Senza Limiti
R.K. Lilley
Traduzione in italiano di Silvia C.
Selleri
Copyright © 2013 R.K. Lilley
Tutti i diritti riservati.
ISBN-13: 978-1-62878-027-7 (R.K. Lilley)
ISBN −10: 1-62878-027-4
Tutti i diritti riservati. Quest'opera non può
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Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a
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LIBRI DI R.K. LILLEY IN
ITALIANO
FRA LE NUVOLE - LA SERIE
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TRISTAN & DANIKA
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THE WILD SIDE
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THE UP IN THE AIR SERIES
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THE TRISTAN & DANIKA
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SENZA LIMITI
TRISTAN & DANIKA
LIBRO 2
-
Il loro amore aveva la forza di un treno
lanciato in una corsa senza controllo e il
potenziale per essere altrettanto
distruttivo.
Il seguito tempestoso di Cose
Pericolose riprende proprio da dove
avevamo lasciato i protagonisti: colpiti
da un'enorme perdita, Tristan e Danika
lottano per raccogliere nuovamente i
pezzi e costruire una vita insieme, ma le
brutte abitudini sono dure a morire e
difficili da rifuggire...
Senza Limiti ci accompagna attraverso
il doppio punto di vista, in un viaggio
attraverso la dipendenza e il desiderio,
l'amore e l'agonia e risponde alla
domanda sorta alla presentazione dei
due personaggi all'interno di Coi Piedi
per Terra: cos'è successo fra Tristan e
Danika? ”
DANIKA
Nemmeno l'amore poteva attenuare una
caduta come la nostra. Ciò che provavo
per Tristan era talmente immenso da
consumarmi ma anche così, non bastò a
sopraffare la combutta dei nostri
demoni.
Lottai. Gridai e piansi, graffiai e calciai.
Diedi tutta me stessa ma anche il
guerriero più determinato deve fermarsi
prima di arrivare al punto di rottura.
Nessuno poteva affermare che non
avessi lottato per lui.
«Ti amo anch'io» mormorai dolcemente
al suo orecchio. Lui mi strinse con
maggior forza.
«Non posso perderti, Danika, mai. Non
sopravvivrei.»
«Sono tua e non me ne andrò. Mai.»
Ero sincera quando pronunciai quelle
parole, ma la vita aveva altri progetti
per noi. Io ero una combattente per
natura e nessuno avrebbe potuto dire che
non mi ero battuta per noi.
Avrei dato la vita in quella lotta.
In realtà fu ciò che quasi capitò.
TRISTAN
Era lei… Se mai avevo avuto dubbi, ora
erano svaniti: era colei alla quale avrei
pensato e desiderato fino al mio ultimo
respiro. Se il giorno dopo l'avessi persa,
avrei passato il tempo a struggermi. Era
quel genere di amore che trovavi una
sola volta nella vita.
Il libro è riservato a un pubblico
maggiorenne.
PROLOGO
DANIKA
Feci un respiro profondo e
annusai il torace più divino del mondo.
Ero sveglia già da un po' ma non avevo
minimamente preso in considerazione
l'idea di alzarmi. Non avrei saputo dire
chi dei due fosse più avvinghiato
all'altro, se io a Tristan o lui a me.
Eravamo andati a letto stringendoci a
quel modo e a quanto potevo vedere,
nessuno dei due si era mosso. La mia
gamba era sopra alla sua anca, un
braccio attorno al suo fianco e con una
mano gli stringevo la maglietta come
fosse un appiglio vitale; l'altro mio
braccio, sul quale ero sdraiata, ormai si
era addormentato ma nonostante ciò, non
avevo alcuna intenzione di muovermi.
Lui mi circondava le spalle e con
una gamba teneva separate le mie; la
mano aggrappata alla mia maglietta
ormai l'aveva spinta fino alle costole…
In un certo senso, eravamo l'immagine
speculare l'uno dell'altra in questo
nostro stringerci anche nel sonno.
Lo sentii muoversi e sollevai la
testa per guardarlo: i suoi magnifici
occhi dorati erano aperti e ancora
carichi di sonno. Non appena rammentò,
il dolce oblio si trasformò in puro
orrore.
Ritenevo che dopo la perdita di
una persona cara, il momento fra il
sonno e il risveglio fosse quello
peggiore. Dovevi ricordare e accettare
di nuovo tutto da capo, rivivendo
l'attimo in cui la tua vita era cambiata e
quella persona se n'era andata.
Era passato più di un mese dal
funerale di suo fratello e lui continuava
a rivedere quel momento terribile ogni
singola mattina. Due giorni dopo il
funerale, la madre di Tristan gli aveva
chiesto di andarsene e non tornare più.
Per quanto sbagliato fosse, era chiaro
che gli addossasse tutta la colpa per la
morte di Jared. Tutto sommato, pensavo
che lui avesse preso quell'interruzione
del rapporto piuttosto bene, considerato
quel che stava passando ed ero certa che
una volta elaborato il proprio lutto, lei
avrebbe cambiato idea. Al momento
però rimaneva ferma in quella sua
ripicca. Non prendermela con Leticia mi
era difficile ma continuavo a ripetermi
che stava solo soffrendo molto e che un
tale dolore poteva effettivamente
rompere gli argini come era accaduto a
lei. Amava il figlio perciò sarebbe
riuscita a superarlo.
Tristan dal canto suo aveva preso
bene il rifiuto della madre, ma ora aveva
bisogno di me più che mai ed io ero
determinata a farlo stare meglio.
L'ultimo mese aveva praticamente
vissuto incollato a me. Aveva ancora il
suo appartamento ma dormiva ogni notte
a casa di Bev da quando aveva lasciato
la madre, incapace di rimanere solo un
attimo. Io lo capivo: la solitudine poteva
anche essere una componente necessaria
all'elaborazione del lutto ma in ogni
caso, non ero in grado di negargli
alcunché.
Non uscivamo. Passavamo le
giornate a giocare coi ragazzi e le serate
a guardare le repliche del telefilm
preferito di Jerry, Ti presento i miei, a
ripetizione tanto che avremmo potuto
scambiarci le battute. Facevamo
l'amore, ci addormentavamo poi lo
facevamo al risveglio. Era un periodo di
consolazione e distrazione, amore ed
elusione.
Adesso, ripenso a quei giorni
come a una sorta di fuga dolce amara.
Tristan serrò gli occhi e le sue
labbra vennero a cercare le mie.
Desiderava il conforto tramite il contatto
ed io lo assecondavo, pronta e
intenzionata a concedergli davvero tutto.
Le sue dita lasciarono la presa
sulla maglietta per sollevarmela,
togliendomela velocemente con pochi
agili movimenti. La sua, ricevette lo
stesso trattamento dalle mie mani
impazienti e finalmente fummo pelle
contro pelle, il mio seno contro il suo
torace. Fece scivolare via le mie
mutandine ed io i suoi boxer aderenti,
baciando ogni parte del corpo che
riuscivo a raggiungere, succhiandogli un
capezzolo fino a inturgidirlo. Sospirò e
tenendo le mani fra i miei capelli mi
scostò, per poi afferrarmi i fianchi.
Rotolò sulla schiena sollevandomi in
modo che lo montassi.
«Cavalcami» mi disse burbero,
usando quelle sue enormi mani per
sistemarmi sulla sua erezione. Inarcai la
schiena, tenendomi in equilibrio con una
mano sul suo torace e guidandolo nella
mia fessura con l'altra. Lo strofinai
contro di me per fargli sentire quanto
fossi eccitata e godendomi la sensazione
del suo glande che giocava con la mia
pelle.
Lui sgroppò con i fianchi
spingendosi dentro abbastanza da farmi
boccheggiare. «Adesso» grugnì, «Non
posso aspettare.»
Iniziai a spingere verso il basso,
andandogli incontro finché non mi ebbe
penetrato del tutto, allora chiusi gli
occhi e la mia testa andò all'indietro
mentre mi facevo rapire dall'estasi.
Rimasi
immobile,
godendo
semplicemente di quel contatto perfetto
finché le sue mani impazienti si strinsero
attorno ai miei fianchi, spronandomi a
muovermi.
Iniziai con un movimento
circolare al quale lui rispose
afferrandomi il sedere, mugolando. Mi
morsi un labbro e instaurai il ritmo
dondolando avanti e indietro più volte.
Lui mi strinse un seno con una
mano mentre l'altra scivolava lungo la
mia coscia alla ricerca del clitoride, che
strofinò con piccoli cerchi fino a
portarmi deliziosamente sulla soglia
dell'orgasmo. Quelle mani magiche non
sbagliavano mai.
«Ti prego» mugolai aumentando
la velocità.
Lui mi assecondò ed io mi
bloccai tremando come se avessi la
febbre, soccombendo alle ondate
estatiche che si scaricavano dentro di
me. Lo sentii venire mentre a mia volta
mi riprendevo da quell'orgasmo
stupefacente. Il volto era una maschera
che ritraeva il suo stesso godimento.
Adoravo guardarlo venire e rimasi il più
possibile immobile, impalata su di lui
fino a che aprì gli occhi, guardandomi.
Mi ripiegai allora su di lui, nascondendo
il viso contro il suo collo per respirarne
l'odore. Era sempre divino: profumo di
casa.
«Ti amo» gracchiò.
Me lo diceva di continuo. Una
volta ammesso non l'aveva più
trattenuto,
eppure
continuava
a
provocarmi le farfalle nello stomaco
ogni volta.
«Ti amo anch'io» mormorai
dolcemente al suo orecchio. Lui mi
strinse con maggior forza.
«Non posso perderti, Danika,
mai. Non sopravvivrei.»
«Sono tua e non me ne andrò.
Mai.»
Ero sincera quando pronunciai
quelle parole, ma la vita aveva altri
progetti per noi. Io ero una combattente
per natura e nessuno avrebbe potuto dire
che non mi ero battuta per noi.
Avrei dato la vita in quella lotta.
In realtà fu ciò che quasi capitò.
Tristan era nella doccia quando
finalmente risposi alla telefonata di
Kenny. Stava cercando di mettersi in
contatto con entrambi da una settimana,
ma un qualche strano istinto mi aveva
sempre impedito di parlargli. Mi sentivo
in colpa per quello: Kenny era un tipo a
posto e probabilmente colpito a sua
volta dalla morte di Jared, ma io e
Tristan stavamo vivendo nel nostro
piccolo mondo e lasciarlo andare mi era
difficile.
«Pronto» risposi con tono incerto.
«Danika» la sua voce calda e
piena di sollievo riempì il telefono, «È
da una settimana che sto cercando di
chiamarvi. Come stai? E Tristan?»
Sospirai, schiacciata dal senso di
colpa. «Sta bene, scusa se non ho mai
risposto ma, ecco…»
«Niente paura, capisco. Ti stai
prendendo cura di lui e lo apprezziamo.
Grazie.»
La cosa mi colse di sorpresa: era
vero che mi stavo prendendo cura di
Tristan ma non mi aspettavo certo che i
suoi amici mi ringraziassero per quello.
«Prego. Voglio solo essere lì per
lui, non c'è nulla che non farei per
Tristan.»
«Sono felice di sentirlo, di sapere
che lo aiuti a superare la cosa. Lui
aveva davvero bisogno di te.»
Deglutii a fatica. Poiché non ero
abituata a sentirne, quella lode mi aveva
provocato un nodo alla gola.
«So che non ha ancora voglia di
parlare con me ma potresti dargli un
messaggio da parte mia?»
«Ma certo.»
«Ho la chitarra di Jared: dubito
che Tristan la voglia adesso ma tu digli
che la terrò per lui. Jared gli stava
insegnando a suonarla, lo sapevi?»
«No.»
«Penso che gli farebbe bene
riprendere, si sentirebbe più vicino a
suo fratello ed è quello che gli serve.»
«Credi che lo aiuterebbe in
questo momento o sarebbe peggio?»
Non era una domanda vera e propria,
dato che conoscevo già la risposta.
Secondo me sarebbe potuta andare in
entrambi i modi.
«Credo che lo aiuterebbe. Erano
così uniti… dimenticare suo fratello non
è un'opzione e continuare a coltivare
quello che rendeva Jared speciale è il
modo migliore per ricordarlo.»
Dalla voce suonava sincero.
In seguito, avrei rimpianto di aver
parlato a Tristan di quella telefonata.
Una parte di me, quella che amava
crogiolarsi nella mia stessa miseria
indugiando sul passato, avrebbe
incolpato quella chitarra per ogni cosa
andata male fra noi, perché lo aveva
riportato a quella vita. Ma la parte
logica sapeva che Tristan sarebbe
tornato di nuovo alle vecchie abitudini e
ai vecchi amici. La sua salvezza o il
colare a picco sarebbero stati
esclusivamente una sua scelta.
Ogni passo falso che ci avrebbe
portato sulla strada della distruzione
sarebbe stato colpa nostra eppure,
ancora oggi detesto quella chitarra.
CAPITOLO
UNO
DANIKA
Quando ricominciammo a uscire
lo facemmo alla grande. Eravamo gente
fatta di estremi, quello era certo,
sebbene io non sarei mai arrivata ai
livelli di Tristan. Dopo svariate
settimane di reclusione in casa,
riprendemmo a vivere.
Tecnicamente sarebbe dovuta
essere una sola serata, una festa, ma le
cose non andavano mai così con lui.
Ritenevo fermamente che per
piangere adeguatamente la perdita di una
persona, si dovesse gestire il silenzio
della propria mente e quando la vita non
t'impegnava abbastanza da non riuscire a
pensare, accettarne la sua evoluzione.
Ne avevamo avuto un assaggio
trascorrendo il tempo assieme, solo noi
due. Per me non era ancora abbastanza
quando ricominciammo a uscire, ma
Tristan non era d'accordo. Era
determinato a fuggire da quel silenzio
nella sua testa, a tutti i costi.
I suoi demoni erano totalmente
diversi dai miei che non fui in grado di
aiutarlo.
Ci ritrovammo all'ennesima festa
a casa dell'amico di un amico che
celebrava un qualcosa. Io ne avevo
abbastanza: quel tipo di feste non aveva
quasi mai musica decente da ballare e
Tristan era sparito per parlare con
Kenny un secondo dopo essere arrivati.
In tutta franchezza sarei dovuta rimanere
a casa a studiare o andare a lezione di
ballo.
Il premio di consolazione di
questo party tuttavia, si rivelò essere la
presenza di Frankie, una sorta di
contrappeso al fatto che ci fossero anche
Dean e Stronzalie. Sfortunatamente, fu
questa a trovare me prima che io
raggiungessi Frankie. Stavo prendendo
un drink dalla cucina quando una voce
alle mie spalle m'interpellò, facendomi
irrigidire.
«Sei davvero una piccola troietta
esotica, questo te lo riconosco, ma la
febbre gialla non dura per sempre. A lui
piacciono le bionde, lo sai.»
Socchiusi un secondo gli occhi a
quella sua piccola invettiva poi le feci
un gran sorriso: fin qui ero in grado di
reggere, era lo stare zitta e tenere gli
artigli a posto che necessitava di una
messa a punto.
«Non abbiamo tutte la possibilità
di somigliare a una Bratz» replicai con
tono indolente, «Il dottore ti ha fatto uno
sconto quando si è reso conto che avevi
perso la capacità di sbattere le ciglia o
chiudere la bocca? In caso contrario
dovresti proprio scrivere un bel
reclamo, anche se nel tuo caso,
immagino che avere un'infinità di punti
in comune con una bambola gonfiabile
sia positivo.»
Il suo sguardo furioso rese la mia
espressione sorpresa. Sporsi le labbra e
le schiusi leggermente per replicare la
posizione permanente delle sue;
scimmiottando al meglio la mia idea di
bambola.
«Sei una vera stronza, sai?!»
Alzai gli occhi al cielo, delusa
dal fatto che non sapesse fare di meglio.
Io mi ero già preparata a un match coi
fiocchi.
«E tu una vecchia sgualdrina di
Las Vegas in cerca di soldi.»
«Ho solo ventisei anni!»
Dovetti mordermi il labbro per
non ridere: il fatto che lei avesse
ribattuto solo alla parte relativa all'età
la diceva davvero lunga. «Una
sgualdrina che si scopa gli uomini in là
con l'età invecchia prima del tempo, non
lo sai?»
La sua reazione fu semplicemente
quella di sollevare una mano in aria e
andarsene pestando i piedi. Per quanto
fossi cosciente che gli uomini amavano
le tette, il fatto che Tristan si fosse
innamorato di lei mi lasciava perplessa.
La cosa strana era che ogni volta che
avevo a che fare con lei, mi veniva
sempre voglia di tirare qualcosa
addosso a lui.
«Perché hai l'aria di una che
vorrebbe spaccare qualcosa? Cos'ha
combinato Tristan stavolta?»
Increspai le labbra mestamente
mentre mi voltavo verso Frankie. «Sai
cosa mi fa incazzare? Dover discutere
per tenere testa a quella bambola
gonfiabile e rendermi conto che era il
‘tipo’ del mio ragazzo.»
«Ahh, Stronzalie, ecco chi ti ha
messo di cattivo umore.»
«Giurerei
che
ci
stia
perseguitando, ultimamente ce la
ritroviamo ovunque andiamo.»
«Lo rivuole e non ne fa certo
mistero.»
Quello mi fece attorcigliare lo
stomaco: una volta lui le aveva dato un
anello ed ero quasi certa che fra loro ci
fosse ancora un barlume di affetto.
«Non succederà Danika, togliti
quell'espressione dal viso. Lui non te lo
farebbe mai, specie con lei.»
«Una volta li ho beccati a flirtare.
È stato mesi fa, ma secondo me provano
ancora qualcosa.»
«Secondo me invece hai capito
male.»
«Non credo.»
«Per la cronaca, io penso che la
gelosia stia pregiudicando il tuo
giudizio. Quei due hanno avuto una
relazione che è durata un po', è vero, ma
credo che lui sia passato dall'avercela al
provare dispiacere per lei. Nat deve
aver avuto un'infanzia difficile e Tristan
ha sempre cercato di recuperarla. Ha
una
specie
di
complesso
del
salvatore…»
«Complesso del salvatore…
Pensi che stia cercando di salvare anche
me?»
«No, non sto dicendo quello.
Quello che intendo è che lui è un bravo
ragazzo che ha sempre provato
compassione per lei. E quella è una
parte di lui che non cambierà. Non
apprezza quello che Nat è diventata ma
ciò che ha passato rappresenta un punto
debole per lui, è un dato di fatto. Perché
altrimenti pensi che sarebbe ancora
amico con quel mega coglione di Dean?
Immagino che anche lui abbia avuto
un'infanzia dura, per questo Tristan è
così tollerante nei suoi confronti.»
«Beh, immagino che sia colpa di
quel punto debole se mi viene voglia di
tirargli addosso le cose. Questo mi
rende una stronza?»
«Non per me. Solo, non
scambiare questa sua tolleranza per un
qualche tipo di affetto: lui adesso le
parla a malapena, compassione o meno,
perché sa che la cosa ti manda al
manicomio.»
«Mi sembra a malapena giusto,
considerato che cercherebbe di uccidere
uno qualsiasi dei miei ex, se lo vedesse
anche solo rivolgermi la parola.»
«Già, su questo hai ragione da
vendere. Dato che si trasforma in un
maniaco verso chiunque ti guardi
sorridendo, di sicuro non potrà mai
rinfacciarti la tua gelosia.»
«Proprio così.»
Scovammo Tristan in mezzo a un
mucchio di gente che rideva ai bordi
della piscina. Stava parlando con Kenny,
Cory e Dean… La band era di nuovo
assieme, si capiva da una semplice
occhiata e l'uomo in completo che
sembrava leccar loro il sedere mi fece
venire il voltastomaco.
Stavo per perderlo, un pensiero
fugace ma difficile da cancellare. Stava
succedendo qualcosa, una svolta enorme
per la band, che me l'avrebbe portato
via in termini di tempo o di distanza.
Quando mi vide, Tristan mi fece
un enorme sorriso. Non lo vedevo così
felice da prima che Jared morisse ma
quando lasciò gli altri per venire a
prendermi, la preoccupazione per ciò
che stava per dirmi mi provocò la
nausea.
«Devo parlarti» esordì.
Lo seguii a fatica quando tutto
quello
che
desideravo
era
temporeggiare, scappare o qualsiasi
altra cosa potesse fermare il corso degli
eventi. Sapevo di essere ridicola,
tuttavia quell'autocritica non riuscì a
fermare l'orribile sensazione dentro di
me.
«Suona spaventoso» gli dissi con
tono fermo.
«Niente di brutto, anzi, direi il
contrario.»
Mi trascinò fino a che trovammo
un angolino appartato in casa. Lui si
avvicinò sfiorandomi la fronte con la
sua e sorrise prima di annunciarmi:
«Abbiamo un contratto per un
disco!»
Lo sapevo: avevo capito che
sarebbe successo fin dalla felice reunion
di una band che non si era più riunita
dopo il funerale. Tutto era sempre
andato in quella direzione.
Lui deglutì e lo sguardo
all'improvviso parve abbattuto.
«Jared l'aveva sempre desiderato,
non è giusto che non sia qui a vederlo
succedere.»
Mi sciolsi e gli accarezzai una
guancia cercando di consolarlo come
potevo.
«Gli altri sono al settimo cielo e
io sono felice per loro, specie per
Kenny, ma non sono sicuro di volerlo. Il
gruppo… tutto quanto non è lo stesso
senza Jared. Non dovrebbe essere
difficile per loro trovare un nuovo
cantante: io non sono poi così speciale.»
Delirava se pensava che il gruppo
sarebbe andato bene anche senza di lui.
Diavolo: secondo me, se non fosse stato
per la sua presenza a quest'ora non
l'avrebbero nemmeno avuto un contratto
discografico, anche se non ero certo
adatta a dare un tale giudizio.
«E il posto di Jared, non vi serve
un altro chitarrista?» era una domanda
rischiosa e difficile anche per me.
Lui fece una smorfia passandosi
una mano fra i capelli. «Tecnicamente
non abbiamo bisogno di un altro membro
ma la casa discografica vuole proporci
qualcuno. Non l'ho incontrato ma ho
sentito dire che è bravo. Sono felice per
i ragazzi ma come ho detto, non so se mi
va di farlo. In fondo, niente di tutto
questo sarà come prima senza Jared,
anche solo l'idea di un altro al suo posto
mi fa stare male.»
Vedevo chiaramente ciò che mi
stava chiedendo, anche se lui non se ne
rendeva conto. Si sforzava di
nascondere la frustrazione repressa nei
confronti della vita, il malcontento per
la mano che gli era capitata: un uomo di
talento, abile in tutto, dotato di
buonsenso e di un fisico eccezionale che
tuttavia non trovava un giusto impiego.
Era cresciuto in un mondo in cui
il suo potenziale era stato svalutato tanto
quanto il suo valore. Era ambizioso: non
lo avrebbe mai ammesso poiché nel suo
ambiente era un sogno irrealizzabile, ma
l'ambizione era un fuoco che
prescindeva il suo controllo e della
quale lui aveva bisogno.
Gli infilai le mani fra i capelli,
appoggiando la mia fronte alla sua. Mi
sforzai di parlare con voce sicura per
quanto mi fosse difficile: «Io penso che
dovresti farlo. Le opportunità come
queste non capitano spesso e quando
succede, devi afferrarle al volo. Jared lo
avrebbe voluto.»
«Ma non è lo stesso senza di lui.
Non lo sarà mai.»
«No, è vero. Sarà una cosa
completamente diversa, ma non vuol
dire che non sarà comunque positiva per
i ragazzi, per te e anche per Jared.
Sognava che la band sfondasse e lui non
era un egoista: sarebbe felice che tu ce
la facessi anche senza di lui. E tuo
fratello sarà sempre con te, dentro di te.
Ed è proprio quella parte di te che ha
bisogno di farlo, piccolo.»
Lui mi strinse a sé nascondendo il
viso contro al mio collo, annusandomi e
facendomi chiudere gli occhi dal
piacere.
«Grazie. Tu sei la mia roccia,
tesoro, non so cosa farei senza di te.
Rendi tutto migliore.»
Divenni creta fra le sue mani…
ormai il mio mondo era quest'uomo che
mi amava.
Nonostante la protesta simbolica,
sapevo che lo desiderava davvero e non
potevo certo biasimarlo: in un certo
senso lo volevo anche io, perciò non
presi nemmeno in considerazione l'idea
di trattenerlo. All'apparenza, tutto quello
che gli serviva sembrava essere la mia
approvazione o il mio incoraggiamento e
così fu.
Raggiungemmo il gruppo di
musicisti storditi dai quali appresi
ulteriori
dettagli
preoccupanti:
sarebbero entrati in studio entro una
settimana, ma a Los Angeles, che era a
cinque ore di macchina. Dovevano
impegnarsi cinque giorni a settimana e
l'intero processo d'incisione sarebbe
potuto durare mesi. Avrei voluto
vomitare invece sorrisi, mi congratulai
con tutti e lasciai che Tristan mi tenesse
un braccio sulla spalla come se tutto
quanto andasse alla perfezione.
Non avevo certo bisogno di
un'altra ragione per detestare Dean, ma
lui sembrava sempre più che felice di
darmela. Quando Tristan si allontanò per
parlare con il suo nuovo produttore,
lasciandomi sola per meno di cinque
minuti, mi si avvicinò con un ghigno
beffardo che mi fece letteralmente venir
voglia di cancellarglielo.
«Fuori città per cinque giorni a
settimana… Quanto tempo credi che
resisterà Tristan prima di perdersi fra le
gambe di una fan? Io dico due settimane.
Facciamo una scommessa: se vinco io, ti
scopo.»
Lanciai un'occhiata in direzione
di Tristan, ponderando se fosse il caso
di dare direttamente un pugno in faccia a
quel farabutto o aizzargli contro il mio
ragazzo.
«Ohh, gli
dirai
che ho
oltrepassato il limite con te? Sei brava a
provocare, piccola, ma non a
incassare.»
Lo incenerii: quando si trattava di
Dean ero svelta a rispondere per le rime
ma avevo imparato che meno reagivo
con lui e meglio era.
«Se riportassi a Tristan le tue
parole, lui poi verrebbe a prenderti a
calci in culo e non ritengo giusto
picchiare le ragazze» sorrisi dolcemente
mentre le mie parole andavano a segno e
lui ricambiò l'occhiataccia.
In uno sforzo supremo di
autocontrollo mi allontanai: almeno
avevo avuto l'ultima parola.
CAPITOLO DUE
TRISTAN
Con l'annuncio del nostro
contratto discografico la festa prese vita.
La musica iniziò a pompare e vidi
Danika che ballava con Frankie nel
giardino illuminato. Non importava
quante volte fosse già capitato, ma
Danika che muoveva i fianchi a ritmo
della musica era lo spettacolo più sexy
che avessi mai visto.
Indossava una gonnellina blu che
metteva perfettamente in mostra le sue
gambe toniche e quel suo culetto sodo,
tanto da farmi prosciugare la bocca ogni
volta che lo girava verso di me. Me ne
stavo in piedi accanto alla piscina a
discutere la novità con alcuni tizi, ma in
realtà non ero davvero presente. Nella
mia mente sollevavo quel pezzetto di
stoffa, la facevo piegare a novanta gradi
e sprofondavo dentro di lei fino ai
testicoli.
Era un mio diritto: lei era mia.
Mia. Quella creatura sexy come il
peccato mi apparteneva e se per caso
ipotizzavo che qualcuno non lo capisse,
ci vedevo letteralmente rosso.
Misuravo il mio grado di pazzia
per lei, dal fatto che fossi geloso dei
sorrisi, delle risate e di qualsiasi altra
cazzo di azione non causata da me, che
la rendeva felice. Non volevo
condividerla e basta. A nessun livello.
Lei. Era. Mia.
In quanto ai suoi sentimenti per
me, basta uno sguardo per capirli. Non
ero mai stato amato a quel modo prima e
la cosa mi faceva impazzire. Avevo
avuto solo un'altra relazione con la
quale fare un paragone: ecco perché
pensavo a Nat, a come ripeteva di
amarmi cinque volte al giorno, in modo
incessante, fino a farmi sentire
soffocato. Soffocato ma mai davvero
amato. L'esatto contrario di come mi
sentivo anche solo grazie a uno sguardo
di quel paio di occhi color dell'argento.
Se fossi riuscito a meritarmi anche solo
metà di quell'amore, sarei riuscito a
superare tutta la merda che la vita
continuava a buttarmi addosso.
«È più che una bomba sexy, te lo
riconosco. Se hai deciso di farti
incastrare da quella figa, non ti va poi
tanto male!»
Guardai Dean in modo truce:
ultimamente non ci eravamo presi molto.
«Dacci un taglio a meno che non voglia
un calcio in culo!»
Lui mi fece uno dei suoi sorrisi
alienati, di quelli che quando eravamo
bambini mi piacevano da matti perché
significavano quasi sicuramente guai, ma
comunque divertenti. Qualcosa negli
anni era cambiato in lui, non avrei
potuto mettere la mano sul fuoco sul
quando, ma Dean non era più lo stesso
di una volta.
Lasciai correre per il semplice
motivo che la morte di Jared non aveva
colpito soltanto me, ma riflettendoci, mi
resi conto che il cambiamento di Dean
era avvenuto molto tempo prima.
«Si fa per parlare, Tryst. Sono
solo
parole,
amico.
Comunque
l'aggressività legata a questa dipendenza
dalla tua ragazza ti tornerà comoda
quando la scaricherai ed io mi prenderò
la mia soddisfazione, scopandomela per
ripicca. Stile Nat.»
Bastarono quelle poche frasi
uscite dalla sua bocca del cazzo a far
risvegliare il mio caratteraccio. La sua
maglietta finì fra le mie mani: «Che
cazzo dovrebbe significare?» sibilai fra
i denti, «E cosa cazzo c'entra Nat?»
«Mi ha scopato meno di una
settimana dopo che vi siete lasciati. Si è
lasciata fare di tutto per vendicarsi di te,
ma il suo scherzetto le si è rivoltato
contro perché tu non l'hai mai scoperto
fino ad oggi, quando non potrebbe
fregartene di meno di chi se la sbatte.»
«Ma che cazzo hai di sbagliato tu,
eh?» lo scossi in preda alla collera.
«Oh, scusami… ancora ti frega
chi si scopa Natalie? Buono a sapersi,
amico!»
Lo agitai come un sacchetto di
patatine. Sapevo che tutti attorno a noi si
erano immobilizzati, perciò mi rivolsi a
lui sottovoce: «Le ragazze, ex o no, sono
off-limits e tu lo sai. Non m'interessano
le conseguenze, ma se provi a toccare
Danika anche solo con un dito, ti taglio
quel tuo uccello e te lo faccio ingoiare.
Capito? Anche fra dieci anni, la tocchi e
sei morto.»
Lo lasciai andare e serrai i pugni.
Dovevo allontanarmi prima di perdere
del tutto la testa e spingere qualcuno a
chiamare gli sbirri.
Dean stava ancora ridendo come
quel pazzo bastardo che era.
«Recepito forte e chiaro. È bello
vedere che la terapia per la gestione
della rabbia sta funzionando. Ti lascio
da solo, così puoi praticare la tua
meditazione del cazzo» e se ne andò
fischiettando come se nulla fosse
successo.
«Pezzo di merda fuori di testa»
gli borbottai dietro le spalle. Mi aveva
palesemente provocato con successo:
l'idea di un altro che anche solo
stringeva la mano a Danika, mi mandava
al manicomio. Quella di Dean - quel
sacco di merda di Dean - che se la
faceva, mi istigava all'omicidio.
«Tristan» chiamò una voce
sussurrata e anche troppo familiare
mentre qualcuno mi stringeva il gomito.
Mi voltai e lanciai a Natalie
un'occhiata seccata. Quella donna stava
diventando una seccatura: eravamo
andati avanti anni senza mai incrociarci
e adesso che quel vecchio l'aveva
mollata, era ovunque. Non avevo mai
pensato nemmeno per un attimo che
fosse un caso e stavo iniziando a
ricordare quegli anni senza contatti con
un certo affetto. Era palese che
nonostante fossimo cresciuti assieme,
non saremmo mai stati in grado di essere
amici. E a discapito dello zero percento
di probabilità che accadesse, lei non
avrebbe mai rinunciato all'idea di
rimetterci insieme.
«Che vuoi?» le domandai senza
preoccuparmi di nascondere la stizza.
Lei mi sorrise imperterrita. Era
una tipa furba e per molto tempo avevo
scambiato
quella
scaltrezza
per
intelligenza. Non era così ovviamente e
nel tempo mi ero reso conto di come
altro non fosse se non una stupida vacca.
«Volevo parlarti di alcune cosette.
Possiamo andare da qualche parte per
stare soli?»
Era talmente assurdo da risultare
quasi divertente. «Col cazzo. La mia
ragazza ti detesta perché ti comporti
sempre da stronza con lei e l'ultima cosa
che voglio è farla arrabbiare di nuovo
per colpa tua. Se devi dirmi qualcosa,
puoi farlo qui. E in fretta.»
Lei mi toccò un braccio
sorridendomi e tutto ciò che pensai, fu
che se Danika se la fosse presa con me
dopo, Nat non sarebbe valsa i cinque
secondi di dialogo.
«Oh, Tryst, ti ricordi come
eravamo?» domandò con un tono
sognante che mi fece nuovamente sentire
soffocato.
«Ti ricordi l'intesa? Eravamo così
arrapati… non ho mai provato nulla del
genere, né prima né dopo.»
Proprio non ce la feci e scoppiai
a ridere, anche se non era certo una
risata felice. Ero nauseato delle
passeggiate lungo il viale dei ricordi
alle quali si abbandonava. Per me era
finita.
«Non direi. Io mi ricordo come
mi negavi il sesso per ottenere ciò che
volevi e l'intesa non era nulla di
speciale. Francamente mi va molto
meglio adesso. Un milione di volte
meglio. Non c'è paragone.»
Lei sussultò per lo sdegno ma io
non avevo ancora finito.
«Spero che un giorno tu riesca
davvero ad amare qualcuno Nat. Così
capirai che io e te non abbiamo avuto
altro che una stupida storiella fra
ragazzini.»
DANIKA
Smisi improvvisamente di ballare
sentendo Tristan che gridava qualcosa a
Dean, afferrandolo per la maglietta.
Non di nuovo, pensai con una
smorfia. Quei due erano ai ferri corti
ogni volta che mi giravo e la cosa
assurda era che per quanto inadatti,
erano anche coinquilini. Non ero sicura
di quanto sarebbe durata, ma una volta
finita sarei stata la più sollevata di tutti.
«Cosa cazzo ha fatto Dean
adesso?» borbottò Frankie dietro di me,
stringendomi un braccio.
«Dovrei intervenire» osservai e
la sola idea mi fece sentire esausta.
«No, non dovresti. Vieni dentro
con me invece e lascia che se la
sbroglino da soli.»
«Potrei essere l'unica in grado di
farlo calmare» le spiegai pur
seguendola.
«Ma sarebbe una soluzione
temporanea a un problema di maggiore
portata. Quell'uomo deve imparare a non
inalberarsi anche senza di te.»
Sapevo che aveva ragione eppure
non riuscii a smettere di preoccuparmi,
guardando fuori ogni due secondi,
cercando di valutare la gravità della
situazione.
Quando Dean oltrepassò la soglia
fischiettando mi sentii più che sollevata.
Quando mi vide mi fece anche un
sorriso, come se la cosa lo avesse reso
felice, evento che non accadeva
praticamente mai.
«Tu» mi disse, facendolo suonare
come un vezzeggiativo, «Ti stavo
proprio cercando.»
Di sicuro non era positivo: quel
bastardo cercava i guai peggio di me,
perciò mi misi a braccia conserte
guardandolo in tralice.
«Perché? E cos'hai detto a Tristan
per farlo innervosire di nuovo?»
«Andiamo, come se non fosse
sempre arrabbiato!»
Detestai il fatto che avesse
ragione.
«Ma quello che è successo là
fuori è stato niente. Gli è venuto un
attacco di gelosia perché io e Nat ci
siamo
frequentati.
Non
devi
preoccuparti però, di sicuro non vuol
dire che provi ancora qualcosa per lei.
Oh, guarda…» e indicò la finestra.
Mi voltai seguendo il suo sguardo
e il mio corpo s'irrigidì. La mia mente
era già sconvolta dalle sue parole: non
riuscivo a scrollarmi di dosso il
sospetto che Tristan nutrisse ancora
qualcosa per quella stronza e le parole
di Dean non avevano fatto altro che
confermarlo.
Tristan stava parlando con
Natalie ed era visibilmente arrabbiato.
«Secondo me gliene sta dicendo
quattro per avermi scopato, ma questo
non significa che la voglia ancora. È
piuttosto normale prendersela per una
cosa successa anni fa con la tua ex, no?»
Odiavo che usasse il sarcasmo
come me, dicendo cose che mi facevano
incazzare.
«Vattene, merdina» gli intimò
Frankie.
Io stavo ancora fissando Tristan e
Nat. Il viso di lui subì una
trasformazione, il cipiglio svanì e una
grassa risata gli sfuggì dalla gola. Mi si
serrarono i pugni… lei doveva aver
detto qualcosa che lui riteneva
divertente. La odiai.
«Ricorda: sono sempre pronto se
volessi
rendergli
la
pariglia
ingelosendolo.»
Ignorai del tutto Dean finché non
se ne fu andato. I miei occhi e ogni
singolo
grammo
della
mia
concentrazione erano dirottati sulla
coppia che chiacchierava all'esterno.
Lei gli aveva toccato il braccio due
volte.
«Io dico di andarcene. Fuori di
qui. Che ne dici dell'In-N-Out? Si
mangia e si beve bene.»
«Sì» mi voltai con fermezza
allontanandomi dalla finestra. Avevo
finito di torturarmi: se lui voleva parlare
con la sua ex, poteva anche passare il
resto del tempo a chiedersi dove
diavolo fossi finita. Non era che mi
andasse particolarmente un hamburger e
non avevo bevuto nemmeno un goccio di
alcool, ma non era quello il punto.
Dopo appena dieci minuti dalla
nostra partenza, lui mi aveva già
mandato cinque sms. Continuai a fissare
l'icona sullo schermo senza leggerne
nemmeno uno.
«Parliamone, ragazza» mi esortò
Frankie
con
voce
strascicata,
guardandomi con la coda dell'occhio,
«Sembri sul punto di mordere.»
«Penso che lui provi ancora
qualcosa per lei.» Le parole mi uscirono
di bocca praticamente da sole. Mi
sentivo infantile e paranoica ma non
riuscivo a mandar via l'orrenda
sensazione provocata dal vederli
chiacchierare.
«Non diventi geloso tanto da
aggredire qualcuno, solo perché ha
scopato con una tipa con la quale ti sei
lasciato anni fa, a meno che non provi
ancora qualcosa per lei, no?»
Frankie scosse la testa sospirando
in modo drammatico.
«Non lo so. I ragazzi hanno una
regola: non si fanno le tipe degli amici,
ex o non ex.»
«Ma hanno comunque scopato le
stesse donne. Non ha senso.»
«Nemmeno per me, deve essere
decisamente una cosa da maschietti. A
volte, dire che una pollastra è la tua
ragazza cambia tutto.»
Il mio cellulare suonò nuovamente
e provai il forte impulso di
scaraventarlo fuori dal finestrino.
«Devo smettere di seguirlo a
questi stupidi party, sono sempre fonte
di problemi.»
Ma a essere davvero onesta con
me stessa, ero terrorizzata che lui li
frequentasse senza di me. Stronzalie
sembrava in agguato ovunque, solo in
attesa di una possibilità.
«Non è una cattiva idea. Di sicuro
hai già abbastanza problemi senza dover
gestire anche quell'imbecille istigatore
di Dean.»
«Avrei potuto studiare o magari
aiutare Jerry coi bambini questa sera.
Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che
non uscire e guardare il mio uomo
tornare pappa e ciccia con la sua ex.»
«So che te l'ho già detto, ma se
può aiutarti te lo ripeterò: non penso
esista una sola possibilità al mondo che
lui la tocchi, nemmeno con un bastone
lungo due metri.»
Aiutò.
Mangiammo gli hamburger ma
saltammo
le
patatine,
che
rappresentavano dei grassi contro delle
buone e semplici proteine.
Stavamo
tornando
quando
controllai gli sms. Alzai gli occhi al
cielo: ce n'erano tredici e l'ultimo
diceva tutto sull'umore di Tristan.
Tristan: Dove cazzo sei andata?
Il mio cellulare si guadagnò una
smorfia. Replicai laconica.
Danika: Con Frankie.
Lui rispose immediatamente.
Tristan: Perché non mi hai detto
che sparivi?
Un invito a nozze per il mio
bisogno di sfogarmi.
Danika: L'avrei fatto ma eri
troppo preso da Nat.
Il cellulare prese a suonare e per
un attimo mi feci piccola poi risposi.
«Hey…»
«È stata lei a venire da me» la sua
voce arrabbiata era alta a sufficienza da
costringermi ad allontanare il telefono
dall'orecchio, «Io non volevo averci
niente a che fare. È sempre così. Dove
sei? Vengo a prenderti.»
«Stiamo tornando.»
«Siamo a circa dieci minuti»
gridò Frankie in modo che anche lui
sentisse.
«Sei arrabbiata per questa
cavolata?» mi domandò Tristan. Se già
non fossi stata arrabbiata, ci avrebbe
pensato il suo tono basso e crudele.
«Non lo so. Il fatto che Nat e
Dean abbiano scopato dopo che voi due
vi siete lasciati, ti ha fatto incazzare
abbastanza da affrontarlo?»
All'altro capo, lui imprecò.
«Ma non è quello che è successo:
Dean stava solo cercando di
provocarmi, come sempre.»
«Rispondimi allora: ti dà fastidio
che abbiano scopato?»
«Non sono arrabbiato con
Natalie. Credimi quando ti dico che non
potrebbe fregarmene di meno con chi
scopa. Ce l'ho con Dean: sta valicando
dei confini che abbiamo stabilito anni fa
e prova a mettere zizzania fra me e te
senza motivo. Senza contare che non
sono affari suoi.»
Aveva sia risposto che evitato la
mia domanda e all'improvviso mi sentii
stupida. Le aveva solo parlato, non si
erano mica appartati.
Il suo tono variò inaspettatamente,
diventando estremamente suadente e
capii subito che ero fregata: «Non
litighiamo tesoro. Sai che sei l'unica che
voglio.»
Lo sapevo? Lui si era dato da fare
prima che ci conoscessimo… diavolo,
anche dopo in realtà. Ma da quando
eravamo diventati una coppia, il suo
comportamento era sempre stato
ineccepibile ed io avrei dovuto
ricordarmelo bene, dato che eravamo
sempre appiccicati.
«Nemmeno io voglio litigare»
ammisi.
Frankie ridacchiò e la incenerii
con lo sguardo. Tutti sapevano che
Tristan mi aveva in pugno.
«Questo vuol dire che passiamo
direttamente al sesso rappacificatore?»
la voce roca di lui rimbombò attraverso
il cellulare e tutto a sud del mio
ombelico si contrasse, «Vuoi che ti tiri i
capelli mentre ci diamo giù di brutto,
tesoro? Che ti scopi fuori l'ansia?»
Spiai Frankie e dall'irrefrenabile
ghigno sul suo viso capii che stava
ascoltando ogni parola di Tristan.
«Ci vediamo fra un minuto»
replicai quasi gridando e chiusi la
comunicazione.
«Stai
arrossendo»
osservò
Frankie con una risatina.
«Quell'uomo è senza vergogna»
brontolai.
CAPITOLO TRE
DANIKA
Tristan era in piedi in mezzo alla
strada con le braccia conserte.
Sembrava pronto a una rissa… oppure a
tenermi per i capelli mentre mi scopava
alla grande.
«Gesù,
ha
delle
braccia
impressionanti» sottolineò Frankie.
Ed era vero: erano gonfie, tatuate
e sembravano pronte a far scoppiare le
cuciture della sua maglietta nera. Aveva
un aspetto duro e magnifico e la sua
espressione infuriata provocava grossi
contrasti alla mia libido.
Dio, quanto lo volevo!
«Non ti dirò certo una bugia: è
sexy da morire se ti piace il genere, cosa
che ovviamente è.»
La sentii a malapena mentre
guardavo lui che raggiungeva il mio lato
dell'auto, aprendo lo sportello prima
ancora che fossimo del tutto ferme.
«Rilassati, bambolone» disse
Frankie, «Siamo state via solo un'ora.»
Lui le rispose a fatica, facendole
un cenno di saluto frettoloso prima di
tirarmi giù dalla macchina.
«Andiamo a casa» brontolò
tirandomi perché lo seguissi sul
marciapiede.
«Buonanotte» gridò Frankie.
«Ti chiamo domani» le dissi,
all'improvviso ansiosa quanto Tristan di
arrivare alla sua auto. Ed era bastata
solo un'occhiata ardente.
«Ti piace la rissa» lo accusai
sottovoce.
«Poco. Mi piace scoparti e non
posso farlo se mi scarichi alle feste.»
Lo guardai male mentre non mi
veniva in mente niente di utile da
replicare. Il fatto che riuscisse a
eccitarmi e farmi incavolare in parti
uguali non aiutava.
«Abbiamo preso un hamburger.
Tu eri occupato perciò non vedo come
puoi lamentarti.»
«Cosa vuoi che faccia, che scappi
ogni volta che mi si avvicina? Avrei
dovuto buttarla in piscina?»
Quell'immagine allettante mi fece
sorridere. «Quello ti avrebbe fatto
guadagnare dei punti.»
Lui ridacchiò mentre mi faceva
salire e poiché ero stanca quanto lui di
parlare di Natalie, cambiai argomento:
«Sei sicuro di poter guidare?»
«Sì. Più che bere abbiamo
parlato.»
Si mise al volante senza
guardarmi e avviò il motore.
«Togliti le mutandine» il suo tono
era rilassato, quasi indolente.
Mi s'inturgidirono i capezzoli e
percepii una deliziosa e corposa
sensazione di umido fra le gambe. «Non
siamo così lontani da casa tua»
protestai, sebbene le mie mani avessero
sollevato un po' la gonna. Afferrai i
bordi delle mutandine e le feci scivolare
giù impaziente.
«Solo un po' di riscaldamento,
pudding.»
Deglutii quando una mano si
staccò dal volante per posarsi sulla
parte
alta
della
mia
coscia,
accarezzandola con fervore.
«Sono già accaldata.»
Ormai ne avevo fatta di strada
rispetto a quando mi servivano molti
preliminari e grazie a lui, ero
perfettamente in armonia con il suo stato
di arrapamento costante.
«Apri le gambe, dimostramelo.»
Le schiusi e i miei fianchi si
mossero verso la sua mano. Lui la
sollevò ma non abbastanza.
«Sei bagnata? Fammi sentire…
voglio che la tua fica sia disperata dalla
voglia.»
Gli afferrai la mano, attirandola a
me finché le sue nocche mi sfiorarono la
fessura. Fu un contatto leggero che
tuttavia fece sospirare entrambi.
Lui fletté il polso nella mia mano,
infilando due dita prima che capissi le
sue intenzioni. Chiusi gli occhi
mugolando sonoramente.
«Dio, amo le tue mani» gemetti.
Fece uscire lentamente le dita,
strofinandole lungo l'interno delle pareti,
facendomi rabbrividire e imprecare. Le
rituffò dentro con foga ed io scalciai via
una scarpa, affondando un tacco nel
sedile mentre sollevavo i fianchi più che
potevo, persa nella sensazione e
preoccupata solo della mia corsa
all'orgasmo. Il mondo in quel momento
era tutto lì, in quello che le sue dita mi
stavano facendo.
Mi fece venire velocemente
sapendo dove toccarmi e quanto, e mi
resi conto che la macchina si era fermata
solo quando mi ripresi dall'orgasmo,
mentre lui sfilava le dita. Mi stavo
sistemando seduta quando notai che i
suoi jeans erano sbottonati. Il suo
uccello era esposto, duro e imponente,
stretto nella sua grossa mano. Fu una
visione che mi fece gemere.
«Lascia» mi offrii cercando di
sedermi ma lui mi penetrò nuovamente
con le dita, tenendomi ferma dov'ero.
«No. Voglio questo, qui» e mosse
le dita per dimostrare cosa intendesse
per ‘questo’, «Perciò aspetterò finché
non siamo a casa. Voglio scoparti con
forza perciò ti sto facendo riscaldare,
così ti posso prendere contro il muro.»
Ansimai quando le sue dita
instaurarono il ritmo e protestai quando
di punto in bianco mi lasciarono.
«La cintura bubu. Andiamo a
casa.»
Mi sistemai, allacciando la
cintura mentre occhieggiavo la sua
erezione esposta. Dopo circa trenta
secondi dalla partenza, la mia mano
iniziò a spostarsi verso di lui.
Lo
afferrai
stringendolo
nonostante dovessi piegarmi sulla
sinistra per una buona presa. Le mie dita
riuscivano a chiudersi a malapena
attorno alla sua circonferenza… la cosa
più arrapante del mondo.
Lo pompai con forza un paio di
volte prima che lui mi bloccasse la
mano. Guardai affascinata una goccia
perlacea di liquido sfuggita dalla punta
congestionata e non appena la macchina
entrò nel parcheggio fuori dal
condominio, mi liberai della cintura e
presi a stuzzicarlo con la lingua,
affamata.
Tristan
mi
allontanò
prendendomi per i capelli e mi guardò
con un sorriso sofferente.
«Come ho detto, sto aspettando di
scoparti. Fuori dalla macchina, bubu.»
Avrei voluto rispondergli ma
soppressi quel bisogno, filandomela a
tutta velocità per le scale. Lui aveva dei
progetti che mi andavano benissimo a
prescindere da quali fossero. La mia
libido ormai era in piena frenesia e
sfuggiva al mio controllo.
La velocità con cui Tristan aprì la
porta, la chiuse dietro di noi e mi spinse
contro la parete fu una sorta di gioco di
prestigio.
Sprofondò dentro di me e i miei
tacchi gli infilzarono i glutei. I nostri
baci erano intensi, rudi, eccitanti e
intossicanti. La nostra era una fame
insaziabile. Mi penetrò con una stoccata
sicura e venimmo colti dalla smania
mentre lui mi scopava follemente come
promesso, borbottando al mio orecchio
sconcezze alternate a tenerezze e
rivoluzionando tutto il mio mondo.
«Ho intenzione di scoparti tanto
che domani nessuno dei due riuscirà a
camminare» grugnì nella mia bocca ed
io mi squagliai. Intense ondate di
lussuria mi avvinsero mentre lui si
sfilava e riaffondava con lunghi colpi
veloci. I miei fianchi gli andavano
incontro e a ogni stoccata sbattevo
contro la porta alle mie spalle.
«Ti amo» mormorai affannata
mentre venivo. La sua schiena s'inarcò e
lui mi seguì, completamente dentro di
me, gridando dal piacere.
«Dio, è stato davvero intenso»
sospirai.
«Oh, non abbiamo mica finito!»
Si sfilò mentre ancora si stava
contraendo e i miei piedi non fecero in
tempo a toccare terra che mi trascinò
dritto in camera da letto. Mi spinse sul
materasso con un'espressione feroce e
tenera al tempo stesso.
Quanto lo amavo. Quanto amavo
tutto questo: adoravo quello che mi
faceva, ogni tocco, ogni assaggio… Era
riuscito a farmi piacere un atto che per
la maggior parte della mia vita da adulta
mi aveva terrorizzato.
Mi
fece
voltare
prona,
sollevandomi i fianchi per aggiustare
l'angolazione e il suo glande pulsò
contro di me spingendosi appena oltre i
primi centimetri, per torturarmi senza
tregua.
«Parlami, tesoro» gracchiò al mio
orecchio, «Dimmi cosa vuoi. Sii
esplicita.»
I miei fianchi arretrarono contro i
suoi e la mia schiena s'inarcò quando mi
prese i seni fra le mani. «Scopami forte»
mugolai mentre iniziava a penetrarmi,
«Prendimi per i capelli e sbattimi su
questo letto.»
Quello gli provocò una risata
roca che tuttavia svanì quasi subito
quando affondò dentro di me con forza,
allungandomi e riempiendomi finché
ogni mio singolo nervo tornava alla
vita.
Assecondò la mia richiesta alla
lettera, scopandomi tanto che pensai
avrei lasciato un'impronta permanente
del mio corpo sul materasso. Il mio viso
era talmente affondato che dovetti fare
leva sui gomiti solo per riuscire a
respirare ma lui non cedette,
prendendomi senza pietà. Era uno di
quegli amplessi da far strappare le
lenzuola e Tristan mi ascoltò gridare
prima di godere.
Una volta raggiunto l'orgasmo si
lasciò andare con tutto il peso su di me,
ansimando. I suoi fianchi continuavano a
martellarmi, inchiodandomi giù.
«Stai bene?» domandò col
fiatone, «Credo di avere un po' perso la
testa.»
«Mm mm» mormorai in risposta,
respirando a fatica mentre tentavo di
tornare sulla terra.
Passò un bel po' di tempo prima
che lui mi scendesse di dosso ma solo
per avvolgermi nel suo abbraccio. Il mio
ragazzo era un coccolone e la cosa non
avrebbe potuto rendermi più felice.
«Rinunciare a tutto questo per
cinque giorni a settimana sarà dura»
osservò con voce assonnata.
Mi irrigidii… mi ero quasi del
tutto dimenticata del contratto. Forse la
mia mente lo aveva chiuso fuori perché
era qualcosa che mi terrorizzava.
Sapevo che non ci avrebbe fatto alcun
bene. Beh, a lui forse sì o almeno così
speravo, ma a noi in quanto coppia...
La sua mano si strinse attorno al
mio fianco e capii di essermi allontanata
quando mi chiese: «Sei sicura che la
cosa ti stia bene? Se non ti piace, non
accetterò. Non voglio stare lontano per
così tanto.»
Gli diedi un buffetto sulla mano
stringendo gli occhi chiusi. Poiché mi
stava abbracciando da dietro, non si
accorse delle lacrime che scendevano.
«Ma certo che mi sta bene. Non
puoi lasciarti sfuggire questa possibilità,
Tristan e comunque ci vedremo nei fine
settimana.»
«Dio, suona da schifo. Cinque
giorni a settimana è ridicolo. Vedrò se
riesco a far cambiare loro idea per
quanto riguarda la tabella di marcia.»
Ma alla fine vi si attennero tutti.
Cinque giorni lontano, due a casa.
Settimana dopo settimana. Fu una routine
che si rivelò pesante per entrambi fin da
subito: Tristan veniva a casa sempre più
stanco e teso ed io lo sentivo
allontanarsi da me ogni volta che
ripartiva. I periodi di assenza iniziarono
ad allungarsi e i giorni divennero
settimane.
Stavamo naufragando. Mi sentivo
incapace di fermare tutto, eppure mi
aggrappai a lui disperatamente.
CAPITOLO
QUATTRO
MESI DOPO
DANIKA
Faceva paura, anche per gli
standard di un normale parcheggio per
roulotte. Era proprio il tipo di luogo in
cui, negli anni in cui non ci eravamo mai
viste, mi ero immaginata lei vivesse.
Nella mia mente era sempre un
immondezzaio come questo, oppure la
morte. Era quello il suo stile.
Bussai, attesi un minuto buono poi
bussai di nuovo. Riuscivo a sentire la
televisione accesa e sotto la tettoia c'era
una vecchia Nissan Sentra ammaccata.
Era il posto giusto e qualcuno era in
casa, perciò non me ne sarei andata
finché non mi avrebbero aperto.
Dopo altri cinque minuti provai la
porta. Non era chiusa a chiave e la aprii
con estrema trepidazione.
L'interno di quella roulotte era
anche più piccolo di quanto non
sembrasse da fuori, tanto che mi bastò
una sola occhiata per avere una
panoramica di quasi tutto.
Mia
madre,
ai
limiti
dell'anoressico e macilenta, sedeva
curva su un divano che sembrava essere
uscito da un uragano. Conoscendola e
ricordando
la
mia
infanzia,
probabilmente era così. Quella donna
era un ammasso di caos e indifferenza.
Aveva gli occhi sullo schermo che
trasmetteva un episodio di un qualche
vecchio reality show, ma dubitavo lo
stesse davvero guardando. Aveva la
testa altrove e persino all'arrivo della
figlia che non vedeva da anni, il suo
sguardo si spostò appena e la sua
espressione
si
contrasse
impercettibilmente.
La camera da letto non aveva una
parete che la separasse dal resto
dell'ambiente, perciò vidi i piedi di
qualcuno che spuntavano dal fondo del
letto. Non che mi fossi aspettata niente
di diverso. Anche devastata dalla sua
dipendenza, mia madre era comunque
bella. Quello, sommato al fatto che non
fosse affatto sofisticata, le aveva sempre
permesso di trovarsi un uomo senza
alcuna fatica. Tenerselo a tempo
indeterminato, beh… era un'altra storia.
«Ciao» la salutai sottovoce,
consapevole dello sconosciuto a pochi
passi.
«Hey» mi disse lei atona. Tutto
qui.
Non ero sicura che fosse mai stato
detto ad alta voce, ma avevo sempre
avuto la profonda sensazione che io e
mia sorella non fossimo mai state niente
più di un fardello per mia madre. Ora
ero cresciuta, non la vedevo da anni,
eppure ritrovavo nei suoi occhi la stessa
espressione di sempre.
Non ero desiderata. Non lo ero
mai stata.
Afferrai uno sgabellino accanto
alla porta portandomelo dietro per
sedermi al suo livello, assicurandomi di
non bloccarle la visuale sulla
televisione. Non ero certo venuta per
provocarla.
«Quella coppia che venne a
trovarti qualche anno fa… Jerry e Bev,
sono brave persone. Si sono sempre
comportati magnificamente con me, sono
ottimi datori di lavoro e ormai miei cari
amici. Si prendono cura di me e mi
danno più che un tetto sotto al quale
vivere» recitai. Avevo provato quel
discorso come una ragazzina nervosa.
Lei non mutò espressione e nei
suoi occhi non comparve alcun segno
che le mie parole fossero andate a buon
fine.
«Io sto bene, sono una studentessa
a tempo pieno e ho anche un lavoretto
part-time.»
Nulla.
«Vado ancora a scuola di ballo.
Non ho molto tempo per frequentare, con
la scuola e il lavoro ma non ho lasciato
perdere. Quando le cose si saranno
assestate intendo riprendere a pieno
ritmo.»
«Hai dei soldi?» mi domandò lei
come se fosse la domanda più normale
del mondo ed io non le avessi mai
parlato.
Deglutii ferita, quando non avrei
dovuto esserlo; frustrata nonostante non
avessi alcun diritto di farmi illusioni.
«C'è un uomo addormentato
nell'altra stanza. Se non gli pago quello
che gli devo, mi farà del male.»
«Devo chiamare la polizia?»
«Quello non mi aiuterebbe. È…
complicato. Hai dei contanti?»
Anche quando menzionò l'ipotesi
di essere maltrattata, il suo viso rimase
privo di espressione. Era morta dentro
molto tempo fa.
Presi il portafoglio cercando le
banconote. Sapevo di non aiutarla
davvero ma grazie a lei, la complice era
una figura che mi veniva spontanea e se
potevo
evitare
che
quell'essere
spaventoso in camera da letto le facesse
del male, l'avrei fatto.
Le porsi quaranta dollari che lei
prese senza scrupoli.
«È tutto ciò che hai?» mi
domandò neutra. Ormai era un guscio di
essere umano, uno zombie.
Annuii. «Non mi porto mai dietro
troppi contanti. Non è prudente.»
«Che ne dici di un bancomat? Non
prenderei molto e te li restituirei.»
La mia bocca s'indurì… quella
l'avevo già sentita. «Non mi sento a mio
agio.»
Finalmente lei ebbe una reazione,
per quanto minima. Sul suo volto
comparve l'ombra di un sogghigno.
«Sto cercando di sopravvivere,
sai, come te e come tutti gli altri.»
Non pensavo che per me fosse la
stessa cosa. Sapevo che i suoi demoni
avevano avuto la meglio tempo addietro,
mentre io intendevo ancora dare
battaglia ai miei.
«Io lavoro per mantenermi agli
studi perciò non ho altri soldi da
scialacquare. Ecco come sopravvivo.»
«Hai il mio aspetto ma è tutto. Da
dove hai preso questo atteggiamento,
non lo saprò mai. Dahlia non ti somiglia
ma almeno, quando le parlo, so che è
mia figlia.»
Mi aggrappai a questo, in fondo
era il motivo principale per cui ero
venuta qua e ignorai del tutto l'eventuale
significato dietro quelle frecciatine.
«Hai parlato con Dahlia? È
venuta a trovarti?»
Il suo ghigno tornò. «L'ho vista un
paio di mesi fa. Lei non pensa di essere
troppo per sua madre.»
Digerii la cosa. Avevo iniziato a
cercare mia sorella un mese fa e il solo
fatto di averlo comunicato a Jerry aveva
portato qualche riscontro. A mia
insaputa, lui aveva scovato mia madre
anni prima, all'inizio del mio lavoro
presso di loro e le aveva fatto visita.
Ero molto più giovane e lui voleva solo
assicurarsi che a mia madre stesse bene
il fatto che la figlia, appena diplomata,
lavorasse come tata in una casa privata.
Così, Jerry aveva quindi scoperto quello
che avevo trovato io oggi: una donna
disinteressata. A un osservatore casuale,
quella sarebbe potuta sembrare apatia
ma io non lo ero, avevo visto
quell'indifferenza per tutta la vita ed era
a un gradino superiore ormai.
Se mai aveva avuto un'anima, mia
madre l'aveva persa prima che ne avessi
memoria.
Per quanto ultima spiaggia però,
rimaneva una pista che non potevo
ignorare.
«Hai il suo indirizzo o il suo
numero di telefono? Vorrei trovarla, è un
po' che non ci vediamo.»
«Mi ha raccontato quello che è
successo con quel vecchio. Dubito che
voglia parlarti.»
Raddrizzai la schiena e mi ci
volle tutta me stessa per non batter
ciglio.
Quei ricordi erano sepolti in
qualche angolo buio della mia mente, ma
scoprire che mia madre sapeva, mi fece
sentire come se fossero freschi. Provai
quella sensazione di essere sudicia ed
esposta che col tempo avevo
dimenticato.
«Vorrei almeno provarci» le
spiegai con calma, «Sono passati anni e
lei è mia sorella.»
«Tu non sei diversa da me. Lo
prova quello che facevi con quel
vecchio: puoi guardarmi come se fossi
fango sotto i piedi quanto vuoi, ma
siamo uguali. Viviamo vite spezzate e
tiriamo avanti come possiamo.»
«Hai perso la tua occasione»
replicai nascondendomi come sempre
dietro al sarcasmo, «Saresti dovuta
diventare una poetessa.»
Avrei voluto insultarla, lei che ci
aveva abbandonato alla mercé di due
sconosciuti deviati, ma mi sentivo
generosa e riuscii a limitarmi a quella
frecciatina.
«Non ho il suo numero e non so
dove sta. È lei che mi fa visita ogni
tanto.»
«Quanto spesso?»
«Come faccio a saperlo? Ho
l'aria di chi ha un calendario? Quando le
va, immagino.»
«Vive in città o arriva in
macchina da fuori?»
«Sei sicura che non hai altri
contanti?»
«Mi stai dicendo che se ti porto
dei soldi risponderai alle domande?»
Lei scrollò le spalle e disse
qualcosa
di
evasivo
ma
improvvisamente smisi di concentrarmi
su di lei, spostando l'attenzione
sull'uomo che si stirava nel letto.
«Devo andare» dissi alzandomi.
Provai un brivido di paura lungo
tutto il corpo quando il tizio si sedette,
guardandomi immediatamente. Era più
vecchio di mia madre, con i capelli sale
e pepe e un fisico intimidatorio.
Dovevo uscire da lì… Uno
sguardo m era bastato a capire che non
avrei mai voluto trovarmi in sua balia.
Feci qualche passo indietro
rovistando goffamente nella borsa alla
ricerca del biglietto che avevo scritto
per mia sorella.
Prima che riuscissi a recuperarlo,
l'uomo fu davanti al mio viso. Mi portò
via la borsa dalle mani senza darmi
tempo di aprire bocca e si mise a
rovistare nel portafoglio come se ne
avesse ogni diritto, poi lo ributtò nella
borsa guardandomi male. Nei suoi occhi
neri non c'era alcun segno di umanità.
Indietreggiai di altri due passi ma
lui mi seguì, lo sguardo più minaccioso
che avessi mai visto.
«Questa è tua figlia, stronza?»
bofonchiò a mia madre da sopra la
spalla, «Deve essere tua, ti assomiglia.
Ragazza, sai che quella puttana di tua
madre mi deve cinquemila testoni?»
Feci segno di no con la testa,
tremando dalla paura perché a ogni mio
passo indietro, lui ne faceva due in
avanti. Mi bloccò contro la porta poi mi
gettò la borsa e con voce bassa e dura
mi chiese: «Cosa stavi cercando lì
dentro?»
Scossi la testa, troppo spaventata
per riuscire ad assimilare velocemente
la domanda.
«Rispondimi» gridò e con una
mano forzuta mi afferrò il mento.
«B-biglietto. Era un biglietto.»
Lui scavò nella borsa e prese la
lettera per mia sorella sventolandomela
in faccia. «Questa? Sei venuta per
questa?»
Annuii, piagnucolando quando lui
accartocciò il foglio nel pugno e dopo
avermi forzato ad aprire la bocca, me lo
infilò fra i denti.
«Porta quel cazzo di culo fuori da
qui! Torna quando avrai i soldi di questa
troia, capito?»
Annuii per quanto non avessi
alcuna intenzione di tornare e lui mi
lasciò andare.
Armeggiai con la maniglia ma lui
mi assalì, prendendomi per le spalle con
una forza tale che mi bruciarono gli
occhi dal dolore. Ringhiò, scuotendomi
tanto da farmi battere i denti poi mi
lasciò ma solo per afferrare le spalline
sottili del mio top, strappandole con un
movimento violento.
Mi si bloccò il respiro. Ero
sconvolta e terrorizzata e la mia mente
non era in grado di capire come avesse
fatto la situazione a degenerare così
velocemente, come fossi riuscita a
perderne il controllo.
«La prego, no» cercai di dire
attraverso la carta spiegazzata nella mia
bocca.
Lui non ci fece caso, appoggiando
il suo enorme corpo sul mio e
bloccandomi una coscia fra le sue.
«Ricordati stronzetta, che se ci metti più
di due giorni per riportarmi i soldi, mi
ripagherai gli interessi con la fica e non
sarò certo gentile. Intesi?»
Annuii, lottando semplicemente
per riuscire a respirare ma lui non aveva
ancora finito. Mi strinse un seno con
forza bruta. «Se non torni, vengo a
cercarti, capito?»
Mi lasciò sorridendo mentre mi
restituiva la borsa e si scostava. Un
sorriso sufficiente a darmi gli incubi.
«Adesso vai, ragazzina. Ci
rivediamo presto.»
Scappai, temendo a ogni secondo
che non mi avrebbe mai lasciato
davvero andare.
Accostai la macchina dopo
almeno cinque minuti, sputando fuori la
carta dalla bocca e facendo profondi
respiri affannosi di sollievo. Stavo
tremando ma non piansi nonostante mi
costasse un grosso sforzo.
Tenni insieme il top mentre
scendevo dalla macchina per andare al
bagagliaio dove avevo la borsa per la
notte. La presi e la riportai
nell'abitacolo con me. Fortunatamente,
avendo previsto di rimanere da Tristan
durante il fine settimana, mi ero portata
un cambio. Non mi sarei mai potuta
presentare da lui con una maglietta
strappata, avrebbe sollevato domande
alle quali non avevo intenzione di
rispondere.
Mi cambiai buttando il top
rovinato nella borsa e rimasi lì seduta, a
tremare per una buona mezz'ora prima di
sentirmi bene a sufficienza da riprendere
la guida.
CAPITOLO
CINQUE
DANIKA
Quando arrivai all'appartamento
di Tristan la giornata era già stata
schifosa a dire poco. Era stata un
inferno, puro inferno con fiamme e tutto
quanto.
Sfortunatamente,
quell'orrendo
confronto con l'uomo alla roulotte di mia
madre era solo una parte di
quell'inferno.
Avevo troppo in ballo, senza
contare che il mio ragazzo stava fuori
città per settimane… schifo sullo schifo.
Sapere che nonostante giornate come
queste sarei riuscita a stare un po' con
Tristan però, mi aiutava a non crollare.
Avevo la chiave ma diedi una
bussatina di pura cortesia, anche se poi
aprii la porta entrando prima di ricevere
qualsiasi risposta.
Mi resi conto in fretta del perché
nessuno avesse replicato: erano le tre
del pomeriggio ma a giudicare dallo
stato in cui versava l'appartamento, non
si sarebbe detto. C'erano donne
ovunque, troiette che dovevano essere
groupie
e
mi
sentii
andare
istantaneamente in ebollizione.
Dean era sdraiato a torso nudo sul
divano. I jeans erano slacciati e una di
quelle aveva una mano dentro, un'altra
gli stava seduta sopra fianchi contro
fianchi, a condividere con lui una canna.
Lui mi vide e mi sorrise,
chiarendomi del tutto che non sarebbe
stata una visita di cortesia. Proprio
come avevo imparato a leggere i diversi
significati nei sorrisi di Tristan, sapevo
che quelli di Dean significavano solo
una cosa: problemi e non di quelli
divertenti. Solo guai, in grado di
rovinarti la giornata.
«Hey, ti unisci alla festa? Credo
che il tuo ragazzo sia impegnato ma sai
che sei sempre in cima alla lista per
succhiarmelo.»
Attraversai il salotto puntando
alla zona notte. Se avessi riflettuto
chiaramente sarei passata dalla cucina,
ma quelle poche parole avevano già
mandato in tilt il mio cervello alterato
dal mio caratteraccio. Non ero in grado
di interagire in modo maturo con lui,
posto che fosse possibile naturalmente.
«Meglio se non ci vai, credo
abbia detto che voleva un po' di
privacy.»
Voltai il capo per incenerirlo con
lo sguardo ma lui ridacchiò.
«Sai che sei proprio super sexy
quando sei incazzata a morte!
Insomma… ti scoperei a prescindere,
ma quando sei così incazzata, mm,
sarebbe il massimo.»
Soffocai il mio primo istinto di
mandarlo a farsi fottere, visto che lo
avrebbe colto come un suggerimento e
scelsi invece qualcosa di più specifico e
infantile.
«Spero che tu muoia soffocato da
uno dei tuoi preservativi usati,
coglione» gli augurai uscendo dalla
stanza a grandi passi. Lo sentii ridere
dietro le mie spalle e i miei pugni si
serrarono.
«Tesoro, io non li uso i
preservativi» mi gridò.
«Maiale schifoso» borbottai
mentre raggiungevo la porta chiusa della
camera di Tristan.
La aprii silenziosamente, senza
bussare. In fin dei conti una ragazza
aveva dei diritti che travalicavano le
comuni forme di educazione.
Appena entrai mi bloccai…
Tristan era sdraiato sul letto con
addosso solo dei boxer, un braccio a
coprire il viso come se stesse
dormendo. I movimenti convulsi del suo
petto tuttavia tradivano il contrario.
Una schifosa puttanella bionda
completamente nuda gli stava a cavallo,
con le mani ovunque sul suo torace, a
disegnare il profilo dei suoi tatuaggi.
Quella
visione
mi
lasciò
totalmente basita, ferita e incredula,
ecco perché non riuscii a reagire
prontamente. La cosa tuttavia parve
andare a mio favore.
«Se non scendi subito ti butto giù.
Te l'ho già detto: ho una ragazza» grugnì
Tristan da sotto di lei. Aveva la voce
assonnata e irritata tanto da diventare
pungente.
«Ma lei non c'è adesso» miagolò
quella schifosa maledetta, continuando a
esplorargli il torace. Il mio torace, «Io
non glielo dico se anche tu non fai la
spia.»
Ecco, quello sarebbe stato il mio
segnale per gridarle: Hey, brutta
puttana, sono qui, ma per un qualche
motivo rimasi in silenzio, davvero
curiosa di vedere gli sviluppi. Ne avevo
bisogno.
«Visto che a quanto pare non hai
un briciolo di amor proprio, te lo ripeto
lentamente: non ti voglio. Esci dalla mia
stanza e da casa mia e non tornare più.
Ti ho già detto di no tre volte e hai
aspettato che svenissi per assaltarmi.
Quante volte devo ripetertelo ancora?
Non ti toccherei nemmeno se non avessi
altra scelta. Hai capito adesso o devo
provare in un'altra lingua?»
Tristan suonò crudele in un modo
che gli avevo sentito raramente. Di
solito era dolce, dominante e possessivo
sempre, sì, ma comunque tenero. A
sentirlo così faceva quasi paura.
La sgualdrina parve cogliere il
suggerimento e scese da lui con una
smorfia sul viso. «Non sei divertente»
brontolò, «E mi vuoi: ti ho fatto
arrapare.»
«Non prenderla sul personale, ma
in questo momento anche il vento me lo
fa diventare duro. Fuori dai piedi.»
Lei mi guardò a malapena ma io
dovetti impormi di non seguirla e
cavarle gli occhi. Rimasi sulla soglia,
appoggiata alla cornice della porta
mentre Tristan si sedeva sul letto
strofinando gli occhi. Gli ci volle un
attimo per accorgersi della mia
presenza. Quando accadde, sbiancò
come se avesse visto un fantasma.
Scivolò giù dal letto con aria
colpevole. Se non avessi assistito a quel
siparietto in prima persona, quello
sguardo
sarebbe
bastato
per
colpevolizzarlo. Era stato un bene che
avessi tenuto la bocca chiusa lasciando
che quella troietta s'impiccasse da sola,
eppure mi sentivo ancora furiosa. Ero
stanca morta di essere continuamente
messa alla prova. Mi sembrava quasi
che possedere qualcosa di importante,
volesse dire escogitare modi per evitare
che perdesse di valore e le groupie in
casa erano argomento di lite da un po'
ormai.
Poiché Tristan indossava solo i
boxer neri, era impossibile non
accorgersi dell'erezione mastodontica.
Fu l'ultima goccia: quel giorno proprio
non ero in grado di affrontare anche
quello, specie considerato che avevo
sperato in un dolce incontro e non nella
vista di una lurida disgustosa che si
strofinava contro di lui.
«Devo andarmene» lo informai
arretrando, «Non posso farcela in questo
momento, è stata una giornata pesante.»
Lui mi seguì, incurante di essere
praticamente nudo ed eccitato e che la
casa fosse un ricettacolo di donnacce.
«Danika,
devi
credermi…
qualsiasi cosa pensi che sia…»
«Lo so cos'è successo, ho sentito
e non mi interessa. Non lo sopporto più.
Se tu ci tenessi davvero a noi due, non ti
metteresti nelle condizioni di ritrovarti
con delle troie nude addosso mentre
dormi. Dean può vivere qui e farsi tutte
le groupie che vuole, ma io sono fuori.»
Mi girai tornando alla porta
d'ingresso. Avevo la mano sulla
maniglia quando lui mi fermò nella
maniera più tipica di Tristan.
Si spinse contro di me da dietro,
nudo e duro come un macigno oltre che
del tutto disinteressato al pubblico
presente che ci stava guardando.
«Mi sei mancata» mi sussurrò
all'orecchio mentre le sue mani si
spostavano sulle mie per sistemarle
contro la porta, «Non puoi capire
quanto. Penso a te giorno e notte, quando
ti mando un sms e non mi rispondi subito
sono tentato di mandare tutto al diavolo
per tornare a casa e cercarti.»
«Sono stata occupata, sono andata
a lezione in modo piuttosto regolare e ti
ho risposto appena ho potuto.»
«Lo so, ma non è abbastanza. Non
dovremmo mai stare separati, per nessun
motivo. Torna a letto con me tesoro, ho
bisogno di te. Adesso.»
La pressione del suo corpo sul
mio e la sensualità della sua voce al mio
orecchio mi eccitarono all'istante. Non
avrei desiderato altro che cedere ma non
volevo lasciar perdere e basta. Da
troppo ormai era un problema enorme ed
ero stufa marcia. C'erano infinite cose
che non andavano nella mia vita in
questo momento e le groupie che
cercavano di scoparsi il mio uomo nel
sonno non sarebbero diventate una di
quelle.
«Ho bisogno di andarmene. Ti
chiamo più tardi. Davvero: in questo
momento non ci riesco, sono troppo
arrabbiata, potrei dirti qualcosa della
quale poi mi pentirei se prima non mi
calmo.»
Lui emise un gemito di protesta
che mi arrivò dentro. Per me era sempre
stato difficile dirgli di no e quello
peggiorò le cose. Ero troppo
innamorata.
«Ti prego» insistette a voce
bassissima. Era una formula che non
usava quasi mai, «Ho bisogno di te
adesso. Dopo potrai strigliarmi quanto
vuoi. Posso sopportarlo, tesoro.»
Torsi le mani per liberarle e mi
voltai per fulminarlo con lo sguardo.
«Non è una questione di
strigliarti, idiota. Riguarda quello che
succede in questo appartamento quando
non ci sono. Non lo sopporto: non si
tratta di discutere, si tratta di
cambiare…»
«Ok, perfetto» mi interruppe lui
con aria sincera, «Dimmi cosa vuoi e
sarai accontentata. Vai con il
cambiamento.»
Irrigidii la mascella, ben conscia
del fatto che con questo mi sarei
guadagnata la nomea di stronza per il
resto della band. «Basta groupie
nell'appartamento e ovunque tu stia a
L.A. durante le registrazioni. Niente
donnacce nemmeno là. Ragazze,
fidanzate, appuntamenti vanno bene, ma
le troiette come queste devono
andarsene.»
Lui annuì brevemente poi si voltò
verso la stanza. «Nuove regole di casa:
chiunque di voi non sia la ragazza di uno
di noi deve andarsene. E dato che Dean
notoriamente non ha ragazze, questo vuol
dire fuori tutte.»
Dean, che era sul divano obiettò
immediatamente. «Fottiti, amico. Questa
è anche casa mia, se tu puoi avere la tua
fig…»
«Se finisci quella frase sai cosa ti
succederà. Ora fuori tutte. Il contratto è
a mio nome, se hai un problema con le
nuove regole puoi andare a fanculo
anche tu.»
Seguirono brontolii e movimenti
ma tutti parvero obbedire e quando la
sfilata di zoccole si avviò, Tristan mi
spostò da una parte. Osservò lo
spettacolo per un attimo, all'apparenza
convinto che le cose fossero sistemate
poi si voltò, muovendosi contro di me
fino farmi toccare il muro con le spalle.
«C'è altro?» domandò ma non mi
diede tempo di rispondere perché sbatté
le sue labbra sulle mie con rabbia ed
eccitazione.
Era proprio quello che stavo
aspettando: erano settimane che non ci
vedevamo, perciò mi ritrovai a
ricambiare il suo bacio immediatamente,
gemendo all'invasione della sua lingua.
Lui prese a muoverla con lunghe lappate
dentro e fuori, scopando la mia bocca.
M'inchiodò le mani alla parete facendo
scivolare una coscia fra le mie gambe e
spingendo finché non mi ci ritrovai a
cavallo. Presi a strofinare le anche in
circolo contro di lui senza pietà, ma non
era abbastanza. Agganciai la mia gamba
dietro al suo fianco mentre ogni parte di
me lavorava per ridurre la distanza fra
la sua erezione e il mio centro pulsante.
Tristan grugnì adeguando i suoi
fianchi fra le mie cosce finché non
fummo
perfettamente
allineati.
Rimanevano solo gli abiti a fare da
barriera ma combaciavamo alla
perfezione ed io presi a titillare il mio
clitoride contro il suo uccello, arrivando
al limite in una manciata di secondi.
«Trovatevi una stanza» brontolò
Dean ad alta voce.
La bocca di Tristan venne
strappata dalla mia e lo vidi voltare la
testa per abbaiargli contro di lasciarci
da soli.
Dean borbottò qualcosa che non
compresi ma sparì. Avevo già assistito a
questo
spettacolo
un
numero
incalcolabile di volte ormai.
Appena rimanemmo del tutto soli
Tristan iniziò a spogliarmi. Mi sfilò il
top, sganciò il reggiseno con una mossa
veloce e me lo fece scivolare giù dalle
braccia.
Si inginocchiò per dedicarsi ai
jeans, talmente aderenti che dovette farli
scendere assieme alle mutandine.
Essere spogliata mi distraeva ma
non tanto quanto venire baciata da lui e
mentre recuperavo un po' di senno, la
mia mente tornò a quel dettaglio che mi
aveva infastidito per stupido che fosse.
«La volevi, ti sei eccitato per
lei.»
Lui si fermò per una frazione di
secondo poi riprese a svestirmi.
«Tesoro, stavo dormendo… era
solo un'erezione mattutina e per tua
informazione ti stavo sognando quando
quella mi ha interrotto. Credevo fossi tu
quando mi sono sentito qualcuno
addosso, ma ci ho messo poco a capire
che era una sconosciuta.»
Quello mi addolcì, soprattutto
grazie al fatto che quelle zoccole erano
state ufficialmente bandite da casa e che
quindi, non sarebbe capitato di nuovo.
Appena i jeans furono fuori dai
piedi, Tristan si portò le mie gambe
oltre le spalle infilando il naso fra le
mie cosce e fermando efficacemente
ogni mio pensiero. La sua lingua iniziò a
saettare esperta, le sue dita enormi si
fecero strada dentro di me instaurando
un ritmo che mi ridusse senza fiato e
incurante di tutto contro la parete,
sostenuta solo dalle sue spalle. Come da
mia richiesta si era fatto crescere i
capelli e mi ci aggrappai come se
dovessi salvarmi la vita.
«Ti amo» gridai venendo.
«Anche io ti amo, tesoro» mi
contraccambiò lui, facendo scivolare le
mie gambe per potersi rialzare. Si sfilò i
boxer con un solo gesto prima di
sistemarsi direttamente fra le mie
gambe.
«Non
sopporto
queste
separazioni. Credo che manderò a
puttane questa storia del disco… Sei tu
la mia vita, a che serve il resto se non
posso passare con te tutto il mio
tempo?»
Non riuscii a replicare mentre lui
si avvolgeva le mie gambe attorno ai
fianchi, allineando il bacino al mio e
penetrandomi con i primi centimetri.
«Aspetta, il preservativo» dissi
sovrappensiero. Era inutile, quella era
una reazione istintiva per me.
Lui si bloccò di colpo. «Hai
smesso la pillola?»
Girai il viso per non guardarlo
mentre
arrossivo.
«No»
risposi
sottovoce, chiedendomi quale vespaio
avevo appena suscitato.
Lui comprese immediatamente, mi
fece voltare perché lo guardassi e il
puro e semplice dolore nei suoi occhi mi
distrusse.
«Non ti fidi più di me? Pensi che
mi scopi le altre in giro?» aveva il tono
della persona devastata.
Scossi la testa per quanto potei,
considerata la morsa nella quale mi
stava tenendo la mandibola. «No, non lo
penso o non lo faremmo proprio. Non
volevo dirlo, immagino che l'insicurezza
mi abbia istintivamente provocato quella
reazione.»
Lui si portò la mia mano sul
cuore. «Questa cosa mi ferisce… Tutto
ciò che c'è qui è tuo, ogni parte di me.
Nessun'altra avrà mai nulla, lo capisci?
Non potrei mai farti questo… Se non
avessi voluto mantenerle, non ti avrei
fatto tutte quelle promesse.»
Annuii ricacciando le lacrime e
lui avanzò dentro di me, inchiodandomi
al muro. La sua fronte si appoggiò alla
mia mentre mi afferrava per i fianchi,
angolando i suoi fino a bilanciarsi
dentro al mio universo pulsante.
«Se devo perdere la tua fiducia,
fanculo il contratto discografico… tu sei
per sempre, tesoro. Voglio fare e avere
tutto insieme a te, sei l'unica cosa che mi
fa alzare la mattina e dormire bene la
notte. Non sarei sopravvissuto a niente
negli ultimi mesi se non fosse stato per
te. Tu sei la mia roccia Danika. Ho
bisogno che ti fidi di me.»
Annuii nuovamente, sussultando
alla sua poderosa stoccata.
Erano passate settimane perciò fu
un rapporto sbrigativo, veloce ma
soddisfacente. Come sempre, lui aspettò
che godessi prima di venire a sua volta,
tenendomi impalata sul suo uccello
mentre si svuotava dentro di me con un
grido gratificante.
Riprese
fiato,
bofonchiò
istruendomi perché mi tenessi stretta e
senza uscire da me, si diresse al divano,
sdraiandosi in modo che io gli stessi
sopra.
Mi strinse i fianchi con forza e i
suoi occhi dardeggiarono nei miei. C'era
tutto un mondo di venerabile desiderio
in quel suo sguardo, che mi serviva
come l'ossigeno.
«Montami» mi ordinò oppure mi
pregò. Il tono era talmente roco e lo
sguardo talmente deciso che sarebbero
potuti essere entrambi.
Era nuovamente duro e pronto,
una cosa alla quale ormai ero abituata.
Dopo tutti quei giorni, gli ci sarebbe
voluto molto per sentirsi soddisfatto.
Iniziai a muovermi in cerchio con
i fianchi, sedendomi con forza per poi
rialzarmi, cavalcandolo come gli
piaceva, con movimenti sicuri mentre mi
stringevo i seni. Sapevo che guardarmi
mentre mi toccavo lo eccitava e venni
ricompensata da un gemito arrochito e
un balzo prorompente dei suoi fianchi
sotto di me.
Mi pizzicai i capezzoli e la testa
mi andò all'indietro mentre continuavo a
stringerlo con movimenti sempre più
frenetici e spasmodici che riflettevano
l'avvicinarsi del culmine.
Il mio orgasmo mi fece bloccare
mentre rabbrividivo e lo stringevo in
una morsa, assecondando ogni ondata
del mio piacere. Lui non ci mise molto,
ingrossandosi ulteriormente dentro di me
prima di venire.
Passò molto tempo prima che ci
muovessimo. Gli tenevo le dita fra i
capelli mentre ci baciavamo in modo
indolente e rilassato e pensai che avrei
potuto dormire per giorni dopo un simile
delizioso interludio.
Lui mi fece arretrare leggermente
per farmi un sorriso. «Mi sei mancata.»
«Sempre. Ogni secondo di ogni
giorno.»
CAPITOLO SEI
DANIKA
La mattina seguente mi stavo
abbottonando i jeans quando lo sentii
passare un dito, leggero come una
piuma, lungo una spalla poi l'altra.
Mi diedi un'occhiata: c'era una
sequenza di piccoli lividi, il che mi
spinse a guardarmi anche il petto. Uno
dei seni aveva ricevuto lo stesso
trattamento.
Il tizio a casa di mia madre aveva
lasciato il suo segno su di me. L'abilità
distraente di Tristan mi aveva aiutato a
dimenticare tutto quanto per un po', ma
ora quei lividi erano un memento brutale
e sgradito.
«Questi da dove vengono?»
domandò con evidente tensione nel tono.
Ero sempre stata una pessima
bugiarda, eppure feci un tentativo.
«Cosa?» domandai in modo
innocente. Porsi l'accento sul guardarmi
dietro, dove lui mi stava toccando e
aggrottai la fronte come se non avessi
alcuna idea al riguardo, «Non saprei.
Può essere tutto.»
«Questi lividi sembrano impronte
digitali.» Il suo tono era pericoloso e
iniziai a indietreggiare traccheggiando.
Era un dato di fatto che Tristan avesse
un carattere con il quale era meglio non
trovare da dire e se avesse sentito puzza
di bruciato sulla fonte di quei lividi,
avrebbe dato di matto in un secondo.
«Mi capita spesso di farmene.
Non li avevo notati prima, perciò
devono essere recenti.»
Lui fece un passettino indietro ma
un uomo della sua stazza non si muoveva
così velocemente senza conseguenze.
L'espressione impietrita e sconvolta sul
suo viso non aiutava e mi resi conto
immediatamente di aver sbagliato tutto.
«Te li ho fatti io? Io?»
Iniziai a scuotere la testa prima
ancora che avesse finito di parlare. «No,
no, no. Non sei assolutamente stato tu.»
«Come fai a dirlo? Non sai come
te li sei procurati e ieri ti ho stretto. Te li
ho fatti io.»
«Non sei stato tu, ok? Te lo giuro.
Adesso possiamo darci un taglio?»
Lui parve cogliere qualcosa nelle
mie parole o nel mio tono e la sua
espressione da sconvolta passò a
perspicace, un'opzione ancora più
pericolosa.
«Cosa ti è successo, piccola?
Dimmi come ti sei fatta quei lividi» mi
chiese in modo suadente e allettante dal
quale
tuttavia
non mi
lasciai
infinocchiare.
Si spostò finché non fummo uno
davanti all'altra e le sue mani salirono
dolcemente dalle mie spalle fino ai miei
capelli, stringendomeli fino a farmi
inclinare il viso verso il suo. Il suo
corpo era talmente vicino al mio da
interferire con il regolare funzionamento
del mio cervello.
«Dimmelo.»
«Non fanno nemmeno male, stai
reagendo in modo esagerato.»
Lui sbatté gli occhi con aria
spiazzata.
«Reagendo
in
modo
esagerato? Okay, a cosa?»
Deglutii, nervosa per la sua
reazione mentre ancora cercavo di
rimediare una scusa per quei lividi.
Pensavo onestamente che la verità lo
avrebbe spinto a uccidere quel tipo.
«È stato un malinteso» gli spiegai
inumidendomi le labbra secche.
La sua espressione si fece vuota.
«Te li ha provocati un malinteso? E
dopo posso trovarlo?»
Alzai gli occhi al cielo sapendo
bene che come al solito, si sarebbe
trasformato in un cavernicolo. Gli
accarezzai il torace con un gesto
calmante, cercando ancora di evitare ciò
che sapevo sarebbe successo.
«Ho fame, andiamo a mangiare,
ok?»
Lui rimase impalato dov'era
mentre io mi liberavo lentamente della
sua presa. Mi piegai per raccogliere il
reggiseno voltandogli la schiena per
indossarlo ma non fui veloce a
sufficienza e lui mi bloccò una mano con
la sua, girandomi attorno per guardarmi
il petto. Appena notò anche quei segni,
un tic iniziò a fargli pulsare la mascella.
Ahi, brutto segno…
Deglutì, mi lasciò la mano e
s'infilò le dita fra i capelli
stringendoseli mentre si allontanava
ulteriormente da me. «E quelli?»
domandò lentamente e fra i denti. Stava
per perdere il controllo.
Mi allacciai il reggiseno, mi
piegai e raccolsi la maglietta che
indossai velocemente. Più osservava
quei segni e peggio sembrava prenderla,
perciò ero più che determinata a
coprirmi in tutta fretta.
«Dimmelo!»
Ignorai anche quelI'esortazione e
mi misi a cercare nella borsa qualcosa
con cui coprirmi le spalle.
«Non è quello che pensi e devi
calmarti.»
«Spiegamelo allora. Spiegami
perché la mia ragazza ha l'aria di esser
stata malmenata. Dammi un buon motivo
che giustifichi quei lividi ed io mi darò
una cazzo di calmata.» La rabbia vibrò
attraverso la sua voce.
«Non mi piace il tuo tono e mi
rifiuto di parlarne adesso» dissi
infilandomi un piccolo cardigan blu.
«Devo chiamare Jerry e chiedere
a lui?»
Arricciai il naso cercando di
capire. «Non penserai davvero che sia
stato Jerry a farmeli?»
«No, ma credo che potrebbe
aiutarmi a capirci qualcosa.»
Non aveva torto: Jerry sapeva
dov'ero stata ieri, avrebbe unito i puntini
in un niente.
«Per favore, basta. Ho fame e
queste sciocchezze ci faranno arrivare in
ritardo da Frankie.»
Non rimasi ad aspettare la sua
risposta e uscii dalla stanza. Lo sentivo
muoversi dietro di me mentre
attraversavo l'appartamento, cosa che
immaginavo fosse un buon segno. Forse
avrebbe davvero lasciato perdere.
Rimase silenzioso per tutto il
tragitto fino all'hotel & casinò
Cavendish, dove Frankie aveva il suo
studio di tatuaggi. Incontrarci in un
locale dove facevano le migliori
bistecche e uova della città ormai era
diventato un rito, sebbene Tristan si
fosse aggiunto di recente, considerate le
sue assenze ultimamente.
Dopo venti minuti di mutismo, ero
pronta a crollare. Guardarlo guidare, le
nocche sbiancate attorno al volante e
nemmeno una parola a riempire il vuoto
fra noi, era snervante.
Gli misi una mano sulla coscia,
accarezzandola con piccoli cerchi.
«Frankie sta creando il mio
tatuaggio» gli dissi finalmente. Ero
intenzionata a farmelo in sua assenza per
poi sorprenderlo al suo ritorno, ma
quello era stato l'unico argomento che
mi era venuto in mente per distrarlo dal
suo malumore.
Funzionò: lui mi guardò di
sottecchi ma in modo inquisitorio e
interessato.
«Il tuo tatuaggio? Allora sei
sicura di volerne uno?»
Annuii facendo salire la mano e
provando sollievo al fatto che avesse
lasciato cadere l'argomento lividi. «Sì,
certo.»
«Quando? Non mentre non ci
sono, vero?»
Era esattamente quello che invece
volevo. «Ecco, sì. Perché?»
«Voglio esserci» puntualizzò con
veemenza.
«Ti eccita l'idea di vedere
Frankie che mi tortura sul suo lettino?».
La sua mano coprì la mia
appoggiata alla sua gamba e la strinse
appena. «No di certo. Voglio solo essere
presente. Mi prometti che non lo farai
mentre sono fuori città? Per favore.»
E fu quello a vincermi. Non lo
diceva spesso ma quando succedeva, era
sempre sincero. Per un qualche motivo,
questa cosa doveva essere importante
per lui.
«Lei è molto impegnata perciò le
chiederò quando può farmi posto di
mattina. Non so come, ma le ho
promesso che mi sarei fatta riprendere
per il suo show.»
Le sue labbra si strinsero e capii
che la cosa non gli piaceva. «Dove te lo
farai?»
«Sulla schiena.»
«Dove sulla schiena?»
«Circa a metà, vicino alla spina
dorsale.»
«Perciò starai in topless davanti
alla troupe di Frankie? Alla maledetta
TV?»
Sospirai… ecco tornato il
cavernicolo. «Nessuno vedrà nulla
tranne la mia schiena. Sarò sdraiata
sulla pancia e cercherò di tenere tutto
coperto. Smetti di cercare sempre
qualcosa che ti faccia preoccupare.»
«Cercare qualcosa? Cercare…
qualcosa?» mi domandò due volte, come
se stesse pensando ad alta voce, «La mia
ragazza, della quale sono fottutamente
innamorato, torna a casa coperta di
lividi che non mi spiega ed io cerco
qualcosa che mi faccia preoccupare?
Scopro che denuderà il suo corpo
maledettamente perfetto in televisione,
così che un qualsiasi bastardo possa
masturbarsi e sto cercando qualcosa?»
Serrai gli occhi desiderando di
potermi rimangiare quelle parole che
evidentemente non avevano fatto altro
che peggiorare tutto, infine cedetti.
«Farò in modo che tu ci sia, ok?
Potrai
starmi
attaccato
per
salvaguardare la decenza. Ti senti
meglio così?»
«Sì, ma se pensi che mi
dimentichi della storia dei lividi sei
fuori di testa.»
Evitai di alzare gli occhi al cielo
ma di poco. Questi erano i contro
dell'avere un ragazzo possessivo e non
importava quanto pazzamente lo amassi.
Mi sentii sollevata quando
incontrammo Frankie alla postazione del
parcheggiatore. Ci abbracciò entrambi
in modo esuberante e prese a
chiacchierare come una macchinetta da
subito, riuscendo effettivamente a far
migliorare l'umore di Tristan.
«Sono stata a cena con James ieri
sera» ci disse.
Feci un sorrisetto, sempre
divertita dal fatto che si riferisse al
famoso James Cavendish chiamandolo
solo per nome. A me suonava
semplicemente sbagliato: quell'uomo
metteva troppa soggezione per passare
al tu, ma loro erano amici intimi.
«Offrirà uno stage alla sua
galleria il prossimo semestre e vuole
che tu faccia un colloquio! Lo vuoi fare,
vero? Gli ho detto che l'avresti fatto
perciò è meglio che tu lo voglia.»
Il mio cuore fece una capriola.
Per me si trattava di un'enorme
opportunità: ottenere uno stage presso
una delle sue gallerie era notoriamente
difficile,
essere
assunta,
quasi
impossibile.
«Ma è fantastico! Certo che
voglio e se devo, scaglionerò i corsi il
prossimo semestre.»
«Bene, brava. Gli ho detto che
saresti stata entusiasta e gli ho dato il
tuo numero.»
La abbracciai stringendola forte.
«Grazie, sei la migliore!»
«Gli hai detto che se ci prova con
lei lo uccido?» intervenne Tristan
pacatamente.
Entrambe lo guardammo in
tralice.
«Un po' di fiducia, amico» il tono
di Frankie era esasperato, «James ha
superato la fase della vaniglia da un bel
pezzo e gli ho detto chiaramente che
Danika non è il suo tipo. Credimi, non la
toccherà nemmeno.»
«Lo sa che è impegnata? Gliel'hai
detto che sta con me?»
«Non con tutte queste parole ma
sono certa che sappia fare due più due.
E non è interessato alla sua vita
personale. Qui si parla della galleria, ha
solo deciso che la vuole a lavorare per
lui. Fine.»
«Stronzate!»
Serrai i pugni. L'idea che mi
rovinasse questo progetto mi aveva reso
furente, così lo puntai. «Piantala! Per
caso ti trattengo dall'avere successo?
Non credo proprio, perciò mostrami lo
stesso rispetto, coglione!»
Qualcosa nelle mie parole o nel
tono lo fece riprendere all'istante.
«Ok, ok. Però promettimi che me
lo dirai se passa il segno.»
Non ne potevo più di quella
conversazione perciò mi
avviai
all'interno dell'edificio. Considerato
tutto, avremmo fatto meglio a passare
subito al pranzo, dato che Tristan
continuava a trovare una cosa dopo
l'altra di cui essere geloso.
Prima di parlare ancora ci
ritrovammo seduti e con il menu sotto al
naso.
«Promettimi che me lo dirai se lui
oltrepassa il limite ed io la pianto.»
«Quell'uomo è un fottuto dio del
sesso miliardario. Sono piuttosto sicura
che non dovrò respingerlo con un
bastone, ma sì, te lo prometto.»
Frankie emise un suono nasale di
scherno. «Visto? Non devi preoccuparti
di nulla, Tristan. Non ho mai incontrato
nessuno in vita mia con maggiore
autocontrollo di James, senza contare
che io stessa l'ho avvisato.»
La cosa parve placarlo e Tristan
lasciò cadere l'argomento, grazie a Dio.
«Penso che il tuo disegno sia
pronto»
m'informò
Frankie,
strofinandosi le mani come una
ragazzina eccitata. Il modo in cui amara
il suo lavoro era davvero adorabile.
«Posso vederlo?» le domandai,
nervosa ma esaltata al tempo stesso.
«Ma
certo.
Pensavo
che
potremmo farlo martedì e dovrebbe
bastare una seduta. Meglio così,
credimi.»
«Io sono in studio martedì»
annunciò Tristan, nuovamente rabbuiato.
No, più che altro agitato.
«Beh, ma tu non devi mica
esserci,
bambolone»
ribatté
lei
allegramente.
«Invece sì. Parlerò al produttore e
vedrò come fare.»
La bocca di lei si contrasse in una
smorfia mesta. «Ne abbiamo perso un
altro… Potresti essere più ossessionato
dalla tua ragazza, amico?»
«Ne dubito» replicò lui tiepido.
CAPITOLO
SETTE
DANIKA
Il casino scoppiò l'indomani.
Stavo cercando nella mia borsa i
vestiti per allenarmi. L'idea era di
andare insieme in palestra, poi di farci
una doccia ma non saremmo arrivati a
fare nessuna delle due cose.
Tirai fuori il top nero stracciato
fin quasi a metà, aprendolo prima di
capire cosa fosse. Arrotolato, aveva
l'aspetto dello stesso che usavo per fare
gli esercizi. Cercai di ributtarlo dentro
ma non fui abbastanza veloce. Mi venne
strappato di mano prima che potessi
riabbassarlo.
Tristan torreggiava su di me.
Anche lui si stava vestendo e non
indossava altro che un paio di calzoncini
sportivi e scarpe da ginnastica. Era a
petto nudo, gli addominali e i bicipiti
contratti mentre mi sfilava la
magliettina. Nonostante ogni buon senso,
pur sapendo che quella giornata stava
per essere rovinata, quella visione mi
eccitò.
«Questa cos'è?» domandò lui,
spiegando il materiale ed esaminandone
ogni centimetro come se volesse dare un
significato allo strappo sul davanti.
Sospirai, chiudendo gli occhi
intimorita.
«Una
maglietta»
spiegai
rassegnata.
«Perché è strappata nel mezzo?»
ringhiò. Dal suo sguardo vacuo si capiva
che il suo caratteraccio lo aveva già
portato in quel luogo a me inaccessibile.
«Una lunga storia.»
Lui mi fece un sorriso piuttosto
afflitto ma il suo sguardo faceva paura.
«Ho tutto il giorno, tesoro.»
«Lasciamo stare, Tristan. È una
cosa finita, niente per cui valga la pena
di finire di prigione.»
«Bene. Mettila come vuoi. Non
mi dai spiegazioni quindi posso solo
pensare al peggio del peggio. Rispondi a
una sola domanda: ti hanno violentata?»
«No! Non si è spinto fin lì.»
Invece che placarlo, quella frase
parve farlo esplodere ed io mi resi
conto di aver ammesso l'attacco subìto.
Ora non mi sarei potuta rimangiare
nulla.
Lui m'indicò con mano tremante.
«Resta qui.»
Mi sedetti sul suo letto, basita
dalla piega presa dagli eventi e rimasi lì
per almeno una decina di minuti. Mi
decisi a fare qualcosa quando capii che
sapevo dove stesse andando. Se fossi
arrivata da Jerry prima di lui, avrei
potuto fermare quel treno impazzito.
Iniziai a telefonare a Bev poi a
Jerry ripetutamente, mentre tornavo a
casa. Nessuno rispose. Quando arrivai,
una Bev confusa e stressata mi venne
incontro nel vialetto. Tristan e Jerry se
n'erano appena andati.
Passarono
ore
prima
che
sapessimo qualcosa e quando finalmente
ci riuscimmo, ebbi l'unica notizia che
non avrei mai voluto ricevere: Tristan
era in galera.
TRISTAN
Il mio universo si era ristretto
diventando una macchia rossa e il mio
cervello funzionava come un disco rotto,
concentrandosi su tre cose: Danika era
stata assalita, la sua maglietta strappata
e il suo corpo contuso. Un uomo le
aveva messo le mani addosso.
Riuscivo a stento a crederci ma
non avevo problemi a reagire e quella
sua spiegazione laconica… non si è
spinto fin lì. Non ero in grado di
venirci a patti perché ovviamente
implicava che la cosa fosse comunque
arrivata fino a un certo punto. Il volante
della mia auto era diventato il collo di
uno sconosciuto che io stringevo con una
presa mortale mentre mi dirigevo da
Jerry.
Mi aprì lui stesso la porta,
guardandomi con un sorriso ma io non
sprecai tempo e alzai la maglietta in
modo che la vedesse.
«Dov'è andata Danika venerdì?»
«Venerdì?» mi domandò confuso.
«Potrebbe anche essere stato
giovedì ma ne dubito, perché venerdì i
lividi non c'erano, il che mi fa pensare
che sia successo giusto prima che
arrivasse da me.»
«Lividi?»
Gli sventolai la stoffa davanti al
naso. «E una cazzo di maglietta
strappata. L'hanno aggredita Jerry. Dove
cazzo è andata venerdì mattina?»
Lui deglutì faticosamente e parve
diventare
verde
mentre
l'orrore
s'impadroniva dei suoi lineamenti.
«Aggredita? Santo Dio, sta bene?»
«Dove, Jerry? Dov'è successo?»
Lui si coprì gli occhi poi si
strofinò la tempia. «Dannazione, non
avrei dovuto lasciarla andare da sola.»
Mi ci volle tutto il mio
autocontrollo per non mettergli le mani
addosso.
«Andare dove?» sbottai.
Lui tornò in casa e ne riemerse
con le chiavi.
«Guido io.»
Ero sul sedile del passeggero che
stavo tentando di incenerirlo con lo
sguardo quando lui aprì nuovamente
bocca.
«È andata da sua madre venerdì.
Deve essere accaduto là, sta in una
brutta zona.»
«E tu l'hai lasciata andare?»
«Capisco ora che sarei dovuto
andare con lei, ma non immaginavo che
l'avrebbero aggredita. Voleva solo
chiederle il numero di telefono della
sorella, doveva essere una visita
lampo.»
«Beh, adesso lo sai, cazzo!
Quando le ho domandato se l'avessero
violentata, mi ha risposto ‘Non è
arrivato fin lì’. Testuali parole.»
«Gesù» esclamò Jerry passandosi
una mano fra i capelli e tirando fuori il
suo cellulare. Prima che me ne rendessi
conto, stava parlando con la polizia.
«È stato un errore» gli dissi
appena riattaccò, «Così mi farai solo
arrestare, amico.»
Lui mi guardò perplesso. «Beh,
non fare nulla che ti procuri l'arresto e
sarai a posto.»
«Qualcuno le ha messo le mani
addosso, le ha strappato la maglietta, le
ha coperto spalle e un seno di lividi…
come cazzo pensi che possa evitare di
mettere le mani addosso al tizio appena
lo vedo?»
«Beh, fanculo: almeno hai con te
il tuo avvocato.»
La cosa mi strappò una risata
amara. «Almeno quello. Invoca pure
l'infermità mentale quando lo ucciderò,
perché sto già andando fuori di testa.»
«Ecco il piano: noi andiamo là e
aspettiamo la polizia, poi gli
raccontiamo quello che sappiamo. Tu
non devi nemmeno guardarlo, quello.»
Scossi la testa. «Stai delirando»
borbottai.
Se mai l'avessi trovato, l'avrei
davvero ucciso.
«Sì, posso delirare ma almeno
indosso una camicia» ribatté lui.
Abbassai lo sguardo al mio torso.
Non ricordavo nemmeno di essere uscito
di casa ma sembrava proprio che mi
fossi dimenticato qualcosa.
«Perfetto, così non ne rovinerò
una con il sangue di uno sconosciuto.»
«Parli come uno svitato, Tristan.
Stai frequentando i corsi per la gestione
della rabbia, no? Puoi provare a usare i
tuoi esercizi per cercare di far sbollire
quest'ondata di rabbia?»
«Qualcuno le ha strappato la
maglietta di dosso, Jerry. Colpire
qualcuno in faccia perché l'ha chiamata
‘figa’, quella è una questione di gestione
della rabbia. Questo invece è un male
necessario. Nessuno ferisce Danika e
poi la fa franca e ti prometto questo:
quando avrò finito con questo tizio, non
avrà più voglia di rifarlo.»
Jerry
sospirò
pesantemente,
lanciandomi un'occhiata che lo fece
somigliare a un padre deluso… Non che
io avessi una qualche idea di che faccia
avessero in realtà tali figure.
Guidammo per quarantacinque
minuti prima di trovare il posto e mi
calmai un po' nel frattempo, ma il mio
sangue
riprese
a
scorrere
impetuosamente appena ci ritrovammo
nel parcheggio per roulotte. Questo non
era posto per Danika e Jerry non
avrebbe dovuto lasciarla venire qui da
sola.
Gli lanciai un'occhiataccia.
«Non era messo così male
l'ultima volta che ci sono venuto.»
«È un parcheggio per roulotte sul
lato sbagliato della Boulder Highway,
amico. Dovresti aver usato quella tua
cazzo di testa per tirare le somme.»
«Hai ragione. Hai assolutamente
ragione.»
Quello mi diede una tenue
soddisfazione ma non abbastanza da
tamponare l'ondata di rabbia nei
confronti dell'uomo che stavamo
cercando.
Forse, se lo avessimo trovato
addormentato ad esempio, mi sarei
trattenuto ma non fu così che lo
scoprimmo. Stava picchiando la madre
di Danika, urlando tanto da far tremare
le pareti della roulotte.
Sentii una donna gridare dal
dolore appena aprii lo sportello e quello
bastò. Non mi resi conto di dare la
carica alla porta o anche di aver
oltrepassato la soglia. So che afferrai il
pugno che l'uomo stava per sferrare e
glielo torsi tanto da slogargli la spalla,
facendolo volare per la stanza.
Lo anticipai, mantenendo le
braccia ai lati mentre lui si rimetteva in
piedi, e gli strinsi la spalla malandata. Il
suo viso si contrasse dal dolore.
Caricò col braccio buono e
lasciai che il suo pugno venisse in
contatto con la mia mascella. Aveva un
gancio sinistro potente e il collo mi si
torse all'impatto, ma io sorrisi come un
pazzoide mentre tornavo a voltare il
viso verso di lui.
Era da matti ma ero talmente
arrabbiato da desiderare di provare un
po' di dolore. Volevo che quel figlio di
puttana opponesse resistenza prima di
stenderlo definitivamente.
«Chi cazzo sei tu e che problema
hai?» grugnì.
«Tu sei il mio problema!»
Avanzai di due passi e gli diedi
una ginocchiata nello stomaco tanto forte
da farlo piegare a metà e tossire. Lo
agguantai allora per i capelli unti,
spingendolo verso il basso mentre
alzavo il ginocchio. Il suo naso si ruppe
con un bel crack.
Gli risollevai la testa e lui mi
colpì allo stomaco. Bene… volevo una
lotta più che una rissa e la cosa si stava
facendo patetica.
Senza lasciargli i capelli, gli
diedi un pugno prima alla mandibola poi
sulla bocca. Sentii l'impatto coi denti e
gli feci un sorriso.
«Ti ricordi la ragazza che hai
aggredito
venerdì?»
domandai,
spiattellandogli per ben due volte il viso
sulla cucina economica della roulotte.
«Te la ricordi?» chiesi di nuovo
quando non ricevetti risposta. L'uomo
era troppo preso dall'inghiottire il suo
stesso sangue per parlare.
«Sì» sibilò producendo un fiotto
rosso dalle narici e dalla bocca.
«Se oggi ne esci vivo, se decido
di lasciarti respirare ancora, voglio che
ti ricordi una cosa: se la tocchi di
nuovo, muori. Capito?»
«Io-io-ok, amico. Ho capito.»
Pareva sincero ma sfortunatamente, il
ricordo del seno di Danika coperto dai
lividi procurati dall'enorme mano di
questo tizio mi tornò alla mente e ripresi
a picchiarlo.
Non tenni a mente il conto dei
colpi che seguirono, ma lui smise di
lottare molto prima che io terminassi di
suonargliele e l'unico motivo per cui lo
feci, fu che non uno ma due taser, mi
avevano fatto afflosciare a terra come un
palloncino sgonfio.
Le cose si fecero annebbiate,
venni ammanettato e seduto sul retro di
un Cruiser della polizia prima di
riprendermi.
«Non siete gentili, ragazzi» dissi
ai due poliziotti sul davanti, «I taser
fanno cagare.»
Uno di loro, un biondone
sovrappeso, mi guardò a occhi
spalancati ed io gli feci un sorriso.
Probabilmente stava pensando
che fossi uno senza tutte le rotelle a
posto: a petto nudo, coperto di sangue,
reduce da una rissa con tanto di scossa
elettrica, ridevo come uno scemo.
Anche io pensai di essere andato
fuori di testa.
«Quell'aggeggio ha fatto meno
danni di quanti tu ne abbia procurati
all'altro.»
«Non è colpa mia se l'unica cosa
che quello sa fare è picchiare le donne.
Probabilmente era la prima volta che
affrontava qualcuno della sua stazza.»
«Tu non sei della stazza di
nessuno, amico!»
Aveva ragione.
«Vuoi
raccontarmi
cos'è
successo? Perché stavi cercando di far
fuori quel tipo?»
Era passato alla modalità
poliziotto e il verbo uccidere mi rese
nervoso.
«Chiedi al mio avvocato»
replicai, sapendo che Jerry ci stava
seguendo.
«Il dannato maniaco ha un
avvocato» commentò il poliziotto
rivolgendosi al collega. Entrambi risero.
Non mi credevano ma presto avrebbero
cambiato idea: Jerry era bravo, valutava
sempre le prospettive. Detestava fare
l'avvocato ma quello non significava che
non sapesse il fatto suo.
Alla fine, trascorsi in cella meno
di quanto si sarebbe pensato. Il tizio
aveva picchiato di brutto la madre di
Danika prima che arrivassi e quello
complicava le cose. Avevo dato solo
una breve occhiata alla donna prima di
avventarmi su di lui. Mi era parsa un
groviglio di capelli scuri su un corpo
minuto, ma sembrava messa male.
Venne fuori che Jerry era migliore
come testimone quindi chiamò Bev in
veste di mio avvocato e fummo il più
sinceri possibile. Secondo lui, più
trasparente risultava il caso, meglio era.
Bev mi tirò fuori nel giro di
qualche ora senza che venisse sporta
denuncia. Secondo lei, le mie azioni
erano giustificate poiché avevo bloccato
un potenziale attacco che sarebbe stato
fatale per Marta, la madre di Danika. La
donna, come anche lui, era stata
ricoverata in ospedale, quindi c'erano le
ferite come prova. L'uomo, che scoprii
chiamarsi Bert McLeary, se la sarebbe
cavata. Il primo pensiero fu che non
picchiava come uno di nome Bert; il
secondo, che l'avevo scampata per un
pelo.
Bev mi spiegò che in teoria, le
sue tesi sarebbero state valide che
l'avessi ucciso o meno, ma un cadavere
complicava sempre tutto. Mi parlò con
un tono gelido, come se l'eventuale
morte del tizio non le avrebbe cambiato
di molto la vita e quello mi rese esitante.
Accolse il mio sguardo incerto con un
sorriso cupo.
«L'ho obbligata a mostrarmi i
lividi. Non penserai di essere l'unico
che ucciderebbe per lei. La fortuna di
quell'uomo è che sia stato tu a trovarlo
prima di me.»
Sembrava così seria e aveva un
tono talmente glaciale che le credetti e
mi feci l'appunto di non darle mai
fastidio.
L'unico momento in cui provai
rimorso per tutto, fu quando tornammo a
casa e Danika corse fuori per
accoglierci. Mi guardò poi nascose il
viso fra le mani iniziando a piangere e
quello mi fece sentire un vero bastardo.
La strinsi fra le braccia
consolandola mentre le accarezzavo i
capelli. Lungo la strada avevo comprato
una maglietta e lei appoggiò il viso sul
cotone bianco singhiozzando tanto da
farmi chiudere lo stomaco, prima di
riuscire a calmarsi abbastanza da
parlare.
«Sei ferito?»
Contrassi la mascella mentre le
stringevo i capelli. Mi imposi di
rilassare i muscoli delle dita e le
accarezzai delicatamente la testa.
«Assolutamente no. Quel bastardo mi ha
appena colpito.»
«Era così grosso, temevo che ti
facesse del male.»
Le pulsazioni mi aumentarono
nuovamente al ricordo di lei che veniva
in contatto con quello. Cercai di placare
il respiro e di calmarmi, accarezzando
fugacemente l'idea di trovare Bert
all'ospedale e finirlo una volta per tutte.
«Era grosso ma lento. Non un
granché come lottatore.»
Lei arretrò per guardarmi, gli
occhi orlati di rosso per il pianto. «Tu
non perdi mai, dove hai imparato a
combattere a quel modo?»
Arricciai le labbra mesto.
«Quando sei il più grosso in classe tutti
credono che il loro scopo nella vita sia
prenderti a calci in culo. Non puoi avere
la mia stazza e non sapere come
difenderti. E anche avere un brutto
carattere aiuta.»
«Suppongo che Bev abbia pagato
la tua cauzione.»
«In realtà non è stata sporta
alcuna denuncia.»
Presi
per
un attimo
in
considerazione come spiegarle la parte
più delicata: «Lui stava… picchiando
tua madre quando siamo arrivati. Lei
starà bene credo, ma non mi hanno
accusato di nulla perché ho interrotto
l'aggressione.»
La sua reazione alla notizia fu
tiepida, fatta solo di un impercettibile
irrigidimento dell'espressione.
«Potremmo andare a farle visita
in ospedale» proposi ma lei scosse la
testa all'istante e con decisione.
«No, va bene così. Il nostro
rapporto è… complicato. Non siamo
un'accoppiata azzeccata. Non sopporto
quella donna e sono conscia del fatto
che in un momento di debolezza, lei ne
approfitterebbe ed io finirei per fare
qualcosa di cui poi mi pentirei.»
Sapevo cosa voleva dire. Mia
madre aveva fatto lo stesso con me più
di una volta.
Le baciai teneramente la fronte
pensando che non avrei mai potuto
amarla di più.
«Credi sia una persona orribile?
Una stronza?»
Scossi la testa, inclinandomi
leggermente per baciarle la tempia.
«No. Tu hai incontrato mia madre,
sai bene che posso capirti.»
«Pensa che sia uguale a lei per
via di quello che mi sono lasciata fare
dal vecchio» mormorò come se stesse
facendo una confessione imbarazzante,
«Ma non è così. Ero solo una bambina e
non pensavo di avere altra scelta.»
Un proiettile in pieno petto non mi
avrebbe fatto altrettanto male quanto la
voce flebile che bisbigliava quella
frase. I miei occhi bruciarono mentre la
stringevo
a
me
sussurrandole
all'orecchio: «Certo che no, non devi
giustificarti ai miei occhi, tesoro.»
«Lo so, lo so. E so qual è la
verità, solo che è così difficile sentirla
mia. Questa storia è come sudiciume che
non riesco a lavarmi via.»
La sollevai tenendola accoccolata
contro di me.
«Non c'è un solo granello di quel
sudiciume in te, tesoro. Tu hai il cuore
più limpido che esista.»
La cosa parve placarla e rimase
in quello stato di tranquillità a lungo
prima di parlare nuovamente: «Abbiamo
dato un bello spettacolo di noi stessi nel
giardino.»
«Quanto pensi che m'interessi?»
Lei mi ricompensò con un
sorrisino che le illuminò gli occhi
argentei.
Dio, era bellissima. Perfetta.
«Promettimi che non lo farai mai
più. Mi spaventi quando diventi così,
non puoi uccidere un uomo perché mi
ritrovo con qualche livido, Tristan.»
La
baciai
per
distrarla
sfacciatamente da quei suoi pensieri.
Non ero davvero in grado di farle alcuna
promessa, specie quando le ecchimosi
erano ancora vivide.
«Non dovresti mai avere paura di
me, Danika.»
Ci sdraiammo sull'erba davanti a
casa di Bev, uno accanto all'altro
tenendoci per mano mentre io le
raccontavo per sommi capi del
ragazzino che ero stato: sempre troppo
grosso, troppo forte persino per il mio
stesso bene. Troppo disponibile a
combattere e sempre con troppi motivi
per farlo a prescindere dalla loro
futilità; con una madre che non riuscivo
a proteggere perché essa stessa non
voleva essere difesa dagli uomini che la
maltrattavano.
Condivisi quella parte di me; quel
pezzo di me che aveva soprattutto
bisogno di proteggerla più di ogni altra
cosa, perché non conoscendoci ancora,
quando era stato il momento non c'ero
stato. Non era una cosa logica ma
piuttosto un sentimento, un innegabile
senso di fallimento. Perché fallire, era
ciò che avevo sempre fatto quando si era
trattato di salvaguardare le persone che
amavo.
C'erano cose che avevo bisogno
di spiegarle sulla ragazzina che avrebbe
avuto bisogno di un angelo custode e non
lo aveva avuto; e di come non lo
sarebbe mai più stata perché ora aveva
me. Ed io prendevo seriamente quel mio
dovere.
Ecco perché davo di matto
quando gli uomini facevano tanto di
guardarla in modo ambiguo. Le spiegai
con estrema attenzione che non riuscivo
a regolare quella parte di me, nessun
corso di gestione della rabbia mi
avrebbe convinto che esageravo con la
protezione.
Quello parve darle pace e i suoi
occhi si chiusero mentre un sorriso
delicatissimo
le
trasformava
l'espressione. La sua mano si poggiò
serena sul mio cuore palpitante e quello
placò me: lei era la mia ragazza perfetta,
aveva bisogno del mio bisogno di
proteggerla.
Rimanemmo sdraiati su quel prato
come due ragazzini idioti per minuti,
forse ore.
Fu uno di quei momenti in cui il
tempo rallenta, le cose diventano chiare
e pezzi di passato vengono seppelliti.
Avevo imparato molto tempo prima che
gli attimi come quello erano pochi e rari
e mi sforzai di imprimerlo nella
memoria: le foglie che crepitavano sugli
alberi, il cielo quasi sgombro da nubi,
l'autunno perfetto che si rispecchiava
nella serenità estremamente fiduciosa
dipinta sul viso di lei, sdraiata con la
testa sulla mia spalla.
Più tardi, quando finalmente ci
alzammo, mi ricordai del biglietto che
avevo infilato nella tasca posteriore e
glielo porsi cauto. Era privo di parole,
c'era solo un numero di telefono.
Le
sue
sopracciglia
si
aggrottarono e i denti catturarono il
labbro.
«Il numero di Dahlia. Me l'ha
dato tua madre.»
Mi abbracciò tanto stretto che
persino la mia anima se ne accorse.
CAPITOLO OTTO
TRISTAN
Mi stavo infilando una maglietta
blu scuro quando mi bloccai a metà,
incredulo.
«Col cavolo che indosserai
quello» protestai sedendomi sul bordo
del letto per guardarla. Ero sia infuriato
che eccitato a quella vista.
Aveva un paio di micro shorts che
non erano adatti ad altro che alla camera
da letto e un micro top con la scritta
‘Fanculo’ sopra. Lasciava scoperto tutto
da qualche centimetro sopra l'ombelico
fino alla cassa toracica, coprendo a
malapena il seno. E sotto non aveva
nemmeno il reggiseno.
Rimasi a bocca spalancata con gli
occhi incollati proprio lì. Danika non
aveva un seno prosperoso ma stava in un
palmo ed era assolutamente perfetto,
morbido e malleabile. E un paio di tette
senza reggiseno si riconosceva sempre.
«Per nessun cazzo di motivo al
mondo!»
«Non posso mettere il reggiseno
dopo il tatuaggio e il micro top mi copre
abbastanza da non doverlo togliere
davanti alle telecamere. Frankie mi ha
detto esattamente cosa indossare, perciò
levati quell'aria da cavernicolo dalla
faccia» mi disse, raccogliendo i capelli
in uno chignon arruffato. Il top si sollevò
mostrando la curva inferiore del seno.
«Sei dannatamente sicura?»
Lei alzò gli occhi al cielo
facendomi infuriare del tutto, mentre
infilava le infradito.
«Secondo Frankie è importante
che stia comoda e sia vestita nel modo
adatto. Se non riesci a venirci a patti,
rimarrai a casa.»
«Sei
dannatamente
sicura?»
ripetei, «Ho preso una settimana per
questo e tu l'hai dovuto rimandare
perché potessi venire con te.»
«Allora comportati bene se vuoi
venire con me.»
Serrai la mascella per evitare di
continuare a litigare, contando fino a
dieci senza mai distogliere lo sguardo
dal top.
«Fanculo?» le domandai poi.
«Frankie dice che è perfetto per
la censura. Se mi s'induriscono i
capezzoli, non si vedrà perché la scritta
sarà sabbiata. È stata lei a prestarmi il
top.»
Sta scherzando, pensai. Era ovvio
che quella fosse una creazione di
Frankie.
Danika rimase in piedi davanti a
me, le mani sui quei fianchi così
deliziosamente sexy. Allungai le mie
stringendole entrambi i seni e chiusi gli
occhi, non riuscendo a trattenere un
mugolio.
«Siamo già in ritardo, Tristan e la
troupe ha delle tempistiche strette.»
Aprii gli occhi guardandola di
traverso. Le sollevai quel poco che
mancava per scoprirle il seno,
imprecando liberamente mentre mi
avvicinavo,
palpandoglielo
e
succhiandole un capezzolo fino a
inturgidirlo.
«Quando avrai finito, t'inchioderò
a quel lettino per scoparti fino a farti
impazzire.»
Lei sussultò e una delle mie mani
scivolò in basso, oltrepassando
l'elastico dei calzoncini per toccarla.
Mugugnai spostandoli e usai la parte
della gamba per infilarle dentro un dito.
«Se riesco ad avere accesso alla
tua fica così facilmente significa che
questi sono troppo corti.»
I suoi fianchi si contrassero
spasmodicamente, muovendosi sul mio
dito ed io ripresi a succhiarle in
contemporanea il capezzolo. Aspettai
che arrivasse al limite poi sfilai il dito
lentamente, in modo provocatorio.
«Siamo in ritardo, bubu, ricordi?
Tempistiche strette.»
Lei mi fulminò arretrando ed io le
feci un ghigno e l'occhiolino.
Riuscii a malapena a tenere gli
occhi sulla strada mentre andavamo allo
studio da Frankie. Ogni volta che Danika
si agitava sul sedile finivo per girarmi
verso di lei.
L'eccitazione la mandava su di
giri e ogni movimento del suo corpo
diventava una distrazione grazie a quella
che era l'ombra di un abbigliamento.
La palpeggiai con una mano
finché lei mugolò cercando di
respingermi.
«Smettila di provocarmi» si
lamentò, «Non voglio eccitarmi proprio
adesso. Passeranno ore prima che
possiamo fare qualcosa.»
«Beh, è un bel problema» replicai
con un sorriso obliquo, «Sai cos'è
questa roba che indossi? Una
provocazione.
Stai
ricevendo
esattamente quello che chiedi.»
Lei sollevò il top e la mia mano si
ritrovò improvvisamente sulla sua pelle
nuda.
Cazzo... la guardai: stava
ripiegando la cinta dei pantaloncini
verso il basso, rendendoli ancor più
minuscoli e lasciando i lacci lentissimi.
Mi afferrò la mano e la fece scivolare su
di sé, portandola contro il suo sesso e
spostandosi finché non riuscì a
penetrarsi con il mio dito medio.
La strappai via e mi rifiutai di
guardarla per il resto del viaggio. Come
sempre, aveva vinto la gara della
provocazione, in questo era una
campionessa imbattuta, io stesso avrei
dovuto saperlo.
Appena entrammo nel casinò la
avvolsi con il braccio da ragazzo
iperprotettivo quale ero, guardando in
modo truce ogni coglione che si
bloccava a fissarla.
«Ti inchiodo a quel cazzo di
lettino appena hai finito. E ti scopo fino
a che entrambi non avremo la lingua
lunga» mugugnai sottovoce, facendola
ridere. Pensare che non stavo
minimamente scherzando…
Danika cercò di abbracciare
Frankie appena entrammo nello studio di
tatuaggi, ma io mi misi in mezzo,
guardando quest'ultima in modo
tagliente.
«L'hai convinta a mettersi questa
roba, ma col cavolo che riuscirai a
toccarla mentre la tatui.»
Frankie rise e Danika mi diede un
pugno sulla spalla.
Rimasi in disparte a braccia
conserte mentre il produttore le faceva
una breve intervista chiedendole del suo
tatuaggio. Danika arrossì e ridacchiò
raccontando la sua storiella su come
avesse sempre amato i fiori di ciliegio.
Era adorabile e mi ritrovai a contare i
secondi che mi separavano dallo
scoparla di nuovo senza pietà.
Le vennero fatti molti primi piani
del punto in cui sarebbe andato il
disegno. Frankie teneva un quadratino di
carta circa 7x12 appoggiato sopra,
illustrando esattamente dove e come
intendeva procedere per replicare il
ramo di ciliegio. Sarebbe andato a
sinistra della colonna vertebrale e la
parte superiore sarebbe terminata
proprio all'inizio della scapola. Era
stupendo come sapevo sarebbe stato. Il
lavoro di Frankie era sempre eccellente.
Mi sistemai davanti a Danika,
tenendole le mani per ore mentre
Frankie lavorava ma desiderai picchiare
ogni membro della troupe praticamente
in ogni secondo. Fu una cosa lenta e
affascinante. Guardare Frankie all'opera
era un onore, ma osservare la stupenda
schiena di Danika diventare ancora
meglio con quell'intricato capolavoro,
era una vera e propria esperienza.
E ovviamente mi eccitò.
Danika sopportò bene il dolore.
Io mi ero accucciato per guardarla e
solo all'occasione i suoi occhi si
stringevano. Rimasero quasi sempre
aperti e pieni di fermento per il risultato
che avrebbe visto.
Le feci scivolare giù i capelli
accarezzandoglieli e nei momenti in cui
Frankie sollevava l'ago per una breve
pausa nella quale cambiava inchiostro o
ripuliva l'area, la baciavo.
Il risultato finale valse l'attesa e il
dolore. I rami scuri erano dettagliati in
modo minuzioso e terminavano con delle
graziose infiorescenze i cui colori
variavano, coprendo una miriade di
sfumature del rosa, del magenta e del
rosso acceso.
Era un tatuaggio femminile,
perfetto in ogni dettaglio proprio come
chi lo portava. Quando finalmente
Danika riuscì a vederlo, squittì dalla
gioia.
«Datele un po' di privacy mentre
si riveste» brontolai con la troupe e con
Frankie una volta terminato e lei fece
sgombrare il cubicolo, seguendoli a
ruota. Mi fece un sorriso rammaricato
prima di chiudere la porta dietro di sé:
«Sparo un po' di rock, così avrete un po'
di pace. Meglio che vi chiudiate a
chiave.»
Girai la chiave e tornai al lettino.
Poiché Danika era già stesa sullo
stomaco, tutto quello che mi rimase da
fare fu di piegarla con i fianchi sul
bordo e i piedi quasi in terra.
«Sistemati sui gomiti» le dissi
abbassandole gli short.
«Non posso credere che lo stai
facendo»
commentò
ansante,
sollevandosi
a
sufficienza
per
permettermi l'accesso al suo seno.
«Non si può certo dire che non ti
avessi avvisato.»
«Frankie sa perfettamente cosa
stiamo per fare.»
Senza dubbio, pensai, ma: «Naa»
dissi, «Avevi solo bisogno di un
momento per sistemarti i vestiti.»
«Non è che ne abbia molti.»
«È quello il problema, no?»
Le feci scivolare le mani sulla
cassa toracica, accogliendo i seni fra i
palmi sotto a quel pezzetto di stoffa
minuscolo poi la penetrai senza
fermarmi finché i miei fianchi sbatterono
contro i suoi lombi. Lei gridò,
afferrando i bordi imbottiti del lettino.
«Adesso lo sa senz'ombra di
dubbio» dissi stridulo mentre mi sfilavo
lentamente. Le lasciai i seni,
scostandomi per guardare il mio uccello
che scivolava fuori dalla sua fessura
umida; imprecando quando mi strinse
forte e lodandola mentre tornavo a
spingermi dentro, con una forza tale da
far gridare nuovamente lei e frastornare
entrambi. Allora mi piegai in avanti e le
chiesi se le avessi fatto del male.
«No. Ancora Tristan, ancora. Più
veloce, ti prego. Ti prego.»
Chiusi gli occhi. Il suono così
dolce della sua voce mi pregava di darle
tutto ciò che potevo ed io mantenni la
mia parola: la bloccai contro il lettino
scopandola fino a farla impazzire.
Venni impetuosamente, le gambe
quasi mi cedettero e gridai il suo nome a
voce alta quanto la sua.
«Ti piace questa angolazione,
eh?»
Lei
mugugnò
qualcosa
di
affermativo, appoggiando la guancia al
lettino. Sembrava prossima a crollare.
Ripulii entrambi con le salviette
di carta che trovai nel bagno annesso al
cubicolo, infilandole nuovamente i
pantaloncini.
Dovetti letteralmente tirarla su e
sistemarla seduta per farla stare dritta e
anche così, lei si appoggiò in avanti
contro di me, la testa sulla mia spalla.
Ricominciai a palpeggiarla, totalmente
incapace di tenere giù le mani dal suo
seno libero.
«Ricorda che se deciderai di
indossare nuovamente qualcosa del
genere, questo sarà ciò che succederà.
Non riuscirai a farci nulla perché io non
sarò in grado di smettere di toccarti per
più di qualche secondo.»
«Mi serve un pisolino» disse lei
già mezza addormentata.
«E a me serve stare dentro di te,
ancora» replicai al suo orecchio mentre
mi davo da fare per abbassarle gli short
sotto i fianchi. Il toccarla mi si era
velocemente rivoltato contro e il mio
cazzo senza cervello se l'era legata al
dito.
Questa volta la scopai da seduta,
lasciando che si appoggiasse alle mani e
con la schiena inclinata all'indietro, per
poter guardare quei suoi seni rotondi che
rimbalzavano ad ogni stoccata. Il top era
alzato fin sotto al suo collo.
Frankie bussò rumorosamente alla
porta suggerendoci di darci una mossa.
Le gridai dietro di andare a farsi fottere,
continuando a pompare dentro Danika,
imprecando
e
vezzeggiando,
letteralmente ipnotizzato dal suo seno
nudo. C'era qualcosa in quelle sue spalle
coperte mentre il resto era nudo, che mi
trasformava in un vero maniaco
sessuale.
A pensarci bene, tutto di lei mi
trasformava in un maniaco sessuale.
Questa volta gemette in modo
quasi
indolente
quando
venne,
stringendomi come una morsa per lunghi
momenti torturanti. Gridai e venni a mia
volta sistemandola sui gomiti, tenendole
le gambe spalancate e alzandole i talloni
sul lettino prima di riprendere a
pomparla con forza. Ancora e ancora.
Lei era così scivolosa, così piena
di me che io gemetti e inveii
scopandomela come un animale finché
non mi sentii quasi cadere.
Mi piegai in avanti sui miei stessi
gomiti
mentre
mi
contorcevo
esplodendole dentro, il viso nascosto
contro il suo collo. Se fossimo svenuti
sul lettino di Frankie per qualche ora, se
ne sarebbe accorto qualcuno?
«Meglio che puliate tutto, razza di
maniaci perennemente in calore» gridò
Frankie dall'altra parte della porta.
Qualcuno sapeva da quanto eravamo lì?
Io no di certo.
«Ho messo delle salviette alla
candeggina
vicino
alla
porta,
piccioncini» aggiunse sempre gridando,
cinque minuti dopo.
Sbattei gli occhi domandandomi
se mi fossi addormentato, poi guardai
Danika cercando di capire se anche lei
stesse dormendo. Stava ancora cercando
di tenersi sui gomiti, sollevata
abbastanza da non appoggiarsi sul
tatuaggio fresco.
«Spero non pensi che le useremo
per ripulirci» borbottai, cercando di
trovare la forza per stare dritto.
«Penso che siano per il lettino che
abbiamo appena profanato» mormorò
Danika, gli occhi ancora chiusi.
«E il pavimento! E le pareti! E
qualsiasi altra cosa abbiate toccato lì
dentro» gridò Frankie.
«Che ne dici di rendere questi
muri un po' più spessi, Miss
Ficcanaso?» la rimbeccò Danika col
viso ancora talmente rilassato da
sembrare assopita.
Non riuscii a trattenermi e risi.
Anche quasi priva di conoscenza,
riusciva a essere insolente.
CAPITOLO NOVE
DANIKA
Emisi un sospiro frustrato
all'ennesimo passo sbagliato.
Presto, il mio ballerino, come
sempre non se la prese. Avevo lavorato
con partner di maggior esperienza ma
preferivo comunque quelli con un'indole
positiva e lui non aveva mai giornate no.
«Facciamo basta?» mi domandò
con un sorriso e una strizzatina alle dita.
Lui sì che mi conosceva: non
avevo mai decretato la fine di una
sessione, anzi, insistevo per continuare
finché i passi non ci venivano alla
perfezione.
Il nostro maestro attraversò la
sala, prese atto della decisione poi girò
i tacchi e andò dritto allo stereo. Sorrisi
quando Family Affair di Mary J. Blige
riempì la stanza, era impossibile non
ballare sulle note di quella canzone o
continuare a essere di cattivo umore.
Anthony, il nostro maestro di
ballo, aveva almeno una quarantina
d'anni e quel fascino da persona più
matura con i capelli sale e pepe, una
costituzione snella ma muscolosa, occhi
grigio acciaio e un forte accento
italiano. Era anche una persona gentile,
il che era sempre un successo con me.
Mi separai da Preston rilassando
la posizione e iniziai a ballare, non il
tango ma un buon vecchio ritmo libero.
Anthony si avvicinò ma non
troppo, muovendo le spalle e dimenando
i fianchi. Nessun italiano si era mai
mosso così bene al ritmo di Mary J
Blige. Quell'uomo aveva ritmo. Le
nostre lezioni di ballo finivano sempre
con un pezzo come questo perciò sapevo
che per quella sera eravamo a posto,
eppure non avrei mai voluto smettere
perché amavo ballare e lo facevo con
persone spontanee.
Tristan era nuovamente fuori città
perciò uscii a cena e a bere con un
gruppo di ballerini. Come sempre
accadeva, Preston finì per sedersi
accanto a me. Sapevo, e la cosa mi
metteva a disagio, di piacergli più che
come amica. Lui non avrebbe potuto
essere più lontano dai miei gusti, però
ed io ero monogama. Se anche fossi
stata single, non sarei uscita con lui. Era
un bel ragazzo con capelli castano
chiaro e occhi nocciola. Era atletico e
alto quasi un metro e ottanta.
Avevo sviluppato un gusto molto
marcato per gli uomini grandi, in grado
di sopraffarmi e con bicipiti grossi come
tronchi… Tristan era stata la mia rovina.
Il gruppo rimase compatto e
andammo avanti a chiacchierare per ore.
Bevvi moderatamente, come sempre
dalla morte di Jared. Quell'evento mi
era servito come una sveglia, dato che
non ero immune alle insidie del vizio: la
dipendenza era ereditaria ed io l'avevo
nel sangue, quindi dovevo stare più che
attenta ad evitarne le trappole.
Eravamo in un bar dall'altra parte
del campus, che aveva una pista da
ballo. Dato che eravamo in otto e tutti
ballerini, ovviamente ci mettemmo a
ballare e fu divertente. Era bello uscire
con gente nuova, volti diversi con
sorrisi spensierati.
A un certo punto, mi ritrovai a
messaggiare con Frankie, invitandola a
unirsi a noi.
Frankie: In un bar del college?
Hai una vaga idea della mia età?
Veramente no, non la sapevo.
Danika: No, quanti anni hai?
Frankie: 27
Danika: Non sei mica vecchia!
Frankie: Abbastanza per un bar
di universitari.
Danika: Ma è divertente, dai!
Frankie: Per quanto rimani?
Danika: Non lo so, dipende se ci
raggiungi.
Frankie: Ok, sarò lì fra
mezz'ora, ma se vedo le ragazze di
qualche associazione studentesca me
la filo.
Stavo ballando con Preston
quando la vidi in mezzo agli avventori al
bar. Feci uno strillo e corsi da lei, che
mi sorrise vedendomi. Ci abbracciamo
ma lei continuava a guardare oltre la mia
spalla. Verso Preston, pensai e il mio
sospetto fu subito confermato.
«Chi è quel tipo?» mi domandò
Frankie indicandolo.
Dato che avevo ballato con lui,
sapevo a chi faceva riferimento ma
seguii comunque il suo dito.
«Preston, è il mio partner di
ballo. Un ragazzo carinissimo.»
«E quindi sei… uscita con lui?»
Socchiusi gli occhi a quel suo
tono ammonitore. «Sono uscita anche
con altri sette ballerini. Siamo un
gruppo.»
«Ma stavi ballando con lui.»
«È il mio ballerino, non mi
sembra qualcosa di così anomalo»
affermai, ritrovandomi sulla difensiva.
«Come pensi che si sentirebbe
Tristan al riguardo?» mi chiese lei con
un tono piatto che faceva da
contrappunto all'arco disegnato dalle sue
sopracciglia.
«Tristan dà di matto quando
parliamo di me e altri ragazzi. Credi che
dovrei assecondare quella pazzia?»
Lei mi lanciò una di quelle
occhiate che avrebbe dovuto essere
appannaggio
delle
madri
che
disapprovano.
«Come ti sentiresti se scoprissi
che lui va per locali con la band e balla
con altre donne mentre è a L.A.? Ti
starebbe bene?»
Ci riflettei sopra un momento
finché compresi… lo avrei detestato.
Davvero
tanto.
Sì,
mi
stavo
comportando in modo sconsiderato in
questo caso, ma a quanto pareva avevo
avuto un bravo maestro.
«Ma è il mio partner di ballo,
dobbiamo esercitarci. Non posso lasciar
perdere il ballo per Tristan, non sarebbe
una cosa normale.»
«D'accordo, ma che ne dici di
limitarti a farlo solo allo studio? Mi
sembra diverso rispetto al giocare a
Dirty Dancing in un locale!»
«Come so che Tristan non esce e
balla con le altre? Potrebbe anche fare
di peggio ogni sera, non ho alcuna prova
che sia o meno così.»
«Lo sai perché te lo sto dicendo
io: lui si comporta bene nei tuoi
confronti, non te lo farebbe mai. È
davvero molto, molto attento a non
oltrepassare il limite perciò portagli lo
stesso rispetto.»
Aveva ragione e mi sentii
improvvisamente uno schifo.
«Non stavo giocando a Dirty
Dancing e questo non è un club»
sottolineai.
Lei mi squadrò dall'alto in basso
soffermandosi decisa sulla mia pancia
nuda. «Dimenare i fianchi vestita così lo
rende tale. Fine della storia.»
Indicai la sua micro maglietta.
«Non
osare
criticare
il
mio
abbigliamento, tu metti in mostra più
pelle di quanta ne tieni coperta.»
«Sì, ma io sono single. C'è un
abisso di differenza.»
«Sei davvero una guastafeste
questa sera, sai?»
«Sì, lo so. Prova a darmi torto.»
Arricciai le labbra, guardandomi
in giro alla ricerca degli altri ballerini.
Ce n'era una in particolare che pensavo
le sarebbe potuta piacere.
«A proposito del tuo essere
single…»
«Oh, diavolo, no cara! Non lo sai
come funziona con me!»
«È una ballerina sexy e a quanto
pare anche lesbica.»
«Credi davvero che le cose
vadano così? Lei è lesbica, io anche
perciò è ovvio che andremo d'accordo?»
Alzai gli occhi al cielo ma risi
perché anche lei lo stava facendo. A
Frankie piaceva darmi fastidio.
«Pensavo più a: tu sei sexy, lei è
sexy ed entrambe siete gay. Diciamo che
ci va più vicino.»
«Dimentichi un dettaglio: io non
mi faccio più le donne tranquille.»
Già, quello me l'ero dimenticato:
«Beh, chi lo sa, magari lei non lo è
affatto.»
«Credimi ragazza, conosco ogni
lesbica sottomessa in città: se quella non
fosse vaniglia, ci saremmo già
incontrate.»
«Ma dai… è davvero carina.»
«Anche tu lo sei ma siamo tanto
compatibili quanto lo sono io con la
suddetta pratica.»
«Questo è vero» le concessi. Alla
fine rinunciai, in veste di Cupido ero una
vera frana. Tuttavia, meno di dieci
minuti dopo, Frankie conobbe la ragazza
della quale le avevo parlato, Estella.
L'ironia della cosa stava nel fatto
che quest'ultima era chiaramente presa
da lei, tanto da amoreggiarci
impunemente fin da subito.
Estella era una brasiliana piccola
e ben proporzionata, con lunghi e folti
capelli castani ondulati. Era più bassa di
qualche centimetro di Frankie e aveva
una personalità socievole e impetuosa.
Inoltre, le piaceva indossare pochi
vestiti, altro tratto in comune con
Frankie, la quale però non sembrava
volerne sapere. Era gentile con lei ma
niente più.
«Spiegare le mie preferenze è
difficile» mi rivelò Frankie una volta
che l'altra aveva finalmente smesso di
provarci con lei, «Estella mi attrae, è
decisamente scopabile ma non è questo
il punto. Non potrei mai essere me
stessa con lei ed io non mi accontento di
niente di meno.»
«Come potrai mai trovare
qualcuna? Già è difficile rimediare
gente decente con cui uscire, se ci
aggiungi anche questo…»
«Non è facile, affatto. Ma ti dico
una cosa: di sicuro non troverò qualcuno
in un bar universitario. Preferisco la
castità al sesso normale adesso. Non mi
fa provare più nulla…»
«Allora l'hai praticato?»
«Con scarso successo e non più
da quando ho capito come stavano le
cose. Una scelta come la mia è
un'incognita da una parte, ma se la
pratichi bene, Dio… non c'è niente di
meglio. Il sesso normale non potrebbe
mai reggere il confronto, mi eccita come
un gioco in scatola.»
«Quanto è passato da quando…
insomma, hai avuto qualcuna?»
«Ho lasciato la mia ultima
sottomessa più di un anno fa. Come ho
detto, non è facile trovare qualcuna che
sia compatibile con me.»
Mi sentii una rompiscatole a farle
tutte quelle domande, specie perché
all'improvviso lei sembrava essersi
intristita.
«Non sono affari miei, sono
un'impicciona, scusami.»
«No, tu sei mia amica ed io sono
molto aperta con gli amici. Voglio che tu
mi conosca e la mia sessualità è una
parte importante di me. È abbastanza
insolita da essere uno degli elementi che
mi definisce e ci sono venuta a patti.
Senza contare che gli appuntamenti sono
un problema per tutti… sono tutt'altro
che l'unica in questo campo!»
«Oh, sì.»
Estella tornò con due Martini e un
sorriso rivolto a Frankie. Credevo che
avesse colto il suggerimento ma era
chiaro che mi sbagliassi.
«Adoro i tatuaggi» le disse,
porgendole uno dei drink.
«Oh,
davvero?»
replicò
educatamente Frankie bevendo un
goccio, «Io gestisco uno studio di
tatuaggi. Se avessi voglia di fartene uno
dovresti venire da me.»
Estella sbatté le ciglia affascinata.
«Stavo parlando di quelli che hai
tu, non avevo capito che fossi un'artista.
Mi piacerebbe fare un salto per vedere i
vari tipi. Dove sei? Io sono nuova in
città e non so… come si dice, le
conoscenze?»
Frankie pareva sempre più presa
da ogni parola dell'altra. Estella aveva
un accento molto sexy.
«Non hai bisogno di conoscenze
per farti un tatuaggio.»
Estella ridacchiò e il modo in cui
Frankie le sorrise mi diede una piccola
speranza.
«Volevo dire direzioni, non
conoscenze» e ridacchiò ancora. Era
davvero adorabile.
Si accostò a Frankie toccandole
un braccio, era chiaramente interessata e
non cercava nemmeno di nasconderlo.
«Mi piacerebbe farti da tela.
Penso che il tatuaggio sia un'arte.»
Non sarebbe riuscita a dire una
frase da rimorchio migliore nemmeno se
fosse stata sua conoscente di lunga data.
«È il mio motto. L'ho scritto
anche sui bigliettini» Frankie allungò la
mano alla tasca e ne trasse uno,
«L'indirizzo è scritto qui ma il negozio è
al piano superiore del centro
commerciale
presso
il
casinò
Cavendish. Non puoi sbagliarti.»
Estella gongolò eccitata e notai lo
sguardo di Frankie posarsi direttamente
sul suo seno prosperoso.
«La proprietà Cavendish? Deve
essere fantastico avere un'attività lì! Il
casinò è stupendo.»
«Guardi molta televisione?» le
domandò Frankie.
«Televisione? Una volta sì, mi
aiutava con l'inglese ma adesso non ho
più tempo.»
Frankie parve sollevata e non
fece menzione del suo reality. Non la
biasimai: considerato chi era, doveva
essere difficile evitare di attirare la
gente sbagliata.
«Quanto ti devo per il drink?» le
chiese ma Estella fece un gesto con la
mano, sorridendole in modo amichevole.
«Offro io. A meno che
ovviamente tu non voglia baciarmi. Non
rifiuto mai un bacio da una bella donna.»
La bocca di Frankie s'increspò in
una smorfia. «Non offro baci in cambio
di drink.»
«Allora è gratis. Adesso mi
baci?»
Frankie scosse la testa. Non
l'avevo mai vista tanto a disagio.
«Non funziona così con me. Non
fraintendermi: tu sei bellissima ma io
non ho delle avventure facili.»
«Chi ha detto che è facile? Io ti
voglio e non vedo perché dovrei
nasconderlo, ma questo non lo rende
certo semplice.»
Frankie le afferrò il polso,
attirando il corpo di Estella contro il
suo. Dato che erano quasi della stessa
altezza, si ritrovarono perfettamente
allineate.
Erano
una
visione
straordinaria, due bellissime donne che
si abbracciavano e che sembravano
pronte a baciarsi e sapevo di non essere
l'unica nel locale che le stava fissando.
Ma Frankie non la baciò, posando
invece le labbra sul suo orecchio. Ciò
che le disse potei solo immaginarmelo,
ma l'altra non si allontanò certo
scioccata. Al contrario, la sua bocca si
spalancò e lo sguardo si appannò. Avrei
scommesso che si fosse eccitata.
Passarono alcuni affascinanti
minuti prima che Frankie si scostasse
continuando a guardarla negli occhi,
prima di prenderla per i capelli castani
e unire le loro bocche in uno dei baci
più sensuali che avessi mai visto prima.
Quando finalmente Frankie si
staccò, le sorrise. Qualcosa in quel
gesto, nella sua espressione era
cambiato, portandomi a credere che
avesse preso il controllo delle
dinamiche, trasformandosi da preda a
predatrice.
«Questo è l'unico bacio gratis che
avrai da me, Estella. Gli altri dovrai
guadagnarteli. Il mio numero è sul
biglietto se vuoi parlarne.»
Frankie le voltò le spalle,
ovviamente sicura che la questione fosse
risolta, ma Estella la prese per un
braccio prima ancora che riuscisse a
fare un passo.
«Aspetta! Va bene. Voglio
parlarne. Vorrei… fare quello che hai
menzionato.»
Frankie
deglutì
a
fatica,
nuovamente a disagio. «L'hai già
provato prima d'ora?»
Lei fece cenno di no. «Ci ho
pensato. Ci ho fantasticato sopra.»
Si guardò attorno mentre lo
ammetteva, come se temesse di essere
udita anche dagli altri. Di certo non le
avrei detto che metà del bar era in
ascolto.
Dire che Frankie sembrava
intrigata, sarebbe stato minimizzare.
«Davvero?»
domandò
dolcemente, «Potrei riuscire a farci
qualcosa allora. Chiamami domani se
questa notte non cambi idea.»
Estella non mollò la presa. Non
aveva ancora finito. «Non riuscirò
affatto a dormire. Voglio passare la notte
con te, non voglio aspettare.»
«Non dovrebbe essere una
decisione presa in fretta. Meglio
prenderti un po' di tempo e pensarci.»
«Ti prego, so quello che voglio.
Almeno credi a questo.»
E così mi ritrovai a guidare verso
casa di Frankie con due lesbiche nel
sedile posteriore del mio macinino.
Frankie aveva detto di essere arrivata in
taxi, Estella assieme agli altri e non
volevo che aspettassero di trovarne uno
libero. Non mi pesava fare da chauffeur,
ero eccitata e per niente turbata dal fatto
che Frankie avesse trovato qualcuno di
compatibile.
La maglietta di qualcuno,
immaginai di Estella considerato il buio,
atterrò sul sedile anteriore.
«Wow» commentai sottovoce.
«Dio, le sue tette sono vere»
affermò Frankie ad alta voce.
Stava parlando con me?
«Ah sì?» risposi nell'unico modo
che mi sembrava appropriato.
«Sì. Cazzo: amo le tette naturali,
sono così rare a Las Vegas!»
«Beh,
forte»
commentai,
pensando che quello era il passaggio più
strano che avessi mai dato.
«Posso toccarti?» le domandò
Estella.
«Se sarai davvero, davvero
brava, ti dirò quando ti sarai guadagnata
questo diritto, non prima. Fosse anche
tenersi per mano, sarò io a fare tutto. Ti
sta bene oppure è troppo per te?»
La replica pronta e decisa di
Estella mi fece sorridere: volevo che
funzionasse fra loro.
«La risposta giusta termina
sempre con Mistress Abelli.»
All'improvviso mi sentivo una
guardona… era bastato quel poco a
farmi provare la sensazione di
intrufolarmi nell'altro lato di Frankie.
«Sì, Mistress Abelli» replicò
Estella sottovoce.
«Voilà» commentai fra me e me.
Sapevo che Frankie ci andava giù
pesante, ma accidenti a me… quella
roba riusciva a essere intrigante.
Tristan parve altrettanto contento
di quella potenziale partner per Frankie
quando lo informai prima di dormire.
I rumori in sottofondo non mi
piacevano, sembrava che si trovasse in
una stanza piccola in mezzo a migliaia di
donne che ridevano.
«Dove sei?» gli chiesi. Mi
sembrava tanto una festa o un locale.
«Alla festa dei discografici»
dalla voce parve distratto.
«Beh, allora ti lascio, mi sembri
occupato. Magari possiamo risentirci
domani.»
«Ottimo. A domani allora.»
«Okay.»
Riattaccai. Mi sentivo triste e
tesa, improvvisamente molestata da
un'ondata d'infelicità. Eccoci, separati
per la maggior parte del tempo ed io non
potevo nemmeno uscire e ballare senza
preoccuparmi di quel che lui avrebbe
pensato. Nel frattempo, lui era chissà
dove a fare baldoria. La vera fiducia era
qualcosa di sfuggente per me, specie
considerate le mie precedenti esperienze
con gli uomini e quelle di Tristan col
sesso. Lui avrebbe potuto fare qualsiasi
cosa volesse ed io non lo avrei mai
saputo.
In quel momento avvertii la
distanza non tanto in termini di miglia,
quanto d'intimità. Cos'era che ci teneva
insieme? Non vivevamo neppure nella
stessa città e all'apparenza lui non
sembrava aver più bisogno di me.
Mi girai tutta la notte senza
tregua, torturata dal pensiero che forse
non lo avrei mai conosciuto veramente.
CAPITOLO DIECI
TRISTAN
Riattaccai, guardando storto Dean
che dall'altra parte della stanza rideva
abbracciato a una tipa mai vista prima.
Condividevamo
una
casetta
vicino agli studi di registrazione, non
era l'ideale poiché non avevamo
nemmeno una stanza per ciascuno e il
soggiorno era talmente piccolo da
rivelarsi inutile.
Invece di darci i fine settimana
liberi come promesso, ce ne facevano
lavorare la metà, tanto che ormai
sembrava vivessimo qui e non a Las
Vegas.
Mi stavo logorando a dir poco e
cosa ben peggiore, il disco si bloccava a
ogni sessione. Dean era in modalità
auto-distruzione e sbrodolando stronzate
sulle sue differenze creative rispetto a
Kenny, rallentava un processo già fiacco
di suo. Differenze creative un cazzo!
Avrei voluto picchiarlo: lui non faceva
nulla per quel lato della band e trovare
da dire con Kenny senza uno straccio di
motivo, era troppo anche per me.
Buttai giù un sorso direttamente
dalla bottiglia di Jack Daniel's,
continuando a guardarlo con rabbia. La
ciliegina sulla torta delle sue stronzate
era che si era presentato a casa con un
pulmino pieno di groupie ed io avevo
finito per mentire a Danika sul casino.
Cory era uscito con il nuovo
chitarrista e Kenny si era rintanato in
camera sua. Sveglio l'amico. Anche io
avrei fatto altrettanto, ma dopo quella
groupie nuda che mi era saltata addosso
nel sonno su idea di Dean, non mi fidavo
più di lui e certamente di nessuna di
queste strane femmine che ci avevano
invaso casa.
Che cazzo di casino, pensai
bevendo ancora.
Dean notò la mia occhiataccia e
mi sorrise come se quello avesse reso
completa la sua giornata.
«Che c'è amico? Perché hai
quell'aria nera? C'è così tanta figa qui in
giro!»
«Sai cosa c'è» brontolai coi pugni
serrati, «Niente groupie in casa, sono le
regole.»
Le ragazze, che non volevano
ammettere quel loro status, protestarono
ma me ne fregai. Groupie erano e
groupie rimanevano.
Feci una panoramica su di loro:
«Fuori» gridai maleducatamente. La mia
pazienza era esaurita.
Qualcuna iniziò a muoversi
borbottando ‘testa di cazzo’ e ‘coglione’
mentre usciva; qualcuna invece rimase lì
dov'era, provocando la risata intensa di
Dean.
«Che hai intenzione di fare,
amico, portarle fuori tutte a braccio?»
«O io o loro e se esco da quella
porta non tornerò più. Puoi fare questa
cosa da solo, ma non me ne frega più un
cazzo di niente. Non ho firmato da
nessuna parte.»
Finalmente quello gli diede la
sveglia e si mise a far uscire il resto
delle ragazze rimanendo di pessimo
umore. Non stavo bluffando, nemmeno
un po' e lui lo sapeva.
La mattina dopo mi alzai col dopo
sbronza e incazzato nero. Mi vestii
scuotendo Kenny per svegliarlo. Lui
sobbalzò quasi cadendo dal lettino
singolo sistemato nel suo lato della
stanza.
Era
l'unico
del
quale
m'importasse dato che condividevamo la
camera.
«Me ne vado, torno a casa per
qualche giorno. Non ne posso più di
questa stronzata di lavorare fino a metà
week-end. Ho una ragazza che mi
aspetta.»
Kenny non provò nemmeno a
fermarmi. Era bravo a leggere le
persone e capiva quando dicevano sul
serio.
«Lo dirò al produttore. Chiamami
quando decidi di tornare.»
«Lo farò.»
Telefonai a Danika una volta
prima di partire ma non mi rispose, cosa
per lei piuttosto normale. Lasciava
sempre il telefono in giro, spesso con la
suoneria muta per via delle lezioni
perciò optai per mandarle un messaggio
conciso:
Tristan: Torno a casa, cerca di
liberarti per il pomeriggio. Vorrei
portarti fuori.
Stavo facendo benzina a Barstow
quando finalmente rispose.
Danika: Bello… mi sei mancato
tanto. Jerry dice che penserà lui ai
bambini quando arriverai. Cosa devo
mettermi?
Ridacchiai, felice per la prima
volta da quando l'avevo salutata
settimane prima.
Tristan: Il bikini più striminzito
che hai. Anche il filo interdentale va
bene.
Danika:
LOL.
Sei
pervertito… Davvero il bikini?
un
Tristan: Sì. Frankie ci ha
riservato una capanna a bordo piscina
al Cavendish per il pomeriggio.
Danika: Wow.
Quando accostai davanti a casa di
Bev, era già pronta e in attesa. Indossava
un minuscolo bikini color bronzo, il mio
preferito, con sopra una tunica
trasparente che in pratica non riusciva a
coprire niente. Il tutto completato da
sandali a tacco alto color argento che
facevano pendant con le tante collane e
braccialetti che l'adornavano; occhiali
da sole dorati e orecchini a cerchio
enormi. I capelli erano lisci e lunghi,
sciolti sulla schiena.
Mi venne duro come un macigno
prima ancora che avesse fatto due passi
per uscire.
Le andai incontro a metà strada,
stringendola per un breve bacio. Non
potevo certo farmela sul prato davanti
casa o avrei non solo perso la testa, ma
anche traumatizzato i figli dei vicini.
Presi la piccola borsa che aveva
con sé e l'accompagnai alla macchina,
aiutandola a salire.
«Dove sono i tuoi pantaloncini da
mare?» mi domandò mentre tornavo al
mio posto.
«Ho una borsa dietro, mi
cambierò quando arriviamo in piscina.
Sono venuto direttamente qui.»
«Pensavo avresti nuovamente
lavorato durante il fine settimana. Come
hai fatto a prenderti dei giorni?»
«Li ho presi. Me ne sono andato e
basta. Mi sono stufato di quella roba,
possono licenziarmi se a loro non va,
non ho firmato per trasferirmi là.»
Lei mi accarezzò il braccio
durante il tragitto mentre io tenni le mani
a posto. Era passato troppo tempo per
me e il mio autocontrollo era appeso a
un filo. Ero talmente eccitato da sentirmi
quasi violento.
Le capanne erano sistemate quasi
sopra alla piscina, su delle piattaforme
ai lati di una passerella che arrivava
fino al centro della vasca principale.
Erano progettate come tende con quattro
lati, uno dei quali aperto sull'acqua e
potevano ospitare circa quattro persone.
Dozzine di cuscini sparsi ovunque
creavano una sorta di enorme letto.
Era un autunno caldo per Las
Vegas, la giornata perfetta per stare in
piscina. Mi cambiai indossando i miei
calzoncini da mare e un paio di occhiali
da sole. I miei movimenti erano resi
goffi dalla fretta. Poiché Danika era
arrivata già pronta, mi stava aspettando.
La musica era sparata a tutto volume:
eravamo nel pieno della giornata ma le
feste a Vegas iniziavano presto e non
finivano mai.
Danika stava muovendo i fianchi
schioccando le dita al ritmo incalzante,
le labbra mimavano le parole della
canzone e gli occhi guardavano l'acqua.
Per lei era impossibile stare ferma
quando c'era di mezzo della musica.
Tanto adorabile quanto sexy...
La presi per la vita mentre ci
portavano alla nostra capanna. La sua
bocca si spalancò sorpresa quando vide
l'opulenta disposizione. Solo quella sua
reazione aveva fatto giustizia a tutto…
per riuscire a organizzare quella cosa
avevo dovuto fare almeno una dozzina di
telefonate.
Il nostro cameriere ci venne
incontro con due Daiquiri gelati già
pronti, ordinati ore prima.
Durai forse cinque minuti prima
di alzarmi e chiudere la tenda.
«Puoi farlo?» mi domandò
Danika.
Io mi voltai e le sorrisi: era
sdraiata sui cuscini vestita solo di
triangolini e stringhe ed era tanto
appetitosa che me la sarei mangiata tutta.
E scopata fino a svenire.
«Mi piacerebbe proprio vedere
come potrebbero impedirmelo!»
Mi sdraiai accanto a lei con una
mano sulla sua pancia e ne sentii i
muscoli vibrare. Il mio pene reagì in
conseguenza. Le accarezzai la pelle
morbida sotto all'ombelico, muovendo
pigramente un dito fino ai lacci stretti
dal nodo. Prima ancora che se ne
rendesse conto, le avevo slegato il pezzo
inferiore del costume. Le sue mani
corsero a coprirsi il sesso, sfiorandosi
inavvertitamente e per poco non venni al
solo guardarla. La mia mano coprì la sua
ma riuscii a malapena a trattenermi.
«Hai cominciato, non fermarti
adesso. Toccati e spalanca le gambe.
Voglio guardarti.»
«Il cameriere potrebbe entrare da
un momento all'altro.»
«Allora
dovresti
sbrigarti.»
Mentre parlavo spostai la mano al suo
collo. I laccetti erano legati bene ma
avevo una lunga esperienza nello
sciogliere nodi ben più complicati di
quello e dopo un paio di mosse, lei
rimase in topless.
«Tristan! Cosa stai facendo?»
Il suo tono oltraggiato non fece
altro che eccitarmi ancora di più…
amavo quando diventava così perbene,
avrebbe invocato il mio nome in modo
molto più soddisfacente dopo.
«Cosa ti sembra che stia
facendo?»
«Vuoi fare sesso in pubblico?»
Non mi presi il disturbo di
specificare che non sarebbe stata la
prima volta. Invece, la accarezzai con un
dito, suggerendo alle sue stesse mani di
esplorarsi. Non riuscivo a togliere gli
occhi da quello spettacolo, aveva la fica
più carina del pianeta.
«Sei una piccola esibizionista» la
provocai, «Completamente nuda in
pubblico e ti piace. Non c'è altro che un
sottile strato di tessuto fra noi e quella
gente chiassosa là fuori e tu sei
completamente fradicia.» Passai il
polpastrello al centro della sua umidità
per sottolineare che avevo ragione,
«Magari arriverà il cameriere. Pensi che
gli piacerebbe vederti mentre tocchi la
tua fica eccitata?»
Sapevo che odiava quella parola
ma il modo in cui mi guardò in tralice mi
fece impazzire. Peccato che appena
spinsi le mie dita dentro di lei, quello
sguardo fu rovinato da un gemito. Le
pareti della sua vagina si contrassero
come una morsa attorno a me,
portandomi quasi al punto di non ritorno.
Se non l'avessi presa nel giro di un
minuto sapevo che mi sarei messo in
imbarazzo.
«Non è una risposta» commentai
iniziando a muovermi, «Devo prendere
il tuo silenzio come desiderio che arrivi
il cameriere e ti veda così? Vuoi che ti
guardi con le mie dita dentro?»
«No» gridò lei ma senza alcuna
spinta mentre i mugolii eccitati e le
contrazioni di piacere si susseguivano.
«Non sei molto convincente,
Danika. Comincio a pensare che ti
piaccia essere guardata… nessun
ballerino bravo come te detesta il
pubblico. Forse dovrei chiamare il
cameriere.»
«No, non farlo» ora sembrava
onestamente preoccupata, nonostante
fosse ovvio che non mi sarei mai
nemmeno sognato di condividere quella
visione di lei con altri.
«Dovrai fare meglio di così,
tesoro. Dì per piacere.»
Lei non esitò. «Per piacere.»
«Bene, bene. Adesso dimmi: vuoi
che ti faccia venire con le mani? Così?»
e mentre lo dicevo, estrassi lentamente
le dita per poi iniziare a strofinarle sul
clitoride finché i suoi fianchi
sgropparono e il respiro si fece ansante.
Lei scosse la testa e chiuse gli
occhi quando toccai il tasto giusto.
Quello.
«No?» domandai, «Non vuoi che
lo faccia così? Dimmi come allora.»
La voce le uscì in un sussurro
senza fiato, le labbra tremolanti: «Ti
voglio dentro di me.»
La accontentai, anche se non nel
modo
che
intendeva,
spingendo
nuovamente dentro le dita e riprendendo
il ritmo regolare.
Lei s'inarcò, soffocando a
malapena il gemito mentre l'altra mia
mano accoglieva l'invito stringendole il
seno rotondo.
«È questo che volevi?» chiesi a
fatica.
«Nooo» rispose con tono
frustrato.
«Dimmi come allora.»
Riuscire a farle dire cose sconce
era una delle mie passioni.
«Voglio il tuo cazzo» rispose lei
fra i denti, «Non voglio venire finché
non me l'avrai messo dentro, fino in
fondo.»
Grugnii a fatica in modo
sommesso, rotolando sulla schiena e
sollevandola su di me per i fianchi. Era
una piuma.
La sistemai in modo che mi
montasse ma con il viso rivolto
dall'altro lato. Era una posizione
difficile per uno della mia mole, ma lei
mugolava ed era così bagnata e pronta
che non riuscii a trattenermi. Facendo
attenzione, spinsi appena la punta dentro
di lei e Danika si coprì la bocca con una
mano per non gridare.
«È così fottutamente bello,
Danika» le dissi roco mentre avanzavo
nella sua fessura stretta, godendomi ogni
piccolo centimetro, allungandola. Era
in-fottutamente-credibile.
La sua testa cadde all'indietro
mentre la penetravo, una delle cose più
arrapanti che avessi mai visto. La strinsi
maggiormente per i fianchi mentre
spingevo verso l'alto, tenendola al
contempo contro di me quasi con
ferocia, perché mi prendesse tutto.
Lei soffocò appena un grido. La
zittii per evitare che il cameriere ci
sentisse davvero e pensai che in quel
caso l'avrei ucciso.
Chiusi gli occhi quando lei iniziò
a muoversi, lasciandomi inondare dal
piacere che mi riempiva ogni poro. Il
mondo si dissolse e rimasero solo le
sensazioni e la perfetta armonia dei
nostri atti, la pelle contro la pelle.
Circondussi i fianchi sollevandoli
e abbassandoli secondo il suo ritmo. La
ragazza faceva l'amore come ballava:
era ipnotica, intossicante… Non
riuscivo a ricordare dove avessi firmato
per restarle lontano tanto a lungo. Era
questo che mi serviva, che volevo
disperatamente, l'unica cosa che mi
faceva ancora sentire tutto intero, l'unica
vera pace che riuscivo a ottenere da
quando era morto Jared.
Con lei sopra, non sarei mai
potuto arrivare più a fondo di così. I
nostri movimenti si fecero scomposti e
frenetici mentre toccavamo l'apice
assieme. Danika iniziò a rabbrividire
godendo ed io mi lasciai andare,
stringendole i fianchi tanto da farle
male. Venni come un fiume in piena. Il
mio corpo ricevette una scossa
prolungata e il respiro mi uscì con
lunghi sussulti.
Pensai di non aver mai
sperimentato nulla di così intensamente
piacevole in vita mia, il che ovviamente
me ne fece volere ancora.
Danika smontò da me lentamente,
in modo indolente e mi si afflosciò
accanto con l'aria beatamente rilassata.
Amavo quando riuscivo a renderla così,
era una persona ansiosa e mi piaceva
sbatterla fino a impedirle di mettere
insieme un solo pensiero coerente.
«Oh,
Dio»
esclamò
sommessamente a occhi chiusi, «È
stato… spaziale.»
«Mi sei mancata» le dissi,
sistemandomi sopra di lei.
«Che cosa… davvero?»
Ridacchiai mentre mi guidavo con
la mano fino a lei.
«Davvero. Hai l'aria assonnata
perciò, fai pure, dormi. Non badare a
me.»
La penetrai. Lei aveva iniziato a
ridere alle mie parole ma il gesto la
portò a sussultare ed io presi a spingere.
Il mio controllo si era esaurito con il
primo giro perciò questa fu una scopata
veloce
e
mirata.
La
pompai
riempiendola
quando
l'onda
dell'orgasmo iniziò a prendermi. Anche
lei mi raggiunse ma fu solo fortuna…
avevo perso ogni ritegno.
Mentre le riallacciavo il bikini
addosso rimase sdraiata, distrutta.
Avevamo sfidato anche troppo la nostra
fortuna e non volevo che rimanesse nuda
ed esposta mentre ci godevamo i
momenti post-orgasmici.
«Mi sei mancato» borbottò
toccandomi una mano. I suoi occhi si
chiusero all'istante, pesanti. Era andata,
sazia e completamente dimentica della
folla all'esterno.
Risi.
CAPITOLO
UNDICI
TRISTAN
Trascorremmo i giorni seguenti
quasi sempre a letto. Danika non studiò,
saltò il lavoro e quando arrivò il lunedì,
anche le lezioni. Lasciò perdere tutto per
me, per stare con me solo perché glielo
avevo chiesto. Era proprio quello che
mi serviva per sentirmi di nuovo
normale.
Io uscii una volta, lunedì, per
comprare un po' di generi alimentari,
lasciandola svenuta dal sonno a letto ma
con mio sommo piacere, quanto tornai
era sveglia.
Sentii l'acqua del bagno mentre
aprivo la porta della camera e quando
entrai, lo spettacolo che mi ritrovai
davanti mi fece venire l'acquolina in
bocca.
Dean la chiamava porno-vasca e
non aveva torto considerato quante
persone avrebbero potuto starci dentro.
Al momento però, era occupata
dall'unica visione troppo bella per finire
sul piccolo schermo.
Danika sorrise quando mi notò,
inarcando leggermente la schiena con
quel suo fare civettuolo. Quella donna
mi aveva in tasca e doveva saperlo…
Mi diventò duro prima ancora che la
porta fosse chiusa.
«Felice di vedere che ti sei
accomodata» le dissi con il tono
arrochito dalla lussuria più pura.
Il bagliore delle candele giocava
sulla sua pelle mentre lei si muoveva
nell'acqua, il bel seno che affiorava in
superficie come un lascivo invito.
Non disse una parola, sollevò
semplicemente una gamba appoggiando
il tallone in bilico sul bordo. Non c'era
schiuma. Mi avvicinai fissando il suo
corpo
attraverso
la
trasparenza
dell'acqua e quando lei sollevò anche
l'altra gamba, spalancando le cosce e
dandomi una perfetta visione del suo
paradiso, contrassi la mascella con
forza.
«Aspetti l'invito? L'acqua è
fantastica, giuro.»
Mi tolsi la maglietta e le mie dita
lottarono con il bottone dei jeans. Mi
sentivo il classico adolescente arrapato,
gonfio di libidine… Solo Danika
riusciva a farmi questo.
«Combineremo un casino» la
avvisai.
«A cosa serve questa vasca
enorme se non possiamo nemmeno farci
l'amore?»
«Hai ragione ma forse dovremmo
mangiare prima di fare ancora sesso o
finiremo per svenire.»
«Poverino!» Il suo era un tono
beffardo. Si mosse portandosi seduta e
allungò la mano per stringerla attorno al
mio uccello pulsante. Chiusi gli occhi
lasciando che la testa mi andasse
all'indietro perché quella sensazione
travalicava la mia capacità di pensare o
parlare.
Gemetti, inarcandomi nella sua
mano. La lasciai giocare con me,
lottando con la cerniera dei jeans
quando non ne potei più di quella
piccola tortura. Lei emise un piccolo
suono delizioso quando crebbi nella sua
mano e mi accarezzò con vigore una
volta, poi due...
Mi allontanai terminando di
spogliarmi ed entrai nella vasca fra le
sue cosce spalancate, gustandomi quella
visuale
mentre
m'inginocchiavo
nell'acqua.
Le strinsi i seni, lavorandoli con
delicatezza
finché
lei
mugolò,
scuotendosi. Il suo petto rimaneva fuori
dall'acqua grazie alle mani salde sul
bordo della vasca.
«Fai uscire un po' di acqua» le
ordinai burbero, «Non voglio affogarti.»
Portò una mano dietro di sé
armeggiando con la valvola mentre io la
coprivo con il mio corpo. Strofinai la
pelle sulla sua, la presi per le cosce
allargandola ulteriormente prima di
penetrarla con lentezza, aspettando che
mi accogliesse del tutto. Era talmente
stretta che la pressione perfetta
esercitata dal movimento mi appannò la
vista.
«Cazzo, sei così stretta» digrignai
i denti. Era davvero troppo. Sarei potuto
morire così, delirante dal piacere e non
me ne sarei mai pentito.
«La tua fica è stata messa su
questa terra per farmi uscire di testa,
giuro!»
L'acqua tracimò dai lati della
vasca mentre io mi strofinavo dentro e
fuori da lei senza alcuna fretta. Il suo
naso e le labbra erano a pelo dell'acqua,
gli occhi stretti, immersi.
Resistetti ben poco, prima
d'iniziare a venire quasi in modo
prematuro, spinto da un piacere assoluto
e lacerante. A volte era semplicemente
eccessivo, profondamente totalizzante.
Grazie alla fortuna, anche lei mi seguì
mentre io mi scuotevo e mugolavo per le
mie stesse fitte.
Tenni le labbra incollate al suo
orecchio anche una volta svuotata la
vasca, sussurrandole con costanza
quanto l'adorassi.
«Se penso a quante ne deve aver
viste questa porno-vasca mi vengono i
brividi» commentò lei contro la mia
guancia con un sorriso chiaramente
percettibile.
«Dean l'ha chiamata così anche
davanti a te, eh?» le domandai affranto,
facendo finalmente leva sulle braccia
per poterla guardare.
«Dean? Cavolo, no. Ogni volta
che apre quella sua boccaccia,
praticamente non sento niente. La
chiamo così perché questa è una vasca
da film porno. Ci stanno dentro sei
persone!»
Serrai la mascella guardandola.
«Guardi molti porno, eh?»
Lei alzò gli occhi al cielo,
sporgendo le labbra in quella sua
adorabile espressione da monella.
«No, ma il mio ex li guardava
di…»
La fermai prima che arrivasse
alla fine, percependo quell'alone rosso
ormai familiare che mi offuscava la
vista. Cercavo di bloccarlo ma era
sempre sfuggente.
«Non voglio parlare di Mr. jeans
attillati e men che meno di come gli
piaceva gode…»
Una mano morbida appoggiata
alla mia guancia mi fece chiudere la
bocca e sentire un coglione.
«Nemmeno io voglio parlarne.
Calmati, ok? Lo so... Mi piace fare finta
che non sia mai esistita una Nat perciò
capisco, ma tu non puoi trasformarti in
un troglodita ogni volta che dico
qualcosa di sbagliato.»
Annuii, spostandomi per alzarmi e
chiudendo gli occhi con un gemito
mentre scivolavo lentamente fuori da lei,
prima di sistemarmi in ginocchio e
uscire dalla vasca.
Una volta fuori l'aiutai a fare lo
stesso. «Beh, la buona notizia è che
credo tu abbia cinque minuti di pausa
prima che ti salti di nuovo addosso; ma
cosa facciamo in questo lasso di
tempo?»
Lei
ridacchiò
lanciandomi
un'occhiata tenera e baciandomi il
mento.
Rimasi per tutta la settimana
ignorando il mio telefono e il resto del
mondo.
«Che si fottano» le dissi, «Ho
bisogno di questo, non posso tornare
senza averne ancora.»
Lei mi fece quel suo sorriso nel
quale io riuscivo a specchiarmi
all'infinito e mi diede tutto. La mia
Danika, così generosa, altruista e
incapace di tenere qualcosa per sé.
Credevo che quel momento di
tregua troppo breve mi avrebbe aiutato.
Per me era logico che dopo una
settimana di Danika, avrei fatto un pieno
col quale andare avanti. Mi avrebbe
garantito un po' di autonomia prima di
ricominciare a sentirmi svuotato.
E invece non funzionò affatto.
Anzi, il contrario.
Il contrasto mi distrusse in fretta:
quello che mi ero lasciato alle spalle,
l'abuso costante, gli alti seguiti dai bassi
sempre più dilatati ora mi sembravano
più insopportabili che mai. Non ero in
grado di vivere con me stesso, non
sopportavo come mi sentivo. Non senza
di lei.
Di solito mi serviva un aiuto
artificiale anche per scendere dal letto e
c'era sempre una festa o un qualche
evento legato alla nostra etichetta, che
durava fino al mattino. Le nostre
sessioni in studio si prolungavano
sempre più, rimanendo però sempre
meno produttive.
Questo non era un buon posto per
me, un pensiero che facevo con cadenza
ormai quotidiana. Nel nostro alloggio
temporaneo losangelino non c'erano
freni.
«È
come
guardare
una
schifosissima scena di flashback tratta
da un episodio di Dietro la Musica»
commentò Adair, il chitarrista di
rimpiazzo, una sera che beccammo Dean
a sniffarsi una striscia dalla pancia nuda
di una groupie nella cucinetta.
Io risi… incredibilmente iniziavo
ad apprezzare quel tipo.
Adair era molto alto e magro, con
duri occhi grigi e ingestibili capelli
castani mezzi tinti di blu. Non arrivava
affatto ai livelli di abuso di Dean per
quanto riguardava droghe e donne, ma
aveva ragione.
«Per poter approdare a qualche
show televisivo devi aver finito il
dannato disco e grazie a quel puttanaio
nell'altra stanza, non ci succederà»
commentai amareggiato. Era così che mi
sentivo.
Adair versò uno shot di whiskey
per entrambi. Avevo perso il conto
ormai dei bicchierini che mi ero fatto
quella sera ma lo presi comunque,
tenendo la sigaretta con l'altra mano e
insieme, facemmo un brindisi.
«Salute» borbottai ingollando il
drink, «All'andarsene da L.A. il più in
fretta possibile e non grazie a Dean.»
«Non è così male» commentò lui,
«Per te forse è peggio perché sei l'unico
con la ragazza. Però, beh, non mi
dispiace per te.»
Vide l'espressione sul mio viso e
ridacchiò. «Non provare a farmi secco,
so come vanno le cose: tutti mi hanno
avvertito di non parlare di lei. Beh, tutti
a parte Dean. Anzi, lui mi ha dato alcuni
spettacolari consigli di merda sul
raccontarti… Ahh, non importa. Sai
cosa: l'ho vista e non sei affatto caduto
male. Cazzo, persino io starei senza
donne per qualche giorno per una
ragazza così.»
Strinsi il pugno ma compresi che
non stava cercando di offendermi e diedi
un'altra lunga tirata mentre mi sforzavo
di non lasciar esplodere il mio
caratteraccio.
«Dimmi un po': cosa ti hanno
detto gli altri?»
Lui fece una smorfia. «Vediamo:
Cory mi ha raccontato che hai quasi
ammazzato un tipo a pugni perché in
pratica le aveva toccato un braccio.»
Quello mi fece ridere. La verità
era già assurda di suo e nessuno avrebbe
avuto bisogno di ritoccarla, ma era
divertente. Sapevo che Cory l'aveva un
po' esagerata per chiarire il punto.
«Mi ha detto di non flirtare con
lei né di maledirla davanti a te.»
Nessuna di quelle notizie mi
creava
problemi,
perciò
annuii
invitandolo a proseguire.
«Kenny invece mi ha detto che hai
quasi castrato un altro tizio perché le
stava troppo vicino. Che sei saltato su di
lui dal palco bloccando l'intero
concerto.»
Mi tenni lo stomaco ridendo come
un pazzo.
«E anche che non devo parlare di
quanto lei sia sexy o fare commenti sul
suo corpo, specie dopo averla vista
ballare. E naturalmente se mai questo
accadesse, non dovrei mai farne
menzione davanti a te.»
Un consiglio davvero valido,
pensai.
«E Dean? Cosa ti ha detto?»
Lo domandai solo perché gli
avvertimenti di Cory e Kenny mi
avevano risollevato l'umore. Erano dei
buoni amici.
«Niente di utile o che possa
ripetere. So che Dean è un pezzo di
merda, perciò di solito faccio il
contrario di quello che lui reputa una
buona idea. Starebbe a guardare mentre
mi ammazzano solo per farsi una risata.
Senza offesa, ma in pratica intendo stare
lontano dalla tua ragazza il più
possibile. Decisamente, non intendo
nemmeno guardarla. Anche parlare solo
quando sarà il mio turno mi sembra
un'ottima idea.»
Gli diedi un buffetto sulla spalla,
felice come non mai. Se solo tutti gli
altri uomini del pianeta avessero potuto
seguire le orme di Adair.
«Tutto il contrario, amico mio: è
proprio quello che mi piace di più! »
CAPITOLO
DODICI
DANIKA
Socializzavo. Non era la mia
attività preferita ma era a quello che
serviva questa festa. Le uniche persone
che conoscevo erano richiestissime,
incluse il mio ragazzo e Frankie, ormai
nota personalità del piccolo schermo.
Per una volta ero venuta a Los
Angeles a trovare Tristan per il fine
settimana ma mi ci erano voluti meno di
cinque minuti per capire che quella festa
non era posto per me. Se pensavo che
quelle di Las Vegas fossero inadatte,
quelle di Los Angeles ne erano la
versione pretenziosa.
Eravamo nuovamente a casa di
qualche sconosciuto, con la differenza
che questa location era stata affittata e
aveva opere d'arte autentiche alle pareti,
di modo che la gente pensasse che non
fosse solo fumo.
Ero finita a chiacchierare con una
modella rossa e lentigginosa, con un
paio di gambe mozzafiato e uno strano
senso degli humour. Eravamo andate
d'accordo immediatamente, appena lei
aveva fatto una battuta sulla necessità
del proprietario di nascondere tutti gli
specchi per via dei tanti cocainomani in
giro.
«Conosci
il
gruppo?»
le
domandai per parlare di cose futili.
Immaginavo che ben pochi sapessero chi
erano, dato che ancora non avevano
finito di registrare il loro primo album.
«Oh, sì. Li adoro. Il cantante poi è
una bomba.»
Sorrisi
mestamente,
ormai
abituata. «Già.»
«Ed è fantastico anche a letto.
Dove c'è fumo c'è arrosto con lui: riesce
ad andare avanti tutta la notte!»
Dovetti controllare il respiro e
sforzarmi di regolare anche il tono.
«Quando te lo sei fatto?»
Lei fece un gesto con la mano.
«Secoli fa. Lo incontrai in un
locale di Las Vegas, ci scopammo come
matti per circa due settimane,
praticamente in ogni stanza e fino quasi
a morire. Non mi sarebbe dispiaciuto
ripetere l'esperienza ma ho sentito che
ha una ragazza adesso. Magari posso
farmi il nuovo chitarrista. È un figo
pazzesco!»
«Non l'ho ancora visto» riuscii a
dire con un tono naturale. Crisi evitata,
anche se sapevo che il nutrire ancora
dubbi nell'uomo che amavo non era un
segnale positivo.
«Mmm, è davvero intrigante ma è
tipo… una retrocessione. Tryst era una
furia a letto.»
Oh, Gesù, pensai, non mi va
davvero di starla a sentire.
«Ci siamo fatti tutto il possibile,
quell'uomo è perverso.»
Avrei voluto tapparmi le orecchie
o cavolo, lacerarmi i timpani. Invece
emisi qualche suono educato nel
tentativo di bloccarla.
«È stato il primo al quale ho
permesso di scoparmi il culo. Non
riuscivamo
davvero
ad
averne
abbastanza e lui voleva farmi di tutto.
Faceva male dato che ha un cazzo
enorme, ma gliel'ho sempre lasciato
fare. Difficile dire di no a uno in grado
di darti tutti quegli orgasmi!»
Avrei voluto vomitare o anche
solo trovare un modo per sfuggire a
quella logorrea indesiderata ma lei
proseguì ignara: «Una notte ho portato
anche una mia amica e giuro su Dio, ha
consumato entrambe.»
«Scusami» le dissi infine e me ne
andai quando iniziò a descrivere le
meraviglie della sua lingua in modo
aulico.
Il suo fascino sincero non era più
così… affascinante.
In pratica mi nascosi, evitando di
mescolarmi al resto della festa e il
contatto con altri esseri umani. Mi
sedetti su una delle sdraio libere
cercando di godermi il tempo perfetto,
la vista fantastica e la lieve brezza
dell'oceano ma senza riuscirci.
Continuavo a tornare su quello
che una donna a caso mi aveva detto
riguardo a ciò che era successo prima
che incontrassi Tristan. Sapevo che era
patetico e mi feci la promessa di non
trasformarlo in un caso. Non volevo
litigare né farne un dramma. Non volevo
farci alcunché, perché era qualcosa
accaduta in passato, prima che io
arrivassi a mettere le mani su
quell'uomo.
Eppure continuavo a bollire. Per
un qualche motivo la mia mente si era
fissata su quell'atto che lui aveva fatto
con quella donna ma che non aveva mai
menzionato di volere con me.
Voleva farle tutto, aveva detto
così, non ne avevano mai abbastanza.
Tristan mi trovò qualche ora
dopo. Stavo ancora fissando l'oceano
nonostante ormai fosse diventato buio.
Si rannicchiò al mio fianco studiandomi
come se stesse valutando il mio umore.
Mi rendevo conto che l'essere tanto
volubile da richiedere sempre un'attenta
valutazione prima, non deponeva a mio
favore.
«Stai bene, tesoro?» mi domandò
educatamente.
Annuii, non desiderando parlargli
o guardarlo. Speravo che mi stessero
per venire o che ci fosse altro a cui dare
la colpa per quella mia lunaticità e
desideravo solo ritirarmi in me stessa.
«Pronta per andare a letto? Hanno
affittato la villa per tutta la notte e ci
hanno riservato una magnifica stanza. La
festa probabilmente andrà avanti fino a
domattina ma credo di aver già baciato
abbastanza culi da poter dire basta.»
Sorrisi tiepidamente. «Certo.»
«Tutto ok? Mi sembri un po'
frastornata.»
«Ho
una
leggera
nausea.
Sdraiarmi dovrebbe aiutarmi.»
«Vuoi qualcosa da mangiare o da
bere? Sono ben riforniti.»
Scossi la testa e mi alzai. Lui
passò immediatamente un braccio
attorno alle mie spalle conducendomi in
casa. «Scusa se non ti ho fatto tanta
compagnia. Mi sono girato, tu eri sparita
e non ho avuto un solo secondo libero
per cercarti.»
«Non preoccuparti, era la tua
festa. Dovresti poter fare tutto ciò che
vuoi.»
Sapevo appena chiusa la bocca,
che sarei suonata petulante e desiderai
rimangiarmi tutto.
«Hey: se potessi davvero fare
tutto ciò che voglio, sarei rimasto con te
tutta la sera, non credi?»
Non replicai, sentendomi esausta.
«Hai incontrato qualcuno di
interessante?»
Una modella che ha parlato di te
come il primo col quale abbia fatto
sesso anale, avrei voluto dirgli, ma non
ne avrei ricavato niente di buono perciò
tenni a freno la lingua.
«Sì, alcune persone» replicai.
«Sei preoccupata? Sembri quasi
disturbata.»
«È che non mi sento bene, un buon
sonno mi aiuterà.»
Eravamo sdraiati al buio e
circondati ancora dai rumori della festa
quando mi disse: «Preferirei comunque
che mi dicessi cosa c'è che non va
invece di tenere tutto dentro. Lo sai
vero? Qualsiasi cosa sia, vorrei sempre
saperlo.»
Sospirai, sapendo che non sarei
riuscita a trattenere quel che provavo
troppo a lungo. Era sempre stato così.
«Pensi mai di non averne mai
abbastanza di me, Tristan?»
«Prego?»
«Desideri mai potermi fare di
tutto?»
«Di cosa stiamo parlando?
Pensavo non ti sentissi bene.»
«Non stanotte,
intendo
in
generale. Non ti viene mai voglia di
inchiodarmi al letto per due settimane
senza mai lasciarmi uscire?»
Lo sentii spostarsi sul materasso
poi abbracciarmi e le sue labbra posarsi
sul mio capo per un bacio veloce.
«Suona come un rapimento. Se mi
stai in qualche modo chiedendo quanto ti
voglio, sei una sciocca: ti desidero tanto
da impazzire. Non ho mai voluto nulla
come te. Due settimane nel letto? È
nulla, ti ci terrei dentro per il resto della
vita se ci fosse un qualche modo di
farlo. E non è che non pensi di non
averne mai abbastanza di te, so per certo
che non mi basti mai. Allora, che storia
è questa?»
«Come mai non hai mai nemmeno
provato a…» Nonostante fossimo al
buio, non riuscii a terminare la frase da
quanto ero imbarazzata.
«Provato a fare cosa? Chiuderti a
chiave in camera? Non credere che non
lo farò adesso che ho il tuo permesso,
bubu.» Riuscii a sentire il sorriso nella
sua voce.
«No… non era quello che volevo
dire» serrai gli occhi con forza odiando
la mia incapacità a trattenere in me
anche le cose così stupide, «Ho
incontrato questa modella stasera e mi
ha raccontato che avete passato a letto
due intere settimane, facendo di tutto. Ha
detto che non ne avevi mai abbastanza di
lei.»
Lo sentii irrigidirsi.
«Tesoro, non l'ho toc…»
«Anni fa, ha detto. Capelli rossi,
lentiggini e gambe da urlo. Te la
ricordi?»
«ll fatto che la tua descrizione non
faccia scattare alcun campanello nella
mia testa è un bene o un male?»
Non seppi cosa rispondere.
«Non
stavo
cercando
di
estorcerle delle informazioni. Stavamo
semplicemente chiacchierando quando
lei se n'è uscita così e ha finito per
scendere nel dettaglio su cosa facevate.
Così mi sono messa a pensare.»
«Oh-oh!»
Gli diedi una pacca sulla parte
del suo corpo più vicina, la spalla dietro
di me.
«Ho iniziato a chiedermi se per
caso ti stavi trattenendo con me, se
c'erano altre cose che avevi provato con
le altre e che avresti voluto provare con
me.»
Poi mi sovvenne una cosa: «Ha
anche detto che avete fatto una cosa a
tre.»
Lui imprecò.
«Col cazzo che noi la faremo.»
«No, non stavo suggerendo
quello. È che prima di conoscermi eri
sempre così selvaggio e magari adesso
potresti annoiarti perché trovi il sesso
più domestico fra noi.»
La sua mano mi strinse forte il
fianco e il suo tono si raggelò: «Ti stai
rendendo ridicola. Non è la novità a
rendere la cosa eccitante Danika, è il
sentimento che si cela dietro. Ti
garantisco che se ho fatto un'orgia con
una qualche pollastra che non ricordo,
non è certo perché non riuscivo ad
averne abbastanza.
Tu sei l'unica con la quale abbia
mai provato qualcosa e questo è il
sentimento più eccitante del mondo.
Niente è diventato domestico, il
contrario. La metti come se per te quello
che facciamo non fosse abbastanza
selvaggio. Dimmi: quali cose sei
abituata a fare?»
Quell'ultima frase lo stava
davvero agitando e mi domandai per un
attimo perché mi preoccupassi di essere
quella insanamente gelosa dei due,
quando Tristan riusciva sempre a
superarmi.
«Niente. Non sono mai stata
libertina in quello e lo sai bene.»
«Lo so? In pratica mi hai detto
che il sesso migliore della mia vita per
te è addomesticato, perciò vorrei
davvero capire cosa pensi possa essere
meglio. Cosa ti faceva Mr. jeans attillati
che io invece ho tralasciato?»
«Tristan, adesso sei tu a renderti
ridicolo. Non stavo parlando di me.»
«Ah, no? Cosa ti ho negato
Danika? Non farò entrare una terza
persona fra noi ma tu hai detto che non
parlavi nemmeno di quello, perciò cosa?
Quale formula magica è l'equivalente di
una vita sessuale sfrenata? La varietà
forse? La varietà deriva dalla noia ed io
non ti dividerò con nessuno.»
Si stava adirando ogni secondo
sempre più.
«Non capisco come abbia fatto
questa cosa a incasinarsi» osservai
tranquilla ma sinceramente perplessa,
«Perché sei così arrabbiato? E poi non
ho mai suggerito la condivisione.»
«Mi hai sbattuto in faccia la storia
dell'orgia! Cosa avrei dovuto pensare?»
«Ma sei tu quello che l'ha fatta,
smettila di rivoltare sempre la frittata!»
«Hai una vaga idea di quanto mi
mandi al manicomio? E lo chiami
domestico? Sai quanto mi fa impazzire
questa cosa?»
«Non era quello che intendevo,
assolutamente. E per l'ennesima volta:
non stavo parlando di me.»
«Beh, una cosa è certa, non sono
io a lamentarmi della nostra vita
sessuale, o no? L'unico appunto che
posso fare è che sto troppo fuori città,
perciò dimmi: cos'è che non abbiamo
fatto e che ti spinge a pensare che siamo
noiosi a letto?»
«Discorso chiuso. Ti stai agitando
troppo» risposi rigidamente.
«Mi pare un miglioramento
rispetto all'essere domestico.»
Si stava premendo contro di me,
chiaramente eccitato e la mano dal mio
fianco si appoggiò sotto al mio seno.
«Sei impossibile» gli dissi.
Lui m'ignorò, sollevandomi la
camicia e accarezzandomi, premendo le
labbra contro il mio collo.
«Tu mi mandi fuori di testa, lo
sai? Sto qui a pensare che le cose fra noi
non potrebbero essere più piccanti e tu ti
preoccupi che non lo siano abbastanza»
e parlando, scostò le mie mutandine di
lato, affacciandosi alla mia fessura.
Si spinse dentro del tutto ma poi
si fermò, trattenendosi.
«Dimmi cos'è che non stiamo
facendo. Cos'è che non ti basta?» Si
mosse leggermente dentro di me per
supportare le sue parole.
Quando non replicai, si sfilò
quasi del tutto come se volesse punirmi.
Mi morsi un labbro, allungai la mano
dietro di me e lo strinsi, scostandolo
fino a guidarne la punta contro l'altra
fessura.
«Che cazzo?» sbottò al mio
orecchio, «È questo che vuoi? Quello
che facevi con Mr. jeans attillati?»
Se non fossi stata così eccitata e
piena d'imbarazzo avrei alzato gli occhi
al cielo.
«No. Non l'ho mai fatto prima,
anche se Mr. jeans attillati…. bleah,
intendevo Daryl, ne era ossessionato.
Non gliel'ho mai concesso. Non riuscivo
a farmelo piacere, mi sembra doloroso.»
«Allora perché vuoi farlo
adesso?»
«Me l'ha detto la modella, so che
è una cosa che ti piace.»
«Oh, lo sai, davvero? Pensi che
mi faccia dei problemi a dirti cosa mi
piace? Hai davvero quest'impressione?»
Mi spinsi contro di lui cercando
di far penetrare il suo enorme glande ma
mi resi conto subito che non sarebbe
stato facile.
«L'hai fatto con una sconosciuta,
penso semplicemente che dovresti darmi
tutto quello che hai dato alle altre.»
«Lo faccio: ti do tutto. Nessuna ha
mai ricevuto nulla di valore da me,
quando riuscirai a fartelo entrare nella
testa?»
«E se volessi semplicemente
farlo? Vuoi dirmi che non ti interessa
nemmeno un po'?»
«Sai perché non ci abbiamo
provato? Perché per me si fa quando ci
si stanca di scopare a caso. Può suonarti
rude ma la vedo così. Vuoi che ti scopi
in quel modo? Lo farò, ti prenderò anche
di fianco se ne hai voglia ma non
cercare nemmeno per un attimo di farla
passare come qualcosa che desidero ma
che ho evitato di fare con te. E
francamente, credo di essere troppo
arrabbiato adesso per scoparti il culo.
Se lo facessi proveresti solo dolore e
metterebbe a disagio entrambi.»
Mi dimenai contro di lui, ancora
intenzionata a farlo entrare ma senza
successo e lui si allontanò con un
sospiro frustrato.
Rimasi sdraiata in un silenzio
allibito mentre lui andava in bagno
chiudendosi dietro la porta. La doccia
scrosciò per meno di cinque minuti e lui
uscì nuovamente e si rivestì.
Socchiusi gli occhi alla luce
brillante alle sue spalle che mi impediva
di guardarlo in volto.
«Torno alla festa. Sono troppo
incazzato per dormire adesso.»
E se ne andò, lasciandomi
sconvolta.
Nemmeno io potevo dormire.
Non durai dieci minuti: mi rivestii
e lo seguii.
CAPITOLO
TREDICI
DANIKA
Lo trovai che parlava con
Frankie, Estella e un gruppetto di
sconosciuti.
Quelle due mi confondevano un
po', specie considerato che Frankie
giurava di continuo che non si
frequentassero, nonostante continuassero
a passare molto tempo assieme.
Estella era molto vicina a Frankie
e il suo corpo mostrava chiaramente la
cotta che aveva per lei. L'altra invece
rimaneva piuttosto distaccata, con le
braccia conserte e sembrava notare a
malapena la donna che l'adorava.
Mi intrufolai in quel gruppetto di
persone, scivolando sotto al braccio di
Tristan senza dire una parola. Lui si
mosse appena e non mi degnò di un solo
sguardo. Continuava a rimanere rigido,
sfiorandomi appena le spalle e
sforzandosi di evitare al massimo il
contatto.
Era davvero incazzato.
Mi appoggiai al suo fianco e la
mia mano corse ai suoi addominali,
accarezzandone le creste prominenti
sotto la stoffa sottile, mentre Frankie
raccontava il programma delle riprese a
dei fighetti di Los Angeles a me
sconosciuti.
Osservai colpita l'altra mano di
Tristan coprire la mia e scostarla
delicatamente dal suo corpo per
impedirmi di toccarlo.
Davvero, davvero incazzato.
Pensai che gli uomini fossero
creature strane, alieni fuori di testa.
Attesi qualche minuto poi ripresi
a sfiorargli lo stomaco indugiando sulla
pelle tesa, risalendo lungo la cassa
toracica per arrivare a un pettorale
gonfio. Quando tornò a catturare la mia
mano per allontanarla nuovamente ero
già eccitata.
Attesi nuovamente, fingendo di
ascoltare la conversazione con aria
interessata e per l'ennesima volta
riportai la mano sui suoi addominali.
Sapevo con certezza che per quanto
infuriato, Tristan non mi avrebbe
rifiutato a lungo. L'ultima volta che era
successo, tutto ciò che avevo dovuto
fare per portarlo a cedere, era stato
girare senza reggiseno per una mattinata.
Mi allontanò nuovamente ma io
attesi. Ancora.
Feci scivolare la mano sotto alla
maglietta e passai a strofinarla
direttamente
sulla
sua
pelle,
premendogli i seni sul fianco. Stava
iniziando a metterci più tempo prima di
scostarmi e questa volta ne impiegò
un'infinità. Il respiro gli si inceppò
quando lo fece.
Attesi pazientemente poi ripresi
ma da sopra il tessuto e quando lui mi
lasciò fare, capii che avevo vinto. Di
stupide litigate ne avevamo a iosa, ma
ero più che determinata a fare in modo
che quest'occasione non la diventasse.
Continuai a toccarlo senza
guardarlo, premendomi a lui mentre lo
accarezzavo.
Amavo come nient'altro la
sensazione di lui, del suo corpo sodo
che si fletteva sotto le mie dita. Gli
percorsi ogni linea dell'addome poi
scivolai sempre più giù, eccitandomi
fino a sentire il bisogno di altro: più
pelle, più privacy, più tutto. Mi strofinai
persino con la parte più gibbosa del
palmo e alla fine, avvinghiata a lui,
voltai appena la testa e in modo veloce e
furtivo gli morsi delicatamente il torace,
assaporando la sensazione del suo corpo
sotto ai denti.
Non fui veloce né furtiva a
sufficienza.
«Non badate a noi, continuate
pure a straziarvi reciprocamente»
esclamò Frankie con noncuranza.
La ignorai e lei rise.
«Scusatemi» disse Tristan pacato
ma duro. Si liberò da me, si voltò e se
ne andò, lasciandomi a fissarlo senza
parole e stupita. Quale diavolo era il
suo problema?
Frankie si avvicinò e mi domandò
sottovoce: «Cosa gli ha preso?»
Scrollai le spalle facendo un
breve cenno di mano a Estella che era
rimasta in piedi a chiacchierare con uno
dei tanti bambocci.
«Come sta andando con Estella?»
chiesi, cambiando argomento.
L'espressione di Frankie si fece
neutrale. «Chi lo sa? Usciamo e basta. È
difficile da interpretare ma penso sia
solo curiosa. Sono una novità.»
«Non penso sia quello, tu le piaci
davvero. Intendo… davvero. Quello che
è difficile capire è se lei piace a te.»
Frankie non parve affatto
convinta. «Non ho intenzione di
impegnarmi comunque. Come ho detto,
usciamo e basta. È una tipa divertente.»
La studiai incredula. Avrei
scommesso più sulla cautela che non sul
disinteresse ma ovviamente non era così
che lei voleva mostrarsi.
«Le piace la roba che pratichi
tu?» le domandai.
Lei rise. «No, non credo. O
almeno non l'ha mai provata, il che è
praticamente lo stesso. Come ho detto,
usciamo e basta.»
«Quindi non fate… insomma…
quello che stavate facendo nella mia
macchina ad esempio?»
Lei fece un gesto noncurante.
«Qualcosa, sciocchezze più che altro.
Cose fra amici insomma.»
La
mia
bocca
si
torse
ironicamente. «Suona familiare. Ti do un
consiglio: se le cose fra amici finiscono
in orgasmi e continui a dire che uscite
insieme e basta, stai solo prendendo in
giro te stessa.»
Lei annuì con un sorriso beffardo.
«Beh, immagino tu lo sappia con
certezza. Cosa sta succedendo fra te e il
bambolone comunque? Ha un umore
piuttosto bizzarro.»
Eravamo tornati da capo. Frankie
era insistentemente tenace per accettare
il cambio di argomento troppo a lungo.
«È arrabbiato con me per una
cosa stupida.»
«Quanto stupida?»
«Molto.»
«Ok, vuota il sacco. Cos'hai
combinato? Indovino: dato che si tratta
di Tristan ed è arrabbiato con te ma non
sta menando nessuno, devi averlo ferito
nei sentimenti. Ci sto andando vicino?»
Arricciai le labbra. «Sei così
bisbetica che non te lo dico!»
«Stavo scherzando… coraggio!»
«Prima voglio trovarlo e fare
pace. Non mi piace l'idea di
raccontartelo mentre è tutto ancora in
corso, forse dopo che avremo chiarito.»
«Ti preeego! Se lo trovi non vi
rivedrò per il resto della serata. Sarete
troppo impegnati a ‘chiarirvi’ di nuovo.»
Potevo solo sperare che avesse
ragione.
Cercai in ogni stanza ma non lo
trovai. Mi fermai fuori da una porta
socchiusa sentendo delle voci familiari
che chiacchieravano. Una apparteneva a
Dean e solo dal tono si capiva che non
stesse combinando niente di buono.
Dean che agitava le acque era qualcosa
che avrei riconosciuto anche da miglia e
miglia.
«È quello che ti sto dicendo,
Tristan non era così. C'è solo una cosa
che l'ha fatto diventare una piaga» stava
blaterando.
«Una persona» lo corresse
un'altra profonda voce maschile. Dato
che l'uomo mi era stato presentato, lo
riconobbi come il produttore della band.
Era un caucasico sui quaranta che
indossava il cappellino da baseball
girato da una parte, abusava delle parole
per pavoneggiarsi e cercava di avere
un'aria da rapper. Si faceva chiamare
l'Olandese ma io lo avevo ribattezzato
Cogliondese.
Non mi aveva fatto una gran
impressione e questa conversazione
avrebbe solo confermato il mio giudizio.
«Il Tristan single non sarebbe mai
tornato a Las Vegas a ogni occasione»
proseguì Dean, «Non avrebbe rifiutato
di andare in tour con la band per il
debutto solo perché non può lasciare la
sua ragazza per tanto tempo. Non ci
sarebbero stati problemi o scontri.
Credimi: se quella troietta esce dalla
storia, avremo un cantante come nuovo.»
«Liberarmi delle fidanzate non fa
parte del mio lavoro.»
«Non è poi così complicato. Lei è
molto gelosa e la giusta combinazione di
circostanze unite a una visita della
nostra Nat ci darà una mano.»
Aderii alla parete, origliando
spudoratamente.
«Nat? La bionda con quelle
tettone finte? Quella che mi sono
scopato la settimana scorsa?»
«Sì, quella. Lei ci darà una mano
e nessuna riesce a far ingelosire Danika
più di Nat.»
«Davvero? Perché? Non vale
niente.»
«Lo so. Tristan è stato fidanzato
con lei una volta.»
«Perché diavolo l'avrebbe fatto?
Quella tipa è una troia.»
Annuii fra me e me, concorde.
«Non era così una volta, è una
storia lunga. Quella che ti sei fatto tu e
la Nat che stava con Tristan sono due
persone diverse ma questo non ci
interessa. Ciò che sto dicendo è che
nessuna può far ingelosire Danika
quanto Nat dato che ha portato l'anello
di Tristan. E lei collaborerà, farebbe di
tutto per farli lasciare. Quello che
dobbiamo fare noi è organizzare la cosa,
fare in modo che Danika li becchi nudi
assieme, in un modo o nell'altro. E
allora, addio Danika. È facile e così
riavremo indietro il nostro cantante.»
«Mi sta bene, amico. Organizza.
Voi ragazzi dovete andare in tour perciò
fai quello che serve affinché Tristan
rimanga a bordo.»
Me ne andai silenziosamente, più
disgustata che preoccupata. Sapevo che
Dean era spregevole ma questo era
davvero un colpo troppo basso, anche
per uno come lui.
Il mio primo istinto fu di
raccontare tutto a Tristan appena l'avessi
trovato, ma più cercavo senza fortuna,
ripensando alla trama ordita da Dean e
più mi convincevo a tenerlo per me.
L'intero sordido schema era
basato sulla mia reazione e ora che me
l'aspettavo, dopo aver ascoltato in prima
persona le loro intenzioni, sapevo che
sarebbero stati prevedibili. Pensai a
tutto nella mia mente prima di trovare
Tristan. Avrei osservato, atteso e mi
sarei preparata. Non c'era davvero
possibilità di dar loro soddisfazione. Se
pensavo a Nat e Tristan, adesso non mi
si chiudeva più lo stomaco dall'ansia e
dalla gelosia. Ora provavo disgusto ed
ero pronta.
Continuai a cercare in tutta la
casa e nel giardino, spingendomi fino
alla spiaggia attigua alla proprietà e
collegata da una passerella di legno.
Finalmente lo ritrovai in camera
nostra. Era sdraiato sul letto ancora
vestito e con un braccio sugli occhi,
immerso nell'oscurità.
Sospirai e chiusi la porta. «Dove
sei stato?» domandai. Durante la mia
ricerca avevo controllato qui due volte.
«Ho fatto una passeggiata sulla
spiaggia. Più una corsa in realtà.»
«Sei ancora arrabbiato?»
Non rispose, il che sarebbe stata
una replica in sé, se già la sua voce
atona non fosse bastata a farmi capire.
Accesi la lampada sul comodino
poi mi sedetti in linea coi suoi fianchi,
posandogli una mano sullo stomaco.
«Vuoi parlarne?»
«No. Parlare è esattamente quello
che non mi va di fare.»
«Allora cosa posso fare? Sei
ovviamente sconvolto, cosa che non
stavo cercando di fare.»
«Lo so. Penso sia quasi peggio.»
Si alzò e prese a camminare.
«Ecco ciò che voglio: voglio che tu
smetta di considerare questo, noi, come
qualcosa di poco valore. Smetti di
analizzarci allo sfinimento e per l'amore
del cielo, smetti di pensare che la nostra
vita sessuale sia insufficiente per me.
Ho un mucchio di problemi e dire che
questo non ne fa parte è minimizzare ai
massimi.»
Tenendo gli occhi su di lui presi il
cuscino e lo buttai a terra direttamente
davanti ai suoi piedi, obbligandolo a
fermarsi. Guardò prima l'oggetto poi me
e la sua espressione, da seccata diventò
perplessa.
Gli sorrisi mentre mi sistemavo
in ginocchio.
Il suo respiro uscì rumorosamente
quando le mie mani raggiunsero la patta
dei suoi jeans per aprirla. Bastarono
pochi movimenti veloci per liberarlo,
senza mai distogliere lo sguardo dal suo.
«Non volevo che la intendessi
così. Non stavo affatto cercando di
sminuirci, è stato solo un malinteso. C'è
nulla a cui puoi pensare che riesca a
farti migliorare l'umore?»
«Caazzo» sibilò togliendosi la
maglietta, buttandola da qualche parte e
infilandomi le mani fra i capelli,
«Mostrami quello che avevi in mente.»
Sorrisi compiaciuta dal suo
voltafaccia. Gli accarezzai lo stomaco
arrivando al confine estremo del torace
e poi scendendo nuovamente.
Lo guardai dalla mia posizione in
ginocchio, osservandolo in tutta la sua
altezza. Percorsi gli addominali con i
polpastrelli esplorandolo finché non
arrivai ai fianchi snelli. Il suo fisico era
tornito e ampio ma avrei giurato che non
possedesse un solo grammo di grasso.
Gli stavo percorrendo la linea della V
affascinata dalla sua forma, quando
osservai che doveva aver fatto un bel
po' di palestra. Era un'affermazione
retorica: il suo corpo era sempre
impeccabile ma lui rispose comunque.
«Quanta potevo. È l'unico modo
che ho per sfogarmi. Quello e
masturbarmi sotto la doccia.»
Sorrisi, appoggiando la guancia
sulla sua coscia e guardandolo
maliziosamente.
«E quante docce ti fai al giorno?»
«Non tante quante ne facevo
quando mi scuotevi davanti quel tuo
culetto senza che potessi toccarti.»
Ridacchiai.
«Non ti dirò bugie: me ne faccio
una appena smettiamo di parlarci al
telefono.»
«E come ci immagini mentre ti
masturbi?»
Lui guidò una delle mie mani
attorno alla base del suo uccello.
«Questo è un buon inizio. Tu in
ginocchio è assolutamente nella mia lista
dei preferiti.»
Mi
leccai
le
labbra
accarezzandolo con un tocco vellutato.
«Vuoi sapere cosa c'è sulla mia?»
Lui si arrotolò i miei capelli
attorno alle mani. «Sì, ma non aspettarti
che duri più di qualche secondo se
cominci a dire sconcezze.»
«Okay. Tanto posso contare su di
te per il secondo round, no?»
«Cazzo, sì.»
«Allora… Mi piace venire
fantasticando che mi hai legata e
bendata. Mi masturbo al ricordo di me
in tua completa balia.»
Tristan emise un lungo sibilo.
«Cazzo!»
Lo presi in bocca senza mai
smettere di toccare quel suo corpo
spettacolare.
Gemetti alla deliziosa sensazione
della punta che oltrepassava le mie
labbra, la consistenza vellutata ma
d'acciaio nella mia bocca mi fece
bagnare. Lo accarezzai con la bocca, la
gola,
assaporando
ogni
enorme
centimetro pulsante che riuscivo a
prendere, reclinando la testa.
Lui mi tirava i capelli fino a farmi
male imprecando, elogiandomi e
spingendosi dentro tanto da soffocarmi,
salvo poi scusarsi all'infinito. Non mi
fermai
succhiandolo
a
fondo,
sforzandomi di prenderlo tutto.
Tristan non durava mai molto con
un pompino e meno di due minuti dopo
averlo accolto dentro di me, il liquido
caldo mi scivolò in gola mentre lui
inveiva. E poiché non era un egoista, mi
ritrovai sdraiata sul letto con la gonna
sollevata e le mutandine abbassate,
mentre lui mi lavorava con la sua lingua
operosa e quelle dita magicamente
veloci.
Durai anche meno di lui.
Ero ancora ansante per il mio
orgasmo quando mi coprì con il suo
corpo, i fianchi fra le mie cosce. Mi
prese lentamente, in modo languido,
sussurrandomi dolcezze all'orecchio.
«Anche io ti amo» gli dissi,
baciandogli il collo una volta terminato.
Lui arretrò per prendermi il viso
fra le mani.
«Essere gelosa del presente è un
conto, qualcosa che posso gestire. Ma
questa fissa per quel che ero una volta o
per cose che non posso cambiare,
ecco… questo non lo sopporto, specie
quando lo usi per sminuire quello che
abbiamo. Fammi solo un piacere, tesoro:
smetti di fare paragoni fra quello che
avevo prima o ciò che avevi tu. Noi
siamo diversi. Questo è diverso. È di
più.»
Annuii baciandolo. Indubbiamente
era davvero molto, molto di più per me.
CAPITOLO
QUATTORDICI
DANIKA
Ogni singola volta che tornava da
Los Angeles, non importava fosse
partito da giorni o mesi, sentivo la
distanza fra noi sempre più marcata. Mi
uccideva
ed
ero
ossessionata
costantemente dal come avrei potuto far
cambiare tutto.
«Come stanno andando le cose?»
gli chiesi come spesso facevo. Era una
domanda come un'altra che però, per me
non aveva niente di casuale.
«Uno cazzo di schifo. L'album è
quasi finito ma non riusciamo a farlo
abbastanza in fretta. Dean e Kenny non
vanno d'accordo. Fanculo, litighiamo
praticamente tutti quanti e di continuo.
La droga piove come fossero caramelle
e bevo Jack Daniel's a colazione.»
«Devi prenderti maggior cura di
te» lo rimproverai sentendomi male e lui
mi restituì un sorriso malinconico.
«Sì, è vero. Se davvero potessi
fare quello che è meglio per me, non ti
lascerei mai. Rimarrei qui e non tornerei
più.»
«Allora perché continui a
ripresentarti a Los Angeles?» mi sentivo
egoista a chiederglielo ma non riuscivo
a tenere quella curiosità per me.
«Non so che altro fare. Bene o
male questa è l'unica cosa che mi sta
dando uno scopo nella vita al momento.
Altrimenti non farei altro che seguirti in
giro come un cagnolino, ogni giorno.»
Avrei voluto scuoterlo e dirgli
che non m'interessava, che avrebbe
potuto seguirmi per sempre; che non
m'importava se aveva un lavoro, ci avrei
pensato io, sforzandomi di provvedere
ai suoi bisogni al meglio. Ma lo
conoscevo: lui era troppo orgoglioso
per lasciarmelo fare.
E mentre il contrasto emotivo
sembrava aumentare, il desiderio
selvaggio reciproco non svaniva mai,
diventando sempre più disperato a ogni
incontro. Il sesso per noi non era mai
stato un problema ma non bastava, non
da solo. A volte tuttavia, mi sentivo
come se fosse tutto ciò che avevamo e
ormai era una sensazione sempre più
frequente.
I periodi in cui non tornava si
dilatavano e quando arrivava, Tristan
era chiuso in se stesso, serio e cupo.
Dov'erano finiti quei bei sorrisi, così
luminosi e facili a fiorire? Per ottenerne
uno adesso dovevo lavorare molto e la
cosa mi stava distruggendo.
«Sento che ti stai allontanando»
gli dicevo. Oppure: «Cosa posso fare
per farti stare meglio?»
Spesso, infatti, la maggior parte
delle volte la cosa lo aiutava e se
passava qualche giorno con me tornava
sobrio, non consumando mai nulla di più
forte di qualche superalcolico.
Ma ci stava sempre meno. Ormai,
aspettare un Tristan sempre in ritardo
era diventata una routine: non correva
più da me per rivedermi.
Lo scontro iniziò a causa
dell'ennesimo drink di troppo come
ultimamente accadeva.
Dovevamo andare alla festa di
Halloween da Cory e Kenny e Tristan
sarebbe dovuto venire a prendermi a
casa di Bev, ma dopo due ore di ritardo
finii per andare io a prendere lui.
Era svenuto nel suo letto, le luci
spente. Grazie all'illuminazione del
corridoio alle mie spalle, notai che
indossava la maglietta del costume da
Iron Man.
Anche io mi ero messa in
maschera ed era tutto pronto, ma uno
sguardo a lui e rinunciai. Ovviamente
aveva avuto una settimana pesante e se
ci penso, beh… anche io. Mi sarebbe
andato bene anche riposare un po' e
passare insieme un po' di tempo
l'indomani mattina.
Andai in bagno e quando uscii
Tristan era alzato, appoggiato contro il
muro. Le luci erano accese e lui aveva
l'aspetto stanco per quanto sveglio.
Mi studiò con gli occhi
socchiusi. «Che costume è quello?»
Indossavo una parrucca rosa con
una fascia da ninja e un piccolo kimono
rosso. Secondo me era fantastico.
Feci un giro su me stessa sui miei
sandali ninja. «Sono Sakura.»
«E chi diavolo è Sakura?»
Mi scompigliai la parrucca. «In
giapponese, sakura significa fiore di
ciliegio ma il personaggio fa parte di
Naruto. È una piccola guerriera ninja
carina coi capelli rosa!»
«Che cavolo è Naruto?»
Alzai gli occhi al cielo. «Una
delle anime più famose di sempre. Un
ragazzino volpe biondo e carino, con un
passato tragico che ha incredibili poteri
ninja. Davvero non l'hai mai sentito
nominare?»
«Mai.»
«Chiudi a chiave la porta
d'ingresso. Sarà la prossima cosa che
guarderemo assieme.»
«Sì. No, niente da fare. Non
guardo cartoni.»
«Sono anime e sono belle. Ci
sono azione, amore e tragedia. Molta
tragedia. Il povero Naruto perde
entrambi i genitori quando è piccolo e
tutto il villaggio lo respinge. Il suo
migliore amico entra a far parte degli
Akatsuki, una gang shinobi malvagia.
Ah, ci sono talmente tanti personaggi che
è praticamente impossibile tenere il
conto.»
«Niente da fare, tesoro. E non
chiederò nemmeno che diavolo sia uno
shinobi. Tu sei adorabile, anche se non
ho ancora capito cosa sei. Andiamo a
quello stupido party.»
«Non è obbligatorio, hai l'aria
stanchissima. Perché non ce ne
rimaniamo qui e recuperiamo il sonno?»
Lui scosse la testa con aria
rassegnata. «No. Ho detto che sarei
andato e se non mi presento Dean non mi
darà tregua. Dirà che mi hai di nuovo
fatto stare a casa.»
Detestavo
che
a
Tristan
importasse ancora tanto quello che
quell'imbecille pensava di lui. Di noi.
Dean era come un veleno a lenta
cessione, il cui effetto sulle persone si
consolidava palesandosi col tempo.
«E allora? Non capisci che sta
cercando di istigarci l'uno contro l'altra
e parla male di noi per farci apparire
peggiori? Fa sempre così e tu sei tanto
fesso da caderci tutte le volte.»
Lui sollevò una mano con aria
seccata. «Basta, non mi va di stare ad
ascoltarti. Non abbiamo bisogno di
rifare questa discussione, andiamo alla
festa e basta.»
Lasciai perdere perché conoscevo
quel tono: non era il momento adatto per
litigare.
Lui prese le sua maschera da Iron
Man dal letto e ce ne andammo.
Se speravo che la festa lo
risollevasse dal suo umore mi sbagliavo
di grosso. Trovò da bere non appena
mettemmo piede lì dentro, ma sapevo
che aveva già fatto il pieno prima che
arrivassi da lui. Nonostante tutto, tenni a
freno la lingua al primo bicchiere.
Intercettai il secondo che Dean gli aveva
passato, provando a fare finta di niente e
fallendo.
Tristan mi lanciò un'occhiata
negativa sollevando le sopracciglia e
Dean schiamazzò, indicandolo.
«Capisci cosa intendevo, amico:
preso al laccio. Dove hai messo i
coglioni? Se li porta in giro nella
borsetta adesso?»
Io lo ignorai. «Ne hai bevuti
abbastanza, non pensi? Questa sera sei
già svenuto una volta e non posso certo
portati a casa a braccio.»
Dean continuava e lo sguardo
bieco di Tristan s'intensificava di
secondo in secondo.
Non potevo credere a che razza di
idiota fosse, a quanto facilmente Dean
fosse riuscito a entrargli sotto pelle.
Passare quel poco tempo che avevamo a
disposizione in quel modo, rovinato da
Dean, era troppo e iniziai a spazientirmi.
Con l'aggiunta di un Tristan ubriaco e
belligerante e del fatto che ci vedevamo
poco, la sonora litigata era praticamente
servita.
«Sono seria: per quanta parte
della settimana intendi rimanere fuori
combattimento?» domandai con voce
pacata.
Dean, che aveva sentito, aggiunse
qualche altro commento al vetriolo.
«Basta» esclamò Tristan rivolto a
me. Aveva la voce bassa e il tono
negativo. «Non aggiungere un'altra
parola, non ho voglia di starti a sentire.
Mi hai succhiato il cazzo troppe volte
per comportarti come mia madre.»
Perfetto. Ne avevo abbastanza.
Non aggiunsi altro ma mi voltai
per andarmene. Arrivai alla macchina e
mi resi conto che lui era dietro di me,
allora tornai a voltarmi e lo fulminai con
lo sguardo.
«Quella era davvero una battuta
fuori luogo» gli dissi quasi gridando.
Lui alzò le braccia in aria e mi
guardò con fare conciliante. «Lo so, mi
dispiace. Appena le parole mi sono
uscite di bocca me ne sono pentito. Sono
di un umore di merda e non volevo
rifarmela su di te. Dean è davvero
troppo per me in questo momento.»
«Lascialo perdere. È negativo per
te, non te ne rendi conto? Dovesti stargli
lontano più che puoi.»
«Per quello è un po' tardi. Sono
bloccato con lui grazie a questa cosa del
disco.»
Il suo tono cambiò e lo sguardo si
addolcì. Non riuscivo mai a rimanere
arrabbiata verso quegli occhi dorati.
«Ma hai ragione, dimentichiamocelo.»
Si avvicinò stringendomi al petto,
la sua grossa mano mi accarezzò i
capelli, leggera come una piuma.
Mi rilassai per un attimo stretta a
lui, incapace di resistergli a lungo, come
sempre.
«Questa cosa del bere ti è sfuggita
di mano Tristan e non voglio nemmeno
sapere che altro stai prendendo. Non
riesci proprio a starne lontano nemmeno
nei giorni in cui ci vediamo? Perché in
questo caso vuol dire che c'è un
problema.»
«No, no, ce la faccio. Hai
ragione: lascerò perdere, tesoro. È che
sono talmente carico e le cose si sono
fatte tese. Però posso smettere quando
voglio e farlo nei fine settimana non sarà
un problema.»
Il mio stomaco tentò di
attorcigliarsi in un nodo elaborato…
nemmeno lui suonava convinto.
«Mi
dispiace»
mi
ripeté
accarezzandomi le spalle, «Ti amo,
piccola.»
«Hai una vaga idea di quante me
ne dirà dietro Dean adesso grazie a quel
commento?» mi lamentai dopo qualche
minuto, «Non gli servivano certo delle
scuse per parlare male di me e tu gliene
hai data una di più.»
«Che cazzo significa?» domandò
laconico, scostandosi. Il suo umore era
nuovamente cambiato nell'arco di poche
frasi.
«Cosa ti ha detto?»
Mi rimangiai tutto all'istante.
Qualcosa doveva sistemare Dean per le
feste, ma non doveva essere Tristan.
«Non
importa»
mormorai
accoccolandomi di nuovo contro di lui,
che tuttavia si spostò nuovamente.
«No. Voglio sapere di cosa stai
parlando.»
Mi riaccostai cocciuta. «Cose
stupide. È inutile parlarne quando
potremmo discutere di altro.»
«Ad esempio?»
«Il fatto che sei sempre in ritardo,
che non rispondi più alle mie chiamate e
maltratti il tuo corpo con regolarità. E
chissà cos'altro fai… Quello che vedo è
preoccupante, specie quando mi dici che
peggiora quando siamo separati. Io
penso che dovremmo cercarti un qualche
tipo di sostegno, una terapia del lutto e
anche un aiuto per l'abuso di sostanze.»
Lui s'irrigidì e il suo sguardo si
fece di ghiaccio. «Non ce la fai proprio,
vero? Puoi smettere di lamentarti per
cinque cazzo di minuti?» e senza dire
altro se ne andò.
Mi sentii come se mi avesse
schiaffeggiato. Rimasi lì basita a lungo,
prima di seguirlo. Non riuscivo a capire
da dove gli fosse uscita quell'invettiva e
non credevo certo di lamentarmi,
tutt'altro. Avevo evitato a lungo di citare
le sue cattive abitudini, specie quelle
legate all'alcool, contravvenendo al mio
normale comportamento e mi sentii
quasi colpevole per aver chiuso un
occhio a tutto, solo per compassione e
rispetto a quello che stava passando.
Le sue parole mi avevano ferito
eppure non lo lasciai solo. Aveva troppe
armi da usare contro di me: prima le
mostrava, poi batteva in ritirata e infine
si arrendeva. Freddo, caldo, temperato.
Il suo arsenale era troppo fornito per una
persona innamorata come me, troppo
personalizzato e lui era in grado di
sapere quali bottoni premere.
Era assodato che avrei fatto
qualsiasi cosa per avere sempre il
meglio da lui.
Mi ci volle un bel po' per
trovarlo. L'appartamento era piccolo e
affollato e venivo continuamente
bloccata da amici e conoscenti, per
parlare delle maschere e della band.
Quando lo individuai, era in
cucina a parlare con Kenny. Gli feci un
saluto prima di sistemarmi accanto a
Tristan, guardandolo con cautela.
L'espressione era rigida e vuota
ma mi passò un braccio attorno alle
spalle appena fui a portata, baciandomi
la testa e mormorando un'impercettibile
scusa nei miei capelli.
«Tutto ok.»
«Sono un coglione.»
Sorrisi nonostante tutto. «Solo
ogni tanto.»
«Facciamo qualcosa di speciale il
prossimo fine settimana. Conosco un
tipo che possiede una casa sulla
spiaggia. Ci prendiamo il week-end tutto
per noi.»
Mi voltai verso di lui con un
sorriso felice. «Non saprei pensare a
un'idea migliore.»
«E io smaltirò l'alcool. Per te.»
Lo abbracciai più stretto che
potevo. «Ti amo, più di quanto pensi.»
«Idem, tesoro. Sarei perso senza
di te.»
Mi sollevai in punta di piedi per
baciarlo. Io pensavo più a un bacetto
affettuoso ma ovviamente Tristan no e ci
ritrovammo a pomiciare senza vergogna
fra un respiro e l'altro.
Kenny era rimasto in piedi vicino
a Tristan per chiacchierare e non ci
scusammo nemmeno. Anzi: non lo
degnammo più di uno sguardo.
Avvolsi le mani attorno al suo
collo e le mie dita s'infilarono fra i suoi
capelli mentre lui mi stringeva il sedere,
spingendo i nostri corpi per tenerli
vicini. Non c'era assolutamente privacy
ma le sue mani che mi palpavano mi
fecero gemere sonoramente.
Lui si scostò, disse un paio di
parolacce e rise.
«Andiamo»
borbottò,
trascinandomi fuori dalla cucina. Mi
condusse lungo il corridoio e nel bagno,
sbattendo la porta dietro di noi e
attirandomi a sé con vigore.
«Non posso aspettare. È passato
così tanto» bofonchiò voltandomi verso
il lavandino.
«Ci
saremmo
dovuti
avvantaggiare prima di uscire» sorrisi.
«Non prendermi per il culo.
Perché non l'hai detto?»
Non menzionai il fatto che fosse
ubriaco per non rovinare il momento.
Tristan mi piegò sul lavandino,
sollevò il mio kimono e mi penetrò con
forza.
Mi ressi alla ceramica gridando il
suo nome. Pur sapendo che dopo ne
avremmo pagato le conseguenze, non
sembravo essere in grado di rimanere in
silenzio. Era troppo bello, il modo
ruvido in cui mi scivolava dentro e fuori
mentre le sue mani mi tenevano i fianchi
per farmi rimanere immobile, pronta a
essere martellata inesorabilmente ancora
e ancora, troppo perfetto.
«Proprio così» disse roco con una
lunga stoccata, «Vivo esattamente per
questo. È fantastico, Danika, così
fottutamente bello!»
Alla fine provai imbarazzo.
Avevamo litigato prima e fatto un gran
chiasso dopo… Arrossii persino mentre
ci ripulivamo. Non avrei mai voluto
farmi vedere in giro ma non c'erano
uscite d'emergenza in bagno perciò non
c'era scelta.
Tristan rise come un matto alle
mie guance imporporate. «Se qualcuno ti
dice qualcosa al riguardo lo faccio nero,
ok?»
Alzai gli occhi al cielo. «Spero tu
stia scherzando.»
Passarono
ore
prima
che
uscissimo e probabilmente non feci che
diventare rossa per tutto il tempo.
Tristan era disteso supino con una
mano dietro la testa. Eravamo a letto nel
suo appartamento ed io gli tenevo il viso
fra le mani per guardarlo, parzialmente
sdraiata su di lui.
Gli occhi erano socchiusi, il tono
di voce inintelligibile.
«Continua così, Danika. Rendi
tutto migliore.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che a parte te, la mia vita fa
schifo. Perciò ti prego: lascia che me ne
dimentichi per un po', se mi ami,
continua con ciò che stai facendo.»
Quando diceva cose del genere
mi spezzava il cuore.
Gli baciai il torace, le mani e gli
addominali con dolcezza. Se fossi
riuscita a guarirlo con la mia devozione,
non avrebbe più provato dolore ed era
ciò che stavo cercando di fare tramite
ogni tenera carezza.
Fu allo stesso modo che gli presi
l'erezione marmorea in mano prima di
condurla alla mia bocca. E quando lui
mi strinse per i capelli grugnendo perché
lo succhiassi più forte, non fu affatto
delicato. Di solito contraccambiava
sempre ma non quella notte. Si
addormentò che io avevo ancora il suo
sapore in bocca e il suo viso fra le mani.
Rimasi
sveglia
a
lungo,
accarezzandogli i capelli e guardandolo
dormire come una madre col proprio
cucciolo, sapendo che stava scivolando
via su un sentiero pericoloso e sbagliato
per lui; tormentandomi su cosa avrei
potuto fare per aiutarlo.
CAPITOLO
QUINDICI
DANIKA
La donna catturò il mio interesse
mentre il cameriere ci portava al nostro
tavolo. Era una giornata stupenda, il sole
splendeva e la brezza marina mitigava il
calore. La costa californiana era un
cambiamento notevolmente migliore
rispetto a Las Vegas.
Era una bella signora coi capelli
scuri e un sorriso accattivante, ma non
era quello che mi aveva attirato. Era
incinta, la sua mano accarezzava
continuamente la pancia mentre rideva
per qualcosa detto dall'amica. Avevo
sempre reputato adorabili le donne in
dolce attesa e nel vedere lei provai un
profondo dolore al petto.
Tristan notò la mia distrazione
prima che avessi il tempo di spiegare il
mio tovagliolo sul grembo. Mi prese la
mano sul tavolo per avere la mia
attenzione, facendomi un sorriso
interrogativo. Non era ubriaco o fatto
oggi, anzi, sembra sano. Sobrio,
sorridente e abbronzato.
«Un soldo per i tuoi pensieri» mi
provocò.
Increspai le labbra. «Soldi mal
spesi. Mi prenderesti solo in giro.»
Lui mi strinse la mano.
«Non lo farò, promesso. Dimmi
cosa ti porta lontana da me e dalla
nostra fuga romantica.»
Feci un cenno leggero indicando
la donna dall'altra parte del giardino.
Lui seguì il movimento ma parve più
confuso.
«Stavo pensando che una donna
incinta e felice, possiede tutto. Cosa
potrebbe esserci di meglio? Una vita che
ti cresce dentro, sapere che avrai un
angioletto da amare per il resto della
vita.»
Il suo sorriso si addolcì tanto da
rendermi molle. «Vuoi un bambino,
tesoro?»
Aggrottai la fronte. «Non
scherzare, è crudele.»
«Non sto scherzando. Appena mi
dirai di volerlo mi ci metterò d'impegno.
Pensavo volessi aspettare qualche anno,
magari finire il college, ma sono più che
felice di dare il via alla nostra famiglia.
Che ne dici?»
Già alla prima frase, il mio cuore
aveva messo la quarta. Rimasi seduta in
un silenzio stupito per cinque minuti
buoni mentre digerivo le parole.
«Devo dire che questo silenzio
tombale non era la reazione in cui
speravo.»
Mi masticai il labbro ancora
muta, studiando il suo viso come se
contenesse tutte le risposte. Quando
finalmente parlai, la mia voce era poco
più che un sussurro.
«Ancora non capisco se stai
scherzando.»
Lui si allungò verso di me, serio
in volto. «Non è uno scherzo. È quello
che voglio, che ho voluto appena ho
capito di essermi innamorato di te.»
«Non è un po' il contrario? Non
abbiamo saltato qualche passaggio per
arrivare a parlare di bambini?»
Lui mise la mano nella tasca,
estraendone una scatolina bianca ed io
mi coprii la bocca con un movimento a
rallentatore, ripetendomi che non poteva
essere ciò che pensavo.
La sua testa era inclinata e le
fossette esplosero mentre mi lanciava
un'occhiata quasi commossa.
«Ti prego tesoro, non piangere
altrimenti vado fuori di testa. Se mi ami
davvero non farmi mettere in imbarazzo
davanti a degli sconosciuti.»
Mi sfuggì un piccolo gemito e la
vista mi si annebbiò leggermente mentre
il mondo sconfinava nel territorio dei
sogni.
«Stai per farlo, vero? Stai per
farmi impazzire davanti a tutti questi
poveri avventori.»
«Tristan»
singhiozzai,
nascondendo il viso fra le mani, «Quello
è…?»
Mi si spezzò la voce.
La sua risata riecheggiò amabile,
mettendomi voglia di colpirlo e baciarlo
e singhiozzare come un bambino allo
stesso tempo.
«Cos'è?»
domandai
senza
guardarlo.
Lui cercò di allontanarmi le mani
dal viso ma io non mi mossi.
«Danika… guarda e vedi da te.»
Scossi la testa piangendo il più
sommessamente possibile per i miei
standard, ossia in modo per niente
silenzioso.
Lui sospirò e la sua voce si fece
densa per le lacrime. «Sposami!»
Singhiozzai più intensamente
pensando che non fosse vero. Stavo
sognando, solo che in un vero sogno
sarei riuscita a smettere di piangere
come una pazza e dire sì.
«Non dovresti metterti in
ginocchio o simili?» tirai su col naso.
«Diavolo, stai frignando come
una bambinetta e riesci comunque a fare
l'impertinente» disse beffardo mentre si
sistemava in ginocchio davanti a me, la
mano ad accarezzarmi la coscia con fare
consolatorio.
«Sposami» ripeté.
Mi buttai fra le sue braccia,
nascondendo il viso nel suo collo mentre
piangevo come una disperata.
«Oh, tesoro» mi sostenne
accarezzandomi
i
capelli
e
accompagnando il tutto da piccoli gemiti
comprensivi.
Continuai a piangere senza
ritegno, singhiozzando a ondate fra le
sue braccia. In quel momento, avrei
giurato che non esistesse un uomo più
perfetto al mondo.
«Sarebbe un sì?» mi chiese infine.
«Sì, sì, sì, sì» gridai senza
guardarlo, ancora nel pieno di
quell'inaudita crisi di pianto. Lui fece
scivolare delicatamente e in modo quasi
furtivo, un anello incredibile al mio dito.
Quando finalmente riuscii a calmarmi e
guardarlo, notando gli occhi lucidi e il
sorriso gentile ricominciai.
«Non avremmo dovuto farlo in
pubblico» gli dissi più tardi, una volta
soli nella casa sulla spiaggia presa in
affitto, «Ero un disastro, è stata un'idea
orribile.»
Non riuscivo a smettere di
sorridere
osservando
la
pietra
scintillante al mio dito, come se
serbasse i segreti dell'intero universo.
Eravamo sdraiati fianco a fianco
su un divano da spiaggia, a guardare il
tramonto. Non riuscivo a rammentare un
giorno migliore nella sua perfezione.
«Beh, questo lo so adesso. Avevo
questa strana idea nella mia testa che
avresti preferito un gesto romantico e
pubblico ma mi devo ricredere.»
«È un anello stupendo.»
Era a taglio Princess, di oro
bianco circondato da baguette. Non
sapevo un cavolo di diamanti ma mi
sembrava enorme e brillava in modo
sfavillante.
«Ho risparmiato, volevo che
fosse perfetto.»
«È da pazzi, lo sai vero? Cosa
diremo alla gente?» specie a un paio di
persone in particolare…
«Bev non sarà felice» commentò
lui leggendomi il pensiero, «Dirà che sei
troppo giovane.»
«Si, è vero. Secondo lei nessuno
dovrebbe sposarsi prima dei trenta, lo
ripete di continuo. So che suona bizzarro
ma possiamo non dirglielo? Solo per un
po'. Voglio dimostrarle che questa non è
una decisione affrettata e l'unica cosa
che può provarlo è il tempo.»
«Come vuoi, tesoro. Purché tu
abbia il mio anello al dito e il mio
cognome.»
Suonava talmente divino che
faticavo a pensarci.
«Va bene se lo metto come
ciondolo di una collana per un po'
adesso?»
«Perfetto, però tu in cambio devi
fare una cosa per me. Non lasciarmi ad
aspettare: sposiamoci appena torniamo a
casa.»
«Danika Vega» formulai estasiata,
praticamente fluttuando nel mio stesso
senso di appagamento. Cos'altro avrei
potuto desiderare ora che avevo Tristan
per sempre? Mi veniva in mente solo
una cosa.
«Era un sì?» mi domandò lui
ridendo.
«Ho già accettato.»
«Intendevo un sì allo sposarsi
appena rimettiamo piede a Las Vegas.»
Dovetti voltare la testa e alzarla
per trovare il suo sguardo.
«Se è ciò che vuoi, allora sì.
Come mai questa fretta?»
Le sue labbra s'incurvarono.
«Suonerà
vecchio
stile,
specie
considerato che nemmeno conosco mio
padre, ma voglio sposarmi prima che tu
rimanga incinta. Voglio fare le cose per
bene, capisci?»
Avrei voluto darmi un pizzicotto.
Sinceramente continuavo a essere
convinta che fosse un sogno.
«Allora eri serio riguardo al
volere un bambino? Lo vuoi davvero?»
Tristan mi strinse la mano con
aria sincera. «Da morire, tesoro mio! E
tu, lo vuoi?»
Era tutta davvero un gran pazzia
ma non esitai.
«Sì.»
Carriera, scuola, ballo. Nella mia
mente delirante tutto si sarebbe
sistemato. Bev riusciva a gestire tutto, io
ero un po' giovane ma allora? Non
potevo riuscirci lo stesso? Avrei
lavorato anche giorno e notte per
farcela, assieme a Tristan.
«Smetterò di prendere la pillola»
mi ascoltai dirgli. Non sembravo
nemmeno io quella che aveva parlato.
Lui sorrise proprio come se
avessi appena esaudito uno dei suoi
desideri più grandi.
«Perfetto, possiamo iniziare a
provarci subito. Qualche giro di pratica
non farà male.»
«Io direi che di esperienza ne
abbiamo anche troppa.»
«Sì, ma non è mai abbastanza, non
credi?»
«Mi rimetto al tuo esimio giudizio
in materia.»
«Bene»
disse
ironicamente,
«Almeno sono riuscito ad avere ragione
su qualcosa.»
Ci godemmo quella fuga di due
giorni
alla
grande,
dormendo,
passeggiando lungo la spiaggia e
trascorrendo la maggior parte del tempo
a letto. In fin dei conti dovevamo
concepire un bambino… Ancora non
riuscivo a crederci.
Ci sposammo in comune qualche
giorno dopo. Io indossavo un prendisole
giallo senza maniche e Tristan una polo
bianca su pantaloni color kaki. Fu
qualcosa di semplice ma perfetto ed io
piansi per tutto il tempo come un
bambino. Anche gli occhi di Tristan
erano lucidi e brillanti, il sorriso
raggiante.
Ricordo che non ebbi alcun
dubbio, non una sola riserva su ciò che
stavamo facendo.
Non lo dicemmo ad anima viva.
Perché avere fretta dato che avevamo il
resto della vita per dare la notizia? In
quel momento, la felice novella
apparteneva solo a noi, era un segreto
che non avrebbe fatto alcun male alle
nostre anime. Il segreto migliore.
Per festeggiare andammo a cena.
A circa metà serata andai in bagno e
mentre tornavo al tavolo m'imbattei in un
uomo, una cosa perfettamente innocente.
Ci porgemmo le reciproche scuse
andando ciascuno per la propria strada.
Quando tornai al mio posto,
Tristan aveva un'espressione truce
mentre guardava dietro di me.
«Devo andare a chiarire le cose
con quel tipo?» domandò appena mi
sedetti.
«Certo che no. Ci siamo finiti
addosso l'un l'altro per caso.»
«Stronzate. Ti stava seguendo.»
«Siamo sposati adesso, quando
pensi che migliorerà questa tua gelosia?
Io sono tua adesso, finché morte non ci
separi. Non ti aiuta la cosa?»
Lui inclinò la testa all'indietro e
rise come una persona fuori di testa.
«Pensavi che sarebbe migliorata?
Non capisci proprio… mi hai
trasformato in un mostro psicotico e
geloso adesso. Meglio?» e riprese a
ridere scuotendo la testa.
Mi allungai sul tavolo e gli diedi
un pugno.
«Sei incorreggibile» borbottai.
TRISTAN
Mi stava accarezzando ed io non
riuscivo a fare niente di più che
contrarmi. Era decisamente una novità
per quanto mi riguardava. «Davvero,
non so come una cosina come te abbia
fatto, ma mi hai consumato l'uccello!»
Lei fece il broncio mentre
continuava a lavorare sul mio pene
flaccido.
«Che cosa ti succede? Non credo
di averlo mai visto così.»
«Non so se hai tenuto il conto
tesoro, ma non mi è rimasto niente per
adesso. Nemmeno una goccia. Non
credo sia fisicamente possibile per me
sforzarmi più di così per fare un
bambino oggi.»
Lei si mise a cavallo di una delle
mie cosce, strofinando la sua vagina
umida contro la mia pelle ed emettendo
quei rumorini che mi fecero eccitare
nella sua mano.
«Cazzo, sei insaziabile.»
Mi fece un sorriso seducente. «A
quando pare non son o l'unica.»
«Se è per fare un bambino…»
«Uhm, ti rendi conto che
probabilmente mi ci vorrà un po' per
restare incinta? Ho appena sospeso la
pillola.»
«Vuoi dire che si tratta di cara e
vecchia ninfomania?»
Lei annuì passandosi la lingua sui
denti ed io mugolai indurendomi nel suo
pugno.
«Non è solo quello» aggiunse,
«Sai che adesso sei mio? Sei legalmente
una mia proprietà perciò è normale che
voglia valutare ciò che possiedo, no?»
«Valutare ciò che possiedi, eh?»
«Già, è quello che sto facendo»
continuò ad accarezzarmi mentre si
strofinava sulla mia coscia in sincronia,
«Valuto attentamente la mia proprietà.»
Chi poteva resisterle? Io no di
certo.
«Vai con il test allora, sono tutto
tuo. Fai del tuo peggio.»
Le infilai le mani fra i capelli
mentre lei me lo prendeva in bocca. Era
una cosa fantastica ma sinceramente non
pensavo sarei venuto ancora. Mi
domandai cosa dicesse il galateo sul
lasciare che tua moglie ti succhiasse
l'uccello a tempo indefinito, godendoti
del tutto la sua bocca.
Poco dopo arretrò, si leccò le
labbra e si issò su di me. Grugnii mentre
mi montava, spingendo il mio glande
contro la sua fessura bagnata.
M'impennai, impalandola. Lei rabbrividì
e per poco non venni.
Iniziò a muoversi mentre le
palpavo il seno.
«Ti rendi conto che è solo una
specie di sostegno adesso» le feci notare
mentre mi cavalcava. Il fatto che le mie
parole uscissero sottoforma di ansiti non
dava certo credito alla cosa, «Solo
perché è duro non vuol dire che possa
darti ciò che vuoi.»
Lei sorrise, muovendo le spalle
con una piccola scrollatina sexy.
«Me lo sta dando proprio
adesso… un gran bel sostegno che ho
intenzione di sfruttare mentre tu te ne stai
lì sdraiato. Quando sarò venuta, ti
prometto che ti lascerò in pace.»
Gemetti e i miei fianchi si
sollevarono.
C'era
qualcosa
di
seducente nel suo modo di prendersi il
piacere con o senza di me. Ma alla fine
lo avemmo entrambi.
Mi addormentai sotto di lei,
ancora dentro di lei e mi risvegliai allo
stesso modo.
Quella cosa del matrimonio mi
calzava proprio a pennello.
CAPITOLO
SEDICI
FRANKIE
Non era la solita festa fetish
standard e di cattivo gusto quanto
piuttosto un ritrovo esclusivo di
appassionati di BDSM che lo vivevano
come uno stile di vita e non come una
novità.
A parte la donna al mio braccio
non c'erano novizi, era un ambiente
troppo estremo. Stavo andando per gradi
con lei dato che non aveva mai praticato
nulla di tutto questo prima, ed io mi
sentivo piuttosto esitante all'idea di
doverla iniziare.
Di solito preferivo le sottomesse
con una certa esperienza, che sapevano
come agire e quali comportamenti
evitare, ma c'era qualcosa in lei che mi
attirava, che mi faceva infrangere le mie
stesse regole, assecondando i suoi
capricci. Sfortunatamente, provavo
qualcosa nei suoi confronti ma il
verdetto era ancora appeso al modo in
cui mi voleva: come novità o come
persona vera.
Estella era profondamente curiosa
nei confronti del mio stile di vita, perciò
dopo milioni di domande avevo deciso
che gliel'avrei mostrato. Questa serata
l'avrebbe senza dubbio turbata, ma
nessuno qui si asteneva dal seguire
scrupolosamente le regole e questo era
vitale, così lei avrebbe potuto osservare
senza avvertire alcun senso del pericolo.
Il ritrovo aveva luogo nell'attico
di un complesso di appartamenti
esclusivo, proprio fuori la Strip. Non
avevo idea di chi lo possedesse, ma non
m'importava. Se c'era James significava
che era stato controllato ben bene. Lui
non avrebbe mai preso parte a qualcosa
potenzialmente in grado di "esporlo".
Era una figura troppo pubblica per non
prendere precauzioni riguardo al
mantenimento della sua privacy.
Un uomo muscoloso e pelato ci
accolse alla porta, Deuce. Lo
conoscevo. Gli feci un cenno di saluto
educato mentre varcavo la soglia. Era un
Padrone di una certa levatura e negli
anni ci eravamo incontrati spesso agli
stessi raduni.
Non cercai Estella alle mie
spalle, aspettandomi che mi seguisse.
L'ambiente era arredato in modo
spartano ma moderno, quasi tutto nei
toni del nero. Era una sorta di enorme
suite poco affollata. Di solito a queste
feste intervenivano non più di una
trentina di invitati ma raramente
raggiungevano quel numero.
In genere era facile distinguere i
Padroni dalle sottomesse a prima vista.
Le sottomesse erano quasi del tutto nude.
Io ero una delle poche eccezioni, con la
mia gonna di jeans strappata, il top nero
coi tagli che metteva in mostra la curva
inferiore del seno. Estella, per contro,
indossava un abitino nero piuttosto
tradizionale che abbracciava alla
perfezione le sue curve.
Non ero mai stata molto contenta
all'idea di dover coprire i miei tatuaggi.
Li consideravo un'arte e li mettevo in
mostra di conseguenza. I miei abiti in
pratica incorniciavano i tatuaggi invece
che nasconderli.
Feci un grosso sorriso quando
vidi James. Per quanto riguardava gli
amici ero stata davvero fortunata dato
che ne avevo tantissimi intimi, ma James
avrebbe sempre occupato un posto
speciale nel mio cuore. Esistevano
poche persone che ammiravo di più o
con le quali avevo così tanto in comune.
Me lo ricordavo come un adolescente
problematico e ora, a ventiquattro anni,
era un uomo formidabile. Provavo una
sorta di orgoglio nei suoi confronti,
come una sorella maggiore.
Era assieme a Jolene, la sua
perfetta sottomessa. Lei non mi diceva
molto ma insieme erano compatibili in
un modo primitivo, elementare, perciò
comprendevo l'attrazione che lui
provava nei suoi confronti. Con quella,
non avrebbe mai avuto complicazioni
che un libretto degli assegni non avrebbe
risolto.
Lo abbracciai stretto baciandogli
le guance e ignorando del tutto Jolene,
come sempre. Lei non era una grande
oratrice.
James mise gli occhi su Estella
appena la notò dietro di me ed esitò
mentre chiacchieravamo. Non era certo
tipo da moderare il linguaggio e portò
velocemente l'attenzione su di lei.
«Ci
presenti?
Dove
l'hai
trovata?»
Io feci un sorriso. Non riuscivo a
capire se le interessasse a livello
personale o fosse più attirato da ciò che
provavo io nei suoi confronti Di rado si
vedevano volti nuovi a questi eventi.
«Questa è Estella. È… un'amica
incuriosita dal nostro stile di vita.»
James non mise in dubbio la mia
fiducia in lei. Ne aveva abbastanza in
me da sapere che il mio giudizio era
valido.
«È tua?» domandò con una vaga
inflessione annoiata come spesso aveva.
Era parzialmente affettata, la sua noia
derivava soprattutto da una sorta di
triste spleen.
Lanciai a Estella uno sguardo
fugace. Stava guardando James come la
maggior parte delle donne al primo
incontro. In fondo lui era un dio, persino
io ero in grado di riconoscerlo, eppure
mi infastidì vederla dimostrare una tale
plateale ammirazione per qualcun altro,
oltretutto uomo.
«No. Non siamo legate, non in
quel modo.» Specie se lei era bisex.
Quel tipo di ragazze non erano altro che
spezza cuori su due gambe per le
persone come me.
«Beh, è un peccato. Siete
fantastiche insieme» commentò divertito.
Feci spallucce guardandomi
intorno. «Lei è nuova e vuole provare.
Al momento sono solo la sua guida.»
«Posso
baciarla,
Mr.
Cavendish?» s'intromise Jolene, la voce
roca e bassa.
Digrignai i denti: Estella non era
mia, aveva chiaramente espresso la
volontà di provare e questo era
sicuramente
un
esempio
da
sperimentare.
«Se Mistress Abelli accetta, hai il
mio permesso» le rispose James
guardandomi. Le sue sopracciglia
perfette si sollevarono interrogative.
Evitai di guardare Estella,
degnando a malapena Jolene e fissando
lui mentre accettavo.
«Perché no? Estella, puoi baciare
la ragazza.»
All'inizio evitai di guardare,
cogliendo solo con la coda dell'occhio il
movimento di Jolene che si avvicinava a
Estella. Mi voltai e sentii l'altra gemere
in modo osceno. Per i miei gusti era
davvero esagerata, come se cercasse di
continuo di attirare l'attenzione su stessa
a discapito anche del piacere.
Estella era piuttosto rigida, le
mani lungo i fianchi, immobile. La vista
di quelle labbra rosse che toccavano la
sua bocca morbida, generosa e
libidinosa mi rimescolò lo stomaco.
Jolene proseguì imperterrita,
infilando le mani nei capelli dell'altra e
approfondendo il bacio.
«Basta» l'ammonì tranquillo
James.
Lei
si
ritrasse
all'istante,
guardandolo con un sorriso seducente, le
labbra sbaffate di rosso. Detestai quel
suo aspetto da piccola cagna selvatica,
ma non avevo diritto di essere gelosa e
repressi in fretta il sentimento che
montava come bile in gola.
«Ha un sapore delizioso, Mr.
Cavendish. Dovrebbe provarla.»
James inarcò un sopracciglio
sempre con quell'aria annoiata.
«Fallo» mi sentii dire.
Tutti noi sadici nascondevamo
sempre una componente masochista.
«Non ho chiesto ma ho idea che
non disdegni nemmeno gli uomini,
perciò provala pure se ti va.»
Lui parve sorpreso e mi osservò a
lungo, poi scrollò le spalle e fece cenno
con un dito a Estella di avvicinarsi. Si
prese il suo tempo, attirandola a sé
molto lentamente, sistemandole una
mano sulla testa e una attorno alla vita.
Jolene, sempre affamata di
attenzioni, si spostò dietro Estella
strofinandole i seni contro la schiena. Le
sue mani delicate solcarono il suo corpo
senza nemmeno domandare, palpando il
seno perfetto della mia Estella.
Ribollivo di rabbia, eppure
mantenni il silenzio.
James
stava
guardando
l'espressione scontenta di Estella
quando abbaiò: «Basta così, Jolene.
Non le piaci e sai perfettamente che non
puoi toccare senza permesso.»
Jolene indietreggiò con il
broncio.
James baciò Estella, ovviamente
in modo perfetto, morbido, sensuale,
carico di delicatezza. Lui era un tipo che
faceva tutto alla perfezione e per la
prima volta in vita mia, provai del
risentimento nei suoi confronti per
quello.
Si scostò più in fretta di quanto
avrei pensato e mi lanciò un'occhiata in
parte divertita e in parte di rimprovero,
che mi spinse ad aggrottare la fronte.
Il viso di Estella mi era quasi del
tutto nascosto e lui lo voltò gentilmente a
mio favore tramite la mano sulla sua
testa riccioluta, mentre con l'indice
dell'altra le solcava una guancia. La
rialzò come a mostrarmi qualcosa,
spingendo l'altra guancia dolcemente
contro il suo torace.
Mi avvicinai e mi ci volle un
momento per rendermi conto che le
aveva portato via una lacrima.
«Non so in quale tipo di piaceri
credi che indulga al momento, Frankie»
mi disse poi esasperato mentre
continuava ad accarezzare in modo
confortante i capelli di Estella, «Ma
traumatizzare la tua compagna non è uno
di quelli. Credo che tu abbia ferito i suoi
sentimenti. A lei piaci tu.»
La mia mente vacillò e quasi con
riluttanza, allungai una mano prendendo
Estella per un braccio e sfilandola da
quelle di James. La sistemai al mio
fianco chiudendo gli occhi quando i suoi
seni morbidi e pieni premettero contro i
miei.
Senza nemmeno chiedere, lei
nascose il viso contro il mio collo
baciandone la vena pulsante. Il suo viso
bagnato a contatto della mia pelle
sembrava volermi dare dimostrazione di
quelle
lacrime,
rimproverandomi
inavvertitamente.
James sospirò scuotendo la testa e
un accenno di sorriso gli sfiorò le
labbra.
«Direi che questo è un momento
piuttosto privato, perciò vi lasciamo.»
«Non sei obbligato» protestai.
«Tutto a posto, devo prepararmi
per la dimostrazione. Parleremo più
tardi.»
Se ne andò seguito come un
cagnolino da Jolene.
Le braccia di Estella si strinsero
attorno alla mia vita, il suo respiro era
sussultorio, come se cercasse di
soffocare i gemiti. Era sconvolta.
«Estella.» A parte il mio braccio
attorno alla sua spalla, non la toccavo.
Non ero certa di cosa fare con lei, «Non
devi aver paura, non ti farò baciare
nessun altro. E non devi toccare nessuno
se non vuoi, ok? Pensavo che volessi
provare tutto e te ne stavo dando la
possibilità. La maggior parte delle
sottomese considerano un bacio da Mr.
Cavendish come un vero onore e tu
sembravi piuttosto interessata a lui.»
Cercai di non far suonare quell'ultima
frase come un'accusa ma probabilmente
fallii.
Lei tirò su col naso e si scostò per
guardarmi. I suoi occhioni scuri erano
umidi e scintillanti.
«Non volevo semplicemente
provare, Frankie. Volevo farlo con te. Io
sono affascinata da questo stile di vita,
ma più di tutto volevo capire cosa
cerchi, cosa devo essere per te. Non ho
alcun desiderio di essere passata di
mano.»
Mi sentii una vera merda, non era
andata molto lontano.
Ci eravamo frequentate diciamo
in modo amichevole, per un po' di
settimane. Ci eravamo baciate e toccate
e io l'avevo fatta venire un numero
incalcolabile di volte, ma non avevo
pensato significasse qualcosa. Ero, anzi,
mezza convinta che lei fosse solo una
bisex annoiata in cerca di un giro
dall'altra parte della strada. Non
sarebbe certo stata la prima.
In un certo senso, nonostante
detestassi il pensiero, avevo dato per
scontato che le sarebbe piaciuto essere
passata ad altri, specie a uno come
James, che indubbiamente riusciva a
rendere
chiunque
sessualmente
flessibile.
«Mi dispiace» le dissi sottovoce.
Era qualcosa che non avevo mai fatto
nei confronti di una sottomessa, anche se
lei non era propriamente tale. Non
ancora, o magari mai. Non ero disposta
a investire su quell'idea.
«Possiamo solo osservare e più
tardi mi dirai cosa ti è piaciuto, cosa ti
ha colpito.»
«Io voglio conoscere quello che
piace a te. Devo imparare come
compiacerti.»
La baciai in modo profondo e
distraente, cercando di non dare peso al
fatto che avesse il sapore del rossetto di
un'altra.
Fino a quel momento ci eravamo
attenute al sesso classico, alla vaniglia
insomma, che non era certo il mio
preferito. Tuttavia, mi piaceva la sua
compagnia e non ero pronta a lasciarla
andare. Non volevo spingerla troppo in
là, col rischio di perderla.
Mi
scostai,
respirando
profondamente. Provavo qualcosa di
troppo intimo per questa donna che
conoscevo appena. Lo sguardo nei suoi
occhi mi fece desiderare di baciarla
ancora ma mi contenni, tenendola al mio
fianco e indicandole una piccola
piattaforma sistemata in un angolo della
stanza. Lo spettacolo stava per iniziare.
«Se vuoi sapere cosa mi piace,
guarda questo. Nessuno è migliore di
James nelle dimostrazioni, ecco perché
è una vera fortuna assistervi.»
Lui arrivò sul piccolo palco ben
illuminato. Il torso era nudo e la pelle
profondamente abbronzata metteva in
risalto alla perfezione i muscoli
eleganti.
«Wow» sussurrò Estella e non
potevo certo biasimarla. Almeno non
troppo.
James era una visione dalla quale
persino a me risultava difficile
distaccarsi quando dava spettacolo a
questo modo.
I suoi capelli color dell'oro erano
legati e mettevano in risalto il viso
perfetto. Lui era la quintessenza della
mascolinità e della cruda bellezza, in un
risultato impossibile da non ammirare. E
quei suoi occhi penetravano anche a
distanza.
Jolene lo seguì sulla piattaforma
indossando solo un corsetto che le
stringeva
la
vita,
lasciandola
completamente nuda sopra e sotto tranne
per alcuni piercing.
Assieme, quei due erano fantastici
ma avevo sempre pensato che lui
avrebbe potuto trovare di meglio. Non
era solo un bellone come lei. In James
c'era altrettanta magnificenza interiore
da ammirare.
Lui la condusse alla croce di
Sant'Andrea eretta sulla fronte del palco,
guidandola con una mano dietro la testa.
Estella era talmente presa dalla loro
presenza scenica da non averla notata.
«Cos'è quell'attrezzo?»
«Una croce di Sant'Andrea.»
«A cosa serve?»
«Lo vedrai.»
Era a forma di X e leggermente
inclinata all'indietro perciò quando
James ci spinse contro Jolene
sistemandola spalle al pubblico, lei era
chinata in avanti e mostrava chiaramente
le sue nudità più intime. Aveva il
piercing anche lì.
«È molto bella» commentò
sommessamente Estella. Non che
m'interessasse ascoltare in modo
particolare, ma non glielo dissi.
«Sì, molto.»
«Ti piacciono i suoi piercing? È
qualcosa che fa per te?» sussurrò. Ci
stavo davvero andando troppo piano con
lei: avrebbe dovuto rivolgersi a me con
Mistress Abelli e rimanere in silenzio,
ma mi rendevo conto di voler
assecondare la sua curiosità e di
conoscerne i motivi.
«Mi piacciono, sì» risposi.
«Io non ne ho.»
Sorrisi. Lei sapeva che ormai
avevo visto il suo corpo a sufficienza
per non accorgermene.
«No, non li hai.»
«Vorresti farmene qualcuno?»
Le tirai leggermente i capelli
spingendola a voltare lo sguardo dal mio
profilo al palco.
«Se li vuoi, te li farò ma solo se è
ciò che desideri. Non farli per me.»
Lei s'impietrì tanto che mi voltai a
guardarla. La sua espressione era rigida,
come se le avessi detto qualcosa che
l'aveva ferita e non riuscivo a capire
cosa.
Riportai l'attenzione sul palco.
Non era il momento per discutere dei
suoi sentimenti.
James legò polsi e caviglie alla
sua sottomessa, spalancandole le gambe
per il piacere del pubblico.
«Sei stata con… lei?» sussurrò
Estella fissandomi nuovamente.
Sporsi le labbra domandandomi
se avrei dovuto punirla per avermi
parlato durante una presentazione. Alla
fine scelsi di non farlo. Mi sembrava
controproducente visto che era qui
proprio per via di tutte le sue domande.
«No. Lei appartiene a lui e non ci
scambiamo le sottomesse. Inoltre non mi
piace.»
«Ma hai passato me.»
La mia bocca s'indurì a
quell'accusa mentre il senso di colpa
cresceva proporzionalmente al fastidio.
«È stato solo un bacio e non stavo
parlando di quello, ma ho capito cosa
vuoi dire: non ti condividerò più,
sempre che non sia tu a chiedermelo.»
La
sentii
irrigidirsi,
poi
incredibilmente e in modo alquanto
impertinente, mi baciò, strofinando il
seno contro il mio e gemendo nella mia
bocca.
CAPITOLO
DICIASSETTE
FRANKIE
La scostai da me, voltandola fino
a poterla abbracciare da dietro e
praticamente obbligandola a guardare il
palco.
«Quello cos'era?» le domandai a
denti stretti.
«Io ti voglio, voglio farti godere.
Voglio farti venire, non lo fai mai con
me.»
«Allora dolcezza guarda lo
spettacolo. C'è solo un modo per farmi
venire e se vuoi sapere qual è, basta
andare su quel palco, adesso.»
«Toccami»
sussurrò
lei,
portandosi le mie mani sui seni. Faceva
di nuovo l'impudente ma la assecondai.
Per questa sera non avrebbe avuto
alcuna responsabilità e se a qualcuno la
cosa non fosse andata bene, avrebbe
potuto parlare con me.
Senza contare che ovviamente
amavo le sue tette.
«Non metti mai il reggiseno?» le
domandai all'orecchio, pizzicandole con
forza i capezzoli. Con un seno come il
suo, quel vestito non era certo adatto a
essere indossato senza.
Lei gemette, strofinandosi contro
di me. «No, per te. So che ti piace
guardare le mie tette muoversi, ho visto
come ti distraggono. E non indosso
nemmeno le mutandine. Volevo darti un
accesso facile, amo quando mi tocchi.»
La zittii perché mi stava facendo
impazzire e anche perché James aveva
appena tirato fuori un enorme flagello da
mostrare alla gente. Era un gatto a nove
code piuttosto robusto, le cui strisce
intrecciate terminavano con piccole
sfere. Era porcheria hardcore.
Lui disse qualcosa a Jolene con
voce tagliente. Io solleticai il collo a
Estella e Jolene rispose in quell'istante
in modo affermativo e con tono
implorante.
«Adoro quando mi chiami
dolcezza, mi fa sentire carina» sussurrò
Estella, distraendomi nuovamente.
«Tu sei carina, sciocchina. Così
carina che fa male.»
«Davvero?» domandò. Suonava
assolutamente affascinata.
Venimmo entrambe distratte dal
suono fragoroso del flagello a contatto
della carne. Estella sobbalzò ed io le
misi una mano attorno al collo per
trattenerla mentre con l'altra continuavo
a lavorarle il seno morbido.
«Guarda»
le
sussurrai
all'orecchio.
James colpì ripetutamente e il
suono era sia spaventoso che eccitante.
Per un attimo lo guardai, osservai i suoi
muscoli così ben definiti muoversi lungo
la schiena mentre dava una bella
ripassata alla sua sottomessa. Era tutta
roba già vista e più che guardare, mi
domandai cosa pensasse di lui Estella,
se la colpisse e che impatto avesse tutto
quanto su di lei.
James si lavorò Jolene come da
manuale, arrossando ben bene il suo bel
sederino e le cosce ma impiegando
minor forza su spalle e schiena. Sapeva
esattamente dove colpire e in che
ordine. Era un professionista.
Quando finalmente smise, Jolene
tremava e gemeva tanto che lui le abbaiò
di tacere.
Si rivolse al pubblico con un
movimento leggero delle sopracciglia
mentre slacciava i pantaloni scuri
tirandosi fuori l'erezione maestosa. Di
sicuro quell'uomo non soffriva di paura
del palcoscenico.
«Porca puttana» esclamò Estella.
«Sì, lo so, perfino il suo uccello è
perfetto» ammisi mestamente.
«Così grosso e… con una bella
forma.»
«È praticamente l'uomo più
perfetto del pianeta se riesci a
sopportare un po' di dolore» le dissi
atona, «Ed è miliardario. Un dono di
Dio alle donne insomma.»
Lui prese un profilattico dalla
tasca, aprì la bustina e lo srotolò con
pochi movimenti veloci. Non si prese
nemmeno la briga di togliere i pantaloni
mentre si portava dietro a Jolene,
stringendole il collo e penetrandola,
flagello alla mano. Prese a scoparla
fustigandole i fianchi senza pietà.
«Non sono sicura di riuscire a
tollerare il dolore così tanto» mormorò
Estella. Aveva un tono spaventato.
«L'intensità del dolore che
t'infligge il tuo dominatore è puramente
soggettiva. Un bravo Padrone non te ne
provocherà più di quanto tu non possa
sopportare perché sa come leggerti.
Jolene adora le punizioni. Quei due
stanno dando uno spettacolo estremo più
che un normale esempio.»
«Mi piacerebbe provarci, ma
forse senza quella frusta che usa lui.
Sembra così… dolorosa.»
Il mio cuore parve cercare di
scavarmi un varco nel petto. Non
riuscivo a credere che pur avendo
osservato, volesse ancora cercare di
compiacermi. Ero così certa che si
sarebbe spaventata che questa sua
reazione era più di quanto avrei mai
sperato.
«Come tua Padrona dovrai avere
fiducia nelle mie capacità di sapere cosa
utilizzare. Non partirei mai con qualcosa
del genere con te, non ho nemmeno
bisogno di nulla di così estremo.
Probabilmente sceglierei un frustino da
equitazione, uno dei modi più delicati
per iniziarti a questo mondo.»
«Ok, quello mi piacerebbe.
Possiamo provarci questa sera?»
Le pizzicai forte un capezzolo
tanto da farla gridare. «Devi imparare a
comportarti bene. Ti ho viziata, ma tu
devi imparare che sono io quella che ha
il controllo.»
«Ti prego, Frankie…»
«Mistress Abelli.»
«Per favore, Mistress Abelli,
assuma il controllo. Faccia di me ciò
che vuole, ciò che le serve per il suo
piacere, perché è questo che voglio. Non
sopporto che le cose vadano avanti così.
Non voglio essere l'unica a godere dei
nostri… incontri.»
«Non sai quello che stai
chiedendo» la avvisai.
«L'ho visto questa sera, no? Penso
proprio di saperlo… voglio stare con
te.»
Iniziai a baciarle un lato del collo
e scivolando con una mano verso il
basso le sollevai l'abito fino a trovare la
sua fessura bollente che iniziai a
sfiorare.
Jolene si fece più rumorosa grazie
al suo piacere e seccata, tolsi la mano.
Non volevo che Estella venisse
ascoltando quella roba, ne avrebbe
sicuramente intaccato la bellezza.
Continuai a guardare stringendola
per i fianchi, mentre James usciva da
Jolene ancora in piena erezione. La
slegò, girandola a favore del pubblico e
la spinse in ginocchio di lato.
«Apri la bocca» le ordinò con
tono indifferente. Era del tutto assorbito
dal proprio ruolo di dominatore e ogni
emozione era spenta.
Lei la spalancò e lui le infilò il
cazzo dritto in gola. Era una scena
impressionante e Jolene possedeva
indubbiamente un certo talento orale.
Dopo un bel po' di gola profonda,
James si tolse dalla sua bocca, sfilò il
profilattico e le venne in faccia
velocemente. La piccola folla scoppiò in
un applauso entusiasta.
Lui degnò a malapena Jolene di
un altro sguardo mentre se lo rimetteva
nei pantaloni, facendo agli altri un
sorrisino di autocritica e un piccolo
inchino con il capo.
«È stato… interessante.»
Estella suonava tanto stupita
quanto impressionata. La battuta sul
denaro forse l'aveva portata fuori dalla
sua zona di sicurezza.
«Di solito queste dimostrazioni
sono… eccessive. E lui si stava
mettendo in mostra, è un edonista.»
«Le fai anche tu?»
La fissai decisa, mi sembrava che
quella domanda nascondesse più di un
vago interesse.
«Ho fatto un paio di esperienze. È
qualcosa
che
pensi
potrebbe
interessarti?»
Lei si masticò un labbro tanto che
alzai una mano per farla smettere,
liberandolo.
«Solo se sei l'unica a toccarmi.»
Arrossii, sentendomi ancor più
schifosa per quello che avevo lasciato
accadesse con Jolene e James e
annotando per la prima volta la mia
vulnerabilità nei suoi confronti.
«Te l'ho detto, non succederà di
nuovo. Ti ho male interpretata, molto
male.»
«Voglio che tu sia l'unica a
toccarmi, ma devi farlo ovunque tu
voglia, davanti a chiunque ti aggradi.»
Feci un paio di respiri profondi
poi la condussi al divano più vicino.
«Sdraiati di schiena e metti le
mani sopra la testa.»
Lei eseguì ed io mi sedetti vicino
al suo fianco, accarezzandole la pancia
attraverso il vestito.
«Non importa quel che succederà
o chi pensi che ci stia guardando, non
voglio che guardi in faccia nessuno,
capito? Se creerai un contatto visivo con
qualcuno, ti punirò.»
Lei si schiarì la gola guardando la
mia mano. «Ho capito, Mistress Abelli.»
Aveva
adottato
un
tono
insolitamente corretto per lei e sorrisi.
Stava imparando.
Le sollevai l'abito oltre i fianchi e
il seno. Era totalmente nuda al di sotto.
«Tieni le mani dove sono. Se ti
muovi m'interromperò, capito?»
«Sì, Mistress Abelli.»
Scivolai lungo il suo corpo
aprendole le gambe e sistemandovi in
mezzo le mie spalle, poi la consumai
senza fretta ma con estrema meticolosità,
stuzzicandola finché lei non gemette
tanto forte da attirare l'attenzione delle
persone.
Sentii la presenza di qualcuno
troppo vicino a noi e subito dopo
l'autorevolezza nella voce di James che
avvertiva di non toccare Estella perché
mi apparteneva.
«Oh, le mie scuse» replicò una
voce maschile molto educatamente,
«Pensavo fosse disponibile.»
«Ora non lo è» specificò James
divertito, «E scommetto che non lo sarà
più.»
Davvero molto perspicace.
«Beh, ha delle tette magnifiche»
osservò l'altro uomo.
Me la lavorai con la lingua finché
non arrivò a implorarmi di farla venire,
arretrando per solleticarle la coscia ogni
volta che la ritenevo troppo vicina. La
stavo torturando in un modo delizioso,
quello della passione non ricambiata.
Desideravo ardentemente poterla legare
ma mi rifiutavo di farle praticare davanti
ad altri qualcosa che non avessimo
prima provato in privato.
Non allentai la pressione fino a
che non udii un piccolo singhiozzo
sfuggirle di bocca. Allora mi sollevai
per guardarla. Risalii sul suo corpo
sedendomi a cavallo del suo punto vita,
accarezzandole i seni mentre ammiravo
eccitata le lacrime solcarle il viso e le
labbra rigogliose tremare.
«Perché
stai
piangendo,
dolcezza?» le domandai.
«È
troppo,
Mistress.
Ho
bisogno… io ho… bisogno di…»
«Venire?»
«Sì» singhiozzò.
«Immagina come mi sto sentendo
io mentre ti tocco. Pensi che non ne
abbia voglia?»
«La prego. Lo faccia, faccia quel
che vuole di me. Lo voglio.» Il suo
accento delizioso rendeva quelle parole
una poesia.
Le diedi un buffetto sulle guance
asciugandole le lacrime.
«Più tardi mi prenderò quello che
voglio da te. Per adesso ti concederò il
tuo piacere.»
Tornai al punto di partenza e
quando finalmente le permisi di godere,
Estella gemette piena di passione mentre
il suo corpo esultava. Il nostro pubblico
esplose entusiasta.
Stavamo
tornando
silenziosamente a casa quando lei mi
ripeté di non voler essere condivisa.
«Voglio che tu sia mia, solo mia e
inoltre…» deglutì. Il suo accento si era
fatto più evidente, «voglio che tu mi
voglia solo per te. Non è solo una
questione di esclusività, devi volermi
tanto intensamente quanto io voglio te.»
«Beh, se sei bisex…»
«Non sono una di quelle, Frankie.
Non vado con un uomo fin da quando
ero troppo piccola per capire. James,
quello a cui hai permesso di baciarmi, è
il primo che mi abbia messo la sua
bocca addosso da quando avevo
quindici anni.»
«Lo stavi guardando come…»
«Era bello. La bellezza è bellezza
ma non vuol dire che lo volessi.»
«Ok» le concessi pur senza
crederle al cento per cento. Non volevo
farlo perché sapevo di essere già troppo
presa, «Quando dici che non vuoi essere
condivisa intendi dire che vuoi evitare
anche l'esibizionismo? È stato troppo
per te?»
La sua mano scivolò sulla mia
coscia. «No, quello possiamo farlo, non
è stato eccessivo.»
«Bene. Ti avrei fatto molto altro,
ma ci sono alcune cose che prima voglio
provare in privato. E sì, piacerebbe
moltissimo anche a me l'esclusiva. Ti ho
desiderata fin da subito, Estella.»
Era la verità e mi resi conto che
non avevo altra scelta se non provarci,
anche a rischio di esserne ferita. Ci ero
già dentro fino al collo.
All'improvviso me la ritrovai
incollata al fianco e quasi mi mandò
fuori strada. Mi baciò la guancia a
ripetizione, dicendomi qualcosa in
portoghese poi in inglese: «Ti amo, mi
sono innamorata di te.»
Accostai, sganciai la cintura e mi
sistemai sopra di lei finché non ci
ritrovammo faccia a faccia.
«Ok, ci sei riuscita dolcezza.
Adesso non si torna più indietro, sei
tutta mia!»
La baciai e mi sentii felice come
mai prima d'ora.
CAPITOLO
DICIOTTO
DANIKA
«Una
sorpresa?»
domandai
mentre mi portava in camera sua.
Eravamo rimasti separati cinque giorni,
ma come sempre era parsa un'eternità.
Sussultai dalla gioia quando vidi
la fotografia appesa sopra al letto. Era
del giorno del nostro matrimonio: io nel
mio abitino giallo stringevo il mio
bouquet di rose bianche; Tristan
stringeva me ed entrambi ridevamo
come pazzi.
L'aveva fatta ingrandire e
incorniciare. Sapeva essere così dolce,
il migliore.
«Ma è meravigliosa» esclamai.
«Non era quella la sorpresa» mi
disse in un orecchio con quel tono in
grado di farmi fremere per l'attesa.
Non dovetti nemmeno chiedere
che sentii calare una mascherina sugli
occhi. Era passato un po' di tempo da
quando avevamo giocato in quel modo,
tanto che mi ero ritrovata a ripensarci di
continuo mentre eravamo separati,
fantasticandoci sopra con maggior
frequenza rispetto a qualsiasi altro
esperimento fatto.
Rimasi perfettamente immobile
mentre lui mi spogliava, assumendo il
controllo.
Mi portò fino al letto e mi spinse
giù, sulla schiena. Il suo tocco era
gentile ma deciso mentre mi divaricava
le gambe e iniziava a legarmi le caviglie
ai montanti. Una volta terminato mi
baciò entrambe le piante dei piedi prima
di passare alle mani. Legò i polsi e
baciò ogni singolo dito, facendomi
rabbrividire. La sensazione mi appesantì
il seno.
Si allontanò e nonostante fossi
bendata, riuscii a notare la leggera
variazione quando la luce nella stanza
divenne soffusa.
Lo sentii accendere un fiammifero
e quasi immediatamente captai il
profumo dolce di mandorle che riempì
l'aria.
Il letto s'infossò e lui si sedette
all'altezza dei miei fianchi. La sua mano
iniziò
a
solcarmi
la
pancia
accarezzandola e indugiandovi sopra,
strappandomi un gemito.
Mi carezzò ovunque. Passò sulle
cosce, avvicinandosi pur rimanendo di
poco lontano dal mio sesso e usò le sue
mani magiche per giocare col mio
corpo, per provocarlo fino a che non mi
ritrovai ansante, implorandolo per
ottenere di più.
«Ti fidi di me?» mi domandò con
la voce densa di un'emozione la cui
origine mi sfuggiva.
«Sì» risposi senza esitare.
Era stato proprio così che Tristan
mi aveva insegnato come si sarebbe
sempre
preso
cura
di
me,
soddisfacendomi in ogni modo. Dalle
sue mani percepivo scaturire la cura per
ogni timore che in passato usavo
collegare a questo atto, perciò sì: anche
legata a un letto nutrivo in lui
un'implicita fiducia.
«Bene» mi disse e se ne andò
nuovamente per qualche minuto. L'odore
di mandorla si fece più intenso,
delizioso quasi in modo invasivo.
Quando il letto si affossò
nuovamente, sentii sullo stomaco
qualcosa di caldo e metallico che mi
fece sussultare.
Lui ridacchiò.
«Cos'è?» domandai.
«Non te lo dico ma te lo
dimostrerò.»
La benda era ben stretta ma
riuscivo a percepire una luce in
movimento dal margine inferiore. Aveva
avvicinato la candela.
Inspirai con un secondo profondo
sussulto quando il liquido caldo
gocciolò sulla mia clavicola. Non era
doloroso quanto piuttosto conturbante.
«Cos'è?» domandai.
«Cera calda.»
Lo implorai tremante di rifarlo e
questa volta il calore si diffuse sul mio
stomaco, facendomi contorcere e tirare
le costrizioni. Non faceva male, era solo
talmente intenso da essere sopportato a
fatica.
Gemetti mentre versava qualche
goccia sull'interno coscia, il braccio,
l'incavo del ginocchio alternandosi ai
punti più sensibili del mio corpo ma
evitando palesemente le zone più
erogene.
Arrivò altra cera lungo il mio
collo, sui polsi, sui palmi aperti e sul
dorso dei piedi lasciandomi ansante.
Quando Tristan ne versò qualche goccia
su dita, caviglie, fianchi e costole mi
ritrovai a un passo dall'implorare un
solo tocco da parte sua.
Arrivò il turno delle ginocchia,
l'incavo del gomito e il canale fra i seni.
«Ti prego» mormorai. Avevo
bisogno di altro a parte quel suo
giochetto provocante.
La sua risposta fu una dose
generosa di cera sui miei seni palpitanti,
che mi strappò un grido di desiderio
pungente.
Inarcai il bacino al contatto col
calore, poi iniziai a muoverlo in cerchio
a mo' di preghiera e finalmente, lui ebbe
pietà di me. Iniziò a massaggiarmi la
cera sulla pelle, accarezzandomi,
strizzando e impastando. Il suo tocco era
pieno di rispetto, devozione, amore:
portentoso.
Quando alla fine il suo corpo
coprì il mio e lui si spinse fra le mie
cosce, ero più che pronta. Mi penetrò
completamente, fino alla radice con un
solo colpo profondo. Ero già talmente al
limite che venni urlando grazie
solamente a un paio di movimenti
intensi.
Tristan si sfilò facendomi
mugolare per protesta ma dopo un attimo
si riavvicinò. Mi bloccai, ascoltando
con attenzione un tenue ronzio che
proveniva direttamente da lui.
Si
sistemò
nuovamente,
possedendomi con maggior lentezza
questa volta ma andando sempre in
profondità e quando arrivò a essere
completamente sepolto dentro di me,
percepii nuovamente il ronzio. Pensai
che ci fosse una sorta di vibratore
incorporato a un anello fallico dato il
contatto diretto e perfetto con il mio
clitoride.
Fu implacabile, mi riportò
nuovamente sull'orlo del precipizio
prima di prendersi il proprio piacere,
svuotandosi abbondantemente dentro di
me dove rimase anche dopo,
continuando a baciarmi il collo, le
labbra,
mormorandomi
tenerezze
assolute.
«Ti amo, Danika. Il fatto che tu mi
appartenga è la cosa migliore che mi sia
mai capitata.»
«Sì, sono tua. Ogni battito del mio
cuore Tristan, ogni respiro.»
«Oh, bubu… mia bellissima. Mi
stai davvero dando troppo.» Tremò, «Mi
stai viziando schifosamente.»
«Ogni battito. Ogni respiro,
Tristan. Tua.»
Stavamo facendo un bagno e lui
mi stava lavando mia l'eccesso di cera
quando mi domandò se mi fosse piaciuta
quell'esperienza.
«Sì, anche se pensavo che
avrebbe fatto molto più male.»
«Era una candela a bassa
temperatura, di cera morbida. So che
non ti piace il dolore perciò ho pensato
che fosse la giusta combinazione.
Suggerimento di Frankie.»
«E l'altro aggeggio?»
«L'anello vibrante?» fece un
ghigno malizioso scoprendo i denti
perlacei, «Una mia idea.»
Lo imitai.
«Immaginavo!»
TRISTAN
Ero di nuovo in ritardo.
Mi sentivo un imbecille dato che
avevo perso già le ultime due gare e a
quanto sembrava ultimamente ero
capace solo di arrivare tardi.
Non sapevo bene come fosse
successo, ma il tempo sembrava aver
perso sempre più importanza per me. I
giorni sparivano in un lampo e
continuavo a ripetermi che l'indomani
sarebbe andata meglio, che sarei
arrivato in orario; ma poi ne passavano
altri ed io mi rendevo conto di esserci
caduto ancora e ancora.
Danika era una santa la maggior
parte delle volte: mi guardava con
quegli occhi dolci e mi domandava se
stessi bene o cosa potesse fare per farmi
sentire meglio. C'era sempre qualcosa…
ma bastava semplicemente quel suo
sguardo tenero a riuscirci.
Per questo evento, che si teneva
in uno dei casinò più eleganti, avevo
acquistato un completo. Avevo speso
molto più di quanto pensavo valesse un
abito, ma avevo pagato senza batter
ciglio specie considerato che era fatto su
misura. Era tutto nero, dalla giacca alla
cravatta ma almeno non l'avrei messa in
imbarazzo davanti agli altri ballerini con
il mio solito look da rocker maledetto.
Ero sempre orgoglioso di avere Danika
al mio braccio e volevo che lei lo fosse
di me.
Frankie e la sua nuova ragazza,
Estella, mi aspettavano nella hall
nonostante il mio ritardo. Lei alzò gli
occhi al cielo quando mi vide entrare di
corsa, ma altrettanto velocemente lasciò
perdere e mi presentò. La ragazza alla
quale sorrisi, era piccolina e carina.
Insieme sembravano una bella coppia.
Probabilmente dovevo averla intimidita
(oppure era piuttosto tranquilla) perché
parlò a malapena mentre io e Frankie ci
aggiornavamo. Lei mi studiò con
espressione seria poi mi sfiorò una
guancia.
«Cosa devo fare con te, Tristan?
Hai l'aria esausta e sembri fatto. Cosa ti
sta succedendo?»
Scossi la testa, allontanandola.
«Sto bene, entriamo e basta, ok?»
Non avevo certo bisogno che mi
si ripetesse che brutto aspetto avevo. Lo
sapevo da me. Mi serviva solo la mia
dose di Danika e sarei nuovamente stato
meglio per un po'.
Il posto non era come me l'ero
aspettato ma più grande, con posti in
stile stadio e un'enorme pista da ballo
che stava ospitando svariate coppie.
Eravamo talmente in ritardo che lo
spettacolo era iniziato ma non riuscivo a
vedere Danika.
Ci sedemmo proprio qualche fila
dietro ai giudici e domandai a Frankie
se per caso non ce la fossimo persa, ma
lei fece cenno di no con la testa.
«Toccherà a lei fra poco. Meno
male che sei arrivato, senza contare che
era ora che ti facessi vedere a una di
queste gare!»
«Non dirlo a me… Ho fatto un bel
casino, lo so.»
«Per fortuna Danika ti perdona
quasi tutto. Quella ragazza ti ama
talmente da spaventarmi. Sei un bastardo
davvero fortunato, lo sai?» dichiarò
Frankie con una chiara nota di
rimprovero nel tono.
«Lo so» replicai tranquillo.
«Sai anche che devi darti una
regolata?» domandò a voce bassissima
per evitare che persino Estella, seduta al
suo fianco, riuscisse a sentire.
«Mi hanno detto che stai
prendendo della robaccia inaccettabile.
Lascia perdere quella merda, ok? Se non
vuoi farlo per me, pensa a Danika e
quanto cazzo ti adora. Fallo per lei.»
Annuii. «Lo so.»
Aveva ragione e mi ripromisi di
essere
migliore.
A volte
era
semplicemente
bello
dimenticare,
rifugiarsi nell'oblio; ma sapevo di poter
smettere in ogni momento, appena
sarebbe arrivata la giusta congiunzione.
Molto presto, mi dissi.
Non dovemmo attendere troppo
prima che Danika e il suo partner
scendessero in pista, mano nella mano
con un portamento perfetto per
l'occasione.
Lei indossava un abito rosso, per
quanto non ero certo lo si potesse
catalogare come tale. Era una seconda
pelle senza schiena, con i lati aperti fin
quasi sul davanti; che metteva in mostra
i suoi fianchi stretti e sexy. Aveva una
scollatura profondissima che formava
una V fra i seni. A quella vista iniziai ad
avere la bava alla bocca.
Non avevo idea di come riuscisse
a starle addosso visto il quantitativo di
materiale mancante. Uno degli spacchi
nella gonna fluttuante le arrivava fin
sulla coscia. L'unica parte che
all'apparenza sembrava del tutto coperta
erano le braccia, grazie al pizzo
trasparente.
Era sensuale. Una dea.
I capelli erano raccolti in uno
chignon elegante e mettevano in risalto i
suoi bellissimi lineamenti delicati e il
rossetto rosso fuoco. Il trucco degli
occhi era nero e drammatico e persino
da così lontano riuscivo a vedere le iridi
chiare spiccare, più ammalianti che mai.
Era talmente bella da farmi star male.
Il suo ballerino era snello ma
muscoloso, della sua stessa altezza
considerati i tacchi di lei. Indossava dei
pantaloni aderenti e una camicia aperta
fino all'ombelico. Aveva capelli castani
e un viso ordinario. Mi sembrava uno da
poco…
Iniziarono a ballare e fu subito
qualcosa di trascinante: una danza
intensa, drammatica, piena di giravolte e
movimenti
serrati,
rotazioni
millimetriche e movimenti sensuali.
Danika sollevò una gamba in aria, lui la
prese per una caviglia riabbassandola
lentamente prima che riprendessero
nuovamente a volteggiare, a ruotare, a
dimenarsi su tutta la pista.
Spesso la mano di lui si
agganciava dietro al collo di lei, oppure
la faceva inarcare perfettamente sul suo
braccio in un insieme appassionato,
pieno di rabbia, tensione e desiderio. A
un certo punto, lui le strinse il viso in
modo piuttosto grossolano fra le mani.
Non so come reagii dall'esterno, ma
dentro di me esplosi. Frankie si mosse
in fretta, mi afferrò per un braccio e mi
disse: «Calma, tigre!»
Danika era seducente e riusciva a
incantare tutti con ogni ancheggiamento,
ogni colpetto enfatico delle spalle.
Catturò il pubblico soggiogandolo e
sebbene mi possedesse già, nemmeno io
rimasi immune. Affatto.
C'era tensione sessuale fra quei
due? Un po' sì, almeno da parte di lui e
considerato come quella mezza tacca
continuava a guardarla, avrei contato
fino a dieci molto spesso durante la
serata.
Le figure che entrambi i corpi
disegnavano erano incredibili e
innegabilmente piene di erotismo.
Possibile che lei non fosse attratta da
quello nemmeno un po', specie dato tutto
il tempo passato insieme a esercitarsi?
Strinsi i pugni ripetendomi che mi
stavo comportando da uomo delle
caverne, come avrebbe detto lei.
In certi momenti, Danika si
muoveva con una tale prodigiosa
eleganza che faticavo a rendermi conto
della presenza di lui; mentre in altri
riuscivo solo a concentrarmi su quanto
quel tipo le stesse appiccicato, quanto la
sfiorasse. I movimenti delle sue mani sul
viso di lei erano così liberi, familiari.
Il numero terminò con una
lunghissima giravolta e la gamba di
Danika sollevata sul fianco di quello.
Praticamente gli stava montando la
coscia ed entrambi erano sudati.
Quindici secondi di contatto fra i due
corpi, che ovviamente contai.
Alla fine applaudii più forte e più
a lungo di chiunque; arrivarono terzi ed
io pensai che fosse una gran stronzata.
Non c'era stata una sola ballerina in
grado di reggere il confronto con
Danika, sia per bellezza che per talento.
«Puttanate» borbottai nemmeno
troppo sottovoce.
Frankie mi sentì e mi diede una
gomitata.
«Calmati, il terzo posto è davvero
buono. Le farai le tue congratulazioni e
le dirai che è stata bravissima, proprio
come ogni buon fidanzato.»
Le lanciai un'occhiata contrariata.
«Ovvio che è stata bravissima, io
parlavo dei giudici. Il terzo posto è una
puttanata: non mi serve conoscere il
tango per vedere chi era la migliore.»
Frankie fece spallucce.
«Il terzo è buono. Devono
lavorarci ancora e sono entrambi alle
prime armi. Arrivare a questo risultato
da intermedi e alla terza gara è davvero
un ottimo risultato. I giudici sono
abituati a notare quelle piccole
imperfezioni che noi non riusciamo
nemmeno a cogliere. Perciò datti una
calmata e non fare scenate.»
«Non voglio fare scenate. Vorrei
solo incontrare i giudici per dire che
loro e il loro assurdo terzo posto
possono solo andare a fanculo. Questo
concorso era truccato.»
Lei mi diede una piccola
scoppola sul braccio. «Sei impossibile,
lo sai?»
«Imbroglioni» ripetei fra me e
me, ma poi lasciai perdere. Per quanto
avrei voluto dire la mia, altrettanto
desideravo non imbarazzare Danika in
questa sua serata.
Quando ci ritrovammo al party
del dopo gara la trascinai in un
corridoio vuoto per stare un momento
solo con lei. Ero troppo preso da quel
suo abitino fottutamente sexy.
«Voglio scoparti in piedi mentre
indossi questo pezzetto di stoffa, dov'è il
ripostiglio più vicino? Ti giuro che farò
in fretta.»
Lei rise baciandomi la guancia.
«Allora, ti è piaciuto? Grazie per
essere venuto, so che non è roba per te.»
«Se piace a te, piace anche a me e
tu eri fantastica in pista. Quello che fai è
arte, è stato bellissimo.»
Lei sbatté le ciglia più volte poi
si asciugò gli occhi.
«Grazie, sei così dolce. Sono
felice che ti sia piaciuto. Francamente
pensavo che ti saresti annoiato.»
Scossi la testa con veemenza.
«Fammi vedere dov'è il ripostiglio e ti
mostro quanto non ero annoiato. Potrei
guardarti ballare per sempre, fra le
attività che non implichino il toccarti è
quella
che preferisco in assoluto.
Davvero.»
Mi baciò con un enorme sorriso.
«Sai essere così carino» mi disse a fior
di labbra.
Mugolai, strofinando la mia
erezione contro la sua pancia mentre le
stringevo il sedere. Lei continuava a
definirmi dolce e carino ma io non mi
sentivo per niente così: ero famelico e
forse un tantino in vena di violenza.
«Dobbiamo tornare» sussultò lei.
«Dammi cinque minuti» insistetti
grugnendo mentre le sollevavo la gonna,
«Farò in modo che li valgano.»
«Non qui! Cerchiamo un posto
appartato.»
Feci un passo indietro ansimando.
Mi stavo aggrappando all'ultimo
infinitesimale barlume di autocontrollo.
«Fai strada. Non scherzavo riguardo al
ripostiglio.»
«Lasciami stare i capelli, okay?
La festa andrà avanti per ore e voglio
essere al meglio per incontrare tutte
queste nuove persone.»
Io risi: non aveva problemi col
fatto che la scopassi all'impazzata in uno
sgabuzzino ma era preoccupata per i
capelli…
davvero
dannatamente
adorabile.
Lei arricciò il naso a quel mio
modo di fare.
«Sta zitto! Il parrucchiere ci ha
messo due ore per sistemarli perciò
voglio sfruttarli.»
Mi feci guidare lungo il corridoio
continuando a ridere.
Lei provò ogni porta che
incontrammo finché ne trovammo una
che non era chiusa a chiave. Una volta
dentro, il problema fu individuare le
luci.
Presi vagamente nota del fatto che
fosse un qualche ufficio prima di
appoggiarla alla porta, sollevandole
quel velo di cipolla che chiamava
vestito, fino ai fianchi.
Mi liberai con una mano mentre
con l'altra cercavo di farle scendere il
top dalle spalle ma lei scosse la testa.
«È fermato dal nastro adesivo in
alcuni punti» mi spiegò mentre
accoglieva la mia mano fra le sue
facendola poi scivolare attraverso
l'apertura laterale in modo che potessi
toccare la sua pelle. Svicolai per
stringerle un seno e grugnii, agitando i
fianchi contro di lei fino a sentire la sua
fessura calda e umida. Mi spinsi nelle
sue profondità fino a toccarla col bacino
e per un attimo rimasi immobile,
godendomi quella sensazione perfetta.
Poi con un gemito primitivo innestai la
marcia.
Amavo il modo in cui replicava: i
fianchi che si dimenavano, il respiro
affannoso, i gridolini frammentari.
Amavo l'odore del suo respiro che mi
colpiva il viso.
I miei movimenti si fecero più
scomposti e rudi mentre mi avvicinavo
al mio climax. Ringhiai palpandola,
chiudendo gli occhi mentre assaporavo
l'alternarsi fra le contrazioni quasi
mortali e il morbido rilascio.
«Dio, Tristan, ti amo» gridò.
Sprofondato dentro di lei, del
tutto perso corpo e anima, venni.
Il solo sfilarmi solitamente mi
spingeva a ricominciare ma cercai di
controllarmi. Questo giro era stato
sufficiente per sfogarmi al momento.
Avrei potuto aspettare qualche ora per il
resto.
Ci ripulimmo nel bagno più
vicino e Danika si prese qualche minuto
per sistemare l'abito e rinfrescare il
trucco.
«Quell'abito» dissi lentamente,
lasciando che le parole mi uscissero di
bocca come una carezza.
Lei mi fece il suo sorriso da
seduttrice che a questo punto era di una
potenza devastante.
«Sapevo che l'avresti detestato o
amato da morire.»
«Entrambe le cose?»
Lei rise. «Anche. Fa parte del
numero, serve per catturare l'attenzione
dei giudici.»
«Quindi mi stai dicendo che devo
andare a rifarmela su qualcuno dei
giudici?»
Danika
scosse
la
testa
continuando
a
sorridere.
«Sei
impossibile!»
«Così sembra. In caso non te
l'abbia detto, sei bellissima. L'abito mi
ha fatto esasperare ma su di te è
incantevole.»
Lei arrossì di piacere. «Grazie, i
tuoi complimenti sono in assoluto i miei
preferiti.»
Vagliai
mentalmente
quell'affermazione, intendendola che ne
avesse ricevuti molto da persone che
non ero io. Fu qualcosa di davvero
sorprendente ma non rassicurante. La
parte troglodita di me, quella per la
quale lei mi prendeva in giro, avrebbe
preferito tenerla sotto chiave, destinata
solo ai miei occhi.
«Il tuo ballerino» dissi poi ma lei
m'interruppe con un cenno della mano.
«Innocuo. Un ragazzo molto
gentile, perciò cerca di non spaventarlo
per favore. Stiamo studiando insieme e
finora è sempre stato un ottimo partner.»
Annuii ma la mia mandibola si
tese e considerai l'idea di trascinarla in
un'altra stanza per farmi aiutare a tenere
a bada il mio caratteraccio in un modo
che avrebbe reso entrambi felici. Ma
persi il treno e ci ritrovammo
nuovamente alla festa, a socializzare con
i ballerini. E fra una cosa e l'altra
venimmo separati.
Quando Danika tornò, non era
sola.
«Tristan: questi sono Anthony, il
mio insegnante di ballo e il mio partner,
Preston.»
Pensai che anche il nome fosse da
mezza sega. Gli sorrisi e fu una cosa
sgradevole.
«Piacere di conoscerti» riuscii a
dire fra i denti.
Lui cercò di restituirmi il sorriso
ma doveva inclinare la testa per
guardarmi in viso ed era evidente che lo
intimidissi da morire. Ottimo. Era mia
intenzione fargli davvero paura prima
che finisse la serata. Doveva sapere
cosa aspettarsi se tentava di provarci
con la mia donna.
Danika si spostò per seguire
l'insegnante che la presentava ad alcuni
altri ballerini.
«Sono stato colpito da due taser
in contemporanea una volta e mi hanno a
malapena calmato» dissi al tipo con tono
tranquillo e indolente ma con un sorriso
meschino. Lui assunse un'interessante
sfumatura di verde.
Danika e Anthony tornarono
presentandoci agli altri e l'occhio mi
cadde sulla mano di questi attorno alla
vita di lei. Lui mi era abbastanza
indifferente ma almeno non l'aveva
palpeggiata sulla pista qualche ora
prima.
Il gruppo si mise a chiacchierare
ma io rimasi silenzioso a guardare
Danika, il modo in cui sorrideva e
rideva. Sembrava essere felice insieme
a queste persone.
Preston le stava sempre troppo
vicino, deciso a entrare di diritto nella
mia lista nera. A un certo punto si mise
in ginocchio davanti a lei porgendole
una rosa rossa con un gesto enfatico.
Quando lei allungò la mano per
riceverla lui gliela prese e gliela baciò,
facendo un commento su quanto amasse
lavorare con lei.
Danika gesticolò come se volesse
suggerirgli di lasciar correre ma lui si
alzò e l'abbracciò, sussurrando al suo
orecchio. Non ricordo nemmeno di
essermi spinto verso di loro, ma
all'improvviso ero talmente vicino da
toccarli. Mi sistemai nel mezzo
allontanandolo con un colpo del mio
corpo.
«Basta» dissi, abbracciando
Danika per la vita.
Lei mi strinse la spalla. «Per
favore Tristan, non…»
«Ok, ma tu digli di non toccarti
più.»
«Siamo ballerini» intervenne
Preston
arrossendo
intensamente.
Sembrava ancora spaventato dalla mia
presenza ma non abbastanza, era ovvio,
«Dobbiamo toccarci.»
«Non adesso. Non siete in pista.»
«Tristan, ti prego» mi riprese lei
sottovoce e con tono mortificato.
«Okay,
okay»
mi
arresi,
guardando Preston.
La lasciai andare facendo a lui un
sorriso falso e tendendogli la mano,
«Scusa, amico.»
Lui la accettò con aria non troppo
felice ed io ridacchiai mentre gliela
stritolavo, avvicinandomi per dargli
anche un buffetto sulla spalla. Strinsi
ancora e ancora continuando anche a
dargli schiaffetti sulla schiena. Volevo
solo fornirgli un assaggio di quello che
avrei potuto fargli, di quanto fossi forte.
Mentre mi ritraevo notai dai suoi
occhi spalancati che aveva ricevuto il
mio messaggio forte e chiaro… avrei
potuto farne polpette e a dire la verità
mi sarebbe davvero piaciuto.
Da quell'evento passammo a una
seconda festa e Preston rimase sempre
troppo vicino, tanto da irritarmi; ma
sospettavo che qualsiasi cosa avesse
fatto, ricordandomi della sua esistenza e
di quelle sue mani addosso alla mia
ragazza con una tale autorevolezza in
pista, mi avrebbe fatto davvero
infuriare.
Tenni le mani addosso a Danika in
modo possessivo e costante seppur con
naturalezza, affermando il mio diritto su
di lei senza riserve né rimorsi.
La stringevo per la vita mentre mi
presentava amici o conoscenti, oppure le
accarezzavo
il
fianco
mentre
ascoltavamo
il
suo
insegnante
sbrodolare su di lei. A volte la mia
mano saliva sulle costole per spingerla
più vicina a me mentre le dita si
avventuravano nel territorio del seno.
Lei non si scostava mai, aderendo a me
sempre più nonostante quello non fosse
il posto adatto, negandomi niente.
Dopo aver solcato tutto il suo
corpo, la mia mano terminò il viaggio
sul suo sedere, dove si assestò
stringendoglielo. Fu allora che incontrai
lo sguardo curioso di Preston: mia,
dicevano i miei occhi. Tu puoi prenderla
in prestito per un giro di ballo, ma
questo è tutto mio.
Gli sorrisi mostrandogli i denti.
Appena la trovai nuovamente sola
nel corridoio, la baciai. Voltai la testa
conquistando la sua bocca per lunghi
minuti, infilandole dentro la lingua con
seducente
aggressività.
Quando
interruppi il bacio per guardare il suo
dolce viso, Danika aveva gli occhi
chiusi, l'espressione morbida e le labbra
schiuse dal desiderio.
Non c'erano imbrogli in questo
caso, né c'erano mai stati. Non da parte
sua. Fin dall'inizio avevo letto una
deliziosa passione nel suo sguardo, nella
sua
innocenza,
nell'immeritata
devozione. Questa donna mi amava.
La baciai nuovamente e lei si
staccò ansimando.
«Penso che dovremmo andare.
Vado a dirlo ad Anthony e Frankie.»
Io andai in bagno e come se fosse
destino, incappai in Preston mentre
uscivo.
Mi fece un cenno educato
aspettando che lasciassi libero il
passaggio, ma io rimasi lì a fissarlo.
Aveva uno sguardo onestamente
innocente, una cosa che m'irritò.
Probabilmente non aveva mai fatto nulla
in vita sua che lo portasse a odiarsi, il
che me lo rese ancor più detestabile.
Forse, se anch'io fossi stato una
mezza tacca insipida come lui, avrei
meritato l'amore di Danika. Ma non lo
ero: ero un uomo incasinato, con una
lista di rimpianti tanto lunga da
devastare la mia mente durante il giorno
e spingermi a non riuscire a dormire
senza l'aiuto di sostanze chimiche la
notte. Sarei stato dannato prima di
lasciare che quell'inutilità di uomo mi
soffiasse la ragazza.
«Ce ne andiamo» gli dissi, «Per
stare soli» non riuscii a non aggiungere e
lui annuì.
«Sei un uomo fortunato.»
Arricciai un labbro. «Puoi
scommetterci. Sono sicuro che vorresti
avere la mia fortuna.»
Lui annuì semplicemente e tornò a
sorridere in modo gradevole.
«Non posso negarlo, come lei ce
n'è una su un milione: dolce, bellissima
e piena di talento, divertente. Mi fa
sempre sbellicare dalle risate in studio.»
Quello mi fece incazzare a livelli
ridicoli e la presi all'istante come
un'offesa.
«Pensi di conoscerla come me?»
gli domandai.
I suoi occhi si spalancarono pieni
d'innocenza. «Non stavo cercando di
offenderti. Non hai alcun motivo per
stare sulla difensiva: lei ti è fedele.»
Non lo lasciai
terminare,
prendendolo per la camicia e
sollevandolo fino a portarlo in punta di
piedi. Lo sbattei contro il muro
piazzandomi davanti a lui.
«Non pensarci nemmeno! Non
avrai mai alcuna possibilità con lei, mai.
Perciò, se credi che investendoci
abbastanza tempo in un modo o nell'altro
riuscirai a prendertela, puoi scordartelo.
Io sarò sempre qui, fra i piedi. Perdannatamente-sempre, intesi?»
Lui non replicò, guardandomi con
aria spaventata ed io lo lasciai andare
disgustato.
Bene, pensai. Qualsiasi cosa era
meglio
di
lui
che
parlava,
raccontandomi quanto ci tenesse a lei.
Mi resi conto solo quando mi
voltai che avevo pubblico: Frankie,
Estella, Anthony e ovviamente Danika
erano poco lontano, che mi guardavano
con varie gradazioni di stupito orrore.
La reazione di Frankie fu la più
scontata: si batté una mano sulla fronte
borbottando: «Che cazzo, amico?»
Lo sguardo di Estella era
scioccato ma lei non disse una parola.
Probabilmente, pensai, a ogni minuto
che passava la spaventavo sempre più.
Anthony scuoteva la testa, le mani
sollevate in aria come se avessi fatto
chissà cosa a parte prendere quel tizio
per la camicia. Danika invece mi
guardava e basta, con le braccia
conserte e lo sguardo afflitto. Dopo un
lungo momento si avvicinò a Preston, gli
sfiorò un braccio e gli domandò se
stesse bene.
«Sto bene» rispose lui tremante,
«Bene. Solo un malinteso.»
Per un qualche strano motivo,
quella risposta mi fece desiderare di
stenderlo con un pugno.
Lei lo abbracciò velocemente:
«Grazie per non essertela presa, ci
vediamo la prossima settimana.»
Lo lasciò e si voltò ma lui la
fermò con una mano sul suo braccio e le
disse qualcosa a voce troppo bassa
perché sentissi.
Mi preparai a saltargli addosso
ma Danika mi raggiunse e cercò di
allontanarmi via da lui, spingendomi per
il petto. La lasciai fare: se veniva con
me, mi stava bene. Mi allontanò come se
ci fosse un incendio e non parlammo
fino a che non fummo in viaggio verso
casa. Eravamo nella sua macchina, io
avrei recuperato la mia più tardi.
«Perché Tristan? Perché ti sei
comportato a quel modo? Ti ha detto
qualcosa di brutto?»
Scossi la testa, non avevo una
scusa buona come quella.
«È così stucchevolmente gentile!»
Lei mi scoccò un'occhiata
sbalordita. «Mi prendi in giro? Hai
attaccato un mio amico solo perché è
gentile?»
La mia mano tagliò l'aria con un
movimento negativo. «No, ma quello ha
dato una mano. È quel tipo di idiota
ingenuo che mi ricorda quanto io sia
incasinato. La vita per quel tuo Preston
deve essere stata una specie di stupido
pic-nic, nella quale è cresciuto senza
che gli succedesse mai niente di
negativo.»
«Innanzitutto, non è il mio
Preston; seconda cosa, non sai nulla di
lui o di cosa abbia passato.»
«Oh, quindi mi sono sbagliato?
Non proviene da una fottutissima
famigliola perfetta, con due genitori
probabilmente ancora sposati, che
pensano che il sole tramonti nel suo
culo?»
La sua bocca si torse, ma era
chiaro che stesse cercando di non ridere.
«Come lo sapevi? Avete parlato?»
«Si capiva e basta. Le stelline nel
suo sguardo brillavano eccessivamente.
E abbiamo parlato di te, sai che ha una
bella cotta, vero?»
Lei fece una smorfia. «Sa
perfettamente che non sono interessata.»
«Allora è un sì, lo sai. Ottimo: hai
una riserva in caso io mandi tutto a
puttane.»
Lei accostò la macchina e si voltò
per guardarmi. «Cosa ti ha preso? È
successo qualcosa?»
Chiusi gli occhi e la testa mi andò
all'indietro contro il sedile. Ero stato un
imbecille e lo sapevo perfettamente.
Avevo lasciato che la mia gelosia
prendesse il sopravvento e per quello mi
sentivo un vero testa di cazzo.
«Mi dispiace, ok? So che sono
stato un idiota» mi scusai. Suonava
come una pezza.
«Tristan rispondimi: è successo
qualcosa?»
Detestavo discutere di certe cose
e questa era una. «Mia madre mi ha
chiamato prima solo per dirmi che le
manca Jared e che ancora m'incolpa.
Dolce, uhm?»
Non importava quanti anni avessi,
riusciva a farmi sentire feccia con un
paio di brevi frasi.
Danika produsse un suono dolce e
confortante, slacciò la cintura e
sedendomisi addosso mi abbracciò
stretto. La ricambiai con una forza tale
da spremerle fuori l'aria dai polmoni.
«Tristan, sai che non ha ragione,
vero? Sta solo abbaiando alla luna,
come un animale ferito che attacca
chiunque arrivi alla sua portata.»
«Sì, lo so» dissi piano fra i suoi
capelli. Non era esattamente così, ma
era la risposta più facile. Più che della
sua comprensione avevo bisogno del suo
conforto.
«Sei arrabbiata con me per
Preston?» domandai.
Non meritavo il suo perdono, ma
mi sarebbe servito se volevo continuare
a respirare. Avevo perso il controllo,
quello era indubbio, eppure lei non
esitò.
«No. Voglio solo che tu ti prenda
maggior cura di te stesso e che gestisca
meglio il tuo caratteraccio.»
«Lo farò» le promisi con tono
solenne.
CAPITOLO
DICIANNOVE
DANIKA
Mi arrivò un sms da parte di
Tristan che mi chiedeva di incontrarlo a
un'ora specifica al suo appartamento.
Non seppi esattamente perché, ma
m'insospettii subito. Non mi sembrava
affatto un messaggio dei suoi: stava
succedendo qualcosa, me lo sentivo.
Lo chiamai e richiamai. Gli
mandai sms dopo sms ma le sue risposte
erano brevi e ciascuna riconduceva
sempre all'orario in cui mi sarei dovuta
presentare a casa sua. Non avrei potuto
metterci la mano sul fuoco, ma tutto
puzzava di Dean.
Decisi di arrivare in anticipo.
Entrai. Era tutto molto tranquillo,
deliberatamente tranquillo a dirla tutta.
Sentivo Dean che parlava ad alta
voce da qualche parte e una donna che
rispondeva. Quando mi avvicinai, mi
resi conto che era Nat. Attesi dall'altra
parte della parete rispetto al corridoio
che conduceva alle due camere,
cercando di capire cosa stessero
dicendo. Pur riuscendo a captare solo
qualche parola in qua e in là, mi resi
conto che stavano complottando
qualcosa di brutto. E in tutto quello, non
c'era segno di Tristan.
Dean augurò chiaramente buona
fortuna a Nat, entrando in camera sua e
chiudendo la porta ed io mi mossi. Il
corridoio era deserto. Sapevo cosa
significava, eppure non riuscii a credere
a ciò che vidi quando aprii lentamente la
porta della camera da letto buia.
Accesi la luce proprio mentre
Stronzalie, in topless e con le tette finte
che si muovevano appena, si stava
togliendo gonna e mutandine. Era a quasi
due metri dal letto su cui un Tristan
letteralmente in coma non stava facendo
nemmeno una piega.
Quando lei mi vide sobbalzò con
aria colpevole. Ironia della sorta, se
fosse davvero stata pronta per farsi il
mio uomo dietro le mie spalle,
probabilmente
non sarebbe
mai
sembrata così. Essere beccata a fingere
doveva averla destabilizzata.
«Davvero?» le gridai, oltremodo
scocciata.
Quella puttanella non ebbe
nemmeno la decenza di coprirsi. Lasciò
cadere del tutto la gonna e la scavalcò
poi scrollò le spalle e il suo sguardo
colpevole si trasformò in un ghigno
malefico.
«Scusa Danika. Non siamo
riusciti a evitarlo, sai che la nostra è una
storia di lunga data.»
«Stai facendo sul serio?» ripetei
raggiungendola. Volevo chiudere le mani
attorno a quel suo piccolo collo
abbronzato artificialmente.
Lei fece un passo indietro e un
altro ancora. «Non riusciamo a stare
lontani l'uno dall'altra.»
Diedi al Tristan addormentato
un'altra occhiata, allarmata dalla sua
immobilità.
«Cosa gli avete fatto, l'avete
drogato? Sei davvero così disperata da
credere che ci sarei caduta, beccandoti
mentre ti spogliavi con lui già
addormentato? Non credevi che sarei
arrivata prima, stupida troietta?»
«Fanculo» mi gridò.
Le
diedi
un manrovescio
facendola barcollare all'indietro. Era la
prima volta in vita mia che compivo un
singolo atto di violenza, ma non era
finita: lei cercò di graffiarmi quando la
presi per i capelli ed io la schiaffeggiai
di nuovo, allontanando facilmente le sue
mani. Avevo raggiunto il mio punto
critico di rabbia che ora era la mia
bussola.
La sbattei forte a terra,
indietreggiando disgustata dall'averla
dovuta toccare.
«Credi che se anche rompessi con
lui, ti rivorrebbe? Smettila di illuderti: ti
sei scopata mezza Las Vegas, sei merce
avariata e lui non ti vorrà mai indietro,
stupida puttana.»
Notai un movimento con la coda
dell'occhio e mi girai vedendo Dean
sulla porta, il suo solito ghigno da figlio
di
puttana
completamente
fuori
controllo, per via di quello che stava
accadendo.
«Oh, beccato» esclamò divertito
da matti, «Brutto colpo Danika: a quanto
pare Tryst non ha ancora dimenticato la
sua ex.»
Afferrai il primo oggetto a portata
di mano, il posacenere, e glielo tirai in
testa. Lo schivò a malapena.
«Pezzo di merda» gli gridai,
«Anche tu pensavi che ci sarei caduta?
Beh, sei trasparente come l'acqua,
idiota. Vi ho sentiti complottare
settimane fa e me l'aspettavo. Cosa
pensavi? Vuoi che Tristan lasci il
gruppo? Perché se gli racconto quanto
c'entri in questa roba, lo farà.»
La
sua
reazione
parve
appropriata: si mostrò preoccupato.
Andai da Tristan e gli sentii il
battito. Era davvero così immobile da
dover essere controllato. Le pulsazioni
c'erano, normali e regolari per quanto
basse, pensai. Si mosse leggermente al
mio tocco ma non si svegliò.
«Cosa gli avete fatto?» sibilai
verso Dean.
«Niente! Te lo giuro, cazzo! Ha
fatto tutto da solo, posso confessare il
resto, ma non questa merda. Deve solo
recuperare il sonno.»
Suonava sincero ma continuai a
fissarlo
chiedendomi
se
stesse
mentendo. A quel punto non mi sarei
sorpresa più di nulla.
«Che diavolo hai che non va?
Cosa speravi di ottenere con questa
stronzata? Volevi farti prendere a calci
in culo da lui?»
Dean fece spallucce e quel suo
sorriso snervante tornò a decorargli il
viso.
«Seriamente, che cosa vuoi?»
«Voglio che tu te ne vada» mi
rispose sorridendo, «Da quando è
diventato schiavo della tua fica è
diverso. Pur di stare con te, tutto quanto
dalla band alle opportunità svanisce,
tutto rovinato da Yoko Ono.»
Se il mio sguardo avesse potuto
fargli del male fisico, sarebbe caduto a
terra morto dissanguato da un milione di
ferite.
«Lo so com'è fra voi» proseguì,
«Credi che non vi abbia sentiti? Che
ridere! Vi ho anche visti, non siete certo
due che andate per il sottile… pensi di
poter scopare nella mia cucina senza che
io vi veda? Beh, vi ho guardati: in
salotto contro la porta, ho visto il modo
in cui te lo porti a spasso tenendolo per
il cazzo; come glielo stritoli quando
vieni, tanto da farlo uscire di testa. Sei
brava a scopare, te ne do atto. Ormai
l'hai talmente incantato che Tristan non
riesce più a capire niente ma io sì. Se
c'è una scelta da fare fra te e la band, e
c'è, io scelgo la band. Scelgo questo
gran bell'affare che ci hanno proposto;
mentre a causa tua Tristan sta buttando
tutto nel cesso.»
Prima di riuscire a replicare
dovetti mandare giù un bel po' di bile.
«Beh, è lui che deve scegliere.
Cosa pensi che sarebbe successo questa
sera? Credi che ti avrebbe ringraziato se
i tuoi piani fossero andati in porto? Non
ti avrebbe più parlato e alla fine il tuo
gran bell'affare sarebbe andato a monte
per colpa tua. Se vuoi che lui arrivi alla
fine di questo disco lasciaci in pace, stai
fuori dalle nostre vite. E se sei
abbastanza intelligente, non rivolgermi
mai più la parola. Se farai così non gli
racconterò di questa tua trovata, anche
se te lo meriteresti. Siamo intesi?»
Il bastardo accettò prontamente
ma sapevo di non potermi fidare e
passai il resto della notte a cercare di
capire se avrei raccontato o meno a
Tristan l'accaduto. Il problema era che
non potevo prevedere la sua reazione e
la cosa mi spaventava. Il suo era un
carattere volubile, specie quando si
trattava della parte protettiva.
Non dormii, troppo preoccupata e
ansiosa sul da farsi. Ogni paio d'ore
riuscivo a farlo rispondere giusto per
sicurezza, ma poi lui piombava
immediatamente nel sonno più profondo.
A che punto avrebbe avuto bisogno di
andare in ospedale? Come sapevi se una
persona era in overdose? Non riuscivo
nemmeno a credere di dovermelo
chiedere. Cos'avevo ignorato da
ritrovarmelo a questo punto senza
essermene accorta? Sotto certi aspetti
eravamo davvero fatti l'uno per l'altra:
ero complice in quella sua dipendenza e
pur sapendolo, avevo lasciato correre
tanto che le cose ci erano sfuggite di
mano.
In parte mi davo ogni colpa:
nonostante sapessi
quanto fosse
sbagliato era un sentimento difficile da
abbandonare. Dovevo riuscire in
qualche modo a prendermi miglior cura
di lui, in modo che non capitasse più
nulla di simile. Ero sempre troppo
occupata con una cosa o un'altra ma
avrei dovuto trovare più tempo per
sistemare questa cosa, per aiutarlo a
superare i suoi demoni, perché era
chiaro che lo stessero divorando vivo.
Tenni d'occhio le sue reazioni,
vegliandolo tutta la notte. Non riprese
mai conoscenza fino alla tarda mattinata.
Avevo ormai attraversato tanti di quegli
sbalzi di umore, che quando si riprese
non ebbi il cuore di rifarmela su di lui.
Anche quando si risvegliò, ci
mise un po' per tornare lucido
abbastanza da riuscire a parlare e
quando accadde, gli dissi tranquilla:
«Non puoi rifarlo ancora. Non è giusto.
Devi iniziare a prenderti maggior cura
di te.»
Lui non protestò, accettandolo
senza fatica. «Hai ragione, mi dispiace.
Non succederà più. Sei qui da ieri
sera?»
Annuii, tacendogli il fatto che
ogni secondo era stata una tortura per
me.
C'era un'àncora legata a entrambe
le sue caviglie che lo stava portando
sempre più giù, nelle profondità più
buie e insondabili, facendolo affogare in
modo lento ma costante.
E non riuscii a dirgli che mi stava
portando giù con sé.
CAPITOLO
VENTI
DANIKA
Ero sdraiata su un tappeto come
una bambina di cinque anni, con Mat da
una parte e Ivan dall'altra.
«Tre dentro al letto e dice il
piccoletto» gridò Ivan, steccando più
che cantando.
«Rotola
giù»
rispose
ad
altrettanto volume Mat.
«Rotola giù» cantai io.
E rotolammo, ma poiché non
eravamo dentro al letto Ivan saltò in
piedi invece di cadere fuori,
indietreggiando di due passi e ridendo.
«Bubu, tocca a te!» si lamentò
Mat dandomi una gomitata.
«Due dentro al letto e dice il
piccoletto» cantai stonata a mia volta ma
senza urlare.
«Rotola giù» gridò Mat, a un
volume degno di un coro metal.
Io mi alzai e lasciai che lui
terminasse il gioco. Avevo promesso di
fare un giro di Rotola prima di cena.
«Uno nel letto e dice quello
FANTASTlCO, rotola giù! ROTOLA
GIÙ!»
Rotolò poi si alzò ridendo: «Ho
vinto.»
«Questo gioco non ha vincitori,
stupido» gli disse Ivan.
«Hey, allora!» lo ripresi, «Niente
parole brutte. Se ti sento ancora, te ne
vai in camera tua.»
«Okay, bubu. Cosa c'è per cena?
Posso aiutarti?»
Gli sorrisi pensando che fosse il
ragazzino più carino del mondo.
«Già, bubu, cosa c'è per cena?»
domandò la vociona di Tristan dalla
porta d'ingresso sulla quale stava da
chissà quanto.
Sorrisi. Come sempre mi era
mancato da morire, ma rimasi lì dov'ero.
Avevamo deciso di non scambiarci
effusioni davanti ai bambini ed ero
abbastanza sicura che se fossi arrivata a
un metro da lui gli sarei saltata addosso,
perciò rimasi ferma guardandolo.
Sembrava un po' fatto ma mi
guardava con dolcezza, sorridendo e
dato che non volevo trovare da dire,
rimasi in silenzio.
«Ho diritto di prelazione ad
aiutarti in cucina però. Sono piuttosto
certo di superare di grado il piccoletto
di otto anni.»
«Hey» protestò Ivan.
«Tu mi concedi di aiutarla ed io
preparo i miei famosi biscotti dopo
cena. Ci stai?»
«Ok» rispose l'altro già fuori
dalla stanza. Concluso quell'affare, era
pronto per continuare a divertirsi.
«Ci sei mancato, Tristan» gli
disse Mat, facendogli un enorme sorriso
che mise in luce la finestrella lasciata
dal dente recentemente caduto.
«Anche tu mi sei mancato,
piccolo. E mi piace come canti. Vedo
una band heavy-metal nel tuo futuro.»
Mat increspò il nasino. «Cos'è?»
Scossi la testa.
«Te lo spiegheremo quando sarai
più grande per interessartene. Intanto
perché non vai a dire a tua madre che la
cena sarà pronta fra mezz'ora?»
«Ok.» Scappò via, fermandosi
brevemente per dare un colpetto di testa
alla gamba di Tristan che in cambio gli
arruffò i capelli. Una cosa adorabile.
Una volta lontani i bambini, ci
ritrovammo in cucina per salutarci.
«Mi sei mancata, bubu» mormorò
staccandosi da un lunghissimo bacio, «E
vederti con quei bambini…»
Deglutì. «Non vedo l'ora di
vederti fare la mamma. Sei nata per
quello.»
Mi spostai impegnandomi con la
cena e ricacciando lacrime melense. Lui
mi abbracciò da dietro, le sue mani sulla
mia pancia premettero e massaggiarono.
«Sono stato troppo vago: quello
che intendevo dire è che non vedo l'ora
di vederti come madre dei miei bambini.
Credo di volerne cinque.»
Sorrisi, coprendo la sua mano con
la mia e inspirai.
«Chi lo sa, magari potrei già
essere incinta.»
«Non sarebbe fantastico?» lui mi
stuzzicò il collo.
«Lo sarebbe?» gli feci eco
pronunciando ogni parola chiaramente.
Avrei voluto dire di più ma persi
il coraggio e anche l'attimo.
Dopo cena, portammo fuori i cani
e i bambini per una passeggiata. I
ragazzi notarono alcuni amici che
giocavano e corsero a raggiungerli. Io e
Tristan ci fermammo, lasciando ai cani
più corda per girare liberi.
Tristan teneva il grosso dei
guinzagli ed io avevo una mano libera
nella quale stringevo il mio cellulare.
Dato che non ero in grado di trovare le
parole mi pareva più facile che fossero
le immagini a spiegarlo meglio.
C'era qualcosa di simile al crollo
nervoso nell'idea di dovergli dare la
notizia: ne avevamo parlato fino allo
sfinimento e nessuno poteva certo
affermare che non ci fossimo impegnati
al massimo. Anche così però, mi
tremava la mano quando gli mostrai la
foto sul cellulare.
Mostrava il risultato di tre test di
gravidanza: su uno c'era una croce blu,
su uno c'era scritto semplicemente
INCINTA e nel terzo si vedevano due
righe parallele rosa scuro, una
leggermente più scolorita dell'altra.
Tre risultati positivi da tre marchi
diversi. Ero stata meticolosa.
Inizialmente lui non reagì, come
se quella cosa non avesse senso per lui.
Lentamente, le sue sopracciglia si
aggrottarono e sulle sue labbra
comparve una domanda. Mi tolse il
cellulare dalla mano avvicinandoselo al
viso nemmeno faticasse a vedere bene.
«Ma che…?» domandò con voce
strozzata, «Che diavolo…?»
Considerato tutto, il fatto di
esserci riusciti non sarebbe dovuto
essere uno choc per noi, ma per me
invece lo era. E a giudicare dalla
sorpresa sul suo volto, anche per lui.
Mi resi conto troppo tardi che
aveva mollato il guinzaglio nella mano
destra. Quello peggiore.
Sussultai, indicando. Coffeecup
era partito con uno sprint ed era già
lontano.
«Coffeecup» esclamai, «I polli.»
«Merda»
gridò
Tristan
allungandomi il resto dei guinzagli e
infilandosi il mio cellulare nella tasca
sul retro prima di mettersi a correre
dietro a quel cane impazzito.
«Parolaccia,
parolaccia»
si
misero a ripetere alcuni ragazzini nel
giardino.
Se avessi avuto una mano libera
mi sarei data una pacca in fronte.
Non corsi assieme a lui come
avrei fatto normalmente. Non avrei più
saltato i fossi per inseguire i cani per un
bel po'. Tenni il resto dei guinzagli e
attesi col cuore in gola.
I ragazzi mi si avvicinarono con
aria preoccupata. Mat mi tirò per la
maglietta, aveva gli occhi spalancati e la
bocca aperta a formare una O. Essendo
impegnato a parlare con gli amichetti
non si era reso conto della fuga.
«Cos'è successo, bubu?»
«Coffeecup si è sciolto.»
«Oh, no» gridò Mat.
«Sarà un bagno di sangue»
aggiunse Ivan, suonando un po' troppo
felice all'idea.
«Ivan» lo ammonii.
«Pollo per cena» annunciò ad alta
voce con un certo apprezzamento,
facendo scoppiare a ridere i figli dei
vicini.
Alzai gli occhi al cielo... Ragazzi.
«Magari non ne ammazzerà
troppi» cercò di rassicurarmi Mat
guardando la mia espressione, «Non
preoccuparti, bubu. Credo abbia
mangiato prima di uscire.»
Non potei nascondere una risata e
gli baciai la testa.
Tristan tornò in fretta con
Coffeecup. Stava correndo. Sul muso del
cane non c'erano macchie di sangue, il
che era positivo.
«Preso in tempo» ansimò
fermandosi davanti a me. Consegnò il
guinzaglio a Mat e dopo avermi preso di
mano gli altri, li porse a Ivan con un
sorriso talmente enorme da essere
accecante.
Sistemati i cani mi si avvicinò,
finalmente guardandomi.
Portò le mani sui miei fianchi e
mi sollevò facendomi girare. Nei suoi
occhi c'erano meraviglia, gioia e un
chiaro desiderio. Tutto ciò che avevo
sperato.
Lui
aveva
sempre
voluto
ardentemente questo bambino, come me.
«Fatico a crederci» mi disse
piano mentre mi abbassava.
Sorrisi incerta. «Stupefacente,
vero?»
Il suo sorriso si fece dolce e
tenero
come
mai
avrei
osato
immaginare.
«È magnifico, la miglior notizia
mai avuta. Tu sei una gioia per me,
Danika. Un miracolo.»
CAPITOLO
VENTUNO
TRISTAN
Spensi il motore fissando con
trepidazione la casa di mia madre e
Danika mi diede un buffetto rassicurante
sulle spalle. Era stata una sua idea. Io
sarei rimasto lontano per il resto della
vita, ma sapevo che aveva ragione:
questa cosa andava sistemata, che mi
piacesse o meno, l'essermi allontanato
da mia madre mi pesava molto.
«Tu vieni?» le domandai.
«Aspetto qui un po'. Credo sia
meglio così, no? »
Che ne pensavo? Non lo sapevo.
A essere onesto non avevo alcuna voglia
di affrontare la cosa. Mi serviva da
bere, ma stavo cercando di non
assumere alcolici di mattina quando ero
con Danika.
«Augurami buona fortuna» le
dissi con un profondo sospiro, uscendo
dall'auto.
«Buona fortuna» mi disse lei in
modo
incoraggiante,
prima
che
richiudessi lo sportello.
Bussai alla porta, poi suonai il
campanello e attesi un intero minuto
prima di entrare. Alla fine usai la mia
chiave, spaventato all'idea di quel che
avrei trovato.
Era un casino, dal pavimento al
soffitto. I quadri erano stati tolti dai
muri, un vaso colorato che solitamente
stava sul tavolino dell'ingresso, giaceva
in frantumi sul pavimento. Mia madre
doveva essersi data alla pazza gioia
alcolica e la cosa non mi sorprese
nemmeno un po'.
La cucina era ricoperta di
sporcizia, i piatti con gli avanzi di cibo
marcio riempivano il lavandino. Pensai
che fossero ancora lì dal funerale…
Dovetti coprirmi naso e bocca per non
vomitare mentre la attraversavo. Il resto
della casa non era messo certo meglio,
anche se nessuna stanza raggiungeva i
livelli della cucina. Sembrava passato
ovunque l'inferno.
Avevo già visto mia madre
comportarsi così, in particolare dopo le
separazioni più brutte, ma mai arrivare a
un livello talmente estremo.
La trovai in soggiorno, sdraiata
sul divano con addosso dei pantaloni
della tuta e un accappatoio. La bottiglia
di tequila aperta era a portata di mano.
Era cosciente e abbastanza in sé da
riconoscermi a prima vista.
«Tu» mi additò con un sogghigno,
«Tu hai il fegato di farti vedere qui.»
Dovetti togliere una pila di abiti
per potermi sedere sulla poltrona
davanti a lei. Incrociai il suo sguardo
malevolo con un certo sforzo.
«Sono venuto a controllarti,
Danika pensava che potessi avere
bisogno di un po' d'aiuto. Aveva
ragione.»
«Lasciala fuori! Questa è una
cosha fra noi» disse trascinando le
parole.
Sospirai: avevo sperato che
concedendole tempo sarebbe riuscita a
ragionare, ma sembrava proprio che non
fosse così. Era ancora determinata a
darmi ogni colpa.
«Cos'è fra me e te? Coraggio,
sentiamo.»
«Tu hai ucciso il mio bambino! Tu
e i tuoi amici e quella stupida band.
Sempre in giro per feste a bere, a
puttane… avete corrotto il mio piccolo.»
Scossi la testa guardandomi
attorno: se voleva incolpare qualcuno
perché il suo ultimogenito era andato in
overdose per un mix di droghe e alcool,
avrebbe dovuto guardarsi allo specchio.
Mi sforzai di non dirglielo. Ero venuto
per cercare di aiutarla, non per farla
stare peggio ma non passare al
contrattacco andava oltre ogni mio
istinto.
«Io volevo bene a Jared, mamma.
Pensi che questa cosa non stia uccidendo
anche me? Farei qualsiasi cosa per
tornare indietro ed evitare quello che è
successo, lo capisci? Non ero nemmeno
con lui quando è successo…»
Lei iniziò a singhiozzare. «Il mio
piccolo era tutto solo quando è morto,
come hai potuto lasciarlo così?»
«Se avessi potuto, sarei stato con
lui. L'avrei fermato.»
«Sei stato tu a fargli conoscere le
droghe! È tutta colpa tua.»
Lei afferrò il primo oggetto a
portata di mano per scagliarmelo contro.
Beh, quasi… Non riuscii a non notare
che nonostante ci fosse prima la sua
preziosa bottiglia di tequila, lei aveva
scelto la lampada, uno dei pochi oggetti
ancora intonsi nella stanza.
La scansai facilmente, cercando
di ignorarla, di evitare i suoi vaghi strali
e gli insulti mirati ma iniziò a farneticare
su come fossi stato io a far scoprire le
droghe a Jared, una cosa che non riuscii
a sottovalutare. Alzai un dito e lo puntai
dall'altra parte della stanza, verso un
grosso bong che lei aveva lasciato
aperto sul divisorio della cucina.
«Mi prendi in giro? Sei davvero
così ubriaca da non ricordare con chi
stai parlando? Quanti anni avevo quando
hai iniziato a passarmi le tue canne? E
quanti ne aveva Jared?»
«Fottiti! Sei tu quello che lo
faceva ubriacare a tredici anni.»
Mi sentii scuotere in preda alla
rabbia e pur sapendo di dovermene
andare, rimasi.
«Vogliamo fare finta che fosse la
sua prima volta? Questo? Tu, la mamma
che pensava fosse divertente far
ubriacare i figli alle feste, tu mi stai
dando la colpa?»
Si alzò piangendo, attraversò la
stanza, prese un vaso di vetro dal
pavimento e me lo tirò in testa ma io mi
chinai. Lei allora iniziò a tempestarmi il
torace di pugni.
Quelli non li schivai, lasciai che
si sfogasse. Non avevo l'energia
sufficiente per combattere con lei troppo
a lungo, perché la triste verità era che
nessuno scontro ci avrebbe mai riportato
Jared. Se l'odio fosse servito, sarebbe
stato facile riavere indietro mio fratello
per sempre; ma dato che nemmeno
quello funzionava, non riuscivo a farci
affidamento per un tempo superiore a
quello necessario a sfogare la mia
rabbia ad alta voce.
«Bastardo»
sbraitò
lei
continuando a tirare pugni che io subii
ancora e ancora.
Da ubriaca era sempre stata
volubile ma non aveva mai colpito con
tanta forza, perciò non mi ero mai
lamentato molto.
Quando Danika entrò, fu questa la
scena che si trovò davanti: mia madre
che batteva contro il mio petto
gridandomi ogni tipo di maledizione. La
cosa non la fermò. Ci si avvicinò e mi
tolse mamma da dosso.
«Non osare» avvertii allora
Leticia con voce bassa e mortale. Non
ero sicuro di come avrei reagito se
avesse messo le sue mani anche addosso
a Danika, ma sapevo che nessuno aveva
bisogno di scoprirlo. Per sua fortuna,
per fortuna di tutti, mia madre si
tranquillizzò
accasciandosi
e
singhiozzando contro il collo della mia
ragazza.
Danika la riportò gentilmente al
divano per farla sedere, accarezzandole
con dolcezza la schiena e mi lanciò
un'occhiata comprensiva. Riuscivo a
vedere dalla rigidità della sua bocca
come a sua volta stesse tenendo a freno
il carattere. Sapevo ciò che provava nei
confronti di mia madre, quanto la
facesse arrabbiare quella sua scelta di
avermi incolpato per la morte di Jared.
Quando mia madre si fu finalmente
calmata, il tono con cui Danika le si
rivolse fu gentile ma comunque di
rimprovero.
«Leticia devi smetterla: lui è tuo
figlio, l'unica persona che ti è rimasta al
mondo. Non puoi trattarlo così, non ha
colpe.»
Dovetti voltarmi, i pugni stretti.
Nessuno
riusciva
a
smuovermi
l'emotività con così poche parole tranne
Danika.
«Lui incolpa me, Danika»
singhiozzò Leticia, «Perché non gli dici
la stessa cosa?»
«Non è affatto così» le assicurò
lei con immensa pazienza.
Ero felice che potesse affermarlo
perché non ero certo che sarei mai
riuscito a cavarmi di bocca quelle
parole, «Lui è ferito come te, ma tu sei
sua madre e devi mettere un freno a
questo comportamento. Tristan è qui per
fare pace, vuoi mandarlo via e aprire
ulteriormente la ferita che condividete?
No, no che non vuoi. Voi avete bisogno
l'uno dell'altra. Tu non puoi andare
avanti così, ti stai uccidendo.»
Tornai a girarmi in tempo per
vedere
mia
madre
discostarsi
leggermente da Danika. Leticia non era
una donna grande, era anzi più bassa di
qualche centimetro ma riusciva a far
sembrare piccola la mia minuta Danika.
Era stupefacente quanto quelle sue
piccole braccia toniche riuscissero a
confortarla.
Leticia le accarezzò la guancia
con aria affettuosa.
«Cara ragazza. Ricordo le parole
che hai detto al funerale del mio
bambino. Erano perfette, mi hai dato un
tale sollievo! Mi sembrava quasi che il
mio Jared fosse lì accanto a me mentre ti
ascoltavo.
E adesso dov'è il mio
sollievo, Danika? Non sono capace di
affrontare tutto questo, non riesco a
vivere se penso a quello che è successo
al mio povero, amato Jared. Ti prego, ti
prego… trova qualche parola di
conforto per me.»
Danika
se
la
avvicinò
nuovamente, guardandomi. C'era nei
suoi profondi occhi grigi un'aria di scuse
che non riuscivo a capire, non finché non
parlò.
«Non molto tempo fa, io e Tristan
abbiamo fatto una fuga d'amore»
confessò a mia madre, sorprendendomi.
Non l'avevamo ancora detto ad anima
viva.
Leticia gemette, stringendola e
chiamandola figliola, bellissima ragazza
e finalmente, riuscì a dirmi qualche
parola buona, ammettendo il buon gusto
che avevo avuto. Lo accettai: non c'era
nulla che mi rendesse più fiero del fatto
che Danika mi amasse.
Ma non era ancora finita: «E,
Leticia, questo te lo dico perché ho
bisogno che tu ti metta d'impegno per
stare meglio, ok? Devi tornare a essere
forte e sobria, perché ho un compito
importante per te.»
Lei si raddrizzò, spazzandosi gli
occhi con aria sveglia e finalmente,
controllata. «Un compito?»
«Sì, uno molto importante. Sono
incinta… e a questo bambino serve una
nonna.»
La notizia sortì l'effetto sperato,
facendola piangere ma questa volta di
felicità. Leticia accarezzò il ventre
piatto di Danika entusiasta.
Non avevamo in mente di
divulgare la notizia almeno per qualche
mese ancora, ma capii subito cosa essa
avesse provocato. Aveva dato a mia
madre un motivo per vivere, qualcosa a
cui aggrapparsi come un salvagente.
«E lo chiamerai Jared se è un
maschietto?» domandò, continuando ad
accarezzare la pancia di Danika.
Lei non esitò: «Ma certo.»
«E Leticia, se è femmina?»
proseguì mia madre, grintosa come
sempre.
«In che altro modo altrimenti? Sì,
Leticia per una bimba e Jared per un
maschietto. Ma ero seria: devi darti una
regolata. Questo è il nostro primo figlio
e avremo bisogno di te per delle
risposte, per mostrarci la strada nei
momenti in cui non sapremo cosa fare.
Ti rimetterai in sesto per noi e per il tuo
nipotino?»
Ci furono altre lacrime di felicità
e scuse, alcune delle quali anche rivolte
a me con mio sommo stupore.
Rassicurazioni profuse che certo, lei
sarebbe stata meglio perché doveva
prepararsi per il nipotino.
«Usciamo a festeggiare» propose
poi mia madre. La donna che aveva
parlato era diversa da quella che avevo
trovato entrando in casa, Danika era
riuscita a trasformarla- Era ufficiale:
ogni Vega si era innamorato di lei.
«Sì, andiamo ma niente tequila
per favore» accettò Danika riuscendo a
suonare sia premurosa che cauta al
tempo stesso, come solo lei poteva.
«Sì, sì, basta tequila per me.
Quella roba è veleno!»
Leticia parve ricordarsi in che
stato versava, si toccò i capelli con aria
inorridita.
«Datemi venti minuti. Vi metterei
in imbarazzo se uscissi così» e scappò
via.
Danika si alzò e prese subito a
sistemare la casa.
«Cosa stai facendo?» le domandai
spostando la bottiglia di tequila dalla
quale presi un lungo sorso.
«Falla sparire. Butta tutto l'alcool
che vedi.»
Capii perché. Andai in cucina
trattenendo il respiro per l'odore
terribile che vicino al lavello era anche
peggiore e svuotai il contenuto della
bottiglia,
buttandola
poi
nell'immondizia.
«Trova tutti i liquori e buttali» mi
disse Danika quando tornai in salotto.
«Okay, bene ma tu cosa stai
facendo? Non devi metterti a pulire al
posto suo.»
«Quando tornerà qui e sarà sola
cosa pensi che farà una volta seduta in
mezzo alla sua sporcizia? Credi che si
metterà a pulire o che si prenderà
un'altra sbronza? Fidati: una pulita
aiuterà.»
Sapevo che aveva ragione e
iniziai a darle una mano, pulendo e
buttando le bottiglie. Su insistenza di
Danika
gettai
anche
il
bong,
ridacchiando sommessamente per tutta
l'erba sprecata. Era implacabile.
Quando mia madre tornò di sotto,
avevamo sgombrato un bel po' di stanze.
Leticia sembrava migliorata nell'aspetto
proprio come la sua casa.
Emise
qualche
suono
di
disapprovazione per ciò che secondo lei
non avremmo dovuto fare, ma era chiaro
che fosse felice. Questa visita le era
servita, aveva bisogno di sapere che
c'era qualcuno al mondo a cui la sua vita
o eventuale morte, sarebbero importate.
Danika sapeva essere quasi dittatoriale,
ma di solito aveva ragione.
Andammo a mangiare al ristorante
messicano alla fine della strada, dove
mia madre affermò che il cibo non
reggeva il confronto con quello
casalingo ma nessuno menzionò il fatto
che in cucina ci fosse solo roba avariata.
Quando il cameriere ci domandò
cosa volessimo bere, Danika prese la
parola e ordinò acqua per tutti. Avrei
voluto protestare ma sapevo che aveva
ragione: mia madre doveva evitare
l'alcool per un po'. Dubitavo fosse stata
sobria negli ultimi mesi e non era mai
stata un'ubriaca di quelle tranquille.
Fu un pasto allegro e lungo,
durante il quale facemmo progetti per il
bambino e mia madre mi strinse spesso
il braccio piena di eccitazione. Grazie a
Danika, quella ferita era stata curata.
La lasciammo in una casa pulita e
con un cuore colmo di speranza, tutto
grazie alla mia ragazza.
Era lei… Se mai avevo avuto
dubbi, ora erano svaniti: era colei alla
quale avrei pensato e desiderato fino al
mio ultimo respiro. Se il giorno dopo
l'avessi persa, avrei passato il tempo a
struggermi. Era quel genere di amore
che trovavi una sola volta nella vita.
CAPITOLO
VENTIDUE
DANIKA
Avevo chiamato mia sorella più
volte dopo aver avuto il suo numero ma
dato che non avevo avuto fortuna, Jerry
si era offerto di fare una ricerca ed io lo
avevo assecondato per via della sua
intraprendenza. L'aveva trovata: viveva
a Los Angeles, faceva la cameriera
aspirante attrice e sarebbe venuta a Las
Vegas in macchina per incontrarmi.
Ero felicissima.
Jerry aveva combinato l'incontro
ma ci era voluto molto per stabilire una
data. Io sarei stata più che pronta ad
andare a mia volta a Los Angeles, ma
attraverso Jerry, mia sorella aveva
insistito per fare il viaggio. Ero felice
per quel che stava succedendo, anche se
le erano serviti mesi.
Dovevamo incontrarci in un
bar&grill sulla Maryland Parkway,
proprio dalla parte opposta al campus
universitario ed io andavo di fretta.
Avevo già dieci minuti di ritardo perché
il mio professore di scienze politiche si
era dilungato, quando la vidi.
Mi fermai.
Erano passati anni dall'ultima
volta ma la riconobbi all'istante. Era
cambiata tantissimo ma era ancora la
bellissima ragazza che ricordavo. Mia
madre aveva detto che non mi
somigliava ma aveva torto: i capelli
castano chiaro ora le scendevano in
lunghe onde sulla schiena e si era anche
fatta delle mèche bionde che le stavano
bene. Era molto più bassa di me e anche
di mia madre, esilissima quanto una
silfide. Paragonata a lei, io sembravo
voluttuosa.
Il viso era molto simile al mio,
compresi gli occhi grigio chiaro. Forse i
suoi avevano un taglio leggermente
meno esotico, ma nemmeno troppo.
Nonostante i capelli più chiari, a
guardarla meglio sarebbe passata a
malapena per una caucasica e proprio
per questo, mia madre l'aveva sempre
giudicata ordinaria. Che errore: Dahlia
era mozzafiato!
Vestiva in stile preppy, con una
gonna grigia a pieghe, top di seta bianco
e cardigan rosa chiaro. Completava il
tutto con un paio di Mary Jane nere e
calzettoni al ginocchio. Sembrava
un'adorabile studentessa. Non era il tipo
di look che mi sarei aspettata da una
cameriera/attrice a Los Angeles, ma le
stava benissimo.
Quando mi vide non sorrise ma
mi salutò con la mano. Grossi occhiali
da sole bianchi nascondevano i suoi
occhioni espressivi.
Ricambiai
il
saluto
avvicinandomi
e
ci
ritrovammo
immobili nel mezzo del marciapiede, a
fissarci. L'avrei abbracciata ma non ero
certa che lo volesse, perciò continuai a
studiarla per prendere atto di questa
nuova versione cresciuta di mia sorella.
Lei sembrava fare lo stesso. Io
avevo un tubino azzurro preso in prestito
da Bev e ballerine in tinta. Avevo scelto
uno stile femminile ma conservatore per
farle una buona impressione e sembrarle
l'esatto opposto dell'ultima volta che mi
aveva visto in quella roulotte tetra, che
aveva rappresentato così tanto orrore
per noi.
«Hey
Dahlia»
la
salutai
finalmente, ritrovando a malapena la
voce. Il poterla rivedere mi aveva tolto
il fiato, «Hai un aspetto magnifico. A
quanto pare L. A ti giova.»
Lei annuì brevemente pur
continuando a non sorridere. «È meglio
di qui. Non posso credere che tu sia
rimasta… odio questa città.»
Non potevo certo biasimarla: Sin
City ci aveva regalato un'infanzia
infernale eppure in un modo o nell'altro,
io ero riuscita a farci pace.
«Studio qui, ho una borsa di
studio decente e lavoro per una
bravissima famiglia. Non ho sentito
alcun desiderio di andarmene, tutto
quello che mi serve è qui.»
Lei annuì di nuovo. «Possiamo
andare da qualche parte?»
«Ma certo! Mi dispiace per il
ritardo, il mio professore non smetteva
più di parlare.»
«Io non avrei capito una sola
virgola. Non ho nemmeno terminato il
liceo.»
Mi fissai i piedi con tristezza.
«Mi dispiace» le dissi sottovoce.
«Perché? Non è stata colpa tua.
Non abbiamo mai avuto delle grandi
possibilità a nostro favore… è quasi
stupefacente che una di noi sia riuscita
ad andare al college.»
Qualcosa nelle sue parole mi
diede un barlume di speranza nel fatto
che non m'incolpasse di tutto.
Ci prendemmo un tavolo,
ordinammo dell'acqua e riprendemmo a
fissarci a lungo in una sorta di strano
silenzio imbarazzato.
Le guardai le mani, erano così
piccole e delicate. Quanto aveva già
pagato una cosina delicata come Dahlia?
Sola, così giovane in questo brutto
mondo era sopravvissuta ovviamente,
ma cosa aveva passato? Il pensiero mi
fece rabbrividire.
«Allora, come stai?» le domandai
seria e lei mi fece un sorrisino.
«Sto bene. Servo ai tavoli e sto
aspettando la mia occasione. Non mi
lamento.»
Condividemmo di nuovo un lungo
silenzio valutativo.
«Io… insomma, ho conosciuto il
tuo ragazzo» mi disse finalmente,
sporgendo le labbra. Mi era difficile
interpretare le sue espressioni ma pensai
che fosse dispiaciuta e mi ritrovai a
inarcare le sopracciglia con curiosità.
Non ne sapevo niente.
«Il mio ragazzo? Tristan?»
Lei rise nervosa. «Sì, Tristan. A
meno che tu ne abbia più di uno.»
Le sorrisi scuotendo la testa. «No
davvero, solo lui. Come diavolo hai
fatto a conoscerlo?»
«Il tuo capo, Jerry, mi ha invitato
a sentire le registrazioni dei ragazzi un
po' di tempo fa ed io ho accettato. Sono
favolosi.»
Annuii entusiasta. «Sì, è vero!
Wow, sono gelosa. Io ancora non sono
riuscita a sentirli in sala prove.»
Lei mi fece un sorrisino timoroso.
«Veramente ci sono andata spesso, non
riuscivo a stare lontana.»
Torsi la bocca, immaginando
l'interesse di cinque maschietti arrapati
per una diciannovenne. In realtà ero
convinta che ogni donna di qualsiasi età,
avrebbe destato il loro interesse.
«Quindi…. tu e Tristan. Una cosa
seria?»
C'era un qualcosa che non mi
piacque nel suo tono, come se non fosse
mera curiosità.
«Sì» risposi semplicemente. Non
me la sentivo di condividere altro, in
fondo continuavo a sentirla come
un'estranea.
«Lui è davvero… grande. Posso
capire perché te ne sia innamorata.»
«Grazie» replicai lentamente,
sempre meno felice della piega presa da
quella conversazione. Cercai di darle un
senso, ma non trovai alcun segno chiaro
di allarme. Dahlia era complicata da
interpretare, il che è era triste
considerato che eravamo sorelle e da
bambine eravamo state inseparabili.
«Cosa ti ha spinto a voler
diventare attrice?» le chiesi per
cambiare argomento e per curiosità.
L'avrei giudicata la sua ultima scelta,
visto che era sempre stata una ragazza
introversa.
Lei scrollò le spalle, agitandosi
sulla sedia. Era chiaramente una
domanda che la metteva a disagio.
«Un insieme di cose. Ho avuto
una particina e ho scoperto che mi
piaceva. E poi è una cosa di famiglia.»
Riflettei per un po' su quell'ultima
battuta prima di arrendermi: non avevo
idea di cosa stesse parlando dato che la
nostra famiglia era composta da noi due
e mia madre e nessuna ovviamente era
attrice.
«Cosa vuoi dire?»
Lei si schiarì la gola guardandosi
le mani e quando parlò, aveva la voce
talmente bassa che faticai a sentire.
«Nostro padre è un attore.»
Il silenzio che calò non fu più
imbarazzato questa volta, ma lungo. Me
ne restai seduta lì, basita, a cercare di
capire le sue parole.
«Lo conosci?» le domandai
infine.
Era un mistero che per la maggior
parte della mia vita mi aveva
tormentato. Solo negli ultimi anni ero
finalmente riuscita a scendere a patti con
l'idea che non avrei mai saputo chi
fosse. Mia madre era sempre stata
ostinatamente
chiusa
riguardo
all'argomento.
Dahlia inclinò la testa e arrossì.
«Sì.»
Deglutii. Non sapevo cosa stessi
provando, non ero in grado di capirlo
ma aveva preso la forma di un nodo
nella mia gola e di un intenso bruciore al
petto. Perché mai, qualcosa legato a
quest'uomo, questa persona che non c'era
mai
stata
nelle
nostre
vite
abbandonandoci letteralmente fin da
subito; risvegliava strane emozioni
dentro di me? Emozioni che rendevano
la più piccola notizia e il più sciocco
accenno a poter scoprire qualcosa di lui,
capaci di togliermi il fiato. Me la presi
con me stessa perché mi sentivo ferita:
lei sapeva qualcosa di lui ed io no, ma
era così.
«Come lo conosci? Quando è
iniziato tutto?»
Lei non alzò lo sguardo. «Quando
me ne andai dalla roulotte di quel
maniaco trovai mamma. Era in pessimo
stato come sempre ma le chiesi se
potevo andare a stare con lei. Non
sapevo dove altro andare. Lei rifiutò,
però mi disse chi era nostro padre e mi
diede il suo numero. Andai a Los
Angeles e lo cercai.»
Le sue labbra si curvarono in
un'espressione di disgusto ma gli occhi
rimasero bassi. «Non era certo quello
che avevo sperato. Aveva sempre saputo
di noi, passava dei soldi a mamma ma
non voleva avere niente a che fare con
noi. Accettò d'incontrarmi e mi diede
del denaro, abbastanza da viverci anni,
chiarendo però che non avrebbe mai più
voluto vedermi.»
Mi sentivo sopraffatta. Continuai
a fissarla cercando di immaginare da
dove iniziare a chiedere, ma lei riprese
a parlare.
«Ha una sua famiglia, quattro figli
legittimi. Il più grande ha quattro anni
più di te, il più piccolo tre meno di me.
Si è dato piuttosto da fare in giro ma è
ancora sposato. Dio solo sa quanti altri
figli ha in giro. Immagino che non siamo
le uniche a costituire il suo sporco
segretuccio. È piuttosto famoso e pieno,
pieno di soldi.»
Finalmente alzò lo sguardo, notò
la mia espressione e proseguì.
«Per un po', finché sono stata
minorenne, mi ha mantenuto. In un certo
senso immagino di essergli grata ma
questo non serve a migliorare molto il
mio risentimento. Ho smesso di
accettare soldi da lui quando sono stata
in grado di mantenermi da sola. Non mi
ha nemmeno mai telefonato… facevo
sempre con il suo assistente. Dato che
non abbiamo un vero legame non mi
sembrava giusto tenere i suoi soldi.
Adesso, tutto quello che voglio è
diventare più famosa di lui, di tutta la
sua famiglia per mostrargli quello che ha
gettato via.»
Aveva un tono acceso e provai
dispiacere per lei: essere malamente
trascurati
da
un
genitore
e
completamente rifiutati dall'altro, era
una medicina amara da mandare giù.
Mi ci volle un po' ma finalmente
le feci la domanda che avevo serbato:
«Chi è?»
«Bronson Giles.»
Ne avevo sentito parlare: era un
attore drammatico piuttosto acclamato
dalla critica, un bell'uomo, ben piazzato
con capelli biondi e bellissimi occhi
grigio chiaro. Ricordai che qualche anno
prima aveva vinto un Oscar. Lo avevo
visto in qualche film, trovandolo bravo.
«È il suo vero nome?»
Lei fece segno di no. «Nome
d'arte, ma non è segnato sui nostri
certificati e mamma non mi ha mai detto
quale fosse quello vero.»
Non sapevo cosa pensare, cosa
provare. Avrei dovuto essere orgogliosa
del fatto che il mio padre biologico era
famoso? Non lo ero. Non avevo alcuna
parentela con lui, ma almeno adesso
possedevo un viso e qualche
informazione di base. Ora volevo solo
fingere di non averlo mai sentito
nominare, non c'era altro da fare per me.
«Ti darò il suo numero se vuoi,
ma dubito che riuscirai a conoscerlo.
Sfortunatamente dovrò chiedergli presto
altro denaro, cosa che non mi rende
molto felice. Solo che… non so davvero
che fare.»
«Perché?» domandai preoccupata
dal suo tono. Suonava così misera.
Fece una smorfia nascondendo il
viso fra le mani e le sue spalle si
scossero seguendo i gemiti silenziosi.
Avrei voluto fare il giro del
tavolo per abbracciarla ma non sapevo
se potevo. Forse non era ancora pronta
per essere toccata da me.
Lei smise velocemente e si
raddrizzò. Il viso era bagnato ma
l'espressione nuovamente composta.
Fece un bel respiro profondo.
«Sono incinta e non so che fare»
disse e il suo viso sparì nuovamente fra
le mani.
Rimasi di ghiaccio, incerta su
cosa fare o dire: non sapevo nulla di lei,
mi sembrava troppo giovane per avere
un bambino, ma per quanto ne sapevo
avrebbe potuto essere sposata.
Attesi che si ricomponesse e le
domandai cauta chi fosse il padre.
«Non voglio parlarne.»
Fece una pausa con aria distrutta,
«Non lo so.»
Evitai di sottolineare come quelle
due frasi fossero drasticamente agli
antipodi.
«Beh, se c'è qualcosa che posso
fare per aiutarti, dimmelo. Mi
piacerebbe essere di nuovo parte della
tua vita e anche di quella del tuo
bambino. Il mio cuore è sempre aperto
per te, lo è sempre stato. Mi sei mancata
ogni singolo giorno da quando te ne sei
andata. Sono qui per te a prescindere di
come avrai bisogno di me.» Ricacciai
indietro le lacrime inattese.
Il suo volto franò nuovamente e
Dahlia guardò altrove ma allungò una
mano sul tavolo mettendola sulla mia.
«Mi dispiace. Quello che ci è
successo è stato orribile e so di aver
peggiorato le cose. Vorrei poter tornare
indietro, mi vergogno di averti trattata a
quel modo. Ero sconvolta da quello che
avevo visto e la mia fu solo una
reazione. Ero talmente distrutta da tutto
quello che era successo in quella
roulotte, che scappai via e basta. Questa
è l'unica scusa che ho per come sono
andate le cose, ma mi dispiace
tantissimo.»
Tremavo come una foglia, come
se mi avessero tolto dalle spalle un peso
enorme e il corpo dovesse muoversi in
un modo o nell'altro per rendersi conto
della sua nuova libertà.
«Grazie» sussurrai. C'erano cose
delle quali
avevi
un bisogno
fondamentale e disperato ma che non eri
in grado di capire finché l'urgenza non
veniva soddisfatta. Io me ne stavo
accorgendo ora: avevo bisogno di mia
sorella e di sapere che non mi odiava.
«Quello era un mostro e mi
dispiace di averti lasciata nelle sue
grinfie. Mi perdoni?»
Scossi la testa respingendo altre
lacrime. «Non c'è niente da perdonare,
sono felice che tu sia scappata subito. È
stato meglio così. E nemmeno io sono
rimasta a lungo dopo la tua partenza.»
«Bene. Ho avuto tantissimi incubi
su te rimasta lì, che non riuscivi a
scappare ma nonostante tutto ho sempre
avuto troppa paura per tornare. Questa è
la prima volta che vengo a Vegas da
quando me ne sono andata.»
«Il vecchio è morto. Un infarto.»
Pensavo
fosse
importante
dirglielo, era una notizia che a me aveva
portato molto sollievo.
Lei inspirò e annuì. «Ottimo,
grazie per avermelo detto ma non
parliamone più.»
«Come vuoi. Sono davvero felice
di averti ritrovato.»
Lei mi sorrise in modo triste. «Sì,
è bello vedere di nuovo il tuo viso.
Vorrei fosse successo prima. Che piani
avevi per oggi? Potremmo andare a fare
shopping se sei libera.»
Lo ero. Avevo fatto in modo di
avere tutto il pomeriggio a quello scopo,
sperando in un esito positivo ed
effettivamente il risultato superava le
mie aspettative. Non mi sarei mai
sognata di essere nuovamente accettata o
perdonata da lei.
Andammo al Fashion Show ma
senza comprare. Più che altro
guardammo le vetrine chiacchierando
come
da
ragazzine,
quando
ciondolavamo nel centro commerciale
fino all'ultimo secondo solo per evitare
di tornare a casa.
Ci raccontammo degli anni da
separate, cercando di recuperare il
tempo perso. Non le dissi della mia
gravidanza pur avendo l'intenzione di
farlo entro breve.
Era quasi ora di cena ed io
dovevo andare. «Tristan ormai dovrebbe
essere arrivato. Veniva a casa per il fine
settimana e doveva prepararmi la cena a
casa sua.»
Il viso di lei s'illuminò quindi la
invitai a unirsi a noi.
«Non ho idea di cosa prepari, ma
ti posso garantire che sarà divino» le
assicurai mentre raggiungevamo le
nostre auto nel parcheggio.
«Oh sì, lo so» mi assicurò lei,
«Ho già assaggiato la sua cucina prima.»
La cosa mi contrariò. Mi ero
persa qualcosa ultimamente? Come mai
Tristan cucinava per mia sorella ma io
non lo sapevo? Mi suonava sbagliato.
«Come hai fatto? Quando Tristan
ha cucinato per te?»
«Sono stata a cena dai ragazzi una
sera e la stava preparando lui. Lasagne
da urlo!»
Mi sentii un po' meglio ma non
troppo. Ancora non riuscivo a credere
che Tristan l'avesse incontrata e non ne
avesse fatto parola. Non c'era una sola
possibilità che non evitasse il terzo
grado più tardi. Non una al mondo.
Diedi a Dahlia l'indirizzo in caso
ci fossimo perse di vista, ma lei riuscì a
seguirmi. Inviai a Tristan un breve sms
lungo la strada.
Danika: Abbiamo un ospite a
cena.
Non controllai la risposta e riposi
il telefono prima di riprendere a
guidare.
Con il traffico ci vollero
quarantacinque minuti per arrivare dalla
Strip all'appartamento di Tristan a
Henderson, ed io li passai tutti a pensare
a mia sorella.
Le stava succedendo qualcosa di
più preoccupante di una gravidanza
accidentale ma nemmeno dopo ore di
confidenze, aveva mostrato alcun
segnale al riguardo.
Dahlia era dietro di me quando
parcheggiai.
Mi
aveva
seguito
diligentemente per tutto il viaggio e così
fece per le scale fino alla porta
dell'appartamento. Quando la aprii, lei
corse inaspettatamente dentro prima di
me e la vidi piombare in cucina,
buttandosi fra le braccia di un Tristan
sorpreso, per stringerlo in modo
esuberante.
Lui replicò in modo quasi
impercettibile, stringendola appena
prima di sciogliersi da quel groviglio di
braccia.
«Tristan! Che bello rivederti»
trillò Dahlia.
Fissai la scena leggermente
nauseata.
Lui le mise le mani sulle spalle,
scostandola gentilmente.
«Piacere mio. Scusami.»
Venne da me e mi strinse,
baciandomi con calore. Non era uno di
quei baci che mia sorella avrebbe
dovuto vedere, ma la cosa non lo fermò
di certo, né impedì la mia reazione. Non
ero mai stata in grado di dirgli di no.
Quando Tristan si staccò, il mio cervello
era ridotto in poltiglia ma le mie
domande erano ancora ben presenti nella
mia mente.
«Perché non mi hai detto che
avevi
conosciuto
mia
sorella?»
domandai guardandolo attenta in viso.
La sua fronte s'increspò mentre
lanciava a Dahlia uno sguardo
incomprensibile prima di rispondere.
«La conosco a malapena perciò non mi
sembrava tutto questo granché. Possiamo
parlarne più tardi?»
Non era la risposta che avrei
voluto ma frenai la lingua. Non
desideravo certo avere questo strano
scambio di vedute davanti a lei.
Io e Dahlia ci sistemammo sul
divano chiacchierando, mentre Tristan
preparava la cena.
Spesso, lui usciva dalla cucina, si
sedeva accanto a me baciandomi la
fronte, la mano, la guancia. Era sempre
stato così per natura, ma il mio stato
delicato sembrava aver mandato le sue
inclinazioni spontanee a dei livelli
sovrumani. Amavo che fosse così
affettuoso ma alla quarta volta notai che
Dahlia reagiva abbassando lo sguardo e
ogni tanto, ridacchiando.
Alla fine glielo chiesi: «Stai
bene? C'è qualcosa che non va?»
Lei scosse la testa continuando a
guardarsi le mani. «No, no, sto bene.
Siete davvero affettuosi voi due. Non
avevo capito quanto fosse seria.»
«Te l'ho detto che era così» le
ricordai cauta.
Mi domandai se fosse il caso di
specificarle a che livello di serietà
fossimo, ma poi ripensai al fatto che
conosceva Jerry. Non sapevo quanto
fosse brava a mantenere i segreti ed io
volevo aspettare per dare la notizia a
tutti quando saremmo stati pronti. Se
Bev non lo avesse scoperto direttamente
da me, ci sarebbe rimasta male.
«Sì, è vero. Ti sei innamorata di
lui a prima vista?»
Ci riflettei un po' sopra.
«All'incirca. Fra noi… c'è sempre stata
una certa chimica. All'inizio abbiamo
provato a combatterla, ma come vedi,
siamo qui.»
Lei annuì. «Già. Tristan e
qualsiasi
donna
produrrebbero
quell'effetto.»
Non apprezzai per niente quel
giudizio e non era ancora finita.
«Credevo che fossi al settimo
cielo per quanto lo amavi, chi non lo
sarebbe stato? Non mi ero accorta che
anche lui fosse pazzo di te.»
«Ah, no? E cosa pensavi? Dimmi:
quale impressione ti dava lui?»
«Beh, è che lui… non so, sta fuori
città per così tanto tempo. Insomma,
vive bene anche a Los Angeles, lontano
da te. Pensavo che essendo una cosa
seria, avrebbe provato a essere più
presente.»
«Credi che nessuno dei due abbia
avuto da ridire sulla tabella di marcia
delle registrazioni? Beh, non è così ma è
un problema temporaneo. Immagino che
lui potrebbe lasciare il gruppo ma ormai
dovrebbero arrivare al termine in un
paio di settimane, almeno è quello che
ho sentito.»
Lei fece spallucce. «Se lo dici tu.
A me sembra che quello sia uno stile di
vita che non si può accendere e spegnere
a piacimento. Non so, forse quando ho
visto come viveva là e ho saputo che
aveva la ragazza, ho pensato che fosse
una storia più disimpegnata. Le cose che
succedono in quella casa metterebbero
alla prova qualsiasi relazione stabile.
Non so come tu possa sopportarlo.»
«Quali cose? Racconta.» Sentii le
guance in fiamme e la rabbia montare.
Lei lanciò un'occhiata verso la
cucina come per accertarsi che Tristan
non riuscisse a sentire ciò che stava per
dirmi. «Alcool, droghe, feste continue…
donne» elencò chiaramente ma con voce
tranquilla.
Sentii travasare la bile ma rimasi
composta. «Mi stai suggerendo che
Tristan mi ha tradito?»
Anche la questione droghe mi
preoccupava, proprio come il bere
quando spinto all'estremo, ma quella
scoperta catalizzava la mia attenzione
come niente altro.
Lei scosse la testa velocemente,
sgranò gli occhi e fece una smorfia.
«No, no, non sto affatto dicendo
quello. Lui non è così, ma è solo. Quanto
pensi che riesca a resistere prima di
cedere alle tentazioni che ci sono là?
Ogni uomo ha dei bisogni.»
Strinsi la mascella. Amavo mia
sorella ma detestavo che desse per
scontato di conoscere Tristan meglio di
me. Che avesse una qualsiasi intuizione
sui suoi bisogni che io non avevo avuto.
«Grazie
per
la
tua
preoccupazione» le dissi sforzandomi di
mantenere un tono gentile, «Ma è
compito mio badare ai bisogni di Tristan
e non credo si sia mai lamentato.
Appena questo disco sarà finito, lui
tornerà a casa e tutto rientrerà nella
normalità. Abbiamo ancora qualche
settimana di relazione a distanza.»
La mia mente ignorò il fatto che
ormai lo andavo dicendo da mesi.
Dahlia non sembrò convinta e mi
domandai perché. Come mai tutto questo
le stava tanto a cuore da diventare affar
suo? Mi stavo agitando ogni secondo di
più.
«E quando il gruppo inizierà il
tour promozionale? Come farete poi,
andrai con loro?»
Sbattei le ciglia: Tristan non mi
aveva mai menzionato il tour, anche se
ne avevo sentito parlare.
«Andare con loro?» ripetei piatta,
«Beh, no. Ho troppe cose in ballo qui.
Non posso lasciare la scuola, il lavoro e
tutto quello che ho per seguirli. È
un'idea assurda.»
«Io lo farei» sostenne lei con una
certa veemenza.
Serrai i pugni.
«Farei qualsiasi cosa per tenermi
stretta uno come Tristan, anche se
significasse mettere da parte tutta la mia
vita. Non pensi che lui ne valga la
pena?»
«So meglio di chiunque altro
quanto vale. Lui è il mio mondo ma non
mi chiederebbe mai di fare qualcosa del
genere. Oltretutto, non ha detto una sola
parola di questo tour.» Questa volta
mantenere un tono educato mi era
costato uno sforzo ben maggiore.
Lei lanciò un'occhiata diretta in
direzione di Tristan che ci dava la
schiena cucinando, probabilmente ignaro
della nostra conversazione.
«Beh, dovresti chiederglielo. Non
so perché non ti abbia detto niente, ma la
band sta progettando un tour di tre mesi
appena terminato di registrare.»
«Tre mesi?» scoppiai a voce tanto
alta che anche lui si voltò. Mi guardò
interrogativo ed io scossi la testa. Ne
avremmo parlato più tardi, idealmente
una volta soli.
Feci a mia sorella un sorriso
piuttosto rigido. «Possiamo discuterne
dopo. Troviamo un altro argomento,
ok?»
Tristan aveva preparato le
enchiladas, che sapeva essere il mio
piatto preferito. Io preparai la tavola
mettendo tre bicchieri di acqua, uno per
ciascuno, ma lui arrivò con una bottiglia
di Jack Daniel's e se ne versò una dose
generosa. Da quando ero rimasta incinta
era migliorato molto in generale, ma il
bere stava raggiungendo nuovi livelli.
Fissai la bottiglia: l'alcool era
diventato un problema. C'era stato un
periodo in cui avevo creduto che fosse
più l'uso occasionale di droga a
preoccuparmi maggiormente, ma il bere
ormai mi sembrava diventato lo scoglio
maggiore.
«Solo per sciogliere la tensione»
mi spiegò lui con un sorriso
affascinante,
sparandomi
le
sue
pericolose fossette. Pensai a come non
gli fosse mai servito sciogliere la
tensione in mia compagnia: gli bastavo
io, specie durante una serata trascorsa a
casa.
Il cibo era ottimo e mi chiesi
come fosse possibile che nulla di ciò
che cucinava Tristan, riuscisse mai a
scatenare quella che era nausea costante
ormai.
Arrivai al dessert prima di
chiedere e fu comunque una lotta:
«Allora, cos'è questa storia che ho
sentito, di un tour di tre mesi?»
Tristan si bloccò con un cucchiaio
di torta al cioccolato a metà strada. Lo
mise giù con aria imbarazzata mentre
guardava mia sorella come se volesse
rimproverarla.
Non mi piaceva quella storia: se
avevano passato assieme tempo a
sufficienza per aver sviluppato una
specie di linguaggio muto, la mia pace
interiore ne avrebbe risentito. Cosa
diavolo stava succedendo?
«Il produttore discografico sta
cercando di mettere assieme la cosa ma
io non ho ancora firmato. Non mi sono
impegnato in niente. Non sono sicuro di
andare e ti avrei chiesto cosa ne
pensavi.»
«Sai, è divertente come dici
sempre di non sapere cosa farai, ma
sembri sempre finire col fare ciò che ti
chiedono gli altri. Penso che tu abbia già
preso la decisione ma non vuoi dirmelo
perché sai che è un'idea terribile, che
non approverò.»
La sua mano coprì la mia sul
tavolo. «Tesoro, ho preso la decisione
adesso. Vedo che la cosa non ti va giù
perciò non lo farò, punto e basta. Come
ho detto, non ho mai dato il mio assenso,
era solo una proposta dal produttore e
non ho problemi a rifiutarla.»
Suonava talmente convincente che
mi lasciai illudere.
Dahlia finì per addormentarsi sul
divano invece che tornare a casa così
tardi ed io mi ritrovai sola con Tristan
nel bagno a lavarmi i denti prima di
rivolgergli nuovamente la parola.
«Perché non mi hai detto che vi
conoscevate? Perché me l'hai tenuto
nascosto?»
Lui sputò, mettendo via lo
spazzolino e i suoi occhi incrociarono i
miei nello specchio.
«Non volevo preoccuparti.»
«Cosa vuol dire?»
La sua fronte si aggrottò mentre si
grattava la mandibola.
«Non agitarti…»
«Questa non è mai una buona
premessa.»
«Sì, lo so, hai ragione. Dahlia ha
iniziato a venire a casa forse tre mesi fa.
Capitava spesso. Ho cercato di metterla
in guardia e di assicurarmi che i ragazzi
sapessero che era off-limits ma non so…
Pensavo che ti saresti preoccupata del
fatto che stesse così tanto coi ragazzi. È
molto carina, ma non ascolta. Speravo
che una volta ritrovate, saresti riuscita a
convincerla a usare il buon senso, ma lei
continuava a rimandare l'incontro. Poi
un po' di tempo fa ha smesso di venire a
casa e ho pensato che il problema fosse
risolto, ma ero preoccupato che il fatto
di averci frequentato senza averti
chiamata ferisse i tuoi sentimenti. Sono
sollevato, sembrate comunque andare
d'accordo.»
«Anche voi due» borbottai e lui
rise.
«Immagino di sì. Quando ha
iniziato a girare per casa, di solito io mi
chiudevo in camera per evitare qualsiasi
cosa Dean stesse macchinando, ma l'ho
vista in giro un paio di volte. Davo per
scontato che venisse per vedere uno
degli altri, anche se non ti saprei dire
chi.»
«E mi ha anche detto che
continuate ad avere le groupie in giro.»
La cosa non mi sconvolgeva ma
comunque non ero felice.
«Sai che non…»
«Sì, lo so ma non è questo il
punto. Tu mi avevi promesso che avresti
messo delle regole.»
«L'ho fatto, ma questo non vuol
dire che sia in grado di farle rispettare.
Quando Dean le infrange, il giorno dopo
non mi presento in studio, ma devo
ammettere che sembro proprio fare il
suo gioco. Credo che se rimanessimo
impantanati così per sempre a lui non
dispiacerebbe affatto. Le prime tre volte
che si è portato a casa delle ragazze me
ne sono andato in hotel ma nemmeno
quello ha sortito effetto. A volte le butto
fuori io stesso, ma sono ragazze. Ho
preso a calci Dean ma a lui non frega un
cazzo di quello che faccio. A questo
punto potrei andarmene ma dovrei allo
studio più di quanto io possa
permettermi di pagare. Mi dispiace, ma
è diventato un casino che non sono in
grado di sistemare. L'unica cosa che
desidero adesso è finire e uscire da
questo giro.»
«Come mai non mi hai mai
raccontato niente finora? Va avanti da
mesi?»
Lui scrollò le spalle con aria
infelice. «Ne hai già abbastanza a cui
pensare. Che uomo sarei se non riuscissi
nemmeno a gestire i miei stessi
problemi, specie considerata la tua
condizione?»
«Non tornare e basta» gli proposi
all'improvviso più che decisa, «È una
cosa negativa per te, che ti sta
consumando. Troveremo un modo per
ripagare lo studio e se ti citano, abbiamo
Bev e Jerry che possono aiutarci.»
Lui si spostò dietro di me e
accolse la mia pancia fra le mani molto
delicatamente. «Si può fare. Terminerò
il disco e tornerò a casa. Dobbiamo
risparmiare per quando arriverà questo
angioletto.»
Gli feci un sorriso di estrema
felicità. Quando parlava del bambino
non ero in grado di trattenermi, mi
scioglievo fra le sue dita.
«Lei ha una bella cotta per te» lo
informai dopo un po' con voce molto
bassa. Non volevo certo che mia sorella
mi sentisse attraverso le pareti.
Tristan fece
una
smorfia,
dimostrandomi che se n'era accorto.
«Credimi: lo sopporto meno di te
ma cosa posso farci? Devo essere
gentile con lei, è tua sorella. Le ho già
chiesto di lasciar perdere due volte. Lei
ha smesso di venire a casa perciò penso
abbia capito.»
Almeno dal suo lato, la cosa mi
lasciò soddisfatta. Da quello di Dahlia
invece, non sapevo che pensare ma
speravo che si facesse un quadro
completo e andasse avanti.
Tristan mi baciò il collo e una
mano salì a stringermi un seno.
«Tristan» lo avvertii, cercando
invano di suonare severa, «Non
possiamo, non con mia sorella sotto lo
stesso tetto.»
«Oh, diavolo, no. La butto fuori
subito se deve andare così.»
Alzai gli occhi al cielo.
«Dovrai deciderti a superare
questa tua timidezza. Presto avremo in
casa un bambino: smetteremo di fare
sesso solo perché saremo sotto lo stesso
tetto?»
Ci rimuginai sopra: non avevo
ancora pensato a certe logistiche.
«La risposta è no, Danika, non
praticheremo certo l'astinenza. Se
proprio devi, puoi cercare di stare in
silenzio ma io non ho intenzione di
tenere giù le mani, né stanotte né mai. E
poi pensa a quanto sei sciocca,
considera tutte le volte che l'abbiamo
fatto a casa di Bev.»
Aveva ragione, ma anche io avevo
un
punto
da
sostenere:
«Ma
l'appartamento è molto più piccolo e si
sente tutto.»
«Non m'interessa.»
Anche quello era vero… Ero in
grado di riconoscere una battaglia persa
e così feci con questa, con dignità e
sfortunatamente
anche
poco
silenziosamente.
Lui mi spogliò, mi sdraiò sul letto
e mi lavorò con la lingua fino a farmi
mordere una mano per evitare di
gridare. Fu implacabile e solo quando
mi lasciai finalmente sfuggire un
gridolino, risalì coprendo il mio corpo
scopandomi con forza. Una volta
terminato, nessuno avrebbe avuto dubbi
su ciò che era successo. Dubitavo che i
vicini stessi non ci avessero sentito.
«Sei un coglione, sembrava quasi
che volessi farci scoprire.»
«Beh, mettiamola così: non
m'interessa se lei ha capito e adesso non
hai più motivo di essere imbarazzata!»
CAPITOLO
VENTITRÉ
DANIKA
Alla fine fu colpa della
stanchezza estrema.
Avevo sempre così tanto da fare
ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Fra
scuola e lavoro la mia vita era una
maratona e non ero in grado di
rallentarla. Non c'erano pause nemmeno
per un riposino o un pasto decente. La
spossatezza mi stava consumando ma
essendo sempre stata una persona
infaticabile prima della gravidanza, non
avevo molta pazienza al riguardo. E così
non le prestai le giuste attenzioni.
Oggi se ci ripenso, mi assumo
ogni colpa. Il senno di poi è sempre così
brutale…
Fu grazie a un passo falso che
iniziò tutto. Ormai ero arrivata quasi al
quinto mese. Non indossavo più roba
aderente per non far notare la pancia
visibile. Preferivo magliette larghe e
felpe che potessero nascondere la
gravidanza a Bev, pur sapendo che non
ci sarei riuscita ancora per molto.
Sapevo che mi stavo comportando da
codarda ma detestavo l'idea che lei
fosse delusa da me.
Quindi, nessuno sapeva tranne
me, Tristan e Leticia. E Tristan c'era
sempre poco.
Erano le quattro del mattino di un
venerdì e lo stavo aspettando al suo
appartamento, dove sarebbe dovuto
tornare quel pomeriggio. Aspettare era
un verbo eccessivamente positivo.
Sperare era più adeguato… Lui mi
aveva detto che sarebbe tornato ma
ormai quel che diceva e quel che faceva
erano due cose diverse ed io sapevo di
avere il cinquanta per cento delle
probabilità di non rivederlo fino a notte
inoltrata.
Dopo lo stupore iniziale dovuto
alla gravidanza, per un po' era stato
puntuale ma terminato il disco, cosa che
entrambi desideravamo, lui era tornato a
casa. Purtroppo i miei impegni non
erano certo migliorati né rallentati. Anzi,
il contrario e il nostro tempo assieme
non era ancora tanto quanto avrebbe
dovuto essere; così Tristan si era
ritrovato con troppa libertà fra le mani,
una cosa pessima per uno come lui.
Riuscivo a capire col passare dei giorni
che la cosa non avrebbe funzionato e
dopo qualche settimana alla ricerca
disperata di un qualche equilibrio, gli
avevo detto di andarsene in tour.
Quindi, a suo discapito, eravamo
tornati a una routine a lunga distanza e
lui si era ritrovato in viaggio. Le
registrazioni a Los Angeles erano state
un danno per lui, ma il tour era peggio.
Ormai mancavano solo tre
settimane e stavo contando i giorni. Ero
rimasta in piedi fino all'una della
mattina per studiare, con l'intenzione poi
di incontrarmi con un gruppo di studio
per qualche ora prima delle lezioni. Era
stata una settimana pesante.
Mi feci una doccia lampo
entrando e uscendo di corsa e
sfortunatamente, nel tentativo di evitare
il bordo della vasca, traballai cadendoci
dentro.
I piedi mi scivolarono via, prima
uno poi l'altro ed io mi ritrovai a
piegarmi su me stessa. Buttai le mani in
avanti cercando di salvarmi ma il bordo
mi colpì allo stomaco togliendomi il
fiato. Le parti metalliche che formavano
le guide della cabina doccia mi
graffiarono la pelle. Mi accoccolai nella
vasca accarezzandomi la pancia e
piangendo per via della mia goffa
disattenzione.
Ero profondamente scossa.
Mi ci volle così tanto per
asciugarmi e vestirmi, per infilare ogni
singolo pezzo da seduta, che arrivai
quasi un'ora dopo al gruppo di studio ma
le cose parvero sistemarsi e la mia
giornata proseguì. Non sembravano
esserci sviluppi preoccupanti e quello
mi dava sicurezza del fatto che la caduta
non avesse procurato danni permanenti.
Verso le cinque del pomeriggio
iniziai ad avere dei crampi. Non erano
molto forti ma chiamai comunque
l'ambulatorio
medico,
parlando
brevemente
con
un'infermiera
all'apparenza annoiata e impaziente. Le
spiegai il mio problema con tono
incerto. Detestavo discuterne ad alta
voce, come se ammettere un possibile
intoppo con il bambino volesse dire
dargli maggiore valenza. Non volevo
che quella mia paura diventasse
tangibile.
Sentii la gomma schioccare nel
mio orecchio prima che la voce stanca
menzionasse una spiegazione sulle
contrazioni di Braxton-Hicks e sui
fattori da tenere presente prima di
agitarmi e andare all'ospedale.
La salutai in uno stato di
annebbiamento e lei riappese. A quanto
pareva avevo esaurito il mio tempo
disponibile per parlare con l'infermiera.
Chiamai allora Tristan, bisognosa
di parlare con qualcuno, nonostante lui
non fosse certo l'unica opzione
possibile. Non ebbi risposta, né alle
cinque né alle sei. Né tantomeno alle
sette.
Alle otto iniziai a notare qualche
macchiolina di sangue. Non richiamai
l'infermiera pensando che avrei preferito
andare in ospedale piuttosto che
ascoltare di nuovo quel suo tono
scocciato. E comunque, nessuno dei miei
sintomi era troppo grave.
Tornai a casa di Tristan e i crampi
peggiorarono,
anche
se
non
eccessivamente. Nell'appartamento non
c'era anima viva: né lui né Dean.
Alle dieci mi ritrovai piegata a
metà da un dolore lancinante. Il sangue
non si era arrestato. Non sapevo chi
chiamare, non volevo far vedere a
nessuno
quanto
fossi
stata
irresponsabile. Mi ero fatta mettere
incinta da un uomo che non si faceva
vivo quando diceva che lo avrebbe fatto
e che nemmeno rispondeva più alle mie
telefonate.
Sapevo che non avrebbe dovuto
esserci così tanto sangue ma era normale
che le donne incinte manifestassero
dello spotting, no?
Non sapevo cosa fare. Dovevo
chiamare un'ambulanza? L'ospedale non
era così lontano e oltretutto, dopo aver
chiamato Tristan e avergli mandato sms
a ripetizione nelle ultime cinque ore, il
mio cellulare era morto. Dean e Tristan
non si erano mai preoccupati di avere
una linea fissa, chi mai l'aveva al giorno
d'oggi con tutti i cellulari che c'erano?
Però ero sola e non avevo il carica
batterie dietro.
Non andai nel panico. Mi sentivo
troppo stanca, troppo letargica per
quello. Il panico richiedeva un eccesso
di energie.
Il sangue non era poi tanto, mi
ripetei. Mi sdraiai premendomi addosso
un asciugamano nella speranza di
fermare
l'emorragia
con
quel
tamponamento.
Era
peggiorato
all'improvviso? Lo si poteva ancora
definire spotting? Ormai era un flusso
continuo e preoccupante.
Mi accarezzai lentamente il ventre
arrotondato chiudendo gli occhi: volevo
questo bambino, pensai. Era la cosa più
simile a una preghiera: ti prego, lascia
che abbia il bambino.
Non avevo mai desiderato
qualcosa così tanto, nemmeno l'amore di
Tristan.
TRISTAN
Kenny mi lasciò sul marciapiede
davanti al mio palazzo. Ero stracotto.
Sapevo che poi l'avrei pagata ma al
momento non provavo dolore e un po' di
rotture varie mi sembravano un prezzo
equo per quello stordimento necessario.
Sapevo di avere ricevuto degli
sms di Danika, ma era di nuovo
incazzata con me e la nostra ultima
conversazione era iniziata e finita con
lei che mi accusava di essere
inaffidabile. Era più di quanto riuscissi
a sopportare al momento.
Mi ci volle un po' per pescare le
chiavi di casa dalla tasca e riuscire ad
aprire la porta. Incespicai più volte per
arrivare in camera. Avevo appena
iniziato a slacciarmi i jeans quando
guardando il letto, nonostante il buio mi
resi conto di non essere solo.
«Danika» la chiamai dolcemente.
Non volevo svegliarla in caso dormisse,
né certo che mi vedesse di nuovo così se
potevo evitarlo.
Mi sdraiai al suo fianco ancora
completamente vestito, allungando una
mano per trovare la sua. Le dita erano
flaccide, il palmo gelato. Mi avvicinai
di più. Anche completamente andato, il
mio primo istinto era riscaldarla.
Scivolai
sotto
le
coperte
abbracciandola.
Era
talmente
addormentata che non si mosse
nemmeno. Dimenticando il fatto che non
intendevo svegliarla, spostai la mano
lungo la sua maglietta e il corpo,
partendo da uno dei seni rotondi, poi sul
ventre incontrando una resistenza a
forma di asciugamano appallottolato fra
le sue gambe.
Impazientemente,
cercai
di
penetrare gli strati di tessuto ma
m'immobilizzai quando le mie dita
toccarono qualcosa di umido e freddo. Il
mio cuore iniziò a battere furiosamente,
il suono più chiaro di quella stanza
altrimenti silenziosa.
Arretrai,
tornando
immediatamente sobrio ma non per
questo più agile. Incespicai per arrivare
alla parete e accendere la luce mentre
montava il panico.
Con quelle mie attenzioni
primitive le avevo tolto le coperte di
dosso e la prima cosa che notai fu il
sangue. Tanto sangue.
Il mio respiro s'incagliò nei
polmoni mentre tornavo da lei,
appoggiando le dita tremanti sul suo
collo. Chiusi gli occhi dal sollievo
quando sentii un debole battito.
Deglutii a fatica dando un'altra
occhiata al suo corpo: c'era davvero
troppo sangue.
L'asciugamano
che
aveva
arrotolato fra le cosce era impregnato e
sotto, anche le lenzuola.
Troppo, troppo sangue.
Cercai a fatica il cellulare nella
tasca. Non ricordo di aver chiamato il
911, o di aver parlato e non so nemmeno
quanto tenni il cellulare all'orecchio
prima di chiudere la conversazione. Ero
terrorizzato all'idea di muoverla perciò
mi raggomitolai su di lei per provare a
riscaldarla, tirando giù la sua maglietta
per quanto possibile. Le accarezzai i
capelli
mormorandole
parole
rassicuranti all'orecchio che tuttavia
erano a mio unico beneficio. Lei
continuava a non reagire nemmeno al
tocco delle mie mani riverenti e
consolatrici.
Non ero mai stato tanto
spaventato, un terrore assoluto che mi
stordiva. Riuscivo a sentire i denti che
battevano producendo un rumore che
sembrava riempire la stanza: click-
click-click.
La coprii fino al mento
controllandole
nuovamente
le
pulsazioni.
Click-click-click.
Il tempo rallentò fino a che mi
parve di aspettare per ore ma lei non si
svegliò. Alla fine percepii il suono
dell'ambulanza che arrivava. A Las
Vegas era piuttosto comune, ma in quel
momento fu davvero benvenuto e mi
spinse a muovermi.
Mi assicurai che la porta non
fosse chiusa a chiave, poi cambiai idea
e la spalancai del tutto. Ero da lei
quando i paramedici entrarono, rumorosi
ma efficienti.
Rimasi con gli occhi incollati su
Danika, alla ricerca disperata di un suo
segno di vita.
Si agitò quando la spostarono dal
letto alla barella, le sue mani le caddero
dal ventre e il mio stomaco si
attorcigliò.
Forse era colpa dello stato in cui
ero rincasato o dello choc, ma solo in
quel momento mi resi conto che il
bambino era in pericolo. Mi ero
talmente concentrato su Danika da non
prendere quell'ipotesi nemmeno in
considerazione prima. No. Mi rifiutavo
di pensarci. Di pensare a entrambe le
ipotesi: non potevo accettarlo, non dopo
tutto il resto.
Ultimamente ero stato strano,
lasciando correre un mucchio di cose ma
questo, questo era troppo. Un pensiero
insopportabile: io volevo la nostra
famigliola. Ne avevo bisogno.
Danika si riprese in ambulanza.
Pianse, gridò e imprecò mentre quella
piccola vita scivolava via da lei, ma
alla fine rimase inerme come me.
Ore dopo, sconfitta, finalmente
trovò un po' di pace con l'aiuto di alcuni
antidolorifici ed io passai la notte più
lunga della mia vita all'ospedale
domenicano St. Rose, dove perdemmo
nostro figlio.
Non avrei mai creduto che la vita
fosse in grado di buttarmi addosso
qualcosa che potesse distruggermi
quanto la morte di Jared, ma l'aveva
fatto.
La perdita di mio fratello aveva
scavato un piccolo buco nel mio cuore
lasciandolo a sanguinare in modo lento e
costante, ma questa… questa era
un'emorragia.
La mia mente si concentrò con
morbosa determinazione su ciò che avrei
potuto fare diversamente. Seduto nella
stanza dell'ospedale il più possibile
vicino a Danika addormentata, scorsi
ogni singola chiamata persa, ogni
messaggio che avevo ignorato: mi aveva
cercato per ore ma io non mi ero fatto
vivo ed era successo questo. Nessuna
donna avrebbe dovuto affrontare un
evento simile da sola. Il suo cellulare si
era scaricato, gliel'avevo sentito dire a
fatica ai paramedici e lei era rimasta lì,
alla
deriva,
nessun
soccorso
all'orizzonte.
Non importava in che modo la
mettessi: era colpa mia.
Continuai a vegliare quel corpo
sdraiato per tutta la notte, odiando me
stesso, avvelenandomi in maniera
permanente con quel sentimento
negativo. L'orrore assoluto del trovarla
così, del non sapere se sarebbe vissuta o
meno, si era trasformato in dolore per la
perdita e alla fine, in una pacata
decisione.
Cosa stavo facendo, cosa stavo
pensando? Avevo il diritto di continuare
a tenere questa bellissima creatura dal
futuro luminoso, in quel casino che era
la mia vita? Ero forte abbastanza da
lasciarla andare?
Non avevo risposte o almeno non
di quelle che potevo ammettere al
momento. Avevo già perso troppo.
Quando
finalmente
lei
si
risvegliò, mi guardò a malapena. Le
chiesi come stesse e lei chiuse gli occhi
mentre le lacrime sgorgavano dalle
palpebre serrate.
Mi odiava anche lei? Non avevo
il coraggio di chiedere.
«Mi dispiace così tanto, tesoro»
le dissi stringendole una mano e
piangendo con lei.
Stavamo tornando a casa quando
finalmente si lasciò andare.
«Era un maschietto» sussurrò in
pena.
Accostai la macchina. Mi
tremavano le spalle. La sua mano mi
sfiorò un braccio, mi voltai e presi a
singhiozzare col viso nascosto nel suo
collo.
«Jared Jeremiah Vega» disse poi
distrutta.
Ed io con lei.
«Jeremiah per Jerry?» domandai
quando finalmente trovai la forza.
La sentii annuire contro la mia
guancia.
«Era un nome perfetto, Danika.»
Aveva continuato a piangere
sommessamente
ma
iniziò
a
singhiozzare, un profluvio di lacrime
incontenibili.
«È tutta colpa mia» accusò,
«Sono caduta nella doccia l'altra mattina
e sono andata avanti come se niente
fosse, pensando di stare bene. Sarei
dovuta andare all'ospedale e non
sarebbe successo niente di tutto questo.
Avremmo ancora il nostro piccolo.»
Non riuscivo a sopportare che si
incolpasse per un incidente.
«No, no, no» le sussurrai
teneramente fra i capelli, «Non è colpa
tua. Non dirlo, è insostenibile. La colpa
è mia, avrei dovuto essere lì con te.»
Lei protestò, dicendomi che non
era così ma non le credetti, non so se per
colpa del tono o per via della mia
coscienza.
La tragedia non riscuoteva mai la
sua libbra di carne tutta per intero. Ci
metteva un po' tra il colpirti
direttamente, l'essere digerita e in casi
importanti come questo, per far venire a
galla una reazione autentica. Questa
perdita non aveva ancora terminato di
infierire su di noi.
CAPITOLO
VENTIQUATTRO
DANIKA
Dopo quell'evento la caduta per
noi diventò lenta, libera e inesorabile.
C'erano giorni nei quali mi
arrabbiavo con ogni fibra di me stessa e
altri nei quali ero stordita come Tristan
ma senza aver bisogno dell'alcool.
L'aborto aveva prodotto molte
lacerazioni, tanti piccoli pezzettini di
noi due che andavano ricuciti. Solo che
non c'era più filo sufficiente per
entrambi. A malapena bastava per uno di
noi.
Tristan era spesso assente ed io
non avevo persona con cui condividere
il dolore, che mi confortasse. Non
l'avevo detto né a Bev né a Jerry. Per
quanto
ne
sapevano,
avevo
semplicemente passato qualche giorno a
casa
di
Tristan,
nulla
fuori
dall'ordinario.
Non riuscivo a parlarne e sebbene
lo sguardo amorevole di Bev mi
suggerisse che sapeva di qualcosa che
non andava, non lo ammisi mai ad alta
voce.
Andai a casa di Tristan durante
una delle sue rare visite in città.
Avrebbe dovuto aspettarmi, ma era
ovvio che non fosse pronto quando
entrai in camera. Lo trovai solo,
appoggiato alla testiera del letto. Si
vedeva chiaramente che era cotto. Non
sapevo di cosa fosse fatto e non
domandai: il mezzo non era importante
quanto la causa e il fatto che ora lui non
si nascondesse più, quando aveva
sempre usato una sorta di filtro per il
mio bene.
Si
capiva
che
aveva
semplicemente gettato la spugna.
Non battei ciglio né evitai di
guardarlo dritto negli occhi iniettati di
sangue o di osservare le mani tremanti
mentre accendeva una sigaretta,
cercando senza successo di restituirmi
lo sguardo.
Assorbii tutto nella sua brutale
realtà e mi ritrovai a piangere e a
chiedergli con voce tremante: «Cosa
posso fare? Dimmelo e lo farò. Dimmi
come posso aiutarti.»
E salvarti, pensai.
Lui non fece una sola piega. La
sua sensibilità e i suoi sentimenti per me
erano arrivati a un tale grado di
deterioramento o semplicemente era
troppo fatto. Potevano essere l'una,
l'altra o entrambe le cose. Quando
rispose, la sua voce era vacua. Non
c'era nulla, nemmeno l'ombra di ciò che
avrebbe dovuto provare in risposta al
mio dolore.
«Non puoi. Non posso nemmeno
io.»
«Beh, qualcosa deve riuscirci.
Non ti rendi conto di quello che ti stai
facendo? Non vedi cosa fai a me, non
t'importa di distruggermi?»
«Cosa vuoi da me?» domandò con
voce un po' più animata.
«Tutto» gridai adirata e distrutta,
«Tutto quello che mi hai promesso e di
cui ho bisogno. Ciò che sono disposta a
darti è ciò che voglio da te. Non puoi
farlo per me, Tristan? Non ti è rimasto
niente?»
Lui scosse semplicemente la testa
e i suoi occhi si chiusero. Tanto valeva
discutere col letto.
ll giorno dopo non ricordava
nulla, ma io sì. Avevo memoria di ogni
cosa: non c'erano droghe a stordirmi, a
farmi dimenticare. Non avrei mai scelto
quella strada perché non ne sarei uscita.
E forse, non ci sarebbe riuscito
nemmeno Tristan.
Iniziai a notare un cambiamento
graduale anche dentro di me. Ero meno
me stessa o meglio, ero più una versione
diversa di me. Divenni meno Danika, la
ragazza forte che lavorava sodo per
costruirsi un futuro, e mi trasformai più
in Dani, l'ombra di quella che ero stata
da bambina, l'affamata d'amore che non
ne aveva mai avuto abbastanza.
Mi ritrovai dentro i miei vecchi
schemi d'infanzia, quelli concessivi.
Tristan non era mia madre: la
nostra relazione ovviamente era di
diversa natura e lui mi aveva amato
molto più di quanto non avesse mai fatto
mamma; ma io stavo tornando a essere
quella che ero stata durante il periodo in
cui lei si era presa cura di me; o meglio,
io di lei. La prima volta che me ne resi
conto mi venne una tale nausea che finii
per vomitare la cena nel bagno.
No, pensai, ti prego, no. Io lo amo
e lui ama me. Possiamo farci
reciprocamente del bene. A lui serve
solo più tempo.
Questa frase tristissima divenne
un mantra nella mia mente: vivevo per
gli "e se" e i "se solo". Divenni quella
che pensavo Tristan volesse che fossi,
invece di pensare a ciò che serviva a
me. Il potere che aveva su di me era
arrivato a un tale livello debilitante ma
ero io che gliel'avevo concesso, assieme
al mio cuore.
Conoscevo la depressione, avevo
sofferto di diverse forme in gioventù ma
quella che mi assalì fu paralizzante. Ai
picchi maniacali estremi, seguivano
quelli più prostranti. Per la prima volta
in vita mia iniziai a fantasticare di
morire. Non di mettere necessariamente
fine alla vita, quanto piuttosto alla pace,
alla tranquillità dell'atto.
Era un periodo buio per me, la
fase più nera che avessi mai
sperimentato in cui i pensieri
prendevano sempre una piega contorta,
morbosa.
Guardavo i ventilatori sul soffitto
e mi vedevo impiccata. Ogni incrocio
sul quale passavo andando a scuola era
una potenziale opportunità per mettere la
parola fine al mio dolore. Una manciata
di
antidolorifici
serviva
improvvisamente a un nuovo scopo nella
mia mente.
Pensavo a come la vita sarebbe
andata avanti senza di me quasi con
ossessione: forse la mia morte avrebbe
funto da sveglia per far sì che Tristan si
rimettesse in carreggiata. Magari gli
sarei mancata così tanto che mi avrebbe
seguito in un posto migliore, dove il
peso dei dispiaceri era meno gravoso.
Ci sarebbe stato anche Jared e il nostro
piccolo che qui era a malapena formato,
sarebbe stato vivo e perfetto. Avremmo
potuto toccarlo e chiamarlo per nome e
le cose sarebbero andate meglio.
Sfortunatamente, ci pensò un'altra
tragedia a farmi uscire dal buco nero
della depressione.
Come se i miei stessi pensieri
morbosi avessero acquisito sostanza, il
colpo seguente parve derivare dai miei
stessi incubi: Leticia fece ciò su cui io
mi ero fissata.
Dire che non aveva preso bene la
notizia dell'aborto era semplificare: mi
aveva chiesto di non andare più a
trovarla ed io non ne ero stata ferita,
solo preoccupata perché sapevo quanto
bisogno avesse di quel sostegno che
rifiutava. Io stessa ne avevo poco da
distribuire ormai, perciò la lasciai in
pace senza discutere.
A posteriori, avrei dovuto
combattere ma non avrei mai saputo se
le cose sarebbero cambiate.
Le nostre scelte sono personali e
quella di Leticia fu impulsiva e
permanente.
Tristan era venuto a trovarmi a
casa e all'inizio avevo pensato che fosse
finalmente pronto per stare meglio e
volesse il mio aiuto. Quando aprii la
porta e lo vidi in faccia però, seppi di
essere in pieno torto.
Lo condussi in camera mia senza
dire una parola, sedendo sul bordo del
letto al suo fianco. Lui mi prese la mano
guardandosi il grembo ed io passai
l'altro braccio attorno alle sue spalle,
accarezzandogliele con affetto.
Non sapendo più cosa dirgli
ormai, lasciai che il silenzio ci tenesse
compagnia. L'aborto aveva tolto anche a
lui la voglia di lottare, senza contare
tutto quello che aveva passato in
precedenza. Alla fine, dopo un'eternità
passata ad accarezzargli la schiena e le
spalle, lui rabbrividì sotto le mie mani e
lo disse. All'inizio riuscii a malapena a
capire le sue parole inframmezzate a
bassi mugugni e singhiozzi affannosi.
«Oh, no» sussurrai mettendo
insieme i pezzi.
Mi voltai verso di lui,
stringendolo contro il mio corpo,
sdraiandomi e obbligandolo a sistemarsi
sopra di me. Lui non fece alcuna
resistenza continuando a parlare a bassa
voce di sua madre, la sua povera madre
tutta sola, che aveva messo fine alla sua
vita con un flacone di sonniferi.
Lo consolai, in fondo era quello il
mio compito. Ma la mia reazione
iniziale, quella viscerale, fu di rabbia
profonda: come aveva osato? Come
aveva potuto essere così egoista e fare
questo al mio povero, caro Tristan?
Era una soluzione così drastica
per i suoi problemi, difficile da
immaginare, dura da digerire.
Leticia era sempre stata una
donna piena di conflitti, gli stessi che io
provavo nei suoi confronti: le volevo
bene sinceramente, e dentro al vero
amore c'era sempre spazio per il
perdono ma il modo in cui aveva trattato
Tristan mi faceva infuriare e tuttavia
dispiacere per lei. Sempre, anche in
quel momento.
Alla fine, quella prima reazione
fu di breve durata. Più di tutto provavo
pena per lei: tutti eravamo arrivati a un
punto di rottura nella vita ma lei aveva
ricevuto troppi colpi, vissuto troppe
tragedie perché la sua debole mente
riuscisse a sopportarle.
Parlare al suo funerale fu come
vivere nuovamente il passato, con la
differenza che io e Tristan eravamo gli
unici presenti. Il suicidio era sempre un
argomento delicato.
«So che non era perfetta. Ho ben
chiari i suoi difetti, ma era una donna
affettuosa. Amava con tutto il suo
enorme cuore e quando quel cuore si è
spezzato, ci ha lasciati.»
Mi rivolsi direttamente a Tristan:
«Lei ti voleva bene, so che era così. Era
accecata dal dolore ma sono certa che
nei suoi momenti lucidi, ti adorasse e
fosse orgogliosa di averti come figlio. Io
sono nessuno in questo mondo, so poco
di Dio, delle stelle e della vita
ultraterrena ma sono certa di questo: da
qualche parte, la sua anima è ancora
viva e ti custodisce. C'è un posto in cui
sono tutti, Jared, nostro figlio e tua
madre.
Il mio rapporto con Leticia è stato
breve ma profondo. Mi ha fatto sentire
amata. Anzi: so che mi ha voluto bene e
questo ha significato molto per me. Non
importa se è egoismo: la sua morte non
dovrebbe avere più importanza della sua
vita, perciò ricordiamocela per come ci
ha voluto bene e non per il modo in cui
se n'è andata.»
Tristan mi guardò annuendo, gli
occhi lucidi e la mascella tremante.
Stava soffrendo ma io avevo colto nel
segno e mi sentii gratificata dall'essere
riuscita a dargli un po' di respiro
nonostante quel buco nero che era
diventata la sua mente.
Per quanto terribile, la tragedia di
Leticia servì a uno scopo, almeno per
me.
Fu come se la nebbia che mi
offuscava il cervello si fosse sollevata
ed io fossi nuovamente in grado di
pensare. Faceva ancora male: avevo un
cuore pieno di dolore per ogni perdita,
ma ricominciai a vivere, ad alzarmi, a
muovermi. A compiere piccoli passi
nella giusta direzione.
Sola.
CAPITOLO
VENTICINQUE
DANIKA
Il declino di Tristan dopo questo
avvenimento fu inarrestabile. Ogni
tragedia sembrava risucchiarlo un po'
più a fondo nelle spire del suo inferno
personale. Sembrava che ogni errore,
ogni ricaduta lo trascinasse giù fino a
che il peso di tutti i nostri fallimenti ci
seppellì.
All'inizio affogammo insieme ma
il mio istinto di sopravvivenza era
troppo forte per continuare così a lungo.
La mia presa su di lui divenne sempre
più debole e alla fine ogni dito si spezzò
e la mano si aprì, lasciandolo andare.
Nessuno avrebbe potuto dire che
non avessi lottato per lui. Nessuno
avrebbe potuto affermare che non avessi
perso.
Entrai nel suo appartamento
arrabbiata, frustrata e delusa. Ormai
erano questi i sentimenti ai quali mi ero
abituata per quanto riguardava Tristan.
Mi aveva di nuovo dato buca:
avremmo dovuto incontrarci per cena
due ore prima e lui invece era lì solo,
spaparanzato sul divano.
Notai che stava giocando con un
piccolo braccialettino nero simile a
quelli che indossava Jared. Li avevamo
distribuiti al funerale del fratello e la
cosa non mi sorprese. Tuttavia, ero
comunque arrabbiata. Ultimamente tutto,
dalla paura alla disperazione, al bisogno
di aiutarlo, sembrava convogliare in una
rabbia amara che mi teneva sveglia la
notte.
Stavo cercando di esserci per lui,
ma chi c'era per me?
Il suo sguardo appannato puntava
al soffitto.
«Lo so perché lo stai facendo, non
credere che non l'abbia capito. Il dolore
è tale che faresti di tutto per attutirlo. Ti
fa talmente male che sei disposto a
perdere ogni cosa pur di mandarlo via.»
Lui rimase in silenzio continuando
a far girare il braccialettino e fu proprio
quel silenzio a parlare.
«Lo capisci a che punto sei
arrivato o non ti interessa nemmeno
più?»
Silenzio.
«Ti dice qualcosa il fatto che ho
già pensato a come sarà il tuo
braccialetto quando lo seguirai?»
Lui smise di tormentarlo per un
breve attimo poi riprese, sempre muto.
«Ho deciso che sarà un mazzo di
carte. Ti piace l'idea? Puoi dire di no
ovviamente, dato che stiamo parlando
del tuo funerale» e su quella parola la
mia voce cedette.
Tristan sospirò e finalmente
spostò gli occhi dal soffitto al mio viso,
guardandomi con aria terribilmente
seccata considerato che era fatto fino al
midollo.
«Pensi che lui lo vorrebbe?
Vorrebbe che tu lo seguissi? A Jared non
serve che lo imiti, Tristan e nemmeno
Leticia ti vorrebbe là dove sta adesso.
Nostro figlio…» singhiozzai e dovetti
fermarmi per riprendermi.
Ancora non riuscivo a parlare del
nostro angioletto perduto senza crollare.
«Nostro figlio non ha bisogno che
tu lo raggiunga. Forse adesso non c'è più
nulla che tu possa fare per lui, ma io ho
bisogno di te. Io sono qui e ti sto
chiedendo di smettere di inseguire questi
fantasmi e ricominciare a vivere con
me.»
«Tu non hai bisogno di me. A te
non serve anima viva Danika, sei più
forte di tutti noi e sei migliore senza di
me.»
«Non cominciare. Ti dico solo
questo e poi ti lascio stare: è finita
Tristan. Questo è l'ultimo avviso: se ti
ritrovo in questo stato, ho chiuso. Volevi
un ultimatum, l'hai avuto.»
Tornai a casa con le spalle
incurvate sotto un peso eccessivo. Mi
stesi a letto e non mi rialzai per ore, per
giorni.
Cosa restava di una donna che
aveva dato tutto al suo uomo? Non era
una risposta facile e impossibile da
negare persino per me: nulla.
Di lei, rimaneva il nulla.
Avevo dato troppo? C'era ancora
qualcosa da usare per provare ad andare
avanti?
Mi domandai anche se fosse
successo questo a mia madre, provando
per la prima volta da anni, un accenno di
compassione nei suoi confronti. C'era
stato un qualche uomo che l'aveva
distrutta nello spirito, rendendola un
guscio quando se n'era andato? Ed io, mi
sarei lasciata trasformare a mia volta in
un fantasma apatico?
No, pensai furiosamente. Io ero
più forte, avrei combattuto fino alla fine.
Anche se ero riuscita a determinare fin
da subito cosa mi avrebbe trasformato in
una come lei, non significava che lo
sarei
diventata.
Io
possedevo
un'innegabile qualità che avevo scoperto
fin da quando ero una bambinetta senza
amore: sapevo sopravvivere.
E così, cercai di ripartire da
quello.
TRISTAN
Era a casa mia che si agitava
dentro la mia cucina, di nuovo incazzata.
Mi portò una tazza di caffè che
sorseggiai ascoltandola sfogare la sua
frustrazione in cucina. Feci una smorfia
udendo il rumore di qualcosa che si
rompeva e improvvisamente ebbi
l'illuminazione che non fosse colpa delle
nostre separazioni.
Lei sembrava infastidita sì,
stressata e occupata ovviamente; ma il
dolore nei suoi occhi e la rabbia non
erano causati dalla mia assenza, quanto
dalla mia presenza.
Fu una scoperta che mi devastò,
accendendo una luce in me.
Non fu una lampadina ma una
vera e propria ondata luminosa, che
colpì rischiarando tutto quello che non
volevo vedere, ogni angolo oscuro e
sinistro della mia pietosa esistenza. I
fatti erano la luce ed io li avevo ignorati
troppo a lungo.
La mia esistenza era maledetta: le
persone che amavo, quelle che mi
stavano vicine e dipendevano da me
erano morte ed io ne ero responsabile.
Per quanto mi riguardava, ogni singola
morte sarebbe stata evitabile ma io
avevo fallito in quello.
Non avevo futuro, questo ormai
mi era chiaro da un po'. Quello che però
mi divenne lampante, facendomi
accapponare la pelle per la sua limpida
semplicità, fu il pensiero che Danika non
fosse obbligata a condividere il suo con
me. Non doveva essere trascinata sul
fondo dell'abisso assieme a me. Ero
stato egoista a volerla trattenere sulla
nave che colava a picco, lei meritava
molto di più.
Cosa avevo pensato di fare
portandola nella mia vita incasinata?
Come avevo mai potuto credere che
sarei stato abbastanza per lei?
Tornò in camera con un piatto e
del cibo che poggiò sul comodino prima
di sistemarsi davanti a me, le mani ai
fianchi.
Misi la tazza sul pavimento e la
presi per la vita. Indossava dei jeans
aderenti a vita bassa e nascosi il viso
contro la pelle nuda, fra la linea della
sua biancheria e quella della maglietta.
Potevo davvero farlo? Di certo
non avrei potuto resistere senza toccarla
almeno un'ultima volta.
Le sue mani s'infilarono fra i miei
capelli, tirandoli. Da quel semplice
tocco si capiva che stava tenendo a
freno la sua rabbia. Non era mai stata
arrabbiata con me per tanto tempo, a
prescindere da quanto lo meritassi.
La baciai sulla sua pancia
perfetta.
«Danika» sospirai contro la sua
pelle. Le mie braccia si strinsero attorno
al suo corpo, «Non possiamo andare
avanti.»
Lei s'irrigidì poi si rilassò,
accarezzandomi i capelli.
«Bevi dell'altro caffè, Tristan.
Torna in te prima di ricominciare a dire
sciocchezze.»
Le baciai ancora la pancia,
chiudendo gli occhi e facendo appello a
una forza che non credevo di avere.
«Non funziona, Danika. Lo sai
meglio di me.»
«Smettila»
disse
tagliente,
tirandomi la testa all'indietro per
obbligarmi a guardarla.
Sussultai ma lei fu implacabile.
Mi baciò e si sdraiò accanto a me.
Grugnii sistemandomi sopra di
lei, bisognoso di sentirla contro di me
più di tutto il resto, anche se per l'ultima
volta.
«Mi dispiace» sussurrai sul suo
viso, «Ho chiuso.»
Non riuscivo a sopportare
nemmeno per un secondo il suo sguardo,
quegli occhi feriti che mi condannavano,
quella bocca contratta dalla rabbia.
«Smettila» mi intimò ma questa
volta la sua voce era debole, incerta.
Eppure non aveva ancora finito di dare
il tormento a entrambi: sollevò la testa
premendo le labbra sulle mie ed io la
accolsi con un mugolio roco.
Quando l'avrei lasciata andare, si
sarebbe portata via un'altro pezzo
importante di me. Non c'era nulla che
potessi fare o cambiare.
«È finita, tesoro» ripetei quando
ci staccammo per riuscire a respirare.
«No» protestò flebilmente.
Ci baciammo ancora, lei mi sfilò
la maglietta ed io feci lo stesso con lei,
le mie mani vagavano libere sulla sua
pelle nuda. Mi prese l'erezione
stringendola ed io mi spinsi contro il suo
palmo. Ero solo un essere umano pieno
di difetti…
Spogliò entrambi, attirandomi
sopra di sé ma non la penetrai. Rimasi
appoggiato su di lei, i nostri corpi
perfettamente incastrati, i nostri cuori
che battevano furiosi uno contro l'altro e
la mia erezione che pulsava lungo la sua
fessura. Era la tortura più squisita che
potesse esistere.
Quando tutto il resto fallì,
diventai quel tipo di bastardo che
sapevo lei avrebbe odiato. Strinsi gli
occhi come se mi stessi preparando a
ricevere un cazzotto e nascosi il viso nel
suo collo.
«Penso che sia meglio starmene
da solo. Questa cosa del legame proprio
non fa per me.»
Lei iniziò a singhiozzare ed io la
abbracciai. Mi baciò continuando a
gemere. La ricambiai con gli occhi
sempre chiusi.
«Perché Tristan, perché fai così?»
«Dobbiamo fare quel che è
meglio per noi e a questo punto delle
nostre vite non siamo l'ideale insieme.»
Utilizzai il noi perché lei non
avrebbe mai accettato di essere da sola
in quello; ma era una menzogna oltre che
la mia unica speranza. «Questo
matrimonio è stato un errore.»
Lei tremò sotto di me, muovendo i
fianchi per spingermi dentro di sé. I suoi
gemiti diventarono dolci sbuffi delicati
contro la mia guancia. Con un rantolo
roco sprofondai dentro di lei fino alla
radice. Stavo morendo e in quei miei
ultimi spasmi, mi concessi di possederla
ancora una volta. Ogni stoccata fu una
dolce agonia, ogni suo grido un insieme
di dolore e piacere. Riversai la mia
soddisfazione dentro a quel suo piccolo
corpo perfetto e un flusso di disprezzo
nei confronti di me stesso condì ogni
singolo movimento.
Una volta terminato, la mia pelle
si sarebbe dovuta ammantare di
vergogna. Il senso di colpa non avrebbe
dovuto permettermi di riposare più. Ma
quei
condizionali
non
avevano
importanza… Venni dentro di lei e lì
rimasi, crollando dal sonno.
Quando mi risvegliai quattordici
ore più tardi, lei era sparita.
DANIKA
Era sdraiato sopra di me, dentro
di me. Addormentato.
Rimase così per tutta la notte ed
io non mi mossi intenzionalmente.
Respirai chiudendo gli occhi e pensando
che non avrei mai dimenticato questa
sensazione di lui sopra e dentro di me,
che mi consumava prima di lasciarmi
andare.
Era troppo insensibile, si era
spinto eccessivamente oltre per rendersi
conto che non mi sarei mai liberata di
lui, che tutto ciò che aveva fatto era stato
mandarmi alla deriva.
Non mi ero mai sentita così
male… quel senso di abbandono
disarmante e d'insopportabile desiderio
sarebbero rimasti con me per minuti,
ore, giorni, settimane, mesi.
Per anni.
Ripresi la mia vita superando
tragedia, dolore e difficoltà ma il mio
cuore e la mia anima rimasero dentro
quel letto.
Quell'ultimo incontro mi lasciò a
pezzi, distrutta. Parti di me erano sparse
fra quelle lenzuola, pezzi essenziali che
non sarebbero mai tornati insieme,
mentre io continuavo ad andare avanti.
La vita è così crudele…
I fatti erano anche troppo chiari
quando riuscivi a vederli attraverso il
filtro anestetizzato di un nuovo dolore,
in quel breve lasso fra la negazione e
l'agonia.
Avevo due percorsi distinti
davanti a me: uno era dolorosamente
chiaro, lastricato di brutali certezze.
Potevo andare avanti: avrebbe fatto
male, distruggendo parti di me ma mi
avrebbe condotto a un futuro. Non era la
strada che avevo desiderato, ma la vita
non ti dava mai ciò che volevi, era solo
una questione di vivere con quello che ti
serviva.
Tristan iniziò a chiamarmi una
settimana dopo scusandosi, cercando di
convincermi a riprenderlo indietro ma io
non cedetti mai. Non risposi. Non
potevo farlo. Lui aveva troppe armi che
avrebbe potuto usare contro di me senza
sforzo. Armi contro le quali io ero
indifesa.
L'unico modo per sopravvivere
sarebbe stato evitarle del tutto.
Spedii Jerry da Tristan con le
carte per il divorzio e una lunghissima
lettera in cui mettevo a nudo il mio
cuore, spiegandogli ogni azione e
dandogli una scelta: separazione o
riabilitazione. Doveva decidere.
Non sopportavo di rivederlo, non
ero in grado di rimanere stabile avendo
sotto gli occhi la prova tangibile di
come lui si stava devastando. C'era
ancora un pezzetto di me al quale
aggrapparmi per salvarmi e in un ultimo
sforzo, dovevo almeno provare a farlo.
Se non avessi risparmiato nemmeno quel
frammento ferito, avrei perso ogni
possibilità di uscirne viva.
Le carte non ci misero molto a
tornare indietro firmate e lui non mi
richiamò più.
CAPITOLO
VENTISEI
DANIKA
Più di un mese dopo iniziai a
provare quella nausea familiare che
associavo a una sola cosa, poiché
l'avevo provata solo in un'unica altra
condizione.
Quando ci pensai faticai a
crederci, ma in fondo perché no?
L'ultima brutale, devastante volta che
eravamo stati insieme aveva avuto un
suo peso, una sua sostanza, quindi non
potevo certo sorprendermi che avesse
portato a dei risultati così incisivi.
Ero incinta. Di nuovo.
Mi ritrovai terrorizzata ma
eccitata. No, esaltata e da un istante
all'altro tutto cambiò. Una nuova vita
dentro di me rendeva quello che prima
mi era parso insormontabile, una
possibilità. Il divorzio diventava non
necessario,
quest'insopportabile
separazione permanente da Tristan era
repentinamente terminata grazie al cielo.
Quella piccola crocetta mi portò
dal credere che la nostra rottura fosse
l'unico modo per riuscire a sopravvivere
integra, al capire con disperato sollievo
che non dovevo più torturarmi.
Avevo troncato ogni contatto con
Tristan con determinazione ed ero
riuscita a mantenermi risoluta fino a quel
momento, anche se con difficoltà.
Provavo un dolore pulsante e acuto,
come se i nostri cuori fossero stati
annientati e avevo vissuto un giorno
dopo l'altro senza crollare solo grazie
alla forza di volontà. Ma ora non
dovevo soffrire oltre.
Mi sentivo come se fossi uscita
sulla parola. Il mio cuore era di nuovo
libero.
Gli avrei raccontato del bambino
e avremmo trovato un modo per
risolvere tutto.
Mi dissi che la notizia lo avrebbe
aiutato a ripulirsi. L'altra volta non era
successo ma ora era diverso, avevamo
molto da perdere: non c'era spazio per
gli errori, dovevo riuscire a farglielo
capire.
Non chiamai lui ma Kenny per
scoprire dove fosse e fui fortunata:
Tristan era tornato in città per il fine
settimana.
La mia giornata passò come se
galleggiassi su una nuvola: tutto sarebbe
andato bene d'ora in poi, ne ero certa.
Ricordo tutto di quel venerdì,
persino il tempo. Era una splendida
giornata d'inizio primavera, il sole
splendeva e c'era una leggera brezza che
mi pettinava i capelli mentre andavo a
lezione con un sorriso inattaccabile sul
viso.
Quella sera mi preparai con cura.
Mi resi conto mentre mettevo mascara e
rossetto rosso, che era la prima volta da
mesi che mi truccavo, che mi guardavo
direttamente nello specchio. Prima di
scoprire del bambino ero stata uno
zombie e sentirsi nuovamente viva era
così bello! Una meraviglia.
Rammento nel dettaglio anche
cosa indossai, dallo scamiciato nero
aderente coi bottoncini che scopriva la
scollatura (uno dei preferiti di Tristan
per via dell'accesso spettacolare) fino
alle scarpe col tacco rosse, che sapevo
amava più di me.
Mi arricciai i capelli lasciandoli
liberi sulla schiena. Mi feci le unghie
colorandole di un rosso brillante perché
fossero in tono con scarpe e rossetto.
Volevo stupirlo, sapevo che togliergli
subito il fiato non avrebbe fatto male e
mi sarei presa quel poco di vantaggio
che potevo.
Indossai anche l'anello di
fidanzamento e la fede. Lui si era
rifiutato di riprenderli ma io non me ne
ero mai liberata. Non ci sarei riuscita.
Mentre guidavo fino a casa sua, le
mie mani tremavano per l'eccitazione e
la trepidazione. Non ero così ingenua da
credere che sarebbe stato un incontro
semplice eppure mi sentivo fiduciosa
nel fatto che in un modo o nell'altro,
saremmo riusciti a risolvere tutto.
Avevamo così tanto in ballo adesso. Non
volevo soffermarmi su cose morbose,
come ad esempio quanto sarebbe stata
felice Leticia se fosse rimasta con noi.
Riuscivo solo a concentrarmi su questo
bambino, sul recupero della nostra
famiglia per potergli dare una vita
migliore.
Volevo che i suoi genitori
avessero un'altra possibilità per essere
felici, che sua madre ne avesse una di
vivere serenamente. Sapevo che non
sarebbe stato facile, a Tristan
chiaramente serviva la riabilitazione e
una terapia di gestione del dolore. Era
un tossico e aveva sofferto troppo tutto
insieme per poter fare da solo, me ne
rendevo perfettamente conto. Se fosse
stato in grado di fermarsi con le sue sole
forze, non sarebbe arrivato a quel punto.
Mi ripetei che il bambino lo
avrebbe convinto. In fondo lui voleva
essere padre, uno di quelli bravi e
presenti e su quello non ne dubitavo:
questo figlio avrebbe cambiato le cose.
Con la scoperta della mia
gravidanza, tutti gli angoli ciechi della
mia vita avevano recuperato la piena
visibilità.
Dove
prima
c'era
disperazione ora regnava la speranza,
quella che serviva anche a Tristan. Per
la prima volta nell'arco di un mese mi
sentivo piena di ottimismo perché tutto
sarebbe andato bene.
Arrivai al suo appartamento col
cuore leggero e bussai, avendo restituito
la chiave assieme alle carte per il
divorzio. Mi aprì Dean. Non ero felice
di vederlo ma lui invece sembrava il
contrario, il che secondo la mia
esperienza non era mai stato un buon
segno.
«Danika! Che tempismo favoloso!
Ci stavamo divertendo un po' tutti
insieme, entra. Trovi Tristan in cucina,
ha perso la sua camicia e la vodka
perciò è molto, molto scorbutico.»
Alzai gli occhi al cielo. Ecco
perché era così di buon umore, pensava
che sarei esplosa vedendo Tristan e
quello sarebbe stato il massimo per lui.
La casa era piena di gente, uomini
e donne mai visti. Da quello che si
passavano, mi resi conto che c'era di
tutto. Le regole erano state buttate nel
cesso ma mi ripetei che non
m'interessava. Quello che m'importava
era il futuro e salvare il salvabile.
Lo vidi e scelsi di assumere
un'espressione piatta. Le cose erano
peggiori
di
quanto
le
avessi
immaginate… ed io avevo immaginato
molto. Tristan era senza maglietta e a
piedi nudi, i jeans bassi sui fianchi.
Teneva in mano una bottiglia vuota di
vodka, sbraitando qualcosa sul trovare
chi si era bevuto tutto senza rifornire il
bar. Dall'ultima volta che l'avevo visto
sembrava aver perso più di dieci chili,
le ossa sporgevano spaventose dal suo
viso. Aveva sempre avuto l'aspetto sano,
di uno che si pompava in palestra ma
quella sua magrezza evidenziava
chiaramente quanto fosse grosso. Non
era solo una questione di altezza, per
quanto fosse effettivamente alto, ma era
l'ossatura a renderlo diverso.
I suoi occhi facevano paura e
quando mi riconobbe, divennero ancora
più grandi. Sbatté la bottiglia vuota sul
bancone, il botto sufficiente a
spaventarmi. Aveva un aspetto talmente
brutto che avrei voluto piangere. Poteva
tornare indietro? Ci saremmo riusciti
entrambi? Mi ripetei fermamente che
non era più solo una domanda:
dovevamo farlo.
Lui mi indicò serrando la
mascella e la sua espressione rese il suo
terribile dimagrimento ancor più
evidente.
«Tu» mimò, come se non credesse
che fossi davvero lì, come se lo stessi
perseguitando.
«Io» dissi dolcemente e con il
cuore a pezzi per lui. Aveva toccato il
fondo.
Si spostò verso di me coi pugni
stretti e un'espressione minacciosa.
«Ho bisogno di parlarti» gli dissi
piano.
Lui scosse la testa più volte
mentre mi bloccava contro il bordo del
bancone, stringendomi malamente le
spalle.
Mentre prima la sua mole mi
aveva sempre affascinato, eccitandomi;
all'improvviso mi sembrava spaventosa.
Questo era un lato di lui che non avevo
mai sperimentato prima.
Le sue mani erano più brutali che
mai, lo sguardo gelido e appannato e
quando parlò, il tono rude e maligno.
«Per chi ti sei vestita così? Mi hai
già dimenticato?»
Le sue grosse dita mi strofinarono
le labbra ammaccandole per togliermi il
rossetto.
«Per chi, eh? So che non l'hai
fatto per me. Dimmi il suo nome così
posso andare a ucciderlo.»
«Tristan, smettila. Cosa stai
facendo? Dobbiamo parlare.»
«Parlare? Tu mi hai chiesto un
fottuto divorzio e adesso vuoi parlare?»
Le sue mani andarono ai miei capelli,
stringendoli tanto da farmi venire le
lacrime.
«Sì. Ti prego, calmati. Ho
qualcosa d'importante da dirti. Andiamo
da qualche parte dove possiamo stare
soli, non voglio farlo qui.»
Mi
prese per
i
fianchi
sollevandomi sul bancone. Per quanto
fosse messo male in quel momento, non
mostrava alcuno sforzo nel sostenere il
mio peso. Per lui era nulla.
Mi aprì le gambe sistemandovi in
mezzo i fianchi e i suoi occhi fissarono
le sue mani che mi sollevavano il
vestito.
Cercai di tenermi coperta il più
possibile ma lui mi bloccò, scoprendomi
le mutandine tanto che chiunque avesse
guardato, le avrebbe viste. Non
sembrava rendersi conto che non
eravamo soli e che casa sua era piena di
sconosciuti.
«Smetti» lo pregai con dolcezza,
«Ti prego, basta.»
«Cosa, non sei pronta?» domandò
andando al primo bottone del mio abito,
proprio sotto alla scollatura. Lo tirò
sgarbatamente riuscendo a slacciarne
due.
«Per chi è tutto questo?
Dimmelo.»
«Sei fuori controllo e devi
fermarti» cercai di mantenere la voce
ferma ma ne uscì un pigolio tremulo e
spaventato, che Tristan non parve
percepire. Le sue palpebre pesanti
studiavano il mio corpo.
«È passato così tanto tempo e tu
sei qui, così. Un accesso facile per
essere presa. È ovvio che volevi
qualcuno stasera. Non faccio più per
te?»
Mi palpeggiò stringendo forte la
mia carne morbida. Avrei avuto i lividi
il giorno dopo ma questo non lo fermò.
Mi baciò selvaggiamente, spingendo la
sua lingua fino in fondo alla mia gola.
Quasi soffocai dall'intensità del sapore
di alcool nel suo alito. Mi strattonò,
depredando la mia bocca senza alcuna
gentilezza. Era come se avesse
completamente dimenticato quanto fosse
forte.
Tristan era fuori di testa quella
sera, uno sconosciuto.
Non ero certa sul da farsi ma
sapevo che non potevo lasciare che mi
toccasse ancora, non così.
Slacciò un altro bottone e un altro
ancora. Quando l'avevo indossato, mi
ero sentita così ardita da evitare il
reggiseno. Che errore! Non ci avrei
messo molto a ritrovarmi in topless.
Lui si chinò e mi succhiò la pelle
dal collo al petto, mordendomi un
capezzolo talmente forte da farmi
piangere.
«Ti piace, vero?» mugugnò contro
la mia pelle.
Cercai
di
respingerlo ma
ovviamente senza risultati. Lui era in
grado di affrontare uomini grandi e
grossi riducendoli a bambole di pezza
ed io non reggevo certo il confronto.
Avevo dato per scontato che avrebbe
tenuto sotto controllo la sua forza con
me, ma non lo stava facendo. Gemetti di
dolore e lui mi strinse nuovamente con
troppa energia.
Una delle sue mani sconosciute
scivolò lungo il mio corpo ed io cercai
di muovermi per evitare che andasse a
meta, ma invano. Lui spinse una delle
sue grosse dita dentro di me, facendomi
gridare dal disagio. Ero ovviamente
asciutta perciò faceva male, eppure fu
quello ad aiutarmi. All'apparenza, la mia
mancata eccitazione lo risvegliò da
quello strano sortilegio.
Arretrò fissandomi. «Beh, non
vuoi?»
Scossi la testa con vigore. «No,
no, no» sussurrai come una cantilena.
«Allora perché cazzo sei qui?»
ruggì allontanandosi.
«Per parlare.»
«Mi stai dicendo di no?»
«Al momento. Non posso
affrontarti adesso.»
«Oh, non puoi? Credi di essere
l'unica figa qui dentro?»
Se ne andò ed io mi rimisi in
piedi cercando di sistemarmi il vestito.
Lui era sparito dietro l'angolo e non mi
sentivo per niente dispiaciuta, dovevo
allontanarmene in fretta, fino a che non
fosse tornato nuovamente in sé.
Ritornò che io ero ancora
appoggiata al bancone, a tenermi chiuso
l'abito domandandomi cosa avrei fatto.
Non sopportavo il pensiero di
andarmene e basta senza aver sistemato
alcunché, ero troppo scossa per
attraversare la stanza, figurarsi guidare
fino a casa.
Tristan aveva in mano la
fotografia del nostro matrimonio, quella
che aveva appeso sul letto. Me la
allungò e la usai per coprire la mia metà
superiore.
«Prendi, io non voglio più
vederla. È ovvio che per te comunque,
non aveva alcun significato.» E sparì di
nuovo.
Dean mi spaventò facendomi
gridare quando mi parlò da dietro.
«Vieni qui, Danika, vieni a sederti
sul divano. C'è un posto libero per te.»
Il suo tono era insolitamente
gentile ma non affidabile eppure lo
seguii in salotto. Avevo bisogno di
sedere, così presi posto dove lui aveva
fatto spazio, tenendomi davanti la
fotografia e fissando il vuoto. Stavo
tremando dalla testa ai piedi.
Dean si accucciò davanti a me
con la fronte aggrottata, come se fosse
preoccupato.
Chi
diavolo
era
quest'uomo? Un altro sconosciuto.
«Ti prendo un po' di succo,
magari ti aiuta. Sembri in stato di choc,
un po' di zucchero ti farà bene credo.»
Annuii. Mi sentivo troppo
imbambolata anche solo per provare a
immaginare il perché di quel suo
comportamento. Le sue parole erano
notevolmente rallentate quindi era
ubriaco, ma lo avevo visto pieno fino
all'orlo tante volte e non era mai stato
così gentile.
Andò mentre Tristan tornava con
due groupie. Le avevo riconosciute dal
modo sciatto con cui vestivano e per lo
sguardo vuoto negli occhi di entrambe.
Scossi lentamente la testa
desiderando solo che questa serata
finisse.
«Guarda
quanto
è
facile
rimpiazzarti» mi gridò lui. Era talmente
ubriaco da dondolare sul posto.
Abbracciò ciascuna ragazza.
«Due volte.»
Ricacciai indietro le lacrime.
«Ma che diavolo ti prende?» gli
domandai con voce tremante.
«Che diavolo mi prende? Che
diavolo
prende
a
me?! L'hai
dimenticato? Tu mi hai chiesto il
divorzio.»
Dean tornò senza dire una parola
e sistemò sul tavolino davanti a me un
bicchiere
di
succo
d'arancia,
scoccandomi
un
sorrisino
di
comprensione alcolica prima di sparire
nuovamente.
Mi sarei ricordata la forma
arrotondata del bicchiere, l'esatta
sfumatura del succo che conteneva. E
che era pieno fin quasi all'orlo.
«Oh: è questo che vuoi?» gridò
Tristan guardando male la schiena di
Dean che se ne andava, «Tu e quello
sfigato di Dean, una cosa fottutamente
preziosa!»
Presi una lunga sorsata da quel
memorabile
bicchiere
di
succo
d'arancia, sentendomi quasi troppo
stanca per portarlo alla bocca. Aveva un
sapore cattivo, un po' amaro, ma lo
attribuii alla mia bocca.
Tristan sollevò le braccia
spedendo le due verso il corridoio.
«Andate ad aspettarmi in camera,
rimpiazzi. Arrivo subito.»
Le ragazze obbedirono ed io
bevvi ancora. Per quanto dura fosse
guardarlo così, lo feci. Forse per colpa
della nostra lite o per Dean, la stanza si
era svuotata completamente e pensai che
fosse la cosa più vicina al concetto di
privacy.
Alzai lo sguardo su di lui e glielo
dissi con un sussurro: «Sono incinta.»
Lui sbatté gli occhi, solo quello e
non disse una parola, tanto che non capii
se avesse sentito.
«Come hai potuto farlo, Danika?
Come hai potuto spedirmi qui Jerry con
le carte per il divorzio senza darmi una
possibilità di parlare?»
«L'ho mandato con le carte e una
lettera. Ti avevo scritto che ti avrei
incontrato se volevi provare a sistemare
le cose. Non l'hai letta? Tutto quello che
dovevi fare era andare in riabilitazione
Tristan, ma tu hai firmato e basta. Questo
casino è colpa di entrambi, non puoi
buttare tutto addosso a me.»
Lui alzò le braccia al cielo. I
muscoli
di
torace
e
stomaco
assecondarono il movimento. Quella
cosa l'aveva spiazzato. «Una lettera?
Cazzate! Non c'era nessuna lettera.»
Scossi ripetutamente la testa. Era
davvero così fuori da non ricordarla?
«Sì
che
c'era»
sussurrai,
sentendomi improvvisamente stordita.
Scossi nuovamente la testa ma fu solo
peggio. Facendo attenzione, rimisi giù il
succo di arancia.
Avrei ricordato che era pieno a
metà e che non lo avrei più toccato.
C'era qualcosa che non andava…
«Tristan, non mi sento bene. Non
credo di riuscire a guidare, ho bisogno
di stendermi.»
«Dean, la porti a casa?» gridò lui.
M'indicò arricciando le labbra, «Hai
divorziato da me, te ne sei dimenticata?»
mi ricordò e ancora: «Sei in difficoltà?
Non è un mio problema.»
Io continuai solo a scuotere la
testa. Tristan si voltò verso il muro, lo
colpì tre volte lasciandoci dentro un
buco poi caracollò fino in camera.
Le lacrime iniziarono a scendermi
lente mentre mi sdraiavo sul divano
lasciandomi andare. Non riuscivo a
tenere gli occhi aperti un secondo di più.
CAPITOLO
VENTISETTE
DANIKA
Una mano sul braccio mi fece
leggermente spaventare.
«Andiamo, Danika. Ti riporto a
casa.»
Era la voce di Dean ma
nonostante gli occhi aperti, non riuscivo
a capire le sue parole. Mi aiutò a sedere
poi ad alzarmi e alla fine mi ritrovai
appoggiata a lui mentre mi portava fuori
dall'appartamento. Sbattei le palpebre
nel tentativo di far svanire quella strana
nuvola che rivestiva la mia mente.
«Cosa
sta
succedendo?»
mormorai, lottando per non chiudere
nuovamente gli occhi.
«Ti do solo un passaggio. Shh,
forza, sarai a casa in men che non si dica
e potrai parlare con Tristan domattina o
quando torna sobrio. Questa sera è
impazzito.»
Sostenne la maggior parte del mio
peso mentre scendevamo lentamente i
gradini, con cautela.
«Perché sei così gentile questa
sera?» gli domandai, chiudendo gli
occhi una volta che mi ebbe aiutato
gentilmente a salire in macchina.
Dean non rispose, mi guardò a
malapena mentre sistemava il grosso
quadro del mio matrimonio sul mio
grembo prima di chiudere lo sportello.
Non mi ero nemmeno accorta che
l'avesse portato.
Strinsi la fotografia al petto e
chiusi gli occhi.
L'auto si avviò. Mi sforzai di
rimanere sveglia e sentii un tocco freddo
sulla mia gamba. Non capii subito cosa
fosse ma seppi che era sbagliato.
Mantenni a fatica gli occhi aperti e la
mano gelida di Dean mi accarezzò la
coscia.
«Cosa stai facendo?» sussurrai
arrochita, cercando di spostarmi.
Lui sollevò la mano riportandola
al volante. «Shh, torna a dormire. Starai
bene e ti riporterò a casa fra poco.»
Aveva ancora un tono rassicurante.
Fu allora che mi resi conto di
come la versione gentile di Dean facesse
più paura dello stronzo senza censure al
quale ero abituata, ma ero talmente
intontita che i miei occhi si chiusero di
nuovo.
Poi mi sovvenne un pensiero che
mi spinse a lottare per riprendermi:
«Non dovresti guidare, sei ubriaco» lo
ammonii.
Lui rise.
«E sballatissimo. Ci siamo
sparati speedball e shortini di vodka in
onore del nostro caro Jared. Non
preoccuparti però, guido meglio da
ubriaco perciò sei in buone mani.
Adesso torna a dormire.»
Volevo litigare con lui, perché era
ovvio che quel suo discorso fosse una
sciocchezza, ma lo sforzo di aprire la
bocca e parlare era troppo grande per
me e non riuscii a emettere alcun suono.
Le sue dita fredde si spostarono e
mi strinsero nuovamente la gamba
salendo questa volta e io protestai più
forte che potevo ma lui continuò,
accarezzandomi da sopra le mutandine
prima di togliere le dita.
«So bene cosa c'è lì sotto. Non
immagini nemmeno quante volte ho visto
te e Tristan assieme. Adoro il tuo
corpicino, sei il mio tipo di ragazza. A
me piacciono minute ma con le curve e
con una fica stretta e accogliente. Non
sarò come quello a cui sei abituata:
Tristan è una bestia, perciò non
preoccuparti, domattina te ne accorgerai
appena. E poi ho sentito che sei incinta,
quindi stai tranquilla.»
«Tu sei malato» gli dissi, «Non
mi farei toccare da te nemmeno se fossi
l'ultimo uomo rimasto sul pianeta.»
Ero felice di essere riuscita ad
articolare dire una frase tanto lunga tutta
per intero. Mi sentivo così letargica che
quello mi sembrava un piccolo
successo.
Lui mi strinse nuovamente la
coscia ed io gli lanciai un'occhiataccia.
«Sai, avrei preferito che ti fossi
finita tutto il bicchiere. Ti preferisco
quando stai zitta.»
«Che cosa credi? Tristan ti
ucciderà letteralmente per questo.»
«Forse, se lo verrà a sapere. Hai
intenzione di dirglielo? Sai che ne sarà
disgustato quando lo scoprirà. Potrà
anche uccidermi ma non vorrà toccarti
mai più.»
«Non mi interessa. Non mi
interessa! Glielo dirò così ti ammazzerà,
lo dirò a tutti. Non la farai franca.»
«Questo se te ne ricorderai.
Credo che domattina la tua memoria sarà
un po' confusa, ma se mi sbaglio sei
libera di dire tutto.»
Mentre parlava, la sua mano
saliva sempre più verso l'alto,
accarezzando e stringendo la pelle del
mio interno coscia. Continuavo a
ripetergli di smettere ma lui non
ascoltava e infilò un dito nelle
mutandine per arrivare dove non aveva
diritto di andare.
Non ricordavo che la cornice con
la foto fosse così pesante, ma adesso lo
era, talmente pesante che riuscii solo a
spostarla in avanti a coprirmi il grembo.
Il bordo superiore mi premeva
sull'addome, ma almeno le mie cosce
erano al riparo da quella sua mano che
rovistava.
A Dean non parve importare,
tanto che si spostò sulla scollatura del
vestito spaziando liberamente sul mio
seno.
«Smetti di toccarmi» gli intimai,
suonando più ubriaca che arrabbiata.
Dentro di me ero talmente adirata che mi
stupivo di non riuscire a ricavare un po'
di forza da quel sentimento.
«Mm, non credo che lo farò. Che
ne dici di rimetterti buona? Come ho
detto, ti preferisco quando stai zitta.»
«Ti odio» sussurrai, alzando in
vano una mano per coprirmi il petto.
C'era talmente tanta pelle esposta e lui
era molto più forte di me.
«Cosa vuoi fare?» domandai con
il tono più alto che riuscissi a
raggiungere, «E perché? Perché?»
Lui rise, tornando il solito Dean.
Quello gentile ormai era andato.
«Vuoi davvero che te lo dica? Ok,
se insisti, ma tanto non ti ricorderai
niente. Userò parole sconce se è quello
che fa per te.»
«Fottiti!»
«No, Danika fotto te. Ecco cos'ho
in mente: ci faremo una bella gita nel
deserto, a circa un'ora dalla città. Non
importa quanto lotterai perché per
quando arriveremo, sarai nel mondo dei
sogni.»
Mi
strinse
un
capezzolo
girandomelo con forza e continuò
nonostante io lottassi contro la sua
mano.
«Sarai talmente fatta che potrò
usarti come voglio e non ti ricorderai
nulla domattina. Stai tranquilla, ho dei
bei piani in mente per te.»
Riuscivo a percepire il sorriso
malato anche dalla sua voce.
«Prima
ho
intenzione
di
spogliarti. Non terrai nemmeno le
scarpe. Lasceremo tutto in macchina. Poi
ti tirerò fuori, ti metterò a faccia in giù e
culo sul cofano. Ti aprirò le gambe e mi
scoperò prima la tua fica, perché muoio
dalla voglia di sentirla. Credo che
uscirò prima di venire però, perché
voglio provare anche il tuo culo. Quello
me lo scoperò per secondo e senza
lubrificante. Non m'importa se ti faccio
male, tanto non sentirai niente ma
domani, quello che il tuo corpo
ricorderà sarà divertente.»
«Malato di merda» sputai fuori
iniziando a tremare. Pensavo fosse un
buon segno, forse gli effetti della droga
stavano iniziando a svanire.
«Come dici tu. Ti verrò nel culo o
magari sulla schiena, quello non l'ho
ancora deciso perciò sarà una sorpresa.
E ti lascerò tutto addosso, così dovrai
ripulirti e sarai talmente confusa che
magari penserai sia roba di Tristan. Chi
lo sa, comunque dovrai ripulirti. Quando
avrò finito, ti sdraierò in terra davanti
alla macchina, così sarai illuminata dai
fari.»
Tolse la mano finalmente e si
fermò a un semaforo rosso. Non avevo
idea di dove fossimo, ma almeno non
eravamo ancora arrivati al deserto.
«Starò a osservarti, a guardarti
tutta quanta. Ti aprirò le gambe e starò
ad ammirare lo spettacolo a lungo, così
ogni volta che vorrò potrò chiudere gli
occhi e ricordare. Ci vorrà un po' ma
quando avrò fatto, t'infilerò il mio cazzo
giù in gola, più a fondo che posso.
Ovviamente non verrò così, non saresti
in grado di succhiarmelo bene, ma
voglio comunque dartelo. E dopo, chi lo
sa? Magari ti scopo le tette o di nuovo la
fica.
Vedrò
cosa
mi
eccita
maggiormente. Ti avrò per ore e tu non
potrai farci niente. T'infilerò il cazzo in
ogni buco che hai e non potrai dire di
no. Quando avrò finito, ti rivestirò e ti
lascerò da qualche parte. Forse
all'appartamento o magari nel tuo letto.
Ha importanza? Domattina ti risveglierai
sentendoti sporca come non mai e non
ricorderai perché, ma sarai troppo
disgustata per lasciare che Tristan ti
tocchi di nuovo, perché lui ti amava e tu
hai lasciato che il suo migliore amico ti
usasse come una bambola.»
«Tu non sei il suo migliore
amico» riuscii a dirgli, «Nemmeno ti
sopporta più.»
Quello lo destabilizzò facendolo
schiumare. Si voltò e mi aggredì:
«Fanculo: è tutta colpa tua.»
Lo stavo guardando in faccia
quando accadde. Un secondo prima ero
in sua balìa e quello dopo ero nelle mani
del destino, mentre un altro veicolo ci
veniva addosso centrando il suo lato.
Ricordo che iniziammo a girare e
girare e una volta finito, il dolore.
In seguito, mi avrebbero detto che
avevamo fatto dei continui testacoda
finché il mio lato dell'auto si era
schiantato contro un palo del telefono,
rientrando. La parte del guidatore era
messa molto peggio.
Quando il mio lato impattò, lo
stavo ancora guardando: il suo corpo era
maciullato e sanguinante, gli occhi vuoti.
Nessuno avrebbe dovuto bisogno di
darmi la notizia: avevo visto Dean
morire.
Non avrei mai più domandato di
lui.
Ricordo che la mia testa sbatté
contro il cruscotto, i vetri che si
frantumavano e dei pezzetti che mi
s'incastravano nella pelle del viso, nel
petto e nelle braccia. Tuttavia, quello fu
solo un assaggio, seguito quasi
istantaneamente da un bruciore acuto
allo stomaco mentre la cornice fra le
mie mani andava in pezzi, ferendomi in
vari punti sulla pancia.
Ad oggi ancora non so se mi misi
a urlare ma nel profondo, quella parte di
me che moriva dalla voglia di essere
madre, che lo desiderava intensamente,
che viveva e respirava per quel giorno
in cui il mio bambino, la carne della mia
carne avrebbe visto la luce; quella parte
di me gridò: «Nooooo.»
Forse, nel buio più profondo, non
avevo mai smesso di gridare.
Il
dolore
fu
intenso
e
indimenticabile ma fu l'agonia della
gamba spappolata che fortunatamente mi
fece svenire alla fine.
Quando mi risvegliai, ero in
ospedale a riprendermi da operazioni
chirurgiche multiple e non dovetti
chiedere.
Sapevo.
Avevo perso tutto in quell'auto.
Solo che non immaginavo cosa avrebbe
significato.
CAPITOLO
VENTOTTO
TRISTAN
Mi svegliai sussultando. La testa
mi stava uccidendo e prima che aprissi
gli occhi, avevo già l'amaro in bocca.
Rimasi a occhi chiusi per un po' e
le mie mani toccarono quello che
sembrava un corpo nudo accanto al mio,
poi con una sorta di orrore, un altro.
Feci un balzo quando sfiorai un
grosso seno. Mi buttai fuori dal letto
riuscendo a malapena ad arrivare in
bagno prima di iniziare a vomitare.
Rigettai il contenuto dello stomaco con
lunghi conati.
Non avevo idea di chi ci fosse nel
mio letto, ma sapevo chi non era e
quello mi spaventò a sufficienza da
farmi tornare sobrio.
Non lo scoprirà, non lo scoprirà,
non lo scoprirà mi ripetei come un
mantra. Ci eravamo lasciati e lei aveva
smesso di rispondere alle mie chiamate
più di un mese fa, divorziando senza
nemmeno una telefonata, eppure prima
di questo avevo sempre avuto una
speranza.
Ora sapevo di aver fatto qualcosa
di imperdonabile. Di essere stato
imperdonabile.
Mi infilai nella doccia per lavare
via i miei peccati e piccoli frammenti
della serata mi tornarono alla mente:
quel cazzo di speedball, gli shortini e un
mucchio di dettagli fumosi nel mezzo. Il
tributo morboso a mio fratello…
ricordai che non mi importava che mi
capitasse qualcosa. Forse speravo che
succedesse, così sarei finito all'ospedale
e lei sarebbe stata male per me tanto da
rivolermi ancora. Avevo pensato
quello…
Poi rammentai che lei era venuta
all'appartamento, affermando di dovermi
parlare ma non ricordavo di cosa. Me
l'aveva detto ed io l'avevo dimenticato
oppure aveva taciuto del tutto?
Di tutte le volte in cui avrebbe
potuto farsi viva… le cose non
sarebbero potute andare peggio.
Era
tornata
per
una
riconciliazione? Mi sentii talmente male
da non riuscire a chiamarla considerato
le due troiette ancora nel mio letto, ma
dovevo scoprire perché Danika fosse
venuta.
Quando mi sentii sobrio almeno a
livello fisico, tornai in camera
impaurito. Le due tipe nude erano
sveglie e una mi chiamò per nome
sollevandosi sui gomiti.
Guardai a malapena tutte e due
mentre fissavo un punto sopra al letto
dove ci sarebbe dovuta essere una
fotografia e mi si aggrovigliarono le
budella...
Era venuta per prendersela? In
quel caso era un buon segno, oppure no?
Gliel'avevo data io o se l'era portata via
da sola? Mi servivano risposte, ma
prima dovevo svuotare il letto e
bruciare le lenzuola.
Ordinai a quelle due di vestirsi,
nicchiando visibilmente ogni volta che
dicevano
qualcosa
della
notte
precedente. Non le riconoscevo e
dubitavo di averle scelte da una fila di
volontarie. Una aveva i capelli scuri,
l'altra castano chiaro ed entrambe le
tette finte. Era tutto quello che avevo
notato.
Quella coi capelli scuri mi si
avvicinò cercando di accostarsi ma io
sollevai un braccio per avvertirla e lei
sorrise imperturbabile.
«Sei stato fantastico stanotte.
Nessuna delle due riusciva a tenere il
passo. Sei un vero stallone, ci hai
scopato fino a consumarci.»
Mi passai una mano sulla faccia
pensando che avrei vomitato di nuovo.
«Andate per favore. Ieri sera ero
fatto e non voglio ricordare il casino che
ho combinato.»
Loro non si mossero, fissandomi.
«Fuori dai coglioni» ruggii allora,
«Via dalla mia cazzo di stanza!»
E grazie a Dio finalmente
sparirono.
Ripulii la stanza da cima a fondo,
disinfettando ogni superficie e dedicai al
bagno lo stesso trattamento visto che ero
ancora annebbiato per quanto riguardava
i dettagli della nottata.
Non ero sicuro di sentirmi
sollevato o ulteriormente spaventato
quando notai che nel mio cestino c'erano
svariati preservativi. Almeno avevo
usato una protezione.
Vomitai ancora e buttai le
lenzuola. Me ne era rimasto solo un altro
set ma non m'importava. Finì nel bidone
anche quello.
Rifeci la doccia, mi lavai i denti e
andai a cercare altre salviette
disinfettanti.
Erano le tre del pomeriggio
quando
telefonai,
ma
rispose
direttamente la casella vocale.
Feci
l'ennesima
doccia:
insaponare, risciacquare, ripetere.
Mi avrebbe perdonato? C'era un
modo per nasconderle questa cosa? Non
l'avevo tradita, non tecnicamente dato
che avevamo chiuso, ma non ero in vena
di tecnicismi. Mi sentivo un disgraziato
perché nel mio cuore, eravamo ancora
sposati.
E se lei fosse venuta per
riconciliarsi,
per
darmi
un'altra
possibilità ed io l'avessi calpestata nella
mia corsa all'autodistruzione, sarei stato
in grado di perdonare me stesso? Una
risposta facile da dare: no.
La chiamai, trovai di nuovo la
casella vocale e ripulii la camera
un'altra volta.
Andò avanti così per giorni. Al
quinto ricevetti una chiamata dalla
madre di Dean. Mi comunicò una notizia
che avrebbe cambiato la mia vita. Buttò
giù i dettagli troppo in fretta perché la
capissi, ma il suo tono era quasi vacuo.
«Morto?» ripetei. Non lo vedevo
da giorni ma non era affatto inusuale.
Ero sconvolto oltre ogni dire ma
anche così, non ero pronto a quello che
sarebbe seguito.
«Aveva qualcuno in macchina»
continuò la donna. Pensai che fosse
davvero sotto choc per riuscire a essere
così calma dopo la morte del figlio,
«Una ragazza che lavorava per il vostro
manager, Jerry.»
Ero in camera mia vicino al muro.
Ci caddi addosso finendo sul pavimento
e quasi perdendo il telefono. «Co-cos'ha
detto?» domandai gracchiando dal
terrore.
«C'era una ragazza in macchina
con lui. L'auto è distrutta e comunque se
Dean fosse sopravvissuto, si sarebbe
beccato una grave denuncia per guida in
stato di ebbrezza.»
«Cos'è successo alla ragazza, sta
bene?»
«La ragazza? Oh… la conoscevi?
Non sono sicura di cosa le sia successo,
non ho chiesto.»
Riattaccai e chiamai Jerry, che
fortunatamente rispose al terzo squillo
dicendomi solo: «Lei sta bene, Tristan.»
E dopo il panico arrivò la rabbia.
«Perché non me l'hai detto? È
accaduto giorni fa, come hai potuto
tenermelo nascosto?»
All'altro capo ci fu una pausa.
«Senti, Tristan… non vuole vederti.»
La mano che avevo libera andò al
braccio
e
iniziò
a
grattare
sovrappensiero.
«L'ha detto lei?» chiesi con lo
stomaco sottosopra e il cuore a pezzi.
«Mi dispiace amico. Devi
rispettare la sua volontà, sembra molto
risoluta.»
«In che ospedale, Jerry?»
Lui sospirò chiaramente. «Non
puoi venire qui, Tristan. È meglio di
no.»
«Dimmelo.»
«St. Rose.»
«Hai detto che sta bene ma è stata
ferita?»
«In modo piuttosto grave.»
«Dimmi.»
«Ha picchiato la testa e ha un
trauma cranico. È ancora ricoverata ma
dovrebbe riprendersi.»
Deglutii
faticosamente
continuando a grattarmi via la pelle
dall'avambraccio.
«C'è altro?»
«I vetri l'hanno tagliata ma è in
via di miglioramento.»
Grattare.
Graffiare.
Scavare.
«Altro?»
«Ha il ginocchio distrutto. Potrà
camminare di nuovo alla fine ma rimarrà
zoppa e non ballerà più, Tristan.»
La mia mano andò al petto
proprio sul cuore.
Grattare.
Graffiare.
Scavare.
Mi scivolò il telefono ma non
prima che il suono dei miei stessi
singhiozzi arrivasse all'orecchio di
Jerry.
Non resistetti tre ore. M'infilai in
macchina prima di rendermi conto che la
mia mano era piena di sangue. Mi
guardai il braccio e il torace, davvero
sorpreso da quanto mi fossi graffiato.
Non avevo sentito nulla.
Tornai in casa, mi feci una doccia,
mi cambiai e uscii. Fu allora che notai la
macchina di Danika parcheggiata al
marciapiede. Non uscivo da giorni ma
doveva essere rimasta lì dalla sera
dell'incidente.
DANIKA
Le notizie mi giunsero a pezzi, in
modo contorto e sbagliato, rendendomi
difficile la comprensione. Fu solo
quando sentii Bev assalire il medico che
misi insieme alcune parti nel giusto
ordine.
«Non può farlo in questo modo.
Se una donna ha appena perso un figlio,
non può iniziare col dirle che non potrà
averne altri. Sono un avvocato, razza di
idiota, perciò badi bene a quel che dice
o la denuncerò per stress emotivo.»
Il medico scappò via dalla stanza
e mi ritrovai Bev accanto che mi
accarezzava i capelli, per cercare di
dare a quel momento un sollievo
impossibile.
«Non posso davvero citarlo,
tesoro. Ho solo perso la calma e quella
è la mia tattica per spaventarli. Se
pensassi che c'è una possibilità però lo
denuncerei subito. Quel bastardo si
merita di peggio.»
Cercai di prestare attenzione ma
la mia mente continuava a tornare alla
notizia.
«Ho perso il mio bambino»
sussurrai.
«Sono davvero tanto dispiaciuta,
Danika. Non sapevo che fossi incinta ma
ti conosco e so che se lo eri, lo volevi.
Mi dispiace.»
«E non posso averne altri.»
«No, piccola mia. So che è
difficile anche da pensare, ma un giorno
quando incontrerai l'uomo giusto e sarà
il momento giusto per te, potrai
adottarli. Puoi ancora diventare madre
Danika, solo non nel modo in cui avevi
sperato.»
Quasi non la sentii, concentrata
com'ero solo sul dolore e sulla mia
perdita. Rimasi lì e mi sentii come se
assieme al piccolo, se ne fosse andata
anche la mia anima.
Pensavo
sarei
stata
completamente stordita ma purtroppo
non fu così. C'era ancora qualcosa,
qualcosa di terribile che m'incendiò il
cuore appena Tristan entrò in camera
mia, il volto pallidissimo.
Lo avevo già visto distrutto, lo
avevo visto vacillare sconvolto per una
perdita. L'avevo visto ubriaco, fatto,
stordito, devastato e fuori di testa dalla
rabbia.
Ma così… mai. Sembrava un
uomo che avesse perso l'intero mondo.
Mi ci volle ogni briciola della
mia forza di volontà per non cedere a
quello spettacolo.
All'esterno ostentavo calma ma
dentro ero una tempesta, un uragano che
non avrebbe lasciato avvicinare Tristan.
Lui non ne avrebbe percepito nemmeno
un'ombra, dovevo almeno apparirgli
composta e determinata se volevo
sperare di riuscire a superare questa
cosa.
«Ho appena saputo dell'incidente.
Come… ecco, stai meglio?»
Scrollai le spalle. Mi era difficile
guardare quei suoi occhi lucidi in quel
viso smunto. Se l'avessi fatto per più di
un nanosecondo alla volta, mi sarei
tradita. Al suo sguardo non si poteva
sfuggire.
«Vivrò.»
«Senti male?»
Ancora spallucce. «Vivrò. Non mi
va di parlarne.» Il mio tono non
sopportava il rifiuto.
«Va bene, ok. Sono solo felice
che tu stia bene.»
Pensai che bene fosse un
aggettivo piuttosto generoso ma non lo
dissi.
«Jerry mi ha detto che non volevi
vedermi. È così?»
Fu dura riuscire ad ammetterlo.
Lui indietreggiò chiaramente
sconvolto. La sua mano andò al braccio
e iniziò a grattarsi un punto sotto la
maglietta. Andò avanti un bel po' prima
di trovare nuovamente le parole e dato
che l'attesa era eccessiva, chiusi gli
occhi voltando la testa.
«Quella
sera
è
successo
qualcosa? Eri venuta per incontrarmi,
abbiamo litigato? Ho visto che manca la
foto dal muro ma non ricordo cos'è
successo. Cos'eri venuta a dirmi?»
La mia bocca s'indurì. «Niente
d'importante.»
«Danika, per favore…»
«Ti prego Tristan, per favore,
vattene e basta. Noi ci facciamo solo del
male, non lo capisci? Dopo quel che è
successo non è ancora chiaro? Devo
riuscire a dimenticarti e l'unico modo è
restare lontani.»
«Hai torto, Danika.»
«Ascoltami, Tristan: tu sei un
male per me, è finita.»
Gli uscirono dalla bocca dei
suoni orribili. Alla fine aprii gli occhi e
lo vidi che mi fissava con l'espressione
più distrutta che gli avessi mai visto. Si
stava grattando il petto, ecco perché
emetteva quei versi, come se
provenissero dal profondo del suo
cuore.
«È finita, Tristan. Vattene, ti
prego.»
Dovetti voltare nuovamente il
viso e chiudere gli occhi. Se non fosse
sparito sarei sicuramente crollata.
Lo sentii osservarmi a lungo
prima di chiedermi con un tono che fu
poco più di un sospiro: «Posso riavere
la fotografia?»
«Non si è salvata.»
Come molte altre cose.
Finalmente, per fortuna se ne
andò.
TRISTAN
Bev mi saltò alla gola come una
furia. Non avevo mai visto niente del
genere. Una donna pelle e ossa sulla
quarantina che cercava di avere la
meglio su un grosso figlio di puttana
come me.
Lasciai
che
si
sfogasse,
rimanendo fermo mentre mi picchiava
sul torace e mi schiaffeggiava in volto.
Ansimava e piangeva quando terminò,
guardandomi piena di odio. Era una
donna formidabile se non nella forma,
nella forza di volontà. Non dubitavo del
fatto che se decideva per qualcosa,
sarebbe accaduta secondo la sua idea. Il
fatto che mi avesse attaccato non mi
aveva per nulla sorpreso.
Piantò un dito nel mio petto e con
voce bassa ma tremante di furia mi
disse: «Devi andartene. Lei ti ha chiesto
di farlo ed è quello che deve succedere.
Ma prima ho un paio di cosette da dirti.
Sapevi che quel tipo, Dean la stava
portando a casa? Lo stava facendo con il
tuo consenso?»
Feci una smorfia. La maggior
parte di quella serata era avvolta nella
foschia ma ricordavo di averle gridato
qualcosa al riguardo, assieme al resto.
Ero quasi sicuro che fosse una mia idea.
«Sì, Dean era il mio coinquilino.»
«E lo sapevi che le avevano dato
una dose di Rohypnol?»
Il mio corpo si congelò. Pensai
che non potesse averlo fatto, che non
avrebbe mai osato.
«È successo a casa tua. L'unica
cosa che lei ha bevuto è stato mezzo
bicchiere di succo d'arancia che le
aveva portato proprio il tuo amico. Sei
stato tu a portare quella roba nella sua
vita» gridò con voce spezzata.
La sua bocca s'indurì mentre si
riprendeva e la sua mano volò
nuovamente a schiaffeggiarmi. Sopportai
anche quello concio di meritarlo. Non
pensavo che Bev sarebbe mai riuscita a
detestarmi più di quanto odiassi me
stesso in quel momento.
«L'hai messa in macchina con uno
stupratore figlio di puttana che era fuori
come un balcone. Tu lei hai fatto questo.
Tu. Adesso sparisci dalla mia vista: se ti
rivedo, te la farò pagare.»
Me ne andai, la mia mente crollò
sotto il peso delle informazioni che Bev
mi aveva dato. Non esitavo a crederle
quando diceva che avrebbe trovato il
modo per farmela pagare se mi avesse
rivisto, ma non me ne andavo certo per
quello. Se Danika mi avesse voluto,
sarei rimasto con lei nonostante tutto.
Niente in questa vita me l'avrebbe
impedito. Ma era quello il problema: lei
non mi voleva. Era stata chiara: io le
facevo solo del male mentre da sola
sarebbe vissuta meglio. Finalmente se ne
era accorta.
Andai al funerale di Dean
ribollendo per tutto il tempo. Non avevo
più persone a me care ma era la prima
volta che mi rendevo conto di
disprezzarne una che avevo perso. Mi
sarei dovuto sentire male ma non mi
dispiaceva nemmeno per la sua morte.
Se Dean fosse rimasto vivo, con tutto
quel che avevo saputo, l'avrei ucciso
con le mie stesse mani.
Persino quando mi aveva fatto
incazzare da matti, avevo comunque
avuto nutrito fiducia nel fatto che non
sarebbe mai arrivato a quello. Capire
quanto male avessi riposto la mia
speranza era un boccone amaro da
mandar giù.
Se era stato capace di drogare
Danika e portarla Dio sa dove, per fare
quel che aveva in mente, che altro aveva
combinato? Le sue azioni erano state
puramente subdole, del tutto diaboliche.
Se non fosse stata una Bev furibonda a
raccontarmelo, non ci avrei creduto. Lei
non aveva motivo di inventarlo e non era
una donna che prendeva per buone le
chiacchiere.
Passai una settimana d'inferno,
torturandomi con il rimpianto e
facendomi di qualsiasi cosa trovassi a
portata di mano.
Sette giorni dopo aver fatto visita
a Danika in ospedale, entrai in
riabilitazione.
CAPITOLO
VENTINOVE
DANIKA
M'infarcirono di dettagli, talmente
tanti dettagli inutili sulla perdita di
cartilagine
e
tessuto
muscolare;
particolari
dolorosi
sui
danni
irreparabili all'utero e minuzie infinite
su chirurgia e fisioterapia. Il succo di
tutto era: ero storpia e non avrei mai più
potuto avere bambini.
La mia risposta a quella realtà?
Non lascerò che mi definisca perciò,
Dio aiutami, non mi farò nemmeno
buttare giù.
Non potevo più ballare e non
avrei più portato una vita dentro di me.
Quelli erano fatti. Mi rifiutai di
piangerci sopra o se lo feci, mi resi
conto che erano lacrime inutili. Avrei
trovato altro in cui rispecchiarmi,
dovevo solo capire cosa.
Bev si prese del tempo libero per
curarmi. Ero sconvolta perché lei non
aveva mai fatto più di una settimana di
vacanza prima ma per me, si prese quasi
un mese intero. Mi aiutò in casa, mi
tenne compagnia e curò la mia psiche.
«Perché sei così buona con me?»
le domandai a un certo punto, «Perché
sei sempre stata buona? Sono un tale
fardello per te e tu invece hai fatto così
tanto per aiutarmi. Sappiamo entrambe
che non potrò mai ripagarti della tua
gentilezza.»
Bev mi fece un sorriso tristissimo
e una delle sue mani morbide mi
accarezzò lentamente i capelli.
«Oh, piccola, non capisci?»
Sbattei le ciglia scuotendo la
testa, del tutto ignara.
«Capire cosa?» le domandai.
«Non sei mai stata un peso,
Danika e questa non è gentilezza.»
Scossi nuovamente la testa,
aggrottando le sopracciglia confusa.
«Se non è gentilezza, cos'è?»
I suoi occhi si riempirono di
lacrime e la sua espressione mi
addolorò.
«Tesoro, è quella che si chiama
famiglia.»
Quello fu il mio punto di rottura:
iniziai a singhiozzare, a piangere, a
gemere senza trattenermi, sonoramente.
Lei mi abbracciò mormorando parole di
conforto al mio orecchio, la voce bassa
piena di lacrime.
Famiglia, pensai assolutamente
ammutolita da quel pensiero. Famiglia…
ebbi un flash degli anni passati grazie
alla sicura generosità di Bev e Jerry,
alla loro bontà. Famiglia.
La cosa cui più ambivo era stata
mia senza che nemmeno l'avessi chiesta.
Era lì, nel bene e nel male.
La famiglia.
EPILOGO
DANIKA
Qualche mese dopo l'incidente
ricevetti una telefonata da mia sorella:
era in travaglio. Guidai per cinque ore e
arrivai giusto in tempo per il parto.
Avevamo continuato a sentirci
telefonicamente e via e-mail ed io ero
anche andata a trovarla qualche volta
prima di perdere il mio primo bambino.
Quella nascita ci rese nuovamente
sorelle. Poter condividere con lei quel
momento fu una gioia agrodolce. Ero
l'unico famigliare presente, l'unica lì per
lei.
Chiamò il bambino Jack Markova
e fui la prima a tenerlo in braccio, gli
tagliai il cordone e mi innamorai di lui.
La riportai a casa dall'ospedale e
mi fermai per aiutarla a sistemarsi con il
piccolo. Rimasi due settimane, curando
il piccolo per far sì che lei si riposasse
mentre si riprendeva. Zoppicavo per
casa cercando di renderla un ambiente
confortevole per quel piccolo senza
padre. Una sera, mentre le rimboccavo
le coperte e il piccolino dormiva nella
culla di vimini accanto al letto, mia
sorella mi guardò e mi disse: «So chi è
il padre.»
Mi sedetti al suo fianco e lei
cercò la mia mano. La guardai in attesa:
sapevo che sarebbe stata una brutta
scoperta, lo capivo e basta, anche se
ignoravo la natura di quella negatività.
Poiché la mia mente vagava ancora per
luoghi oscuri, le possibilità erano
infinite.
La cosa che temevo maggiormente
però, non era la peggiore che poteva
esserle capitata. Lo sapevo perché era
già successa.
Lei mi strinse la mano e chiuse gli
occhi.
«Non avevo un ragazzo o un
amante. Non sapevo cosa mi fosse
successo finché non ho capito di essere
incinta, ma ricordo un paio di notti…
L'indomani sapevo che mi era capitato
qualcosa, che c'era qualcosa di
sbagliato. Mi risvegliavo in luoghi e in
condizioni che non avevo presente.»
«Oh no, Dahlia» sussurrai
accarezzandole una guancia.
«Mi ci è voluto un po' per mettere
insieme tutto, ma poi ho iniziato a
scoprire i fatti e mi sono resa conto che
in quelle notti strane, Dean mi aveva
drogato. Lo affrontai e lui non ammise
mai di averlo fatto ma era evidente che
fosse colpevole. E quando gli dissi che
ero incinta la cosa non lo sconvolse
minimamente. Mi disse dritto in faccia
che era lui il padre e lo odiai. Già non
lo sopportavo prima che succedesse
tutto...
Non ho avuto il coraggio di
liberarmi del bambino e nemmeno di
darlo via ma mi sono allontanata da lui.
Non gli avrei mai permesso di far parte
della vita del piccolo, era uno stupratore
e un poco di buono. L'avrei voluto
denunciare ma non riuscivo a pensare a
che pro. Che stupida… Quando ho
davvero capito tutto quello che mi era
capitato, ormai le prove erano sparite.»
«Povera cara» le dissi baciandole
la fronte e soffrendo per lei, «Mi
dispiace che tu sia finita impigliata in
quella rete.»
La
sua
mano
si
posò
delicatamente sulla testolina del piccolo
Jack nella culla.
«Sono in pace adesso. Amo
questo bambino Danika, con tutto il mio
cuore e il resto è passato.»
Avevo talmente tanto veleno
dentro di me, talmente tanti rimpianti che
non mi sfuggì il fatto che nonostante le
inclinazioni malevoli, Dean aveva dato
vita a uno splendido bambino; mentre il
mio amore con Tristan era finito in
tragedia.
La vita era davvero molto
crudele, ma io avrei sempre amato quel
piccolo.
Entrambe avremmo stravisto per
lui: il mio perfetto nipotino.
SEI MESI DOPO
Non lo guardai in viso ma
ascoltai le sue parole, sentendo più di
quello che in realtà aveva da dire.
Eravamo seduti in un piccolo bar,
dove avevo accettato d'incontrarlo. Era
assieme ad altre due persone, un ragazzo
e una donna. Gli avevo detto che non lo
avrei incontrato da sola e quella era
stata la sua soluzione. Non avrei voluto
farlo, ma quando lui mi aveva spiegato
lo scopo come parte del suo programma
di riabilitazione, non ero stata in grado
di rifiutarmi.
Non avremmo mai più condiviso
le nostre vite, ma quello non significava
che volessi rovinargli il recupero.
Sarei voluta arrivare prima, così
che lui non dovesse vedere quanto
ancora fosse faticoso per me muovermi.
Era un istinto frutto in parte della pietà e
in parte del mio orgoglio e non ero certa
di quale fosse più forte.
Mi ero vestita in modo
scrupoloso: i capelli lisci e sciolti, il
trucco pesante ma di classe, la gonna
lunga per nascondere il tutore alla
gamba e le scarpe ortopediche; la
maglietta aderente per evidenziare
comunque le forme.
Non ero riuscita a illudermi a
lungo, l'orgoglio era più potente.
Sfortunatamente non ero riuscita
ad arrivare prima. Tristan e i suoi due
nuovi amici erano al tavolo a bere caffè
ridendo di qualcosa, quando entrai. Fui
ridicolmente grata all'uomo che mi tenne
la porta in modo che potessi zoppicare
dentro. Era sorprendente come le
piccole cose riuscissero a darmi
sollievo e lottare con la porta sotto lo
sguardo di Tristan era un'umiliazione
che in quel momento non m'interessava.
Mi bruciava il petto mentre lo
raggiungevo al tavolo vuoto vicino
all'entrata, un passo assistito alla volta.
Mi sarei voluta sedere prima che mi
notasse, ma non fui così fortunata.
Mi bastò un'occhiata al suo viso e
seppi che non sarei stata in grado di
guardarlo per il resto dell'incontro. Non
volevo vedere il crudo rimpianto e la
pietà nei suoi occhi. Preferivo qualsiasi
altra cosa alla sua compassione.
Finii per fissargli la clavicola.
Non sopportavo quello che avevamo
perso, le promesse infrante. Erano tutte
lì ad accusarmi, colme di senso colpa e
pietismo al tempo stesso.
«Ti posso prendere qualcosa? Un
caffè o un tè?»
Ebbi un brivido. Le sue prime
parole erano state un'offerta di servirmi
perché ero menomata? Non potevo
sopportarlo e quasi mi alzai.
«Un po' di tè, grazie» risposi a
fatica dopo aver riflettuto su cosa
sarebbe stato più umiliante.
Non mi mossi mentre lui andava
dritto al bancone e tornava con due tazze
di tè per entrambi. Fissai la mia,
aggiunsi lo zucchero e continuai a
guardarci dentro.
«Latte?» mi offrì lui.
Scossi la testa poi aggiunsi
un'altra bustina di zucchero.
Non ne bevvi un solo sorso. Non
lo toccai nemmeno.
«Ho molti rimpianti, molte brutte
cose per le quali ammettere le mie
colpe, ma credimi quando dico che
l'impatto di queste mie azioni negative
sulla tua vita è quello più grande.»
Rimase dal suo lato del tavolo,
gli occhi sulle sue mani. C'era sincerità
in quel suo sguardo profondamente
abbattuto ma quella non l'avevo mai
messa in dubbio.
Guardai velocemente altrove.
Ovvio che fosse dispiaciuto, lo ero
anche io.
Nessuno di noi avrebbe voluto
che le cose finissero a quel modo. Ma
lui era sano e tutto d'un pezzo e prima
quando l'avevo visto ridere, felice.
Forse le cose si erano davvero messe al
meglio per lui nonostante tutto: era stato
un casino assieme a me e ora era rinato.
Quell'osservazione piantò un
piccolo seme di amarezza dentro di me,
che con il tempo sarebbe cresciuto e
avrebbe dato i suoi frutti.
«Io non merito il tuo perdono
dopo tutto quello che è successo, ma è
ciò che ti sto chiedendo.»
Le sue parole erano artificiose,
come se le avesse provate in
precedenza.
«Sappi che se potessi tornare
indietro per evitare tutto, lo farei e che
mi ritengo responsabile per tutte le
brutte cose che sono capitate. Mi
dispiace per il modo in cui la mia
mancanza di limiti ha inciso su di te.
Qualsiasi cosa tu voglia da me, io te la
darò: sono al tuo servizio, Danika.
Sempre. Ed è mio sincero desiderio che
un giorno, magari col tempo, tu possa
considerare di essermi di nuovo amica.»
Amica? Rifuggii quell'idea. Non
poteva essere o si sarebbe trasformata in
una lunga tortura. Amici? Era come uno
schiaffo in pieno viso. Non capiva che
se ci avessimo provato, se fossimo
rimasti in contatto in modo platonico, io
non sarei mai riuscita a passare oltre?
«Tristan.» Solo pronunciare il suo
nome era faticoso, come avrei fatto a
superare il resto?
Feci una lunga pausa per
stabilizzare la mia voce e ritrovare un
tono formale prima di continuare:
«Considerati perdonato, ma ti prego di
non ritenerti responsabile per tutto
quello che è accaduto. Le cose non sono
andate come speravamo.»
Che bel modo di sminuire la
cosa…
«Nessuno è colpevole. Perciò sì,
hai tutto il mio perdono. Detto ciò, devo
rifiutare la tua richiesta di amicizia. Ci
sono cose… Quello che voglio dire è
che alcune persone devono rimanere
lontane e noi siamo un esempio.»
Avrei voluto dire molto altro ma
scelsi di trattenermi.
L'unica sua risposta per un po'
furono dei respiri strappati.
«Se questo è ciò che provi,
rispetto la tua decisione» replicò e mi
parve che quasi le parole lo
strozzassero.
«Lo è, ma grazie per esserti
scusato. Ti auguro ogni bene» deglutii
faticosamente guardando in basso,
«Sono felice che tu sia riuscito a farti
aiutare.»
Dopo un'attesa che fu un'eterna
agonia, lui si alzò andandosene. Non ci
guardammo più.
Rifiutai di alzarmi prima che lui e
i suoi amici fossero spariti e fissai il
mio tè a lungo nell'attesa. Non ne presi
nemmeno un goccio.
Era stata una tortura, ma a tutto
serviva la parola fine e quell'incontro
era stata la nostra.
Col cuore a brandelli ma la
volontà tutta d'un pezzo, la mia vita
ricominciò.
CIRCA SEI ANNI DOPO
AL RICEVIMENTO PER LE
NOZZE DI JAMES E BIANCA
CAVENDISH
DANIKA
«Quell'energumeno è anche più
grosso di te» mi scappò di bocca mentre
Tristan si accomodava accanto a me nel
posto assegnatogli al tavolo.
Mi diede un'occhiata veloce poi
posò gli occhi su Akira ma il suo
sguardo gridava cose che avrei preferito
non sapere. Ad esempio, la mia
osservazione era stata un po' più
insolente di quanto l'avrei desiderata e a
Tristan ancora piaceva la mia
sfacciataggine.
Infatti
si
stava
dimostrando compiaciuto: la sua
espressione era accalorata e… beh,
altro che non avevo intenzione di
rendere noto.
«Non farti strane idee» mi disse
pigramente prendendo un sorso d'acqua,
«Quell'enorme bastardo è occupato.»
Socchiusi gli occhi guardandolo.
«Questo lo so, è sposato con una
top-model. Era solo per dire…
Dev'essere strano per te, che di solito
sei sempre quello più grosso, dover
alzare gli occhi per guardare qualcuno.
Senza contare che i suoi bicipiti sono un
po' più gonfi dei tuoi.»
Il suo respiro frusciò in una risata
di stupore: «Tu e la tua mania per le
braccia grosse. Le mie sono comunque
più larghe del tuo giro vita, non si sono
affatto rimpicciolite.»
Impormi di non posarvi sopra gli
occhi fu una vera lotta, per quanto
sapessi che aveva ragione.
Mi accarezzai distrattamente il
ginocchio offeso sotto il tavolo finché
percepii Tristan che mi guardava.
«Ti fa ancora male?» domandò
dolcemente, come se non potesse farne a
meno.
Cercai
di
assumere
un'espressione attenta.
«Tutto ok, è solo un po' rigido.
Nulla di cui tu debba preoccuparti.»
Niente al mondo avrebbe potuto
scioccarmi più della sua mano sulla mia
gamba. Scivolò sotto alla mia per
carezzarmi il ginocchio con un
movimento sicuro, come se sapesse
dove toccare per farmi stare meglio.
Quello, era sempre stato uno dei suoi
talenti speciali.
«Che stai facendo?» sibilai a
denti stretti.
Lo sguardo omicida che gli
rivolsi non lo fece minimamente
indugiare… bastardo spaccone.
«Sto solo cercando di aiutarti»
rispose del tutto sincero.
«Non mi serve il tuo aiuto.»
Il mio tono era velenoso ma lui
non smise di accarezzarmi né io mi
scostai.
Negli ultimi sei anni era stato
troppo semplice riuscire a tenerlo
lontano e mi resi conto di non sapere
cosa fare quando non avevo l'astio a far
da barriera.
«Lo so, credimi. Ma se fossi io ad
avere bisogno di farlo?»
«Siamo al matrimonio di due
persone che adoro, perciò sarò civile
per altri dieci secondi, ma faresti meglio
a non illuderti che…»
«Che ne dici di un'amicizia?
Possiamo almeno provarci. Niente
cazzate, giuro.»
M'irrigidii, conscia d'irradiare
ostilità.
Frankie, al braccio della sua
ragazza, captò il mio sguardo. Era un
matrimonio, un'occasione felice e il suo
sguardo preoccupato ebbe la meglio su
di me. Era preoccupata che facessi una
scenata e mi feriva il fatto che ne avesse
ben donde.
Sono più matura di così, mi dissi.
E diamine, perché non potevamo essere
amici? Non pensavo che Tristan
provasse più alcuna attrazione nei miei
confronti, sapevo che quel che voleva
era davvero solo amicizia e perdono,
perciò perché non avrei dovuto
darglieli? Perché provavo il bisogno di
chiuderlo fuori del tutto?
Conoscevo la risposta: ero come
un animale ferito che reagiva di scatto
alla sua indifferenza, quella che negli
anni si era cristallizzata, diventando la
causa del mio dolore ancora vivo.
«Niente cazzate?» domandai, ma
prima
che
potesse
rispondermi
proseguii, «Si, ti credo adesso. Non
immaginavo ti piacessero gli storpi.»
La sua mano scivolò mollemente
dal mio ginocchio. Lo guardai in viso un
attimo prima che lui abbassasse gli
occhi sul tavolo e mi pentii all'istante di
esser stata così maligna.
Non importava in cosa si fossero
trasformati i suoi sentimenti per me,
avevo ancora la capacità di ferirlo nel
profondo.
«Mi dispiace» ritrattai.
Quando aprii la bocca per
aggiungere altro però, lo sguardo furente
di Frankie mi bloccò. Sedette dall'altro
lato di Tristan e mi lanciò un'occhiata
ostile che mai avrei immaginato mi
avrebbe dedicato.
«Tutto
ok?»
gli
domandò
sfiorandogli un braccio.
Lui annuì brevemente, si alzò e se
ne andò.
«Quando la finirai di fargli del
male? Quando sarà abbastanza per te?
Se avevi bisogno di punirlo, beh:
congratulazioni, l'hai spedito all'inferno.
Che altro vuoi?»
Una parte di me era livida per
ogni parola uscita da quella sua bocca
ma l'altra, quella che oggi non riusciva a
tacere, sapeva che Frankie aveva
ragione. Erano sei anni che lo stavo
punendo e la cosa mi era sfuggita di
mano.
Lei si alzò per andargli dietro e
assicurarsi che stesse bene. La fermai
trattenendola con la mano.
«Ci penso io» dissi alzandomi a
mia volta, «Tu hai i tuoi doveri da
testimone a cui badare.»
«Ti prego, Danika. Non devi
tornare con lui ma per favore, almeno sii
gentile. Ne ha passate tante, è stato così
per entrambi. E queste stronzate sono
negative anche per te stessa.»
Lo sapevo e glielo resi noto
annuendo con lo sguardo.
Lo trovai che vagabondava fra gli
alberi, a metà strada fra le tende per la
cerimonia e quella specie di fortezza che
James definiva ‘casa’.
«Tristan» lo chiamai ad alta voce.
Lui si bloccò, non si voltò ma si
fermò.
Lo
raggiunsi
in fretta
prendendogli un braccio.
«Mi spiace per quello che ti ho
detto. Era una cattiveria e non lo
intendevo sul serio. Tu mi conosci, non
sembro essere capace di tenere le cose
per me e a volte mi scappano di bocca
nei modi peggiori.»
«Sei diventata piuttosto brava
invece, ti tieni dentro tutto, da un bel
pezzo.»
Le mie sopracciglia ebbero un
guizzo… era vero. Per quanto fossi
migliorata nel tenere a freno la lingua,
non riuscivo comunque a decifrare il
sottinteso del suo tono.
«Sì, sono cresciuta. Ma quello
che ti ho detto prima, beh, non era da
persona adulta e mi dispiace. Non ce
l'ho con te, ho davvero superato la
nostra storia e penso che tu abbia
ragione: non c'è motivo per non essere
di nuovo amici.»
«Grazie.» La sua voce era bassa e
roca, la testa china sul petto. Anche
nella semi-oscurità riuscivo a vedere
che teneva gli occhi bassi.
C'era nella sua postura, qualcosa
che parlava di sconfitta e un pessimismo
tale nella sua voce che non fui in grado
di evitarlo. Lo abbracciai per
consolarlo, per sostenerlo, senza
riflettere se fosse una cosa per lui, per
me o per entrambi.
Dovetti alzarmi in punta di piedi
per mettergli le braccia al collo e lui
comunque si abbassò.
Per una decina di secondi rimase
contratto come un cadavere poi reagì, le
sue braccia mi strinsero tanto che mi
sfuggì un gemito mentre mi spremeva
fuori l'aria. Allentò la presa ed io
inspirai un paio di volte prima di
rilassarmi.
Il mio corpo parve avere la
meglio grazie ai ricordi sensoriali
risvegliati da quel contatto: eravamo un
treno in corsa assieme eppure ogni volta
che avveniva un contatto, provavo una
sensazione di positività.
Mi spinsi a lui nascondendo il
viso contro il suo collo.
Tristan arretrò leggermente ed io
alzai la testa guardandolo. Per quanto
non riuscissi a distinguerlo bene
nell'oscurità, sapevo che mi stava
fissando.
«Tristan» mormorai sottovoce.
Lui abbassò la testa finché fra le
nostre bocche non ci fu che un alito
d'aria eppure, anche così, mi ritrovai a
pensare che non lo avrebbe davvero
fatto.
«Tristan.»
Le sue mani circondarono il mio
viso e con la coda dell'occhio ne
registrai il tremore.
La sua testa si piegò da un lato, la
mia dall'altro e le nostre labbra si
unirono.
Mi baciò: uno dei quei baci
disperati, famelici, selvaggi che mi fece
dimenticare il passato e il futuro al
tempo stesso.
Avevo passato la maggior parte
della vita a dimostrarmi freddamente
riservata nei confronti del mondo; certa
di un autocontrollo che all'apparenza mi
veniva spontaneo. Era bastato un breve
bacio e tutti quegli anni erano svaniti: il
passato e il presente si fondevano in un
solo, unico pensiero che aveva vita ora.
E proprio in quel momento, tutto quello
che serviva era il legame, la sensazione
che nasceva dall'unione delle nostre
labbra e scendeva lungo il mio corpo,
accendendone ogni molecola fino a
incendiarlo.
Scattai. Le mie mani gli
arpionarono le spalle, la mia bocca si
fece rapace sulla sua. Mi ero sempre
reputata brava a baciare e sapevo con
certezza che anche Tristan lo era, ma in
quel momento non c'era alcuna
gentilezza. Prendemmo, prendemmo e
restituimmo sotto forma di denti che
collidevano e lingue che si sfidavano.
Le sue mani si portarono sui miei
fianchi, sollevandomi contro di sé.
Quanto mi era mancato quel corpo: il
suo profilo, ogni curva, dosso, piega era
tutto ciò di cui avevo bisogno. Incrociai
le gambe attorno alla sua vita, emettendo
dei suoni animaleschi quando la sua
erezione premette contro la mia pancia
prima e il mio clitoride poi.
Sapevo che stava camminando
portandomi in braccio ma non
m'importava: continuai a succhiargli la
lingua, a mordergli il labbro fino a che
non sentii il gusto del sangue.
Il cielo ci sarebbe potuto cadere
addosso e non mi sarei spostata, non
avrei rinunciato a questo momento in cui
tutto sembrava essere tornato a posto, e
ogni torto vendicato.
Tristan cercò di mettermi giù ma
non glielo permisi, stringendogli i
fianchi come una morsa con le gambe e
le spalle con le braccia. Inclinò la testa
all'indietro e gli morsi il collo,
strofinandomi contro il suo torace.
«Ti prego» sussurrò arrochita.
Quella piccola richiesta mi fece
scostare abbastanza da guardarlo.
Eravamo illuminati da una lanterna
sopra le nostre teste e presi atto di ciò
che ci circondava: eravamo sul portico
nel retro del ranch e Tristan stava
separando i nostri fianchi per mettermi
seduta sulla grossa balaustra che
correva lungo tutto il perimetro del
patio.
Glielo lasciai fare, confusa e
disorientata. Deglutii a fatica, aprendo
la bocca per dire chissà cosa, quando le
sue mani presero l'orlo del mio vestito
da damigella color lavanda e lo
sollevarono oltre i miei fianchi.
Quello riuscì a sopprimere
efficacemente il mio bisogno di parlare.
Ci stavamo buttando a capofitto in
quella pazzia ma io non riuscii a
preoccuparmi del casino che ne sarebbe
derivato in un secondo tempo. Lo
volevo, ne avevo bisogno, come di tutto
il resto da quando avevo cauterizzato
tutta la felicità della mia vita.
Tirò su del tutto il vestito,
facendolo passare oltre la mia testa fino
a bloccarmi le braccia. Non sapevo né
m'importava se fosse una scelta
intenzionale oppure no. Mi slacciò il
reggiseno sul davanti e gemendo si
piegò, accogliendo uno dei miei globi
frementi fra le labbra.
Le sue mani armeggiarono con la
cintura e la cerniera dei suoi pantaloni.
Grugnì ed io sussultai quando la sua
erezione finalmente libera mi rimbalzò
sullo stomaco.
Le sue grosse dita mi scostarono
le mutandine e il glande si spinse dentro
di me mentre Tristan rialzava la testa per
riprendere possesso nuovamente della
mia bocca. Non esitò, non domandò se
fossi certa ed io ne fui sollevata: non ci
sarebbero stati freni di sorta in grado di
rallentare un tale schianto.
Lui arretrò, avanzò nuovamente e
il suo uccello sprofondò dentro di me
con forza.
Il mondo si fermò mentre ci
prendevamo ciò di cui avevamo
bisogno, quello di cui avevo avuto fame
fin dall'ultima volta in cui ero stata tra le
sue braccia.
Fu un amplesso frenetico, un
ritrovarsi convulso che mi portò
all'acme dell'estasi nel giro di poche
poderose stoccate; troppo in fretta, a
perfetta testimonianza di quella che era
stata la nostra torrida storia d'amore.
Rimanemmo inerti a lungo e cosa
più importante, nel silenzio più totale.
Le
parole
avrebbero
spezzato
l'incantesimo perché erano la realtà.
Questo era un momento rubato, che
volevo mantenere il più lontano
possibile dalla vita vera.
A un certo punto, la mia fronte era
finita contro la sua spalla e la sua
guancia si era appoggiata sulla punta
della mia testa. Non si era sfilato e
l'unico movimento che condividevamo
era quello necessario ai nostri respiri
ansanti, mentre il suo membro si
contraeva ancora dentro di me.
Rimanemmo così per quelli che
sarebbero potuti essere minuti o anche
un'ora. Non avevo idea di cosa lui stesse
pensando ed io stessa mi sforzavo di non
indugiare su altro tranne quell'attimo e il
piacere di esser stata fra le sue braccia
in quel breve lampo di mancata lucidità
che avevamo avuto.
Il primo colpo di testa che mi ero
concessa negli ultimi anni era stato
davvero spettacolare.
«Danika.»
Quando alla fine lui parlò, la sua
voce era dolce ma soffocata.
Sospirai
pesantemente,
scostandomi.
L'incantesimo era svanito.
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