Con il Patrocinio di
Sala Verdi del Conservatorio – Via Conservatorio, 12 – Milano
Lunedì, 5 ottobre 2015 – ore 21.00
SERIE «A» 2015/2016
STAGIONE 2015/2016 – I° CONCERTO
ORCHESTRA ANTONIO VIVALDI
Direttore
LORENZO PASSERINI
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
Maestro del coro
CORRADO CASATI
FEDERICA LOMBARDI
Contralto CECILIA BERNINI
Tenore UGO TARQUINI
Basso VINCENZO NIZZARDO
Soprano
LUDWIG VAN BEETHOVEN (1770 - 1827)
SINFONIA N. 9 IN RE MINORE OP. 125
Allegro ma non troppo, un poco maestoso
Molto vivace
Adagio molto e cantabile
Finale: Presto
ORCHESTRA ANTONIO VIVALDI - Nata nel dicembre 2011 e già realtà stabile, l’Orchestra è
costituita da sessanta elementi, selezionati tra i più promettenti giovani musicisti italiani. Ha all'attivo
oltre quaranta concerti sinfonici, tenutisi in importanti teatri (Teatro dell’Arte, Milano; Teatro
Comunale,Vicenza; Teatro Manzoni, Monza; Teatro Civico, Tortona; Teatro Sociale, Como). Il suo
repertorio spazia dalla musica barocca a quella romantica, sino ad abbracciare la musica
contemporanea. L'Orchestra è da sempre stata interprete e dedicataria di brani in prima assoluta dei
compositori Piergiorgio Ratti e Antonio Eros Negri. Collabora con direttori quali José Luis Gomez,
Francesco Manara, Giampaolo Pretto, Giuliano Sommerhalder, Francesco Tamiati e musicisti quali
Francesco Manara, Leonora Armellini e Andrea Battistoni. Nella stagione concertistica 2014/2015
l'Orchestra ha suonato a Verona (Teatro Ristori) e a Segovia (Teatro Juan Bravo). Dal 2014
è orchestra in residenza al "Festival Pianistico Città di Morbegno". La giovanissima direzione artistica
dell'orchestra è composta da Lorenzo Passerini, direttore musicale, Piergiorgio Ratti, compositore in
residenza e Olga Introzzi, segretario artistico. www.orchestravivaldi.com
LORENZO PASSERINI - Nato a Morbegno nel 1991, ha iniziato lo studio del trombone al
Conservatorio di Como. Ha suonato con importanti orchestre sinfoniche (Orchestra Giovanile
Italiana di Fiesole e l'Orchestra dell'Accademia del Teatro alla Scala), intraprendendo tournée in
tutto il mondo con John Axelrod, Andrey Boreyko, Fabio Luisi e Riccardo Muti. Parallelamente alla
professione da strumentista, nel 2010 ha iniziato lo studio della direzione d'orchestra con Ennio
Nicotra, John Axelrod, Massimiliano Caldi, Gilberto Serembe, Antonio Eros Negri e Pietro Mianiti.
Fondatore dell'Orchestra Antonio Vivaldi, ha iniziato la carriera come direttore nel 2011. Ha
collaborato con Francesco Manara, Giampaolo Pretto, Giuliano Sommerhalder e Francesco Tamiati.
Nel 2013 è stato direttore preparatore dell'orchestra per i “Carmina Burana” di C. Orff, in
collaborazione con il Teatro Sociale di Como. Il suo repertorio spazia dal barocco al
contemporaneo, dal classico al romantico. È dedicatario di brani in prima esecuzione assoluta dei
compositori Piergiorgio Ratti e Antonio Eros Negri. Collabora con importati associazioni
concertistiche italiane; ha diretto Don Pasquale nel 2013 e L’Elisir d’amore nel 2014. Future produzioni
lo vedranno impegnato con Il Barbiere di Siviglia di Rossini e nei capolavori verdiani La
Traviata e Rigoletto. Dal 2014 Lorenzo Passerini e l’Orchestra Antonio Vivaldi sono artisti in
residenza del “Festival Pianistico Città di Morbegno”. www.lorenzopasserini.com
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA - Nasce nel 1804, anno
dell’inaugurazione del nuovo teatro. Collabora con la Fondazione Arturo Toscanini e con il Ravenna
Festival, che lo hanno portato ad acquisire una dimensione nazionale e internazionale, diretti da
Corrado Casati. Tra le esibizioni si ricordano il Requiem di Verdi diretto da Rostropovich, Rigoletto
con la regia di M. Bellocchio, Nabucco diretto da Oren alla presenza del Presidente della Repubblica,
Stabat Mater di Rossini nel Duomo di Orvieto, Elektra di Strauss diretta da Khun e, diretti da Muti,
Don Pasquale, Traviata con la regia di Cristina Mazzavillani, Il matrimonio inaspettato di Paisiello. Nel
2013 ha preso parte al concerto Le vie dell’Amicizia diretto da Muti a sostegno delle popolazioni
emiliane colpite dal terremoto, a Luisa Miller di Verdi diretta da Renzetti con la regia di L. Nucci, al
concerto a Roncole di Busseto con la regia di Cristina Mazzavillani Muti per il bicentenario verdiano.
Nella stagione 2014/2015 ha partecipato all’inaugurazione del Teatro di Rovereto e a concerti in
Trentino e Alto Adige prendendo parte alla Nona di Beethoven con l’Orchestra Haydn di Bolzano;
alle produzioni di Elisir d’amore per la regia di L. Nucci e a Les Contes D’Hoffmann di Hoffenbach.
Recentemente ha preso parte all’esecuzione in forma di concerto de I due Foscari con Nucci, Sartori e
Lewis, diretta da Renzetti. Tra i prossimi impegni: Falstaff con Muti, sia per il Ravenna Festival che
per la città di Oviedo (Spagna). Ha al suo attivo numerosi concerti sinfonici e numerose registrazioni
audio e video, tra cui un CD di Arie verdiane di Jonas Kaufmann, registrato nel 2013 a Parma.
CORRADO CASATI - Diplomato in pianoforte al Conservatorio “Nicolini” di Piacenza, nel 1986
ha cominciato la sua carriera in teatro come Maestro collaboratore, dal 1992 è Maestro di Coro in
vari teatri italiani a fianco di Muti, Oren, Arena, Morandi, Rostropovich, Cura, Neuhold, Zedda. Con
il Coro del Teatro Municipale ha partecipato alla produzione sia di opere verdiane ma anche di
Puccini, Mascagni, Cilea, Leoncavallo, Rossini, Donizetti, Strauss, Gounod. Al Teatro Regio di
Parma ha diretto il coro nell’ultima produzione in italiano del Lohengrin di Wagner. Come direttore
del Coro del Teatro Municipale di Piacenza ha all’attivo registrazioni audio-video tra cui Aroldo e
Nabucco di Verdi e Le convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti, la Suite per orchestra e coro Shark
di Marcel Kalife, Stabat Mater di Rossini, Don Pasquale di Donizetti diretto da Muti, Traviata di Verdi
(per Ravenna Festival), Roberto Devereux di Donizetti (per il Donizetti Festival del Teatro di
Bergamo), Traviata di Verdi con Daniela Dessì e Fabio Armiliato.
FEDERICA LOMBARDI - Ha intrapreso gli studi di canto lirico al Liceo Musicale di Forlì, ha
partecipato alle masterclass di Cossotto, Freni e Kabaivanska. Dal 2010 studia all’Accademia A.R.T.
Musica di Roma con Savastano. Nel 2013 ha partecipato a concorsi lirici internazionali tenuti in
Italia (premio Tuccari e premio del pubblico all’Ottavio Ziino di Roma, il secondo premio al Ricci di
Viterbo e due premi speciali al concorso Franci di Pienza). Nel 2014 al concorso Viñas di Barcellona
le è stato conferito uno speciale riconoscimento da parte dell’Accademia Chigiana ed è stata
vincitrice del Concorso per giovani cantanti lirici d’Europa per il ruolo di Donna Elvira (Don
Giovanni). Vincitrice della scorsa edizione dell’ As.Li.Co per la Contessa di Almaviva (Nozze di Figaro);
al Festival Como 2015 ha debuttato nel ruolo di Nedda in Pagliacci e ha partecipato al Young Singers
Project al Festival di Salisburgo.
CECILIA BERNINI - Diplomata all’Istituto Vittadini con Cordeiro Opa, si è perfezionata nel
repertorio barocco con Bertotti e con Mingardo, in quello lirico con Lipovsek (Mozarteum di
Salisburgo). Ha preso parte al Festival Urbino Musica Antica con A. Quarta, alla Festa dell’Opera, al
Piccolo Festival del Friuli 2014 (Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn). Ha inciso Il Demetrio
diretto da Schiavo, in prima esecuzione moderna, Mottetti sacri di Hasse. É Arsace nel Demetrio di
Mysliveček, terza dama ne Il Flauto Magico di Mozart, Rosute nel Va vilote puartade dal vint di Kubik,
Orfeo nell’Orfeo ed Euridice di Gluck. Ha vinto il concorso per il ruolo di Clarice ne Il mondo della luna
di Galuppi. Nel repertorio contemporaneo è stata Sharma in Milo, Maya e il giro del mondo di
Franceschini, regia di Leboutte. Ha inciso Who’s That di Cacciola e Colore Italiano di Albini per la
mostra Il segno Alfa. In ambito sacro ha cantato la Messa dell’incoronazione di Mozart diretta da
Ommassini e la Petite Messe Solennelle di Rossini diretta da Faelli. É stata finalista al V concorso
internazionale P. A. Cesti a Innsbruck.
UGO TARQUINI - Compie gli studi di perfezionamento con Martinucci e Zanazzo. Dal 2013
collabora attivamente con la “Fondazione Luciano Pavarotti”. Ha cantato nelle serate di apertura
della stagione 2013 Areniana e del Teatro Bolshoj di Mosca. É Erik ne L’Olandese volante di Wagner
per il progetto “Opera Domani”, è Tamino ne Il flauto magico presso la Muscat Opera House in
Oman, Rinuccio in Gianni Schicchi per il 60° Festival Puccini di Torre del Lago, Rodolfo in Boheme e
Pinkerton nella Madama Butterfly di Puccini.
VINCENZO NIZZARDO - Si diploma al Conservatorio Cilea di Reggio Calabria e nel 2013 è
vincitore del Torneo “Conservatori a Confronto”. È Figaro ne Il barbiere di Siviglia, Succhiello
Scorticone nel Don Checco, Hermann e Schlemil in Les contes d’Hoffmann. Nel 2015 è Dulcamara ne
L’elisir d’amore, il Conte ne Le nozze di Figaro, Apollo e il Gran sacerdote di Apollo in Alceste; Silvio ne i
Pagliacci, Trombonok ne Il viaggio a Reims. Tra gli impegni futuri: il Conte ne Le nozze di Figaro,
Dulcamara ne L’elisir d’amore, Il barbiere di Siviglia, Don Magnifico ne La cenerentola, Guglielmo in
Così fan tutte, etc..
Seid umschlungen Millionen!»
«Abbracciatevi, siate avvinti, uniti…». L’esortazione dei versi di Schiller, consacrati da Beethoven nel
suo ultimo capolavoro sinfonico, rendono sempre attuale il valore – e il bisogno – di questi suoni:
«diese Töne», la Nona Sinfonia. Reca un messaggio quest’opera? Una cosa sembra comune a tutto
quanto è stato scritto: attraverso i suoi quattro movimenti questa sinfonia è un grande percorso dal
buio alla luce, il passaggio da uno stato di angoscia, frenesia affanno, attraverso la speranza, la
dolcezza, fino ad arrivare alla gioia. Ma è ancora possibile considerarla ‘seriamente’? Ossia,
contrariamente a ciò che riteneva Adorno, dopo Auschwitz e gli orrori del secolo scorso è ancora
possibile un dialogo sincero con una musica che parla ancora il tono della humanitas? Oppure –
considerando anche orrori ben più recenti – dobbiamo realisticamente lasciare la fratellanza
universale celebrata nel Finale tra le grandi illusioni? Emblema di ogni questione sulle possibilità
espressive della musica, oltre che opera dal destino controverso, sospesa tra l’elevazione a mito della
cultura europea e le pesanti critiche mosse alla costruzione del Finale, la Nona di Beethoven suscita
sempre nel pubblico un’accoglienza rinnovata. In tale prospettiva, è davvero curiosa la dissonanza
tra la grande devozione dei Millionen che da sempre affollano le sale da concerto quando la Nona è
in programma, e una tradizione critica piuttosto consolidata che nell’ultimo movimento la vede
come opera sgraziata: certamente di grande presa emotiva, ma debole dal punto di vista della
perfezione formale rispetto ad altri capolavori del suo autore. Dalle precedenti Settima e Ottava,
entrambe del 1812, la Nona Sinfonia dista ben undici anni. Si tratta all’incirca dello stesso intervallo di
tempo che Beethoven impiegò nel primo decennio del secolo per comporre tutte le altre sinfonie,
emancipando tale genere musicale ricevuto dalle mani di Haydn e Mozart – musica di elevato
intrattenimento – e portandolo già con l’Eroica alla concezione ottocentesca: ogni Sinfonia deve
essere ‘un mondo’, come sosteneva Mahler. Il 1823 fu l’anno in cui si dedicò totalmente alla
composizione della Nona mentre il decennio antecedente fu caratterizzato, in una prima fase, da una
riduzione dell’ondata creativa: sono i cosiddetti ‘anni sterili’ i quali possono essere però visti come
quel momento di necessaria sedimentazione dello ‘stile eroico’ da cui potranno emergere le ultime
quattro Sonate per pianoforte e le Variazioni Diabelli. Successivamente venne quel periodo di intenso
lavoro che, basato su un rinnovato interesse per la vocalità antica – Palestrina anzitutto –, darà corpo
in quattro anni alla Missa Solemnis. Tutto ciò non fu senza influenze sui progetti di nuove Sinfonie
che rimanevano momentaneamente sospesi nell’animo del maestro. L’intenzione originaria era
infatti di comporne due: una in re minore, destinata alla Società Filarmonica di Londra e un’altra con
cori in tedesco su testi religiosi e miti greci. Solo nel 1822 i due progetti si fusero insieme in quello
che diverrà la Nona Sinfonia le cui prime idee musicali sono abbozzate in vari quaderni di altri lavori
dal 1815 al 1818. Va poi considerata la storia tutta particolare della Melodia della Gioia: già utilizzata,
anche se in forma variata, nel Lied Ungeliebten und Gegenliebe del 1794 e nella Fantasia corale op. 80 del
1808. Anche gli stessi versi di Schiller, amati da Beethoven fin dalla giovinezza, solo nel 1822
presero il sopravvento su altre ipotesi e si unirono alla melodia che arrivava da tempi remoti.
Considerando tutti questi fattori si può ben dire che a differenza delle Sinfonie precedenti, nate in
maniera ‘scultorea’ sgrossando e chiarificando una – una sola – idea monolitica, la Nona è il risultato
di una stratificazione geologica, è la sedimentazione di una vita. Al termine della composizione
Beethoven fu tentato di organizzare la prima esecuzione a Berlino. A ciò lo spingeva in parte anche
il risentimento verso i Viennesi in adorazione da qualche tempo dell’astro nascente di Rossini.
Quando amici ed estimatori seppero di queste intenzioni fecero di tutto per convincerlo a non
privare la loro città del privilegio di avere la prima esecuzione. Dopo alcune indecisioni Beethoven si
arrese e la scelta cadde sul Teatro di Porta Carinzia, a Vienna. I preparativi furono estenuanti.
L’orchestra era alle prese con una partitura intricata come non mai e con l’inserimento di nuovi
elementi a rinforzare le file per l’occasione. Le parti vocali erano mostruosamente difficili,
Beethoven venne supplicato di facilitare alcuni passaggi. A complicare il tutto c’era il pochissimo
tempo a disposizione per le prove: neanche un mese. Nonostante tutto ciò, la sera del 7 maggio
1824 la Sinfonia fu accolta con enorme entusiasmo dal pubblico viennese. Vennero eseguiti anche
l’Ouverture ‘La consacrazione della casa’ op. 124 e tre parti della Missa Solemnis. Il responsabile generale
del teatro, Duport, ci teneva che Beethoven dirigesse personalmente l’esecuzione e questi accettò,
anche se la sua sordità totale ormai da tempo non gli consentiva più di condurre un’orchestra come
si deve. Fu così che Umlauf, l’anziano direttore, avvertì i musicisti di seguire solo i suoi gesti. Al
termine Beethoven non si accorse dell’entusiasmo del teatro. Fu il contralto Caroline Unger che,
prendendolo dolcemente per le spalle, lo fece voltare per vedere il pubblico che lo acclamava
sventolando un mare di fazzoletti bianchi. La Nona Sinfonia è un’opera ‘ampia’, non tanto nella
durata quanto nel suo espandersi in entrambi i mondi espressivi più caratteristici del suo autore.
Come un grande viaggio di ritorno, essa ci riporta dalla sfera dell’ultimo Beethoven, cui il primo
movimento tutto appartiene, al piglio eroico del Finale, anche se vi risuona un eroismo ben diverso
da quello di vent’anni prima. Nella sua ultima stagione creativa Beethoven approda a radicali
mutamenti stilistici, ma quel che più conta è il cambiamento dell’idea di fondo che si avverte nelle
sue opere. L’essenza del Beethoven ‘eroico’, quello che si è manifestato in modo lampante con la
Terza Sinfonia e molte opere che sono seguite in quegli anni, è quella di una lotta: il famoso voler
«afferrare il destino per la gola», che in molti lavori si concretizza nella tensione drammaticodualistica della forma-sonata. La musica di quel periodo ha una ‘direzionalità’ certa, benché
tormentata: muove spesso da un principio ostile verso un finale radioso conquistato con fatica.
Nell’ultimo Beethoven si sente invece la posizione di un uomo che sa trarsi “in disparte” rispetto alla
scena del mondo e approda a una visione più comprensiva. Non che vi siano eliminati i tormenti del
vivere, ma il gesto deciso dell’uomo forte che si butta nella lotta, cede allo sguardo di un uomo –
forse non meno forte – che sa cogliere questa nostra vita conscio delle sue ineliminabili
contraddizioni. A tale visione – superiore, se vogliamo – forse non si poteva approdare se non
passando attraverso quegli anni di riflessione che vengono chiamati ‘sterili’. La Sonata Hammerklavier
op. 106, nata a ridosso di quel periodo, è l’altra opera dall’arcata così ampia da lasciar risuonare
attraverso i suoi quattro movimenti lo stesso tracciato che congiunge le due sfere espressive di
Beethoven. Ma in quell’opera si partiva dal piglio eroico vittorioso del primo movimento per
arrivare, passando attraverso l’arguzia fugace dello Scherzo e il grande abisso dell’Adagio, a quella
regione magmatica pre-umana costituita dalla colossale tripla fuga finale, nella cui conflagrazione,
come in quella della Grosse Fuge op. 133, pare dissolversi ogni umano sentire. A tale cosmo
primordiale appartiene anche il primo movimento della Nona (significativo, forse, che i suoi abbozzi
si trovino sullo stesso quaderno dei quelli dell’Hammerklavier). Toccherà dunque alla Sinfonia
compiere il grande percorso a ritroso. Il primo movimento (Allegro ma non troppo un poco maestoso) pare
emergere dal nulla con quelle quinte vuote in cui echeggia l’indistinto delle origini. Siamo di fronte a
una concezione spaziale fatta di molteplici piani sonori in cui nulla prevale davvero. La consueta
tensione bitematica della forma-sonata è scomparsa a favore di relazioni più complesse (i gruppi
tematici sono almeno tre). Lo sviluppo pur con la sua incandescenza non traghetta gli eventi a nuove
aree emotive. Il tutto viene a comporre una scena grandiosa di attonita contemplazione, dinamica e
immutabile dal principio alla fine, nelle cui oscure e laceranti pieghe polifoniche e timbriche echeggia
un cosmo imperscrutabile pur nella sua immanenza. Per tali aspetti il primo movimento ha un
carattere più mobile del successivo, il cui dinamismo verrà indirizzato nelle maglie serrate di una
polifonia geometrica pur nella sua vitalità impetuosa. Il secondo movimento (Molto vivace), che
condivide col primo la tonalità di re minore, non è affatto uno “Scherzo” – se consentito il gioco di
parole – ma un terreno di lotta drammatica. Già nei rintocchi iniziali di ottave si sente il piglio di una
volontà attiva di fronte alla scena immane del movimento appena concluso. Il fugato frenetico e
saltellante che segue non è un abbandono selvaggio, orgiastico, alle pulsioni più elementari. È
innegabile che sprigioni grande energia ma non sfrenatamente incontrollata. Si coglie invece uno
sforzo accanito di volontà e razionalità, come reazione al cosmo insondabile del movimento
precedente. Tensione polifonica, rigidità ossessiva della figurazione ritmica e segni dinamici «f» (forte)
disseminati a profusione in principio di battuta, sono forse l’espressione di tanto ossessivo
accanimento. L’oasi in re maggiore costituita dalla sezione centrale, in cui è prefigurata la “Melodia della
Gioia”, non è che una quiete effimera destinata, dapprima, ad afflosciarsi su se stessa nell’unico
ritardando di questo movimento affannato, e infine a rivelarsi per quello che è: un miraggio illusorio
che svanisce in una battuta di silenzio. La vera pace arriva con il terzo movimento (Adagio molto e
cantabile). Beethoven impiega due temi che si alternano, entrambi di ampio respiro e grande dolcezza;
di fatto tra di loro non vi è alcun contrasto. Il primo (Adagio) ha un carattere celestiale e ritorna ogni
volta impreziosito da variazioni che ne ricamano la linea melodica, il secondo tema (Andante) ha un
carattere più bonario. Quest'ultimo si presenta tutte due le volte uguale a sé stesso: la prima viene
esposto dagli archi, la seconda è affidato ai fiati. Dopo la severità dei primi due movimenti, il terzo è
un grande lago dalle acque tranquille, un paesaggio di sconfinata bellezza. La musica si espande
quieta come una preghiera che risuona nel profondo dell’anima. Non giovano però alla
comprensione di questa musica tante letture in chiave semplicemente ristoratrice o soporifera.
Quello che sentiamo è invece un ‘risveglio’, l’ascolto di una voce interiore a lungo ignorata. Dopo
l’affanno del movimento precedente ci troviamo a un radicale ripensamento «com’om che torna a la
perduta strada». L’aura contemplativa di questo Adagio è illuminata sin dall’inizio da una luce via via
più intensa e sicura; luce che verso la fine del brano diventa improvviso fulgore abbagliante. Gli
squilli di tromba che si odono improvvisi e coinvolgono tutta l’orchestra – senza alcuna funzione di
sveglia o minaccia – sono il vertice, inaspettato, di tanta introspezione. Forse un presagio di tali
squilli si avverte, in modo sotterraneo, in quel passaggio che dalla seconda esposizione dell’Andante
conduce alla seconda variazione dell’Adagio: nel pizzicato degli archi sotto l’umbratile dialogo dei
legni. Dopo quest’attimo di fulgore tutto torna come prima e, sempre dolcemente, il terzo
movimento si avvia alla conclusione. L’Adagio non era un sonno beato ma un risveglio spirituale,
dunque nel Finale non abbiamo un ritorno ‘alla vita’ ma, semplicemente, alla ‘ruvida quotidianità’ del
vivere: ben presente in quell’attacco brutale dei fiati a cui violoncelli e contrabbassi si oppongono
con un vigoroso recitativo strumentale. L’ultimo movimento non reca tracce di vita vissuta ma
fremiti di vita vivente che, prima di riprendere, si volge indietro a contemplare un ‘cammino’: sono
le reminiscenze dei movimenti precedenti che vengono richiamate alla scena, non per venir
necessariamente ricusate ma più per farne viva memoria. Sarebbe bene non tener conto di quelle sei
piccole frasi che Beethoven appuntò nei suoi abbozzi riferendole ai vari interventi del recitativo
strumentale le quali inducono a sentire un tono di rifiuto indistintamente in tutti questi interventi
degli archi gravi. Il credito assoluto dato a tali appunti – non presenti in partitura – ha molto
compromesso un ascolto ‘pulito’, semplicemente musicale, del prologo-pantomima. Terminato
quest’ampio preambolo ecco la “Melodia della Gioia” ascendere, semplicissima, dalle profondità degli
archi e contagiare via via tutta l’orchestra. Canto senza parole: la ‘Gioia’, prima ancora di rivestirsi
delle belle parole di Schiller, è qualcosa che nasce nel cuore. La ‘fanfare del terrore’ (come Wagner
ha ben indicato l’attacco del Finale) riesplode ancora in questo tripudio orchestrale. Questa volta è
una voce vera, di baritono, che si leva «Amici non questi suoni! Ma altri intoniamone, più piacevoli e
gioiosi». La massa corale si unisce alla Gioia sempre preceduta dal singolo o dai solisti, quasi a
significare la radice anzitutto individuale di tale sentimento. Torna la voce del Beethoven eroico, ma
con spirito mutato; «angenehm» (gradevole) scrive sopra la parte del baritono dove attacca la Melodia
della gioia. Non è più lo scultore della forma-sonata: quello che nel Finale della Quinta Sinfonia cassava
il destino con otto colpi di martello in do maggiore, ma un uomo conviviale, amabile. I modi poco
raffinati e a tratti esibiti di questo Finale restituiscono nel modo migliore il trambusto della vita – la
vita nonostante tutto – con la sua frammentarietà, le sue incoerenze. La fatica della quotidianità, il
banale, il non senso, sono ora attraversati e fecondati da questo sottile filo rosso: la Melodia della
Gioia: una gioia che non toglie la fatica del vivere ma la sa attraversare. Altro che ‘bel canto’! Si deve
sentire la fatica: la ‘fatica della gioia’. A un certo punto le variazioni si arrestano a favore di un nuovo
momento di intenso raccoglimento (Andante Maestoso – Adagio ma non troppo ma divoto). Qui i versi di
Schiller esortano gli uomini all’unità «Seid umschlungen», all’abbraccio fraterno sotto la volta stellata
sopra la quale deve certamente abitare un caro Padre, e Beethoven riprende armonie arcaiche con
una declamazione ispirata ad antichi inni liturgici. Quando insieme al fremito delicato dell’orchestra
il coro intona per l’ultima volta sottovoce «Über Sternen muß er wohnen» (sopra le stelle deve
abitare), sembra davvero scintillare la volta stellata. Come disse Walter Riezler, in questo passaggio
«risuona l’infinito». Poi scompare la “volta stellata” e una possente doppia fuga, che riconquista la
tonalità di re maggiore fondendo insieme la vitalità della Freudenmelodie e l’anelito trascendente
dell’arcaica melodia di «Seid umschlungen!», si impone come viatico definitivo: la Gioia appunto,
quale è nella sua essenza: «Schöner Götterfunken» (bella scintilla divina). Davvero divina, ma
‘scintilla’: non pienezza di luce. Ed è solo con la debole forza di questa scintilla che è dato di abitare
il mondo e attraversare la vita. Verso la conclusione solisti e coro si alternano più volte in rapida
successione: momenti di esultanza, concitati, sognanti, carezzevoli, frenetici, solenni. Beethoven
termina quella che rimarrà la sua ultima Sinfonia in maniera davvero scomposta. Ma la gioiosa
scompostezza di questa stretta finale è come un’ulteriore parola di incoraggiamento per la nostra
vita: anche nella dispersione della quotidianità – con tutto ciò che non torna – ad affrontarla con
forza, con gioia. Pur essendo germogliata dal duro terreno della sua epoca e dalla vita dissestata del
suo autore la Nona Sinfonia ha levato i suoi rami ad altezze insperate. Non è però, quella a cui
perviene, l’altezza di una sintesi operata nell’ideale monolitico della Quinta Sinfonia, bensì quell’altezza
da cui contemplare retrospettivamente l’itinerario umano compiuto, con un occhio desideroso di
rintracciarvi una logica, una propria ‘unità’, pur nelle evidenti fratture. È forse un grande bisogno di
‘unità interiore’, nella dispersione della vita, ciò che rende sempre desiderata e amata quest’opera di
Beethoven anche al secolo attuale. Benché in opere successive, quali ad esempio le Sinfonie di Mahler,
riecheggi maggiormente la frammentarietà del mondo moderno – globale ma non davvero ‘unito’ –
queste ultime vengono forse ascoltate con un affetto fraterno: con la solidarietà che si può sentire
con una musica la quale si trova nelle ‘stesse condizioni’ di coloro che oggi la ascoltano. L’affetto
che invece la Nona di Beethoven riceve, oggi più che al tempo della sua creazione, è di tipo filiale. È
un’insaziabile fame di ‘unità spirituale’ quella che ci porta a questa musica alla quale chiediamo quasi
un’adozione perché ci ri-generi. In tale prospettiva se il tempo di Mahler è ormai venuto, possiamo
constatare dalle attese dell’animo che quello della Nona di Beethoven non è mai terminato. Ad essa
spontaneamente ci rivolgiamo, come singoli e come collettività, nei momenti nodali della vita e della
storia; quando vogliamo fermarci a contemplare il nostro passato non in chiave nostalgica ma in
maniera feconda per l’avvenire: all’inizio di un nuovo anno, di una nuova stagione della vita, al
cadere di muri di separazione. Quando vogliamo ripartire, come scrisse Beethoven nella Canzona di
ringraziamento del Quartetto op.132 là dove essa modula – guarda caso – a re maggiore: «Neue Kraft
fühlend», sentendo nuova forza. Una visione del Finale come ‘traguardo’, meta beata, paradiso,
fratellanza raggiunta – che venne supportata anche da Wagner – è ciò che non permette di cogliere
la ‘vera’ perfezione formale di questa parte della Sinfonia. Se il Finale davvero alludesse a tutto
questo, allora le critiche sarebbero fondate: come ‘paradiso’ suona un po' sgangherato. Ma non lo è.
Non sono masse di beati, di pacificati, quelle che intonano le variazioni corali, non è la voce di
un’umanità migliorata ma quella di un’umanità che ‘si vorrebbe’ migliore, e che per tale anelito ha
intravisto una strada – la Gioia – ritrovata nell’ascolto di una voce interiore a cui rimanere fedeli.
Quelle imperfezioni che sono state spesso imputate al Finale (trattamento sgraziato della vocalità,
accozzaglia di stili eterogenei, polittico sonoro di momenti slegati tra loro) assolvono invece nel
modo più degno – «si che dal fatto il dir non sia diverso» – a veicolare l’essenza di questi suoni: non
una gioia raggiunta al di sopra delle miserie terrene ma ‘dentro’ tali miserie. Scarsa coesione?
Accozzaglia di stili? È la varietà della vita! Adesso però tale dispersione è tenuta insieme dalla
“Melodia della Gioia” la quale, come scrisse giustamente Wagner: «diventa il Cantus firmus, il corale
della nuova comunità». Nel suo saggio su Beethoven Walter Riezler scriveva «nonostante tutta
l’opposizione che essa [la Nona] incontrò all’inizio e che ancor oggi trova qua e là, questa sua
efficacia è così possente e, soprattutto, così duratura, che può provenire solo da un’opera che deve la
sua esistenza non a un capriccio umano, ma a una qualche misteriosa legittimità». Effettivamente
questa Sinfonia ha resistito a tentativi di svalutazione e al suo stesso autore che meditò, per qualche
tempo, di sostituirne il Finale con un altro puramente strumentale. Uno sguardo diffidente nei
confronti del Finale lo troviamo anche in un recente lavoro di Maynard Solomon che, pur senza
scomodare il ‘paradiso’, vede l’abbraccio universale che vi è vagheggiato come una «unione
all’ingrosso», una «spinta pericolosamente regressiva» in cui si vanifica quello che sarebbe il
traguardo di una buona evoluzione: il sorgere di un individuo relativamente autonomo. Sarebbe un
discorso troppo ampio da affrontare ma, rimanendo a Beethoven, possiamo osservare che la sua
evoluzione non si fermò all’affermazione della propria forte individualità: a quella vittoria
schiacciante e orgogliosa che echeggiava nel finale della Quinta Sinfonia e in molti altri finali sinfonici
o cameristici di quel periodo. La sua evoluzione lo portò a un allargamento delle proprie vedute che
si riflesse nella sua opera in due modi differenti. Cessarono i Finali eroici e vennero Finali che
conducono a lontananze inimmaginabili: le Variazioni verso regioni sublimi che concludono le Sonate
opus 109 e 111, gli strappi brutali che turbano l’Agnus Dei della Missa, la tripla Fuga abissale e visionaria
dell’Hammerklavier e quella che è la Grande Fuga, in origine Finale dell’opus 130. A fianco a questi Finali
ne scaturirono altri dal timbro più amabile, radicati nelle gioie semplici della vita quotidiana. Anche
questi sono ‘il vero Beethoven’: la tenerezza domestica del secondo e ultimo movimento della Sonata
per pianoforte op. 90, il piglio spiritoso e bonario del Rondò conclusivo della Sonata per pianoforte e violino
op. 96 e quello collocato a nuovo Finale del Quartetto op.130. E infine quel finale-corale della sua
ultima Sinfonia: quel tema così semplice, quell’invito all’abbraccio e all’unione delle moltitudini,
quell’accostamento spudorato di stili musicali così eterogenei… Musica indegna di un grande
maestro! Come ha potuto ‘buttarsi via’ in questo modo? Beethoven nel Finale della Nona Sinfonia ha
in buona parte ‘dimenticato se stesso’. È molto curioso il fatto che il suo brano musicale più
popolare sia quello in cui viene meno uno dei tratti più peculiari della sua musica: la profonda
coesione organica dell’insieme. La capacità di Beethoven di fondere nella perfezione della forma le
strutture musicali e la ricchezza del suo mondo interiore, nel Finale della Nona non arriva a quella
parola lapidaria, univoca, quali possono essere considerati i movimenti finali di tutta la sua
produzione sinfonica precedente. Perché questo passo indietro? All’epoca della composizione della
Nona, capolavori come le ultime Sonate per pianoforte e le Variazioni Diabelli erano già ‘porte spalancate’
sugli ultimi Quartetti. È possibile che Beethoven abbia avvertito, anche inconsciamente, che per far
risuonare nella sua musica un «bacio» che andasse veramente al «mondo intero», avrebbe dovuto
parlare un linguaggio più popolare: un linguaggio in cui le sue personali conquiste sul piano
espressivo venissero accantonate. La “Gioia” di Beethoven-Schiller non doveva essere per una
minoranza musicalmente evoluta ma per tutti, e a tale scopo il linguaggio dell’ultimo movimento si è
spogliato di quelle pietre preziose conquistate dal suo autore negli anni immediatamente precedenti e
si è anche rivestito di una buona dose di istrionismo. Ma non è ‘involuzione’ questa scelta espressiva,
consapevole o inconscia che sia stata. Questa mossa sembra invece nello spirito di un ‘passo
indietro’ rispetto alle proprie potenzialità, per quanto evolute. Forse l’individuo evoluto è quello che,
di fronte ai suoi simili, sa mettere ‘tra parentesi’ la propria prepotente individualità, la propria spinta
all’autonomia, per parlare un linguaggio costruttivo, che forse all’apparenza “vola un po’ basso”, ma
sappia di maggior apertura. Dunque accanto alle visioni mirabili, talvolta enigmatiche, degli ultimi
Quartetti, può tranquillamente vivere la semplicità popolare del Finale della Nona, senza che tale
‘passo indietro’ sul piano delle scelte espressive faccia pensare a una regressione. Esso è invece un
adeguamento – proprio a livello formale – allo spirito più autentico della Gioia. Viene alla mente il
monito evangelico «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per
causa mia, la salverà». Beethoven nel Finale della Nona ha saputo «raggiungere i cuori» con un
linguaggio che anche i più piccoli potessero ascoltare.
Luca Cavaliere
PROSSIMI CONCERTI
Sabato 10 ottobre 2015 - ore 20.30 (Auditorium Gaber Grattacielo Pirelli - Milano)
(Concerto Fuori Abbonamento)
«In collaborazione con il Consiglio Regionale della Lombardia e Coop Lombardia»
«Un mondo in Musica per Expo» Concerto dei vincitori e Premiazione del Concorso lirico
“Coop Music Awards”
Martedì 13 ottobre 2015 - ore 20.30 (Teatro Dal Verme – Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano)
(Concerto Fuori Abbonamento) «A favore di PROGETTO ITACA»
PEPPINO DI CAPRI E LA SUA ORCHESTRA
Le interpretazioni più note, le canzoni più famose
Per informazioni e prenotazioni: Tel. 02/62695235 - Fax 02/6552205
e-mail: [email protected]
Mercoledì 14 ottobre 2015 - ore 21.00 (Teatro Dal Verme – Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano)
(Valido per A+F; A; Combinata 1; Orfeo 1; A1)
Pianista Sir ANTONIO PAPPANO - Clarinettista ALESSANDRO CARBONARE
R. SCHUMANN Phantasiestücke op.73 - J. BRAHMS Sonata op. 120 n.2 - R. SCHUMANN Tre Romanze op.94J. BRAHMS Sonata op. 120 n. 1
Biglietti: Intero € 30,00 - Ridotto € 25,00
Lunedì 19 ottobre 2015 – ore 21.00 (Sala Verdi del Conservatorio – Via Conservatorio, 12 – Milano)
(Valido per A+F; A; Combinata 2; Orfeo 2; A2)
MAV CHAMBER ORCHESTRA
Biglietti: Intero € 30,00 - Ridotto € 25,00
Domenica 25 ottobre 2015 - ore 21.00 (Teatro Dal Verme - Via San Giovanni sul Muro, 2 - Milano)
(Concerto Fuori Abbonamento)
Finale e Premiazione del 4° Concorso internazionale di Pianoforte, Canto e Musica da Camera “Coop
Music Awards” - Premio Antonio Bertolini
Lunedì 26 ottobre 2015 – ore 21.00 (Sala Verdi del Conservatorio – Via Conservatorio, 12 – Milano)
(Valido per A+F; A; Combinata 1; Orfeo 1; A1)
SYMPHONIEORCHESTER VORALBERG - Direttore HANS GRAF - Pianista TILL FELLNER
F. SCHUBERT Ouverture in do maggiore D.591; Sinfonia n.6 in do maggiore D.589 L. v. BEETHOVEN Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore op.37
Biglietti: Intero € 30,00 - Ridotto € 25,00
«… GLI AMICI PROPONGONO …»
* Martedì 6 ottobre 2015 alle ore 18.00 (Istituto dei Ciechi - via Vivaio, 7 - Milano)
Lezione/concerto a cura di Luca Schieppati
“De la musique avant toute chose...” Autori, stili e correspondances nella musica francese tra '800 e '900
Come un antefatto: la musica in Francia nell'800, tra predominio dell'Opera e rinascita della musica strumentale:
Franck, Saint-Saens, Fauré.
Seguirà cocktail.
* Giovedì 22 Ottobre 2015 ore 20.30 (Teatro Edi del Barrio’s - Via Barona - Milano)
«In collaborazione con gli Amici di Edoardo»
Musica dal vivo del Duo pianistico jazz PAOLO ALDERIGHI/STEPHANIE TRICK
ASSOCIAZIONE «AMICI DELLE SERATE MUSICALI»
2022001122013/2014ICALI»
Presidente Onorario Valeria Bonfante
Hans Fazzari
Isabella Bossi Fedrigotti
***
Roberto Fedi
Soci Fondatori
Ugo Friedmann
Carla Biancardi
Camilla Guarneri
Franco Cesa Bianchi
Vincenzo Jorio
Giuseppe Ferreri
Lucia Lodigiani
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Rainera e Mario Morpurgo
Gianfelice Rocca
G.B. Origoni Della Croce
Luca Valtolina
Adriana Ragazzi Ferrari
Amici Benemeriti
Giovanna e Antonio Riva
Alvise Braga Illa
Alessandro Silva
Fondazione Rocca
Maria Giacinta Tolluto
Ulla Gass
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Thierry le Tourneur d’Ison Marco Valtolina
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Società del Giardino
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Amici
Antonio Belloni
Giovanni Astrua Testori Carla Beretta Ricci
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«SERATE MUSICALI» AMICI STORICI
Fedele Confalonieri
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