SPAZZATURA, ARTE E CINEMA
di Pauline Kael
I
Come quegli eroi cinici, idealisti prima di scoprire che il mondo era più marcio di quanto
pensassero, siamo un po' tutti fuori posto, “lontani da casa”. Quando ci sentiamo sconfitti e
immaginiamo che potremmo stabilirci, mettere su casa e tutto ciò che rappresenta, quella casa
non esiste più. Ma esistono i cinema: in ogni città, possiamo infilarci in una sala e osservare sullo
schermo i vecchi, noti ideali invecchiare insieme a noi e apparire sempre meno ideali. In quale
altro luogo possiamo alimentare il fuoco del nostro masochismo meglio di uno squallido cinema in
città intercambiabili, accomunate dai film e dall'anonimato? Il cinema – un'arte pacchiana e corrotta
per un mondo corrotto e pacchiano – ben si adatta al modo in cui ci sentiamo. Il mondo non è
come ce lo raccontavano i libri di scuola e noi non siamo ciò che si aspettavano che i nostri
genitori e insegnanti. I film ci rappresentano a buon mercato, sono l'arte squallida per persone fuori
posto. Depressi, sprofondiamo nella noia, abbandonandoci all'irresponsabilità, e ghigniamo
quando il pistolero mette in fila tre uomini e li uccide con un solo proiettile, qualcosa che per noi
non è meno “reale” della storiella che ci raccontavano da bambini sul piccolo sarto coraggioso.
Non abbiamo bisogno di sentirci dire che si tratta di immagini, di attori che interpretano personaggi.
Lo sappiamo, e a volte sappiamo più degli attori, dei loro personaggi e di come e perché sia stato
fatto il film di quanto sarebbe lecito per mantenere l'illusione drammatica. Hitchcock ci ha
provocato eliminando presto l'unica star di Psycho (Psyco, 1960), una mossa che ci ha sorpreso
non tanto per le modalità dell'omicidio inaspettato ma perché rompeva una convenzione del boxoffice ed era dunque uno scherzo giocato alle attese del pubblico. Infrangeva le regole del gioco
cinematografico e la nostra reazione ha dimostrato quanto siamo consapevoli delle norme che lo
regolano. Davanti ai brutti film (e a brutte scene di buoni film) la nostra consapevolezza dei
meccanismi diventa particolarmente alienante, così come il cinismo riguardo i loro valori e le loro
mire. Il pubblico risponde per le rime all'accondiscendente e fasullo The Detective (Inchiesta
pericolosa, 1968), emette gemiti di sconforto di fronte a The Legend of Lylah Claire (Quando
muore una stella, 1968) e, forse, qualche saltuario risolino di disperazione. Quanto conosciamo
bene quell'avvilito scoraggiamento che prende il sopravvento quando le nostre speranze vengono
disattese per l'ennesima volta. L'alienazione è lo stato più comune di un pubblico cinematografico
preparato e, benché la sensazione di familiarità nei confronti di quello che vediamo offra un
particolare riconoscimento – un misero piacere in cambio di un misero favore –, il desiderio è
sempre quello di venire sorpresi: non la sospensione dell'incredulità né lo straniamento brechtiano
ma una sensazione di piacere, qualcosa che si possa definire buono senza provarne disgusto.
Un buon film può sottrarci alla depressione e alla disperazione che accompagna spesso l'ingresso
in una sala cinematografica, può farci sentire di nuovo vivi, in contatto con gli altri, non più persi
nella città. I buoni film spingono a confidare ancora nelle possibilità. Se da qualche parte, a
Hollywood, qualcuno ha fatto in modo di raggiungervi e parlare proprio a voi, allora non tutto è
corrotto. Il film può non essere eccellente, può essere stupido e vuoto, e offrirvi ugualmente la
gioia di una buona recitazione o di una buona battuta. Il cipiglio di un attore, un piccolo gesto
sovversivo, un'osservazione maligna buttata lì da uno con la faccia da finto innocente, e il mondo
riacquista un po' di senso. Seduti da soli, dolorosamente soli, perché quelli che vi stanno accanto
non reagiscono allo stesso modo, sapete che devono esserci altri, forse in quella stessa sala o
nella stessa città, di certo in altre sale e in altre città, che ora, nel passato o nel futuro, reagiscono
allo stesso modo. E poiché i film costituiscono la forma d'arte più totale e onnicomprensiva che
conosciamo, tali reazioni possono sembrare le più personali e persino le più degne di rilievo
immaginabili. Ciò che c'è di affascinante nei film non sta solo in quelle storie e in quella gente sullo
schermo ma nel sogno adolescenziale di incontrare altri che si sentono come noi riguardo quello
che vedono. Li incontriamo e li riconosciamo a prima vista, perché non parliamo tanto dei buoni
film quanto di ciò che amiamo in quelli brutti.
II
Oggi si fa così tanto parlare del cinema in quanto arte che si rischia di dimenticare che la maggior
parte dei film che ci piacciono non sono opere d'arte. The Scalphunters (Joe Bass l'implacabile,
1968), per esempio, è stato uno dei pochi film americani divertenti dell'anno scorso ma, per quanto
realizzato con mestiere, difficilmente lo si potrebbe considerare un'opera d'arte – sempre che tale
espressione abbia un significato. O, per fare un esempio ancora più grossolano, un film rozzo
come Wild in the Streets (Quattordici o guerra, 1968), messo insieme alla bell'e meglio con
opportunismo e furore, può risultare divertente anche se rappresenta un classico esempio di film
non-artistico. Cosa rende apprezzabili questi film, che non sono opere d'arte? The Scalphunters
era più divertente della maggior parte degli altri western soprattutto perché Burt Lancaster e Ossie
Davis formavano una coppia bizzarra; parte del piacere del film stava nel cercare di capire cosa li
rendeva così divertenti. Burt Lancaster è un attore comico particolare: la sua comicità sembra
derivare dalla sua fisicità, e ciò lo distingue dagli altri. Come attore drammatico lavora sodo ma è
insignificante; allo stesso tempo, possiede un'attitudine innata nei confronti della commedia e nulla
è più contagioso di un attore che dà l'impressione di rilassarsi di fronte alla macchina da presa
come se si stesse davvero divertendo (George Segal sembra possedere a volte lo stesso dono e
Brigitte Bardot trasudava tale sensazione in Viva Maria! [1965]). In qualche modo l'alchimia della
coppia Burt Lancatser - Ossie Davis (un altro attore comico dall'imponente presenza) funzionava,
e il regista Sidney Pollack ha saputo tenerla a freno in modo che non andasse sopra le righe.
E Wild in the Streets? Il fatto che sia così spudoratamente scadente va a suo merito, perché
funziona in una maniera che non riesce a tanti film girati meglio. Come altre produzioni recenti
della AIP, sembra di leggere la striscia giornaliera di un fumetto apparentemente identica a quella
del giorno prima ma capace di regalare sempre mimiche sorprendenti e dialoghi pieni di brio. Non
c'è traccia di sensibilità nei disegni o nelle idee ma l'arguzia sprovvista di grazia è particolarmente
divertente: la si può apprezzare in una maniera diretta, popolare. L'idea di fondo è banale – come
in It Can't Happen Here (Shadow of the Land, 1968, per la tv, ndr) ma con giovani fuori di testa
come nuovi fascisti – ma è stata elaborata nello stile paranoide degli articoli sui giovani d'oggi
(comincia persino dando la colpa di tutto ai genitori). E un'idea di bassa lega, diffusamente attuale,
possiede un'attrattiva lunatica, una gaiezza da incubo. La gente prova una certa soddisfazione nel
vedere i giovani che fanno uso di droghe rappresentati come mostri minacciosi: gli articoli dei
quotidiani si mescolano a The Village of the Damned (Il villaggio dei dannati, 1960). Sfruttando
questo tipo di isteria per dare vita a una fantasia satirica, lo sceneggiatore Robert Thom si è servito
dei materiali più ovvi a disposizione ma l'ha fatto con sufficiente stile e scherno da rendere il tutto
divertente. Ogni tanto butta nel mezzo tocchi di caratterizzazione e battute che non servono a
portare avanti la trama ma danno vita a bizzarre connessioni, così che la paranoia del film assume
toni spassosi e si compiace della propria astuzia.
Se foste andati a vedere Wild in the Streets aspettandovi un buon film sareste rimasti inorriditi per
la regia maldestra, le musiche banali, le tante idee di sceneggiatura appena abbozzate e i dettagli
fuori posto (a cominciare dal fatto che il direttore del casting si è servito di comparse e comprimari
troppo anziani per i loro ruoli). È un cinema raffazzonato ma gli interpreti sono genuinamente
divertenti, capaci di cogliere al volo l'occasione e pronunciare battute che funzionano come
boomerang – Diane Varsi (una Geraldine Page ancora più fatta) è una frichettona perfettamente
convincente; Hal Holbrock, inespressivo e opaco in campo lungo, rivela nei primi piani sottigliezze
espressive e leggere contrazioni dei lineamenti che danno l'idea dei pensieri in movimento; poi
Shelley Winters e, naturalmente, Christopher Jones. Non è grave che un film non possieda la
sembianza dell'opera d'arte – potrebbe anzi essere un sollievo: esteticamente ci sono cose ben
peggiori dell'aspetto squallido e rozzo, del non celato intento di incassare qualche soldo di un film
privo di arte. Da I Was a Teen-Age Werefolf (1957), passando ai film sulle feste in spiaggia per
arrivare a Wild in the Streets e The Savage Seven (1968), la AIP ha saputo vendere un artefatto
di bassa lega che, nella sua mancanza di qualità artistica e con quella maniera allegra e spudorata
di rendere l'azione, ci ricorda che una delle cose più affascinanti del cinema è che non va preso
troppo seriamente.
Wild in the Streets è un caso fortunato, un caso limite di film che funziona perché alla AIP alcune
persone di talento hanno avuto la possibilità di fare qualcosa che le compagnie più blasonate non
si sentivano di osare. E benché non apprezzi un film così ovvio e di fattura scadente come il loro
ultimo, grande successo, The Wild Angels (I selvaggi, 1966), è facile capire perché ai ragazzi
piaccia e perché lo stesso accada in altri Paesi. Il motivo è il medesimo per il quale tutti abbiamo
cominciato ad andare al cinema. Ne vogliamo sempre di più, ma il pubblico che è stato costretto a
procedere faticosamente attraverso le spesse imbottiture da middle class di film più costosi per
avere un po' d'azione apprezza lo sberleffo nei confronti del “buon gusto” da parte di film di bassa
lega che lavorano con materiali scadenti. A un livello base, desidera che i film siano realizzati così,
ne apprezza la rozzezza, perché sono come una boccata d'aria, una vacanza dal comportamento
convenuto, dal buon senso e dai responsi obbligati. Gli avventori del burlesque applaudono
educati la danzatrice elegante e seducente ma impazziscono per quella sgraziata e volgare che
agita i grossi fianchi. È per questo che vanno al burlesque. Personalmente, mi auguro sempre un
minimo di finesse, e film come The Planet of the Apes (Il pianeta delle scimmie, 1968), The
Scalphunters o The Thomas Crown Affair (Il caso Thomas Crown, 1968) mi sembrano
possedere i requisiti minimi per una serata in relax. Sono, per usare un linguaggio tradizionale,
“buoni film” o “buoni brutti film”, eleganti, ben fatti, ragionevolmente inventivi. Non sono arte, ma
rappresentano quasi il massimo di quanto possiamo aspettarci oggigiorno dal cinema americano,
in un momento in cui non solo questi ma film molto peggiori sono considerati “arte” e vengono
presi sul serio nelle nostre scuole.
È assurdamente egocentrico considerare arte tutto ciò che ci piace – come se non potesse
piacerci qualcosa che non lo è; è altrettanto assurdo accettare che un'opulenta campagna
pubblicitaria ci spinga a credere di ricevere arte in cambio del nostro denaro se un film non non è
nemmeno in grado nemmeno di farci divertire. Mi sono divertita guardando Wild in the Streets,
cosa che non posso dire per Petulia (Id., 1968), 2001 (2001 odissea nello spazio, 1968) o altri film
unanimemente apprezzati. Wild in the Streets non è un'opera d'arte, ma non credo lo siano
nemmeno Petulia o 2001, benché il primo possieda quel caleidoscopico aspetto alla moda e il
secondo combini le nuove tecnologie a idee “serie” e all'avanguardia, e ciò viene spesso
scambiato per cinema d'arte.
III
Sgombriamo il campo da alcune incomprensioni. I film fanno a pezzetti l'approccio scolastico
riguardo l'artista capace di realizzare le proprie intenzioni. Qualunque sia l'intenzione originaria di
sceneggiatori e regista, una volta avviata la produzione, viene soppiantata dall'intento di fare soldi
– e l'industria giudica il film sulla base di quanto realizzi quella intenzione. Ma se anche foste in
grado di riconoscere le “intenzioni dell'artista” probabilmente desiderereste non essere in grado di
farlo. Niente è così deleterio ai fini dell'entertainment quanto l'implacabile marcia di un film nel
portare a compimento il proprio, ovvio proposito. Si tratta, infatti, di una caratteristica specifica del
regista senza personalità, contrapposto all'artista.
L'intento lucrativo è generalmente fin troppo palese. Una delle situazioni più penose dei nostri
tempi è assistere a lezioni di cinema presso scuole superiori in cui gli studenti potrebbero
analizzare accuratamente la trama di un film mediocre in termini di manipolazione verso un
responso preordinato mentre l'insegnante si sforza di spiegarla in quelli di un artista creativo che
elabora il proprio tema – come se le condizioni nelle quali viene realizzato un film e il mercato al
quale è indirizzato fossero irrilevanti, e l'ultimo prodotto della Warner o della Universal potesse
essere analizzato come un poema lirico.
Coloro che sono “seriamente interessati” alla comprensione di un film domandano sempre al critico
“perché non si dilunga maggiormente sul lato tecnico e visivo?”. La risposta è che nel cinema
americano la tecnica corrisponde spesso alla tecnologia e di norma non è particolarmente
interessante. I film di Hollywood possiedono sovente il look dello Studio che li ha prodotti, ne
rispettano lo stile. Molti film della Warner condividono lo stesso aspetto lustro di bruttezza
attraente, quelli della Universal la forma indistinta dell'economia nella realizzazione, e così via. A
volte si potrebbe persino dire che vi sia stato infuso lo spirito dello Studio. È possibile parlare delle
commedie Paramount degli anni '30, dei film per famiglie degli anni '40 e delle commedie in
Cinemascope degli anni '50 della 20th Century Fox, del lustro che contraddistingue le vecchie
produzioni MGM, più o meno come parliamo di Chevrolet e Studebakers. Questi film si
assomigliano, funzionano allo stesso modo, possiedono lo stesso motore perché rispettano le
politiche dello Studio e i materiali di cui si serve, le idee che impone e la maniera in cui vuole che il
film venga scritto, fotografato e diretto, ma anche a causa dei laboratori in cui vengono sviluppate
le pellicole e, naturalmente, della presenza delle star di casa, nei confronti delle quali il film è stato
spesso e volentieri pensato e confezionato. In alcuni casi, come alla Paramount negli anni '30, lo
stile caratteristico era semplice e piuttosto pacchiano e il risultato – le commedie con Mary Boland
e Mae West, Alison Skipworth e W.C. Fields – oggi ci appare quello ideale. Non erano appesantite
da illuminazioni sofisticate o dagli ornamenti dei “valori produttivi”. Per essere apprezzabili, i film
non hanno bisogno di un alto livello di maestria: ingegno, immaginazione, un soggetto fresco, attori
capaci, una buona idea – per sé o combinati tra loro – possono più che compensare l'assenza di
competenza tecnica o di budget.
La maestria spacciata da Hollywood come uno dei suoi punti di eccellenza non solo non ha molto
a che fare con l'arte – l'utilizzo espressivo della tecnica – ma probabilmente non ha molto a che
fare nemmeno con l'appeal al box-office. Un film scialbo come The Naked Runner (Colpo su
colpo, 1967) di Sidney Furie è tecnicamente competente. L'orrendo Half a Sixpence (Lo
squattrinato, 1967) è tecnicamente formidabile. Benché gran parte del pubblico tenga in
considerazione l'investimento (tanto che un critico, poco impressionato dallo sforzo economico alla
base di Dr. Zivago, rischia di subire una reprimenda da parte dei suoi lettori) la gente a cui piace
The President's Analyst (La folle impresa del dottor Schaefer, 1967), The Producers (Per favore
non toccate le vecchiette, 1968) o The Odd Couple (La strana coppia, 1968) sembra non venire
turbata dalla loro inettitudine tecnica e sciattezza visiva. Al contrario, l'aspetto smaccatamente
costoso di film insulsi come A Dandy in Aspic (Sull'orlo della paura, 1968) può nuocere
all'apprezzamento, perché la stravaganza dello spreco è moralmente abominevole. Se
paragoniamo i film che ci piacciono a quelli che non ci piacciono, la maestria del grande Studio è
raramente un fattore decisivo. E se paragoniamo un film che ci piace diretto da un regista
competente come John Sturges, Franklin Shaffner o John Frankenheimer, a un film che non ci
piace altrettanto dello stesso regista, la sua tecnica non è probabilmente il fattore decisivo. Dopo
aver girato The Manchurian Candidate (Va' e uccidi, 1962), Frankenheimer ha diretto un altro
thriller politico, Seven Days in May (Sette giorni a maggio, 1964) che, valutato sulla base della
regia, è un film nettamente più sicuro. Guardandolo, si poteva apprezzare l'abilità di
Frankenheimer nell'intrattenere. Ma si trattava (Rod Serling che adatta Fletcher Knebel e Charles
W. Bailey II) di una versione più semplice (si legga banale) di The Manchurian Candidate. Per
ricordare immagini di Seven Days in May devo rincorrerle lungo i corridoi della mia memoria;
nonostante la tecnica brillante, tutto ciò che resta in mente è il volto disperatamente toccante di
Ava Gardner. Ma The Manchurian Candidate, nonostante la messa in scena diseguale, si
conserva nitido grazie alla sceneggiatura. Prende il via dall'ambigua riflessione che hanno fatto
tutti (“Ma come! Joseph McCarthy non avrebbe potuto fare del meglio per i comunisti nemmeno se
avesse lavorato per loro!”) per condurla all'assurdo, e le leziosaggini, le stravaganze e i non
sequitur della trama (di George Axelrod, da Richard Condon) sono ambivalenti e divertenti in una
maniera allo stesso tempo grossolana e liberatoria.
È inutile discutere della tecnica a meno che non sia al servizio di qualcosa di utile: per questo,
molta teoria riguardo la nuova arte pubblicitaria televisiva non ha senso. Gli effetti sono
impersonali – abili ed efficaci, ma privi d'arte. È a causa della loro vacuità che gli spot richiamano
così tanta attenzione verso le angolazioni di ripresa e il montaggio serrato – fattori che spingono le
persone a rimanere impressionati dalla loro “arte”. I film oggi vengono realizzati in base alle
aspettative che la televisione procura nel pubblico. Nonostante si faccia un gran parlare e scrivere
delle capacità dei giovani di rispondere alla componente visiva, l'influenza della TV renderà i film
sempre meno immaginativi e complessi. La televisione è un medium rumoroso e gli spettatori
stanno in ascolto, abituandosi a una riproduzione di bassa qualità si abituano anche all'assenza di
dettagli, alla ovvietà visiva, all'enfasi nei confronti della composizione semplificata e a sistemi di
colore atrocemente semplificati e distorti. Lo stile di ripresa mobile e gli stacchi rapidi di un film
come Finian's Rainbow (Sulle ali dell'arcobaleno, 1968) – una delle migliori grandi produzioni –
presenta lo stesso stile visivo degli spot televisivi, abile a mascherare un materiale statico che fa di
tutto per non annoiare lo spettatore. La carriera dei registi di oggi comincia nella pubblicità – e, se
uno ci riflette, potrebbe essere una considerazione consuntiva sul futuro del cinema americano.
Non intendo sostenere che la tecnica cinematografica non esista o che la maestria registica non
contribuisca al piacere offerto da un film, ma semplicemente che la maggior parte del pubblico è in
grado di apprezzare la recitazione, la trama o i dialoghi ma non si rende conto o non gli interessa
quanto bene o male sia girato un film; poiché non gli interessa, un successo al botteghino
trasforma un regista in un “genio” e improvvisamente tutti parlano del sua tecnica: la tecnica di
accaparrarsi un pubblico. Probabilmente, nel corso della breve storia del cinema, non c'è mai tato
un gruppo di registi così straordinariamente dotati come gli italiani di oggi, e non solo i celebri
Pontecorvo (La battaglia di Algeri, 1966) e Rosi (Il momento della verità, 1965) o i giovani
prodigi, Bertolucci e Bellocchio, ma dozzine d'altri, come Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967) e
Carlo Lizzani (Banditi a Milano, 1968). Banditi a Milano dimostra maggior consapevolezza del
linguaggio visivo e più talento cinematografico di qualunque altro film girato negli Stati Uniti
quest'anno. Ma si potrebbe consigliare a qualcuno che non sia un folle, assiduo cinefilo di andarlo
a vedere? Non ne sono sicura, pur avendo apprezzato enormemente il film, perché Banditi a
Milano è un film di genere gangsteristico. Il critico che dice “la maniera in cui gestisce le scene
all'aperto e di folla è superba” o “c'è una straordinaria scena di inseguimento semi-documentaria”
eccede nell'estetismo e perde di vista il motivo per cui la gente va a vedere i film, in particolare
quelli stranieri. Si tratta di affermazioni vere, ma il film deriva dai nostri vecchi gangster-movie e,
per quanto ben fatto, sarebbe dura convincere una persona istruita a vedere un film in cui Gian
Maria Volontè, attore superbo, si ispira a Paul Muni e James Cagney. Il pubblico vuole dal cinema
qualcos'altro che non un film di genere girato in maniera eccellente che mostra immagini di
moderna decadenza urbana. Se un film è interessante soprattutto in termini di tecnica allora non
vale la pena parlarne, se non a studenti interessati a sapere in che modo lavora un buon regista. E
parlare di The Graduate (Il laureato, 1967) in termini di tecnica cinematografica è davvero una
presa in giro. A questo livello, la tecnica non ha alcun valore estetico: non è l'abilità di di ottenere
ciò che si desidera ma la capacità di realizzare qualcosa di accettabile. Non vale la pena parlare di
questo film se non in relazione a ciò che piace al pubblico; in caso contrario, tanto varrebbe
mettersi ad analizzare il “contenuto artistico” degli spot televisivi. Nel caso dei grandi artisti del
cinema, quelli in grado di ottenere una coesione tra tecnica e sostanza, non c'è bisogno di
soffermarsi sulla tecnica perché è riassunta nell'arte. Non interessa spiegare come Tolstoi ottiene i
suoi effetti ma della sua opera. Non interessa spiegare come ci riesce Renoir: interessa cosa ha
fatto. Si potrebbe anche separare il tutto, naturalmente, distinguere forma e contenuto ai fini
dell'analisi. Ma si tratta di una funzione secondaria, scolastica, che la critica non ha necessità di
adoperare esplicitamente. Separare gli elementi è molto meno importante che vedere il tutto. Un
critico non dovrebbe fare a pezzi un'opera per dimostrare che sa come è stata messa insieme. Ciò
che importa è spiegare cosa c'è di nuovo e bello in essa, non come è stata fatta – che è più o
meno implicito.
Così come ci sono buoni attori – potenzialmente gradi attori – che non sono mai diventate star
perché non hanno mai avuto la fortuna di avere i ruoli che meritavano (Brian Keith è un esempio
eclatante), ci sono buoni registi che non hanno mai avuto i cast o le sceneggiature che avrebbero
contribuito a migliorare la loro reputazione. La domanda che si fa la gente quando sceglie il film da
andare a vedere non è “come è fatto?” ma “di cosa parla?” e si tratta di una domanda
assolutamente legittima (la domanda successiva – a volte la prima – è generalmente “che attori ci
sono?”, e anche anche questa è una domanda onesta). Quando vedete un film, non è necessario
che crediate in quello che succede ma che siate interessati ad esso (così come dovete essere
interessati al suo materiale umano o, altrimenti, perché andare a vedere un altro film con James
Stewart?). Non intendo assistere a un'altra epica samurai così come non voglio assolutamente
leggere Kristin Lavransdatter. Benché sia plausibile che un vero grande regista sia capace di
rendere interessante qualunque tema, sono pochi gli artisti di tale specie impegnati in ambito
cinematografico e anche se lavorassero su temi rigorosi non sono sicura che, anche ammirandone
il valore artistico, apprezzeremmo i risultati (riconosco la grandezza di certe sequenze in molti film
di Eisenstein ma si tratta di un'ammirazione piuttosto fredda). I numerosi registi italiani che
operano in un contesto commerciale realizzando film d'azione o polizieschi non saranno mai di
grande interesse a meno che non abbiano modo di occuparsi di temi che ci interessino più da
vicino. Ironicamente, i successi del cinema cecoslovacco negli Stati Uniti (The Shop on Main
Street [Il negozio al corso, 1965], Loves of a Blonde [Gli amori di una bionda, 1965], Closely
Watched Trains [Treni strettamente sorvegliati, 1966]) sono acclamati per la loro tecnica, che in
realtà è piuttosto semplice e limitata, quando è ovvio che il pubblico risponde al loro interesse
umano e all'approccio semplice e modesto, con l'aggiunta di un pizzico di ironia da cortile. E forse,
in parte, risponde anche alla semplicità della messa in scena.
IV
Da bambini ci sono film che non ci piacciono – in genere i documentari (hanno troppo a che fare
con l'educazione) e, naturalmente, i film ideati specificamente per i bambini – e quando diventiamo
capaci di ragionare per conto nostro abbiamo ormai imparato a evitarli. I bambini vengono spesso
rimproverati dagli adulti per aver apprezzato un certo film; gli adulti, a corto di empatia, fanno in
fretta a evidenziare aspetti del plot che il bambino non capisce, e si tratta di un modo facile di
umiliarlo. Ma possedere svariate combinazioni di piacere è una delle glorie di arti eclettiche come
l'opera lirica e il cinema. Si può rimanere ammaliati da Leontyne Price in La forza del destino o da
Il flauto magico anche se non si conosce a memoria il libretto, e un film può essere apprezzato per
tante ragioni che hanno poco a che fare con la storia o le sottigliezze (se ci sono) nello sviluppo di
temi e personaggi. A differenza delle arti “pure” che vengono spesso definite in termini di ciò che di
unico possono fare, il cinema è aperto, illimitato. Probabilmente, qualunque cosa può essere fatta
in un film può essere fatta anche in un'altra maniera, ma – e questo è quanto di straordinariamente
miracoloso ha il cinema – esso può fare quasi tutto ciò che possono fare le altre arti (per sé o
combinate tra loro) e intraprendere funzioni di esplorazione, giornalismo, antropologia e quasi ogni
altro ramo del sapere. Andiamo al cinema per la varietà di stimoli che può fornire, per la
meravigliosa abilità di offrirci semplicemente e a basso costo (e normalmente in maniera indolore)
ciò che possiamo ottenere anche dalle altre arti. Il cinema è un'arte meravigliosamente
conveniente.
I film stranieri vengono utilizzati dalle altre culture in una maniera molto più primitiva che nei loro
Paesi d'origine: come guide turistiche o introduzione alla maniera in cui vivono gli altri. Il cinefilo
sofisticato ed esperto tende a dimenticare quanto, una volta, gli sembrasse nuovo e sorprendente
il mondo là fuori, e in che modo reagisce un bambino, quanti elementi è in grado di recepire,
spesso per la prima volta. Anche gli adulti che hanno visto tanti film possono pensare che un film
sia “eccellente” se li introduce a temi poco familiari; ecco perché molti appassionati reagiscono con
l'ingenuità di un bambino a Portrait of Jason (1967) o The Queen (1968) e li trovano meravigliosi.
Le trame più risapute e i momenti di commedia più trita possono essere colmi di meraviglia per un
bambino, così come il traffico autostradale in un melodramma di serie Z può essere magico per un
paesano che non ha mai visto un automobile. Un bambino può apprezzare un film come Jules et
Jim (1962) per il suo approccio divertito, senza comprenderlo come fanno i suoi genitori, così
come noi possiamo apprezzare un film italiano in quanto commedia a sfondo sessuale mentre in
Italia è considerata satira politica o critica sociale. Jean-Luc Godard ha apprezzato Pal Joey
(1957), e immagino che uno scadente musical americano come Pal Joey possa essere
apprezzato in Francia perché non mi viene in mente un solo numero di ballo messo in scena da
attori francesi in un loro film. I francesi apprezzano ciò che non sono in grado di fare e noi
apprezziamo le loro indagini riguardo i turbamenti dell'amore adolescenziale che sarebbero
scadenti se realizzati a Hollywood. Un film come The Young Girls of Rochefort (Le Demoiselles
de Rochefort, 1966) dimostra come anche un dotato regista francese che adora i musical
americani non è in grado di comprendere le loro convenzioni. Ma, d'altra parte, sostenere che
Jacques Demy non dovrebbe amare i musical americani perché non ne comprende le convenzioni
sarebbe stupido almeno quanto dire a un bambino che non gli può piacere The Planet of the
Apes perché non ha compreso i riferimenti al processo Scopes.
Ogni tanto mi capita di vedere lo studio di qualche antropologo sulla maniera in cui tribù primitive
reagiscono alla visione di un film; capita, ad esempio, che le disturbi non sapere dove va a finire
l'attore quando esce dall'inquadratura o che rispondano con entusiasmo al baccano e alla
congestione della vita metropolitana della quale il film si impone di mettere in luce l'aspetto
alienante, trovandola allegra e divertente. Persone e culture differenti apprezzano i film in maniere
diverse. Qualche anno fa, i nuovi “primitivisti” americani hanno risposto alle sfarzose fantasie di
Giulietta degli Spiriti (1965) servendosi del film per sballare. Alcuni avevano già fatto un “bel
viaggio” con 8 e ½ (1963), ma Giulietta che era, adeguatamente e forse anche appositamente,
girato a colori elettrici e psichedelici, ha avuto presa proprio per questo (il colore era terribile, come
nei brutti musical della MGM – e c'è dunque da interrogarsi sulla qualità del “viaggio”).
Il nuovo primitivismo all'epoca dei media non è necessariamente nemico dell'affarismo; in realtà è
una sua diretta conseguenza, forse persino un suo strumento. Se un film ha sufficientemente
peso, recensori ed editorialisti sono propensi a dargli una seconda possibilità finché, dopo ripetute
visioni, non scoprono che li coinvolge “visceralmente” - e un grande film costoso tende a fare
proprio questo. Si dice che 2001 abbia catturato l'attenzione dei giovani; e si dice che il film vi farà
sballare – che suona un po' come una raccomandazione. Nonostante qualche voce dissidente –
ho sentito dire, per esempio, che “2001 ti fa fare un brutto viaggio perché le immagini non si
accompagnano bene alla musica” - la promozione è stata notevolmente efficace nei confronti degli
studenti. Le “tribù” si sintonizzano così rapidamente che studenti di college a migliaia di miglia di
distanza “hanno sentito” che bel trip è 2001 ancora prima che il film abbia raggiunto la loro città.
Servirsi dei film per “fare un viaggio” ha a che fare con l'arte del cinema quanto utilizzare i film con
Doris Day e Rock Hudson per trovare idee su come ridecorare casa propria – una maniera
precedente di “provare uno sballo”. Ma è funzionale alla comprensione dei film separare, quanto
meno ai fini della discussione, la maniera in cui ce ne serviamo (per imparare come vestirci,
parlare forbito o fare un grande ingresso in scena, oppure per decidere che macchina per il caffè
acquistare o decollare verso un viaggio di fantasia romantica) da ciò che lo rende bello o brutto
perché, naturalmente, ci possiamo servire dei brutti film allo stesso modo di quelli buoni, se non
meglio, per propositi non-estetici, come guide per lo shopping o incitamenti al viaggio.
V
Generalmente ci interessiamo ai film perché ci piacciono e i motivi per cui ci piacciono hanno poco
a che vedere con il concetto di arte. I film che provocano una reazione in noi, anche nell'infanzia,
non condividono gli stessi valori della cultura ufficiale sostenuta a scuola o nelle abitazioni
borghesi. Al cinema troviamo la vita aristocratica e quella popolare, mentre David Susskind e i
recensori moralisti ci rimproverano di non sostenere ciò che dovremmo: “film “realistici” che ci
farebbero bene – come A Raisin in the Sun (Un grappolo di sole, 1961), da cui potremmo
imparare che una famiglia di neri può essere altrettanto noiosa di una bianca. Il pubblico vede un
sacco di spazzatura, ma è assai difficile convincerlo a fare la fila a fini pedagogici. Dal cinema ci
aspettiamo una forma diversa di verità, qualcosa che ci sorprenda, che ci paia divertente o
accurato, forse anche straordinario e straordinariamente bello. Troviamo piccole cose buone anche
in film orrendi – José Ferrer che sbevazza da una cannuccia in Enter Laughing (1967), la
tremenda faccia da ragazzo americano irraggiungibile di Scott Wilson che squarcia la pretenziosità
di In Cold Blood (A sangue freddo, 1967), con la sua cupa e sofisticata fotografia. Abbiamo
ancora in mente la sorprendente profondità di emozioni di Tony Randall in The Seven Faces of
Dr. Lao (1964), Keenan Wynn e Moyna Macgill nella scena al bancone di The Clock (L'ora di New
York, 1945), John W. Bubbles sulla pista da ballo in Cabin in the Sky (Due cuori in cielo, 1943),
l'inflessione che dà Gene Kelly alla battuta “I'm a raising young man” in Du Barry Was a Lady
(Mademoiselle Du Barry, 1943), Tony Curtis che dice “avidly” in Sweet Smell of Success (Piombo
rovente, 1957). Se anche il regista è il principale responsabile, è il materiale umano di un film ciò a
cui reagiamo e che ricordiamo più a lungo. L'arte degli attori si conserva immutata dentro di noi,
sempre più bella. Il cinema ci dà cosi tante cose – la scena del dopo sbornia così magistralmente
ideata per il Cinemascope in The Tender Trap (Il fidanzato di tutte, 1955), l'atmosfera delle
redazioni dei quotidiani in The Luck of Ginger Coffey (1964), il distributore automatico impazzito
di Easy Living (Che bella vita, 1937). Dovremmo forse mentire, come quelli che sostengono che
Sofia Loren sia una grande attrice, come se fosse stata la sua recitazione a renderla grande? O
non preferiamo forse vedere lei al posto di attrici migliori perché è così affascinante, forse la
modella più bella del mondo? Ci sono grandi momenti – Angela Lansbury che canta “Little Yellow
Bird” in Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1945) (credo tutte le persone che conosco abbiano
amato quella donna e quella canzone). E ci sono piccoli momenti unicamente perfetti – come
quando Curt Bois dice a Ingrid Bergman “You're very beautiful” e lei risponde “Yes, isn't it lucky?” in
Saratoga Trunk (Saratoga, 1945). E tutte queste cose sono più vicine all'arte di quelle che i nostri
insegnanti ci hanno detto essere vere e belle (tali). Non che ciò che abbiamo studiato a scuola non
sia altrettanto grande (come abbiamo scoperto dopo) ma i motivi per i quali i nostri insegnanti ci
hanno detto avremmo dovuto apprezzarli (e se i testi attuali servono come indicazione, è ancora
così) erano generalmente così falsi, abbelliti e moralistici che i possibili momenti di piacere in essi,
insieme a tutto ciò che poteva esserci di purificante e sovversivo, restava nascosto.
A causa della natura fotografica del mezzo e del basso costo del biglietto, il cinema non ha tratto
vigore dalla piatta imitazione della cultura alta europea ma dai peep shop, dal Wild West show, dal
music hall, dai fumetti, da tutto ciò che era grossolano e comune. I primi film di Chaplin a due
bobine paiono ancora molto volgari, con le loro burla da bagno, l'accento sull'alcolismo e il
disprezzo per il lavoro e la proprietà. E le sparatorie dei western non avevano certo a che fare con
la nozione di arte dei nostri professori – che ai tempi in cui ho studiato io riguardava la poesia
didattica e le statue “perfettamente proporzionate”, e con il passare degli anni si sono evolute
verso il “buon gusto” e “l'eccellenza” - che possono essere ancora più dannose delle omelie e delle
statuette di porcellana, perché allora avevamo le idee chiare su chi erano i nostri nemici ed era più
facile combatterli. Siamo scappati da tutto questo per andare al cinema: nel corso della settimana
attendevamo il sabato pomeriggio e il santuario – l'anonimato e l'impersonalità di sedere in sala
solo per divertirci, senza doverci sentire responsabili o comportarci “bene”. Forse volevamo vedere
quella gente sullo schermo e sapere che loro non guardavano noi, che non si sarebbero voltati a
criticarci.
Forse il più grande piacere dell'andare al cinema non ha niente di estetico e riguarda il fuggire
dalle responsabilità imposte, da un'attesa di reazione che ci viene richiesta dalla cultura ufficiale
(e scolastica). Ma questa è, probabilmente, la base migliore per sviluppare un senso estetico,
perché l'obbligo di fare attenzione e apprezzare è anti-artistico, crea troppa ansia nei confronti del
piacere e ci rende annoiati verso il responso. Lontani dalla supervisione della cultura ufficiale,
siamo soli nell'oscurità della sala cinematografica dove non ci si aspetta nulla da noi e la
liberazione dal senso di dovere e dall'obbligo ci permette di sviluppare un nostro responso
estetico. Forse il divertimento controllato non è l'unico possibile ma è così che sembra.
L'irresponsabilità fa parte del piacere di qualunque arte: è la parte che le scuole non sono in grado
di riconoscere. Non mi piace acquistare biglietti esclusivi per un film perché odio considerarlo alla
stregua di un'occasione. Non voglio essere vincolata con giorni d'anticipo: mi piace la casualità
dell'andare al cinema, andarci quando ne ho voglia e quando mi sento dell'umore adatto. È la
sensazione di liberazione dalla rispettabilità che abbiamo sempre apprezzato al cinema e che
viene portata all'estremo dai film della AIP e dai western italiani con Clint Eastwood: sono privi di
valori culturali. Potremmo anche esigere qualcosa in più di questa virtù negativa ma riconosciamo
la sensazione provata da bambini davanti alle suggestioni di oscenità mormorate da giocatori
d'azzardo, papponi e truffatori al passaggio delle guardie. L'attrazione dei film stava nei dettagli
della vita criminosa d'alto bordo nelle città malefiche, nel linguaggio dei duri e dei monelli di strada;
era il sordido sorriso della ragazza di città che seduceva l'eroe con l'inganno allontanandolo da
Janet Gaynor. Ciò che in primo luogo ci porta al cinema – l'apertura nei confronti di esperienze
diverse, proibite o sorprendenti, e la vitalità corruttrice e irriverente di tale esperienza – sono così
dirette e immediate e hanno così poco in comune con tutto quello che siamo stati abituati a
considerare arte che molti si accorgono di sentire un affinamento nel loro gusto quando
cominciano ad apprezzare i film stranieri. Il dirigente di una fondazione mi ha rivelato con
rammarico che i suoi figli adolescenti hanno preferito vedere Bonnie and Clyde (Gangster Story,
1967) anziché andare con lui a vedere Closely Watched Trains. L'ha preso come un segno di
mancanza di maturità. Credo invece che i suoi figli abbiano fatto una scelta onesta, e non solo
perché Bonnie and Clyde è il film migliore dei due, ma perché è più vicino a noi, possiede quelle
qualità di coinvolgimento diretto che ci spingono ad amare il cinema. Ma è comprensibile che per
noi americani sia più semplice vedere l'arte nei film stranieri anziché nei nostri, per via della
maniera in cui concepiamo l'arte. L'arte è ancora quella in cui credono gli insegnanti, le signore e
le fondazioni, è civile e raffinata, seria e colta, bella, europea, orientale: è ciò che l'America non è
e, in particolare, ciò che i film americani non sono. Anche se quei ragazzi avessero scelto di
andare a vedere Wild in the Streets al posto di Closely Watched Trains continuerei a pensare
che abbiano fatto una scelta onesta, per quanto Wild in the Streets sia per tanti versi un film
detestabile. Riguarda le loro vite, anche se in maniera frivola e grossolana, e se non andiamo al
cinema per divertirci, anche da bambini, e accettiamo gli standard culturali imposti da adulti
raffinati, se abbiamo così poca grinta che accettiamo il loro “buon gusto”, allora forse non
cominceremo mai ad apprezzare il cinema. Diventeremo come quelle persone che “ogni tanto
vanno a vedere un film americano per rilassarsi” ma quando chiedono “qualcosa di più” a un film
sono entusiasti di quanto sia colorato e artistico The Taming of the Screw (La bisbetica domata,
1967) di Zeffirelli, come qualche decennio fa lo erano di The Red Shoes (Scarpette rosse, 1948)
di Powell e Pressburger, gli Zeffirelli del loro tempo. O, se ricercano l'accogliente sensazione di
elevazione data da film appena bizzarri su gente timida c'è sempre un Hot Millions (Milioni che
scottano, 1968) o qualche film ammuffito e noioso dell'est Europa – uno di quei film ambientati
durante la Seconda guerra mondiale ma così lontano dal nostro modo di pensare che sembra
ambientato durante la Prima. Dopo, lo spettatore potrà sentirsi virtuoso e rispettabile come se
avesse appena visitato il vecchio parente sordo. È una maniera di ricondurre il cinema all'interno
della cultura ufficiale scolastica e la sua affettazione, e le voci di insegnanti e recensori si sollevano
a chiedere perché in America non si fanno film così.
VI
L'arte dei film non è il contrario di ciò che abbiamo sempre apprezzato al cinema, non la troviamo
al posto di quella cultura ufficiale, alta: è ciò che abbiamo sempre trovato di buono nel cinema, ma
espressa al massimo delle sue potenzialità. È il gesto sovversivo portato oltre, i momenti di
eccitazione sostenuti ed estesi a nuovi significati. Al suo meglio, il cinema è fatto di quel tipo di
piacere che abbiamo ricevuto a piccoli pezzi da tanti film. Ma siamo così abituati a ricercare questi
piccoli pezzi in un film che non ci serve la perfezione formale per essere stupefatti. Così tante arti e
mestieri convergono nel cinema e così tante cose possono andare male che non vengono
considerate arte dai puristi. Vogliamo provare l'esaltazione provocata da un film (o da un attore)
che si spinge al di là delle nostre attese e compie il passo con successo. A ripensarci, anche un
film come Les Carabiniers (1963) di Godard, tremendo per tutta la prima ora, diventa eccitante in
virtù di una sola buona sequenza: quella della cartolina, verso la fine, incredibilmente e
brillantemente prolungata. Fino ad allora il film arrancava e inciampava ma poi si arrampica su una
corda tesa e ci cammina sopra finché non siamo quasi storditi per l'ammirazione. Raramente la
corda viene tesa così in alto ma è sempre necessario che a un certo punto ci sia un senso di
tensione, anche se solo sul volto di un comprimario, la suspense meccanica non basta o il film non
fa altro che affondare ulteriormente. È il raro film che ci conduce con sé, che ci tiene attenti,
reattivi. Abbiamo imparato a detestare il “realismo” hollywoodiano e tutto quello che implica. Al
buio, concentrati, ci agitiamo dinnanzi a eventi della vita di tutti i giorni che scorre al ritmo della vita
di tutti i giorni: è la consapevole propensione verso l'integrità di persone prive di humour e di
talento. Quando andiamo a vedere una rappresentazione teatrale ci aspettiamo un linguaggio
stilizzato, elevato; il piatto realismo della strada è inguaribilmente noioso, ma possiamo sempre
scappare via verso il bar più vicino e ascoltare con sollievo lo stesso linguaggio. Meglio la vita della
sua imitazione.
Se ripensiamo ai film che ci sono piaciuti – anche quelli che ci rendevamo conto essere terribili – la
loro piccola parte buona possedeva, in una maniera rudimentale, una freschezza, una traccia di
stile e di bellezza, possedeva audacia, follia. Si trova là, nell'interazione tra Burt Lancaster e Ossie
Davis o, in Wild in the Streets, quando Diane Varsi batte la grancassa, nel leggero tic di Hal
Holbrook che si accorge del pericolo, in alcune battute di Robert Thom: in qualche modo hanno a
che fare con l'arte anche se non assomigliano al concetto di “qualità” che ci è stato impartito.
Possiedono una gioia divertita. In un film mediocre o pessimo, le parti buone possono dare
l'impressione di venire fuori dal nulla; migliore è il film, più sembrano venire dal contesto stesso del
film. Senza questo tipo di divertimento e la sensazione di piacere che traiamo da esso, l'arte non è
affatto arte, è qualcosa di punitivo, come accade spesso a scuola, dove persino le piccole opere
scherzose vengono appesantite dalla spiegazione.
Tenendo a mente questa semplice distinzione, che tutta l'arte è entertainment ma non tutto
l'entertainment è arte, può essere utile tenere a mente anche che se un film viene considerato arte
e non vi è piaciuto, il problema potrebbe essere vostro ma è più probabile che sia del film. A causa
dell'investimento e delle pressioni del lancio pubblicitario implicati, molti recensori scoprono un
nuovo capolavoro ogni settimana; lo snobismo culturale e il desiderio di rispettabilità determinano
la selezione dei capolavori annuali. Nei film stranieri, ciò che viene spesso erroneamente
scambiato per “qualità” è un'imitazione dell'arte del cinema che li ha preceduti o qualcosa che
deriva da opere approvate e rispettabili di altre arti – come il pittore folle di Hour of the Wolf (L'ora
del lupo, 1968) che si imbratta di rossetto in un (facsimile) di angoscia espressionista. Colpita ai
fianchi, la stampa dice “arte” quando sarebbe più appropriato dire “ahi!”. Quando un regista viene
considerato un artista (generalmente in base alle opere precedenti il cui valore la stampa non è
stata in grado di riconoscere), e specialmente quando sceglie di trattare argomenti artistici come il
dolore della creazione, c'è una tendenza ad acclamare il suo nuovo, pessimo lavoro. In questo
modo la stampa, cercando di fare ammenda per gli errori passati, riesce a essere costantemente
in errore. Ecco perché un film sulla vendetta di una vergine amareggiata come The Bride Wore
Black (La sposa in nero, 1968) di Truffaut viene trattato con rispetto, come se rivelasse in ogni
fotogramma la sensibilità dell'artista. I recensori che hanno riso vedendo Lana Turner compiere la
sua posa da femme fatale nell'ennesimo film prodotto da Ross Hunter vanno in deliquio per gli
sguardi inespressivi di Jeanne Moreau nel film di Truffaut.
Ciò che nei film americani spesso viene scambiato per qualità artistica è il successo al box-office,
specialmente se combinato alla genuflessione nei confronti della rilevanza di un tema: in tal caso si
tratta di “un film di cui l'industria può andare fiera” come To Kill a Mockingbird (Il buio oltre la
siepe, 1962) o film premiati dall'Academy come West Side Story (Id., 1961), My Fair Lady (Id.,
1964) e A Man For All Seasons (Un uomo per tutte le stagioni, 1966). Fred Zinneman ha girato
una bella variante moderna del western, Sundowners (I nomadi, 1960), ma quasi nessuno l'ha
visto finché non è passato in televisione; ma A Man For All Seasons aveva un aspetto prestigioso
e la stampa si è sentita in dovere di elogiarlo. Non credo che la maggior parte dei recensori
consideri ciò che li diverte onestamente un elemento centrale per la critica. Alcuni sembrano
pensare che significhi fare troppo affidamento al proprio gusto, avanzare un criterio “personale” a
scapito dell'oggettività – facendo affidamento sui termini preconfezionati di rispettabilità culturale e
sul giudizio di consenso (che può essere strumentalizzato dalla campagna pubblicitaria a un livello
sconvolgente, così da creare un'aura di importanza intorno a un film). E come i registi che,
invecchiando, bramano ciò che veniva considerato rispettabile durante la loro giovinezza e
aspirano al prestigio culturale, anche la stampa cinematografica desidera venire elevata secondo i
valori culturali dei loro vecchi licei e, di comune accordo con l'industria, applaude terribili “tour-deforce” attoriali, film tratti da illustre opere teatrali e romanzi di successo, o film “meritevoli”, che
rendono un “contributo”, che hanno un messaggio “serio”. Ciò significa elogiare brutti film, film
noiosi, o anche elogiare in buoni film ciò che di peggio vi è in loro.
Quest'ultimo meccanismo può essere riscontrato negli onori tributati a In the Heat of the Night
(La calda notte dell'ispettore Tibbs, 1967). La cosa migliore del film è quel momento comico in cui
Sidney Poitier dice “I'm a police officer”, perché ribalta le attese dello spettatore e tutti abbiamo riso
con sollievo scoprendo che non si trattava di un esercizio di stile auto indulgente e autolegittimante
alla vecchia maniera deprimente di Stanley Kramer. In quel momento il pubblico torna in vita. Il film
diverte soprattutto per l'idea di uno Sherlock Holmes di colore in un cartone animato di Tom & Jerry
al rovescio. Il colore della pelle di Poitier viene usato ai fini della commedia anziché per fornire quel
surplus di ironia e pathos che ha reso insopportabilmente sentimentale un film come To Sir With
Love (La scuola della violenza, 1967). Poitier non recita particolarmente bene la parte
dell'investigatore: è tutto d'un pezzo anche quando deve declamare quel tipo di congetture
scientifiche senza senso sull'essere destri o mancini che avrebbero mandato Basil Rathbone in
uno stato di estasi di dizione leziosa, con il sopracciglio alzato e gli occhi strizzati. Come Bogart in
Beat the Devil (Il tesoro dell'Africa, 1953), Poitier sembra non stare allo scherzo. Ma Steiger ha
compensato con una prova comica ancora più comica perché inattesa – non solo per la carriera di
Steiger che ha preso tutt'altra direzione, ma per l'inizio apparentemente drammatico del film. Ad
ogni modo, il film è stato elogiato dalla stampa come se fosse il tipo di film che il pubblico ha
scoperto con sollievo non trattarsi – fatta eccezione per le classiche scene melodrammatiche piene
di finto coraggio e il climax con Poitier che schiaffeggia un ricco bianco del sud o viene attaccato
da teppisti bianchi, perché nelle sue parti peggiori lo è. Quando l'ho visto, il pubblico, sia bianco
che nero, ha apprezzato l'ironia legata al fatto che è l'arguto detective di colore e ben educato a
spiegare come stanno le cose al capo della polizia del sud, cialtronesco, goffo e arretrato.
Un'ironia molto più aperta e inoffensiva rispetto a quella solita di Poitier, così buono e così nero.
Per una volta, invece, è così divertente (anziché imbarazzante) da essere superiore a tutti gli altri.
In the Heat of the Night, di per sé, non è un film particolarmente importante: straordinariamente
brillante dal punto di vista della fotografia, è una divertente commedia-thriller alquanto
ingarbugliata. Il regista Norman Jewison manda tutto a rotoli quando Steiger si trasforma nello
spiritello malevolo di Poitier, infondendogli tenerezza e facendolo diventare sdolcinato, ed è un
peccato che in un poliziesco in cui il punto centrale sia la dimostrazione dell'abilità di un detective
di colore nel risolvere ciò che a un bianco non riesce, la questione non venga portata avanti fino in
fondo. Forse ci voleva un super regista di colore (il film sarebbe stato più che un vivace poliziesco
se il detective fosse riuscito a risolvere il caso non con mezzi “scientifici” ma attraverso la
comprensione di cosa regola le relazioni nel Sud in una maniera che non riusciva al capo della
polizia bianco). Ciò che lo rende interessante ai fini del mio discorso è che il pubblico l'ha
apprezzato per la vitalità della sua sorprendente briosità, mentre l'industria si è congratulata con se
stessa per ché il film “colpiva duro” - per dire che trattava concetti meritori e seri.
Coloro che considerano In the Heat of the Night un film socialmente consapevole, a cui l'industria
guarda con orgoglio, vanno probabilmente d'accordo con la maniera in cui la stampa ha attaccato
il successivo film di Jewison, The Thomas Crown Affair, considerato spazzatura, un fallimento. Si
potrebbe tentare lo stesso gioco fatto su In the Heat of the Night e convertire la sciocchezza di
Crown in un esercizio sub-fascista perché Crown, il superuomo che si dedica al furto per noia, è il
figlio disonesto di The Fountainhead (La fonte meravigliosa, 1949), senza le lotterie. Ma
significherebbe prendere troppo sul serio una fantasia da pomeriggio estivo: da tempo non
vedevamo un film sulla vita meravigliosa di un giovane executive, e prendersela politicamente con
il ritorno del genere “ladro e gentiluomo” alla Ronald Colman e William Powell vuol dire non avere
senso dello humour nei confronti del piccolo adolescente romantico e fascista in agguato dentro
ognuno di noi. Parte del divertimento dei film è che ci permette di capire quanto siano stupide
molte delle nostre fantasie, ma anche quanto siano condivise. Un entertainment leggero e
romantico come The Thomas Crown Affair, pattume non mascherato, è il tipico esempio chic di
film spazzatura che (avremmo detto) nessuno avrebbe potuto scambiare per arte: guardarlo è
come prendere il sole sfogliando riviste di moda e, come si diceva un tempo, sentirsi ricchi e belli
oltre i nostri sogni più folli.
Ma non è facile venire a patti con ciò che ci piace dei film, e se la vecchia generazione è stata
persuasa ad accantonare la spazzatura, ora una più giovane, con la stampa e le scuole alle
calcagna, ha cominciato a trattare la spazzatura come se fosse vera arte. I giornali dei college e la
stampa di tutto il Paese sono ricolmi di nuove forme esilaranti di scolasticismo, e gli studenti
sfruttano l'educazione ricevuta per imbastire spiegazioni di grande effetto per aver apprezzato
piatti molto semplici e tradizionali. Questa è una comunicazione da Cambridge sul giornale di
Boston:
All'editore:
The Thomas Crown Affair è fondamentalmente un film sulla fede tra persone. Per certi versi ricorda una
sorta di vecchia fiaba aggiornata, il racconto di un atto di fede estremo. È un film su una storia d'amore
(come da titolo) con un sottotesto di rapine in banca, più che il contrario. La sottigliezza del film sta nella
maniera in cui il plot esteriore è utilizzato come matrice per sviluppare temi più seri, più o meno alla stessa
maniera in cui funzionava In the Heat of the Night.
Benché Thomas Crown sia un personaggio affascinante, è Vicki la protagonista. Crown è coerente,
prevedibile: flirta con il pericolo per sentirsi superiore a un sistema di cui fa parte e per rendere più
interessante la propria vita, altrimenti fin troppo agiata. Vicki è presa tra due elementi opposti al proprio
interno che, per comodità, definirei “maschile” e “femminile”. Nonostante il proprio fascino, è fin dall'inizio
fondamentalmente mascolina, svolge una professione da uomini, all'inseguimento spietato del prestigio e del
benessere economico. Crown ne libera la parte femminile. Il test a cui la sottopone riguarda la sua
femminilità. Il mascolino risponde alla sfida. Ecco dove giace il pathos della rivelazione finale.
L'egocentrismo di lei non si era ancora svelato a quello di lui.
In tale contesto fisico, viene esplorata la possibilità di fondare un rapporto di fiducia. Il film si muove in
direzione dell'enigma finale di Vicki. La sua ambivalenza è adeguata al crescere del pericolo per Crown. La
suspense sta nella maniera in cui lei risponderà al dilemma piuttosto che nello scoprire se Crown riuscirà a
farla franca.
Trovo che The Thomas Crown Affair sia un film unico e coinvolgente, superbo nel design tecnico e visivo,
affascinante nella maniera in cui tratta allegoricamente il problema della fede umana.
The Thomas Crown Affair è spazzatura di buona fattura, ma non dovremmo falsificare i motivi
per cui lo apprezziamo secondo i concetti derivati dai nostri studi o da altre arti. Vorrebbe dire
essere disonesti nei confronti di ciò che ci piace. Se la vecchia generazione di recensori si
vergognava di ciò che li faceva divertire e si sentivano in dovere di mostrarsi sprezzanti nei
confronti dell'intrattenimento popolare, per una nuova generazione di cinefili è ancora peggio
essere talmente fieri di ciò che li fa divertire da servirsi dell'educazione ricevuta per trovare un
posto alla spazzatura all'interno di una tradizione accademica accettabile. Il ragazzo di Cambridge
opera una forma di mistificazione peggiore di quella messa in atto da coloro che parlano della
Loren come di una grande attrice anziché di una splendida donna. La spazzatura non appartiene
alla tradizione accademica, e questo è parte di ciò che la rende divertente: sapere (come si
dovrebbe) che non va presa sul serio, che non ha mai inteso essere altro che frivola, irrisoria e
divertente.
Fa impressione leggere solenni studi accademici su Hitchcock o von Sternberg scritti da gente che
sembra aver completamente dimenticato i motivi primari per cui si vedono film come Notorious
(Notorius, l'amante perduta, 1946) o Morocco (Marocco, 1930), che non avevano alcuna
intenzione di essere solenni, ma piuttosto inventivi, briosi e (spesso deliberatamente) leggermente
assurdi. Ciò che c'è di buono in essi e li apparenta all'arte è proprio quel brio e l'assenza di
solennità. Adesso si fa un gran parlare della tecnica di von Sternberg, del suo uso della luce, del
décor e del dettaglio – e non che non sia un maestro del kitsch in questi settori, nell'artificiosità
studiata e nell'eccesso accattivante. Sfortunatamente, alcuni studiosi si servono di questa sua
capacità per considerare i suoi film opere d'arte, ancora una volta mistificando ciò a cui realmente
rispondono: l'appagante fascino romantico di questa spazzatura particolarmente accattivante.
Morocco è spazzatura eccellente ed è talmente raro che un film sia grande arte che se non siamo
in grado di apprezzare la grande spazzatura ci restano poche ragioni per interessarci al cinema. Il
kitsch di un'era precedente, anche quello migliore, non diventa arte, ma può diventare “camp”. I
film di von Sternberg diventavano camp già mentre li stava ancora realizzando, perché quando il
sentimento romantico è venuto a mancare dalla spazzatura – cioè quando il regista è diventato
così innamorato dei propri effetti che ha trasformato il suo materiale umano in in uno scialbo pezzo
di décor privo di affetto – il suo stile assurdamente kitsch era tutto ciò che restava. Adesso
rispettabili pubblicazioni da museo ci dicono che nel 1932 un film come Shanghai Express (Id.,
1932) “era stato ingiustamente scambiato per un film gratuitamente avventuroso” quando in realtà
era stato compreso esattamente per quello che era: un film gratuitamente avventuroso. E
apprezzato come tale. Questo mascherare la cultura bassa da alta è una particolare forma di follia
cinematografica mescolata all'accademicismo: significa magiare una barretta di dolce e pulirsi le
labbra parlando di “un problema allegorico sulla fede umana”. Se non ci interessasse altro che
opere complesse e profonde non andremmo a vedere film su ladri affascinanti e donne seducenti
che cantano in bar da quattro soldi, e se abbiamo amato Shanghai Express non era per la sua
intelligenza ma per la peccaminosità gloriosa della Dietrich quando informa Clive Brook che “It took
more than one man to change my name to Shanghai Lily” e per il cattivo boss cinese (Warner
Oland!) che declama il classico “The white woman stays with me”.
Se non neghiamo il piacere che ci procura un certo tipo di spazzatura e accettiamo The Thomas
Crown Affair come un discreto esempio di spazzatura cinematografica, allora forse possiamo
cominciare a chiederci se un film come questo abbia qualche relazione con l'arte. Steve McQueen
offre, a oggi, la sua prova più accattivante ma, per quanto l'abbia apprezzata, non me la sento di
definirla artistica. È astuta, piuttosto, ovvero ciò che viene esattamente richiesto da questo tipo di
veicolo – e se fosse stato più fortunato, se la sceneggiatura avesse fornito ciò di cui è
palesemente sprovvista, ovvero un dialogo più sofisticato – il botta e risposta con allusioni sessuali
che scrittori come Jules Furthman e William Faulkner hanno messo in bocca a Bogart, e se il
regista Norman Jewison possedesse la leggerezza di tocco di Lutbisch, avremmo potuto
acclamare McQueen come un artista mellifluo e “raffinato”. Anche in un contesto pieno di difetti c'è,
però, nella sua prova d'attore una tale consapevolezza da rendere piacevole la sua eleganza. E
Haskell Wexler, il direttore della fotografia, ci regala un'enorme quantità di effetti, invadendo lo
schermo con ondate di rassicurante bellezza e migliorando il materiale a disposizione. E i giochi di
split-screen di Pablo Ferro all'inizio del film sono così consapevoli e furbi da convincerci a
guardare dove non risiede altro interesse. Ciò che rende più apprezzabile questa spazzatura
riguarda il fatto che i tecnici e gli attori coinvolti, consapevoli del fatto di star lavorando su uno
script sciocco e banale e a un film che non è meglio, hanno sfruttato al massimo la possibilità di
trasformarlo in qualcosa di divertente. Se il regista Norman Jewison fosse stato in grado di mettere
in piedi un film anziché un insieme di sequenze, forse avremmo potuto considerare Crown
un'opera della classe di Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) di Lutbisch. Invece non
ci si avvicina nemmeno, perché per trasformare il kitsch e renderlo arte c'è bisogno di una grazia
unificatrice, lo charme formale che Lubitsch a volte era in grado di offrire. Nonostante ciò, qualche
accenno di grazia ci viene dalla giocosità di McQueen, da Wexler e da Ferro. Lavorando con la
spazzatura, liberi di divertirsi, gli attori e i tecnici possono sentirsi più sciolti, come lo è lo spettatore
di guardare la spazzatura. E poiché ritroviamo questa piacevolezza dell'arte in poco cinema se non
nella spazzatura, possiamo tranquillamente rilassarci e apprezzarla liberamente per quel che è.
Non mi fido di nessuno che non sia capace di ammettere di aver apprezzato almeno una volta un
film spazzatura americano; non mi fido dei gusti di una persona che sia nata con tale buon gusto
da non dover trovare la propria strada in mezzo alla spazzatura.
C'è un momento in Children of Paradise (Amanti perduti, 1945) quando il ricco nobile (Louis
Salou) si volta verso la propria amante, la plebea ornata di perle Garance (Arletty) lamentando il
fatto che negli anni trascorsi insieme non ha mai avuto il suo amore e lei risponde “You've got to
leave something for the poor”. Ai film non chiediamo tanto, giusto qualcosa che ci possa
appartenere. Chi, a un certo punto, non è sgattaiolato fuori da quel bel film straniero per intrufolarsi
dove proiettavano un bell'esemplare di spazzatura americana? Non siamo solo persone educate e
di buon gusto, siamo anche persone comuni con gusti comuni. E i nostri gusti comuni non sono
tutti cattivi. Dalla spazzatura ci aspettiamo una vitalità che siamo abbastanza certi di non ritrovare
nei rispettabili “film d'arte”. E abbiamo anche capito da un pezzo che non possiamo trovarla
nemmeno in alcuni film americani. L'industria, adesso, ha assunto un tono neo-vittoriano,
congratulandosi con se stessa per quei (pochi) film “belli e puliti” - che sono sempre i suoi film
peggiori perché niente riesce a trapassare la loro superficie compiaciuta, e anche il talento degli
attori si limita a essere carino e stucchevole. La più bassa spazzatura d'azione è preferibile al sano
intrattenimento per famiglie. Quando li si ripulisce, quando si rendono i film più rispettabili, li si
uccide. La fonte della loro arte, la loro grandezza, sta nel loro non essere rispettabili.
VII
La spazzatura corrompe? In ambito artistico fiorisce ancora un bizzarro puritanesimo, non solo
nell'approccio scolastico che considera l'arte qualcosa di “meritevole”, ma anche ai piani alti della
vita accademica dove gli ideologi ci denigrano perché apprezziamo la spazzatura come se ciò ci
allontanasse dalla vera, nuova arte dei nostri tempi, arrabbiata e disturbante, e ci distruggesse. Se
fossimo costretti, faremmo fatica a giustificare i nostri piaceri sciocchi e triviali. Come potremmo
giustificare il divertimento di riconoscere certi volti, un film dopo l'altro, come Joan Blondell, la
ragazza appariscente dal cuore d'oro, o quello di aspettare che la piccola eroina pronunci la sua
battuta, così da ascoltare la risposta dell'amica dura e spiritosa (la mia favorita era Iris Adrian). E,
quando il film dovesse diventare noioso, ci sarebbe sempre l'interludio cantato: guardie e ladri che
si trovano nello stesso nightclub terra di nessuno, tutto si ferma e la ragazza comincia a cantare. A
volte può trattarsi della cosa più gradevole del film, come quando Dolores Del Rio canta “You
Make Me That Way” in International Settlement (L'ultima nave da Shanghai, 1938); altre volte
arriverebbe in modo malinconico, come quando una morente Bette Davis accompagna la
chanteuse che canta “Oh Give Me Time for Tenderness” in Bitter Victory (forse si riferisce a Dark
Victory, ndr). I piaceri procurati da siffatta spazzatura non sono difendibili sul piano intellettuale.
Ma perché mai dovremmo giustificarli? Qualcuno è in grado di dimostrare che la spazzatura ci
desensibilizza? Che impedisce alla gente di apprezzare qualcosa di meglio, che limita la gamma
del nostro responso estetico? Che io sappia nessuno potrebbe riuscirci. O che persino i film della
Disney o quelli con Doris Day ci procurino un male duraturo? Non conosco nessuno a cui sia
capitato, benché mi sembri che influiscano sul tono della cultura e che forse – non scherzo –
anche se non ci danneggiano singolarmente, possano avvelenarci collettivamente. Ci sono donne
che desiderano vedere un mondo in cui tutto sia carino e allegro, nel quale il romanticismo trionfi
(Barefoot in the Park [A piedi nudi nel parco, 1967], Any Wednesday [Tutti i mercoledì, 1966]);
famiglie che vedono nei film una fonte di ispirazione innocua, un buon esempio per i propri figli
(The Sound of Music [Tutti insieme appassionatamente, 1965], The Singing Nun [Dominique,
1966]); coppie in cerca di quell'umorismo alla buona (A Guide for the Married Man [Una guida
per l'uomo sposato, 1967]) che li spinge anche ad assistere agli spettacoli di Broadway. Queste
persone sono il motivo per cui film fasulli, stantii e marci fanno soldi; sono il motivo per cui in giro ci
sono così pochi buoni film. Ecco perché questa terribile cultura conformista ci riguarda tutti. Di
certo limita e paralizza le opportunità degli artisti. Ma non è per questo che la spazzatura viene
generalmente attaccata. Ho fatto a meno di utilizzare il termine “spazzatura innocua” per film come
The Thomas Crown Affair perché ciò mi metterebbe dalla parte dei buoni, contro una “spazzatura
dannosa” che, onestamente, non ho idea di cosa sia. È normale che la stampa consideri
“abbruttenti” violenti film d'azione realizzati con due soldi, ma ciò non ci dice tanto riguardo effetti
dimostrabili quanto dei gusti schizzinosi dei recensori – capaci spesso di apprezzare la violenza in
contesti più costosi e “artistici”, come in Petulia. Potremmo dire che si tratta di un pregiudizio di
classe: i film più rozzi, privi di ogni apparenza artistica, fanno male alla gente.
Se c'è un pizzico d'arte nella buona spazzatura e a volte anche in quella cattiva, potrebbe esserci
più spazzatura di quanto si creda in alcuni dei più acclamati film “artistici”. Film come Petulia e
2001 potrebbero non essere altro che spazzatura nella sua veste più aggiornata e accattivante: si
servono di “tecniche artistiche” per dare alla spazzatura l'aspetto dell'arte, un aspetto che potrebbe
essere l'ultima moda in fatto di spazzatura costosa. Tutta questa “arte” potrebbe essere ciò che
impedisce a film così di essere spazzatura apprezzabile: non sono di bassa qualità in maniera
“onesta”, sono sofisticati e prendono molto seriamente le proprie idee di bassa qualità.
Raramente ho visto un film più sgradevole, spiacevole (e sanguinolento) di Petulia e ritengo che il
suo successo commerciale rappresenti un trionfo della pubblicità. È un film molto strano e alla
gente può piacere per ogni sorta di ragioni, ma credo che a molti, come me, non piaccia, solo che
ritengono di doverne restare impressionati: le persone educate e privilegiate potrebbero oggi
essere più suscettibili ai mass media di quanto lo sia il pubblico comune. Sono certamente più
facili da raggiungere. La pubblicità riguardo Richard Lester in quanto artista ha preso lo slancio fin
dai tempi di A Hard's Day Night (Tutti per uno, 1964). Un successo di critica unito a quello di
pubblico trasforma un regista in un genio, un mago capace di fare soldi con l'arte. I media si
contendono le storie più clamorose, sono a caccia di saggi editoriali e pezzi che lancino trend,
perché una volta che il processo comincia tutto fa notizia. Se Lester “ruba la scena”, una rivista
che non ha contribuito al suo successo si sente sconfitta dalla concorrenza. Petulia è la
celebrazione di un'America malata e nella sequenza d'apertura gli ospiti arrivano – ricche vittime di
incidenti stradali nelle loro sedie a rotelle – vestiti come lo “spirito del '76” alla prima di un'opera. È
un horror fantascientifico – un nuovo mondo sgargiante, quello a cui siete stati invitati, il “Ballo per
la Sicurezza Autostradale”.
Lester ha scelto San Francisco per sferrare il suo attacco all'America proprio come ha scelto la
Seconda guerra mondiale per attaccare la guerra. Perché è un vero attacco frontale quello sferrato
nei confronti di una guerra che molte persone considerano giusta. Ma Lester si è concentrato più
sui conflitti di classe che sulla guerra in sé – chi non era impegnato a difendere Londra o a
bombardare la Germania si dava da fare per costruire un campo di cricket in Africa. In Petulia, la
sua lettera d'odio all'America, sposta l'ambientazione del romanzo da Los Angeles a San
Francisco, presumibilmente per dimostrare che anche ciò che di meglio ha da offrire il Paese è
corrotto. Ma poi tradisce i propri intenti travestendo San Francisco da Los Angeles. E se deve
mettere imbonitori carnevaleschi sul Golden Gate e inventare escursioni domenicali per bambini a
Alcatraz o ambigue caricature dell'affarismo odierno, come bizzarri motel automatici e finti set
televisivi; e se deve sfruttare le brutture, l'isterismo e la follia, servirsi di filtri per rovinare la bella
luce della città, se, in breve, deve falsificare l'America per renderla odiosa il suo odio verso cosa è
rivolto? È come un poliziotto corrotto che incastra un sospetto servendosi di prove artefatte. Non
scopriamo mai il perché: è troppo attento nell'inscenare un caso appariscente per esaminare
quello che sta facendo. E i recensori non sembrano intenzionati a fare domande che potrebbero
esporli al rischio di far credere che stanno cercando un significato anziché, secondo la nuova
tendenza, reagire alle immagini – domande come “perché il film continua ad accostare immagini di
chirurgia sanguinolenta e della guerra in Vietnam a immagini di gruppi rock come i Grateful Dead o
Big Brother and the Holding Company?”. Cosa si suppone provochino in noi questi montaggi? Che
ci facciano comprendere che anche l'eroe (un chirurgo impegnato a salvare vite) è implicato nella
guerra e che in qualche modo la musica contemporanea è un'alleata di morte e distruzione?
(Pensavo che solo i moralisti sovietici ci credessero). Le immagini di Petulia non forniscono
connessioni valide, sono accostate al solo scopo di ottenere shock ed eccitazione, e non credo
nella validità di un metodo che getta in un unico calderone gli hippy, la guerra, la chirurgia, il
benessere, i decadenti degli stati del sud e le corride. Il miscuglio operato da Lester è disonesto
quanto quello di Mondo cane (1962): Petulia sfrutta qualunque materiale scioccante possa
mettere insieme per dare falsa importanza a un a storia su Holly Golightly e l'uomo con l'abito
grigio di flanella. Lo stile a mosaico di Petulia, frastagliato e brillante, è un'armatura che protegge
Lester dal compito dell'artista: un tipo di stile che non inganna più nessuno quando è scritto, ma
istupidisce la gente se usato in un film.
I registi in difficoltà ricorrono a quello che amano chiamare il loro “stile personale” - anche se
Petulia illustra bene quanto possa spesso essere impersonale – anche senza ricorrere al
montaggio ritmico e nello stile da montaggio grafico associato a Lester (e visto soprattutto in Help!
[Aiuto!, 1965], se non il suo film migliore, quello meglio montato) ma nello stile di un chirurgo,
Anthony Gibbs, che si è messo al lavoro sul film con una mannaia e gli ha dato lo stesso taglio di
The Loneliness of the Long Distance Runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962) e in Tom Jones
(Id., 1963), la sua operazione di salvataggio. Il montaggio di gran parte di Petulia è il più banale
immaginabile: tiene desta l'attenzione del pubblico per mezzo di stacchi, giustapposizione di
immagini sorprendenti, tutto purché funzioni, appaia sorprendente – mentre il regista,
all'apparenza, si dispensa dalle responsabilità implicite negli accostamenti che fa (un tipo di
montaggio derivato da Alain Resnais che, benché nei suoi film dia vita a uno stile discutibile, se ne
serve responsabilmente e non in maniera opportunistica).
Richard Lester fa rimproveri petulanti in abito da Mod. Si prenda in considerazione una sequenza
come quella in cui la protagonista, pestata a sangue, viene portata all'ambulanza in compagnia di
hippy che fanno i commenti più stupidi e fuori luogo. Ricorda in maniera imbarazzante i commenti
degli adulti riguardo i giovani pre-hippies di The Knack (Non tutti ce l'hanno..., 1965). Lester ha
solo cambiato faccia ai cattivi. Sta dicendo forse che l'America è così marcia che persino i nostri
hippy sono malevoli? Sospetto di sì, ma perché? Lester ha intrapreso una maniera facile e
modaiola di attaccare l'America e, a causa della guerra in Vietnam, molti sono disposti ad
accettare i montaggi sanguinolenti che fanno sentire tutti colpevoli, ricchi, violenti, viziati e incapaci
di relazionarsi agli altri. Forse il regista che ha girato tre film celebrando la gioventù (A Hard Day's
Night, The Knack e Help!) ora muore dalla voglia di ampliare il suo orizzonte e diventare un
regista “serio”, e questa è la nuova moda in fatto di serietà cinematografica.
Sarebbe troppo semplice prendersi gioco degli ingredienti comuni della spazzatura – l'eccentrica
eroina che ruba una tuba (più che Carole Lombard al suo meglio, Irene Dunne al suo peggio), il
marito impotente e insignificante ma attraente, Richard Chamberlain (un altro ricco senza spina
dorsale alla David Manners), e Joseph Cotten nelle vesti del peggior decadente vizioso del sud
intento a sputare malevolenze (persino Victor Jory in The Fugitive Kind [Pelle di serpente, 1960]
era meno spietato). Ciò che è davvero terribile non è tanto la convenzionalità di questa spazzatura
quanto il tentativo da parte del regista di trasformarla in arte luccicante e analisi bruciante; ciò che
è davvero orrendo è quanto siano spazzatura le sue idee e il loro effetto artistico.
C'è forse dell'arte in questo film così oscenamente autocompiaciuto? Sì, ma in un formato come
questo le poche idee buone non brillano come succede con la spazzatura pura e semplice: prima
di ottenerle ci tocca subire una gran quantità di cose spiacevoli ed esibite. Lester dovrebbe aver
più fiducia nelle proprie capacità registiche e accantonare questi effetti da prestigiatore d'immagini,
perché alcune sequenze mostrano una bella regia, tesa. Ha ottenuto una buona prova d'attore da
George C. Scott e c'è una sequenza di litigio postmatrimoniale tra lui e Shirley Knight che, per
quanto sopra le righe, non è così palesemente sopra le righe quanto il resto del film. Suggerisce
qualcosa di interessante riguardo ciò che il film sarebbe potuto essere (Shirley Knight, comunque,
avrebbe potuto fare a meno di carezzarsi in continuazione i capelli come un avaro in possesso di
un gruzzolo d'oro). E Julie Christie è straordinaria da vedere, ansiosa e lasciva, smagliante ma
qualcosa di fondamentale è assente, quasi che in lei non ci fosse una donna.
VIII
2001 è un film che avrebbe potuto realizzare il protagonista di Blow-Up (Id, 1966), ed è divertente
pensare a Kubrick che riesce davvero a fare ogni piccola cosa che gli viene in mente, edificare
giganteschi set di fantascienza con tutto il loro equipaggiamento, senza mai neanche preoccuparsi
un istante di cosa ne farà alla fine. Anche Fellini si è fatto portare lontano dall'approccio da
“edificatore di set enormi”, ma la sua grande costruzione fantascientifica, esposta in conclusione a
8 e ½ è stata poi abbandonata. Kubrick non ha mai davvero realizzato il film che voleva ma
sembra non essersene reso conto. Ad alcuni piacciono i film della AIP perché sono abbastanza
idioti e ad alcuni forse piace 2001 per tutta quella stupida messa in scena, fantasia super-sci-fi da
svitati. In qualche modo si tratta del più grande film amatoriale di sempre, completo anche della
scena obbligatoria dei film amatoriali – la figlia del regista che dice al papà quale regalo desidera.
In You Only Live Twice (Agente 007, si vive solo due volte, 1967) c'era una scena prima dei titoli
di testa con un astronauta nello spazio girata con più libertà e scioltezza di 2001 – un piccolo
momento sorprendente che diverte più di tutto 2001. Possedeva l'elemento dell'inaspettato, lo
shock di rendere lirica la morte nello spazio. Il sottotitolo di Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore,
1964), che credevamo essere satirico, “How I learned to stop worrying and love the bomb”, non
era, a quanto pare, satirico per Kubrick. 2001 celebra l'invenzione di strumenti di morte, all'interno
di un percorso verso un ordine superiore di vita non umana. Kubrick ha letteralmente smesso di
preoccuparsi e ama la bomba; si è trasformato nell'Herman Kahn della teoria dei giochi
extraterrestri. Forse, l'attrazione di un film così faticoso e confuso è quella di condurre un pubblico
sballato fuori dal mondo verso una consolante visione dell'universo spaziale, controllato da
superiori menti divine, dove l'eroe rinasce come bambino angelico. Ha l'aspetto sognante di una
visione del paradiso alla “somewhere over the rainbow”. 2001 è una celebrazione del “cop-out”.
Dice che l'uomo non è altro che un minuscolo nulla lungo la scala al cielo, che sta per arrivare
qualcosa di meglio, ma che, in ogni caso, non è a portata di mano. C'è un'intelligenza lassù nello
spazio che controlla il vostro destino dalla scimmia all'angelo, non dovete fare altro che seguire il
monolite. “Drop up”.
È un brutto segno quando un regista comincia a pensare a se stesso come a un produttore di miti,
e questo mito zoppicante di un grande piano che giustifichi lo sterminio e termini con la
resurrezione circola giù da un pezzo. La narrazione del film di Kubrick – il resoconto
dell'evoluzione da parte di un'intelligenza extraterrestre – è probabilmente il più gloriosamente
ridondante di tutti i tempi. E anche se le sue intenzioni potrebbero essere state diverse, 2001
celebra la fine dell'uomo; nel film la morte di Gary Lockwood passa inosservata – il momento non
viene nemmeno specificato – e l'eroe non scopre nemmeno che gli scienziati ibernati sono ormai
cadaveri. Non è rilevante, in un film che parla della bellezza della resurrezione. Intraprendete il
viaggio per unirvi all'intelligenza cosmica e tornate indietro con una mente migliore. E dal momento
che nel film il viaggio è il consueto spettacolo di luci pischedeliche, il pubblico non deve nemmeno
preoccuparsi di raggiungere Giove. Posso andare in Paradiso al Cinerama.
Non è un caso se non ci importa che i personaggi vivano o muoiano; se Kubrick li ha resi così
poco interessanti in parte è perché i personaggi e i loro destini individuali non sono abbastanza
importanti per certi, grandi registi. I grandi registi diventano generali dell'arte: sono a caccia di
argomenti che rispecchino la loro grandezza. Kubrick ha annunciato che il suo prossimo progetto
sarà Napoleon – che, per un regista, è l'equivalente di interpretare Giovanna d'Arco per un'attrice.
I commenti “feroci” di Lester sul benessere e il malessere, la banalità di ispirazione di Kubrick su
come diventeremo Dei per mezzo delle macchine, sono il miglior esempio di pensiero profondo
che può offrire lo show-business. Non si tratta di un fenomeno nuovo, in quest'ambiente:
appartiene alla tradizione del genio teatrale. Grandi investitori, produttori e registi mettono in scena
grandi spettacoli, persino designer di grandi set hanno cominciato a interpretare il ruolo di visionari
e pensatori capaci di fornire risposte. Diventano troppo grandi per l'arte. È possibile realizzare un
prodotto artistico se per l'artista la pseudoscienza e la tecnologia del cinema diventano più
importanti dell'uomo? È una questione centrale per il fallimento di 2001. È un film monumentale
nella sua scarsa immaginazione: con la sua centrifuga da 750 mila dollari e il suo amore per i
pannelli di controllo e l'hardware gigante, [Kubrick] è il Belasco della fantascienza. Gli effetti
speciali – benché vengano dritti dal laboratorio di progettazione – sono eccellenti, e costosamente
dettagliati. C'è ben poco altro di buono nel film, quando Kubrick non si prende troppo sul serio –
come il momento comico in cui le astronavi spaziali cominciano il loro valzer sulle note di Strauss;
vale a dire, quando il regista mostra un minimo senso di proporzione riguardo quello che sta
facendo, e si rende conto per un istante della comicità del tutto – quando il film non si prende sul
serio in maniera così solennemente idiota. Il viaggio di luci non è particolarmente entusiasmante:
paragonato al lavoro di un regista sperimentale come Jordan Belson, è di terza mano. Se i grandi
registi devono venire lodati perché fanno male quello che altri hanno fatto molto meglio con pochi
soldi, solo perché l'hanno messo su un grande schermo, allora gli uomini d'affari sono più gradi dei
poeti e il furto è arte.
IX
Parte del divertimento dei film è andare a vedere “quello di cui tutti parlano”, e se la gente si mette
in fila come un gregge per vedere un film, o se la stampa riesce a convincerci che è proprio quello
che fanno, allora ironicamente ciò che vogliamo vedere ha un senso, anche se sospettiamo che
potremmo non divertirci, perché vogliamo sapere cosa sta succedendo. Anche se ciò di cui si parla
di più è il più pomposo pezzo di spazzatura (e di solito è proprio così) e anche se tutto quel
parlarne è prodotto ad arte, vogliamo vedere ugualmente quel film perché così tanta gente crede a
ciò che le viene raccontato da trasformare in verità le bugie delle campagne promozionali. Il
cinema assorbe materiale dalla cultura e dalle altre arti così rapidamente che alcuni film, venduti in
maniera diffusa, diventano importanti a livello sociale e culturale a prescindere dalla loro qualità.
Film come Morgan! (Morgan matto da legare, 1966), Georgy Girl (Georgy svegliati!, 1966) o The
Graduate – esteticamente trascurabili – a causa del modo in cui reagisce la gente, entrano nel
flusso popolare, diventano equivalenti culturali e psicologici dell'assistere a un convegno politico: li
si vede per rendersi conto di quanto accade. E benché ciò abbia poco a che fare con l'arte del
cinema, ne ha molto con il fascino dei film.
Un analista mi dice che quando i suoi pazienti non parlano dei loro problemi personali parlano di
personaggi e situazioni visti in The Graduate o Belle de jour (Bella di giorno, 1967) e parlano di
loro con lo stesso coinvolgimento personale con cui raccontano i propri problemi. Altrove ho
avanzato l'idea che questo modo di reagire ai film come psicodramma un tempo venisse
considerato una maniera di reagire da “preletterati” ma oggi i “postletterati” reagiscono allo stesso
modo. Gli studenti del college che si identificano con Georgy Girl o con il Benjamin di Dustin
Hoffman non sono diversi dalla stenografa che viveva in simbiosi con la lavoratrice Joan Crawford
che si domandava se quel ragazzo ricco l'avrebbe davvero resa felice e considerava “grandi” i film
in cui recitava. Non vedono i film come tali ma come parte della soap-opera della propria vita. I “fan
magazine” hanno contribuito a incoraggiare questo tipo di identificazione: ora fanno lo stesso
anche i mass media più avanzati, e coloro che vogliono vendere alla gioventù dicono “lasciatevelo
scorrere dentro”. Chi risponde a questo richiamo non è più libero ma meno libero e meno
consapevole di ciò che in un film è ben fatto o mal fatto e di chi sa cosa accettare e cosa rifiutare e
si serve di tutti i propri sensi nel reagire, non affidandosi solo alla propria vulnerabilità emotiva.
Ma quello che interessa la gente interessa anche noi – a volte perché vogliamo sapere quanto ci
siamo allontanati dal gusto comune – e se un film è importante per gli altri ci interessiamo ad esso
per quello che rappresenta per loro, anche se non dice granché a noi. Il piccolo trionfo di The
Graduate è stato quello di aver “addomesticato” l'alienazione e la difficoltà di comunicazione,
trasformando in una striscia a fumetti per la classe media le ragioni dell'alienazione di Benjamin e
rendendo assolutamente evidente che egli non ha nulla da comunicare – ovvero ciò che lo rende
un eroe accettabile dal grande pubblico. Se avesse avuto qualcosa da dire o idee da comunicare,
il pubblico probabilmente l'avrebbe odiato. The Graduate non è un brutto film, è divertente, anche
se in modo piuttosto superficiale (il pubblico ormai è programmato per le risate). Di sorprendente
c'è che così tanta gente l'abbia preso sul serio. Ciò che c'è di divertente nel film è il fatto che si rida
di un ragazzo sincero che vorrebbe parlare d'arte a letto con una donna che vorrebbe solo
fornicare. A quel punto, però, il film comincia ad assecondare il narcisismo giovanile, glorificandone
l'innocenza, e trasformando la donna cacciatrice (e pazza) nel cattivo della situazione. A livello
commerciale funziona: il ragazzo noioso e incapace di esprimersi diventa per il pubblico l'eroe
romantico sul quale proiettare tutte quelle sensazioni stupide e convenzionali; i suoi genitori non
comunicano con lui; lui vuole la verità e non le mistificazione, e così via. Ma il film tradisce la
propria furbizia: svende i momenti comici, piazzati ad hoc come in una commedia di Broadway,
servendosi del richiamo cinematografico più vecchio del mondo: chiedere al pubblico di
identificarsi con un sempliciotto, nient'altro che l'ultima versione dell'adolescente incompreso, il
ragazzo della porta accanto, puro di cuore. È quasi doloroso dover dire ai giovani che sono andati
a vedere The Graduate otto volte che una sola sarebbe stata sufficiente perché hanno già visto
ottanta volte lo stesso film con Charles Ray, Robert Harron, Richard Barthelmess, Richard
Cromwell o Charles Farrell. Come si fa a convincerli che un film che vende l'innocenza è un'opera
così commerciale quando sono andati lì proprio per quello? Quando The Graduate si sposta verso
il tenero risveglio dell'amore, diventa l'ultima versione di David and Lisa (David e Lisa, 1962). The
Graduate cerca in tutti modi di funzionare e, fondamentalmente, è questo il problema. C'è una
pausa fatta apposta per le risate quando viene menzionata “Berkeley” che è un inconfondibile
segno della voglia di funzionare: questo tipo di cinematografia muta i valori, il focus, l'enfasi,
qualunque cosa pur di ottenere un responso sicuro. Il “dono” di Mike Nichols è quello di sapersi
fare dirigere dal pubblico: è la demagogia dell'arte.
Anche la fornicazione tra diverse età è un classico del genere. Risale a Pauline Frederick in
Smouldering Fires (1925), a Clara Bow che se la faceva con il fidanzato di mamma Alice Joyce in
Our Dancing Mothers (il titolo corretto è Dancing Mothers, 1926, ndr), e Mildred Pierce negli
anni '40. Anche le condizioni non sono differenti: gli adulti seduttori di questi film sono sofisticati,
modani e corrotti, i giovani innocenti, anche se non così privi di humour e scialbi come Benjamin.
Nel rispettare queste attitudini The Graduate è tipicamente americano, ci riporta a The Game of
Love (Quella certa età, 1954) con Edwige Feuillère vecchia compassionevole, e a Lola Albright in
A Cold Wind in August (Vento freddo d'agosto, 1961).
L'interesse del successo di The Graduate è di tipo sociologico: la scoperta di quanto la nuova
gioventù sia emotivamente accessibile alle stesse, vecchie manipolazioni di sempre. Il ricorrere di
certi temi nei film suggerisce che ogni generazione desidera il romanticismo, rielaborato in termini
leggermente nuovi, e uno dei piaceri del cinema come arte popolare risiede proprio nella possibilità
di assecondare tale necessità. Però... non ci si aspetta che una generazione così istruita sia così
tenera con se stessa, più tenera degli operai che, in passato, non andavano a rivedere sempre lo
stesso film, fantasticando su se stessi e pensando che questa fissazione significasse che il cinema
era improvvisamente diventato un'arte, la loro arte.
X
Quando si è giovani è probabile che si trovi qualcosa di apprezzabile in ogni film. Ma crescendo si
acquista esperienza e le probabilità cambiano. Qualche anno fa ho visto un film che pareva la
sesta rielaborazione di un materiale già scadente in partenza. A meno che non siate dei ritardati, le
probabilità peggiorano sempre. Non andiamo mai avanti all'infinito a leggere gli stessi romanzi
scritti in serie – gialli o western, tanto per dire – così come non vogliamo andare avanti tutta la vita
a vedere filmetti su una banda di rapinatori imbranati. Il problema delle forme d'arte popolari è che
quelli che desiderano qualcosa di più sono una minoranza irrilevante se paragonata ai milioni che
vedono sempre le cose per la prima volta, o per il senso di rassicurazione e gratificazione di
vedere le convenzioni rispettate ancora una volta. Questo è il motivo per cui, probabilmente, molti
dei migliori critici si arrendono. Sbagliano a dare la colpa ai film: non sono i film a peggiorare,
peggiorano le probabilità, e non sono più in grado di sopportare i tanti film noiosi per quel poco di
buono e di identificazione che offrono. Alcuni diventano troppo annoiati, altri troppo affaticati per
rispondere a ciò che è davvero nuovo. Altri diventano troppo esigenti rispetto ai giovani che
vedono tutto per le prime cento volte. Il compito del critico è necessariamente comparativo, e i più
giovani non sono in grado di capire cosa sia davvero nuovo. Nonostante il gran parlare dei media
su quanto siano svegli i giovani d'oggi, essi sono incredibilmente ingenui nei confronti della cultura
di massa – persino più ingenui della generazione che l'ha preceduta (anche se non so spiegarmi
perché). Forse guardare così tanta televisione non gli ha fatto bene quanto credono; e quando mi
capita di leggere l'apprezzamento di un giovane intellettuale nei confronti di Rachel, Rachel (La
prima volta di Jennifer, 1968), quando parla della “passione della madre per le barrette di
cioccolato come simbolo supremo di una seconda infanzia” capisco che l'autore è ancora nella sua
prima infanzia e mi chiedo se ne uscirà mai.
Le abitudini e i gusti di un cinefilo cambiano – dei film mi piace quello che mi è sempre piaciuto ma
adesso, per esempio, apprezzo molto di più i documentari. Dopo tanti anni passati a vedere film
antiquati e recitati male, con sempre qualcosa di meno da offrirmi, sono alla ricerca disperata di
sapere qualcosa, di fatti, informazione, di volti non di attori e della conoscenza di come vivono le
persone – sono in cerca di rivelazioni, non di quei dettagli minimi allestiti ad arte dalle menti di chi
lavora nello show-business che li ricicla dagli stessi film di cui ci siamo stancati.
Ma il cambiamento è nelle nostre abitudini. Se riusciamo a vivere una vita decente e utile per noi
stessi abbiamo meno bisogno di evadere verso quei piaceri sempre più rari dei film. Quando
andiamo al cinema vogliamo qualcosa di buono, qualcosa di che lo sia a lungo e non solo per un
breve istante, perché abbiamo di meglio da fare. Se la vita a casa è più interessante, perché
andare al cinema? E le sale frequentate dai veri cinefili – quelle persone perennemente dislocate
in ogni città, i solitari e i perdenti – ci deprimono. Quando li ascoltiamo – e sono spesso più udibili
del sonoro del film – mentre fanno il tifo per i ladri e denigrano i poliziotti, forse condividiamo
ancora la loro disaffezione ma non è sufficiente a farci essere ancora interessati nelle faccende di
guardie e ladri. Un accenno di sberleffo non è abbastanza. Se siamo cresciuti al cinema sappiamo
che i bei film non hanno una continuità con la tradizione accademica e rispettabile ma con
l'intravvedere qualcosa che brilla nella spazzatura, e vogliamo che il gesto sovversivo venga
protratto fino al dominio della scoperta. La spazzatura ci ha procurato la fame dell'arte.
(pubblicato originariamente su Harper's, febbraio 1969; traduzione di Alessandro Stellino)
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