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La Cina raccontata dai cinesi ai cinesi
I giovani istruiti
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Polonews Rif.: 20080314
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Il tema dei giovani istruiti e della loro esperienza nelle campagne durante la Rivoluzione culturale è un leitmotiv della
letteratura degli anni ‘80, ma ricorre ancora oggi nella produzione letteraria e cinematografica cinese,
segno di come quest’esperienza abbia segnato profondamente un’intera generazione. I giovani che nel
1966 vivevano nelle principali città cinesi sono cresciuti velocemente, passando attraverso l’idealismo e
l’aggressività delle Guardie Rosse, l’esperienza della vita nelle campagne e del duro lavoro fisico a fianco
dei contadini e infine il ritorno in città, quando ormai era chiaro che tutto ciò per cui avevano lottato era
molto lontano dall’essere realizzato. Le speranze, i sogni e le disillusioni di una generazione di cinesi si intrecciano con
la complessità dei fatti storici degli anni della Rivoluzione culturale.
L’espressione “giovani istruiti” (zhishi qingnian, 知识青年) si riferisce ai milioni di giovani che furono mandati
in campagna durante la Rivoluzione culturale per imparare dai contadini e rieducarsi tramite il lavoro manuale, secondo le direttive divulgate da Mao Zedong nel 1968, a due anni dall’inizio del movimento. Si tratta di ragazzi molto giovani, per lo più studenti delle medie inferiori e superiori, accumunati dal fatto di possedere un
certo livello di istruzione e di vivere nelle città. Molti di loro parteciparono attivamente ai primi due anni del
movimento, lottando a fianco delle varie associazioni studentesche riunite sotto l’etichetta generica di Guardie rosse. Per capire le cause della radicale decisione del trasferimento in massa milioni di giovani dalle città
alle campagne, fatto che ebbe grandissime ripercussioni in campo economico e sociale, credo sia opportuno
ripercorrere brevemente le origini del movimento della Rivoluzione culturale e i fatti più salienti che hanno
caratterizzato il decennio 1966-1976.
La Rivoluzione culturale: cenni storici
Le origini della Rivoluzione culturale devono essere ricercate in parte in motivazioni ideologiche rintracciabili nelle teorie elaborate nel corso degli anni da Mao Zedong, e in parte in aspirazioni personali del Timoniere,
che puntava a riconquistare un ruolo dominante sulla scena politica. È infatti opinione condivisa dalla maggior
parte degli storici che la Rivoluzione culturale fu in primo luogo una lotta per il potere, tramite la quale Mao
Zedong cercò di riacquisire una posizione di primo piano all’interno del partito, che formalmente aderiva alle
sue teorie ma praticamente ignorava i suoi consigli. Egli sentiva che la Repubblica Popolare Cinese negli anni
’60 si stava gradualmente allontanando dalla strada che aveva imboccato con la sua fondazione nel 1949. Negli
anni ’60 erano molte le realtà in contraddizione con la sua idea di società rivoluzionaria: un sistema educativo
che forniva migliori opportunità per figli di intellettuali e ufficiali che per la classe operaia, una vita culturale
dominata da temi e forme tradizionali anziché contenuti rivoluzionari, politiche economiche che enfatizzavano
la prosperità individuale invece che il bene collettivo e un partito comunista che si era trasformato in un’élite
che governava in modo fortemente burocratico. Tutto ciò faceva temere a Mao un ritorno al capitalismo, con la
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conseguente vanificazione di tutti gli sforzi compiuti in passato per attuare la rivoluzione. In particolare pensava
che il partito fosse infestato dal morbo del “revisionismo”, cioè si stessero rivedendo i principi fondamentali del
Marxismo-leninismo. Secondo lui, nonostante proprietari terrieri e capitalisti fossero stati eliminati in quanto
classi sociali, il loro modo di pensare feudale e borghese permeava ancora la società cinese, quindi la “lotta di
classe” doveva essere portata avanti, altrimenti i capitalisti sarebbero tornati al potere.
Prima della Rivoluzione culturale Mao Zedong lanciò diverse campagne per difendere il socialismo dai
nemici interni, e tra queste forse la più incisiva fu la Campagna contro gli elementi di destra del 1957, scagliata
contro gli intellettuali e chiunque avesse dichiarato troppo apertamente la sua opposizione al partito durante
il movimento dei Cento fiori dell’anno precedente, in cui erano state chieste critiche costruttive al fine di rinnovare e arricchire il panorama culturale . Molte persone furono imprigionate e altre spedite in fabbriche o in
remote fattorie per riformare il loro pensiero e eliminare le tendenze borghesi attraverso il duro lavoro fisico,
trattamento simile a quello che spetterà ai giovani istruiti circa dieci anni dopo, anche se per quanto riguarda i
secondi è meno evidente l’intento punitivo, poiché vi andò indiscriminatamente un’intera generazione, e alcuni
di loro erano volontari. Un altro tentativo di eliminare i “nemici” del socialismo si ebbe con il lancio del Movimento di educazione socialista (1962-1965), il cui scopo era quello di indottrinare la generazione più giovane,
in particolare nelle zone rurali. Il programma di educazione era rivolto principalmente agli studenti delle scuole
elementari e medie (dai 12 ai 14 anni), che negli anni seguenti costituirono la maggioranza delle Guardie rosse.
Mao Zedong voleva infatti che i nuovi giovani, che non avevano lottato per la Liberazione, partecipassero attivamente alla realizzazione della rivoluzione.
Un’altra sua paura era che il Partito comunista cinese subisse l’influenza del cambiamento di tendenza avvenuto in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin (1879-1953) e l’ascesa al potere di Krushchev (1894-1971). Fin
dagli anni ’50 infatti le posizioni delle due maggiori potenze comuniste si erano allontanate in modo considerevole su una serie di questioni importanti, e le divergenze ideologiche negli anni ’60 si trasformarono in veri e
propri scontri militari, seppur di relativa portata, che si protrassero per tutti gli anni ’70 lungo il confine dei due
Paesi, segnato dal fiume Heilong (in russo Amur).
La Rivoluzione culturale fu costituita da una serie di eventi molto complessi, che avvennero nel decennio 1966-1976, e può essere suddivisa in varie fasi. La fase iniziale fu la più violenta, caratterizzata dalla mobilitazione delle Guardie rosse e dal ristabilimento dell’ordine da parte dell’esercito nel 1968-69 (c’è chi considera
questa data la fine del movimento stesso, anche se il governo cinese riconosce che i disordini continuarono fino
alla caduta della cosiddetta “Banda dei quattro”, gruppo più radicale all’interno del partito).
Il pretesto per lanciare il movimento fu dato dal manifesto rivoluzionario scritto nel maggio del 1966
da Nie Yuanzi, (聂元梓, 1921) una professoressa di filosofia dell’Università di Pechino, che accusava il preside
dell’università di sopprimere le attività politiche degli studenti. Mao Zedong ordinò che il testo del manifesto
fosse pubblicato sul Quotidiano del popolo (Renmin ribao, 人民日报), il giornale ufficiale del Partito comunista
cinese . Ciò portò gli studenti di tutto il Paese a interrogare i loro insegnanti e i leader di partito locali sulla loro
ortodossia politica e a accusarli di compiere “attività di destra”. Il Presidente della Repubblica Liu Shaoqi (刘少
奇, 1898-1969) cercò di riportare la situazione sotto controllo inviando 10.000 quadri in 400 scuole diverse per
convertire le energie degli studenti in dibattiti più costruttivi e per contenere il loro estremismo. Nel giugno anche Mao Zedong scrisse il suo manifesto intitolato Bombardate il quartier generale, in cui dichiarava il proprio
supporto agli studenti e in cui si trovava il famoso slogan “ribellarsi è giustificato”. Autorizzò inoltre la formazione delle associazioni studentesche note con il nome di “Guardie rosse”, che si impegnarono in continue purghe
in tutti i livelli del partito e del governo in ogni area della Cina e che servirono alla realizzazione di uno dei prin-
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cipali obiettivi della Rivoluzione culturale, cioè immobilizzare l’organizzazione del partito, permettendo così a
Mao di riaffermare il suo potere personale e di deporre i suoi principali rivali: il Presidente della Repubblica Liu
Shaoqi e il Segretario generale del partito Deng Xiaoping (邓小平,1904-1997).
Le Guardie rosse comparvero spontaneamente nelle università di Pechino per resistere allo sforzo delle autorità scolastiche di limitare il bersaglio della Rivoluzione culturale a un numero ristretto di studiosi e accademici.
In un incontro di partito che ebbe luogo nell’agosto del 1966 si approvò l’insurrezione di massa e la formazione
dell’associazione, che ricevette la benedizione personale di Mao Zedong in otto incontri di massa avvenuti tra
l’agosto e il novembre di quell’anno nella capitale, a cui presero parte più di tredici milioni di giovani e che
furono organizzati con il supporto logistico dell’Esercito popolare di liberazione. Molti giovani provavano una
cieca devozione per l’uomo che fin da piccoli erano stati esortati a adorare, altri invece vedevano i disordini
come un’opportunità per vendicarsi di alcuni insegnanti o compagni di classe, o ancora per protestare contro
le iniquità del sistema educativo. Le scuole furono chiuse e questi ragazzi si ritrovarono a vagabondare per le
strade, dedicandosi a tempo pieno alla lotta, organizzando le sessioni di critica e le perquisizioni nelle abitazioni
dei controrivoluzionari. Il movimento delle Guardie rosse fu caratterizzato poi da scontri fra le varie fazioni che
si crearono al suo interno, principalmente per questioni di provenienza di classe. Ai ragazzi che provenivano
da classi “nere” (per esempio famiglie di ex-proprietari terrieri o capitalisti) era negato l’accesso all’organizzazione, e anche i figli di intellettuali vennero attaccati e emarginati. Si crearono così le fazioni dei Ribelli, che si
contrapponevano a quelle dei Lealisti, formate dai fondatori dell’associazione, cioè da figli di quadri, all’interno
delle quali però era ugualmente importante l’origine familiare, c’era infatti una gerarchia formata da figli di contadini, figli di appartenenti alla classe media e figli delle classi “nere”. Per tutto il 1967 e la prima parte del 1968
continuarono quindi gli scontri, spesso armati, finché Mao Zedong ordinò all’esercito di intervenire e riportare
la pace nelle città.
Dopo poche settimane dal lancio del movimento i principali oppositori di Mao all’interno del partito furono
criticati, così come un enorme numero di burocrati e politici a tutti i livelli. Chi era stato accusato doveva sottomettersi all’autocritica e alle sessioni di critica, che potevano essere semplici dibattiti notturni alla presenza
di qualche Guardia rossa o umilianti processi pubblici che si trasformavano in spettacoli su palcoscenici eretti
nelle piazze o negli stadi, a cui partecipavano migliaia di persone. Le persone sotto processo, che venivano chiamate “reazionari”, “elementi di destra” o “capitalisti”, erano costretti a confessare i propri crimini e venivano
obbligati a assumere posizioni fisiche molto dolorose (come quella dell’aeroplano, in piedi su una sedia con le
braccia tese e unite dietro la schiena), a portare al collo un cartello su cui era scritto il loro crimine e in testa un
lungo cappello a punta e spesso i loro volti venivano imbrattati di inchiostro nero. Le sessioni di critica potevano
durare giorni interi, fino allo sfinimento fisico dell’interrogato, e potevano ripetersi per mesi o anni. Alcuni di
loro potevano essere dimenticati dopo aver fatto autocritica, mentre altri venivano mandati in esilio in zone
remote o venivano imprigionati. Altri ancora venivano picchiati a morte o si suicidavano. Il Ministro della difesa
Peng Dehuai (彭德怀, 1898-1974) e il Presidente della Repubblica Liu Shaoqi furono condannati al confino e
morirono in seguito per maltrattamenti in prigione e come loro molta gente comune fu vittima di persecuzioni.
Chi era accusato di essere controrivoluzionario o nemico del popolo spesso non aveva compiuto altri crimini se
non quello di possedere libri o oggetti occidentali, che venivano considerati “borghesi”, mentre c’era chi veniva
denunciato da colleghi o conoscenti che cercavano di evitare di essere denunciati loro stessi. Mao aveva infatti
formulato una particolare teoria: era convinto che in qualsiasi momento della storia il 5% della popolazione
fosse da considerare nemica, mentre il 95% era formata da persone su cui il Partito poteva fare affidamento.
In qualsiasi luogo (scuole, fabbriche…) doveva quindi essere raggiunta la quota del 5% di reazionari, e la paura
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spingeva le persone a colpire gli altri, prima di essere colpiti. È facile immaginare come anche motivi personali,
quali antipatie e rivalità, potessero essere causa di accuse reciproche. Il governo cinese ha ammesso che più
di 35.000 persone morirono dal 1966 al 1968, ma alcuni studiosi occidentali sono arrivati a parlare di più di
400.000 vittime.
Mao Zedong dovette quindi intervenire per riportare l’ordine e a questo scopo promosse la creazione di Comitati rivoluzionari, detti anche “Comitati tre in uno”, perché costituiti da rappresentanti del popolo, da quadri
di partito locali e da membri dell’Esercito popolare di liberazione. Questi organi sostituirono i governi locali e
nel 1969 tutte le province cinesi ne avevano uno, inclusi Tibet e Xinjiang. Nelle scuole le lezioni ripresero regolarmente e una parte delle Guardie rosse tornò nelle aule, mentre molti di loro furono mandati a lavorare nelle
campagne per sottoporsi alla “rieducazione socialista”, di cui parlerò dettagliatamente nel prossimo paragrafo.
Nei tre anni successivi circa tre milioni di giovani, chiamati appunto “giovani istruiti”, furono mandati in luoghi
sperduti e remoti del Paese, e nel 1978 il numero complessivo era di più di 14 milioni.
Altre Guardie rosse si arruolarono nell’esercito, in continuo ampliamento per far fronte alla crescente ostilità
con l’Unione sovietica, che si manifestava in continui scontri lungo il confine tra i due Paesi.
Nell’aprile del 1969 ebbe luogo il Nono congresso del Partito comunista cinese, in cui si dichiarò ufficialmente la fine della Rivoluzione culturale e venne adottata una costituzione che estrometteva formalmente Liu
Shaoqi dal partito e nominava il maresciallo dell’Esercito popolare di liberazione Lin Biao (林彪, 1907-1971)
braccio destro e successore di Mao. In realtà la situazione di instabilità si protrasse per diversi anni, fino alla
morte di Mao e alla caduta della Banda dei Quattro, anche se gli episodi di violenza furono limitati rispetto ai
primi due anni del movimento.
Le Guardie rosse e i giovani istruiti
Come ho già accennato in precedenza, le ragioni per cui milioni di giovani furono trasferiti dalle città alle
campagne sono molteplici, ma possono essere individuate tre cause principali. Le prime due sono di ordine
pratico: togliere dalla strada le Guardie rosse riportando così l’ordine nelle città e attenuare il problema della
disoccupazione urbana, e infine, unico motivo di tipo ideologico, mettere i giovani a contatto con i contadini, la
classe più rivoluzionaria “per natura”, e rieducarli tramite il lavoro manuale.
A causa della chiusura delle scuole infatti molti giovani vagabondavano per le strade e si dedicavano a attività
illecite di vario tipo, creando notevoli problemi di ordine pubblico. In realtà i primi tentativi di disperdere gli
studenti, che si muovevano liberamente e gratuitamente per tutto il territorio nazionale per scambiarsi le proprie esperienze rivoluzionarie, in particolare confluendo verso la capitale, risalgono già al novembre del 1966,
quando si incoraggiarono le Guardie rosse a raggiungere Pechino a piedi e non in treno, sperando in questo
modo di frenare il costante flusso di giovani. Ripetuti furono inoltre i tentativi di riprendere le lezioni, interrotte
da circa sei mesi. All’inizio del 1967 il Comitato centrale del partito ordinò il ripristino dell’attività scolastica,
finalizzata in parte all’insegnamento di nozioni di carattere generale, ma in maggior misura all’educazione politica. Nel marzo dello stesso anno Mao Zedong ordinò che l’Esercito popolare di liberazione operasse in scuole
elementari, superiori e università occupandosi dell’addestramento politico e militare degli studenti e contribuendo alla regolare ripresa dei corsi. La situazione era però tutt’altro che facile: molti insegnanti temevano che
il loro comportamento avrebbe sollevato nuove critiche tra gli studenti, e inoltre non c’era materiale didattico
disponibile. Nelle università la durata degli studi fu ridotta a tre anni e fu deciso che gli studenti ogni anno si
impegnassero in lavori produttivi. Il programma dei corsi inoltre fu notevolmente semplificato e fu respinta
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l’idea di conoscenza separata dall’azione. Il fine dell’educazione era quello di addestrare dei lavoratori leali a
Mao Zedong, capaci di risolvere problemi pratici e indottrinati politicamente. Solo come ultimo punto veniva
menzionata la necessità dell’acquisizione di una certa competenza tecnica di base. Per ancora tutto il ’68 però le
lezioni non ripresero regolarmente e le lotte intestine tra gli studenti impedirono il ritorno alla normalità nelle
scuole di tutto il Paese.
Gli scontri tra le varie fazioni delle Guardie rosse avevano immobilizzato le città e disperdere i giovani geograficamente era un modo per spezzare i legami di tipo organizzativo all’interno dell’associazione. In teoria il
trasferimento nei villaggi fu ordinato a tutte le Guardie rosse, sia agli appartenenti alle fazioni dei Ribelli che a
quelle dei Lealisti, ma in realtà buona parte dei figli dei quadri riuscirono a entrare nell’esercito o a rimanere in
città.
Il 15 novembre del 1968 fu emessa una notifica, divulgata ai Comitati rivoluzionari di tutte le province, in cui
si davano direttive sull’assegnazione dei lavori ai laureati di quell’anno. Al punto 2 si legge: “In risposta all’insegnamento del nostro grande leader Mao Zedong “Incoraggiamo gli intellettuali a andare tra le masse, nelle
fabbriche, e in particolare nelle zone rurali… per essere rieducati dagli operai, dai contadini e dai soldati”, l’assegnazione dei lavori ai laureati deve riflettere l’attuazione rigorosa della politica a lungo termine di provvedere ai
bisogni delle zone rurali, delle zone di frontiera, di fabbriche e miniere della popolazione agricola. In generale,
i laureati devono diventare operai ordinari o contadini ordinari. (…) Se le condizioni lo permettono, una parte
dei laureati può anche essere inviata nelle comuni rurali per lavorare, in modo sperimentale, in squadre di
produzione.” Queste furono quindi le precise indicazioni del governo centrale per i circa 150.000 studenti che
si laurearono nel 1968 in tutto il Paese. Una parte di questi ottenne un lavoro in città, ma la maggior parte fu
appunto trasferita nelle zone rurali.
L’importanza del lavoro manuale è evidenziata da Mao Zedong già da prima dello scoppio della Rivoluzione
culturale. Secondo lui infatti gli intellettuali dovevano abbandonare il disprezzo che nutrivano nei confronti del
lavoro fisico, che è caratteristico degli sfruttatori, i quali cercano di ottenere ricchezza senza lavorare. Il lavoro
manuale non solo è un mezzo per creare benessere e trasformare il mondo oggettivo, ma è anche una condizione
estremamente importante per portare avanti il rinnovamento intellettuale e per combattere il deterioramento
spirituale. La strada fondamentale che portava alla metamorfosi dei giovani era quella di diventare lavoratori,
di identificarsi con i lavoratori e i contadini. Era importante che un grande numero di giovani prendesse parte
alla produzione agricola per aumentare il rendimento e per portare avanti la rivoluzione tecnica e culturale nelle
campagne. Inoltre questo era un modo per rinnovare i giovani del Paese, che contribuivano così alla costruzione
del socialismo. A questo scopo dovevano studiare il pensiero di Mao, affinché diventassero rivoluzionari rossi
ed esperti, cioè indottrinati politicamente e dotati di competenze tecniche. La stampa cinese di quegli anni era
piena di storie in cui si lodava la trasformazione avvenuta in molti giovani istruiti nelle zone rurali e nell’Esercito
popolare di liberazione. In queste si raccontava di come i giovani avessero superato la loro paura della sporcizia
e del lavoro manuale, che con il passare del tempo non trovavano più così faticoso.
Le reazioni dei giovani di fronte al dislocamento forzato nelle campagne furono molteplici. La maggior parte
dei ragazzi che facevano parte della fazione dei Ribelli delle Guardie rosse considerarono il trasferimento come
una punizione. L’idealismo che aveva caratterizzato la generazione giovane per tutto il periodo della Rivoluzione culturale si era estinto. Gli slogan ufficiali non enfatizzavano più la gloria di costruire il socialismo, ma la
necessità di sottoporsi umilmente alla rieducazione da parte dei contadini. Qualcuno era entusiasta di andarci,
ma altri erano semplicemente rassegnati al fatto che la loro generazione non aveva altra scelta, e altri ancora
erano animati da riluttanza, rabbia o determinati a rifiutare di svolgere il lavoro. Le circostanze in cui si trova-
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rono nelle campagne fecero aumentare ancora di più la loro insoddisfazione, mentre l’improvviso e massiccio
afflusso di giovani in villaggi già sovraffollati provocò il risentimento dei contadini. Molti giovani non avevano
una sistemazione né un salario adeguati, e diventando adulti la possibilità di potersi permettere di sposarsi e
avere bambini si faceva sempre più remota. Molti altri erano i motivi di delusione, ad esempio il declino del
sistema scolastico: infatti non solo la qualità dell’insegnamento era diminuita, ma il principale metodo per essere ammesso in un’Università era sfruttare le conoscenze familiari. I giovani si accorsero che il nuovo sistema
scolastico non era quello per cui avevano lottato, e si accorsero inoltre che il controllo ideologico si era fatto
ancora più rigido negli anni ’70. Molti di loro avevano supportato Mao nell’attaccare la linea revisionista di Liu
Shaoqi riguardo agli incentivi materiali, ma si accorsero nelle campagne che quella era la linea che preferivano i
contadini. Anche l’estremismo con cui veniva portato avanti il culto della personalità di Mao portò per la prima
volta i giovani a esprimere apertamente il loro criticismo. La notizia della caduta di Lin Biao nel 1971 accentuò la
loro perplessità. Questi infatti era sempre stato il braccio destro di Mao, colui che aveva redatto il Libretto rosso,
testo che tutti loro avevano imparato a memoria e portato sempre con sé. Come poteva essere un revisionista e
un nemico del popolo proprio colui che avevano sempre appoggiato e ammirato?
Lo scetticismo nei confronti della linea ideologica di Mao portò molti giovani a riflettere intensamente e a
rileggere le opere di Marx e Lenin per trovare una risposta. Molti di loro si accostarono per la prima volta in
prima persona ai classici marxisti. Fu un periodo molto intenso dal punto di vista intellettuale, e ci fu anche
un’enorme diffusione della letteratura sotterranea. Si leggevano in grande quantità molti dei testi che erano comunemente considerati “borghesi”, e spesso venivano ricopiati a mano dagli stessi giovani istruiti e circolavano
così clandestinamente, dando vita ad accesi dibattiti. Mandando i giovani nelle campagne erano stati spezzati i legami interni alle associazioni delle Guardie rosse, ma spesso rimasero intatti gruppi di amicizia, poiché
molte volte amici e compagni di classe venivano assegnati allo stesso villaggio o a villaggi vicini. Alcuni di loro
si organizzarono in gruppi di studio, per facilitare il libero scambio di idee a cui erano stati abituati durante la
Rivoluzione culturale. C’era ancora chi dava sfoggio del proprio spirito rivoluzionario, ma spesso era per motivi
personali, per avanzare socialmente o ottenere promozioni, mentre negli anni precedenti l’attivismo politico
era accompagnato per la maggior parte dei casi da un forte idealismo. Molti giovani che erano stati mandati nel
Guandong, al confine con Hong Kong, attraversarono il confine e si rifugiarono nella colonia inglese, mentre
dalla Manciuria molti emigrarono in Unione Sovietica.
Nonostante il diffuso malcontento, molti giovani obbedirono all’ordine di andare a vivere nelle campagne
con grande entusiasmo, ancora convinti dell’importanza del loro contributo per il miglioramento della società.
C’era chi considerava il soggiorno tra i contadini un’opportunità per capire meglio la situazione nazionale, convinti del fatto che buona parte dei problemi della Cina fossero da rintracciare nelle campagne. Inoltre entrarono
in gioco motivazioni ideologiche, come la volontà di emulare le imprese dei martiri del passato e di temprare sé
stessi attraverso la vita dura e faticosa.
Durante il loro soggiorno in campagna, che per qualcuno durò fino a dieci anni, i giovani istruiti svolsero
molteplici attività, dai lavori ordinari dei contadini, semina e raccolto, a lavori straordinari quali bonifica di
nuovi territori, disboscamento di zone forestali, opere di irrigazione, costruzione di strade… Alcuni di loro inoltre erano arruolati in truppe di riserva, pronte ad affiancare l’esercito regolare per difendere i confini nazionali
da eventuali invasioni esterne. Al lavoro fisico era affiancato l’indottrinamento ideologico, cioè lo studio delle
opere di Mao Zedong e dei classici marxisti, di cui si discuteva nelle riunioni che si tenevano la sera, che spesso
erano anche riunioni di critica, in cui chiunque avesse compiuto qualche errore o assunto un atteggiamento
controrivoluzionario doveva fare autocritica.
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Le dure condizioni climatiche e lo spossante lavoro fisico lasciarono tracce indelebili nella salute dei giovani
istruiti, molti dei quali furono tormentati da disturbi e malattie per il resto della loro vita. Alcuni di loro si sposarono con gente del luogo e rimasero a vivere nei villaggi, mentre chi decise di tornare in città si trovò ad affrontare grandi problemi di riadattamento. Erano giovani che per molti anni avevano vissuto in remoti villaggi
di campagna, spesso perdendo buona parte delle relazioni che avevano in città, ad eccezione dei genitori e dei
parenti più stretti, e molte delle persone loro più care si trovavano in città lontane. Molte donne inoltre avevano
già superato l’età di matrimonio ed erano quindi destinate a restare sole per tutta la loro vita, in quanto era molto difficile per loro trovare ancora marito. Anche dal punto di vista professionale il futuro dei giovani nelle città
era tutt’altro che roseo. Ad eccezione di coloro che furono ammessi nelle università, la maggioranza dovette accettare lavori di qualsiasi tipo, e molti di loro non avevano nemmeno la licenza media. Inoltre dovettero affrontare la dura ricerca di un alloggio, di cui c’era grande scarsità, e il passaggio dalla vastità degli spazi aperti delle
campagne all’angustia e al traffico delle metropoli fu molto difficile, anche perché molti di loro furono costretti a
vivere stipati nei piccoli appartamenti dei genitori. Il ritorno in città fu quindi un’esperienza traumatica per tutti
loro, tra i quali nacque una diffusa insoddisfazione e la sensazione di aver sprecato buona parte della loro vita.
Prima infatti si erano dedicati all’attivismo politico in un movimento che negli anni ’80, poco dopo il loro ritorno
in città, era stato riconosciuto dal governo stesso come un insuccesso , e poi avevano passato la loro giovinezza
in campagna, lavorando duramente a fianco dei contadini. Tornati in città non solo non ottennero nessuna ricompensa e nessun riconoscimento per gli anni sacrificati per il loro Paese, ma si trovarono soli, senza un lavoro
adeguato e senza una famiglia. Proprio per questo si parlò di “generazione perduta”, e molti romanzi degli anni
’80, generalmente scritti dagli stessi ex-giovani istruiti, descrivono questa difficile realtà.
Anna Zanoli
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