostri amici di famiglia raccontavano, in
contrappunto, sulle loro vite a Cuba. Assistevo anche a discussioni dolorose e appassionate sulle
persecuzioni che avevano subito, sulle perdite e sulle separazioni insostenibili che avevano patito e
sulla lotta per rifarsi una vita, sopravvivere e adattarsi – sia psicologicamente sia fisicamente – in
quella che per loro era una terra straniera (nonostante la massiccia presenza degli Stati Uniti a
Cuba prima della rivoluzione). Di conseguenza, sia la mia consapevolezza sia la mia
immaginazione sono state segnate in modo indelebile dalle loro esperienze di esilio e perdita”.
O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering”, 177-8.
225
“Avevamo estranei – che non parlavano una parola di inglese – che vivevano con noi per
lunghi periodi. Ascoltavamo Beny Morè, Frank Sinatra e i Beatles. In qualche modo, abbiamo
imparato a partecipare a cinque conversazioni simultanee a tavola, la sera, mentre mangiavamo un
misto di piatti che includevano polpettoni, bistecche al formaggio, maccheroni e formaggio,
maduros (platano fritto), empanadas, arroz con pollo (pollo con riso), torta de guayaba (torta di
guava) e malanga con mojito (un tubero tropicale condito con olio e aglio)”. University of
Colorado, Colorado Springs, Faculty and Staff Newsletter, “Five questions for Andrea O’Reilly
Herrera” <https://www.cusys.edu/newsletter/2009/09-16/five-questions.html>. Data di accesso 16
agosto 2012. Inoltre, come la stessa autrice spiega nella sua introduzione a Remebering Cuba,
molti dei cubano-americani che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera hanno citato come
patrimonio culturale condiviso proprio i modi coloriti e animati di interazione dei cubani,
caratterizzati dal “choteo” (humor) e dalla capacità di portare avanti molteplici conversazioni
simultaneamente. O’Reilly Herrera, “Introduction”, ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora,
xxvi.
228
[A Daughter’s a Daughter] “The girl rattled off rapidly in Spanish.
When Irene said that her Spanish wasn’t too good, the girl laughed
derisively. Then in English, ‘You’re from New Mexico? You’ve got a
lot to learn’” (161).226
[Family Installments] “‘It’s not only the odor’, he said in Spanish.
‘[…] It’s also the condition it’s in’” (86); “‘So there’s no sense in
inspecting that one for the size of your foot, is there?’ I said no, there
wasn’t. ‘Maybe a mouse stole it last night’, he said in Spanish. ‘When
you was sleeping’. That came out in English” (87); “Those
‘collector’s item’, as he called them in Spanish, were my introduction
to the eye-popping varieties of sexual intercourse” (109).227
Questo espediente, insieme a altre tecniche specifiche individuate da
Manuel Martín Rodríguez, rivelerebbe la volontà degli autori di scrivere non solo
per “la marketa” (ovvero per la propria comunità etnica d’origine) ma anche per
“the market”228, andando incontro ad un pubblico di lettori non necessariamente
bilingue o multiculturale. Le numerose ingerenze dello spagnolo nelle opere prese
in esame vanno dai semplici demarcatori di identità (“a sprinkling of Spanish […]
used to provide the reader with a sense of ‘authenticity’”229) a riferimenti molto
elaborati che instaurano un canale preferenziale con i lettori appartenenti alla
stessa comunità etnica e richiedono una spiccata competenza linguistica e
culturale per la costruzione del significato230.
226
“La ragazza parlò rapidamente in spagnolo. Quando Irene le disse che non sapeva benissimo lo
spagnolo, la ragazza rise derisoriamente. Poi in inglese, ‘Sei del New Mexico? Hai tanto da
imparare’” (161). Candelaria, A Daughter’s a Daughter.
227
“‘Non è l’odore’, disse in spagnolo. ‘[…] È anche la condizione in cui si trova’” (86); “‘Quindi
non ha senso controllare quella per la misura del tuo piede, no?’ Ho detto di no, non ne aveva.
‘Forse un topo l’ha rubata la notte scorsa’, ha detto in spagnolo. ‘Quando tu stava dormendo’.
Quello gli è uscito in inglese” (87); “Quei ‘pezzi da collezionista’, come li chiamava in spagnolo,
erano la mia iniziazione alla strabiliante varietà di rapporti sessuali” (109). Rivera, Family
Installments.
228
“Market” e “Marketa” sono i termini usati da Martín Rodriguez per differenziare le due
tipologie di pubblico in Life in Search of Readers, 138.
229
“Una spruzzatina di spagnolo […] utilizzata per dare a chi legge un senso di ‘autenticità’”.
Ibidem, 118.
230
Uno dei casi che più mi ha messo in difficoltà è stata la traduzione del termine cubano “pincho”
con cui si indicano tutti coloro che ricoprono una posizione di potere in ambito militare. Non ho
trovato fonti scritte per risolvere l’enigma del significato e solo la possibilità di confrontarmi con
due miei cari amici cubani mi ha permesso di cogliere il senso del termine, che in spagnolo
standard significa “spina” o “stuzzichino”.
229
Allo stesso tempo, però, è evidente il tentativo degli autori impliciti e dei
narratori di coinvolgere anche i cosiddetti “potential ‘distant readers’” 231 ,
smorzando e mediando per loro quelle differenze linguistiche e culturali che
potrebbero alienarli e allontanarli. Ecco perché, accanto ai riferimenti storici e
linguistici inclusi nei testi senza alcuna spiegazione, vi sono anche numerose
spiegazioni linguistiche e transculturali, che si esplicano sia attraverso traduzioni
dirette, sia attraverso perifrasi del narratore:
[A Daughter’s a Daughter] “Oh, pecado, pecado. The Spanish word
for sin was the more vigorous cousin of its diminutive, the English
word ‘pecadillo’” (171).232
[The Pearl of the Antilles] “‘¿Qué pasó?’ Nélida asked. ‘Tell us what
happened’” (37); “Dirty water, she thought to herself […]. Agua sucia,
and they call it café” (307); “the barracones – the slave quarters” (66);
“Tata placed the tinajones, the ceramic jars that were used to catch the
rain” (69); “‘Demasiado’ he said […]. ‘Too much’, he repeated” (115);
“he screams that it isn’t his fault – no es mi culpa” (213); “Your father
is crazy, vieja, completamente loco” (214); “Somos completamente
limpios, Margarita, so clean that we have lost even our most basic
freedoms” (228); “los gusanos se convirtieron en mariposas ricas – the
worms have all transformed into wealthy butterflies” (230); “doing as
best as they can to resolver – a fancy name, mi cielo, for stealing”
(237).233
[Family Installments] “to the point sometimes of committing the sin of
orgullo, pride”(109); “Papi and his conniving brother would pull any
stunt – ‘cualquier maroma’” (51); “‘los cucubanos’ – the fireflies”
(166); “‘Porqué, mija? Why?’” (176); “What he called a little
‘maroma’, a caper, an acrobatic stunt” (205); “‘Fakerías’ […] ‘Todo
is fake’” (209).234
231
Ibidem, 117.
“Oh, pecado, pecado. La parola spagnola per ‘peccato’ era la cugina più vigorosa del suo
diminutivo, la parola inglese ‘pecadillo’ [che significa “peccato minore”]” (171). Candelaria, A
Daughter’s a Daughter.
233
“‘¿Qué pasó?’ Nélida chiese. ‘Dicci che cosa è successo’” (37); “Acqua sporca, pensò tra sé e
sé […]. Agua sucia, e la chiamano caffè” (307); “le barracones – i quartieri degli schiavi” (66);
“Tata sistemò le tinajones, le giare di ceramica che venivano usate per raccogliere la pioggia” (69);
“‘Demasiado’ disse […]. ‘Troppo’, ripetette” (115); “grida che non è colpa sua – no es mi culpa”
(213); “Tuo padre è matto, vieja, completamente loco” (214); “Somos completamente limpios,
Margarita, così puliti che abbiamo perso persino le nostre libertà più basilari” (228); “los gusanos
se convirtieron en mariposas ricas – i vermi si sono trasformati tutti in ricche farfalle” (230);
“facevano il meglio che potevano per resolver – un nome fantasioso, mi cielo, per ‘rubare’” (237).
O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles.
234
“A volte fino al punto da commettere un peccato di orgullo, orgoglio”(109); “Papi e il suo
infido fratello avrebbero fatto ricorso a qualsiasi trovata – ‘cualquier maroma’” (51); “‘los
cucubanos’ – le lucciole” (166); “Porqué, mija? Perché?” (176); “Ciò che lui chiamava una
232
230
Anche ricorrere a protagonisti o narratori bambini che filtrano gli eventi
attraverso il loro punto di vista ingenuo, senza dare nulla per scontato,
risponderebbe a questa stessa strategia di inclusione. Il lettore è infatti indotto a
identificarsi con il loro percorso di crescita e di scoperta del mondo, accorciando
notevolmente la potenziale distanza rispetto alla cultura narrata.
Questi espedienti non fanno che rendere esplicita l’operazione di
mediazione culturale messa in atto dagli autori, impegnati in processi di
transculturazione, che Angel Rama – ispirandosi a Fernando Ortiz – definisce
tipici della narrativa sudamericana ma anche di tutte quelle aree di contatto in cui
molteplici culture coesistono e si modificano a vicenda, creando di volta in volta
forme e significati nuovi. I loro romanzi quindi non fanno che innescare fenomeni
di “neoculturación” in cui tanto chi scrive quando chi legge diventa parte attiva di
una negoziazione incessante, che permette la scoperta e la valorizzazione di un
patrimonio culturale – spesso minoritario e marginale – ma anche il suo
rinnovamento,
attraverso
“una
nueva
instancia
del
desarrollo,
ahora
modernizado” 235 . La lingua diventa dunque lo strumento privilegiato di questa
triplice operazione di conservazione, mediazione e rinnovamento.
A livello superficiale del discorso, nei tre romanzi presi in esame, il
rapporto tra inglese e spagnolo sembrerebbe segnato dalla cosiddetta “traditional
bilingual dichotomy”236 che assegnerebbe domini distinti (e talvolta stereotipati) a
ciascuna lingua. In generale, infatti, l’inglese viene associato alla vita pubblica,
piccola ‘maroma’, una bravata, una prodezza acrobatica” (205); “‘Falserías’ […] ‘Todo è finto’”
(209). Rivera, Family Installments.
235
“Neoculturazione”, “attraverso un nuovo grado di sviluppo, ora modernizzato”. Ángel Rama,
Transculturación narrativa en América Latina (Romero de Terrero, Mexico: Siglo XXI, 1987) 3233.
236
“La tradizionale dicotomia bilingue”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the
Bilingual Chicano Writer”, 291.
231
all’ambiente lavorativo, alle situazioni formali e ai doveri. È una lingua necessaria,
pratica, che bisogna imparare per avere accesso al mondo lavorativo e riservarsi la
possibilità di far carriera. Sono emblematici a questo proposito i moniti di Gerán
al figlio Santos: “mastering my adopted language, what Papi, with good intentions,
had been telling me and Tego to do for our own good, our ‘futures’” 237 . Lo
spagnolo, al contrario, è considerato un “edenic realm of familial bonding”238;
rimanda alla sfera più privata e intima, all’emotività, alla famiglia, agli affetti,
spesso viene messo in relazione con l’infanzia e idealizzato nostalgicamente come
ultima traccia di un passato perduto. L’equazione più efficace per sintetizzare
questa dicotomia è quella di Richard Rodríguez che contrappone “hard English” e
“soft Spanish”239.
Keller conferma questa suddivisione in riferimento all’opera di Rivera
quando afferma che “Spanish is used sparingly and strategically. […] [It is] taken
from the vernacular – the language is emotional, intimate, popular”240. Di fatto,
anche nei romanzi di Candelaria e di O’Reilly Herrera ho trovato elementi che lo
provano e che vanno dalle dichiarazioni esplicite dei personaggi, ai campi
semantici di utilizzo delle due lingue. In A Daughter’s a Daughter, ad esempio, i
nomi o le espressioni che denotano affetto, empatia o senso di appartenenza da
parte di chi sta parlando sono sempre in spagnolo. Il cane tanto amato da María si
chiama Bonito; il ragazzo per il quale si prende una cotta a scuola, anch’egli di
237
“Padroneggiare la mia lingua adottata, cosa che Papi, in buona fede, aveva sempre detto a me e
Tego di fare per il nostro bene, il nostro ‘futuro’”. Rivera, Family Installments.
238
“Regno edenico del legame familiare”. Martha J. Cutter, Lost and Found in Translation:
Contemporary Ethnic American Writing and the Politics of Language Diversity (Chapel Hill:
University of North Carolina Press, 2005) 191.
239
Richard Rodríguez, Hunger of Memory: The Education of Richard Rodríguez (New York:
Bantam, 1983) 17.
240
“Lo spagnolo è usato moderatamente e strategicamente. […] [È] ripreso dal vernacolo – la
lingua è toccante, intima, popolare”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual
Chicano Writer”, 291.
232
origini ispaniche, è positivamente definito “one of the few raza boys with
ambition”; la nonna di María esprime la sua compassione verso una famiglia in
difficoltà dicendo “Pobres”; e infine, quando le due lingue vengono messe a
confronto, lo spagnolo risulta comunque più pregnante: “Oh, pecado, pecado. The
Spanish word for sin was the more vigorous cousin of its diminutive, the English
word ‘pecadillo’”241.
In The Pearl of the Antilles Tía Nelida afferma con insistenza che l’inglese
è “one of the ugliest, not to mention most difficult, languages in the world”242.
Mentre in Family Installments Santos ha premura di specificare che i genitori
“never spoke English to each other. It would have been insulting, almost
unforgivable, pretentious, in bad taste”243; infine, dopo essere sfuggito alle grinfie
della banda di Central Park correndo a gambe levate, il protagonista rallenta e si
tranquillizza solo quando sente “the reassuring sound of Spanish”244.
Anche i sei principali campi semantici di utilizzo dello spagnolo, che
Keller individua nell’opera di Rivera e che si applicano anche ai romanzi di
Candelaria e O’Reilly Herrera, confermano la dicotomia tra le due lingue 245 .
241
“Uno dei pochi ragazzi de La Raza con delle ambizioni” (103); “Poveretti” (112); “Oh, pecado,
pecado. La parola spagnola per ‘peccato’ era la cugina più vigorosa del suo diminutive, la parola
inglese ‘pecadillo’” (171). Candelaria, A Daughter’s a Daughter.
242
“Una delle lingue più brutte e più difficili del mondo”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the
Antilles, 281.
243
“Non parlavano mai inglese tra di loro. Sarebbe stato un insulto, quasi imperdonabile,
presuntuoso e di cattivo gusto”. Rivera, Family Installments, 87.
244
“Il suono rassicurante dello spagnolo”. Ibidem, 160.
245
Le sei aree semantiche individuate da Keller sono: “1. Kinship relations, customs & mores; 2.
Social statuses, professions, ethnic designations; 3. Foodstuffs, plants, currency & other objects
autochthonous or typical of a Spanish-speaking region; 4. Emotional words that Hispanicize a
foreign reality; 5. Religious terms; 6. Highly emotional terms, including obscenities, blasphemies,
dysphemisms. / 1. Relazioni di parentela, costumi e abitudini; 2. Status sociale, professioni,
designazioni etniche; 3. Cibo, piante, monete e altri oggetti autoctoni o tipici di una regione
ispanofona; 4. Parole toccanti che ispanizzano una realtà straniera; 5. Termini religiosi; 6.
Termini altamente legati alle emozioni che includono oscenità, blasfemie e disfemismi”. Gary D.
Keller, “Toward a Stylistic Analysis of Bilingual Texts: From Ernest Hemingway to
233
Eppure l’equazione che oppone “hard English” e “soft Spanish” nel livello
superficiale del discorso, viene poi smentita a livello della storia. Ciascuno dei
protagonisti ha infatti un rapporto altamente conflittuale con lo spagnolo e sarà
proprio per sanare questo contrasto irrisolto sia con la lingua, sia con le proprie
radici etniche, che intraprenderanno un percorso di ridefinizione della propria
identità.
In The Pearl of the Antilles Margarita “swallow[s] her tongue”246 perché –
rifiutata dalla propria famiglia – decide a sua volta di rinnegare la lingua simbolo
della sfera famigliare e del patrimonio genealogico e culturale che attraverso di
essa si era perpetuato per generazioni. Quando poi decide di riallacciare il proprio
legame con il passato, lo spagnolo riemerge a partire dalla sfera onirica: “Joey
shook her from her sleep. He said that she was screaming something in
Spanish” 247 . Lilly, invece, lo spagnolo lo studia a scuola, eppure non riesce a
padroneggiare la lingua della madre e continua a sentirsi una straniera nei luoghi
esotici e labirintici in cui si ritrova durante i sogni notturni: “I’ve just begun to
study Spanish in school – but maybe I’ll never be able to speak your language
well enough to defend myself in this place”248.
Di fronte al diario incomprensibile della nonna – non essendo in grado di
capire il palinsesto indecifrabile che si trovava di fronte ai suoi occhi – Lilly
innesca dei meccanismi cognitivi e immaginativi di compensazione che la
spingono a ricostruire, proprio attraverso il romanzo, la storia della famiglia. Così
Contemporary Boricua and Chicano Literature”. The Analysis of Hispanic Texts: Current Trends
in Methodology. Eds. Mary A. Beck, et al. New York: Bilingual Press, 1976, 141.
246
“Ingoia la sua lingua”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 285.
247
“Joey la svegliò scuotendola. Disse che stava gridando qualcosa in spagnolo”. Ibidem, 323.
248
Ho appena iniziato a studiare spagnolo a scuola – ma forse non sarò mai capace di parlare la tua
lingua sufficientemente bene da difendermi in questo luogo”. Ibidem, 330.
234
facendo, la ragazza sembra dimostrare che, anche indirettamente, la costruzione
della propria identità genealogica, passa sempre attraverso lo spagnolo.
In A Daughter’s a Daughter il distacco di Irene dalla famiglia e l’arrivo in
California, coincide anche con la sua presa di coscienza di un nodo problematico e
paradossale da sciogliere. Di fronte alle amiche chicane, infatti, la ragazza si
definisce con orgoglio “spagnola” (rifiutando le origini meticcie messicane) senza
neanche essere in grado di parlare spagnolo. Si sente quindi a disagio quando non
riesce a capirle e ammira invece profondamente la capacita di Emma di parlare
non solo lo spagnolo, ma anche il ladino:
Emma not only spoke Spanish, but she used some of the peculiar
ancient words that Irene thought belonged only to New Mexico. […]
Emma spoke Ladino, a remnant language of the Sephardic Jews who
had been driven from Spain […]. The same language that early
Spanish conquistadors brought with them when they colonized New
Mexico. Oh, why were things never simple?249
Eppure la sua riconciliazione con le proprie origine etniche non passerà
direttamente attraverso la lingua ma richiederà invece la riscoperta della storia del
New Mexico. Anche Irene, come accade a Lilly, si troverà a dare una nuova voce
ed una nuova lingua al passato della propria famiglia: come conferma la sua
conversazione immaginaria con Sor Juana Inés de la Cruz, la santa e erudita
messicana che le si rivolgerà in inglese. Ad un certo punto della storia, inoltre,
Irene lavora volontariamente come insegnante di inglese per i Latinos,
suggellando simbolicamente il lungo e complesso percorso di integrazione dei
New Mexicans negli Stati Uniti, iniziato nella metà del Diciannovesimo secolo e
249
“Emma non parlavano solo spagnolo, ma usava alcune delle parole peculiari e antiche che Irene
pensava appartenessero solo al New Mexico. […] Emma parlava Ladino, una lingua residuale
degli ebrei sefarditi che erano stati cacciati dalla Spagna […]. La stessa lingua che i primi
conquistatori spagnoli portarono con loro quando colonizzarono il New Mexico. Oh, perché le
cose non erano mai semplici?”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 168.
235
sicuramente più consolidato rispetto a quello delle comunità cubano-americane e
portoricane.
In Family Installments, invece, Santos parte da una base linguistica
opposta rispetto a quella delle protagoniste più giovani delle opere di O’Reilly
Herrera e Candelaria. La sua crescita e la sua acculturazione a New York,
corrisponde infatti con l’acquisizione dell’inglese e la conseguente graduale
perdita dello spagnolo: “my shrinking Spanish, which Saint Misery’s was helping
me lose fast for good” 250 . Dopo essere stato bilingue per anni, alla fine del
romanzo Santos confessa al fratello che la sua competenza linguistica “it’s down
to one and a half”251, ovviamente a discapito dello spagnolo.
D’altronde non poteva essere altrimenti visto che l’inglese durante tutta
l’opera viene utilizzato come strumento di oppressione e demarcazione delle
differenze razziali e di status sociale, soprattutto dalle suore e dai frati della scuola
per i quali:
Correctness in the dominant language of the United States […]
becomes not so much a desirable goal as an instrument with which
these characters remind their hapless students of their inferior
condition. […] The process of education becomes a process of
subordination.252
Eppure, nonostante il suo rapporto controverso con lo spagnolo (che in
alcuni passi tende a inglobare nella narrazione, mentre in altri sembra
distanziarsene), Santos troverà una sua lingua per esprimere il proprio senso non
250
“Il mio spagnolo che si riduceva e che Saint Misery mi stava aiutando a perdere in fretta”.
Rivera, Family Installments, 130.
251
“È scesa a una lingua e mezza”. Ibidem, 291.
252
“La correttezza nella lingua dominante degli Stati Uniti [...] diventa non tanto un obiettivo
desiderabile, quanto uno strumento attraverso il quale questi personaggi ricordano ai loro
sfortunati studenti la loro condizione di inferiorità. [...] Il processo di formazione diventa un
processo di subordinazione”. Alfredo Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 74.
236
risolto di identità. Lo farà storpiando e manipolando sia l’inglese sia lo spagnolo,
entrambi piegati al servizio della sua caustica e pungente ironia:
Santos fetishizes language, he repeats words in both Spanish and
English, holds on to them, plays with them and distorts them in ways
that can frustrate the readers who thought they were getting a simpler
story about the vicissitudes of growing up in Spanish Harlem.253
Attraverso livelli diversi di ibridismo linguistico, i tre romanzi presi in
considerazione riflettono il desiderio degli autori di forgiare una nuova lingua,
superando la bipolarità tra inglese e spagnolo: tra l’altro entrambi idiomi del
“chingón”, dei conquistatori 254 . La complessa storia dei Latinos – nella sua
matrice india, spagnola, afro-caraibica, meticcia e anglosassone – viene ricreata
all’interno dell’inglese, attraverso strategie di ibridazione che fanno emergere
costantemente un sottotesto sommerso: “a subtext that constantly subverts this
hegemonic message from within its own ideological and lexical boundaries”255.
Lo spagnolo, nucleo di questo sottotesto, innesca quindi nell’inglese un
processo di “dialogizzazione” che lo fa diventare “relativized, de-privileged,
253
“Santos feticizza la lingua, ripete le parole sia in spagnolo sia in inglese, si sofferma su di loro,
gioca con loro e le distorce in modo potenzialmente frustrante per i lettori, che pensavano di
trovare una storia più semplice sulle peripezie di chi cresce a Spanish Harlem”. Di Iorio Sandín,
“Latino Rage”, 93.
254
Nel suo percorso di esplorazione delle radici precolombiane del Messico, Octavio Paz porta
alla luce il nodo più problematico della stirpe messicana: il fatto di nascere da una vessazione,
dallo scontro tra il conquistatore spagnolo e le culture indigene sopraffatte. L’autore rintraccia
nella parola tabù chingar e in particolare nel modo di dire popolare “Viva il Messico, figli della
Chingada!” la più intima essenza della condizione messicana: il sentimento comune di essere stati
disonorati fin dalla nascita. Chingar significa infatti ferire, penetrare con la forza, distruggere, far
violenza, con una chiara connotazione sessuale. La Chingada è allora la femmina, la madre violata,
umiliata e offesa dal maschio, il Chingón conquistatore. Se per lo spagnolo il disonore più grande
consiste nell’essere figlio di una donna che si concede volontariamente (hijo de puta), per il
messicano l’offesa più umiliante sta nell’essere figlio di una donna violentata (hijo de la
Chingada), strettamente associata alla conquista: una violazione in senso storico e fisico nella
carne delle indie. Donna Marina o la Malinche, la schiava che fu amante e interprete di Cortés
prima di essere da questi abbandonata, è il simbolo di questa sopraffazione storica e linguistica.
Octavio Paz, El laberinto de la soledad (México, Fondo de Cultura Económica, 1987) 18.
255
“Un sottotesto che sovverte costantemente questo messaggio egemonico, all’interno dei suoi
confini ideologici e lessicali”. Cutter, Lost and Found in Translation, 179.
237
aware of competing definitions” 256 coinvolgendo quindi chi legge in una
complessa operazione di negoziazione linguistica e culturale, che si sviluppa a più
livelli. I lettori dovranno infatti intuire il significato di parole non tradotte,
cogliere i doppi sensi e l’ironia della scrittura, interagire con la lingua e la cultura
rappresentate e risolvere i dilemmi genealogici e generazionali dei protagonisti,
fino ad immergersi completamente in una “interlingual zone of meaning”257.
Poiché lo spagnolo si configura come “sosia linguistico” dell’inglese e
come presenza spettrale e ossessiva nella storia degli Stati Uniti258, la mia analisi
continuerà con l’osservazione del percorso identitario messo in atto dai
protagonisti delle tre opere, per riconciliare la propria posizione generazionale nel
presente, con le proprie origini etniche e genealogiche.
256
“Relativizzato, de-privilegiato, consapevole di definizioni concorrenti”. Michail Bachtin, The
Dialogic Imagination: Four Essays (Austin: University of Texas Press, 1981) 426.
257
“Zona interlinguistica di significato”. Cutter, Lost and Found in Translation, 178.
258
Questa teoria è stata formulata da Di Iorio Sandín che definisce lo spagnolo “Linguistic double
of English in the Americas” e sottolinea come la sua presenza riesca a turbare sottilmente sia gli
ispanici sia gli anglosassoni fino a diventare lo “spettro” della storia statunitense”. Di Iorio Sandín,
“Latino Rage”, 93.
238
ANALISI CULTURALE
4.5 Los nadies della storia
I quesiti con cui si è conclusa l’analisi narratologica delle tre opere sono
riconducibili al tentativo dei tre autori di creare una voce autorevole per le
esperienze marginali e minoritarie delle famiglie e delle comunità etniche ritratte
nei romanzi, ricalcando (solo a un livello superficiale) le strategie retoriche con
cui negli ultimi due secoli si è andata rafforzando la “author-function” 259
predominante della narrativa occidentale: quasi esclusivamente appannaggio di
autori uomini, bianchi e provenienti da classi privilegiate.
Quando ad appropriarsi di queste strategie sono scrittori “socially
unauthorized” o “non hegemonic” 260 , l’acquisizione di autorevolezza narrativa
diventa una questione esteticamente e politicamente cruciale per la possibilità –
abilmente sottolineata da Luce Irigaray – di plasmare non solo una propria voce
(“voix”) ma anche una propria via (“voie” 261 ): un’identità e un percorso di
autoaffermazione che è allo stesso tempo individuale e collettivo.
Ciascuno a suo modo, i tre autori sembrano quindi voler conferire alla
proprie opere credibilità intellettuale, validità ideologica e valore estetico,
attraverso espedienti narrativi e linguistici volti a coinvolgere il lettore in
un’esperienza narrativa “accomodante” e accessibile, che rimanda a forme
259
“Funzione di autore”. Michel Foucault, Language, Counter-Memory, Practice: Selected Essays
and Interviews (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1977) 113.
260
“Socialmente svantaggiati”, “non egemonici”. Lanser, Fictions of Authority, 6-7.
261
Luce Irigaray, This Sex Which is Not One (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1985) 209.
239
letterarie già note, come il discorso storiografico per il romanzo di Candelaria, la
voce tipicamente femminile della narratrice di O’Reilly Herrera o il narratore
autocratico di Rivera. In realtà, attraverso un sottile processo di “mimicry”262 e
camouflage, gli autori decostruiscono dal di dentro le convezioni sociali e testuali
che i lettori si aspettano, trasformando la propria voce narrativa in un catalizzatore
simbolico di tensioni, contraddizioni e interrogativi dalla forte valenza ideologica.
Si tratta di espedienti letterari presenti in tutti e tre i romanzi, con diverse
declinazioni e sfumature, che hanno il potere di far emergere la memoria
sommersa e la voce fino a quel momento inascoltata dei Rafas, dei Maláguez e
delle donne di Cienfuegos le cui vicende vengono intrecciate ai maggiori eventi
storici degli ultimi quattro secoli, costruendo per loro uno spazio narrativo inedito.
Attraverso i loro personaggi e le loro storie, gli autori “seek to write themselves
into Literature, without leaving Literature the same”263. E mentre preservano dal
caos e dall’oblio l’esperienza minoritaria e frammentata dei personaggi
proiettandola nella dimensione atemporale dell’arte, Candelaria, Rivera e O’Reilly
Herrerautori rielaborano e legittimano anche la loro esperienza storica, delineando
per se stessi e per le comunità ispaniche che rappresentano una nuova identità
genealogica, generazionale ed etnica.
Ad essere riscattati dal silenzio sono generazioni e generazioni di quelli
che Gloria Anzaldúa chiama “huérfanos” della propria lingua 264 o, ancora, di
262
Bhabha sostiene infatti che “the epic intention of the civilizing mission […] often produces a
text rich in the traditions of trompe-l’oeil, irony, mimicry and repetition / l’intento epico della
missione civilizzatrice […] produce spesso un testo ricco delle tradizioni del trompe-l’oeil,
dell’ironia, della mimica e della ripetizione”. Bhabha, The Location of Culture, 85.
263
“Cercano di iscriversi nella Letteratura, senza lasciarla inalterata”. Lanser, Fictions of Authority,
8.
264
“Orfani”. Gloria Anzaldúa, Bordelands/La frontera (San Francisco: Aunt Lute Books 1987) 58.
240
coloro che Eduardo Galeano definisce i “nessuno”, gli invisibili della storia
universale, coloro che valgono meno di una pallottola:
Los nadies: los hijos de nadie, los dueños de nada.
Los nadies: los ningunos, los ninguneados, corriendo la liebre,
muriendo la vida, jodidos, rejodidos.
Que no son, aunque sean.
Que no hablan idiomas, sino dialectos.
Que no profesan religiones, sino supersticiones.
Que no hacen arte, sino artesanía.
Que no practican cultura, sino folklore.
Que no son seres humanos, sino recursos humanos.
Que no tienen cara, sino brazos.
Que no tienen nombre, sino número.
Que no figuran en la historia universal, sino en la crónica roja de la
prensa local.
Los nadies, que cuestan menos que la bala que los mata.265
I “nessuno” per Andrea O’Reilly Herrera sono i membri della Lost
generation cubano-americana di cui lei stessa si sente parte e che, nel romanzo,
sono incarnati sia da Margarita sia da Lilly. Costantemente coinvolti in un
processo di ridefinizione della propria cubanía in uno spazio diasporico, fluido e
delocalizzato, queste “Cuband presences” non si identificano nelle logiche binarie
ed essenzializzate di appartenenza culturale, consolidate sia dalle politiche
ufficiali dell’isola, sia dall’enclave nazionalista di Miami. Con le loro
testimonianze cercano invece di interrompere quell’operazione di cancellazione
storica e culturale con cui le si vorrebbe ridurre al silenzio, perché non
inquadrabili in nessuna delle due gerarchie di sofferenza, autenticità e legittimità.
265
“I nessuno: i figli di nessuno, i padroni di niente, / I nessuno: i niente, gli annientati,
rincorrendo la lepre, morendo la vita, fottuti, fottutissimi. / Che non sono, nonostante siano. / Che
non parlano lingue, ma dialetti. / Che non professano religioni, ma superstizioni. / Che non fanno
arte, ma artigianato. / Che non praticano cultura, ma folclore. / Che non sono esseri umani, ma
risorse umane. / Che non hanno viso, ma braccia. / Che non hanno un nome, ma un numero. / Che
non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera della stampa locale. / I nessuno, che
costano meno della pallottola che li uccide”. Eduardo Galeano, El libro de los abrazos (Ediciones
La
Cueva,
52).
Disponibile
in
rete
su:
<http://www.cronicon.net/paginas/Documentos/paq2/No.9.pdf>. Data di accesso 25 gennaio 2013.
241
Per Edward Rivera i “nessuno” sono i Nuyoricans, figure scomode che
popolano i quartieri latini di New York e che Abraham Rodríguez definisce
sarcasticamente “lower case people”:
all those shadows, they were tiny pins on a map, they hardly registered
at all. Their kind came and went. They didn’t write about them or
direct plays or paint murals about their lives. They were all walking
shit. Whether they lived in the South Bronx or Bed-Stuy or Harlem or
Los Sures. It didn’t matter. They didn’t exist. They were all lowercase
people.266
D’altronde Family Installments è popolato proprio di personaggi
“minuscoli” che sembrano voler rompere la propria “invisibilità” agli occhi degli
Anglo ma anche dei portoricani dell’isola, riemergendo prepotentemente dalle
crepe di quella “memoria rotta” delineata da Arcadio Díaz-Quiñones per
descrivere le lacune strategiche con cui la storiografia ufficiale portoricana tende a
ignorare l’esistenza delle comunità diasporiche, quasi fossero una minaccia al
progetto di costruzione di un’illusoria identità nazionale, omogenea e
territorialmente radicata sull’isola.
Per Candelaria invece, i “nessuno” sono i perdenti della storia degli Stati
Uniti: i messico-americani, gli indiani d’America, i neri e i sudisti: “the rainbow
of humanity as losers: red Indian, brown Spanish-Indian, black African, white
Anglo”267. Sono proprio questi perdenti, insieme agli umili, agli analfabeti e ai
reietti – secondo Candelaria – a reclamare con maggior forza uno spazio letterario
che possa riscattare la loro lunga assenza sia dalla narrativa del mainstream, sia
dalla storiografia ufficiale, entrambe appannaggio dei “vincitori” angloamericani:
266
“Tutte quelle ombre, erano piccole puntine su una mappa, quasi non venivano rilevate. Del loro
tipo andavano e venivano. Non scrivevano su di loro, né dirigevano commedie o dipingevano
affreschi delle loro vite. Erano tutte merde deambulanti. Sia se vivevano nel South Bronx o BedStuy o Harlem o Los Sures. Non importava. Non esistevano. Erano tutte persone minuscole”.
Abraham Rodríguez, Spidertown (New York: Penguin, 1993) 288.
267
“L’arcobaleno dell’umanità dei perdenti: gli indiani pellerossa, gli indo-ispanici marroni, i neri
africani, i bianchi anglosassoni”. Candelaria, Memories of the Alhambra, 181.
242
It is this void that contemporary Chicano Fiction writers can fill in order to
help balance the distortions of history. It is a task that challenges writers to
imagine themselves into the past in order to give voice to the voiceless, claim
their rightful place in American history, and give perspective on barriers that still
must be overcome. There are stories that still cry out to be told.268
La sua narrativa vuole quindi rileggere e ampliare sia il concetto di identità
chicana – arricchita con l’esperienza ancor più specifica dei New Mexican
Hispanics – sia i confini della storiografia ufficiale – di cui rivela la parzialità e le
assenze, mettendo quindi in discussione: “primero, la base mexicana del
chicanismo, y segundo – y mucho más significante – la función de la historia de
Estados Unidos y el papel de los chicanos en esa historia” 269.
Guidato dall’intento di scrivere storie oneste e toccanti270, in A Daughter’s
a Daughter l’autore cerca infatti di ricreare nuovi punti di vista sugli eventi storici,
per arrivare ad un comprensione più ampia e dialettica della verità storica, che
riporti in primo piano anche la prospettiva femminile. Così facendo, Candelaria dà
un contributo fondamentale per rendere l’esperienza messico-americana nella sua
complessità, accessibile anche a un pubblico non Latino, a cui fornisce una
visione della realtà storica che facilita e amplia la comprensione dell’esperienza
chicana da parte di chi legge. Consapevole che ogni scrittore Latino ha davanti a
sé due potenziali tipologie di pubblico – Hispanic e non-Hispanic – Candelaria,
268
“È questo vuoto che i romanzieri chicani contemporanei possono colmare, per controbilanciare
le distorsioni della storia. È un compito che spinge gli scrittori a immaginarsi nel passato per dar
voce a chi non ha voce, rivendicando il loro posto legittimo nella storia e dando visibilità a barriere
che devono ancora essere superate. Ci sono storie che chiedono ancora a gran voce di essere
raccontate”. Nash Candelaria, “Literature About Nineteenth-Century Chicanos: One Writer’s
Viewpoint” (Bilingual Review/Revista Bilingüe 21.1, 1996): 34.
269
“Prima di tutto la base messicana del chicanismo, e in secondo luogo – e in modo molto più
significativo – la funzione della storia degli Stati Uniti e il ruolo dei chicani in questa storia”. Juan
Bruce-Novoa, “Candelaria, novelista”, 41.
270
Quando Bruce-Novoa, nella nota intervista del 1980, gli chiede se le sue opere avessero una
finalità politica, Candelaria risponde infatti affermando che: “If you are interested in literature,
write the best, most honest, emotional story you know how. And let the political chips fall where
they may / Se sei interessato alla letteratura, scrivi la storia migliore, più onesta e toccante che
possa. E lascia che i frammenti politici cadano dove possono”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria:
An Interview”, 122.
243
così come O’Reilly Herrera e Rivera, decide di rivolgersi a entrambi, legittimando
quindi l’aspirazione della propria comunità ad avere maggiore visibilità e peso
sociale, e fornendo allo stesso tempo anche nuove risorse letterarie per rafforzare
le basi della “American poly-cultural society”271.
Candelaria riconosce le forti affinità tra la letteratura Chicana e quella di
altri gruppi etnici (tutti emblema del punto di vista degli emarginati della società
americana) e coglie le forti potenzialità che scaturiscono proprio dalla posizione
minoritaria: “Chicano writers are in the process of becoming, while majority
group writers already are. The future is on our side. And nobody can write our
stories except ourselves”272.
Di fatto, non solo in A Daughter’s a Daughter ma anche in The Pearl of
the Antilles e in Family Installments, l’effetto che si ricrea è quello di una pluralità
di voci e prospettive che i lettori stessi devono armonizzare, mettendo quindi in
discussione l’approccio monologico della scrittura storiografica tradizionale.
Quella che emerge è infatti la dimensione polifonica del romanzo delineata da
Bachtin, in cui visioni subalterne e conflittuali della realtà possono coesistere,
costantemente immerse in “a dialogically agitated and tension-filled environment
of alien words” in cui vengono “entangled, shot through with shared thoughts,
points of view, alien value judgments and accents”273.
L’immaginazione dialogica su cui si fondano i tre testi, sembra infatti
rivendicare le analogie che legano sottilmente romanzo e opera storiografica e, in
271
“Società poli-culturale americana”. Ibidem, 128.
“Gli scrittori chicani sono ancora in evoluzione, mentre il gruppo maggioritario si è già formato.
Il futuro è dalla nostra parte e nessuno può scrivere le nostre storie, eccetto noi stessi”. Ibidem, 123.
273
“Ambiente di parole aliene, dialogicamente agitato e carico di tensione”, “intrecciato,
attraversato da pensieri comuni, punti di vista, giudizi di valore e accenti alieni”. Bachtin, The
Dialogic Imagination, 276.
272
244
particolare, il potere della narrativa di infiltrarsi nella storia, permettendo una
comprensione più profonda e articolata dell’esperienza umana, così come aveva
già affermato lo storico White nel 1978:
The older distinction between fiction and history, in which fiction is
conceived as the representation of the imaginable and history as the
representation of the actual, must give place to the recognition that we can only
know the actual by contrasting it with or likening it to the imaginable.274
La complessa interazione tra reale e immaginabile e le prospettive spesso
contrastanti che movimentano le vicende dei protagonisti nei tre romanzi,
agiscono simultaneamente sia sull’asse diacronico (per l’ampio arco temporale in
cui le vicende familiari vengono inserite), sia su quello sincronico (per i conflitti
etnico-culturali e tra diversi sistemi di valori, costantemente innescati). La
tensione stratificata e bidirezionale che ne risulta, riconduce la mia analisi ai due
concetti chiave del romanzo multigenerazionale presi in esame all’inizio di questo
lavoro: quello di genealogical imagination e di generational identity che gli autori
ricostruiscono per i loro personaggi, sul solco di un nuovo concetto di storia:
quello della mnemohistory.
4.6 Dalla storia alla “mnemostoria”
I protagonisti più giovani dei tre romanzi – Irene, Lilly e Santos –
intraprendono un percorso di crescita e di definizione della propria identità
riconducibile al movimento dialettico di tesi, antitesi e sintesi dello “spirito”
274
“La vecchia distinzione tra narrativa e storia, in cui la narrativa viene concepita come
rappresentazione dell’immaginabile e la storia come rappresentazione del reale, deve cedere il
posto al riconoscimento che possiamo solo conoscere il reale, contrastandolo o paragonandolo
all’immaginabile”. Hayden White, “The Historical Text as Literary Artifact”. Tropics of Discourse:
Essays in Cultural Criticism (Baltimore: John Hopkins University Press, 1978) 98. A conferma
delle forti analogie che legano indissolubilmente storiografia e narrativa, Bruce-Novoa le definisce
entrambe “symbolic representations of perceived truth / rappresentazioni simboliche di verità
percepite”. Juan Bruce-Novoa, “History as Content, History as Act: the Chicano Novel” (Aztlán: A
Journal of Chicano Studies 18.1, 1987): 42.
245
hegeliano, che arriva a un equilibrio “giungendo a sé nel proprio altro”. Superano,
cioè, la logica binaria iniziale in cui l’identità è data dal solo principio di diversità
e decidono di ritrovare se stessi attraverso un percorso individuale più complesso
che Hegel chiama Er-innerung 275 giocando sulla polisemia del termine tedesco
che significa “ricordo” e allo stesso tempo allude all’interiorizzarsi, all’andar
dentro: innen. Lo “spirito” intraprende dunque un viaggio bidimensionale:
all’indietro verso le proprie radici più remote e all’interno verso una maggiore
autocoscienza. Il percorso culminerà nella sintesi finale in cui le contraddizioni, le
differenze, gli opposti rintracciati durante il cammino vengono mantenuti e
riconciliati.
La ricerca dei protagonisti inizia dunque sul piano diacronico. Essi
ritrovano difatti la propria posizione nella genealogia familiare e riscoprono quel
legame mentale con i propri avi che renderà possibile un’esperienza genealogica
della storia. Mentre rielaborano il passato dei propri antenati percependo eventi e
traumi lontani nel tempo come quasi autobiografici, i personaggi definiscono le
proprie radici etniche, intrecciando abilmente storiografia ufficiale e storie
familiari, e ricreando una continua “dissonanza cognitiva” tra il detto e il non
detto. La loro immaginazione genealogica li porterà inoltre a ricostruire gli aspetti
impliciti della storia sia pubblica sia privata, colmando le lacune strategiche o
inconsapevoli che intaccano sia la memoria collettiva sia i ricordi più intimi.
Il percorso identitario di Irene, ad esempio, passa attraverso una serie di
incidenti etnici e viene innescato da un’opera d’arte realmente esistente: “The Last
Supper of Chicano Heroes” dell’artista texano José Antonio Burciaga, che copre
275
“Interiorizzazione rammemorante”. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello
spirito, Trad. di Vincenzo Cicero (Milano: Rusconi, ,1996) 986, 1062.
246
le pareti della Stern Hall nella residenza Casa Zapata della Stanford University276.
Nata come reinterpretazione de “L’ultima cena” di Leonardo Da Vinci, l’opera
rappresenta oltre quaranta eroi della cultura chicana – scelti in base a un
sondaggio condotto dall’artista nel 1988, tra cento studenti messico-americani e
cento attivisti chicani della fine degli anni Sessanta.
Il dipinto fa parte di un ciclo di murales dedicato alla storia e alla
mitologia del mais, per questo – come spiega Burciaga in un articolo del Los
Angeles Times – la sua idea originale era di ritrarre Cristo e i dodici apostoli
secondo il modello di Leonardo, ma sostituendo pane e vino con tortillas, tamales
e tequila
277
. Visto il disaccordo di alcuni studenti che non gradiscono
l’accostamento di humour e religione, l’artista decide allora di sostituire le figure
bibliche con i tredici eroi della storia messico-americana che avessero ricevuto più
consensi dal campione scelto, collocando invece tutti gli altri personaggi alle loro
spalle.
Considerando l’eterogeneità dei candidati indicati da studenti e attivisti –
un totale di 240 personaggi, spesso controversi, appartenenti alla tradizione
ispanica e non – “[t]he selection process brought into question the very definition
of a hero or heroine as a mythical, historical, symbolic, military or popular culture
figure”278. Per questo accanto a generali e rivoluzionari come Ignacio Zaragoza,
Emiliano Zapata, Ricardo Flores Magón ed Ernesto “Che” Guevara, appaiono eroi
del movimento Chicano come César Chávez e Luis Valdez; scrittori messico-
276
L’immagine dell’affresco di Burciaga è fornita in appendice a questa tesi.
Jose Antonio Burciaga, “Cinco de Mayo – Some Uncommon Heroes for a Day:
Commemorating Heroism”, Los Angeles Times, 5 May 1988, <http://articles.latimes.com/198805-05/local/me-3285_1_chicano-hero>. Data di accesso 23 gennaio 2013.
278
“Il processo di selezione ha messo in discussione la definizione stessa di eroe o eroina come
figura mitica, storica, simbolica, militare o della cultura popolare”. Ibidem.
277
247
americani come Tomás Rivera e Ernesto Galarza; avvocati e politici del mondo
sia anglo-americano sia messicano, come Benito Juárez, Martin Luther King e
John Fitzgerald Kennedy; il muralista Diego Rivera; insieme a personaggi della
cultura popolare come gli attori comici Tin-Tan e Cantinflas, fino a Carlos
Santana (“who helped revolutionize North American music with Latino
sounds”279).
Da poco arrivata nella residenza, Irene è subito colpita dall’affresco che
scruta con curiosità, chiedendosi, in particolare, come mai sulla tovaglia con
frange a forma di crocifisso apparisse la scritta “and to all those who died,
scrubbed floors, wept and fought for us”280 e perché la Vergine di Guadalupe,
protettrice del Messico e vera anima del cattolicesimo popolare chicano,
sovrastasse la tavola imbandita. Irene si interroga anche sul significato dello
scheletro che appare al centro del dipinto: “la Muerta, death wearing a headband.
What did it all mean?”281. La sua osservazione viene interrotta dopo pochi istanti
dal commento tagliente dell’amica Emma, infastidita dalla netta predominanza di
figure maschili nel dipinto:
279
“Che ha contribuito a rivoluzionare la musica nord americana con suoni ispanici”. Ibidem.
“E a tutti coloro che sono morti, che hanno lavato i pavimenti, pianto e lottato per noi”. Nello
stesso articolo, l’artista spiega l’origine di questa citazione, ispirata dalla risposta di uno degli
studenti, che ha racchiuso nelle sue parole il forte senso di appartenenza e lo spirito di unione della
comunità chicana: “In the survey, the group-oriented focus came through time and again in votes
for mothers, fathers, grandparents, Vietnam veterans, ‘braceros’, ‘campesinos’ and ‘pachucos’.
But it was best expressed by one student who chose as his heroes ‘all the people who died,
scrubbed floors, wept and fought so that I could be here at Stanford’ / Nel sondaggio, l’attenzione
rivolta alla comunità appariva, di tanto in tanto, nei voti per le madri, i padri, i nonni, i veterani
del Vietnam, i ‘braceros’, i ‘campesinos’ e i ‘pachucos’. Ma è stata espressa al meglio da uno
studente che ha scelto come eroi ‘tutte le persone che sono morte, che hanno lavato i pavimenti,
pianto e lottato affinché io potessi essere qui a Stanford”. Ibidem.
281
“La Muerta, la morte che indossa una fascia. Che cosa significava tutto questo?”. Candelaria, A
Daughter’s a Daughter, 161. Nello stesso articolo del Los Angeles Times Burciaga definisce lo
scheletro: “‘La muerte’, so popular in Mexico, is a heroine, a great avenger and savior from la vida
/ ‘La muerte’, così popolare in Messico, è un’eroina, una grande vendicatrice a salvatrice dalla
vita”. Burciaga, “Cinco de Mayo”.
280
248
“Same old macho crap”, Emma said, “I’m surprised they didn’t
show the women eating in the kitchen. Only three of them at the table
are female.
Irene was shocked. “But there’s the Virgin of Guadalupe”, she
protested. “Not at the table. Besides, she’s a myth. The same old
virgin myth. She doesn’t count”. Emma leaned forward scrutinizing
the mural again. “Of course, maybe that skeleton is a woman.
Probably worked herself to death cooking, getting pregnant, and
raising kids”.282
Nei giorni successivi, Irene continua a esser rapita dalle figure del dipinto
che, ai suoi occhi, sembrano prender vita e interagire con i visitatori: “It seemed
that they came alive, became three-dimensional, as if they were moving and
breathing” 283 . La ragazza è particolarmente affascinata dalla uniche tre figure
femminili sedute al tavolo: la suora e poetessa Sor Juana Inés de la Cruz, la
pittrice Frida Kahlo e l’attivista, cofondatrice dello United Farm Workers, Dolores
Huerta.
Un giorno assorta nella contemplazione dell’affresco, Irene inizia una
conversazione silenziosa con una delle eroine: Sor Juana, religiosa e intellettuale
messicana del Diciassettesimo secolo, oggi nota anche come “Fénix de América”
o “décima musa” e considerata una delle figure di maggior rilievo del mondo
coloniale spagnolo e della cultura di tutti i tempi. Irene la ammira, in particolare,
per la sua scelta di sottrarsi al giogo della società maschilista dell’epoca,
abbracciando la vita monastica per esser libera di dedicarsi agli studi e alle Lettere.
Eppure, intorno al 1693, la suora smette di scrivere per dedicarsi quasi
esclusivamente all’attività religiosa. Nel suo dialogo intimo con la donna, Irene
282
“‘Le solite cazzate da maschio’, Emma disse, ‘Sono sorpresa che non abbiano mostrato le
donne che mangiano in cucina. Solo tre di loro al tavolo sono femmine’. Irene ne fu scioccata. ‘Ma
c’è la Vergine di Guadalupe’, protestò. ‘Non al tavolo. E poi, lei è un mito. Il solito mito della
purezza. Non conta’. Emma si sporse in avanti scrutando nuovamente l’affresco. ‘Certo, forse lo
scheletro è donna. Probabilmente è morta per la fatica cucinando, rimanendo incinta e crescendo i
figli’”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 165.
283
“Sembrava che prendessero vita e diventassero tridimensionali, come se si muovessero e
respirassero”. Ibidem, 164.
249
immagina i pensieri che l’hanno indotta alla rinuncia: “[w]hile not a word was
spoken, Irene imagined what the nun was thinking at the time of her downfall”284.
Anche se a livello storico non vi sono ragioni certe sul motivo del suo
cambiamento e diversi intellettuali sostengono che derivasse da una sua
accresciuta dedizione mistica, la Sor Juana a cui la voce narrante dà vita confessa
invece di averlo fatto per sfuggire al potere dell’Inquisizione che l’accusava di
blasfemia, non tollerando che una donna, per di più religiosa, si potesse dedicare
ad attività secolari come la scrittura285:
If I had been a man, they would have applauded and encouraged
my intellectual pursuits. […] But I was a woman, a woman poet at
that. For a woman that was the highest form of blasphemy. Instead of
a life of the mind I was supposed to dedicate myself to obedience and
service. Especially as a member of the Church.286
Riportando in vita la figura di Sor Juana attraverso la sua immaginazione,
Irene sembra cogliere tutto il dramma della sua rinuncia e le difficoltà che anche
le antenate donne della sua famiglia dovevano aver vissuto. Di fatto, la ragazza
crea un parallelo tra la santa e la coeva Magdalena, vedova e matriarca della
famiglia Rafa, che sopravvive alla Rivolta Pueblo del 1680 ma perde la casa ed è
costretta a rifugiarsi a El Paso del Norte, dove vive per anni in esilio, affrontando
la miseria e il clima ostile del deserto. Con grande coraggio la donna non solo
284
“Mentre non veniva pronunciata parola, Irene immaginò ciò che la suora pensava nel momento
della sua caduta”. Ibidem, 165.
285
Tra gli storici che sostengono la tesi di una sua accresciuta dedizione mistica, confermata dal
suo rinnovo dei voti religiosi del 1694, vi sono: Alfonso Méndez Plancarte (“Introducción”, Juana
Inés de la Cruz: Obras completas, México: Fondo de Cultura Económica, 1951: 31-33) e Alberto
G. Salceda (“Introducción”. Juana Inés de la Cruz: Obras completas. México: Fondo de Cultura
Económica, 1957: 39-45). Di opinione opposta sono invece Octavio Paz e Elías Trabulse che
sostengono invece la tesi di una cospirazione misogina con la quale le autorità ecclesiastiche la
costrinsero ad abbandonare la scrittura. Si vedano Octavio Paz, Sor Juana Inés de la Cruz o las
trampas de la fe, México: Fondo de Cultura Económica, 1982 e Elías Trabulse, Los años finales
de Sor Juana. México: Condumex, 1995.
286
“Se fossi stata un uomo avrebbero applaudito e incoraggiato la mia attività intellettuale. […]
Ma ero una donna e poetessa. Per una donna era la forma più alta di blasfemia. Invece che a una
vita della mente, avrei dovuto dedicarmi all’obbedienza e al servizio. In particolare come membro
della Chiesa”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 165.
250
riuscirà a tornare con i figli nel New Mexico ma, in età avanzata, raggiungerà
Città del Messico su di un asino, percorrendo quindicimila miglia di territori ostili,
per reclamare una concessione di terra appartenente al padre, che il governo non
voleva riconoscerle. È su quella stessa terra che i Rafas vivranno poi per
generazioni.
Resasi conto della forza e dell’eroismo dimostrati da Magdalena, Irene
chiede alla suora le ragioni della sua resa: “‘Why was that your only choice? Was
life more precious than the truth?’ With eyes downcast the nun seemed to answer
‘That’s easy for you to say’” 287 . Fissando ancora una volta l’immagine
nell’affresco, Irene finisce col rivedere il suo stesso volto in quello Sor Juana (“It
was like peering into a mirror”288, e si sente quindi parte di un continuum di voci
al femminile, che possono rivivere intimamente in lei, con tutta la loro forza e
fragilità, con i loro silenzi e con il sudore, con le loro gesta eroiche e con le
sofferenze subite. La sua esperienza genealogica della storia le permette ora di
vedere le grandi protagoniste della storia universale e le umili antenate della
famiglia Rafa, tutte sullo stesso piano, tutte indistintamente parte del suo
patrimonio culturale di donna emancipata del Ventesimo secolo.
Fondendo eventi storici, folclore, leggende di famiglia e immaginazione,
Irene riesce dunque a rielaborare il suo passato riconciliandosi sia con le sue radici
New Mexican sia con il suo ruolo di Latina. La linea di continuità che ristabilisce
tra la Muerta, la Virgen de Guadalupe, Sor Juana, Magdalena, Frida Kahlo e
Dolores Huerta, rappresenta infatti la discendenza simbolica, ricostruita dalla sua
287
“Perché quella fu la tua unica scelta? La vita era forse più preziosa della verità? Con gli occhi
abbassati, la suora sembrò rispondere ‘È facile per te dirlo’”. Ibidem, 166.
288
“Era come guardare uno specchio”. Ibidem.
251
immaginazione genealogica, sulla quale potrà innestare la sua identità etnica e
generazionale nel presente.
A partire da questo momento, forte del coraggio delle sue antenate e ben
intenzionata a non perpetuare l’ethos della società patriarcale, Irene riuscirà infatti
a trovare un equilibrio tra “breach and continuity” 289, proiettando le sue radici
etniche nel futuro, attraverso il suo coinvolgimento attivo nel Chicano Movement
e l’impegno nel sociale che la porterà, da avvocato, a difendere persone indigenti
o donne che hanno subito abusi.
Inoltre, la rielaborazione di storia pubblica e privata che Irene innesca a
partire da un’opera d’arte, sembra richiamare in modo paradigmatico il ruolo
dell’arte nella costruzione di un’eredità simbolica e, insieme, il processo di
scrittura creativa messo in atto da Nash Candelaria. Nel caso del suo primo
romanzo Memories of the Alhambra ad esempio, l’autore stesso trae ispirazione
dall’ascolto del brano “Recuerdos de la Alhambra” interpretato da Andrés
Segovia. Come l’acquarello per l’opera di Andrea O’Reilly Herrera, anche in
questo caso arti diverse interagiscono e fungono da stimolo, sottolineando ancora
una volta la capacità del romanzo – già evidenziata da Lotman – di configurarsi
come rappresentazione di un mondo potenzialmente senza confini ma reso visibile
proprio dal confinamento entro lo spazio limitato della cornice. Nell’intervista a
Juan Bruce-Novoa Candelaria conferma l’immediatezza della sua ispirazione e la
volontà di condensare nell’opera le molteplici esperienze di vita della famiglia e
della sua comunità,:
A mood, a feeling came over me and the idea for the story came to
me in a flash. It was a chilling, exhilarating experience – like having a
visitation from the archangel. The book would be a culmination of
289
“Rottura e continuità”. Assmann, “Limits of Understanding”, 33.
252
much I had gone through myself and much that I saw in my own
family and others from New Mexico. It would be about
“mexicanness” and the acceptance of it.290
Di fatto, l’intera esperienza letteraria di Candelaria è un gioco continuo di
rimandi tra storia del New Mexico ed episodi biografici, rielaborati dalla sua forza
creativa che gli permette di “reshaping ‘true’ incidents into fiction” 291 per
esplorare la sottile interazione tra eventi storici e destini individuali, rievocando il
suo trionfo personale e quello della sua comunità sulle molteplici avversità
superate nei secoli.
Il suo percorso di ricostruzione inizia, simbolicamente, proprio quando
deve interrompere la ricerca genealogica sulla propria famiglia, avviata negli anni
Settanta, per una lacuna nelle fonti. È esattamente in quel momento che la sua
immaginazione genealogica deve attivarsi: “So I gave up the genealogical search.
I had read New Mexico history. I would add to what was known by imagining
myself into the past and what it must have been like for those generations of New
Mexicans to become Americans292.
Se molti degli episodi dei suoi romanzi sono ispirati alla sua biografia (i
Rafas rappresentano infatti la controparte creativa dei Candelaria, a partire dalla
capostipite Magdalena, che rende omaggio ad Ana Candelaria), nel suo mémoir
l’autore ricorre emblematicamente a passi dei suoi romanzi, per spiegare episodi
290
“Sono stato sopraffatto da uno stato d’animo, una sensazione e la storia mi è venuta in un
lampo. È stata un’esperienza da brivido ed esaltante – come ricevere una visita da un arcangelo. Il
libro sarebbe stato la culminazione di quanto avevo attraversato e di quanto avevo visto nella mia
famiglia e in altre del New Mexico. Sarebbe stato sulla ‘messicanità’ e sulla sua accettazione”.
Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview” , 119.
291
“Rimodellare eventi veri nella narrativa”. Ibidem, 117.
292
“Quindi ho abbandonato la ricerca genealogica. Avevo letto la storia del New Mexico. Avrei
accresciuto ciò che si sapeva già, immaginandomi nel passato e immaginando come è stato
diventare americani per quelle generazioni di New Mexicans”. Candelaria, Second Communion,
184.
253
della sua vita, come quando racconta della presa di distanza dalla Chiesa citando
un’esperienza analoga di Irene:
I don’t remember exactly when I made my final break with the
Church. It must have been sometime between my twenty-first and
twenty-second birthdays. What I remember is that it ended not with a
whimper but with an act of defiance, one that was not unlike the
experience of the character Irene Bustamante in my novel A
Daughter’s a Daughter .293
Nell’intrecciare abilmente factual e imaginable, Candelaria sembra
richiedere ai lettori di partecipare attivamente alla ricostruzione genealogica dei
Rafas e alla rilettura della storiografia ufficiale, invitandoli alla stesso tempo a
intrecciare il proprio vissuto – a prescindere da distanze o differenze – a quello dei
protagonisti (come ha fatto Irene contemplando gli eroi del dipinto), per riportare
alla luce quelle “reliquie viventi” della storia, che ognuno di noi conserva:
One premise of my own writing is that each of us carries history
within us – some of it like recessive genes – that makes change slow
and difficult. We are all in a sense walking living relics of history,
carrying within us the marks of past generations whether we know it
or not. Carrying within us attitudes, scars, pains, and the desire for
revenge that can take generations to dispel.294
In The Pearl of the Antilles, invece, il percorso identitario di Lilly si rende
necessario come reazione al mausoleo di solitudine e silenzio creato dalla madre,
che aveva deciso di seppellire il proprio passato e la propria lingua materna, fino a
diventare negli Stati Uniti “a stranger without family, or country, or past” 295 ,
293
“Non ricordo esattamente quando è avvenuta la mia rottura definitiva con la Chiesa. Deve
essere stato intorno al mio ventunesimo e ventiduesimo compleanno. Quello che mi ricordo è che è
finita non con un lamento, ma con un atto di sfida, simile all’esperienza del personaggio Irene
Bustamante nel mio romanzo A Daughter’s a Daughter”. Ibidem, 139.
294
“Una premessa della mia scrittura è che ognuno di noi porta dentro di sé la storia – alcune sue
parti come geni recessivi – che rendono il cambiamento lento e difficoltoso. Siamo tutti in un certo
senso reliquie viventi di storia, e portiamo in noi i segni delle generazioni passate, che lo sappiamo
o no. Portiamo in noi atteggiamenti, cicatrici, dolori e il desiderio di vendetta che può richiedere
generazioni per disperdersi”. Candelaria, “Literature About Nineteenth-Century Chicanos”, 36.
295
“Una straniera senza una famiglia, una patria e un passato”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the
Antilles, 284.
254
come unico rimedio al doloroso ricordo del figlio ucciso in un attentato e ai rifiuti
subiti dal padre, dalla zia e dal suo amato.
Il suo silenzio impenetrabile le impedisce di istaurare una relazione con la
figlia che cresce all’ombra del fratello Peter (figlio prediletto di Margarita) e negli
anni diventa distaccata, sentendosi ingiustamente deprivata della propria memoria
familiare e culturale – “orphaned, betrayed, emotionally abandoned” – come se ci
fosse “an ocean between them”296.
Di fatto, con questa metafora acquea si rievoca una lacerazione più
profonda: quella tra due mondi (il passato di Cuba e il presente degli Stati Uniti) e
quella interiore vissuta nella diaspora da generazioni e generazioni di cubani che
convivono con un profondo senso di sradicamento e privazione, per
l’impossibilità di metter piede sull’isola e di ritrovare la proprie origini simboliche.
La frammentazione interiore di Lilly e l’oblio che minaccia di inghiottire
le sue radici etniche, la spingono dunque ad andare oltre il velo di silenzio di
Margarita, ricercando un legame con il passato della propria famiglia nel diario
appartenuto alla nonna, prima, e alla mamma, poi. Fin dai primi istanti in cui
contempla le affascinanti foto in bianco e nero, le incomprensibili memorie in
spagnolo e gli indecifrabili ritagli di giornale contenuti al suo interno, Lilly sente
istintivamente il riattivarsi di quella memoria che le era stata negata e che aveva
già iniziato a prender forma nel suo inconscio. Durante il sonno, infatti, i volti, i
paesaggi esotici e le oscure parole che osserva di giorno nel diario si
ricompongono in un misterioso “mosaic of dreams”297 che la ragazza cerca invano
di interpretare, fino al momento in cui capisce che solo attraverso
296
297
“Orfana, tradita ed emotivamente abbandonata”, “un oceano tra di loro”. Ibidem, 366, 340.
“Mosaico di sogni”. Ibidem, 327.
255
l’immaginazione avrebbe potuto decodificare l’indecifrabile palinsesto del suo
passato.
Ricorrendo a quella che O’Reilly Herrera definisce “reconstructive
imagination” 298 , Lilly inizia dunque a ricrearsi una propria memoria culturale,
mescolando la storia di Cuba con i frammenti visibili e invisibili del vissuto dei
propri antenati, fino al punto da riscrivere di proprio pugno la storia della famiglia.
Lilly inizia infatti ad annotare i suoi sogni notturni e i suoi pensieri più intimi sul
diario, confessando anche alla madre il desiderio di diventare una scrittrice:
Mother, I’ve never told you this before, but when I grow up I want
to be a writer. Maybe you’ll think I’m crazy but ever since I found this
notebook I’ve had the strangest dreams (this already reads like
something out of an amateur novel, doesn’t it?).299
Redigendo un proprio diario sullo stesso notebook appartenuto a Rosa e
Margarita, la ragazza si ricongiunge simbolicamente con le esperienze sommerse
delle sue antenate, ristabilendo con loro un legame ancestrale e terapeutico, tutto
al femminile, che ricuce il suo senso di perdita e le fa superare l’incomunicabilità
che la separa dalla madre. Di fatto, nell’ultima delle visioni che Lilly trascrive, la
ragazza entra nella tenuta di Cienfuegos tenendo per mano Margarita.
Lilly riesce quindi a dar corpo alla “living presence” 300 di un passato
doloroso che non può essere seppellito o ridotto al silenzio e rivendica anzi un suo
spazio nel presente, attraverso le voci dei suoi antenati: “I feel as though the
voices of my ancestors have begun to speak through me, Mommy, to push this
298
“Immaginazione ricostruttiva”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-Remembering”, 185.
“Mamma, non te l’ho mai raccontato prima, ma quando sarò grande voglio essere una scrittrice.
Forse penserai che sono pazza ma da quando ho trovato questo taccuino ho avuto i sogni più strani
(questo sembra già uscito da un romanzo amatoriale, non è vero?)”. O’Reilly Herrera, The Pearl of
the Antilles, 329.
300
“Presenza vivente”. Ibidem, 336.
299
256
pen across the page, only because their voice cannot be silenced forever” 301. La
ragazza da voce non solo alle proprie inquietudini identitarie ma anche ai traumi
della madre e al passato denso di sofferenze della propria famiglia che traduce,
reinterpreta e armonizza nel processo di scrittura dell’intero romanzo, di cui
intuiamo – proprio nell’ultima pagina – lei stessa è stata la narratrice.
L’opera si configura dunque, retrospettivamente, come ricostruzione
simbolica di “homes away from home” 302 , secondo l’impulso ancestrale delle
comunità diasporiche a contrastare il proprio senso di sradicamento restaurando
una “imaginary coherence on the experience of dispersal and fragmentation”303
attraverso un’opera d’arte. Il recupero del passato rappresenta infatti una strategia
di sopravvivenza per ostacolare “the natural process of forgetting, assimilating,
and/or distancing”304, ricostruendo quella continuità genealogica e culturale sulla
quale poter forgiare una nuova identità nel presente. Poiché a Lilly viene negato il
contatto, sia fisico sia psichico, con Cuba, la ragazza non può che ricostruirlo
all’interno del romanzo, nell’interstizio tra storia, sogno e immaginazione,
attraverso un’operazione che O’Reilly Herrera definisce “ReMembering”, ad
indicare “the multiple ways in which a ruptured and scattered nation, and
consequently Cuban Identity, can be reassembled”305.
301
“Sento che le voci dei miei antenati hanno cominciato a parlare attraverso di me, mamma,
spingendo questa penna sulla pagina, solo perché la loro voce non può essere messa a tacere per
sempre”. Ibidem, 337.
302
“Case, lontano da casa”. James Clifford, “Diasporas” (Cultural Anthropology 9.3, 1994): 302.
303
“Coerenza immaginaria sull’esperienza di dispersione e frammentazione”. Stuart Hall,
“Cultural Identity and Diaspora”. Theorizing Diaspora: A Reader. Eds. Evans Braziel, Jana e
Anita Mannur (Malden, MA: Blackwell, 2003) 226.
304
“Il processo naturale di perdita del ricordo, assimilazione e/o allontanamento”. Clifford,
“Diasporas”, 255.
305
“I molteplici modi in cui una nazione frammentata e sparpagliata, e di conseguenza un’identità
cubana, può essere riassemblata”. O’Reilly Herrera , The Politics of Mis-ReMembering, 188.
257
Nell’ottica allargata dei cubani della diaspora di cui l’autrice si fa
portavoce, l’isola rappresenta infatti una patria in viaggio e immaginata 306 che
rivive nella casa simbolica della memoria e viene tramandata di generazione in
generazione, ben oltre i suoi confini geografici:
I dwell in this house of memory – caught eternally in the indigo
twilight between history and dreams. […] I inherited a world built
upon the shifting sands of nostalgia – a phantom world without
scapulars and monuments – without ruins and sacred stones. In the
frame of such oblivion, there are those who seek refuge in shadows.
Others attempt to wrest immortality from the Janus-like embrace of
history and memory. […] Burdened and blessed by this history – these
dreams and visions that I have somehow received – I write and record
with the knowledge that the shadows we cast into the future are only
as long as our memories. And thus, in some uncanny act of discursive
midwifery, I beg to defy oblivion and thereby re-member a place that I
have seen without seeing – an impossibly palpable world that has all
but ceased to exist except in memory and, perhaps, imagination. 307
Proprio come Lilly, dunque, la stessa autrice ricorre alla scrittura (creativa e
accademica) per erigere monumenti simbolici di Cuba anche negli Stati Uniti,
sollevando l’isola dalle sabbie mobili della nostalgia e trasformandola in un
“prismatic site of rupture, displacement, and continuity”308.
Anche il percorso identitario di Santos in Family Installments inizia dalla
ricostruzione del passato della propria famiglia che avviene nei primi due capitoli,
prima ancora dell’apparizione del protagonista. Il narratore rielabora infatti la
storia dei propri antenati nel villaggio di Bautabarro, mescolando i ricordi dei
genitori, le leggende di paese e gli aneddoti tipici della tradizione orale e
306
O’Reilly Herrera la definisce “traveling nation”. Ibidem, 184.
“Io abito in questa casa della memoria – eternamente imbrigliata nel crepuscolo blu indaco tra
storia e sogni. [...] Ho ereditato un mondo costruito sulle sabbie mobili della nostalgia – un mondo
fantasma senza scapolari e monumenti – senza rovine e pietre sacre. Nella cornice di tale oblio, vi
sono coloro che cercano rifugio nelle ombre. Altri tentano di strappare l’immortalità dall’abbraccio
bifronte di storia e di memoria. [...] Oppressa e benedetta da questa storia – questi sogni e visioni
che ho ricevuto in qualche modo – scrivo e registro con la consapevolezza che le ombre che
proiettiamo sul futuro sono lunghe solo quanto i nostri ricordi. E così, in un atto straordinario di
ostetricia discorsiva, mi permetto di sfidare l’oblio e, quindi, di ricordare un luogo che ho visto
senza vedere – un mondo incredibilmente palpabile che non ha cessato di esistere nella memoria e,
forse, nell’immaginazione”. Ibidem, 176.
308
“Luogo prismatico di rottura, dislocamento e continuità”. Ibidem.
307
258
dimostrando in questo modo che “the most fundamental scene of all narrative is
oral storytelling”309.
Il racconto orale è infatti l’anello di congiunzione tra memoria e
narrazione, poiché in esso si mettono in atto gli stessi processi di selezione,
strutturazione e amplificazione degli eventi che caratterizzano sia il ricordo sia la
narrativa: “oral narratives […] cognitively correlate with perceptual parameters of
human experience and […] these parameters remain in force even in more
sophisticated written narratives”310. L’intero romanzo viene quindi costruito sulla
sottile interazione tra passato e presente, nel contesto socioculturale specifico di
Porto Rico e degli Stati Uniti ma sfruttando le potenzialità creative che
scaturiscono dalla combinazione di “reproductive memory and productive
imagination”311 di Santos.
Eppure, quello che in apparenza è un romanzo di formazione incentrato
sulla crescita di una soggettività, inizia proprio in sua assenza, anteponendo
all’“I” di Santos (che farà la sua comparsa solo nel terzo capitolo) la dimensione
collettiva e orale tipica della cultura ispanica tradizionale. Con la sua strategia,
Rivera sembra rivelare fin da subito il peso delle radici etniche sul percorso di
autoformazione di Santos, anticipando in questo modo che “his identity is
partially communal, not solely conceived as some autonomous bourgeois self”312.
Di fatto, solo dopo aver ricostruito il passato dei propri avi, segnato in particolare
309
“Lo scenario fondamentale di ogni narrativa è il racconto orale”. Erll, “Narratology and
Cultural Memory Studies”, 212.
310
“La narrazione orale […] è cognitivamente in correlazione con i parametri percettivi
dell’esperienza umana e […] questi parametri rimangono in vigore anche nelle più sofisticate
narrazioni scritte”. Fludernik, Towards a ‘Natural’ Narratology, 12.
311
“Memoria riproduttiva e immaginazione produttiva”. Frank K. Stanzel, A Theory of Narrative,
Trad. di Charlotte Goedsche (Cambridge: Cambridge University Press, 1986) 215.
312
“La sua identità è in parte comunitaria, non concepita esclusivamente come un io borghese
autonomo”. Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family
Installments’”, 855.
259
dai due modelli antitetici di papà Santos (con la sua perseveranza, la generosità, la
dedizione, lo spirito di sacrificio e il forte attaccamento alla terra) e di Gigante
(con la sua crudeltà, la misoginia, il bigottismo e gli abusi), il protagonista inizia il
racconto del suo percorso di acculturazione negli Stati Uniti.
Una volta arrivato a New York, Santos si immerge in un “terzo spazio”, in
una zona liminale in cui si sente costantemente escluso e marginale sia nella
cultura dominante anglosassone (rafforzato dalle istituzioni scolastiche e
religiose), sia in quella degli immigrati ispanici o afro-americani (che
monopolizzano la strada). Due episodi, in particolare, fanno emergere il suo senso
di inadeguatezza nei confronti di entrambi i gruppi. Da un lato, la scena in cui
viene spinto in una pozza di letame dalla banda afroamericana di Central Park che
lo scambia per un Anglo, visto il suo inglese impeccabile e il suo incarnato pallido.
Ironia della sorte, Santos viene salvato proprio dall’amico Panna, portoricano nero
e con un forte accento ispanico. Dall’altro lato, il passo in cui durante una delle
sue passeggiate notturne viene fermato e perquisito in malo modo dalla polizia
che lo scambia per un malintenzionato confondendo la sua penna per un’arma
impropria.
Il suo profondo disagio viene corroborato anche dalle esperienze del padre,
sul quale rivede perpetuarsi ingiustizie e soprusi legati alla propria umile
estrazione sociale, alle origini etniche e alle insicurezze con l’inglese, che gli si
riversano addosso in tutte quelle occasioni (sul lavoro, in banca, etc.) in cui il suo
cognome spagnolo viene mal pronunciato dai madrelingue inglese (“Mr. Malanguéss”, “Mr. Malánguish”313). Santos dedica ampio spazio ai racconti del padre
313
Rivera, Family Installments, 180, 186.
260
Gerán sulle umiliazioni subite nei primi tempi dal suo arrivo e descrive
ripetutamente anche i malumori che si respiravano in famiglia per le costanti
difficoltà economiche.
A controbilanciare le durezze vissute in casa e sulla strada Santos ha come
unico rifugio gli studi e la poesia: palliativo solo apparente poiché ogni volta che
chiude la sua amata antologia, le sue frustrazioni e la disparità tra Lettere e vita
reale gli appaiono ancora più pungenti. Quando alla fine del romanzo, tornato a
Porto Rico per la morte del padre, crede di poter trovare una risposta al suo senso
di inadeguatezza culturale visitando la sua terra natale, scopre che l’isola ha subito
una profonda metamorfosi ed è ben lontana dalla dimensione rurale in cui l’aveva
lasciata. La tomba del nonno Xavier (poeta e “frustrated troubadour” 314 morto
suicida) per il quale sente una particolare affinità, è stata invece inghiottita dalla
vegetazione incolta della collina dove erano seppelliti tutti i suoi antenati. Le sue
radici etniche dunque non sono più neanche a Porto Rico, o meglio, si sono
evolute e trasformate, generando nuova vita come le ceneri dei suoi avi.
Prendendo in prestito le parole di O’Reilly Herrera, Santos capisce che “You are
rooted nowhere and everywhere”315.
La sua esperienza, quindi, non è riconducibile a nessuno dei due poli
culturali (né anglo-americano né portoricano) ma li ingloba e li reinventa entrambi
iscrivendoli in uno spazio liminale e mutevole che ha comunque il potere di
ricreare un continuum tra passato e presente 316 . Attraversando continuamente
314
“Trovatore frustrato”. Ibidem, 298.
“Le tue radici non sono in nessun posto e sono dappertutto”. O’Reilly Herrera e Salvucci,
“Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5.
316
Bhabha lo definisce “contingent ‘in between’ space, which is on a continuum with the past and
the present / spazio liminale e contingente, in continuità con il passato e il presente”. Bhabha, The
Location of Culture (London: Routledge, 1994), 7, 225.
315
261
confini linguistici e culturali Santos può mediare spinte contrastanti e mettere in
atto “politics of freedom and resistance”317, portando alla luce tutta la creatività e
la forza dirompente che scaturisce dalla trasgressione di un limite, così come
evidenziato da Foucault:
transgression […] is like a flash of lightning in the night which gives a
dense and black intensity to the night it denies, which lights up the
night from the inside, from top to bottom, and yet owes to the dark the
stark clarity of its manifestation.318
Inoltre, pur sapendo che l’opera non è un romanzo autobiografico, viste le
forti analogie con la vita reale dell’autore, il lettore è comunque indotto (più che
negli altri due romanzi) a vedere dietro al percorso di Santos quello di Rivera, per
il quale possiamo ipotizzare un analogo percorso identitario, collocando quindi il
suo romanzo nel “realm of the ‘undecidable’” 319 tra narrativa e mémoir.
Quest’ambiguità rimane ancora oggi aperta poiché Rivera non ha lasciato altri
scritti sulla sua concezione della letteratura o sul suo rapporto con la propria
comunità d’origine. Saranno dunque i lettori di Family Installments a rielaborare
creativamente il percorso identitario, forse incompiuto, dell’autore.
Infine, il processo di ricostruzione di una propria identità etnica e
genealogica da parte dei protagonisti più giovani dei tre romanzi, fa si che
ciascuno di essi ricrei quella che Jan Assmann definisce “mnemohistory”320 della
propria
famiglia,
incentrata
sulla
continua
interazione
tra
memoria,
immaginazione e storia. Lo studioso tedesco allarga infatti i confini della
storiografia ufficiale per integrarla con la tradizione orale, i ricordi tramandati
317
“Politiche di libertà e resistenza”. Flores, From Bomba to Hip Hop, 55.
“La trasgressione […] è come un lampo nella note che dà un’intensità densa e nera alla notte
che nega, che illumina la notte dal suo interno, da cima a fondo e, tuttavia, deve al buio la netta
chiarezza della sua manifestazione”. Foucault, Language, Counter-Memory, Practice, 34.
319
“Reame dell’‘indecidibile’”. Paul De Man, “Autobiography as De-facement” (MLN
Comparative Literature, 94. 5, 1979): 921.
320
“Mnemostoria”. Assmann, Moses the Egyptian, 9.
318
262
all’interno delle famiglie, il ruolo delle fotografie o dei diari privati, delle opere
d’arte, della musica o delle produzioni letterarie emblematiche di una generazione,
fino a comprendere tutto quel “repertoir”321 di conoscenza implicita, che rivive
quotidianamente nella memoria culturale di ogni individuo ed è invece assente
dagli archivi storici ufficiali.
A partire da una visione sinergica di passato e presente in cui il primo
proietta costantemente la sua ombra sui posteri, mentre il secondo ricostruisce e
reinventa ininterrottamente ciò che è stato, la memoria individuale e collettiva non
può essere concepita come un deposito statico ma come un flusso incessante in
cui eventi, manifestazioni artistiche e ricordi vengono costantemente mescolati
dalla reconstructive imagination di ognuno. Il processo messo in atto dai
personaggi dei tre romanzi, dunque, non fa che richiamare uno dei principi
fondanti del pensiero di Assman. Se è vero che “[w]e are what we remember”322
possiamo dunque anche affermare che le verità storiche, pur mutevoli e in perenne
evoluzione, acquisiscono un senso proprio nelle identità che forgiano, di volta in
volta:
the truth of memory lies in the identity that it shapes. This truth is
subject to time so that it changes with every new identity and every
new present. It lies in the story, not as it happened but as it lives on
and unfolds in the collective memory. If “We Are What We
Remember”, we are the stories that we are able to tell about
ourselves.323
321
“Repertorio”. Diana Taylor, The Archive and the Repertoir: Performing Cultural Memory in
the Americas (Durham, NC: Duke University Press, 2003).
322
“Siamo ciò che ricordiamo”. È la tesi del neuropsichiatra premio nobel Eric R. Kandel, secondo
il quale dalla memoria e dall’apprendimento deriva la nostra capacità di sviluppare nuove idee,
condizionando anche il modo in cui concepiamo noi stessi, il mondo e la civiltà. Kandel ha
illustrato la sua teoria anche nella conferenza alla Royal Society tenutasi il 22 aprile 2008 e
disponibile sul web. Eric R. Kandel, “We Are What We Remember: Memory and the Biological
Basis
of
Individuality”,
Public
Lecture
at
the
Royal
Society
<
http://royalsociety.tv/rsPlayer.aspx?presentationid=287>. Data di accesso, 26 gennaio 2013.
323
“La verità della memoria risiede nell’identità che modella. Questa verità è condizionata dal
tempo, quindi cambia a ogni nuova identità e a ogni nuovo presente. Si trova nella storia, non
come è accaduta, ma come rivive e si dispiega nella memoria collettiva. Se ‘siamo ciò che
263
In questo magma fluido di ricostruzione della propria storia e della propria
posizione genealogica e generazionale, ricoprono un ruolo fondamentale i diari, i
cimeli di famiglia, le foto o le opere d’arte che sono determinanti anche
all’interno dei tre romanzi. In The Pearl of the Antilles ad essere tramandato di
donna in donna fino al presente, non è solo il diario di Rosa ma anche la sua
valigia e il suo porta cipria dai quali Margarita non vorrà più separarsi:
Over the years […] Margarita would sneak back into the room and
confiscate her mother’s belongings, including the green Morocco
notebook and the compact, both of which she eventually carried with
her to Havana and then to the States in Rosa’s old valise (271);
Margarita could not bring herself to leave behind the photographs or
her mother’s few belongings, and so she packed them in Rosa’s valise
once again. When she stepped onto the plane that would take her to
Atlanta (285). 324
Quando Lilly entra in contatto con questi cimeli, quel passato a cui non
aveva mai avuto accesso sembra riprendere improvvisamente vita, proiettandosi
su di lei. Lo dimostra la scena in cui, mentre la ragazza fa roteare il portacipria fra
le dita, due misteriosi occhi verdi si materializzano sullo specchietto al posto dei
suoi, permettendole un’identificazione simbolica con la nonna mai conosciuta:
At first she saw only her own reflection, but as she tilted the mirror
from side to side, a pair of eyes that were not her own suddenly gazed
out at her – then the bridge of a nose and then the curve of a mouth
came into view. […] Startled at the sight of the unblinking green eyes
that flashed up at her in the mirror, she dropped the compact on the
floor. […] Lilly guessed by the obvious age of the woman in the
daguerreotype that she was probably her great-grandmother.325
ricordiamo’, siamo le storie che riusciamo a raccontare di noi stessi”. Assmann, Moses the
Egyptian, 14.
324
“Negli anni [...] Margarita si intrufolava nella stanza, confiscando gli effetti personali di sua
madre, trai quali il taccuino verde di pelle marocchina e il portacipria, che alla fine portò con sé a
L’Avana e poi negli Stati Uniti, nella vecchia valigia di Rosa (271)”; “Margarita non riusciva a
lasciarsi alle spalle le fotografie o i pochi effetti personali di sua madre e, così, li mise ancora una
volta in valigia. Quando salì sull’aereo che l’avrebbe portata ad Atlanta (285)”. O’Reilly Herrera,
The Pearl of the Antilles.
325
“In un primo momento vide solo la sua immagine riflessa, ma inclinando lo specchio da un lato
all’altro, un paio di occhi che non erano i suoi, improvvisamente la fissarono – poi il ponte di un
naso e poi la curva di una bocca. […] Spaventata alla vista di quegli impassibili occhi verdi sullo
specchio che si proiettavano su di lei, lasciò cadere il porta cipria sul pavimento. […] Lilly
264
Questo processo di identificazione ricorda da vicino la sovrapposizione
degli sguardi tra Sor Juana e Irene che, dopo la conversazione immaginaria con la
santa, rivede il suo stesso volto nell’affresco “The Last Supper of Chicano
Heroes”. O ancora, l’episodio sembra richiamare la riabilitazione che Santos fa
del nonno morto suicida e considerato dai suoi avi come la vergogna di famiglia.
Quando si ritrova in piedi sul cumulo di terra ed erbacce che coprono la sua tomba,
Santos non può fare a meno di riscattare la sua memoria ricordando gli aspetti più
onorevoli della sua esistenza, in cui egli stesso – con la sua passione per le Lettere
– sembra identificarsi: “he had also been some kind of poet, the plus sides of him;
[…] and a teacher, doing his best to spread the literacy around”326.
Il diario, il portacipria, l’affresco o la tomba fungono quindi da
“testimonial objects that carry memory traces from the past and embody the
process of its transmission”327. Essi hanno infatti un forte “valore di legame”328 e
sono intrisi di un molteplice hau329 ovvero dello spirito degli antenati, ma anche di
una memoria collettiva, di un nucleo vivo di esperienze, lingue e immagini del
popolo messico-americano, cubano e portoricano che le generazioni più giovani
dovranno custodire e reinventare. Si tratta quindi di oggetti che esprimono
l’identità dei proprietari e di un’intera comunità, entrambe tormentate da eventi
dolorosi e nefasti che sembrano ricercare, proprio attraverso Irene, Lilly e Santos,
suppose, dalla chiara età della donna nel dagherrotipo, che potesse essere la sua bisnonna”. Ibidem,
327.
326
“Era stato anche una sorta di poeta, i suoi lati positivi; […] e un insegnate, che faceva del suo
meglio per diffondere l’istruzione”. Rivera, Family Installments, 298.
327
“Oggetti testimoniali che portano con sé tracce della memoria del passato e incarnano il
processo della sua trasmissione”. Marianne Hirsch e Leo Spitzer, “Testimonial Objects: Memory,
Gender and Transmission” (Poetics Today 27.2, 2006): 353–383.
328
Jacques Godbout, Lo spirito del dono (Bollati Boringhieri: Torino, 1993) 215-225.
329
Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forme e teorie dello scambio nelle società arcaiche (Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino, 2002) 17.
265
un significato per ciò che altrimenti rimarrebbe “una sequenza intollerabile di
eventi” 330 per dirla con Hannah Arendt.
Gli autori stessi sembrano concepire i tre romanzi come contro-dono
emblematico dell’eredità culturale giunta a loro dai propri antenati. Per mezzo
della scrittura, essi la rimettono in circolo e la legittimano nel quadro organico e
dialogico della “mnemostoria”. Le loro opere racchiudono infatti depositi
emblematici di genealogie e voci dal passato, che vengono mescolate al ricordo,
rielaborate dall’immaginazione e immerse nel tessuto plurisecolare della storia.
Non a caso, dopo il successo dei suoi romanzi storici, la carriera di
Candelaria culmina con la pubblicazione del suo mémoir, interamente dedicato al
percorso di auto-definizione dell’autore e della propria comunità; mentre O’Reilly
Herrera trae ispirazione per la scrittura di The Pearl of the Antilles dal diario
realmente esistente dalla nonna irlandese e, attraverso l’intero romanzo, sublima il
desiderio irrealizzato della donna di diventare una scrittrice:
As for the notebook, there is a real one, though I’m not quite sure
where it is. It is in green Morocco leather and it belonged to my Irish
grandmother, who died in childbirth at a very young age. I never had
the chance to meet her, nevertheless she comes into my dreams quite
frequently and my father always said that I reminded him of her. My
grandmother kept the notebook like a journal and filled it with
sketches and poems she had clipped from the newspaper. When I was
younger, I always loved to look at it.
My father said that she dreamed of being a writer, but was so busy
caring for the children that she rarely had time for herself. My
grandparents were extremely poor. They left Ireland (separately)
because there were no economic prospects there and, then, ended up
getting caught up in the Great Depression in the U.S. They actually
met in Philadelphia and were so poor that they could never afford to
return to Ireland again so, like my Cuban family, they were in a kind
of exile in the U.S. and never saw their families again.331
330
Hannah Arendt, “Isak Diesen: 1885-1962” (Aut aut 239-240, 1990) 169.
“Per quanto riguarda il taccuino ne esiste uno vero, sebbene non sia totalmente sicura di dove si
trovi. È verde e in pelle marocchina e apparteneva alla mia bisnonna irlandese che morì di parto
molto giovane. Non ho mai avuto l’occasione di incontrarla, ma mi appare spesso in sogno e mio
padre mi ha sempre detto che io gli ricordo lei. Mia nonna teneva il taccuino come un diario e lo
riempiva con disegni e poesie che ritagliava dal giornale. Fin da quando ero piccola mi è sempre
piaciuto guardarlo. Mio padre mi ha detto che lei sognava di essere una scrittrice, ma era così
331
266
La nonna irlandese (da cui eredita la vocazione di scrittrice), quella cubana
(da cui trae ispirazione per l’acquarello e per la scrittura del romanzo), insieme a
tutte le antenate di O’Reilly Herrera, rivivono dunque nella sua esperienza di
“Inhabited woman”
332
. È così infatti che l’autrice si definisce nella poesia
omonima in cui rende omaggio alle tre generazioni di donne che hanno
contribuito a forgiare la sua personalità, attraverso un gioco di parole sofisticato e
intraducibile:
“three
women
reside
within
me
/
grandmothergreatgrandmothermother”.
Quasi fosse un dono simbolico, dunque, la consapevolezza delle proprie
radici etniche permette agli autori di ristabilire un contatto con un’identità
ulteriore e originale ma è anche, “più radicalmente la soglia d’accesso a un codice
di reinterpretazione della realtà […], è sempre una promessa, ossia l’apertura di
un senso che abita il futuro e alla cui luce possiamo rileggere il reale” 333 . La
rilettura del presente a cui allude Mancini fa da raccordo con la seconda
dimensione del percorso identitario dei protagonisti, quella sincronica che
richiama la loro posizione generazionale, nella contemporaneità.
occupata a prendersi cura dei bambini che aveva a malapena tempo per se stessa. I miei nonni
erano estremamente poveri. Hanno lasciato l’Irlanda (separatamente) perché non c’erano
prospettive economiche lì e, poi, sono stati investiti dalla Grande Depressione qui negli Stati Uniti.
Difatti si sono incontrati a Philadelphia ed erano così poveri che non si sono mai potuti permettere
di tornare in Irlanda; quindi, come la mia famiglia cubana, erano in una sorta di esilio negli Stati
Uniti e non hanno più rivisto le loro famiglie”. Questa testimonianza diretta proviene da uno
scambio di email che ho avuto con la scrittrice. Andrea O’Reilly Herrera, “Email a Mara Salvucci
del 24 marzo 2012”. Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera
e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. Capitolo 4.
332
“Donna abitata”. Andrea O’Reilly Herrera, “Inhabited Woman”, Remembering Cuba, 151.
333
Roberto Mancini, “Il dono dell’origine”, Il codice del dono: verità e gratuità nelle ontologie del
novecento, Ed. Giovanni Ferretti (Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2003) 202-203.
267
4.7 La post-memoria: tra genealogia e generazioni
I protagonisti più giovani dei tre romanzi appartengono a quella che
Marianne Hirsch ha definito “generation of postmemory”334, per indicare coloro
che ereditano il peso di una dramma, di una perdita o di esperienze dolorose che
precedono la loro nascita ma sono così potenti e significative da costituire ricordi
a tutti gli effetti, pur non avendole vissute in prima persona. Dal tessuto narrativo
dei tre romanzi emergono infatti numerosi traumi del passato: come la perdita del
figlio per Margarita o le ferite aperte dalla rivoluzione del ‘59 in The Pearl of the
Antilles; la vergogna del nonno suicida, la miseria o le umiliazioni subite in
quanto immigrati in Family Installments; gli abusi inflitti a Liberata dal marito o
la mutilazione del padre di Irene in A Daughter’s a Daughter.
La trasmissione intergenerazionale di questi episodi dolorosi avviene in
primis nello spazio della famiglia, anche attraverso la lingua del corpo fatta di
“nonverbal and non-cognitive acts of transfer, […] often in the form of
symptoms” 335 come sospiri, pianti, incubi, discussioni, malumori o silenzi che
instillano nelle generazioni più giovani la gravità di un “horrific, unknown, and
unknowable past”
336
. Basti pensare alla frustrazione di Lilly di fronte
all’incomunicabilità che la separa dalla madre; agli interrogativi costanti di Santos
sulle liti tra i genitori; o al desiderio di Irene di scavare più a fondo nei reiterati
flashbacks della nonna. Questi comportamenti – apparentemente inspiegabili –
dimostrerebbero
come,
anche
inconsapevolmente,
334
le
persone
possano
“Generazione della post-memoria”. Marianne Hirsch, “The Generation of Postmemory”
(Poetics Today 29.1 Spring 2008): 103.
335
“Atti non verbali e non-cognitivi di trasferimento, […] spesso sotto forma di sintomi”. Ibidem,
112.
336
“Passato orribile, sconosciuto e inconoscibile” . Ibidem.
268
“sanguinare” di storia, come reclama il sottotitolo del romanzo illustrato di Art
Spiegelman, “Maus I: A Surivor’s Tale. My Father Bleeds History”337.
Le generazioni più giovani sentono dunque l’urgenza di capire e dare un
senso a quelle tracce di passato che rivivono nei predecessori, rielaborandole
attraverso un “imaginative investment, projection, and creation”338 che porta alla
luce traumi indicibili e fornisce loro, allo stesso tempo, strumenti per ridefinire la
propria identità nel presente. Da questo deriverebbe il bisogno di Lilly di
penetrare nel silenzio della madre, reinventando il passato della propria famiglia, a
partire dal diario; o lo slancio di Irene a risolvere l’enigma dell’identità dello
scheletro, dando così una spiegazione al dramma inenarrabile della nonna; o
ancora la spinta di Santos a ricostruire la quotidianità fatta di miseria e vessazioni
dei propri antenati, prima, e del padre, poi, sui quali si innesta anche il proprio
senso di inadeguatezza.
Si tratta, in tutti e tre i casi, di un “post-memorial work”339 inevitabilmente
influenzato dall’immaginario collettivo e dall’epoca in cui è immersa la persona
che lo mette in atto, chiamata a mediare tra conservazione della memoria e
rinnovamento culturale, lingua degli antenati e lingua della contemporaneità,
continuità delle tradizioni e aspirazioni personali. Ecco perché i continui scontri
tra padri e figli all’interno dei romanzi avvengono sempre all’incrocio tra la
posizione genealogica e quella generazionale, ovvero nei momenti in cui i
protagonisti sono chiamati a riconciliare l’eredità culturale della propria famiglia
con l’ethos della generazione di cui fanno parte nel presente. Dopo aver messo in
337
Art Spiegelman, Maus: a Survivor’s Tale. My Father Bleeds History (New York: Pantheon
Books, 1986). Questo esempio viene citato da Hirsch in “The Generation of Postmemory”, 112.
338
“Un investimento, una proiezione e una creazione immaginativa”. Ibidem, 107.
339
“Lavoro di post-memoria”. Ibidem, 103.
269
discussione entrambi i versanti, demistificando prima i valori del passato e
successivamente i cardini della cultura dominante (in particolare istruzione e
religione), i protagonisti arrivano ad accettare il carattere ibrido, instabile ed
eterogeneo della propria identità culturale proprio attraverso il filtro della
memoria.
Gli autori stessi attraverso i tre romanzi, sembrano portare avanti una
complessa operazione di post-memoria, ricreando un “intergenerational memorial
fabric” 340 su cui innestare non solo la propria identità individuale, ma anche,
potenzialmente, quella di un’intera generazione di coetanei e contemporanei. Le
loro narrazioni hanno infatti il potere di “reactivate and reembody more distant
social/national and archival/cultural memorial structures by reinvesting them with
resonant individual and familial forms of mediation and aesthetic expression”341,
permettendo anche a chi non ha partecipato (né direttamente, né indirettamente) a
quel passato, di coglierne il significato e di esservi coinvolto, oltre i confini di
appartenenza nazionale e anche a distanza di secoli.
Rispetto agli archivi pubblici o alla storiografia ufficiale, le strutture di
mediazione e rappresentazione del passato elaborate in ambito famigliare (come i
romanzi genealogici o le foto d’epoca) hanno infatti il potere di costruire una rete
di trasmissione organica e condivisa del passato, in cui non solo i membri di una
famiglia ma tutti coloro che vi siano interessati, possono riconoscersi. Di fatto,
quella che si ricrea è la sovrapposizione di “familial” e “affiliative
340
“Tessuto intergenerazionale di memoria”. Ibidem, 110.
“Riattivare e reincarnare strutture di memoria sociale/nazionale e archivistica/culturale più
lontane, reinvestendole con forme individuali e famigliari risonanti di mediazione ed espressione
estetica”. Ibidem, 111. Per la classificazione delle tipologie di memoria Hirsch fa riferimento alle
categorie introdotte da Jan e Aleida Assmann e descritte a pagina 110 e 111 del suo saggio.
341
270
postmemory”342 in cui l’identificazione intergenerazionale e verticale tra genitori
e figli all’interno di un nucleo familiare, facilita anche l’identificazione intragenerazionale e orizzontale che rende la posizione dei figli più ampiamente
accessibile agli altri contemporanei.
Questo spiegherebbe quindi “the pervasiveness of family pictures and
family narratives as artistic media in the aftermath of trauma” 343 ma anche
l’enorme diffusione di romanzi multigenerazionali in comunità che temono lo
sfaldamento della propria identità culturale o che sentono la propria memoria
minacciata dall’oblio. La narrativa rappresenta infatti il perno del processo di
consolidamento di un’identità individuale o collettiva, ricostruita attraverso atti di
memoria che acquisiscono organicità all’interno di una trama, dando vita a miti o
“founding stories”344 dal valore normativo (forgiano un’identità e ci rivelano da
dove veniamo) e formativo (consolidano un’etica e forniscono un orientamento
futuro). I romanzi multigenerazionali fungono quindi da “portable monuments”345
e confermano la capacità della letteratura di costruire la memoria e di osservarla
allo stesso tempo, dandole un ordine e un senso compiuto, destinato però a mutare
nel tempo.
Così come la memoria culturale di un popolo evolve e il suo passato viene
costantemente riscritto, anche gli schemi narrativi utilizzati per legittimarlo
subiscono una costante trasformazione, sul piano sia della forma sia del contenuto.
La trama, l’intreccio, le anisocronie, la voce, etc. rappresentano infatti il
342
“Postmemoria familiare e affiliativa”. Ibidem, 114.
“La diffusione delle foto di famiglia e delle narrazioni di famiglia come espressioni artistiche,
in seguito a un trauma”. Ibidem, 115.
344
“Storie fondanti”. Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, 223.
345
“Monumenti portatili”. Ann Rigney, “Portable Monuments: Literature, Cultural Memory and
the Case of Jeanie Deans» (Poetics Today 25.2, 2004): 361-396.
343
271
paradigma della triade memoria/narrativa/identità e detengono, per questo, un
duplice potere: quello di “preform experience as well as reshape memory”346. Di
fatto, questi espedienti narrativi sono il frutto dei contesti socio-culturali in cui
vengono prodotti ma possono anche influenzarli a loro volta sotto forma di
“fenomeni transmediali” ovvero tropi e forme ricorrenti di una determinata epoca
storica che circolano attraverso diversi canali e media, in un complesso gioco di
rimandi tra arti (dal teatro alla poesia, dalla pittura alla fotografia, dal fumetto alla
musica, etc.).
Come esempi della transizione transmediale degli schemi narrativi di
costruzione di un’identità, Astrid Erll cita la diffusione del monologo interiore in
concomitanza con le teorie della memoria di Freud o Bergson; o gli studi dello
psicologo sociale Harald Welzer che, intervistando alcuni veterani della Seconda
guerra mondiale, ha rilevato come alcuni degli episodi raccontati dagli ex-soldati
assomigliassero a scene di famosi film di guerra dell’epoca, che avevano
influenzato inconsciamente gli schemi della loro memoria autobiografica.
È dunque a questo processo trasversale di “remediation”347 della narrativa
multigenerazionale che potremo ricondurre la “‘linguistically visual’ or ‘painterly
quality’” 348 dell’opera di O’Reilly Herrera o, più in generale, il riferimento a
opere d’arte, foto e brani musicali all’interno dei tre romanzi. Sempre allo stesso
processo possiamo ricondurre anche quella “[t]remendous fascination with
genealogy”349, “obsession with ancestry”, o “thirst for tracing lineages”350 con cui
346
“Preformare l’esperienza e anche rimodellare la memoria”. Erll, “Narratology and Cultural
Memory Studies”, 224.
347
“Ri-mediazione”. Ibidem, 222.
348
“Carattere ‘linguisticamente visivo’ o ‘pittorico’”. O’Reilly Herrera descrive con queste parole
il suo romanzo in Contemporary Authors, 191.
349
“Straordinario interesse per la genealogia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, xi.
272
si è aperto il primo capitolo di questa tesi. Attraverso la narrativa e le ricostruzioni
genealogiche, tanto il singolo quanto una comunità, aspira infatti a una
comprensione più ampia e condivisa della propria storia, nel continuum dinastico
e culturale di cui ci si vuole sentir parte. Nel caso di gruppi etnici minoritari,
inoltre, quello che si ricerca è anche il coinvolgimento di un pubblico di lettori
allargato ed esterno alla famiglia o alla comunità, abilmente attratto in una zona
ibrida e multilingue di mediazione del significato, ricostruita attraverso le
“Fictions of authority” prese in esame all’inizio dell’analisi testuale.
4.8 La loca, la mulata, la mestiza e la loro ombra sul presente
Nonostante l’intenso lavoro di post-memoria portato avanti dagli autori, i
tre romanzi sono puntellati di personaggi inquietanti e misteriosi, che fanno
riaffiorare i traumi di un passato ancora più lontano rispetto a quello delle tre
generazioni descritte. In Family Installments Josefa la pazza, che lascia
escrementi nel cibo e sfoga la sua violenza sui figli adottivi, sembra ribellarsi
proprio al ruolo della donna come angelo del focolare, ricordando da vicino altre
figure inquietanti della tradizione letteraria femminile. Prima fra tutte Bertha, la
creola ricreata dalla penna di Charlotte Brontë in Jane Eyre che nella sua follia e
nel suo aspetto ferino sembra materializzare la violenza patriarcale e coloniale
inflitta per secoli alle donne. Bertha è infatti vittima dell’avidità della borghesia
coloniale inglese, in questo caso di Antigua, che la costringe ad un matrimonio
forzato, garanzia di ricchezza e di stabilità economica per il marito,
imprigionandola poi in una stanza occulta del palazzo di Thornfield Hall (da cui la
350
“Ossessione per gli antenati”, “sete di delineare la stirpe”. Ibidem, 4.
273
famosa definizione The Madwoman in the Attic351), nel vano tentativo di occultare
la sua pazzia, la sua lascivia, la sua brutalità, emblemi sconcertanti del fallimento
dell’impresa pedagogica coloniale e della sua missione civilizzatrice.
Eppure i tratti animaleschi di Bertha (paragonata ad una “clothed hyena”)
e il suo viso gonfio e tumefatto (“that purple face – those bloated features”352),
contrastano profondamente con l’affascinante rappresentazione che la narratrice di
The Pearl of the Antilles fa di una delle figure più enigmatiche dell’opera di
O’Reilly Herrera: Casandra la mulata, amante di Pedro e serva della famiglia,
descritta da una prospettiva, in questo caso, indissolubilmente partecipe
dell’alterità etnica.
Fin dalla scena misteriosa che precede l’inizio della storia apprendiamo
infatti che Casandra è destinata a non essere ascoltata (“she should have listened
to the mulata after all”; “she had ignored the mulata’s warning”353) esattamente
come l’omonima veggente dell’Orestea di Eschilo, da cui l’autrice ha tratto
ispirazione per questo personaggio:
In The Oresteia, Cassandra is a very important figure as she is the
one who is telling the truth, but her curse is that no one can understand
her. That’s where her name comes from. In Pearl, Casandra is Pedro’s
mistress, which is very common in this historical context.354
351
Sandra M. Gilbert, The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the NineteenthCentury Literary Imagination (London: Yale University Press, 2000).
352
“Iena vestita”, “Quel viso violaceo – quei lineamenti gonfi”, Charlotte Brontë, Jane Eyre
(London: Penguin, 1996) 328.
353
“Avrebbe dovuto dare ascolto alla mulata dopo tutto”, “aveva ignorato gli avvertimenti della
mulata”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. s.n.
354
“Nell’Orestea Cassandra è una figura molto importante perché è colei che dice la verità ma la
sua maledizione vuole che nessuno la possa capire. Da qui viene il suo nome. In Pearl, Casandra è
l’amante di Pedro, cosa molto comune in questo contesto storico”. O’Reilly Herrera e Salvucci,
“Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. Nel romanzo il nome del personaggio viene
riportato secondo la grafia spagnola “Casandra”.
274
Nella Part One del romanzo invece, la narratrice la paragona a una
“Mayan goddess carved like sacred inscriptions on some ancient stone”355 per la
sua bellezza nobile e imponente. Il suo sguardo è talmente penetrante che, quando
abusa di lei, Pedro deve coprirle il volto con una zanzariera per non dover fare i
conti con quegli occhi capaci di risvegliare in lui un disagio profondo e ancestrale:
“the look in her eyes made him feel as though he owed her some age-old debt
which he had somehow overlooked or failed to pay […]. It was a look that he
could never quench or satisfy”356.
Il silenzio a cui viene relegata Casandra durante tutta l’opera sembra
richiamare la vergogna e il rifiuto per il meticcio, ma anche le modalità di
perpetuazione del dominio maschile e coloniale, rafforzato nei secoli da una
“violenza simbolica, violenza dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime,
che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della
comunicazione e della conoscenza” 357 . Eppure, il debito inestinguibile che la
narratrice fa percepire a Pedro, rappresenta il suo atto di denuncia delle profonde
violenze e delle vessazione che il colonialismo, la schiavitù e la società patriarcale
hanno inflitto alle donne, segnalando anche la necessità di interrompere le
strutture storiche dell’ordine maschile.
Nonostante la mulata non prenda mai la parola 358 , è infatti insolente e
sfrontata nei confronti di Pedro, cosa che lo irrita enormemente (“Her insolence
355
“Scolpita come una dea maya sulle iscrizioni sacre di qualche pietra antica”. O’Reilly Herrera,
The Pearl of the Antilles, 91.
356
“Lo sguardo nei suoi occhi gli faceva sentire di avere un antico debito nei suoi confronti, che
aveva ignorato o non era riuscito a pagare […]. Era uno sguardo che non avrebbe mai potuto
estinguere o soddisfare”. Ibidem, 91.
357
Bourdieu, Il dominio maschile, 7, 8.
358
A parte brevissimi intercalari come “¿Ya, Caballero? / Sì, signore?”. O’Reilly Herrera, The
Pearl of the Antilles, 93.
275
made him flush with anger. Thinking that she ought to be domesticated”359). Con
Rosa, invece, la mulata si dimostra solidale e devota, come quando si prodiga per
proteggere il corpo della donna e i bambini che aveva dato alla luce, dopo il
malore che la porterà alla morte. In occasione della nostra intervista, la stessa
autrice mi ha confermato la volontà di non ricadere nel cliché dell’antagonismo
tra donne e, nonostante tutti si aspettassero una rivalità tra Rosa e Casandra,
O’Reilly Herrera preferisce invece enfatizzarne la solidarietà e l’alleanza
simbolica perché, in fondo, entrambe ricoprono il ruolo di vittime:
She is a victim of her circumstances; but Rosa is a victim, too, though
clearly not in the same way. All the women are victims of a postcolonial, patriarchal system, though race and class divides them.360
L’autrice vuole quindi indagare le modalità di trasmissione dell’eredità
culturale tra donne (“I was also interested in taking a look at what women are
doing to women”361) e la complessa rete di relazioni che esse instaurano, facendo
quindi leva sulla loro capacità di “networking” e su quella forza emotiva e
relazionale che le ha portate, nei secoli, ad alimentare proficuamente anche il
mondo della cultura ufficiale, senza che il loro ruolo venisse mai riconosciuto362.
In A Daughter’s a Daughter questa solidarietà intergenerazionale manca,
come dimostrano le difficoltà di Irene a tracciare un proprio cammino al di fuori
della “Santa Trinità” della donna (Chiesa, cucina e figli) a cui la madre, nel pieno
359
“La sua insolenza lo faceva infervorare di rabbia. Pensando che dovesse essere addomesticata”.
Ibidem, 93.
360
“Lei è una vittima delle circostanze; ma anche Rosa è una vittima, anche se evidentemente non
nello stesso modo. Tutte le donne sono vittime di un sistema post-coloniale e patriarcale, anche se
la razza e la classe sociale le dividono”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea
O’Reilly Herrera”, Capitolo 5.
361
“Ero interessata anche a osservare che cosa fanno le donne alle altre donne”. Ibidem.
362
Il modello relazionale che valorizza il contributo “non riconosciuto” delle donne nella storia,
nella letteratura e nelle arti in genere è stato sviluppato da Marina Camboni in “Networking
Women: A Research Project and a Relational Model of the Cultural Sphere”, Networking Women:
Subjects, Places, Links Europe-America: Towards a Re-writing of Cultural History, 1890-1939.
Ed. Marina Camboni (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2004) 2-26.
276
rispetto della cultura tradizionale, vorrebbe relegarla. Poiché la ragazza non segue
il
percorso
canonico
di
formazione
dell’identità
femminile
basato
sull’identificazione con la madre, ma anzi cresce in forte contrasto con essa e in
profonda sintonia con il padre, viene etichettata come “deviant”363, snaturata e
poco credibile. Di fatto, fin dalle prime pagine, sua madre non ripone fiducia nelle
sue capacità di svolgere il mestiere di avvocato, mentre è evidente l’affinità che
Irene prova nei confronti del padre, a cui si ispira anche per la sua scelta di andare
all’università, proprio “come un uomo”:
Yet she could not help wonder about the rift between herself and
her mother. María had maintained that it was because she had gone to
college. Like a man, her mother said. Just like a man. Going out into
the world and forgetting her womanly heritage. If heritage meant
being like her mother, Irene thought, no thanks. Times change. People
change. Why stay in the same old rut generation after generation?
Which was something she had learnt from her father, not overtly but
by his example and his encouragement.364
All’incrocio tra genealogia e generazione, la sua autoaffermazione le
richiede dunque un’ardua mediazione tra continuità e rinnovamento, per poter
armonizzare l’eredità culturale della famiglia, con lo slancio a realizzarsi nella
contemporaneità. La risoluzione di questo nodo identitario avverrà attraverso la
riscoperta e la riconciliazione con i miti delle origini della cultura messicoamericana che si realizza nell’episodio dell’affresco, ma anche e soprattutto
nell’identificazione simbolica con la Vergine di Guadalupe e con la Malinche.
363
“Deviante”. Secondo Gilligan, infatti, mentre l’identità maschile viene forgiata fin dall’infanzia
a partire dal distacco rispetto al padre, quella femminile è invece basata sull’identificazione con la
madre. Le esperienze femminili non riconducibili a questi schemi vengono quindi etichettate come
devianti e conflittuali. Carol Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s
Development (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1993) 6.
364
“Eppure non poteva fare a meno di interrogarsi sulla frattura tra lei e sua madre. María
sosteneva che derivasse dal fatto che lei fosse andata all’università. Come un uomo, diceva sua
madre. Proprio come un uomo. Esponendosi al mondo e dimenticando la sua eredità femminile. Se
l’eredità significava essere come sua madre, Irene pensò, no grazie. I tempi cambiano. Le persone
cambiano. Perché rimanere nello stesso, vecchio solco, generazione dopo generazione? Lo aveva
imparato da suo padre, non apertamente, ma con il suo esempio e il suo incoraggiamento”.
Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 147,148.
277
Se la Vergine – patrona del Messico – è la prima delle figure del dipinto
che Irene ammira, la Malinche – amante e schiava traduttrice di Cortés – viene
rievocata nel momento in cui la ragazza si adopera come volontaria per insegnare
inglese agli immigrati ispanici e, a livello più ampio, nel suo “colpevole”
assimilazionismo alla cultura angloamericana. Eppure, dopo il coinvolgimento
attivo nel Movimento Chicano, la scelta della donna di tornare ad Albuquerque,
per portare avanti la sua professione di avvocato proprio nella sua terra d’origine,
insieme alla tenace volontà di svelare l’enigma del misterioso scheletro dissepolto
dalle ruspe, denotano proprio la sua volontà di mediare il divario tra tradizione e
modernità, ma anche di superare la dicotomia virgen/puta incarnata proprio
dall’opposizione della Vergine di Guadalupe e della Malinche.
Facendo proprie entrambe le figure della mitologia femminile messicoamericana, Irene dimostra infatti di volersi ricongiungere alla coscienza ancestrale
della cultura azteca, retta dal principio di contrapposizione equilibrata tra i sessi,
in cui le dualità di maschio e femmina, natura e cultura, luce e tenebra, vita e
morte erano contenute e bilanciate da Coatlicue, Signora dalla Gonna di serpente
e divinità creatrice antichissima da cui discende la stessa Vergine di Guadalupe. È
proprio questo il primo passo verso l’acquisizione della “conciencia de la
mestiza”365 nel percorso delineato da Gloria Anzaldúa, che vede il ritrovamento di
un’unità retrospettiva da parte della donna, attraverso il riconoscimento delle
proprie origini meticcie, ma anche la riappropriazione della Virgen de Guadalupe
riconciliata con il suo opposto: la Malinche, ora trasformata da traditrice a
365
“Coscienza della meticcia”. Anzaldúa, Bordelands/La Frontera, 77.
278
simbolo della forza femminile nella lotta contro l’oppressore, la stessa forza,
d’altronde, che avevano dimostrato anche le antenate di Irene.
Il quadro degli elementi inquietanti che popolano i tre romanzi non può
non concludersi con un riferimento alla lingua spagnola che Di Iorio Sandín ha
definito il “linguistic double of English in the Americas […]. An aural/oral ghost
of U.S. history” 366 . Essendo la prima minoranza etnica a sfaldare il grande
progetto culturale di assimilazione e costruzione di un monolingual space, i
Latinos stessi occuperebbero per gli angloamericani un territorio fantasma,
scomodo e indefinito, collocato “between black and white”367. Sarebbero dunque i
portavoce di quella “silent revolution” o “Moctezuma’s revenge” 368 in corso,
proprio attraverso la spinta creativa e la dirompenza dello spagnolo, che sembra
riecheggiare sottilmente dietro ai loro discorsi, a prescindere dalla lingua usata
manifestamente: “Even when U.S. Latinos do not speak it properly or at all,
Spanish muffles our speaking voice. […] [T]here is a ghostliness attached to what
we say, a doubling effect in language, which pure English speakers would rather
not hear”369.
Il sottotesto spagnolo che ho fatto emergere nella mia analisi linguistica
delle opere è dunque l’emblema della trasmissione della memoria, ma anche della
resistenza alla sua soppressione. D’altronde, il forte attaccamento al passato dello
spagnolo, secondo Stavans è intrinseco già nella stessa morfologia della lingua:
366
“Sosia linguistico dell’inglese nelle Americhe [...]. Un fantasma sonoro e verbale della storia
degli Stati Uniti”. Sandín, “Latino Rage”, 83.
367
“Tra il nero e il bianco”. Ibidem.
368
“Rivoluzione silenziosa”, “La vendetta di Moctezuma”. Stavans, “Foreword”, Growing Up
Latino, xiii.
369
“Anche quando i Latinos negli Stati Uniti non lo parlano correttamente o per niente, lo
spagnolo soffoca la nostra voce. [...] [C]’è un elemento spettrale in ciò che diciamo, un effetto di
sdoppiamento nel linguaggio, che i monolingue inglese preferirebbero non sentire”. Sandín,
“Latino Rage”, 84.
279
“Spanish, labyrinthine in nature, has at least four conjugations to address the past;
the lone future tense, is hardly used. […] The fact is symptomatic: Hispanics,
unable to recover from history, are obsessed with memory”370.
Nella sua interazione con l’inglese, lo spagnolo dunque non si sottrae al
processo mnemostorico portato avanti nei tre romanzi. Viene dunque conservato e,
allo stesso tempo, reinventato nel contatto continuo con la storia, la memoria e
l’immaginazione, dando vita a quello che Pedro Pietri definisce “Broken English
dreams”371 o all’impasto ibrido e “saporito”, abilmente sintetizzato dalle parole
dell’artista portoricano Antonio Martorell:
Nuestra lengua, querrámoslo o no, está mechada y requetemechada
con otras lenguas y con imágenes soñadas, recordadas, olvidadas,
compatidas, rendidas, victoriosas y subversivas que versadas o en
verso, prosáicas o procaces, silentes o sin lentes, encarnadas o
bernejas, berrendas o virulentas dan sabor y grosor a nuestro apetito,
estensión a nuestra ansias, caricia a nuestra hambre.372
Infine, con la ricostruzione genealogica e generazionale delle vicende dei
Rafas, dei Malánguez e delle donne di Cienfuegos, i romanzi di Candelaria,
O’Reilly Herrera e Rivera ricreano un “punctum” dell’esperienza proteiforme e
transculturale dei Latinos negli Stati Uniti che, come le foto descritte da Roland
Barthes, ha il potere di ristabilire “a sort of umbilical cord”373, un legame vivente
tra chi scrive e chi legge, tra il passato che viene riportato alla luce e la
370
“Lo spagnolo, labirintico per natura, ha almeno quattro coniugazioni per far riferimento al
passato; l’unico tempo futuro viene usato raramente. [...] Il fatto è sintomatico: gli ispanici,
incapaci di riprendersi dalla storia, sono ossessionati dalla memoria”. Stavans, “Forward”,
Growing Up Latino, xi.
371
“Sogni dell’inglese rotto”. Pedro Pietri, Puerto Rican Obituary (New York: Monthly Review
Press, 1973): 12-16.
372
“ Che ci piaccia o no, la nostra lingua è ripiena e stra-ripiena di altre lingue e di immagini
sognate, ricordate, dimenticate, condivise, arrese, vittoriose e sovversive che, versate o in verso,
prosaiche o procaci, silenti o senza lenti, incarnate o incomplete, docili o virulente danno sapore e
spessore al nostro appetito, estensione alle nostre ansie, carezze alla nostra fame”. Antonio
Martorell, “Imalabra II”, Coloquio internacional sobre el imaginario social contemporáneo. Eds.
Nydza Correa de Jesús, Heidi Figueroa Sarriera e María Milagros López (Río Piedras, PR:
University of Puerto Rico Press), 161-164.
373
“Una sorta di cordone ombellicale”. Roland Barthes, Camera Lucida: Reflections on
Photography (New York: Hill and Wang, 1981), 59, 81.
280
contemporaneità di chi lo rielabora, contribuendo di volta in volta a forgiare
significati e identità nuove, sia negli autori sia nei lettori, al di là dei loro confini
geografici o linguistici.
281
Capitolo 5
INTERVISTE CON GLI AUTORI
5.1 Introduzione
Ho avuto la fortuna di incontrare due dei tre autori oggetto di questa tesi,
durante il mio soggiorno presso l’Hispanic Research Center (HRC) dell’Arizona
State University, da gennaio a giugno del 2011. L’intervista con Nash Candelaria
si è svolta nella sua casa di Santa Fe (New Mexico), dove l’autore mi ha accolto
con la moglie Doranne, il 31 maggio 2011. Insieme a me c’erano il prof. Gary
Francisco Keller e due dei suoi collaboratori dell’HRC. Questa visita infatti è stata
possibile grazie all’impagabile supporto del prof. Keller, che mi ha permesso di
prender parte alla missione svoltasi in varie località del New Mexico (Acoma,
Albuquerque, Chimayó, Santa Fe, Taos e Zuni, tra le altre) dal 28 maggio al 5
giugno 2011, nell’ambito del progetto di ricerca San Francis and the
Americas/San Francisco en las Américas1.
Quest’esperienza mi ha permesso di visitare alcuni tra i luoghi più antichi
e suggestivi del Nord America, di conoscere pueblos millenari come Taos e
Acoma, di entrare in contatto con gli adobe e con le prime chiese costruite dai
missionari francescani nel Sedicesimo secolo, toccando con mano una storia
1
Il
progetto
è
dettagliatamente
documentato
nel
<http://sanfrancisco.asu.edu/index.htm> Data di accesso, 6 gennaio 2013.
283
portale
dedicato:
densa di rimandi al Vecchio continente e, in particolare, al mio paese d’origine, a
meno di cento chilometri da Assisi.
Le prime tre domande dell’intervista a Nash Candelaria gli sono state
anticipate per email. L’autore ha apprezzato di poter avere più tempo per riflettere
sulle risposte che mi ha consegnato, in un foglio stampato, il giorno dell’incontro.
Tutte le altre domande, invece, gli sono state poste nel salotto di casa. L’autore ha
risposto con un tono di voce pacato e flebile – che tradisce la sua età e la sua
salute cagionevole, ma conferisce anche un’aura di autorevolezza alle sue parole.
L’intervista a Andrea O’Reilly Herrera si è invece svolta in un bar del
centro di Phoenix (Arizona), il 21 aprile del 2011. L’autrice era venuta in
macchina dal Colorado e si trovava in città per prelevare dei quadri di artisti
cubano-americani destinati alla manifestazione Cuba Transnational2, di cui è stata
una delle principali promotrici. La fortuna ha voluto che io l’avessi contattata per
proporle un incontro esattamente il giorno prima del suo arrivo nella città
(Phoenix) in cui mi trovavo da quattro mesi. Tanto che, nella sua risposta alla mia
email, l’autrice ha accettato con entusiasmo di incontrarmi, colpita anche dalla
fortuita coincidenza: “This is an amazing and uncanny coincidence, but I am
heading to Phoenix very early tomorrow morning by car to pick up some artwork
for an exhibition of Cuban diasporic art, which I am curating here in Colorado!”3.
Più che un’intervista, la nostra è stata una lunga e piacevole chiacchierata
alla quale hanno partecipato anche il prof. Jeffrey Rubin-Dorsky e la moglie, che
2
Informazioni dettagliate sulla manifestazione sono disponibili nel sito dedicato:
<http://cubatransnational.blogspot.it/> . Data di accesso, 6 gennaio 2013.
3
“È una coincidenza sorprendente e straordinaria, ma arriverò a Phoenix domani mattina molto
presto in auto, per prendere alcune opere d’arte per una mostra di arte diasporica cubana che sto
curando qui in Colorado”. Andrea O’ Reilly Herrera, “Email a Mara Salvucci del 20 aprile 2011”.
Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly Herrera e Edward Rivera.
Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. 2013. Capitolo 5.
284
si sono aggiunti al nostro tavolo in un secondo momento. Appena incontrate,
l’autrice mi si è rivolta spontaneamente in spagnolo e, di fatto, la nostra intervista
è iniziata in questa lingua. Subito dopo però O’Reilly Herrera è passata all’inglese,
inserendo comunque nel suo discorso frasi e termini in castigliano che ho
mantenuto nella mia trascrizione.
Con grande solarità ed entusiasmo, alla fine dell’incontro l’autrice mi ha
invitato a farle visita in Colorado, dove l’ho raggiunta nel mese di giugno. Ho
quindi potuto visitare le mostre di Cuba Transnational, ma anche trascorrere con
lei due giorni indimenticabili nella sua casa immersa nel verde di Colorado
Springs. Non posso fare a meno di ricordare il momento in cui (durante una nostra
chiacchierata pomeridiana) mentre le raccontavo della capacità unica di mia
madre di cucinare, decorare, cucire, aggiustare, ricamare, sempre con immensa
precisione e amore, l’autrice ha esclamato: “è un’artista!”.
Da quel giorno non ho più smesso di considerare ciò che è frutto del
sudore e della sapiente abilità di mia madre e di tante altre donne nel mondo,
come un’opera d’arte.
285
5.2 Intervista con Nash Candelaria
5.2.1 Versione originale
SANTA FE (NEW MEXICO), 31 MAGGIO 2011
1) In my dissertation I will analyze and compare three different novels that I
defined “multigenerational” because they illustrate the lives of at least three
generations of the same family. Together with A Daughter’s a Daughter I will
study two other works, one by a Andrea O’Reilly Herrera – a Cuban
American contemporary writer, and another by the Puerto Rican author
Edward River who died in 2001. My aim is to find common traits and
differences among these novels and, thereby, among literatures by different
US Latino groups. Do you see any relationship between your writing and the
works of other Latino writers in the U.S.?
I read very little of other Latinos work. I don’t, even unconsciously, want
to borrow ideas. What I am aware of in general is a common second language, the
religion of many (Catholicism), meeting prejudice, and making their way in an
Anglo world, the mainstream. As for differences, American Latinos have
ancestries from different countries with different histories: Cuba, Mexico, Puerto
Rico and others, including the long-term Americanization of old-time Latinos in
New Mexico.
I read more of the work of another New Mexico Latino writer, Rudolfo
Anaya, than of other Latinos. He grew up in a small town in New Mexico, didn’t
speak English until he attended school (6 years old?), worked professionally as a
public school and university teacher, and knows the culture from the inside. I
know the culture from the outside growing up in urban California, had parents
who did not speak Spanish to me and my sister, wanted us to be mainstream
Americans, and I worked in advertising mostly for companies in Silicon Valley. I
observed the New Mexico Latino Culture on summer vacations to Albuquerque
286
visiting relatives who mostly lived on small farms. Rudy writes about the culture.
I write as an ouside observer dealing more with the history of Latinos in New
Mexico and with making their way in an Anglo world. For example, my father
once took me when he visited friends – I was 10 or 11 – and he described me as
“muy agringado”, very gringoized, with a mixture of apology and pride.
2) You started writing your first novel to impart some Chicano heritage into
your children. What is the role of memory in determining individuals’
identity, in a world that “moves too fast” (quoting the final sentence of A
Daughter’s a Daughter)?
It’s very important to know where we come from in order to see ourselves
in the present and then move forward into the future. Looking to the past and
learning family history gives us a greater sense of what we come from than the
individual memories of one person’s life. Too often what we are told by family
and current social attitudes is false, either negative or positive. For example, it
was the propensity of many New Mexicans in the past to describe themselves as
Spanish, ignoring their mestizo identity. Whatever the source, memory is
important in determining identity but must be examined with a hard eye for the
truth.
3) It is fairly unusual for a male writer to focus very closely on female
characters and make them the principals in a novel. Could you tell me how
you came to conceive A Daughter’s a Daughter in this way?
I wanted to write about the change of New Mexico Latinos’ situations and
attitudes over three generations. My first attempt featured one young female and
two males of older generations. After finishing it I found that it didn’t work for
many reasons, but I still wanted to tell the story of three generations. To me the
change in the roles of women was one of the biggest and more important changes
287
in this country during my lifetime. The examples of strong women I knew or
knew of in the family occurred to me. The widow of the first Candelaria in New
Mexico survived the 1680 Pueblo Revolt when the Spanish settlers were driven
out of New Mexico to exile in El Paso-Juarez. When she was in her 60s she rode a
burro from Albuquerque to Mexico city to verify a grant of land that her father
had received from the Spanish government – a tough lady.
In my genealogical research I found reference to a document sent to the
United States government signed by my Candelaria grandmother. She signed it to
establish ownership of family land after the Mexican War of 1846-1848. She was
19 years old. Evidently her husband could not write and probably read and she
took over. When we lived for a short time in Albuquerque in the early 1930s my
mother used to drive my sister and me to visit her mother. Her sisters-in-law were
astounded. Women weren’t supposed to go out unescorted by a man. And they
didn’t drive cars or smoke cigarettes in public. Shameful. My father worked for
the U.S. Postal Service as a mail clerk, handling mail on trains. When he was on a
trip for 3 days my mother took over as head of the household – an independent
woman.
I grew up with a sister a year and five months younger than me. We were
very close when growing up. And, of course, I’ve been married to my wife for 55
years. I learned that we had much more in common than we had differences. From
all of this I saw that women could be independent and strong even in a macho
Latino male culture. Putting that all together I saw that the story of three
generations of women was the right way to tell the story. Women and men were
288
members of the same species after all, though some male writers didn’t seem to
understand that.
4) Juan Bruce-Novoa died only about a year ago. What memories do you
have of your interview with him, over 30 years ago?
What I remember of that interview is, one, that I got it into print – which is
always nice for a writer. Second, that I talked a little bit about the history of my
family, plowing up the Río Grande. They were farmers, as opposed to any other
type of profession or workload, whatever you want to call it. I’m not sure –
sometimes my memory starts to fail – but it seems to me that I talked a little bit
about culture towards the end and, I don’t remember the specifics, but I’m sure
my attitude is pretty much still the same.
5) When someone (like me) interviews you, what attracts you most about the
experience?
As a writer you have a certain amount of public, maybe a small readership,
and you always want to be read. You can always write for yourself, if you want to,
but it is nice to be read and I particularly feel good about being interviewed for
someone working in the academic area, doing their work. One of the most
surprising and pleasant aspects of my writing is when someone from the
university, who is interested in some aspect of it, writes to you and asks a question.
6) Just this month, you have been the featured author of one of the most
popular New Mexico’s magazine. Isn’t it amazing for you to compare the
reception of your latest works with the difficulties that you endured to selfpublish your first novel in 1977?
Getting recognition in New Mexico takes a little doing. It takes time to
know the people and for the people to know you and my writing is not quite well
289
known here in the state. So to be interviewed for the New Mexico Magazine was a
big pleasure and was really important, because the magazine is part of New
Mexico Tourist Bureau and it gets out not only to people here in the state but also
to people outside, in the rest of the country, who are interested in the culture and
in what goes on in aspects of New Mexico life.
7) Would you say that your literary career reflects the general development
of the Chicano literature and its entry in the U.S. mainstream system?
I’m not sure, I still think that Mexican-American literature has a long way
to go to be recognized, as much as I think it should be. Of course that is why I
wrote the kind of things that I did, because so many people don’t know about the
long history of Latinos here, in this state and in this country. When the focus is on
people and activities so much of it is on recent migrants, which is fine, someone
might say we are manitos (little brothers).
As a matter of fact, while doing some genealogical research I found that
back in 1700, at the end of the Pueblo Revolt when the Native Americans rose up
against the Spanish settlers, some of them went to Mexico and the father of the
first Candelaria widow went back to live in Northern Mexico too. So we are very
closely related by blood but not by history: so much has happened to Mexico and
to this state, I should say, in its time that has been part of Spain, part of Mexico
(most recently) and then part of the United States by what I call a “conquest”.
8) When interviewed by Juan Bruce-Novoa in 1980, you stated that any good
piece of literature is revolutionary and universal in itself. Do you think your
works transcend ethnic boundaries and speak of universal values and
aspirations?
290
I write with the intent to be read by everyone, though my works have not
been widely read yet. I think any good piece of literature should be universal, it
should speak to things at the heart and of things that every human has in common.
I think whatever you read that is good stuff, in my opinion, touches on that. Some
of my favorite writers are like that and they are non-Latinos, like William
Faulkner and Ernest Hemingway. I think the universality is very important, as
opposed to trying to find the popular mood, the popular attitude and worrying
about becoming a best seller. I can recall reading sometime ago in a magazine,
that someone had looked at the best sellers of previous 25 years or so and they
didn’t recognize any of the books or of the authors, they did not live and last.
Hopefully, my work will, at least for a little while.
9) In your memoir Second Communion you write: “we are all walking living
relics of history. Carrying within us attitudes, scars, pains and the desire for
revenge that can take generations to dispel” (109). How has your writing
helped you process past traumas and cope with the inevitable march of
history?
I’m not sure about today, things are going so fast. You look at Twitter,
Facebook, iPhones, they are all getting beyond me, they are moving too fast, we
forget things and people don’t really know what happens. I think knowing where
you come from is important, particularly if you belong to a group that had to
suffer racial prejudice. Unfortunately, I’ve known some New Mexicans (family
and others) whose feelings have been such that they take on what other people try
to identify them with instead of having their own true identity. I find that sad, I
think you should know where you come from, it gives you a solid foundation of
where you are now and allows you to move forward into the future.
291
One of the interesting things in these days is that you read so much on the
news about the Hispanic vote, about the politics, about the increase in the
population, but the Hispanic vote has been here in New Mexico for a hundred and
fifty years. We have now a governor who is a female Hispanic, the first in this
country. When you look at people around here, it always amazes me to see the
spread of what I call the color identity, that ranges from someone like me, with
my dark look, to some first cousins I have blond and pale like what I call Anglos
here. When you see photographs of someone with a Spanish last name in the news,
sometimes it turns out that they look like everybody else. That’s happening except
inside, they still have their memories I’m sure, their family lore, their family pride.
10) Would you define your literary voice “interlingual” borrowing Juan
Bruce-Novoa’s famous definition of the Chicano language?
I think languages are very important. Unfortunately, I don’t fit them all
myself. My parents belonged to a generation that wanted to move out to the
mainstream and to the broader world. They did not speak Spanish to me or my
sister at all when we grew up in Los Angeles. They did speak it among themselves
occasionally, when they wanted to keep a secret from us. As a result I grew up
“1.1 lingual”, as I call it, I handle a little Spanish. I have been too busy in my life
to ever delve into it in any greater depth although I do have great sympathy for
those who can speak it well.
11) What literary genre do you think A Daughter’s a Daughter belongs to?
I never really thought about it. When I write I have a general idea of what I
want to say. I don’t work from close outlines, I only have a good idea of what the
story is and generally how it would end, and then it just happens. I’m not
292
conscious when I write, it is almost like meditating at times, it just flows and
comes from wherever. As for A Daughter’s a Daughter, I didn’t think of it as a
historical novel but as a contemporary novel, particularly in the last part of it with
the granddaughter.
What I really was looking for was the change that is going on in the
Hispanic New Mexican people, as well as throughout the South West and the
Mexican Americans. So I looked at it as a Hispanic and Mexican-American story,
first. Maybe, second, as a feminine story, because of my appreciation and
knowledge of several really strong important women in my life, that triggered the
idea. To begin with, when I had the idea of doing three generations and their
changes, I wrote another novel which never got published. It has a young woman
as the modern woman, then two males of older generations. When I put that
together it didn’t work for a lot of reasons, so I had to rethink what I wanted to
write.
That is when it occurred to me that I knew of these strong women that
were involved. The first Candelaria woman, who was a widow, left with her
children and run a family household who led them (after the Pueblo Revolt) to El
Paso, Texas, to exile. Then she came back and resettled with her sons. Then there
is my grandmother Candelaria, whom I saw when I was a small boy, during our
visits. She signed an official paper of some kind to get permission from the
American U.S. government for a land they had lived on for 200 years. She signed
it in a time when women probably didn’t write and her husband obviously or
apparently didn’t write. She was the brain, she was a strong woman.
293
My mother was a very liberated woman for her time, she was a Chicana
flapper back in the 20s, she smoked cigarettes in public and she drove a car, while
her sisters-in-law thought: “Wow, what a hussy this woman is!”. Also, my father
worked in the railway Postal Service, which meant he would go on a train to work
between Los Angeles and either Tucson or Phoenix. He would be gone for maybe
three days at the time. While he was gone, she was the head of the household and
she took over the responsibility.
Then of course I grew up with a sister who is a year and five months
younger than me. So I knew what women were like as real people not as some
writers write about them. One of the sad things about one of my favorite writers,
Hemingway, is that he couldn’t write women characters worth a damn. He just
didn’t understand women. He probably had the old macho attitude that a lot of
Latinos had and some still do have.
12) Burciaga’s famous mural “The Last Supper of Chicano Heroes” appears
in your novel. What does it do for it? How do you think visual art and
literature interact in A Daughter’s a Daughter?
The mural that the young protagonist sees on the wall of the dining room,
actually exists at Stanford University. I knew it thanks to a fellow who is a kind of
house father for the dormitory, who showed me around one time. I guess like
everything you see hereabout, it flows into your mental hard drive and it is stored
there and it comes out sometimes, without you realizing that you have seen it or
thought about it.
I like painting and I’m interested in good art, although I think music moves
me more. I identify or feel the emotional impact of music more. The idea of my
first novel came to me while listening to “Recuerdos de la Alhambra”, being
294
played on the guitar. It just touched me. When I wake up some mornings, and I’m
not talking or doing anything, our popular music comes into my mind and I can’t
turn it off sometimes. It usually goes back to history, looking at various stages of
my life as are reminded by certain songs.
13) In your essay “Literature of the 19th Century Chicanos” you urge
Chicano fiction writers to imagine themselves into the past, in order to fill in
the gaps of U.S. history and to give voice to the voiceless, making room for
the “losers”. Is there still the same need today? Would you still use the
imaginative potentials of fiction to fill in any historical gap?
I think so, that is why I wrote the historical books that I did write. When
you look around in Santa Fe there are still in some places some antagonism
between old time New Mexican “Spanish” (some of them would say), versus the
more recent migrants from Mexico. That is a problem at times that shows a lack
of understanding, because we are really related, we are part of the same race, we
are just the lucky ones that happened to be on the north side of the border.
14) The mysterious skeleton at the end of the novel intrigued me. What do
you think about it now that your novel is published?
That is probably something for a critic to look at and decide. I thought of it
like the necessity to finally come around to the secret of this buried man, who had
been killed by his abused wife when he was assaulting her. I guess there could be
some kind of a connection to the land itself, no longer being a farm, like it had
been for generations. It was going to become a development, which is what
happened to a lot of the property that my own family owned, one time.
That is just another part of change: history gets buried, not always dug up,
and it gets overlaid with new things whatever they happen to be. Unfortunately,
295
sometimes we don’t save things that need to be saved, that is why I admire so
much some European cities. They go back for hundreds of years and still have
some of the things and the buildings that could get bulldozed and paved over in
this country, because of a general attitude and lack of real sensitivity towards art, I
think. There are people who really appreciate it, but this country, in general, is run
by money. It is more materialistic and writers feel that. In Europe, authors
probably get attention even though they don’t get much money; while in this
country, unless you make a lot of money on a book, you get ignored or can be.
You are not read by many.
15) The protagonists of all your novels struggle to find a balance between
tradition and renewal, past and progress. Do you think that the recurrent
image of the Río Grande – which you depict as a symbol of change but also as
a connection across generations – can effectively illustrate this struggle?
What is your relationship with this river that has been so meaningful for
many other Chicano writers, such as Rolando Hinojosa?
I don’t know what the feeling exactly is but, to me, it represents my
identity. I have always thought that when my bones get taken care of, maybe they
should be cremated and allowed to flow in the Río Grande, which, as you know,
flows to the Gulf of Mexico and kind of seems universal to me: the flow of the
river, the water and the rain when it comes back to this country.
296
5.2.2 Versione tradotta
1) Nella mia tesi farò un’analisi comparativa di tre diversi romanzi che ho
definito “multigenerazionali” perché descrivono le vite di almeno tre
generazioni della stessa famiglia. Insieme a A Daughter’s a Daughter
prenderò in esame altre due opere, una di Andrea O’Reilly Herrera – una
scrittrice cubano-americana contemporanea – e un’altra dello scrittore
portoricano Edward Rivera, morto nel 2001. Il mio scopo è trovare tratti
comuni e differenze tra questi romanzi e, quindi, tra letterature di diversi
gruppi ispanici negli Stati Uniti. Che relazione c’è tra la sua scrittura e le
opere di altri scrittori Latinos negli Stati Uniti?
Leggo molto poco opere di altri scrittori Latinos. Non vorrei, neanche
inconsciamente, prendere in prestito idee. Ciò di cui sono consapevole, in
generale, è una seconda lingua in comune, la religione di molti (il cattolicesimo),
pregiudizi comuni, e il farsi strada in un mondo Anglo, la cultura dominante. Per
quanto riguarda le differenze, i Latinos in America hanno antenati da Paesi diversi
e con storie differenti : Cuba, Messico, Porto Rico e altri, compresa la lunga
americanizzazione degli antichi Latinos del New Mexico.
Rispetto al resto degli autori Latinos, leggo maggiormente le opere di un
altro scrittore ispanico del New Mexico, Rudolfo Anaya. Cresciuto in un piccolo
paese del New Mexico, ha iniziato a parlare inglese a scuola (a circa 6 anni), ha
lavorato da professionista come docente sia nella scuola pubblica sia all’università
e conosce la cultura dal di dentro. Io conosco la cultura dal di fuori, essendo
cresciuto in una California urbana, con genitori che non parlavano spagnolo né a
me né a mia sorella e volevano che diventassimo Americani mainstream.
Ho lavorato prevalentemente in ambito pubblicitario per aziende della
Silicon Valley. Osservavo la cultura ispanica del New Mexico durante le vacanze
estive ad Albuquerque, quando andavamo a trovare i parenti che vivevano
principalmente in piccole fattorie. Rudy descrive la cultura. Io scrivo da
297
osservatore esterno e mi occupo di più della storia dei Latinos del New Mexico e
del loro farsi strada nel mondo Anglo. Ad esempio, mio padre un giorno mi ha
portato con sé a visitare degli amici – avevo 10 o 11 anni – e mi ha descritto come
“muy agringado”, molto aggringato, in un misto di scuse e orgoglio.
2) Ha iniziato a scrivere il suo primo romanzo per trasmettere un’eredità
chicana ai suoi figli. Qual è il ruolo della memoria nel definire l’identità degli
individui, in un mondo che “si muove troppo in fretta” (citando la frase finale
di A Daughter’s a Daughter)?
È molto importante sapere da dove si venga per collocarci nel presente e
quindi avanzare nel futuro. Guardare al passato e apprendere la storia della
famiglia ci da una maggiore consapevolezza delle nostre origini rispetto alle
memorie di vita individuali. Troppo spesso ciò che ci viene detto dalla famiglia e
dagli atteggiamenti sociali del presente è falso, in positivo o in negativo. Ad
esempio, molti New Mexicans in passato tendevano a definirsi spagnoli,
ignorando le loro origini meticcie. Qualsiasi ne sia la fonte, la memoria è
importante nel determinare l’identità ma deve essere esaminata con un occhio
attento alla verità.
3) È piuttosto inusuale che uno scrittore tratti così accuratamente di
personaggi femminili, fino a renderli protagonisti di un romanzo. Potrebbe
dirmi come è arrivato a concepire A Daughter’s a Daughter in questo modo?
Volevo descrivere il cambiamento delle condizioni e degli atteggiamenti
dei Latinos del New Mexico attraverso tre generazioni. Il mio primo tentativo
aveva come protagonista una giovane donna e due uomini di generazioni
precedenti. Dopo averlo terminato mi sono reso conto che non funzionava per una
serie di motivi, ma volevo comunque raccontare la storia di tre generazioni. Per
298
me, il cambiamento nel ruolo delle donne è stato uno dei più significativi e
importanti avvenuto in questo Paese durante la mia vita. Mi sono venuti in mente
gli esempi delle donne forti che conoscevo o di cui avevo sentito nella mia
famiglia.
La vedova del primo Candelaria del New Mexico, sopravvissuta nel 1680
alla Rivolta Pueblo quando i coloni spagnoli furono cacciati dal New Mexico e
costretti in esilio a El Paso-Juarez. All’età di circa 60 anni, cavalcò un asino da
Albuquerque a Città del Messico per farsi assegnare una concessione di terreno
che suo padre aveva ricevuto dal governo spagnolo – una donna forte. Durante la
mia ricerca genealogica ho trovato un riferimento a un documento firmato dalla
mia bisnonna Candelaria e inviato al governo degli Stati Uniti. Lo firmò per
confermare la proprietà delle terre di famiglia dopo la guerra messico-americana
del 1846-1848. Aveva 19 anni. Evidentemente suo marito non poteva scrivere e
probabilmente neanche leggere e lei prese il controllo.
Nei primi anni Trenta, quando siamo vissuti per un breve periodo ad
Albuquerque, mia madre ci portava in macchina – me e mia sorella – a trovare sua
madre. Le sue cognate erano sbalordite. Le donne non potevano uscire non
accompagnate da un uomo. Non guidavano la macchina e non fumavano in
pubblico. Una vergogna. Mio padre lavorava per il Servizio postale ferroviario
statunitense come impiegato e gestiva la posta sui treni. Quando era in viaggio per
tre giorni mia madre subentrava al controllo della famiglia – una donna
indipendente.
Sono cresciuto con una sorella che ha un anno e cinque mesi meno di me.
Eravamo molto affiatati da piccoli. E naturalmente sono sposato con mia moglie
299
da 55 anni. Ho imparato che abbiamo più cose in comune che differenze. Da tutto
questo ho visto che le donne potevano essere indipendenti e forti anche all’interno
della cultura maschilista ispanica. Mettendo tutto questo insieme ho capito che il
modo più giusto per raccontare la storia era attraverso tre generazioni di donne. In
fondo donne e uomini sono membri della stessa specie, sebbene alcuni scrittori
sembra che non lo capiscano.
4) Juan Bruce-Novoa è morto da circa un anno [11 giugno 2010]. Che cosa
ricorda dell’intervista che avete fatto più di trenta anni fa?
Di quell’intervista, in primo luogo, ricordo che è stata pubblicata – cosa
che è sempre interessante per uno scrittore. In secondo luogo, che ho parlato un
po’ della storia della mia famiglia, intenta ad arare le terre del Río Grande. Erano
contadini, cosa che li contraddistingue rispetto a ogni altra professione o carico di
lavoro, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare. Non ne sono sicuro – a volte la
mia memoria viene meno – ma mi sembra che verso la fine ho parlato anche un
po’ della mia idea di cultura e, anche se non ricordo i dettagli, la mia posizione è
ancora sostanzialmente la stessa.
5) Quando qualcuno (come me) la intervista, che cosa la affascina di più
dell’esperienza?
Da scrittori si ha un certo pubblico, anche solo un piccolo gruppo di lettori,
e si vuole sempre esser letti. Si può sempre scrivere per se stessi, se lo si vuole,
ma è bello essere letti e a me fa particolarmente piacere essere intervistato da chi
lavora in ambito accademico e porta avanti la sua ricerca. Uno degli aspetti più
sorprendenti e gratificanti della
mia scrittura è l’interesse che alcune sue
300
caratteristiche possono destare in chi lavora all’università, che mi scrive e mi fa
una domanda.
6) Proprio questo mese [maggio 2011] è stato l’autore in primo piano di una
delle riviste più famose del New Mexico. Non è sorprendente per lei
paragonare la ricezione delle sue ultime opere con le difficoltà che ha
affrontato per pubblicare in proprio il suo primo romanzo nel 1977?
Ottenere un riconoscimento nel New Mexico richiede un po’ di sforzo. Ci
vuole tempo per conosce la gente e alla gente occorre tempo per conoscerti, e la
mia scrittura non è ancora molto nota in questo stato. Quindi essere intervistato
per il New Mexico Magazine è stato un grande piacere e un fatto veramente
importante, perché la rivista è parte del New Mexico Tourist Bureau e arriva, non
solo alle persone di questo stato, ma anche quelle al di fuori (nel resto del Paese)
interessate alla cultura e ad alcuni aspetti della vita nel New Mexico.
7) Direbbe che la sua carriera letteraria riflette lo sviluppo generale della
letteratura chicana e il suo ingresso nella cultura dominante statunitense?
Non ne sono sicuro, continuo a pensare che la letteratura messicoamericana abbia ancora una lunga strada da percorrere per ottenere il
riconoscimento che penso dovrebbe avere. Naturalmente è per questo che
continuo a scrivere, perché tante persone (in questo stato e in questo Paese) non
conoscono la lunga storia dei Latinos. Quando l’attenzione è rivolta alle persone e
alle attività, in gran parte ricade sugli immigrati recenti e questo va bene,
qualcuno direbbe che siamo manitos (fratellini).
Di fatto, durante una ricerca genealogica ho scoperto che nel 1700, alla
fine della Rivolta Pueblo, quando i nativi d’America si ribellarono contro i coloni
spagnoli, alcuni di questi andarono in Messico e anche il padre della prima vedova
301
Candelaria tornò a vivere nel nord del Messico. Quindi c’è un forte legame di
sangue ma non siamo legati dalla storia: sono successe così tante cose al Messico,
e direi anche a questo stato che è appartenuto alla Spagna, al Messico (più di
recente) e agli Stati Uniti, a seguito di ciò che io chiamo una “conquista”.
8) Durante l’intervista con Juan Bruce-Novoa, nel 1980, affermò che ogni
buona opera letteraria è, in sé, rivoluzionaria e universale, ritiene che le sue
opere trascendano i confini etnici e parlino di valori e aspirazioni universali?
Io scrivo con l’intento di arrivare a tutti, nonostante i miei libri non siano
ancora molto letti. Penso che ogni buona opera letteraria debba essere universale,
che debba parlare di cose vitali, che ogni essere umano ha in comune. Qualsiasi
cosa ben scritta, secondo me, è collegata a questo. Alcuni dei miei scrittori
preferiti, come William Faulkner e Ernest Hemingway, lo fanno e non sono
Latinos. Penso che l’universalità sia molto importante, piuttosto che inseguire la
tendenza del momento o preoccuparsi di diventare un best-seller. Tempo fa
ricordo di aver letto in una rivista, di qualcuno che aveva ripercorso i best-sellers
degli ultimi venticinque anni, o giù di lì, senza riconoscere nessuno dei libri o
degli autori, che non erano né sopravvissuti né durati. Spero che le mie opere
sopravvivano, almeno per un po’.
9) Nel suo mémoir Second Communion ha scritto che: “siamo tutti reliquie
viventi di storia che camminano, portando dentro atteggiamenti, cicatrici,
sofferenze e un desiderio di vendetta che può richiedere generazioni e
generazioni per estinguersi” (109). Che ruolo ha avuto la sua scrittura nel
rielaborare traumi del passato e affrontare “l’avanzare inevitabile della
storia”?
Oggi non ne sono più sicuro, le cose sono così veloci. Basta guardare
Twitter, Facebook e gli iPhones che vanno oltre la mia comprensione, avanzano
302
troppo in fretta, dimentichiamo le cose e le persone non sanno realmente cosa stia
accadendo. Penso che conoscere da dove si provenga sia importante, soprattutto
se si appartiene a un gruppo che è stato vittima di pregiudizi razziali.
Sfortunatamente ho conosciuto alcuni New Mexicans (parenti e non) che hanno
accettato di identificarsi in ciò che gli altri volevano da loro, invece di perseguire
una propria vera identità. Lo trovo triste, dovremmo conoscere da dove veniamo,
per avere una solida base nel presente che ci permetta di andare avanti nel futuro.
Una delle cose interessanti di questi giorni è leggere così tante notizie sul voto
ispanico, la politica e l’aumento della popolazione, ma il voto ispanico nel New
Mexico esiste da 150 anni. Ora abbiamo una governatrice ispanica, la prima di
questo Paese.
Trovo sempre sorprendente, guardando le persone qui intorno, il
diffondersi di quella che chiamo identità di colore, che va da quelli come me,
scuri d’aspetto, ad alcuni miei cugini biondi e pallidi come coloro che qui io
chiamo Anglos. Quando nel notiziario ci sono foto di persone con un cognome
spagnolo, a volte scopri che hanno lo stesso aspetto di tutte le altre. Eppure sono
diverse interiormente, sono sicuro che hanno ancora i loro ricordi, le loro
tradizioni di famiglia, il loro orgoglio.
10) Definirebbe la sua voce letteraria “interlingue”, prendendo in presti la
famosa definizione della lingua chicana di Juan Bruce-Novoa?
Penso che le lingue siano molto importanti. Sfortunatamente io non le
rispecchio tutte. I miei genitori appartenevano a una generazione che voleva fare
ingresso nella cultura dominante e in un mondo più ampio. Non parlavano per
niente spagnolo con me e mia sorella mentre crescevamo a Los Angeles. Lo
303
parlavano tra di loro, occasionalmente, quando volevano mantenere un segreto. Di
conseguenza sono cresciuto “1.1-lingue” come dico io, conosco solo un po’ di
spagnolo. Ho avuto una vita troppo impegnata per approfondirlo, anche se ho una
grande simpatia per coloro che lo parlano bene.
11) A quale genere letterario pensa che appartenga A Daughter’s a Daughter?
Non ci ho mai pensato. Quando scrivo ho un’idea generale di cosa voglio
dire. Non parto da schemi dettagliati, ho soltanto un’idea della storia e,
solitamente, di come finirà, poi la storia si dispiega da sé. Non sono consapevole
quando scrivo, a volte è come una meditazione, che si sviluppa e viene da
qualsiasi parte. Non ho concepito A Daughter’s a Daughter come un romanzo
storico ma come un romanzo contemporaneo, soprattutto nell’ultima parte con la
nipote.
Ciò che realmente mi interessava era il cambiamento che sta investendo la
popolazione ispanica del New Mexico, così come tutto il Sud-ovest e i messicoamericani. Quindi l’ho concepita, in primo luogo, come una storia ispanica e
messico-americana. Forse in secondo luogo come una storia femminile, per la mia
stima e conoscenza di diverse donne veramente forti e importanti della mia vita,
che hanno alimentato quest’idea. Per iniziare, dopo aver avuto l’idea di trattare tre
generazioni e il loro cambiamento, ho scritto un altro romanzo, mai pubblicato, in
cui c’è una giovane protagonista come donna moderna, poi due uomini di
generazioni precedenti. Quando ho messo tutto insieme non ha funzionato per
molte ragioni. Quindi ho dovuto riconsiderare cosa volevo scrivere ed è stato a
questo punto che mi sono venute in mente queste donne forti, che ho coinvolto.
304
La prima Candelaria, una vedova, andata in esilio con i suoi figli a El Paso,
Texas (dopo la Rivolta Pueblo), prendendo le redini della famiglia.
Successivamente è tornata e si è ristabilita con i suoi figli. Poi c’è mia nonna
Candelaria, che vedevo quando ero piccolo, durante le nostre visite. Lei ha firmato
una sorta di documento ufficiale per ottenere il permesso dal governo statunitense
di occupare un terreno su cui erano vissuti per 200 anni. Lo ha firmato in
un’epoca in cui le donne probabilmente non scrivevano e suo marito, ovviamente
o apparentemente, non scriveva. Lei era la mente e fu una gran donna.
Mia madre era una donna molto emancipata per il suo tempo, era una
flapper 4 chicana negli anni Venti, fumava sigarette in pubblico, portava la
macchina, mentre le sue cognate pensavano: “Wow, che sgualdrina questa
donna!”. In più, mio padre lavorava per il Servizio postale ferroviario sulla linea
tra Los Angeles e Tucson o Phoenix. Si assentava anche per tre giorni in quel
tempo. Quando lui non c’era, lei era a capo della famiglia e si assumeva le
responsabilità.
Poi, naturalmente, sono cresciuto con una sorella che ha un anno e cinque
mesi meno di me. Quindi conoscevo le donne in carne e ossa, non come alcuni
scrittori le descrivono. Una cosa triste di uno dei miei scrittori preferiti,
Hemingway, è che i sui personaggi femminili non valevano un bel niente. Non
riusciva a capire le donne. Forse aveva quel vecchio atteggiamento maschilista
che molti Latinos avevano e che alcuni hanno ancora.
12) Nel romanzo appare il famoso affresco di Burciaga, “The Last Supper of
Chicano Heroes”. Secondo lei che ruolo ha? Come interagiscono arti visive e
letteratura in A Daughter’s a Daughter?
4
Termine con cui si indicavano le ragazze emancipate negli anni Venti.
305
Il murales che la giovane protagonista vede sulla parete della mensa esiste
veramente presso la Stanford University. L’ho conosciuto grazie a un amico, una
sorta di custode della residenza, che un giorno me lo ha mostrato. Direi che, come
ogni cosa che vediamo intorno a noi, confluisce nel tuo disco fisso mentale, viene
immagazzinata e a volte riemerge, senza che ci si renda conto di averla vista o
contemplata. Mi piace la pittura e mi interessa l’arte, ma penso che la musica mi
coinvolga di più. Mi identifico e sento maggiormente l’impatto emotivo della
musica. L’idea del mio primo romanzo mi è venuta ascoltando “Recuerdos de la
Alhambra”, suonata con la chitarra. Mi ha colpito. Quando mi sveglio, alcune
mattine, senza parlare o fare nulla, mi riviene in mente la nostra musica popolare e
a volte non riesco a spegnerla. Di solito ripercorre la storia, alcune canzoni mi
ricordano diverse tappe della mia vita.
13) Nel suo saggio “Literature of the 19th Century Chicanos”, incoraggia i
romanzieri chicani a immaginarsi nel passato, per riempire le lacune della
storia statunitense e dare voce a chi non l’ha avuta, creando uno spazio per i
“perdenti”. Occorre ancora oggi? Userebbe ancora le potenzialità
immaginative della narrativa per colmare i vuoti della storia?
Penso di sì, per questo ho scritto romanzi storici. Guardandosi intorno a
Santa Fe ci sono ancora, in alcuni posti, degli antagonismi tra vecchi New
Mexican “spagnoli” (come alcuni di loro direbbero) e gli immigrati più recenti dal
Messico. A volte può essere un problema che dimostra una mancanza di
comprensione. Perché siamo davvero legati, apparteniamo alla stessa razza, noi
siamo soltanto i fortunati che incidentalmente si sono trovati sul lato nord del
confine.
306
14) Il misterioso scheletro alla fine del romanzo mi ha incuriosita. Che cosa
ne pensa ora che il suo romanzo è stato pubblicato?
Probabilmente dovrebbe dirlo un critico. Per me rappresenta la necessità di
svelare il segreto di quest’uomo sepolto: ucciso dalla moglie maltrattata, durante
una sua aggressione. Direi che potrebbe esserci un qualche legame con la terra
stessa, non più di campagna, come era stato per generazioni. Era destinata a
diventare un’area di sviluppo urbano come è avvenuto a molte delle proprietà un
tempo appartenute alla mia famiglia.
Questo è un altro aspetto del cambiamento: la storia viene seppellita (non
viene fatta riemergere) e viene ricoperta di cose nuove, qualsiasi esse siano.
Purtroppo a volte non conserviamo ciò che dovrebbe essere preservato, ecco
perché ammiro così tanto alcune città europee. Hanno una storia millenaria,
eppure conservano ancora alcuni elementi e costruzioni che verrebbero rasi al
suolo e ricoperti in questo Paese, a causa di una atteggiamento generalizzato e per
la mancanza di vera sensibilità nei confronti dell’arte. Ci sono persone che la
apprezzano veramente ma, in generale, in questo Paese predomina il denaro, si è
più materialisti e gli scrittori lo percepiscono. In Europa, probabilmente gli autori
ricevono attenzioni anche se non guadagnano molto; mentre in questo Paese, a
meno che non si facciano un sacco di soldi con un libro, potresti essere ignorato e
non molto letto.
15) I protagonisti di tutti i suoi romanzi lottano per trovare un equilibrio tra
tradizione e rinnovamento, passato e progresso. Pensa che l’immagine
ricorrente del Río Grande – descritto come simbolo del cambiamento ma
anche come legame transgenerazionale – possa essere l’emblema di questa
lotta? Qual è il suo rapporto con questo fiume che è stato così significativo
per molti altri scrittori chicani come Rolando Hinojosa?
307
Non so esattamente quale sia il senso ma, per me, rappresenta la mia
identità. Ho sempre pensato che le mie ossa dovrebbero essere cremate e sparse
nel Río Grande che, come sai, sfocia nel Golfo del Messico e mi sembra
universale: lo scorrere del fiume, l’acqua e la pioggia che tornano su questo Paese.
308
5.3 Intervista con Andrea O’Reilly Herrera
5.3.1 Versione originale
PHOENIX (ARIZONA), 21 APRILE 2011
1) Leí que la inspiración del libro salió del dibujo, esto es muy interesante
para mí.
La cosa es que yo siempre he querido escribir este libro, desde cuando era
una niña siempre dije, “Voy a escribir una novela”. Y todo el mundo quería saber
qué novela, y yo decía “I don’t know, pero va a salir, no sé cuándo”. Yo estaba
muy cerquita de mis abuelos los cubanos. Mi abuelo murió cuando yo tenía 19
años y después mi abuela. En 1986 yo estaba embarazada de mi hijo y tres
semanas después de su nacimiento, en marzo, ella murió. Me sentía muy triste.
Tenía muchas fotos de cuando ella era joven y quería pintarlas, pues una noche
me levanté y empecé con una foto de mi abuela, de cuando ella tenía 16 años. Al
día siguiente mientras estaba sentada en una mecedora con mi hijo, empecé a
escribir la novela, en ese momento. El cuadro de mi abuela (que ahora es la
cubierta de la novela) fue la inspiración.
2) How long did it take to you to write the whole novel?
It took me about two years to complete the first draft. I was never formally
trained as a writer, but I had been writing fiction and poetry since childhood and
had wanted to be a writer for as long as I could remember. I didn’t know in
advance what the plot of the novel would be. I could see certain images, so I just
started writing out these moments or scenes. Before long, the story began to take
shape. Originally I had thought that Lilly and Margarita would return to Cuba at
the end of the novel, but somehow this ending didn’t make sense, in part because I
309
had not been back to Cuba. One night I went to bed thinking about the ending and
I found the solution in my dream. While I was in graduate school working on my
PhD, I entered excerpts from the novel in a literary competition. They invited
well-known writers to judge the entries and two years in a row my excerpts were
selected for the fiction award. Until then, no one knew about the novel. Winning
those awards gave me confidence, so I began looking for a literary agent, but had
no luck as most agents told me that they already had their “quota” of Latina
writers. So I decided to send my manuscript out on my own.
Eventually a small independent press in western New York expressed
interest in publishing Pearl; however, there was a catch: the press relied on grants
to publish new work. After waiting for more than two years, I began to grow
frustrated, so I contacted the editor at the press. He wanted me to wait, but there
was no telling when they would secure the funding to publish my book and
several others, so I asked for permission to send my manuscript to another press
for review. He agreed reluctantly and recommended that I send Pearl to Bilingual
Review Press. It took Bilingual Review almost two years to get back to me; I can
still remember what I was doing when I received the phone call letting me know
that they had decided to publish my novel. While we were negotiating my contract,
I asked them if they would consider using the painting of my grandmother for the
cover and explained that it was the genesis of the novel. To my great happiness,
they agreed!
The way you wrote the novel reminds me a lot of the youngest character Lilly
who finds her grandmother’s notebook, puts together words and pictures
and finally rewrites or maybe invents her family’s story.
310
Esa es la cosa. Claudia Sadowsky-Smith, a literary critic who has written
on Pearl, was the first to figure out que Lilly puede haber inventado todo el
cuento. En verdad, su madre Margarita, nunca le habló de Cuba; pero hay cosas
que Lilly sabe. Many of the readers want to know if this is true (i.e. That Lilly
invented the story), and I always say, “No sé, I have no idea.”
So Lilly might be the narrator of the whole book.
It’s possible. If this is true, Lilly is accessing certain information, which
turns out to be accurate, through her imagination and intuition.
Maybe an adult, grown up Lilly.
Sí, puede ser.
It is not that important to know.
But it’s important to believe this is possible. There are certain kinds of
knowledge that we all possess and can access, but that cannot be explained
empirically.
3) Your positioning in the American cultural context is multifaceted because
you are a professor, a literary critic, an editor, a poet, a novelist, a play
writer, a curator of art exhibitions, plus an ethnic woman writer.
¡Y un poco loca! [laugh]
It is a very complex positioning in the U.S. mainstream. Do you think it
affects your writing and your work?
I can answer your question in a couple of ways. The kind of positioning
you are referring to is actually not unusual in Cuba, as opposed to the U.S. In fact,
it’s typical. Many of the artists in CAFÉ, the art exhibit I write about in Cuban
Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House are, in addition to
being artists, musicians, writers, poets, and/or dancers. I don’t have any
311
explanation for why this is true, but in this regard I am very Cuban. I’m also an
amateur musician and an untrained artist. For me music and painting and writing
are all linked together. Most Cubans I know understand this and think it’s
perfectly normal, but for most Americans it’s not. Even though I was born in the
U.S., I was not raised or acculturated like a typical American. Even though I was
conceived in Havana, I was born the first week of January ’59 [in Philadelphia];
but I was raised in the United States like a Cuban, so my consciousness was
always Cuban—something that took me a long time to figure out. As a result, I
always feel like an outsider, even though I am an American.
My desire to know about everything Cuban reaches back to my earliest
childhood. In the introduction to my edited collection of testimonials expressions
Remembering Cuba: Legacy of a Diaspora I recall following my grandfather
around his garden, begging him to tell me stories about life on the island. I could
never hear enough stories about Cuba. When Pearl finally came out in print, a
very dear friend of mine, a Cuban poet and critic, read it and said, “Andrea, how
did you know?”, “How do I know what?” I asked. “You know something that I
can’t explain,” she said. “Well,” I responded, “We all heard so many stories about
Cuba and I saw photographs”. “No, no, no,” she replied, “you don’t understand...
you are the only writer I know outside of Cuba who has written about that Cuba –
la Cuba del pasado – a past world that has disappeared, but you were never there”.
“I don’t understand it either”, I said, “all I know is that ever since I was a child, I
could see these moments; so I just wrote about what I ‘knew’”. I tend to be very
visual, so I was just painting with words what I could ‘see’. I didn’t know if Pearl
would ever get published, but I had to write this book, if only for myself. I
312
thought about it for years, but as it turned out, I couldn’t actually write it until my
grandparents died. No sé por qué, it wasn’t a conscious decision.
A long time ago I made the choice between either becoming an academic
or an artist. I decided very consciously that I didn’t want to make my living as a
writer or as a visual artist. I didn’t want to be pressured to have to produce work
according to popular demand or taste. So I write freely and don’t worry about the
reception of my work. I’m not concerned about how successful my novel is or
how many people are reading it. Para mí no importa, en verdad. All I care about
is being part of what I see as a larger dialogue regarding Cuba and its diaspora, so
my focus is on people like you who are interested in my work and the ideas and
questions I am struggling with in my writing.
In some sense then my decision to become an academic was útil, although
I must say that I love teaching and feel privileged to work with young people.
Many of my peers and mentors in graduate school told me that the kind of writing
and creative work I hoped to do would not be regarded as rigorous or academic,
and that most English departments didn’t value creative work if you weren’t hired
as a creative writer. Early in my career a press expressed interest in publishing my
dissertation, but my heart wasn’t in that project. I wanted to write about Cuba and
the diaspora. As it turned out, I was very fortunate because the university where I
now teach values and supports all of the work that I do on Cuba, including my
creative writing.
Wasn’t your doctoral dissertation about nunnery?
Yes...oh my God, you know more about me than I know about me! After
the press offered me a preliminary contract, I began revising my dissertation, but I
313
was miserable. A very good friend and colleague asked me, “What do you really
want to be doing?” I told her that I wanted to work on Remembering Cuba, but
everyone was telling me to publish my dissertation and put this project on the
back burner. Most of my colleagues insisted that it was an opportunity I shouldn’t
pass up and that my work on Cuba wouldn’t have any currency in academic
circles. In response, my friend encouraged me to follow my instincts. It was
exactly what I needed to hear, so I turned down the opportunity to publish my
dissertation and began to focus all of my attention on gathering testimonials. So I
consider myself to be very lucky to be where I am because I can do all of these
crazy things, including curating art exhibits and producing my play, and my
colleagues support me. I’m exactly where I should be. I am completely content
where I am because I love my students and colleagues, and I am supported in
doing work that is meaningful for me.
4) As your friend told you, you depicted Cuba in a better way than a Cuban
could have done, maybe this is because you have a privileged insight of the
Cuban and U.S. culture, as you are an insider and an outsider at the same
time.
I’m not certain that I can depict Cuba better than other Cubans, however as
I mentioned early on, I believe that it’s possible to intuitively access a body of
knowledge that you can’t access in any other way. In the past I referred to it as a
kind of ancestral memory, but a colleague reminded me that this has negative
connotations in other contexts. But it’s like drawing knowledge from some
collective consciousness, rather than empirically. For example, I hadn’t read a lot
of Cuban literature at the time that I was writing Pearl. I had read the work of
some Spanish and Latin American authors, but my primary influences when I was
working on the novel were William Faulkner, Virginia Woolf and Emily Brontë.
314
Quite awhile after Pearl was completed, I read something by Nicolás Guillén for
the first time, and I discovered that I had used some of the exact same images that
were in his work. The same thing happened as I read other Cuban writers such as
Alejo Carpentier – there were clear connections with other Cuban writers who
preceded me, but whom I had never read. It was very strange. I like to think it was
a sign that I was on the right path.
To me this is something similar to transculturation, transculturación by
Fernando Ortiz, a contemporary version of it.
Maybe this is part of our collective consciousness or our collective
inheritance. I don’t know how to explain it because it doesn’t make sense in a
traditional western context. Clearly, it is not a western approach to knowledge.
Rather, it is about giving currency to your dreams, your intuition and your
imagination. Some days ago, while teaching my Latino/a literature course, I was
trying to explain the concept of magical realism to my students. I was telling them
that there is a type of magical realism that occurs in certain political situations,
such as a massacre at a train station and then the next day in the newspaper it
officially didn’t occur. This is the form of political magical realism that Gabriel
García Márquez described in his speech when he won the Nobel Prize for
literature. But in a lot of Mexican or Chicano writing or in Caribbean literature
what critics refer to as magical realism is something different. It is accessing a
different kind of knowledge or consciousness that, as I mentioned before, can only
be accessed through intuition.
My mother, for example, is Cuban, but after having lived in the United
States for over 50 years, she has also become very American in many ways.
However, when I talk to her about my dreams or even visions or premonitions,
315
she takes this very seriously and completely accepts the possibility that you see
things ahead of time, or you have the same dream as somebody else. She accepts
these possibilities as completely natural or normal. So that’s what this is about; it
is not political. So I encourage my students to read this literature with an open
mind, even if they don’t believe that what they are reading is possible, and I
encourage them, as the British poet Coleridge said, to “suspend” their “disbelief.”
Only in that way you can believe that Lilly is accessing information that she has
not acquired in any ordinary manner.
5) Apart from the magical realism moments there are disquieting sections,
like in the beginning, this ancient woman on the mountain, looking at the
celebration in the town. This creates a gloomy atmosphere for the reader.
That scene was the first one that I could “see.” As I was telling you, I had
no idea what the plot or story was before I began writing Pearl. I had to allow the
story to unfold, and this moment turned out to be the first scene. I sketched it out
years before I started the novel. It is a kind of parable that traces the history of
Cuba and the revolution, through its different waves. So there is some historical
truth in the vision. For example, when the rebel soldiers came out from the
mountains, the Sierra Maestras, they were dressed like monks, with these long
beards and rosaries around their necks.
Only later does the reader realize that Tata is the old woman on the
mountain. Everybody wants to know when Tata was born. I usually reply, “I have
no idea, you have to ask her”. Clearly, Tata is a visionary; she sees nearly
everything. This scene was always at the beginning of the novel, but somebody
who read my manuscript later suggested that it was confusing; he encouraged me
to move it to the end of part one when Rosa is dying. I followed his advice even
316
though deep inside I felt certain that it was the wrong decision. Then I dreamed
that I needed to move it back to where it was originally.
Much later, while reading the writing of other Latin American authors, I
learned that the dream sequence at the beginning of a work is a common
convention in Latin American fiction, so I felt validated. A lot of people still tell
me that they don’t understand the dream sequence and find it confusing, so
explain that it foreshadows what will eventually unfold. Of course if you don’t
know Cuba’s history, it will be mysterious. Nevertheless, I still feel certain that
this sequence had to remain at the beginning of the novel; then the narrative
becomes more chronological and there are more identifiable events, dates, etc.
This form, therefore suggests that the two worlds – the ordinary and the world on
the mountain top—are something distinct and sometimes collide.
6) And what about Casandra, the mulata?
Tell me what you think of Casandra.
I relate her to figures that I have found in other novels, representing the
“otherness”, the Indian side that everybody wants to suppress and hide.
She, like Tata, is indigenous, so she represents a race of people who were
virtually eliminated in Cuba by the Spaniards; however, she also references two
important literary models: The Odyssey and The Oresteia, the Greek trilogy
recounting the fall of the house of Atreus. In The Oresteia, Cassandra is a very
important figure as she is the one who is telling the truth, but her curse is that no
one can understand her. That’s where her name comes from. In Pearl, Casandra is
Pedro’s mistress, which is very common in this historical context. It is unclear
317
who is the father of her child. In fact, it is probably not Pedro, I didn’t want to
decide.
Obviously, Casandra is exploited and harassed. She is a victim of her
circumstances; but Rosa is a victim, too, though clearly not in the same way. All
the women are victims of a post-colonial, patriarchal system, though race and
class divides them. When I first began to give life and volume to Casandra, she
was cast in an adversarial role with Rosa. That they would be enemies was
predictable, so I later decided to overturn this paradigm of women in adversarial
positions and thereby comment on this structure that turns women against each
other at the same time that they are all being victimized and oppressed. Even
though Casandra has almost no power, I wanted to draw connections between her
and Rosa. So Casandra had to be something different, even though she was part of
a world that is still haunted by the legacy of colonialism, patriarchy, and slavery. I
very much wanted to look at women and their positions in this kind of culture and
situation, in this kind of society, remnants of which still exist.
7) I was very intrigued by this multigenerational frame in which women are
connected to each other.
Of course I am not the only writer who has implemented this structure or
framework. Many writers have investigated the manner in which traditions are
passed down through generations. Many writers have explored this theme – the
transmission of gender roles. When you talk about gender and patriarchy, it is
always about what men are doing to women, but I was also interested in taking a
look at what women are doing to women. Take for example Rosa and Rafaela’s
relationship. Rosa doesn’t really talk to her mother when the latter is alive; it’s
only after Rafaela has died that they have an open conversation, even though the
318
reader is aware that Rafaela continues to withhold information from Rosa and fib
to her daughter. So, even in death, Rafaela is perpetuating or advocating a
traditional patriarchal mode of gender behavior.
History books are written by men.
Yes, primarily, and I’m interested in looking at women’s lives and of
course the ways that their lives parallel the “big” history.
So you need the multigenerational approach to convey the wider picture.
Absolutely...and to see what is transmitted through all these generations.
My critical work also focuses on this subject. While I was collecting testimonial
expressions for ReMembering Cuba, I discovered that Cubans continue to
transmit their cultural mores through different generations in the diaspora; in over
fifty years not much has changed. For instance, during one of his classes Jeffrey
[Rubin-Dorsky] had six contemporary female writers – including me and another
Cuban writer [Ana Menéndez] – come to campus and work with the students in
his class. We also brought in Isabel Álvarez Borland, who is a well known Cuban
American literary critic.
The three of us [Isabel, Andrea and Ana] had dinner together one evening.
I was ten years older than Ana and Isabel was ten years older than me; we were all
raised in middle-class families. Ana was born and raised in the United States; I
was conceived in Cuba but born in Philadelphia; and Isabel grew up in Cuba and
then came to the U.S. as an adolescent. At that dinner we realized that we were
raised or socialized as females in the exact same way. We could hardly believe it
and were laughing from the start. Nothing about our upbringing was significantly
different despite a twenty year span. So as a Cuban American woman, across
319
borders and across generations, I’m very interested in the way women teach other
women how to behave, and how they inadvertently become the guardians of
systems that actually oppress them.
8) I’m not sure if this is my impression or if it is true: I have noticed that
some sentences in the novel are in English but sound Spanish.
That is very interesting.
Especially in the letters, when tía writes “imagine!” I have Cuban friends and
they use that a lot: “¡imagínate!”
It’s amazing, nobody has ever said that to me. When I was writing the
dialogues as well as the letters in Pearl, I kept saying the lines out loud because I
wanted to imitate the conversations I had heard growing up, as well as the letters
that were read to us from relatives who had remained in Cuba. I was very
consciously trying to figure out how all of the women at the Havana Yacht Club
would have spoken to each other and what they would have said, for instance.
Some of the words or expressions wouldn’t work in English, such as “¡Qué
barbaridad!” (which in English would literally translate as “What a barbarity!”).
Sandra Cisneros wrote that: “What a barbarity!”
Yes, in Caramelo, I love that book! She was trying to express the same
idea – that some things just cannot be translated. Some things just sound
ridiculous when you translate them! But I was also trying to imitate as faithfully
as possible how these women would speak. I recalled our own dinner table.
Everyone would be talking at the same time; I was passionate and emotional. So
as I was writing I just opened my ears and I could hear the conversations and the
debates. Even in English I was trying to imagine, “How would so-and-so phrase
320
this? What words would they use to say this?” So, what you have observed is just
wonderful!
9) Did you speak Spanish with your family when you were a child?
My mother didn’t speak Spanish to us, but we had lots of different people
living with us from Pedro Pan for example [Operation Peter Pan] and relatives
who didn’t speak English. So we learned Spanish from everyone but my mother,
although she would talk to the others in Spanish. I asked her about this once,
when she was visiting me after I had moved to Colorado. We were sitting outside
on the porch and our Colombian neighbor came over and started speaking to my
mother in Spanish. She replied in Spanish and afterward my daughter said, “I
never heard Nana speak Spanish before”. It was the first time I actually realized
that she never spoke Spanish to us either.
My mother first came to the U.S. as an adolescent during Machado’s
violent regime in the 1930s, and she had a horrible time because she didn’t speak
English. It occurred to me some time later that her decision to speak to us in
English (as opposed to Spanish) may have been a result of her experience. I
suggested this to her recently and she replied, “I had never thought about that, but
it is probably true”. So we all learned Spanish by ear. My father, pobrecito,
learned Spanish in the same way. He was Irish American and he would say things
in Spanglish like, “quiero un poco de juicy”. His parents had died and most of his
relatives were still in Ireland, so he learned Spanish out of self-defense because
almost everyone in the house spoke Spanish. Even many of my mother’s relatives
in Miami didn’t speak English. They came and they never learned English. So we
all learned Spanish by listening to their conversations.
321
10) Do your sons or daughters speak Spanish too?
One of my daughters loves Spanish and taught it for three years. My son
and my other daughter took Spanish classes after they graduated from college and
they love it too. They can understand a lot, in part because their paternal
grandfather only spoke Spanish – he was catalán. My former husband grew up
speaking Spanish too, so my children would hear Spanish all the time in our house.
When my readers come across the Spanish passages in Pearl (in the green
Morroco notebook), many get annoyed and frustrated. Some of the passages
actually come from my grandmother’s grammar school notebook, which I
transcribed, or they come from newspaper articles from El diario de la marina,
which she clipped and saved. In response, I ask people to consider who’s reading
the notebook. Who’s looking at it in the novel? It’s Lilly, of course. So imagine,
what would you be feeling if you were her, facing this impenetrable wall of
language? If you can’t understand it, then you can identify with Lilly, and then
you can begin to imagine what it would be like to discover that the door of your
past is locked too. So as a reader you need to ask yourself why writers incorporate
foreign languages into their works. It’s not gratuitous, it’s not to make you angry.
As I mentioned earlier, you cannot always translate everything – especially
when it comes to experience and culture. As a reader-outsider, you are always in
the act of translating. Ultimately what you are translating becomes something
different and new. Metaphorically, this act of translating represents a way of
negotiating cultures linguistically. So in some sense incorporating Spanish into
the novel represents Lilly’s attempt to negotiate two languages and two worlds.
322
Immigrants usually experience the same thing, the other way around, with
the English language.
Yes, language is essential not only to identity formation but to the struggle
to assimilate into a foreign culture, so for immigrants it can represent one of the
ways they are caught between two worlds, two cultures.
11) In Cuba: Idea of a Nation Displaced you mention the concept of
“mnemohistory” by Jan Assmann. He says that “we are what we remember”
and that memory is a constant interplay of history, imagination, dreams and
nostalgia. How do you think individual and collective memory interact in a
novel or in the real world?
What I love about Assmann is that he is not so much interested in
determining the “truths” of history but rather in what ideas or memories are
embraced and passed on. When I was teaching in Lublin as a Fulbright scholar I
realized, after talking with my students, that Poland “disappeared” or was erased
as a nation for something like a hundred and twenty-seven or a hundred and
twenty-eight years. There was a diaspora and groups of Poles scattered all over
Europe or immigrated to the United States. A huge community settled in France,
and a lot of my students were the grandchildren or great-grandchildren of those
people. What is amazing is that they carried their culture with them and preserved
some collective consciousness (which incorporated individual ideas and a sense of
collective memory).
In the introduction to my new book, Cuban Artists Across the Diaspora:
Setting the Tent Against the House, I drew inspiration from quantum physics as
well as Assmann’s concept of mnemohistory, such as the concept that the focus
isn’t so much on where an object is, physically, but rather on where it could be.
So I’m not terribly concerned with whose story is true or who has the “strongest”
story. I’m more interested in the stories that travel across time...the collective
323
“truths”, which are sometimes in contradiction, that are embraced by the
community and preserved from generation to generation. In effect, I am rejecting
a linear or binary way of thinking or knowing. I am also unconcerned about
finding definite or conclusive answers. In fact, I am never concerned with what
“the answer” is, but rather with all the possible answers and all the possible
answers could be in contradiction. Does this make sense?
Absolutely. This last idea reminds me of the CAFÉ exhibit, inspired by a
conversation among three Cuban diasporic artists—Leandro Soto, Yovani
Bauta, and Israel León—who realized that you can perpetuate the ritual of
making a coffee, wherever you are in the world, and it is still a Cuban way of
having coffee.
Yes, absolutely, but the ingredients and the environment in which the café
is made are subject to change, so there is always something new and something
old, something that moves or changes and something that remains constant or
stable. It is a balance of multiple things that are frequently in a paradoxical
relationship, and you are contemplating all of them in motion, everything that is
there.
In that moment and in that place.
Exactly! So the central metaphor informing CAFÉ makes perfect sense to
me. Years ago I studied with the Cuban theorist Antonio Benítez-Rojo – he was
my mentor and guide, he supported everything that I did. He was the first person
who articulated the possibility of paradox and harmony. One day, when I was
studing with him in a workshop at the University in Miami, he was discussing this
topic and he described it as a particularly Caribbean sensibility. I raised my hand
and said that it reminded me of juggling. You have all these notions and ideas in
the air at the same time and they can be contradictory or paradoxical; they don’t
324
always go together. But they are all in the air and the trick is to just keep them
there, without trying to separate out one thing or the other. The most important
thing is that they are all suspended in the air, at the same time. He replied, “That’s
it. You got it!”.
Two of my closest Cuban friends corroborated this idea. They are
physicists and as we discussed literature, they would talk about quantum physics
and draw parallels. Through them I began to see the beauty of physics and how
literature resonated with the principles and tenets they described. Our
conversations influenced me a lot as well. In effect, they articulated a way of
expressing not an identity (because I don’t use that word) but a consciousness or
“way of being” that according to Antonio was particularly Caribbean. What I
hoped to do in my last book on Cuban Diasporic art is try to propose a much more
inclusive and open way of thinking about who belongs, and what constitutes
Cubanness or a Cuban consciousness and, in this particular instance, a Cuban
artist. It is a theoretical framework that you could use to analyze Pearl. Of course
a lot of people are uncomfortable with this idea, in part because it’s safer to think
in a binary manner. But when you think in binaries, you immediately politicize
these questions for you either belong or you don’t belong, you are either here or
you are there.
12) How is your relationship with the Cuban community in Miami right now?
It depends on who I am with and where. The reception to my work in
Europe is completely different than the reception here. Some Americans and
Cubans are very uncomfortable with my work, especially my theoretical
perspective. Americans tend to read Cuba from a position that is informed by race,
325
class and gender politics in the United States, or they tag my work as too
politically conservative and extol the regime with little first-hand knowledge or
experience of life under a totalitarian regime. Other people – including some
Cubans – think I don’t have the right to speak about Cuba because I wasn’t born
there. This raises the issue of what I refer to as the hierarchy of authenticity,
which questions who can speak about Cuban culture, who can claim the pain or
the sense of loss or displacement. When I put out the call for submissions for
ReMembering Cuba, the immediate responses I received were from people born
outside Cuba—the “lost generation” that I speak of in one of my essays in Cuba:
Idea of a Nation Displaced. Yet, some Cubans have told me that I have no right to
“appropriate” their culture. So if you raise these kinds of questions and if this is
your criteria for determining who is authorized to speak, I already know you are
missing the point.
13) Have you ever been to Cuba?
You know, any effort I have made to go to Cuba has been thwarted; I’m
guessing it’s because of my books. But some day – when the time is right – I will
get there.
Couldn’t you go there as a tourist?
I don’t want to go illegally. More fundamentally, I don’t want to go to
Cuba as a tourist. I want to go as I am – una cubanita pasada por agua – and
present my work. I hope, considering some of the changes that are occurring now,
that it is going to happen one day soon.
326
I heard that Cristina García is censored in Cuba. Is it the same for your
works? Can you buy your books in Cuba?
Honestly, I don’t think you can.
14) What does the Cuban diaspora mean for you?
Many of the artists I interviewed for my last book see the creative
possibility in the diasporic condition. They have used their art to create a space in
diaspora that reflects a history of movement, integration, synthesis and
transformation, things that have always characterized Cuba – beginning with the
Spanish colonization, the immigration, out-migration and multiple exiles, before
Martí and until now. Movement has always informed Cuban history and has
shaped the Cuban consciousness. So when you talk about absorbing new cultural
elements, all of these artists see that as natural because Cuban culture is receptive
and eclectic, it is an ajiaco (to use Ortiz’s metaphor). To understand this you first
have to know the history of the Caribbean. You are rooted nowhere and
everywhere.
A close Cuban friend of mine often says, “Home is my family and my
friends.”
Yes, I agree; I would add that home is like a tent – you can make your
home wherever you are. In this sense, the journey is the thing in itself.
327
5.3.2 Versione tradotta
1) Ho letto che l’ispirazione del libro le è venuta dal disegno, lo trovo molto
interessante.
Io ho sempre voluto scrivere questo libro, fin da quanto ero bambina
dicevo sempre “Scriverò un romanzo”. E tutti volevano sapere che romanzo e io
dicevo “I don’t know, ma mi verrà, non so quando”. Io ero molto vicina ai miei
nonni cubani. Mio nonno è morto quando avevo 19 anni e dopo di lui mia nonna.
Nel 1986 ero incinta di mio figlio e, tre settimane dopo la sua nascita, a marzo lei
è morta. Ero molto triste. Avevo molte foto di quando era giovane e volevo
dipingerle, allora una notte mi sono alzata e ho iniziato con una foto di quando
mia nonna aveva 16 anni. Il giorno successivo, mentre ero seduta su di una sedia a
dondolo con mio figlio, ho iniziato a scrivere il romanzo, in quel momento. Il
quadro di mia nonna (che ora è la copertina del romanzo) è stato l’ispirazione.
2) Quanto ci ha messo per scrivere l’intero romanzo?
Ho impiegato circa due anni per completare la prima bozza. Non ho mai
fatto corsi specifici di scrittura creativa, ma avevo scritto narrativa e poesia fin
dall’infanzia e, da quanto ricordo, ho sempre voluto essere una scrittrice. Non
sapevo in anticipo quale sarebbe stata la trama del romanzo. Potevo visualizzare
alcune immagini, quindi ho semplicemente iniziato a scrivere questi momenti o
scene. In poco tempo, la storia ha iniziato a prendere forma. Inizialmente avevo
pensato che Lilly e Margarita sarebbero tornate a Cuba alla fine del romanzo, ma
per qualche motivo questo finale non aveva senso, in parte perché io stessa non
sono tornata a Cuba. Un giorno sono andata a letto pensando alla fine e ho trovato
la soluzione nel mio sogno.
328
All’università mentre lavoravo al mio dottorato, ho inviato estratti del
romanzo a un concorso letterario. Avevano invitato scrittori molto noti per
giudicare le opere e, per due anni di fila, sono stati scelti i miei brani per il premio
della narrativa. Fino a quel momento, nessuno sapeva del romanzo. Vincere quei
premi mi ha dato sicurezza, quindi ho iniziato a cercare un agente letterario, ma
non ho avuto fortuna poiché la maggior parte degli agenti mi ha detto che avevano
esaurito la loro “quota” di scrittrici ispaniche. Quindi ho deciso di inviare il
manoscritto per conto mio.
Alla fine una piccola casa editrice indipendente nella parte ovest di New
York ha espresso interesse per la pubblicazione di Pearl; tuttavia c’è stato un
problema: la casa editrice aspettava delle sovvenzioni per pubblicare nuove opere
e, dopo aver atteso per più di due anni in preda alla frustrazione, ho contatto il
caporedattore. Lui voleva che io aspettassi ancora ma non mi diceva quando
avrebbero garantito il finanziamento per pubblicare il mio libro e diversi altri,
quindi ho chiesto il permesso di inviare e far valutare il manoscritto a un’altra
casa editrice. Lui ha accettato con riluttanza e mi ha suggerito di invare Pearl alla
Bilingual Review Press che mi ha risposto dopo quasi due anni.
Ricordo ancora che cosa stavo facendo quando ho ricevuto la telefonata
con cui mi informavano che avevano deciso di pubblicare il mio romanzo. Mentre
discutevamo del contratto ho chiesto loro se si potesse prendere in considerazione
il dipinto di mia nonna per la copertina e ho spiegato che era stato la genesi del
romanzo. Con mia grande felicità hanno accettato!
Il modo in cui ha scritto il romanzo mi ricorda molto del personaggio più
giovane, Lilly, che trova il diario della nonna, mette insieme parole e
immagini e infine riscrive o forse inventa la storia della sua famiglia.
329
Esa es la cosa. È stata Claudia Sadowsky-Smith5 a capire che Lilly puede
haber inventado todo el cuento. En verdad, su madre Margarita, nunca le habló
de Cuba; pero hay cosas que Lilly sabe. Molti dei lettori vogliono sapere se
questo è vero (ossia che Lilly ha inventato la storia) e io dico sempre “No sé, non
ne ho idea”.
Quindi Lilly potrebbe essere la narratrice dell’intero libro.
È possibile. Se questo è vero, Lilly sta accedendo ad alcune informazioni
che si rivelano accurate, attraverso la sua immaginazione e intuizione.
Forse una Lilly cresciuta e adulta.
Sí, puede ser.
Non è così importante saperlo.
Ma è importante credere che sia possibile. Ci sono alcune tipi di
conoscenza che tutti possediamo e a cui tutti possiamo accedere, ma che non
possono essere spiegate empiricamente.
3) La sua posizione nel contesto culturale americano è poliedrica in quanto
professoressa, critica letteraria, poetessa, autrice di romanzi e sceneggiature,
curatrice di mostre e in più scrittrice con un’origine etnica.
¡Y un poco loca! [risate]
È una posizione molto complessa nella cultura dominante statunitense. Pensa
che si rifletta nella sua scrittura e nelle sue opere?
Posso rispondere alla tua domanda in un paio di modi. Il tipo di
posizionamento a cui ti riferisci in realtà non è inusuale a Cuba, diversamente
5
Claudia Sadowsky-Smith è una docente di letteratura inglese presso il College of Liberal Arts
and Sciences della Arizona State University e autrice di un’esaustiva analisi di The Pearl of the
Antilles. Durante il mio soggiorno presso la stessa università ho potuto incontrarla e le sono molto
riconoscente per la disponibilità e gli stimolanti spunti dati alla mia ricerca.
330
dagli Stati Uniti, anzi è tipico. Molti degli artisti di CAFÉ, la mostra di cui parlo
in Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House6, oltre a
essere artisti, sono musicisti, scrittori, poeti e/o ballerini. Non so spiegare perché
accada ma, in questo, sono molto cubana. Io sono anche una musicista amatoriale
e un’artista senza una formazione specifica. Per me la musica, la pittura e la
scrittura sono legate insieme. La maggior parte dei cubani che io conosco lo
capiscono e pensano che sia perfettamente normale, ma per la maggior parte degli
americani non lo è. Sebbene sia nata negli Stati Uniti, non sono cresciuta e non
sono stata educata come una tipica americana. Anche se sono stata concepita a
L’Avana, sono nata la prima settimana di gennaio del ’59 [a Philadelphia]; ma
sono cresciuta negli Stati Uniti come una cubana, quindi la mia consapevolezza è
sempre stata cubana – cosa che ho capito dopo molto tempo. Di conseguenza, mi
sento sempre un’estranea, anche se sono americana.
Il mio desiderio di sapere tutto di Cuba risale alla mia prima infanzia.
Nell’introduzione alla raccolta di testimonianze che ho curato Remembering Cuba:
Legacy of a Diaspora ricordo di quando seguivo mio nonno nell’orto,
implorandolo affinché mi raccontasse le storie della sua vita sull’isola. Non ne
avevo mai abbastanza di ascoltare storie di Cuba. Quando Pearl alla fine è stato
pubblicato, una mia carissima amica, una poetessa e critica cubana, lo ha letto e
mi ha detto, “Andrea, come lo conoscevi?”, “Come conoscevo cosa?” ho chiesto.
“Conosci qualcosa che non riesco a spiegarti”, ha detto. “Beh”, ho risposto, “Tutti
abbiamo ascoltato così tante storie su Cuba e ho visto delle foto”. “No, no, no” ha
risposto, “non capisci…sei l’unica scrittrice che io conosco fuori da Cuba ad aver
6
Andrea O’Reilly Herrera, Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House
(Austin: University of Texas Press, 2011).
331
scritto di quella Cuba – la Cuba del pasado – un mondo del passato che è
scomparso, ma tu non ci sei mai stata”. “Neanche io lo capisco” ho detto, “tutto
ciò che so è che da quando ero bambina potevo visualizzare questi momenti;
quindi ho solo scritto ciò che ‘conoscevo’”. Di norma sono molto visiva, quindi
ho semplicemente dipinto con le parole ciò che potevo ‘vedere’. Non sapevo se
Pearl sarebbe mai stato pubblicato, ma dovevo scrivere questo libro, anche solo
per me stessa. Ci ho pensato per anni ma, alla fine, sono riuscita a scriverlo solo
dopo la morte dei miei nonni. No sé por qué, non è stata una decisione
consapevole.
Molto tempo fa mi si è presentata la scelta di diventare un’accademica o
una scrittrice. Ho deciso in modo molto consapevole che non volevo vivere da
scrittrice o da artista. Non volevo esser costretta a produrre un’opera in base alle
richieste o ai gusti più in voga. Quindi scrivo liberamente e non mi preoccupo
della ricezione delle mie opere. Non mi interessa il successo di un romanzo o
quante persone lo leggano. Para mí no importa, en verdad. Mi interessa di più
esser parte di ciò che vedo come un dialogo più ampio riguardo Cuba e la sua
diaspora, quindi mi concentro sulle persone come te che sono interessate al mio
lavoro, alle idee e alle questioni che affronto nella mia scrittura. In un certo senso
dunque, la mia decisione di diventare un’accademica è stata útil, ma devo dire che
amo insegnare e mi sento privilegiata per la possibilità di lavorare con i giovani.
Molti dei miei colleghi e mentori all’università mi dicevano che il tipo di
scrittura e lavoro creativo che speravo di fare non sarebbe stato considerato
rigoroso o accademico e che la maggior parte dei dipartimenti di inglese non tiene
in gran conto il lavoro creativo, a meno che tu non sia stata assunta come scrittrice.
332
All’inizio della mia carriera una casa editrice ha manifestato interesse a pubblicare
la mia tesi di dottorato, ma il mio cuore non era in quel progetto. Volevo scrivere
di Cuba e della diaspora. Alla fine sono stata molto fortunata perché l’università
dove insegno ora apprezza e incoraggia tutto il lavoro che faccio su Cuba, inclusa
la mia scrittura creativa.
La sua tesi di dottorato non era sui conventi di suore7?
Si…oh mio Dio! Ne sai più tu di me, di quanto non ne sappia io stessa!
Dopo che la casa editrice mi aveva offerto un contratto preliminare, ho iniziato a
rivedere la mia tesi ma ero abbattuta. Una carissima amica e collega mi ha chiesto,
“Che cosa vuoi fare veramente?” le ho risposto che volevo lavorare a
Remembering Cuba ma tutti mi dicevano di pubblicare la mia tesi e di mettere
questo progetto nel cassetto. La maggior parte dei miei colleghi ripetevano che si
trattava di un’occasione da non perdere e che il mio lavoro su Cuba non avrebbe
avuto alcun valore in ambito accademico. Al contrario la mia amica mi ha
incoraggiato a seguire il mio istinto. Era esattamente ciò che avevo bisogno di
sentire, quindi ho rifiutato l’opportunità di pubblicare la mia tesi e ho iniziato a
concentrare tutta la mia attenzione sulla raccolta delle testimonianze. Dunque mi
considero molto fortunata a essere dove sono perché posso fare cose pazzesche,
come curare una mostra o produrre la mia opera teatrale, e i miei colleghi mi
sostengono. Sono esattamente dove dovrei essere. Sono completamente
soddisfatta di dove sono perché amo i miei studenti e i colleghi e sono
incoraggiata a fare il lavoro che ritengo più significativo.
7
O’Reilly Herrera ha conseguito il titolo di Doctor of Philosophy in English, presso la University
of Delaware, nel 1993, con una tesi intitolata “Nuns and lovers: Tracing the development of idyllic
conventual writing”.
333
4) Come le ha detto la sua amica, ha descritto Cuba meglio di come lo
avrebbe fatto una cubana, forse per la sua prospettiva privilegiata sulla
cultura cubana e statunitense, interna ed esterna allo stesso tempo.
Non sono sicura di poter descrivere Cuba meglio di altri cubani, ma come
ho accennato prima, credo che sia possibile accedere intuitivamente a un bagaglio
di conoscenza altrimenti inaccessibile. In passato l’ho chiamata memoria
ancestrale ma un mio collega mi ha ricordato che può avere connotazioni negative
in altri contesti. È l’acquisizione di conoscenza da una consapevolezza collettiva,
piuttosto che empiricamente. Ad esempio, io non avevo letto molta letteratura
cubana all’epoca in cui stavo scrivendo Pearl. Avevo letto le opere di alcuni
scrittori spagnoli e latinoamericani, ma i miei riferimenti principali mentre
lavoravo al romanzo erano William Faulkner, Virginia Woolf ed Emily Brontë.
Diverso tempo dopo aver terminato Pearl, ho letto qualcosa di Nicolás Guillén
per la prima volta e ho scoperto di aver usato alcune immagini identiche a quelle
che erano nella sua opera. La stessa cosa è successa quando ho letto altri autori
cubani come Alejo Carpentier – c’erano evidenti collegamenti con altri scrittori
cubani che mi avevano preceduto, ma che non avevo mai letto. È stato molto
strano. Mi piace considerarlo un segno del fatto che mi trovavo sulla giusta strada.
A me sembra una versione contemporanea della transculturazione,
transculturación, di Fernando Ortiz.
Forse questo è parte della nostra consapevolezza collettiva o della nostra
eredità collettiva. Non so come spiegarlo perché non ha molto senso in un
contesto occidentale tradizionale. Chiaramente non si tratta di un approccio
occidentale alla conoscenza. Piuttosto, riguarda il dar valore ai propri sogni, alle
intuizioni e all’immaginazione. Alcuni giorni fa, insegnando nel mio corso di
Latino/a literature, cercavo di spiegare ai miei studenti il concetto di realismo
334
magico. Gli raccontavo che c’è un tipo di realismo magico che si verifica in
determinate situazioni politiche, come un massacro in una stazione dei treni che
poi, il giorno successivo, nella stampa ufficialmente non è accaduto. Questa è la
forma di realismo magico politico che Gabriel García Márquez ha descritto nel
discorso fatto quando ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Ma in molte
opere messicane o chicane o nella letteratura caraibica ciò che i critici definiscono
realismo magico è qualcosa di diverso. È accedere a un diverso tipo di conoscenza
e consapevolezza a cui, come ho detto prima, si può giungere solo con l’intuizione.
Mia madre, ad esempio, è cubana ma avendo vissuto negli Stati Uniti per
più di 50 anni è diventata anche molto Americana. In ogni caso, quando le parlo
dei miei sogni o anche delle visioni e premonizioni le prende molto sul serio e
accetta totalmente la possibilità di prevedere le cose o di avere lo stesso sogno che
ha avuto qualcun altro. Lei considera queste possibilità come completamente
naturali o normali. Ecco di cosa si tratta; non è politica. Quindi io incoraggio i
miei studenti a leggere questa letteratura con la mente aperta, anche se non
credono che ciò che leggono sia possibile e li incoraggio, come disse il poeta
britannico Coleridge, a “sospendere” la loro “incredulità”.
Solo così si può
credere che Lilly stia accedendo a delle informazioni che non ha acquisito in
modo ordinario.
5) Oltre i momenti di realismo magico ci sono scene inquietanti, come
all’inizio, l’anziana sulla montagna che guarda le celebrazioni del paese.
Questo immerge i lettori in un’atmosfera cupa.
Questa scena è stata la prima che ho “visto”. Come ti ho detto, non avevo
idea di come sarebbe stata la trama o la storia prima di iniziare a scrivere Pearl.
Dovevo far dispiegare la storia e questo momento è stato la prima scena. Ne stesi
335
una prima bozza diversi anni prima di iniziare il romanzo. È una sorta di parabola
che traccia la storia di Cuba e della rivoluzione, attraverso le sue diverse ondate.
Quindi c’è della verità storica nella visione. Ad esempio, quando i soldati ribelli
sono scesi dalle montagne, dalla Sierra Maestra, erano vestiti come monaci, con
lunghe barbe e rosari intorno al collo.
Solo dopo chi legge si rende conto che Tata è l’anziana sulla montagna.
Tutti vogliono sapere quando è nata Tata. Di solito rispondo “Non ne ho idea,
dovreste chiederlo a lei”. Chiaramente Tata è una visionaria; vede quasi tutto.
Questa scena è sempre stata all’inizio del romanzo, ma qualcuno che ha letto il
mio manoscritto successivamente mi ha fatto capire che era confusionaria e mi ha
incoraggiato a spostarla alla fine della prima parte, quando Rosa muore. Io ho
seguito il suo consiglio anche se, dentro di me, ero sicura che fosse la decisione
sbagliata. Poi ho sognato che dovevo riportarla a dove era originariamente. Molto
più tardi, leggendo opere di altri autori latinoamericani ho scoperto che la scena
del sogno all’inizio di un’opera è una convenzione comune nella narrativa
latinoamericana e mi sono sentita legittimata. Molte persone mi dicono ancora che
non capiscono la scena del sogno e la trovano confusionaria, allora spiego che
prefigura ciò che verrà in seguito. Certamente se non si conosce la storia di Cuba
risulterà misteriosa. Eppure sono ancora sicura che questa scena dovesse rimanere
all’inizio del romanzo; poi la narrativa diventa più cronologica e ci sono eventi
più identificabili, date, etc. Questa struttura, quindi, suggerisce che i due mondi –
l’ordinario e il mondo in cima alla montagna – siano qualcosa di distinto e a volte
in contrasto.
336
6) E cosa mi dice di Casandra, la mulata?
Dimmi cosa pensi tu di Casandra.
Io la ricollego a figure di altri romanzi che rappresentano l’alterità,
l’elemento indiano che tutti vogliono sopprimere o nascondere.
Come Tata lei è un’indigena, quindi rappresenta una razza che è stata
praticamente eliminata a Cuba dagli spagnoli; tuttavia richiama anche due
importanti modelli letterari: l’Odissea e l’Orestea, la trilogia greca che racconta la
caduta della casa di Atreo. Nell’Orestea Cassandra è una figura molto importante
perché è colei che dice la verità ma la sua maledizione vuole che nessuno la possa
capire. Da qui viene il suo nome8. In Pearl, Casandra è l’amante di Pedro, cosa
molto comune in questo contesto storico. Non è chiaro chi sia il padre di suo figlio.
Di fatto, probabilmente non è Pedro, non ho voluto decidere.
Ovviamente Casandra è sfruttata e maltrattata. Lei è una vittima delle
circostanze; ma anche Rosa è una vittima, anche se evidentemente non nello
stesso modo. Tutte le donne sono vittime di un sistema post-coloniale e patriarcale,
anche se la razza e la classe sociale le dividono. La prima volta in cui ho iniziato a
dar vita e spessore a Casandra l’ho messa in una posizione antagonistica rispetto a
Rosa. Era prevedibile che fossero nemiche quindi, successivamente, ho deciso di
rovesciare questo paradigma di donne in posizione antagonistica, contestando la
struttura che mette le donne le une contro le altre, mentre le rende tutte vittime e
oppresse allo stesso tempo. Anche se Casandra non ha quasi potere, volevo creare
dei legami tra lei e Rosa. Quindi Casandra doveva essere qualcosa di diverso,
anche se è parte di un mondo ancora ossessionato dall’eredità del colonialismo,
8
Nel romanzo il nome del personaggio è Casandra (grafia spagnola). Nella trascrizione ho
mantenuto la grafia spagnola in riferimento al personaggio, mentre ho riportato quella inglese
(Cassandra) per indicare la figura della mitologia greca.
337
del patriarcato e della schiavitù. Volevo realmente osservare le donne e le loro
posizioni in questo genere di cultura e di situazioni e in questo tipo di società, di
cui esistono ancora i resti.
7) Mi ha incuriosito molto questa struttura multigenerazionale in cui le
donne sono collegate le une alle altre.
Naturalmente non sono l’unica scrittrice che ha implementato questa
struttura o quadro. Molti scrittori hanno indagato il modo in cui le tradizioni
vengono tramandate di generazione in generazione. Molti scrittori hanno esplorato
questo tema – la trasmissione dei ruoli di genere. Quando si parla di sesso e
patriarcato, ci si chiede sempre che cosa facciano gli uomini alle donne, ma io ero
interessata anche a osservare che cosa fanno le donne alle altre donne. Prendi ad
esempio la relazione tra Rosa e Rafaela. Rosa non parla realmente con la madre
quando questa è viva; solo dopo che Rafaela è morta hanno una conversazione
aperta, anche se chi legge è consapevole del fatto che Rafaela continua a celare
delle informazioni a Rosa e a mentire alla figlia. Quindi, anche da morta, Rafaela
continua a perpetuare e consolidare una prassi del comportamento femminile,
legato alla tradizione patriarcale.
I libri di storia sono scritti dagli uomini.
Sì, prevalentemente, e io sono interessata alla vita delle donne e
naturalmente ai modi in cui le loro vite sono parallele alla Grande Storia.
Quindi ha bisogno dell’approccio multigenerazionale per dare un quadro più
ampio.
Certo…e per vedere cosa si tramanda di generazione in generazione.
Anche il mio lavoro critico è imperniato su questo argomento. Mentre raccoglievo
338
le testimonianze per ReMembering Cuba, ho scoperto che i cubani continuano a
trasmettere le loro tradizioni culturali per diverse generazioni nella diaspora; in
più di cinquanta anni non è cambiato molto. Ad esempio, Jeffrey [Rubin-Dorsky]9
ha fatto partecipare sei scrittrici contemporanee – compresa me e un’altra
scrittrice cubana [Ana Menéndez] – a una delle sue lezioni all’università, per
interagire con gli studenti in aula. Abbiamo anche portato Isabel Álvarez Borland,
una critica letteraria molto nota. Una sera noi tre [Isabel, Andrea e Ana] abbiamo
fatto cena insieme. Io avevo dieci anni di più di Ana e Isabel aveva dieci anni più
di me; siamo tutte cresciute in famiglie borghesi. Ana era nata e cresciuta negli
Stati Uniti, io sono stata concepita a L’Avana ma sono nata a Philadelphia; e
Isabel è cresciuta a Cuba ed è venuta negli Stati Uniti da adolescente. Durante
quella cena ci siamo rese conto che eravamo state educate e formate come donne
esattamente allo stesso modo. Quasi non ci potevamo credere e abbiamo riso fin
dall’inizio. Nell’arco di venti anni non c’era stato nessun cambiamento
significativo nella nostra educazione. Da donna cubano-americana, attraverso
confini e generazioni, sono molto interessata al comportamento che le donne
insegnano alle altre donne e a come diventino, inavvertitamente, le guardiane di
sistemi che, in realtà, le opprimono.
8) Non so esattamente se è un’impressione o se è vero: ho notato che alcune
frasi nel romanzo sono in inglese ma richiamano lo spagnolo.
Questo è molto interessante.
9
Andrea O’Reilly Herrera fa riferimento al corso “Recent American Women’s Fiction: First
Efforts” che il prof. Jeffrey Rubin-Dorsky (ora in pensione) ha tenuto nel 2002 presso la
University of Colorado, Colorado Springs. Durante il semestre sono state invitate a parlare delle
loro esperienze sei giovani autrici: Erika Krouse, Dana Spiotta, Laura Glen Louis, Jenny McPhee,
Ana Menéndez e la stessa Andrea O'Reilly Herrera, come si evince dall’articolo “First-time
novelists in the literary spotlight at UCCS”, pubblicato sul Colorado Springs Independent il 21
febbraio 2002: <thttp://www.csindy.com/coloradosprings/first-editions/Content?oid=1113944> .
Data d’accesso 3 gennaio 2013.
339
Soprattutto nelle lettere, quando tía scrive “imagine!”. Ho degli amici cubani
che lo usano molto: “¡imagínate!”.
È sorprendente, nessuno me lo aveva mai detto. Quando scrivevo i
dialoghi e anche le lettere in Pearl, continuavo a ripetere le righe a voce alta
perché volevo imitare le conversazioni che avevo ascoltato crescendo, così come
le lettere dei parenti che erano rimasti a Cuba e che ci venivano lette.
Ho cercato intenzionalmente di immaginare cosa avrebbero detto le donne
dell’Havana Yacht Club parlando tra di loro, ad esempio. Alcune delle parole o
delle espressioni non funzionerebbero in inglese, come “¡Qué barbaridad!” (che in
inglese si tradurrebbe letteralmente come “What a barbarity!”).
Sandra Cisneros lo ha scritto: “What a barbarity!”.
Sì, in Caramelo, adoro quel libro! Lei cercava di esprimere la stessa idea –
che alcune cose semplicemente non possono essere tradotte: sarebbero ridicole!
Ma cercavo di imitare il più fedelmente possibile il modo in cui queste donne
avrebbero parlato. Mi sono rivenute in mente le nostre cene in cui tutti parlavano
contemporaneamente; io ero appassionata ed emotiva. Quindi mentre scrivevo ho
semplicemente aperto le mie orecchie per ascoltare le conversazioni e le
discussioni. Anche in inglese cercavo di immaginare “Come avrebbe formulato
questo il tal dei tali? Quali parole avrebbero usato per dirlo?”. Quindi quello che
mi dici è fantastico.
9) Parlava spagnolo con la sua famiglia da piccola?
Mia madre non parlava spagnolo con noi, ma c’erano molte persone che
vivevano con noi, ad esempio da Pedro Pan [Operazione Peter Pan] e parenti che
non parlavano inglese. Quindi abbiamo imparato spagnolo da tutti meno che da
340
mia madre, anche se lei parlava in spagnolo con gli altri. Una volta le ho chiesto
di questo, durante una sua visita dopo che mi ero trasferita in Colorado. Eravamo
sedute fuori sotto al portico e il nostro vicino colombiano si è avvicinato e ha
iniziato a parlarle in spagnolo. Lei ha risposto in spagnolo e in seguito mia figlia
ha detto “Non avevo mai sentito nonna parlare in spagnolo”. È stata la prima volta
in cui mi sono resa conto che non aveva mai parlato in spagnolo neanche con noi.
Mia madre è venuta negli Stati Uniti per la prima da adolescente durante il
violento regime di Machado, negli anni Trenta, ed è stato tremendo perché non
parlava inglese. Più tardi mi è venuto in mente che la sua decisione di rivolgersi a
noi in inglese (invece che in spagnolo) può esser stata il risultato della sua
esperienza. Glielo ho riferito qualche tempo fa e lei mi ha risposto “Non ci avevo
mai pensato, ma probabilmente è vero”. Quindi abbiamo tutti imparato spagnolo a
orecchio. Mio padre, pobrecito, lo ha imparato nello stesso modo. Era irlandeseamericano e diceva cose in Spanglish come “quiero un poco de juicy”. I suoi
genitori erano morti e la maggior parte dei suoi parenti era ancora in Irlanda,
quindi ha imparato spagnolo per legittima difesa perché quasi tutti in casa lo
parlavano. Persino i parenti di mia madre a Miami non parlavano inglese. Sono
venuti e non lo hanno mai imparato. Quindi abbiamo tutti imparato lo spagnolo
ascoltando le loro conversazioni.
10) Anche i suoi figli parlano spagnolo?
Una delle mie figlie ama lo spagnolo e lo ha insegnato per tre anni. Mio
figlio e l’altra figlia sono andati a lezione di spagnolo dopo la laurea e anche loro
lo amano. Lo capiscono molto bene, in parte perché il loro nonno paterno parlava
341
solo spagnolo – era catalán. Anche il mio ex marito è cresciuto parlando spagnolo,
quindi ascoltavano lo spagnolo continuamente in casa.
Quando i miei lettori si imbarcano nei passi in spagnolo di Pearl (nel
taccuino verde in pelle marocchina), molti sono seccati e frustrati. Alcuni dei
brani provengono, in realtà, dal quaderno di scuola elementare di mia nonna che
ho trascritto, o vengono da articoli di giornale de El diario de la marina, che lei
ritagliava e conservava.
In risposta io chiedo alle persone di considerare chi sta leggendo il
taccuino. Chi lo sta guardando nel romanzo? Naturalmente è Lilly. Quindi
immaginate come vi sentireste nei suoi panni, ad affrontare questa barriera
impenetrabile della lingua? Se non riuscite a leggerlo, allora vi potete identificare
con Lilly e potete iniziare a immaginare come sarebbe scoprire che anche la porta
del vostro passato è chiusa a chiave. Chi legge si deve chiedere perché gli scrittori
incorporino lingue straniere nelle loro opere. Non è gratuito, non è per farli
arrabbiare.
Come ho detto prima, non si può sempre tradurre tutto – specialmente se si
tratta di esperienza e cultura. Nel ruolo di lettori-estranei, ci si trova sempre a
tradurre. In definitiva ciò che si sta traducendo diventa qualcosa di diverso e
nuovo. Metaforicamente, questo atto di traduzione rappresenta un modo per
negoziare le culture linguisticamente. Quindi, in un certo senso, inserire lo
spagnolo nel romanzo rappresenta il tentativo di Lilly di negoziare due lingue e
due mondi.
Gli immigrati di solito hanno un’esperienza simile al contrario, con l’inglese.
342
Sì, la questione della lingua è fondamentale, non solo per la formazione di
un’identità ma per lo sforzo d’integrazione in una cultura straniera; quindi per gli
immigrati può rappresentare uno dei modi in cui sono imbrigliati in due mondi e
due culture.
11) In Cuba: Idea of a Nation Displaced cita il concetto di “mnemostoria” di
Jan Assmann, secondo il quale noi “siamo ciò che ricordiamo” e la memoria è
un’interazione costante di storia, immaginazione, sogno e nostalgia. Come
pensa che la memoria individuale e collettiva interagiscano in un romanzo o
nel mondo reale?
Ciò che amo di Assmann è che non è interessato tanto a trovare le “verità”
della storia, quanto alle idee e alle memorie che vengono accolte e tramandate.
Mentre insegnavo a Lublin come docente Fulbright10 mi sono resa conto, dopo
aver parlato con i miei studenti, che la Polonia è “scomparsa” o è stata cancellata
come nazione per circa centoventissette o centoventotto anni. C’è stata una
diaspora e gruppi di polacchi si sono sparpagliati in tutta Europa o sono emigrati
negli Stati Uniti. Una folta comunità si è stabilita in Francia e molti dei miei
studenti erano nipoti o pronipoti di quelle persone. La cosa sorprendente è che
hanno portato con loro la cultura e hanno preservato una coscienza comune (che
comprendeva idee individuali e un senso della memoria collettiva).
Nell’introduzione al mio nuovo libro Cuban Artists Across the Diaspora:
Setting the Tent Against the House, oltre che al concetto di mnemostoria di
Assmann, mi sono ispirata alla fisica quantistica che non si preoccupa di dove sia
un oggetto, fisicamente, ma piuttosto di dove potrebbe essere. Quindi non mi
interessa particolarmente di chi sia la storia vera o la più “forte”. Mi interessano di
più le storie che viaggiano nel tempo, le “verità” collettive – talvolta in
10
O’Reilly Herrera è stata Fulbright Distinguished Chair in American Studies presso la Maria
Curie-Sklodowska University di Lublin (Polonia), nell’a.a. 2005-2006.
343
contraddizione – che sono accolte dalla comunità e preservate di generazione in
generazione. Difatti, io rifiuto la concezione lineare o binaria del pensiero e della
conoscenza. E non mi preoccupo di trovare risposte certe e conclusive. In realtà
non mi interessa mai qual è “la risposta”, ma piuttosto tutte le possibili risposte,
che potrebbero anche essere in contraddizione. Ha senso?
Sì, assolutamente. Quest’ultima idea mi ha ricordato dell’origine della
mostra CAFÉ, ispirata da una conversazione tra tre artisti diasporici cubani
– Leandro Soto, Yovani Bauta e Israel León – che si erano resi conto della
possibilità di perpetuare il rituale del caffè, alla cubana, ovunque ci si trovi
nel mondo.
Sì, certo, e gli ingredienti cambiano e l’ambiente in cui il caffè è fatto è
soggetto a cambiamento, quindi c’è sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di
vecchio, qualcosa che si muove o cambia e qualcosa che rimane costante o stabile.
È un equilibrio di molteplici elementi che sono spesso in un rapporto paradossale
e li prendiamo in considerazione tutti, in movimento, ogni cosa che si trovi lì.
In quel momento e in quel luogo.
Esattamente, per questo la metafora centrale di CAFÉ ha perfettamente
senso per me. Anni fa ho studiato con il teorico cubano Antonio Benítez-Rojo –
che è stato il mio mentore e la mia guida e ha appoggiato ogni cosa che ho fatto. È
stato il primo a concepire la possibilità del paradosso e dell’armonia. Un giorno,
mentre studiavo con lui in un laboratorio all’Università di Miami, ha trattato
questo argomento e lo ha descritto come una sensibilità peculiare dei Caraibi. Io
ho alzato la mano e ho detto che mi ricordava la giocoleria. Hai tutte queste
nozioni o idee in aria simultaneamente e possono essere contraddittorie o
paradossali; non vanno sempre insieme. Ma sono tutte in aria e il trucco è
semplicemente di mantenerle lì, senza cercare di separarne una o l’altra. La cosa
344
più importante è che esse siano tutte sospese in aria, simultaneamente. Lui ha
risposto “È proprio questo. Hai capito!”.
Due dei miei migliori amici cubani hanno corroborato questa idea. Sono
fisici e quando discutevamo di letteratura, loro parlavano di fisica quantistica e
facevano dei paralleli. Attraverso di loro ho iniziato a vedere la bellezza della
fisica e come la letteratura richiami i principi e i fondamenti che loro descrivevano.
Anche le nostre conversazioni mi hanno influenzato molto. Difatti, essi hanno
formulato una modalità per esprimere non un’identità (perché non uso questa
parola) ma una consapevolezza o un “modo di essere” che secondo Antonio era
peculiare dei Caraibi. Nel mio ultimo libro sull’arte della diaspora cubana ho
cercato di proporre un modo molto più aperto e inclusivo di concepire il senso di
appartenenza e ciò che costituisce la cubanità o una consapevolezza cubana e, in
questo caso particolare, un artista cubano. È un quadro teorico che potresti usare
per analizzare Pearl. Naturalmente questa idea mette a disagio molte persone,
perché è più sicuro pensare in modo binario. Ma se si adotta un pensiero binario,
immediatamente queste questioni vengono politicizzate perché o appartieni o non
appartieni, sei qui o lì.
12) Che relazione ha, in questo momento, con la comunità cubana di Miami?
Dipende con chi sono e dove sono. La ricezione del mio lavoro in Europa
è completamente diversa da quella che ho qui. Alcuni americani e cubani si
sentono a disagio per le mie opere e in particolare per il mio punto di vista teorico.
Gli americani tendono a interpretare Cuba influenzati dalle politiche razziali, di
classe e di genere negli Stati Uniti; o etichettano il mio lavoro come politicamente
troppo conservatore, ed esaltano il regime pur avendo una scarsa conoscenza
345
diretta o esperienza di vita all’interno di un sistema totalitario. Altre persone –
compresi alcuni cubani – ritengono che io non abbia il diritto di parlare di Cuba
perché non vi sono nata. Questo solleva la questione che io chiamo gerarchia di
autenticità, che mette in discussione chi può parlare della cultura cubana e chi può
reclamare il dolore o il senso di perdita e sradicamento. Quando ho diffuso
l’invito a presentare proposte per Remembering Cuba, le risposte immediate che
ho ricevuto sono state da persone nate fuori da Cuba – la lost generation di cui
parlo in uno dei miei saggi in Cuba: Idea of a Nation Displaced. Eppure, alcuni
cubani mi hanno detto che non ho il diritto di “appropriarmi” della loro cultura. Se
si sollevano queste questioni o si usano questi criteri per stabilire chi è autorizzato
a parlare, io so già che non si centra il punto.
13) È mai stata a Cuba?
Sai, ogni tentativo che ho fatto per andare a Cuba è stato ostacolato. Credo
che sia per i miei libri. Ma un giorno – al momento giusto – ci andrò.
Non potrebbe andare come turista?
Non voglio andare illegalmente. E fondamentalmente, non voglio andare a
Cuba da turista. Voglio andare per quello che sono - una cubanita pasada por
agua11 – e presentare il mio lavoro. Spero, considerando alcuni dei cambiamenti
che stanno accadendo ora, che accadrà presto.
11
Uno dei saggi che O’Reilly Herrera ha scritto per Remembering Cuba si intitola proprio “Una
cubanita pasada por agua”. Al suo interno l’autrice spiega che “After overhearing me tell a Puerto
Rican shopkeeper, in Spanish, that I was Cuban, my mother affectionately began referring to me as
una cubanita pasada por agua – a little Cuban girl “passed” through water / Dopo avermi sentito
dire a un negoziante portoricano, in spagnolo, che ero cubana, mia madre ha iniziato
affettuosamente a chiamarmi una cubanita pasada por agua – una piccola cubana passata sotto
l’acqua”. Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, Remembering Cuba, 317.
346
Ho sentito che Cristina García è censurata a Cuba. È lo stesso anche per le
sue opere? Si possono comprare i suoi libri a Cuba?
Onestamente, penso di no.
14) Come concepisce la diaspora cubana?
Molti degli artisti che ho intervistato per il mio ultimo libro concepiscono
la diaspora come una possibilità creativa. Hanno usato la loro arte per ricreare uno
spazio nella diaspora che riflette una storia di movimento, integrazione, sintesi e
trasformazione, processi che hanno sempre caratterizzato Cuba – a partire dalla
colonizzazione spagnola, l’immigrazione, l’emigrazione e i molteplici esili, prima
di Martí e fino a ora. Il movimento è stato sempre parte integrante della storia
cubana e ha forgiato la consapevolezza cubana. Quando si parla di assorbire nuovi
elementi culturali, tutti questi artisti lo vedono come qualcosa di naturale, perché
la cultura cubana è ricettiva ed eclettica, è un ajiaco 12 (usando la metafora di
Ortiz). Per capire questo si deve prima conoscere la storia dei Caraibi. Le tue
radici non sono in nessun posto e sono dappertutto.
Un mio caro amico cubano dice spesso che “la casa è la famiglia e gli amici”.
Sì sono d’accordo; aggiungerei che la casa è come una tenda – e la si può
ricreare ovunque ci si trovi. In questo senso, è il viggio in sé.
12
Uno stufato tipico dei Caraibi e del Sudamerica in cui si mescolano ingredienti molto eterogenei.
Fernando Ortiz preferisce la metafora panamericana dell’ajiaco per descrivere l’ibridismo e
l’ecletticità culturale delle Americhe, piuttosto che l’immagine statunitense del melting pot.
Fernando Ortiz, “Del fenómeno social de la ‘transculturación’ y de su importancia en Cuba”
(Revista bimestre cubana 46, 1940): 161-186.
347
348
Conclusioni
La mia analisi narratologica, linguistica e culturale delle tre opere prese in
esame è stata condotta attraverso le coordinate dell’immaginazione genealogica e
dell’identità generazionale, concepite come linee guida per far affiorare quel
palinsesto di eredità visibili e invisibili con cui ciascuno dei narratori-protagonisti
si è confrontato 13 . A partire dall’impulso post-individualista a concepire la
famiglia come microcosmo di cultura, essi ricostruiscono infatti – attraverso la
narrazione – un tessuto transgenerazionale di memorie, traumi, lingue e voci del
passato, sottoposti a una complessa operazione di assimilazione, traduzione,
trasformazione e sintesi, che permette a ciascuno di rinnovare continuamente la
propria identità nel presente.
Nonostante le significative differenze storiche e socioculturali delle tre
comunità ispaniche da cui provengono le famiglie protagoniste delle opere, le loro
vicende ci restituiscono un’immagine allargata e proteiforme dell’identità dei
Latinos negli Stati Uniti, costantemente ridefinita in un interspazio ibrido e
contrappuntistico in cui riferimenti culturali contrastanti, lingue sommerse e
tradizioni secolari vengono contaminate e reinventate. La loro esperienza
eterogenea e fluida si configura, di volta in volta, come un “ajiaco de
contradicciones” 14 o un “sancocho”15: metafore culinarie in cui rivive il processo
13
O’Reilly Herrera descrive la sua eredità cubana come “palimpsest of visible/invisible
inheritances” nella sua prefazione a Remembering Cuba, xxx.
14
“Ajiaco di contraddizioni”. Nel paragonarsi al famoso stufato della cucina cubana, lo scrittore e
accademico cubano-americano Pérez Firmat rende omaggio alla famosa immagine con cui
349
ininterrotto di transculturazione attraverso il quale le due Americhe, ormai da
secoli, collidono e si rigenerano allo stesso tempo16.
Quando l’identità magmatica dei Latinos viene descritta attraverso le
coordinate spazio-temporali del romanzo multigenerazionale, essa può emergere
in tutta la sua dirompenza come “poly-rhytmic […] ensemble” 17 come nel
modello di trasmissione culturale elaborato da Benítez-Rojo in cui continuità e
trasformazione, differenza e ripetizione possono convivere. Grazie al respiro
multisecolare e alla frizione costante tra elementi diacronici e sincronici che
caratterizzano questo genere di romanzo, anche all’interno di un apparente caos
possono infatti emergere quelle dinamiche culturali costanti che vengono
tramandate di generazione in generazione e costantemente rinnovate, pur nella
loro ciclicità18.
Riprendendo una delle immagini più vivide che mi ha lasciato O’Reilly
Herrera in occasione della nostra intervista, immagino i tre autori presi in esame
l’etnologo Fernando Ortiz aveva descritto Cuba. Gustavo Pérez Firmat, “Carolina Cuban”,
Bilingual Blues: Poems, 1981-1994 (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1995) 164.
15
Il sancocho è una zuppa a base di carne, tuberi e verdure tipica di tutto il Sudamerica. Le sue
origini si fanno risalire alla cucina Taina, contaminata con quella spagnola e di altre tradizioni
culinarie europee. Flores, From Bomba to Hip-Hop, 58.
16
Bronislaw Malinowski, nella sua introduzione all’opera di Ortiz, sintetizza efficacemente il
concetto di trasculturazione affermando che: “Todo cambio de cultura, o [...] toda transculturación,
es un proceso en el cual siempre se da algo a cambio de lo que se recibe; es un ‘toma y daca’,
come dicen los castellanos. Es un proceso en el cual ambas partes de la ecuación resultan
modificadas. Un proceso en el cual emerge una nueva realidad, compuesta y compleja; una
realidad que no es una aglomeración mecánica de carácteres, ni siquiera un mosaico, sino un
fenómeno nuevo, original e independiente. / Ogni cambiamento di cultura, o [...] transculturazione,
è un processo in cui si da sempre qualcosa in cambio di ciò che si riceve; è un ‘dare e avere’ come
dicono gli spagnoli. È un processo in cui emerge una realtà nuova, composta e complessa; una
realtà che non è un agglomerato meccanico di caratteri e neanche un mosaico, bensì un fenomeno
nuovo, originale e indipendente”. Bronislaw Malinowski, “Introducción”, Contrapunteo cubano
del tabaco y el azúcar, Fernando Ortiz (Caracas: Biblioteca Ayacucho, 1978) 5.
17
“Insieme poliritmico”. Antonio Benítez Rojo, The Repeating Island: The Caribbean and the
Postmodern Perspective (Durham, NC: Duke University Press, 1992) 27-28.
18
Di fatto, secondo Benítez Rojo: “Within this chaos of difference and repetitions, of
combinations and permutations, there are regular dynamics that co-exist. / All’interno di questo
caos di differenza e ripetizioni, di combinazioni e trasformazioni, ci sono dinamiche regolari che
coesistono”. Ibidem, 81.
350
in questa tesi come “giocolieri” intenti a mantenere costantemente in aria i
molteplici elementi etnici, genealogici e generazionali che animano l’identità delle
proprie comunità d’origine e sopravvivono al passaggio della storia, rafforzati da
pratiche sociali e artistiche che ne garantiscono la continuità e la trasformazione,
oltre ogni confine di appartenenza geografica. Le loro opere sono dunque
strumenti pulsanti di transculturazione, capaci di elevare l’esperienza minoritaria
dei Latinos a paradigma universale di trasmissione e rielaborazione della memoria,
del ricordo e di una coscienza culturale, assumendo in questo modo i tratti di una
“impossible science of the unique being”19, di un modello allo stesso tempo unico
e plurale, specifico e generale.
Il romanzo multigenerazionale può dunque veicolare un nuovo approccio
critico per riconsiderare le dinamiche identitarie e le espressioni artistiche delle
minoranze etniche e dei popoli che temono la minaccia dell’oblio, per la sua
capacità straordinaria di enfatizzare i legami genealogici e la trasmissione
transgenerazionale del senso di appartenenza culturale, che lascia in secondo
piano e sminuisce parallelamente il ruolo delle origini geografiche.
Di fronte a una modernità frammentata e caratterizzata da flussi ininterrotti
in cui siamo tutti sempre più immersi in uno spazio delocalizzato, ibrido e
pluriculturale, il romanzo multigenerazionale può dunque racchiudere depositi
emblematici di significato, attraverso i quali rileggere il proprio vissuto, per dare
un senso a ciò che è stato e prefigurare il futuro di ciascuno. Ci permette infatti di
riscoprire una sorta di corrispondenza vivente tra passato e presente in cui
rielaborare traumi e ferite, facilitando l’identificazione anche con una storia che
19
“Scienza impossibile dell’essere unico”. Barthes, Camera Lucida, 71.
351
non abbiamo vissuto in prima persona20. Risponde, in definitiva, al bisogno di
organizzare lo scorrere del tempo, dandogli una forma, un ritmo e un senso,
seppur fittizio e soggetto a continue metamorfosi, così come avviene, secondo
Frank Kermode, nel momento in cui ricostruiamo un inizio e una fine
immaginarie per il tic-tac dell’orologio:
The clock’s “tick-tock” I take to be a model of what we call a plot,
an organization which humanizes time by giving it a form; and the
interval between “tock” and “tick” represents purely successive,
disorganized time of the sort we need to humanize.21
Se le Americhe e i Caraibi sono sempre stati un luogo di convergenza, di
flussi migratori, di scambi economici e di impollinazioni incrociate, la loro cultura
stratificata e in perenne movimento trova il suo simbolo più potente nelle
metafore acquee del Río Grande e dell’Oceano Atlantico che affiorano dalle
pagine dei romanzi analizzati e che rivivono, in tutta la loro potenza,
nell’esperienza letteraria dei tre autori. Il Río Grande è per Candelaria emblema
universale di ciclicità, della marcia inevitabile della storia, ma anche del
cambiamento incessante e del legame transgenerazionale. Rappresenta inoltre una
sorta di ferita aperta tra passato e presente, inglese e spagnolo, Primo e Terzo
20
In riferimento alle foto di famiglia, ai romanzi genealogici e a tutti quegli oggetti o forme
espressive attraverso le quali si rielabora il passato, Marianne Hirsch afferma infatti che “they
function as screens that absorb the shock, filter and diffuse the impact of trauma, diminish harm. In
forging a protective shield particular to the postgeneration, one could say that, paradoxically, they
actually reinforce the living connection between past and present, between the generation of
witnesses and survivors and the generation after. / Fungono da schermo che assorbe lo shock,
filtrano e attutiscono l’impatto del trauma, diminuiscono il dolore. Forgiando uno scudo
protettivo specifico della post-generazione, paradossalmente, si potrebbe dire che in realtà
rinforzino la corrispondenza vivente tra passato e presente, tra la generazione dei testimoni e dei
sopravvissuti e la generazione successiva”. Hirsch, “The Generation of Postmemory”, 125.
21
“Considero il ‘tic-tac’ dell’orologio un modello di ciò che chiamiamo trama, un’organizzazione
che umanizza il tempo dandogli una forma; e l’intervallo tra ‘tic’ e ‘tac’ rappresenta un tipo di
tempo disorganizzato e semplicemente in successione che abbiamo bisogno di umanizzare”. Frank
Kermode, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction with a New Epilogue (New
York: Oxford University Press, 2000) 45.
352
mondo, Nord e Sud che gli autori Latinos cercano incessantemente di ricucire con
la propria scrittura22.
È sull’Oceano Atlantico, invece, e sulla memoria del middle passage che
esso racchiude, che si iscrive l’identità in perenne movimento della diaspora
portoricana e cubana, nella loro matrice afrocaraibica, ispanica, meticcia e, oggi,
anche angloamericana. L’esperienza portoricana, nello specifico, è caratterizzata
dalla possibilità di andare sull’isola e ritornare negli Stati Uniti ininterrottamente.
Questo costante via vai fisico e mentale spesso si traduce nell’impossibilità di
gettare un’ancora in nessuno dei porti, come avveniva ne “El barco que nunca
atraca”23 di Lorna Dee Cervantes, e come sembra trapelare dal disagio profondo
dell’esperienza di Edward Rivera. Forse per questo la coscienza della diaspora
portoricana non risiederebbe né sull’isola, né sul continente, ma piuttosto
22
La metafora della “ferita aperta” appartiene a Gloria Anzaldúa che l’ha usata per descrivere il
fecondo e complesso meticciato culturale che si ricrea sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti e, in
generale, in tutte le zone di confine: “The U.S.-Mexican border es una herida abierta where the
Third World grates against the first and bleeds. And before a scab forms it hemorrhages again, the
lifeblood of two worlds merging to form a third country – a border country. / Il confine tra Stati
Uniti e Messico è una ferita aperta in cui il Terzo mondo sfrega contro il Primo e sanguina. E
prima che si formi una crosta, perde ancora sangue, la linfa vitale di due mondi si fonde per
formare un terzo Paese – un paese di frontiera”. Anzaldúa, Borderlands: La Frontera, 25.
23
“La barca che non attracca mai”. Si tratta del verso finale della famosa poesia “Refugee Ship”
della poetessa chicana Lorna Dee Cervantes. “Like wet cornstarch, I slide / past my grandmother’s
eyes. Bible / at her side, she removes her glasses. / The pudding thickens. / Mama raised me
without language. / I’m orphaned from my Spanish name. / The worlds are foreign, stumbling on
my tongue. I see in the mirror / my reflection: bronzed skin, black hair. / I feel I am a captive /
Aboard the refugee ship. / The ship that will never dock. / El barco que nunca atraca”. In italiano
la poesia è stata tradotta da Franca Bacchiega: “Come amido bagnato sguscio via / sotto gli occhi
della nonna. La bibbia / a lato, lei si toglie le lenti. / Il budino s’addensa. // Mamma m’ha allevato
senza lingua. / Sono orfana del mio nome spagnolo. Le parole sono forestiere, tartagliano / sulla
mia lingua. Vedo nello specchio / la mia immagine riflessa: pelle di bronzo, capelli neri. // Mi
sento prigioniera / su una nave di emigranti. / La nave che non attraccherà mai. / El barco que
nunca atraca”. Lorna Dee Cervantes, “Refugee Ship”, Sotto il Quinto Sole: Antologia di poeti
chicani, ed. Franca Bacchiega (Firenze, Passigli, 1990) 106.
353
nell’immagine dell’aereo ricreata da Luis Rafael Sánchez, che fluttua e trasporta
costantemente i portoricani da un lato all’altro24.
Lo stesso oceano separa e unisce Cuba dalle coste della Florida e dal resto
del mondo e appare alternativamente come chiusura e limite invalicabile, ma
anche come immagine perenne di fluidità e movimento. Con la loro scrittura,
Candelaria, Rivera e O’Reilly Herrera si trovano quindi a navigare nelle acque
turbolente delle due Americhe e, allo stesso tempo, nell’oceano delle idee in cui
secondo Salman Rushdie ogni autore è inevitabilmente immerso, in una fitta rete
di rimandi interstestuali e multiculturali (più o meno consapevoli) che rendono
ogni opera letteraria parte di un complesso ed eterogeneo polisistema globale25.
La loro immaginazione è dunque:
non come un continente ma come un oceano. Lo scrittore galleggia su
questo mare sconfinato, in una libertà tremenda, e con le mani nude
cerca di compiere la magica opera della metamorfosi: come il
personaggio della fiaba, costretto a filare la paglia per trasformarla in
oro, lo scrittore deve trovare un trucco per comporre insieme la trama
delle acque finché divengano terra; finché subentri, all’improvviso, la
solidità laddove c’era solo flusso, e la forma dove tutto era informe,
fino a sentire il terreno sotto i suoi piedi.26
A Daughter’s a Daughter, Family Installments e The Pearl of the Antilles
sono dunque il terreno che i tre autori ricostruiscono componendo insieme storia,
memoria, nostalgia e immaginazione fino a dare solidità alla mnemostoria della
propria famiglia e della propria comunità. Il romanzo multigenerazionale è il
mezzo attraverso il quale essi possono “simultaneously expurgate and capture
[their] inner vision – a vision that is driven, in part, by unseen and inexplicable
24
“La guagua aérea” o “l’aereo passeggeri” è il titolo del racconto di Luis Rafael Sánchez
divenuto emblematico per descrivere il pendolarismo che caratterizza la diaspora portoricana. Luis
Rafael Sánchez, La Guagua Aerea/ The Airbus. Editorial Cultural, 1994.
25
Itamar Even-Zohar, “Polysystem Studies” (Poetics Today 11.1, 1990).
26
Salman Rushdie, “Scrittori: ecco quali ho preferito fra tutti”, La Repubblica, 10 marzo 1999, 36.
354
ancestral forces”27, le stesse forze che Candelaria riconduce al flusso ininterrotto
di una meditazione: “I’m not conscious when I write, it is almost like meditating
at times, it just flows and comes from wherever”28.
Essi riportano dunque alla luce il legame intenso e inestricabile tra arte e
vita, così come la rete sottile che collega invisibilmente scrittori, pittori e musicisti,
tutti accomunati dallo stesso tentativo di costruire cartografie alternative, in
risposta a una modernità discontinua 29 . Sarebbe interessante a questo punto
esplorare come il lavoro di post-memoria di cui sono frutto i tre romanzi
multigenerazionali oggetto di questa tesi, venga trasposto ad altre forme artistiche,
sempre nel contesto socio-culturale degli Stati Uniti.
Ad avvalorare questa nuova linea di indagine contribuisce l’attuale
fioritura culturale da parte dei Latinos, in ogni campo artistico e in particolare
nelle arti visive 30 . Non è un caso che due degli accademici ai quali ho
27
“Simultaneamente espurgare e catturare la [loro] visione interiore – una visione guidata, in parte,
da forze invisibili, inspiegabili e ancestrali”, “Andrea O’Reilly Herrera” (Contemporary Authors
193, 2001), 192.
28
“Non sono consapevole quando scrivo, a volte è come una meditazione, che si sviluppa e viene
da qualsiasi parte”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5.
29
L’immagine suggestiva dell’arte come cartografia alternativa è stata ripresa da O’Reilly Herrera,
secondo la quale gli artisti cubano-americani oggetto della sua ultima monografia producono
“alternative cartographies as they re-create or reimagine space in response to a nonlinear
modernity. / Cartografie alternative, poiché ricreano e ri-immaginano lo spazio in risposta a una
modernità non lineare”. Andrea O’Reilly Herrera, “Introduction”, Cuban Artists Across the
Diaspora, 3.
30
Un esempio originale di questa fioritura è l’ironia pungente dei fumetti di Lalo Alcaraz, il
disegnatore messico-americano autore del primo fumetto-politico a tiratura nazionale dedicato ai
Latinos, La Cucaracha (Kansas City: Andrews McMeel Publishing, 2004). Alcaraz è anche autore
di Migra Mouse: Political Cartoons on Immigration (New York: RDV Books, 2004), e illustratore
dell’esilarante manuale di storia dei Latinos a fumetti di Ilan Stavans: Latino U.S.A.: A Cartoon
History (New York: Basic Books, 2000). Per maggiori informazioni su Lalo Alcaraz si può far
riferimento al suo sito web: <http://laloalcaraz.com/>. Data di accesso, 16 gennaio 2013. In campo
musicale, invece, è di particolare rilievo il programma “Alt.Latino” della radio nazionale
statunitense NPR, interamente dedicato alla diffusione della Latin Alternative Music del Nord e
Sud America; dai grandi classici della salsa come José “Cheo” Feliciano o della Nueva Trova
Cubana come Silvio Rodríguez, fino ai gruppi più dirompenti dell’indie rock e dell’hip hop
contemporaneo come Calle 13, Carla Morrison e Ana Tijoux. In ogni puntata del programma la
playlist musicale viene integrata da approfondimenti sui fenomeni storico-culturali di maggior
rilievo per i Latinos, spesso con l’intervento di personaggi popolari come gli scrittori Sandra
355
maggiormente fatto riferimento per la scrittura di questa tesi, Andrea O’Reilly
Herrera e Gary Francisco Keller, negli anni abbiano spostato il focus della loro
ricerca dalla critica letteraria alle arti visive dei Latinos, sempre attraverso la lente
degli studi culturali.
Con la monografia Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent
Against the House (2011) e attraverso le celebrazioni di Cuba Transnational,
O’Reilly Herrera si è infatti contraddistinta come una delle maggiori promotrici
dell’arte cubano-americana contemporanea; mentre Gary Francisco Keller è stato
tra i principali curatori di tre opere monumentali per il riconoscimento e la
diffusione dell’arte messico-americana degli ultimi quaranta anni, con i volumi:
Contemporary Chicana and Chicano Art I-II (2002), Chicano Art for Our
Millennium: Collected Works from the Arizona State University Community
(2004) e Triumph of Our Communities: Four Decades of Mexican American Art
(2005). Alcuni dei movimenti artistici e delle opere descritte in questi volumi si
sono rivelate ai miei occhi come tentativi di ricostruzione, a livello grafico-visivo,
di una mnemostoria e di un tessuto identitario intergenerazionale, del tutto simile
a quello a cui hanno dato vita gli autori oggetto della mia tesi, attraverso la
scrittura.
Cisneros o Junot Díaz, o l’attore e regista Gael García Bernal (solo per citare alcuni esempi),
chiamati a esprimere la loro idea di Latinidad. È significativo il modo in cui i presentatori del
programma, Jasmine Garsd e Felix Contreras, definiscono la musica di “Alt.Latino”: “Borders and
boundaries mean nothing to us. Latin Alternative is a little bit of everything from everywhere
mixed into a completely new Latino soundscape. / Frontiere e confini non significano nulla per
noi. La musica alternativa ‘Latina’ racchiude un po’ di tutto, da ogni luogo, mescolato in un
paesaggio sonoro ‘Latino’, completamente nuovo”. Jasmine Garsd e Felix Contreras, “What Is
Latin Alternative Music? And Who Are We?”, NPR Music, Alt. Latino,
<http://www.npr.org/blogs/altlatino/2010/08/03/128963147/who-we-are>.
Per
informazioni
generali sul programma si può far riferimento all’home page: <http://www.npr.org/series/altlatino/> . Data di accesso 12 gennaio 2013.
356
Ne sono un esempio le affascinanti opere dell’artista messico-americano
Alfredo Arreguín, nato in Messico nel 1935 e trasferitosi a Seattle nel 1956, dove
continua a portare avanti una carriera artistica, consolidata da premi e
riconoscimenti illustri da parte sia del governo messicano sia di quello
statunitense31. In un tripudio di colori, i suoi quadri rendono omaggio alla cultura
precolombiana, messicana e chicana, rappresentandone i simboli più potenti, le
figure mitologiche, gli eroi della storia, la fauna e la flora lussureggiante,
attraverso una tecnica pittorica elaboratissima e stratificata che richiede
un’osservazione molto attenta per essere decifrata in toto. I personaggi illustri
rappresentati in primo piano nelle sue opere (Emiliano Zapata, César Chávez,
Diego Rivera, Frida Kahlo, San Francesco, La Virgen de Guadalupe, solo per
citarne alcuni) vengono infatti composti attraverso la sovrapposizione complessa
di miniature (piccoli disegni di fiori, stelle, croci, spirali, figure geometriche e
frattali), che ricreano una moltiplicazione di immagini e di visioni a strati. Sarà
l’osservatore a ricomporre questa rete complessa di simboli, nel dettaglio e nella
visione d’insieme, ricostruendo in tal modo la mnemostoria veicolata da Arreguín.
In “La Malinche” 32 ad esempio, la figura della schiava e traduttrice di
Cortés viene ricreata attraverso una miriade di piume, maschere, ventagli, animali
31
Per maggiori informazioni sul pittore, si può far riferimento al suo sito internet ufficiale
<http://www.alfredoarreguin.com/>. Ho trovato molto utili anche le seguenti pagine web:
l’archivio
di
artisti
chicani
della
Evergreen
State
College
Library
<http://chicanolatino.evergreen.edu/artists/alfredo_arreguin/bio.php>, che comprende anche una
galleria
virtuale
delle
sue
opere:
<http://chicanolatino.evergreen.edu/displayArtwork.php?artistId=alfredo_arreguin&currImageNu
m=1>; e la notizia apparsa sul sito della University of California, Riverside, su di un importante
riconoscimento ricevuto dall’artista <http://newsroom.ucr.edu/1790>. Data di accesso 12 gennaio
2013.
32
L’opera è disponibile in appendice a questa tesi e sul catalogo virtuale che integra il libro
Chicano
Art
for
Our
Millennium,
<http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/06CulturalIcons/Cultural3Lrg1.ht
ml>. Dall’home page del sito si può accedere all’introduzione e al catalogo completo del volume:
357
esotici e geometrie tribali da cui emerge, quasi magicamente in primo piano, la
figura della donna in abiti regali, con il volto coperto da due maschere, quella
europea bianca e quella marrone meticcia. Alle sue spalle appare il dio della
fertilità Tlaloc, a ricordare la sua natura di madre del Messico, nazione fondata sul
meticciato di cui la Malinche è il simbolo per eccellenza. Con questa tela, l’autore
non solo ricostruisce i miti delle proprie origini, ma riabilita anche la figura di
Doña Marina per le future generazioni: “I hope her apparition on my canvas
transcends the negativism against her, and that future generations will celebrate
her as our mom. Que viva La Malinche, Nuestra Madre!”33.
Sul versante cubano-americano, invece, mi ha particolarmente colpito
un’istallazione all’interno di Cuba Transnational dell’artista cubano Leandro
Soto, trapiantato dall’età di 33 anni in Arizona34. Si tratta di “Kachireme’s Visit in
Arizona”: una tela ondulata e coloratissima che si srotolava lungo le pareti della
stanza a lui dedicata, mostrando infinite sovrapposizioni di volti, divinità tribali
afro-caraibiche, note musicali, tamburi, vegetazione tropicale, cactus e rocce del
deserto. Mi ha incuriosito, in particolare, la rappresentazione dell’isola di Cuba
attraverso una miriade di tazzine di caffè. Da alcune di esse, disposte sul lato
<http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/index.html>. Data di accesso 12
gennaio 2013.
33
“Spero che la sua apparizione sulla tela trascenda la negatività contro di lei e che le future
generazioni la celebrino come nostra madre. Que viva La Malinche, Nuestra Madre!”. Alfredo
Arreguín,
“Artist
Directory”,
Latino
Art
Community:
<http://latinoartcommunity.org/community/ChicArt/ArtistDir/AlfArr.html>. Data di accesso 12
gennaio 2013.
34
Durante le manifestazioni di Cuba Transnational (da maggio a ottobre del 2011) il Sangre de
Cristo Arts Center di Pueblo (Colorado) ha ospitato quattro mostre: “CAFÉ XII: The Journeys of
Writers and Artists of the Cuban Diaspora”, “Woman.embodied”, “FACES: 100 Cuban Artists”,
“Cuba in the Southwest: The Art of Leandro Soto”. L’istallazione a cui faccio riferimento
apparteneva proprio a quest’ultima mostra, dedicata esclusivamente all’artista. In appendice a
questa tesi, includo delle foto di “CAFÉ XII” e di “Cuba in the Southwest”, con dei primi piani
dell’opera di Soto “Kachireme’s Visit in Arizona”. Per maggiori informazioni sull’artista si può
far riferimento anche al suo sito internet ufficiale: <http://www.leandrosoto.com/>. Data di
accesso 12 gennaio 2013.
358
nord, fuoriesce del fumo che assume la forma di tanti corpi umani che sembrano
distaccarsi dall’isola. Quando ho letto l’iscrizione fatta da Soto sull’opera, ho
capito che la costellazione di simboli apparentemente slegati che la tappezzavano,
altro non erano che la mnemostoria dell’artista: “In 2005, living in Phoenix, AZ, I
had a dream (all in colors) where my father was asking me to work with my
Cuban traditions…in my art” 35.
Quest’opera diventa ancora più emblematica se letta in correlazione con la
genesi della mostra itinerante CAFÉ, ideata dallo stesso Soto durante un viaggio
nello Yucatán36. Prendendo un caffè alla cubana con gli artisti Yovani Bauta e
Israel León, i tre cominciano a parlare del loro passato a Cuba e delle strategie che
ognuno di loro aveva messo in atto per conservare la propria cubanidad e la
propria identità artistica, incorporando allo stesso tempo nuovi elementi culturali
acquisiti nei Paesi in cui, di volta in volta, erano vissuti. Soto capisce, in quel
momento, che il caffè era stato lo stimolo intellettuale per le loro conversazioni,
oltre che un rituale per preservare la propria identità cubana a prescindere dal
luogo fisico del mondo in cui lo si realizzava. Ai suoi occhi, il caffè diventa
quindi una metafora della condizione della cultura cubana in esilio, tramandata di
generazione in generazione attraverso dei rituali e delle pratiche familiari, e allo
stesso tempo riadattata e rinnovata, incorporando nuovi elementi culturali del
posto.
Il caffè come simbolo per eccellenza di trasculturazione diventerà quindi
l’ispirazione per CAFÉ, la mostra itinerante in cui i quadri, le sculture e le
35
“Nel 2005, vivendo a Phoenix, Arizona, ho avuto un sogno (tutto a colori) in cui mio padre mi
chiedeva di rielaborare le mie tradizioni cubane…nella mia arte”. Le foto di questa installazione
sono disponibili in appendice alla tesi.
36
Andrea O’Reilly Herrera descrive la genesi di questa mostra in “Repeating the Unrepeatable:
Café and the Journeys of Cuban Artists”, Cuban Artists Across the Diaspora, 27.
359
istallazioni di artisti cubani e cubano-americani vengono selezionate e modificate
di volta in volta, in base agli spazi espositivi a disposizione dal curatore Leandro
Soto, che crea allestimenti sempre diversi, a seconda dei luoghi, proprio come
avviene quando si ripete il rituale del caffè, in qualsiasi posto del mondo ci si trovi:
the ingredients and the environment in which the café is made are
subject to change, so there is always something new and something
old, something that moves or changes and something that remains
constant or stable. It is a balance of multiple things that are frequently
in a paradoxical relationship, and you are contemplating all of them in
motion, everything that is there.37
Solo per citare alcuni esempi, lo stesso quadro può apparire con una
cornice diversa da un’edizione all’altra; i gruppi tematici in base ai quali vengono
suddivise le opere non sono mai uguali; a ogni edizione ci sono istallazioni nuove
realizzate con il coinvolgimento delle comunità locali. Nell’edizione proposta
all’interno di Cuba Transnational nel Sangre de Cristo Arts Center, ad esempio,
sul pavimento all’ingresso dello spazio espositivo erano state collocate centinaia
di barchette di carta, che formavano l’isola di Cuba ed erano state realizzate dagli
alunni di una scuola del posto.
Alla luce degli esempi proposti e sulla scia degli studi critici di Andrea
O’Reilly Herrera e di Gary Francisco Keller, sarebbe dunque interessante dare un
seguito alla mia ricerca sul Latino multigenerational novel negli Stati Uniti,
indagando come la trasmissione transgenerazionale della propria coscienza
culturale possa avvenire attraverso le arti visive.
37
“Gli ingredienti cambiano e l’ambiente in cui il caffè è fatto è soggetto a cambiamento, quindi
c’è sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio, qualcosa che si muove o cambia e qualcosa
che rimane costante o stabile. È un equilibrio di molteplici elementi che sono spesso in un rapporto
paradossale e li prendiamo in considerazione tutti, in movimento, ogni cosa che si trovi lì”.
O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5.
360
Appendici: Foto, opere d’arte e immagini
361
FOTO DEGLI AUTORI INTERVISTATI
Figura 1 Nash Candelaria (Santa Fe, 31 maggio 2011)
Figura 2 Andrea O’Reilly Herrera (Phoenix, 21 Aprile 2011)
362
OPERE PRIMARIE ANALIZZATE
Figura 3 Compertine delle tre opere:
Nash Candelaria, A Daughter’s a
Daughter (Tempe, AZ: Bilingual
Press/Editorial Bilingüe, 2008). Andrea
O’Reilly Herrera, The Pearl of the
Antilles
(Tempe,
AZ:
Bilingual
Press/Editorial Bilingüe, 2001). Edward
Rivera, Family Installments: Memories
of Growing Up Hispanic (New York:
Penguin Books, 1986; la prima edizione
dell’opera è del 1982).
363
OPERE D’ARTE SIGNIFICATIVE
Figura 4 José Antonio Burciaga, “The Last Supper of Chicano Heroes”, Casa Zapata, Stanford
University, 1999. Immagine estratta da Gary D. Keller, Triumph of Our Communities: Four
Decades of Mexican American Art (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2005) 301. In
A Daughter’s a Dautgher, contemplando questo affresco la protagonista inizia la ricostruzione
della “mnemostoria” della propria famiglia.
Figura 5 Andrea O’Reilly Herrera, “The Pearl of the Antilles”. Foto dell’acquarello da cui
l’autrice ha tratto ispirazione per la scrittura del romanzo.
364
MNEMOSTORIE GRAFICO-VISIVE
Esempi di ricostruzione di un tessuto identitario multigenerazionale da
parte di artisti Latinos.
Figura 6 Alfredo Arreguín, “La Malinche”. L’opera è inclusa nel volume
di Gary D. Keller et al., Chicano Art for Our Millennium: Collected
Works from the Arizona State University Community (Tempe, AZ:
Bilingual Press, 2004).
È inoltre disponibile sul catalogo virtuale che integra il libro:
http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/06Cultural
Icons/Cultural3Lrg1.html
365
Figura 7 Leandro Soto, “Kachireme’sVisit in Arizona”, Cuba in the Southwest: The Art of
Leandro Soto, 14 Maggio-8 ottobre 2011, Sangre de Cristo Arts Center: Hoag Gallery. Pueblo,
Colorado (USA). L’opera è realizzata su carta artigianale e si presenta come una lunga tela
ondulata (circa 20 metri). La mostra di Leandro Soto è stata organizzata all’interno della
manifestazione Cuba Transnational.
366
Figura 8 Leandro Soto, “Kachireme’s Visit in Arizona”, altri particolari dell’opera. In alto,
risaltano l’isola di Cuba (formata da tante tazzine di caffè) e i cactus (tipici del deserto
dell’Arizona in cui l’artista vive attualmente).
367
Figura 9 CAFÉ XII: The Journeys of Writers and Artists of the Cuban Diaspora, 28 maggio-10
settembre 2011, Sangre de Cristo Arts Center: White Gallery. Pueblo, Colorado (USA). Anche
questa edizione della mostra è stata organizzata all’interno della manifestazione Cuba
Transnational.
368
Figura 10 CAFÉ XII. In ogni edizione di questa mostra itinerante, gli allestimenti delle opere
vengono reinventati dal curatore Leandro Soto, che le adatta ai nuovi spazi espositivi e cerca
sempre il coinvolgimento della comunità locale. Ne sono un esempio queste barchette di carta
che formano l’isola di Cuba, poste all’ingresso della mostra e realizzate da alunni di una scuola
locale.
369
FUMETTI SUI LATINOS
Figura 11 Ilan Stavans, Latino U.S.A.: A Cartoon History. Illustrato da Lalo Alcaraz. New
York: Basic Books, 2000. Dettaglio del manuale di storia dei Latinos a fumetti da cui ho ripreso
la citazione iniziale del Capitolo 2 di questa tesi.
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Figura 10 Due esempi dei fumetti dedicati al Latinos di Lalo Alcaraz, tratti da Migra Mouse:
Political Cartoons on Immigration (New York: RDV Books/Akashic Books, 2004) 49; e da La
Cucaracha (Kansas City, MO: Andrews McMeel Publishing, 2004) 10.
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Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea