Costume
Il conte Giacomo Durazzo
Ambasciatore Imperiale a Venezia (1764-1784)
di Armando Fabio Ivaldi
Un genovese dai variegati interessi culturali
e teatrali che raggiunse fama e gloria europee
al servizio degli Asburgo.
Grazie alla recente mostra dal titolo “Da Tintoretto a Rubens.
Capolavori della Collezione Durazzo” (2004) e, soprattutto,
grazie ad alcuni saggi e schede confluite nel prezioso catalogo1, sappiamo ora qualcosa di più su un periodo della
vita di questo nobile genovese complesso e tormentato, ossia il periodo veneziano, quando ricoprì la carica di Ambasciatore Imperiale, con sede a Palazzo Loredan sul Canal
Grande. In questa prospettiva, vale la pena di aggiungere
qualche altra notizia inedita o poco conosciuta, tale da completare meglio, pur nell’ambito di un generale mosaico abbastanza differenziato, un periodo che va dall’inverno del
1765 alla primavera del 1771. Il Durazzo rimase in questa
carica diplomatica per molti anni (1764-1784), dopo aver
assunto quella, certo culturalmente più ambiziosa, di Direttore
Generale dei Teatri Imperiali di Vienna (1753-1764), grazie
all’interessamento del Cancelliere di Stato, Principe di Kaunitz, amico e protettore del conte stesso. Gli esordi di questa nuova carriera furono contrassegnati da un clima abbastanza sereno e da reciproche cortesie, sia pure non sempre trasparenti, tra la Serenissima Repubblica ed il nuovo
rappresentante degli Asburgo. In particolare, assecondando gli interessi artistico-culturali e musicali del conte, con
A fronte
Martin van Meytens il Giovane (XVIII sec.). Ritratto del conte
Giacomo Durazzo e di sua moglie Ernestine Aloysia Ungnad
von Weissenwolf. New York, The Metropolitan Museum of Art.
la rappresentazione, in ‘prima’ assoluta con musica di Tommaso Traetta, del dramma per musica La Semiramide (Teatro Tron di San Cassiano, carnevale 1764-1765), da poco
proposto a Vienna, il cui libretto fu dedicato alla moglie del
nuovo ambasciatore, Ernestine Aloysia Weissenwolf, una delle prime dame della corte imperiale. In un clima invece più
teso, come si chiarirà più avanti, ma probabilmente con un
intento distensivo da parte del governo veneto e forse con
il cointeressamento dello stesso Durazzo, ci fu l’allestimento di Armida (Teatro Vendramin di San Salvatore, Fiera dell’Ascensione, 1767), “festa teatrale” di nuovo di recente messa in scena nella capitale asburgica, sempre con musica del
Traetta, con libretto originario del conte (tradotto dal francese, a Genova, nell’estate del 1747), ma revisionato e modificato, con il placet del Durazzo stesso, dal poeta di corte Giovanni Ambrogio Migliavacca detto “Filodosso”. All’inizio del 1767 tuttavia, durante il periodo di carnevale, fu
sollevata dal conte quella che venne definita “la questione
delle gondole” la quale, senza mezzi termini, rischiò di innescare una crisi diplomatica internazionale tra la Serenissima Repubblica, da un lato, e le corti di Vienna, Parigi e
Madrid, dall’altro. Ciò che va subito sottolineato è che, in
questo specifico caso, entrambe le parti in causa intendevano salvaguardare delle prerogative irrinunciabili. Gli ambasciatori quanto competeva loro in quanto diplomatici, ivi
compresa l’extraterritorialità dei propri mezzi di trasporto e,
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soprattutto, l’obbligo di precisi posti ad essi assegnati in luoghi pubblici (nei teatri, in particolare, o nei cortili di ogni palazzo, sede di corte), nel rispetto delle precedenze del protocollo internazionale, evitando, in tal modo, mescolanze sgradite e pericolose con personaggi di basso rango che potevano ulteriormente creare o suggerire situazioni sediziose o
peggio, in ulteriore assenza di specifico servizio di polizia.
Venezia, per sua parte, difendeva con forza la propria discrezionalità di decisioni in affari interni allo Stato, rifiutando
energicamente l’intromissione di Paesi stranieri e soprattutto,
in questo particolare caso, dell’Ambasciatore Imperiale, il conte Durazzo, durante un periodo politico non facile tra la Serenissima Repubblica e gli Asburgo. Il braccio di ferro tra
Venezia e le corti menzionate (tra spie, mosse e contromosse
quasi fulminee, nonostante le distanze delle corti coinvolte,
in cui la Serenissima rischiò un grave isolamento diplomatico ed una brusca rottura con Vienna), si protrasse per oltre un anno e si concluse con la capitolazione forzata di Venezia. Ciò che stupisce, in tale difficile situazione, è che la
Repubblica, famosa da sempre per la sua linea di politica
estera cauta ed occhiuta, si era invece mossa con molto rumore e con molta aggressività, convocando addirittura, per
direttissima, il conte Durazzo di fronte alle più alte cariche
dello Stato ed accusandolo di aver sobillato e quasi costretto
ad unirsi alla sua protesta, il duca di Montalegre, Ambasciatore
di Spagna (con il quale sembra che il conte solidarizzasse
di più, forse perché anche lui amante dell’arte e dell’opera)2, ed il marchese di Palmy, Ambasciatore di Francia. Nello sviluppo progressivo della vicenda, non fu affatto agevole, per la Serenissima, sia mantenere le posizioni rigide di
partenza sia cercarne di più morbide, per uscire dal vicolo
cieco che aveva ormai imboccato, nonostante astuzie, blandizie e ricatti, volta per volta impartiti ai suoi ambasciatori
presso le corti interessate. Anche perché, dal momento che
le accuse più veementi mosse da Venezia, riguardo all’indebita ed imperdonabile intromissione in affari di uno Stato straniero, erano state rivolte all’Ambasciatore Imperiale,
il conte Durazzo appunto, le corti di Madrid e di Parigi si
misero ben presto in una situazione di aspettativa, lasciando le prime mosse ufficiali a quella di Vienna; ciò che metteva in doppia difficoltà la Serenissima, non solo per la contiguità territoriale con l’Austria, ma anche per il secolare ed
in qualche modo prospero rapporto economico instaurato
con gli Asburgo, per quanto mantenuto non senza problemi anche geo-politici. Forse, poiché il Durazzo era diventato Ambasciatore Imperiale in questa città, ufficialmente in
seguito ad uno scandalo amoroso con una nota ballerina francese già sposata, strumentalizzato da complesse trame di
corte, (a causa del quale cadde in disgrazia e fu costretto
a dare le dimissioni da Direttore dei Teatri Imperiali), il governo veneto supponeva (ingenuamente?) sia che il conte
fosse abbastanza vulnerabile sia che, poiché il Durazzo sembrava non poter più contare su appoggi di particolare influenza, la questione si sarebbe presto risolta, magari con
la sua rimozione e le scuse formali al Doge ed alle più alte
cariche della Repubblica o, addirittura, che l’intera inopportuna vicenda non si sarebbe mai trasformata in un pericolosissimo incidente diplomatico internazionale. I documenti contenuti nel lungo “Memoriale relativo alle gondole”3, ci fanno invece sapere che la stima di Maria Teresa d’Asburgo e del figlio Giuseppe II, nonché quella del principe
di Colloredo, Vice-Cancelliere di Stato, oltre a quella del Kaunitz, da lungo tempo amico del Durazzo, non erano mai venute meno. Anzi, era stato proprio quest’ultimo a farlo nominare Ambasciatore Imperiale a Venezia, magari contando anche sul fatto che, quando era più giovane ed ancora
inesperto, il governo genovese lo aveva nominato “Inviato”
alla corte di Vienna (1749-1752), nel delicato e difficile momento seguito alla guerra di successione austriaca (17461748), e il Durazzo aveva dato prove di capacità e di intelligenza ‘politica’ di un certo rilievo. Abbiamo però anticipato delle conclusioni ed occorre invece iniziare sinteticamente
dal principio, per meglio comprendere le posizioni degli antagonisti e gli sviluppi scabrosi ed imprevedibili dell’intera
vicenda. In particolare, occorre spiegare in che cosa consisteva l’ “affare delle gondole” e perché una proposta, nel
complesso assennata, arrivò a scatenare il rischio di una crisi diplomatica internazionale dalle conseguenze molto negative per Venezia, soprattutto in un’epoca in cui in cui il
destino e l’autonomia delle Repubbliche oligarchiche sembrava ormai segnato. Di questa problematica circostanza,
si parla più e meno obiettivamente, a seconda delle diverse prospettive politico-nazionalistiche, in vari punti del Memoriale4, ma il passo più semplice e di immediata comprensione del problema contingente che aveva spinto il Durazzo a rivolgersi al Doge ed al Senato, rimane quello contenuto proprio nel suo primo fatidico memoriale del 21 gennaio 1767: “Dopo continui discorsi, e le molteplici doglianze che si facevano l’anno scorso generalmente sul disordine introdottosi da qualche tempo, e resosi ogni giorno maggiore d’imbarazzarsi il Passo, o Canale, che conduce allo Spettacolo di S. Benedetto [il Teatro di San Benedetto], onde se
ne vada quasi impossibil l’accesso, videsi con un savio provvedimento rimediato al male, e si godette per la prima volta a quel Teatro del piacere di potervi arrivare, e partire con
ottimo ordine, e con la maggiore facilità”.
Si sperava dunque, continua il conte, che il “savio provvedimento” attuato nel precedente carnevale, fosse ripristinato in quello successivo, considerati i positivi risultati finalmente
conseguiti, ma così non era stato. Il motivo principale della
protesta scritta e del “disordine” verificatosi (ben noto al Doge ed al Senato, non mancava di sottolineare il Durazzo) era
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dovuto ad un’abitudine locale (che il conte non ‘definisce’
con alcun aggettivo, ma fa indirettamente capire che anche
il permissivismo del governo veneto ed il suo “scarso, o poco rispetto” verso gli ambasciatori stranieri avevano un certo, peso nell’incresciosa e perdurante questione): quella attuata dagli abitanti della città che facevano occupare di buon’ora, da gondole vuote, tutte le rive vicine al Teatro di San
Benedetto; si andava all’opera a piedi, ma si voleva anche
la comodità di trovare subito l’imbarcazione per il ritorno dopo lo spettacolo. Le gondole degli ambasciatori, tuttavia, non
avevano un posto assegnato (come le carrozze degli ambasciatori veneti in tutte le corti), che impediva loro di mescolarsi indecorosamente “fra quelle di particolari” e di poter arrivare e ripartire dal teatro, senza intralci né pericoli. Alle lamentele del conte, si univano anche quelle del Duca di Montalegre, Ambasciatore di Spagna, e del marchese di Palmy,
Ambasciatore di Francia. La ‘guerra’ era stata dichiarata, anche se c’era stato un precedente illustre e abbastanza reCopia della lettera del Vice Cancelliere di Stato, Principe
di Colloredo, che partecipa al conte Durazzo le nozze
del Principe di Sassonia-Teschen con l’Arciduchessa
Maria Cristina d’Asburgo, figlia di Maria Teresa (Vienna,
23 aprile 1766). (Ginevra coll. Privata, già coll. Ivaldi).
A fronte
“Prospetto del Canal Grande di Venezia” incisione acquarellata
di Dionisio Moretti, 1828; sotto, particolare con il Palazzo
Loredan, detto dell’Ambasciatore, che fu sede diplomatica
di Giacomo Durazzo. (Galleria S. Lorenzo al Ducale).
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cente quasi simile, ma si trattava di un “petit roy” tedesco,
il “Principe di Wittenberg”, che non aveva certo scritto un
memoriale al Doge ed al Senato, ma si era comportato di conseguenza e da sovrano: in assenza “sia di Bombarchini, o
di Barca di Guardia”, si era astenuto dal recarsi a teatro. Lo
veniamo a sapere da un dispaccio segreto al Doge ed al Senato, da parte dell’Ambasciatore veneto a Madrid, Alvise Mocenigo (16 febbraio 1768), il quale cercava di intuire la posizione che avrebbe assunto quella corte verso la Serenissima, riferendo della “lettera d’Uffizio” che il duca di Montalegre aveva presentato, verso la fine di gennaio del 1768, insieme con quella che il conte Durazzo aveva a suo tempo
inviato al Doge ed al Senato. Quanto alla Corte di Parigi, sempre secondo un successivo dispaccio del Mocenigo dello stesso giorno, in virtù di una certa benevolenza dimostratagli dal
Duca di Losada, Ambasciatore spagnolo alla “Corte di Francia” e “soggetto per l’onor d’avvicinare al Sovrano; e per le
sue dignità distinto in questa Corte”, nonché in corrispondenza con il Duca di Montalegre, al diplomatico veneto parve intendere che quest’ultimo avrebbe forse atteso le direttive date al marchese di Palmy, “essendo la Francia rispetto alla Spagna in qualità di principale in quest’affare”; oppure che la Corte di Parigi si sarebbe invece uniformata alle decisioni di quella di Madrid per il suo Ambasciatore a Venezia, “il più anziano di residenza” nella città lagunare. In
ogni caso, questa precaria e scivolosa situazione avrebbe diminuito il “vigore” del memoriale del Durazzo, guadagnando tempo prezioso ed evitando, insieme, “il maggiore ri-
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scaldamento” delle Corti di Madrid e di Parigi. Il Losada aveva inoltre assicurato al Mocenigo che la “somma virtù, e il
credito” dell’Ambasciatore veneto alla Corte di Francia, Marco Gradenigo, rimanevano per il momento “con quasi sicura riuscita appoggiate”. Assai meno semplice, invece, si presentava la situazione per l’Ambasciatore veneto a Vienna, Polo Venier, soprattutto perché molto più infida e costantemente
sfuggente e mutevole. Egli ottenne abboccamenti con il Principe di Kaunitz, Cancelliere di Stato, ed il Principe di Colloredo, Vice-Cancelliere; ebbe pure, inizialmente, alcune indiscrezioni “in gran confidenza” dalle loro Maestà, Maria Teresa d’Asburgo ed il figlio Giuseppe II, che “il Sig.[nor] Ambasciatore Durazzo non è applaudito” da entrambi e che si
erano “lagnati della di lui non plausibile condotta” (30 gennaio 1768). Tutto cambiò però radicalmente quando, il 13
febbraio, Polo Venier ricevette un memoriale decisivo dal Cancelliere di Stato, il Kaunitz appunto. In esso, il Principe informava ufficialmente l’Ambasciatore veneto del colloquio avuto con le Loro Maestà sull’ “affare delle gondole” ed il comportamento del conte Durazzo: questa volta, esso era più lungo del solito e le prospettive che schiudeva, per il futuro, si
profilavano ben poco rassicuranti per la Serenissima. Vale la
pena di soffermarsi, in breve, sulla ‘tattica’ messa in atto dal
Kaunitz, non priva di sottili umiliazioni per il governo veneto. Si affidò al Vice-Cancelliere di Stato, il Principe di Colloredo (insieme con il Kaunitz, “vieppiù accesi d’irritamento”),
l’esporre pesanti riflessioni su tutta la questione, sulla base
delle decisioni delle Loro Maestà: la risposta data dal gover-
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no veneto al conte Durazzo feriva talmente l’animo di Maria
Teresa d’Asburgo “che non poteva essere dissimulata, e negata; che tanto più riusciva acerba […], quanto più era stata adoperata sopra una ragionevole dimanda […], fortificata dal recente esempio del Duca di Wittenberg […], e nello
stesso Teatro”. Mentre non si aggiungevano mai aggettivi qualificativi alle ‘mancanze’ della Serenissima Repubblica, le sottolineature sul protocollo internazionale erano acri: il ViceCancelliere faceva notare, da parte delle Loro Maestà, la “differenza di attenzione” usata “tra un Principe che non è Testa Coronata [il “Duca di Wittenberg”] benché Sovrano ne’
suoi Stati, e li Ambiti” e l’Ambasciatore Imperiale, conte Durazzo. Ricordava che a Vienna, quando soggiornavano “Principi dalla Germania benché Sovrani ne’ Stati propri”, non erano gli ambasciatori a far loro la prima visita, ma il contrario
e che questa “differenza” doveva essere ben nota al Venier,
in quanto l’aveva vista più volte applicata nel Teatro di Corte a Schönbrunn, dove agli ambasciatori si assegnavano palchi separati “da tutti gli altri”. Con “un’aria ancor più seriosa”, il Vice-Cancelliere ritornava quindi ad evidenziare che
la risposta data dal Senato all’Ambasciatore Imperiale, oltre
“d’essere ingiuriosa per la negativa”, diventava anche più
“acerba” in quanto si supponeva che l’Ambasciatore Durazzo
avesse “di suo proprio arbitrio arrogato il nome di quello di
Francia, e di Spagna; supposizione, che disonora il Ministro
stesso, e che se anche vera, come non è, il Senato avrebbe
dovuto, come di prassi, accertarsene” e “non adoperare acerbità di parole contro il Ministro Cesareo, e tanto più insop-
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portabile paragonarla con quella praticata verso li altri due
Ambasciatori; sembrando che dalla differenza delle parole
ne risulti un disprezzo a quella Corte [di Vienna]”. Il Senato, soprattutto, non avrebbe dovuto affidare ad uno scritto,
ma alle parole, le sue pretensioni, poiché il primo “per sua
natura porta durabilità”. Il Principe di Colloredo chiudeva le
sue ‘riflessioni’, ricordando che, tanto Maria Teresa d’Asburgo
quanto Giuseppe II, “si trovavano molto irritati”, e le suggellava con un finale che non ha bisogno di commenti: i sovrani
“non vorrebbero che accadessero cose alla Serenissima Repubblica spiacevoli” (17 febbraio 1768). Nello stesso giorno, intanto, il Kaunitz faceva pervenire a Polo Venier il suo
diktat per conto delle Loro Maestà, non meno severo nei toni e nelle espressioni, ed inviava al Durazzo il memoriale ufficiale perché fosse lui stesso, come Ambasciatore Imperiale rappresentante le Loro Maestà a Venezia, a trasmetterlo
al Doge ed al Senato. Il Kaunitz non mancava di mettere tra
virgolette le parole dei sovrani, affatto benevole verso il governo veneto, e fra le altre: “S.[ua] M.[aestà] Imperiale [Maria Teresa d’Asburgo], con molta sorpresa [ha] osservato nella risposta fatta al mentovato Ambasciatore suo Cesareo di
K. Schütz, acquatinta, Vienna 1783. La piazza di San Michele
con la famosa Cavallerizza Imperiale Reale. Incisione
appartenuta al conte Giacomo Durazzo. (Ginevra coll. Privata,
già coll. Ivaldi).
A fronte
K. Schütz, acquatinta, Vienna 1782. Il Castello di Schönbrunn
verso il giardino. Incisione appartenuta al conte Giacomo
Durazzo. (Ginevra coll. Privata, già coll. Ivaldi).
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poco riguardo, che venne in questo incontro praticato verso
la Rappresentanza Cesarea perché oltre alla negativa, che
chiama le tre Corti a corrispondere in simili occorrenze coll’istesso modo, lo stile, in cui è concepita la medesima, è del
tutto diverso dal conveniente sino ad ora praticato, mancando
anzi sino all’usitata (sic) cortesia sopra un’affare (sic) di commune interesse sia nuova, e irregolare”; questo offendeva a
tal punto Sua Maestà Imperiale che le era impossibile “dissimulare” e faceva appello all’ “illuminata penetrazione” della Serenissima Repubblica per riconoscere il “giusto motivo” del memoriale dell’Ambasciatore Imperiale, considerando “quanto disgustose conseguenze ne potrebbero risultare”; si auspicava, inoltre, che il governo veneto si sarebbe
adoperato, in futuro, per evitare simili situazioni e per “trattare il […] Rappresentante Cesareo con stile, e modi più conformi alle costumate convenienze nel Carteggio, ed agli stessi reciproci riguardi”: in caso contrario, Sua Maestà Imperiale, “quantunque disposta dal canto suo a continuare colla Serenissima Repubblica la più amichevole corrispondenza, si vedrebbe nella necessità di pigliare misure le più opportune per sostenere il decoro della Sua Rappresentanza
Cesarea” (17 febbraio 1768). Polo Venier, dopo aver raccolto
anche i pareri ed i consigli di alcuni ambasciatori stranieri a
Vienna (forse ancora quelli di Prussia e di Russia ovvero di
“Moscovia”), si premurava di riferire subito ai propri superiori “che la maturità, e la prudenza del Senato doveva sciogliersi tosto da un tal negozio, perché più che avesse divuto (sic), andava a terminare a danno maggiore non solo alla dignità, ma forse anco all’interesse” di Venezia, poiché i
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due sovrani “si trovavano molto irritati specialmente per li modi acerbi praticati al loro Ambasciatore, e che non vorrebbero che accadessero cose alla Serenissima Repubblica spiacevoli” (17 febbraio 1768). La decisione del Kaunitz (e delle Loro Maestà, per conseguenza) comunque, vale a dire quella di affidare a “S.[ua] E.[ccellenza] il Sig. [nor] Ambasciatore di Venezia” il severo memoriale ufficiale della Corte di
Vienna, “affinché voglia farne rapporto alla Serenissima Repubblica”, pur seguendo rigidamente la prassi, rafforzava e
favoriva, in questo specifico caso, sia il prestigio ed il decoro del conte Durazzo sia anche un certo ‘protagonismo’ (assai fecondo per il futuro) della figura dell’Ambasciatore Imperiale, anche maggiori del solito e sicuramente in virtù della scabrosa circostanza politico-diplomatica trascinatasi per
oltre un anno. Occorreva, tuttavia, un ammorbidimento tra
le parti e fu la saggezza di Giuseppe II a contribuire alla distensione dei rapporti fra i due Stati, con una visita a Venezia nell’estate del 1769, come attestano due documenti al
riguardo, con manifestazioni spettacolari e, a quanto sembra, con una regata a dir poco grandiosa. Poiché il sovrano
partì intorno al 28 luglio, è molto probabile che il soggiorno
sia coinciso con i festeggiamenti per la fiera dell’Ascensione, famosi ormai in tutta Europa. Sembra interessante, a queAnonimo del XVIII sec. L’uscita del Bucintoro, (part.).
Sestri Levante, Palazzo Durazzo Pallavicini.
A fronte
Venezia, 1775 ca. Portogallo, Museo Calouste Gulbekian.
Francesco Guardi: La festa dell’Ascensione in piazza
San Marco, 1775 ca.(Ann Ronan Picture Library).
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sto punto, chiudere sinteticamente la parentesi dell’ “affare
delle gondole”, con qualche passo del ringraziamento ‘giubilante’ che l’Ambasciatore Cesareo, conte Durazzo, rivolse
per iscritto al Doge ed al Senato, per dimostrare la soddisfazione avuta da Giuseppe II durante il suo soggiorno veneziano (28 luglio 1769)5, e la replica ‘esultante’ con cui, questi ultimi, replicarono al conte, come rappresentante delle Loro Maestà Imperiali nella città lagunare (29 luglio 1769). In
realtà, anche questi due memoriali ufficiali contenevano qualche piccola, ma significativa spina lessicale e concettuale che
il Durazzo ed il governo veneto si scambiarono reciprocamente,
ma in modo velato ed astuto, attraverso le parole di scambievole lode e di riconoscimento dei rispettivi ‘meriti’. L’Ambasciatore Imperiale, nell’elogiare il Doge ed il Senato per ordine del sovrano, con il preciso fine di manifestare il particolare compiacimento di Giuseppe II riguardo al trattamento ricevuto, non mancava di riferire il “piacere” da lui provato “nell’osservare le grandezze di questa Capitale [Venezia], e nello scorgere la facilità, con cui si è prestato il Senato a compiacerlo”. Il conte ribadiva inoltre che “se all’onore, ed al giubilo di godere davvicino (sic) l’adorabile presenza del proprio Sovrano potesse nell’Ambasciatore Cesareo aggiungersi qualche grado di contentezza, ridonderebbe certamente” quel memoriale ufficiale, “dall’ordine, che
si è degnata S.[ua] M.[aestà] di prescrivergli”, al momento
stesso della sua partenza. Il sovrano gli aveva anche ordinato “di far sentire il suo aggradimento, che dalle circostanze
dell’antica conoscenza siasigli (sic) fornita l’occasione opportuna di abboccare con il Sig.[no]r K.[avalie]r Andrea Tron”,
il quale non solo aveva “saputo confermare a S.[ua] M.[aestà] le pubbliche obbliganti intenzioni verso la sua persona,
e dell’Augusta Sua Casa, mà (sic) ha altresì agevolato il Monarca nel suo soggiorno”, facendo in modo di assecondare
“ogni sua brama”. Questo è un passo importante, perché ci
svela le occulte reciproche manovre di riavvicinamento, tra
la Corte di Vienna e la Serenissima, tramite il nobile veneziano menzionato, allora ferrigno Procuratore di San Marco
e già Ambasciatore veneto a Vienna, nonché conosciuto e
stimato da Giuseppe II. Il Tron, prima che a Vienna, era stato però rappresentante diplomatico della Serenissima alla Corte di Parigi e qui, secondo il conte Gasparo Gozzi (1794)6,
aveva ricevuto il titolo di “Cavaliere” per le sue benemerenze culturali e la sua abilità di politico. Il Durazzo riporta tuttavia questo titolo, non certo casualmente, in tedesco e non
in italiano o in francese. La sottigliezza non è poca cosa (e
venne colta dal governo veneto, nella risposta all’Ambasciatore Imperiale): si lodava Andrea Tron, per il suo comportamento durante la missione diplomatica a Vienna e le sue capacità, ma indirettamente anche il governo veneto e la parte di nobiltà locale filo-austriaca al tempo stesso, si voleva
probabilmente significare l’instaurarsi di una certa più incisiva ‘sudditanza’ di Venezia dalla Corte di Vienna. Quando il
Senato rispose al conte Durazzo, mantenne la dicitura abbreviata in tedesco “K.r” per “Kavalier”, riferita al Tron, e ri-
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badendo “l’animo sincero” che animava il suo memoriale,
non mancò di ringraziare Giuseppe II per aver voluto incontrare Andrea Tron, ma grazie al suo Ambasciatore a Venezia (che certo aveva conosciuto il nobile veneto proprio a Vienna), così come di aver voluto usare con lui “modi diretti” attraverso quest’ultimo, confermando che il memoriale del Durazzo era stato “molto accetto” al governo della Serenissima.
All’Ambasciatore andava inoltre tutta la “distinta considerazione, ed affetto”, per aver “molto contribuito alla buona riuscita d’ogni cosa”, nonché una particolare gratitudine, in
virtù del di lui “plausibile e savio contegno”. Anche il Durazzo,
però, era stato a suo tempo “Kavalier” o, piuttosto, “Cavaliere della Musica” (o anche “Conte della Musica”, vale a dire “MusikGraf”), fra gli altri titoli o appellativi a lui attribuiti,
quando era Direttore Generale dei Teatri Imperiali…
Un altro importante evento di quegli anni, tuttavia, che coinvolse direttamente il conte, fu il primo viaggio in Italia di
Leopold Mozart e del suo già famoso figlio Wolfgang che comprendeva, naturalmente, anche la città lagunare. Non è molto noto, però, che fu l’abate veneziano Giammaria Ortes, letterato ed economista di gran rilievo, a sollecitarne l’arrivo,
su raccomandazione del celebrato compositore Johann Adolf
Hasse detto “il Sassone”, che si trovava allora a Vienna, dopo essere stato malamente licenziato dalla Corte di Dresda.
L’Hasse aveva conosciuto Leopold e la sua famiglia7, nella
capitale asburgica, durante il mese di settembre del 1769,
quando ascoltò il piccolo Wolfgang suonare il “cimbalo”, facendogli “sentire cose che han del portentoso in quell’età,
che potrebbero essere ammirabili anche in un uomo formato”.
Poiché il padre voleva far conoscere il talento del figlio,
l’Hasse scrisse all’abate Ortes e, nel mese di ottobre del 1769,
mentre i Mozart si mettevano in viaggio per la Sassonia, egli
consegnò loro una raccomandazione per Venezia destinata appunto all’Ortes. I Mozart ritardarono tuttavia di molto il
loro arrivo nella città lagunare; anzi si fecero tanto attendere che, nel febbraio del 1771 ed in pieno carnevale8, nessuno, o quasi, pensava più a loro. L’accoglienza sembrerebbe
stata dunque fredda, secondo l’Ortes, nell’unica lettera superstite in cui scrive sui Mozart a Venezia, almeno inizialmente, e lo stesso Wolfgang, di solito “amabile, e valentissimo”, espresse chiaramente il suo malcontento. L’abate forse se ne dispiacque, ma non mancò di sottolineare certe
sottigliezze del carattere del giovane prodigio e certe altre
dei Veneziani: in quella città “si sarebbero creduti [i Mozart,
appunto] che altri cercasse di loro, più ch’essi di altri, come sarà loro avvenuto altrove. E qui per verità non usano
molto di andar in cerca di stimar altri per meritevoli e stimabili ch’essi siano, e non è poco che stimino chi va in cerA fronte
Venezia, San Vitale, incisione su rame di M. S. Giampiccoli
(da Canaletto), fine XVIII sec. (Genova, Coll. Galleria
San Lorenzo al Ducale).
(sotto) Il Canal Grande, incisione su rame di M. S. Giampiccoli
(da Pedro), fine XVIII sec. (Genova, Coll. Galleria
San Lorenzo al Ducale).
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ca d’esser stimato. È cosa curiosa la disinvoltura colla quale il ragazzo gode di questa differenza, quando il padre ne
pare un poco piccato”. Fu probabilmente in questa occasione, comunque, che il conte Durazzo iniziò legami più stretti con l’Ortes il quale, allievo del matematico Guido Grandi
a Pisa, aveva poi lasciato l’Ordine Camaldolese di San Michele a Venezia, per vivere in libertà e con gaiezza le sue
geniali occupazioni di scienziato e di letterato, fra dotti epicurei, compositori, “cantatrici” e ballerine, ed entrò forse anche in maggiore dimestichezza con alcuni cenacoli culturali veneziani, frequentati appunto dall’abate (Villa Labia alla Mira, il salotto di Casa Emo, il Convento di San Francesco della Vigna, il salotto e la biblioteca del Console inglese Joseph Smith) che spesso si opponevano alla politica accentratrice del gruppo riunito intorno al nobile Andrea Tron,
ricordato in precedenza nei memoriali ufficiali del 28 e del
29 luglio 1769. I Mozart arrivarono dunque a Venezia l’11
febbraio 1771 e Leopold, scrivendo alla consorte il 1° marzo9, mentre descriveva le bellezze della città, la preavvisava che sarebbero ripartiti di là con almeno otto giorni di ritardo, a causa di certe finezze bizzarre e stancanti dei “nobili” (in italiano nel testo originale) locali, opinione che sembra in parte contrastare con quanto riferiva l’Ortes, al loro
riguardo, proprio in quegli stessi giorni; una discrepanza di
punti di vista, creatasi forse nell’evolversi del soggiorno veneziano degli illustri ospiti. Sempre dalla stessa lettera, si viene inoltre a conoscenza del fatto che il 5 marzo, essi avrebbero avuto una “grande Accademia” mentre, solo il 3 marzo, sarebbero stati invece ricevuti dall’Ambasciatore Imperiale. È opportuno sottolineare, però, che i Mozart avevano
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già conosciuto “M.[onsieu]r le Comte” ed il loro incontro era
avvenuto nel corso del loro primo viaggio a Vienna, ai primi di dicembre del 1762, quando il Durazzo era ancora “Directeur de la Musique à la Court”10. La circostanza è piuttosto interessante, perché Leopold Mozart, mentre soggiornava ancora a Linz con il figlio (ottobre 1762)11, veniva consigliato da due nobili austriaci influenti, sempre affabili e cortesi con i due musicisti, ossia il conte Herberstein ed il conte Schlik, di far subito loro visita, una volta raggiunta la capitale, mentre sarebbe stata intanto loro premura avvisare
dell’imminente arrivo “M.[onsieu]r le Comte Durazzo”. Il 9
dicembre, però, lo stesso Leopold si lamentava, con il suo
corrispondente a Salisburgo, che il susseguirsi di eventi importanti, faceva loro correre il rischio di rimanere a Vienna
un altro mese, irritando di certo il Vescovo di Salisburgo, loro protettore. Il conte Durazzo, infatti, non era ancora riuscito
ad inserirli in un’accademia o in un concerto di appropriato rilievo. Aggiungeva inoltre che, dal suo punto di vista, se
non avesse preso da solo qualche iniziativa, sarebbero di
certo incorsi nel grave incomodo di rimanere in quella capitale fino alla Quaresima o addirittura fino a Pasqua; magari avrebbero finalmente guadagnato una bella somma di
denaro. Così concludeva quindi la sua lettera, fra l’ironico
e l’amaro: “Vienne tourne la tête de tous le gens. Oui, en
vérité, si je fais la comparaison entre Salzbourg et Vienne,
je suis quelque peu déconcerté”12. A Venezia, in ogni caso,
durante l’incontro ufficiale tra i Mozart e il Durazzo, nella veste di Ambasciatore Imperiale, c’era sicuramente anche l’abate Ortes il quale, dopo la partenza dei famosi ospiti da Venezia, preceduta da un sontuoso pranzo presso la nobildonna
Costume
Vienna e poi per sé. In particolare riguardo alle incisioni, arrivando a riunirne ben 1500, secondo sue testimonianze inedite, e riuscendo a concepire un grandioso ed ambizioso progetto, purtroppo in gran parte vanificato da eventi contingenti, sia di catalogarle sia, addirittura, di pubblicarle con
rami di altri incisori, come si chiarirà, con l’autrice del saggio seguente, in altro luogo ed in altra occasione.
Note
A.F. Ivaldi, La villa di Mestre del conte Giacomo Durazzo e il soggiorno veneziano del pittore Giovanni David (1774-1776), in Da Tintoretto a Rubens. Capolavori della Collezione Durazzo, a cura di L.
Leoncini, catalogo della mostra, Genova Capitale Europea della Cultura, Ginevra-Milano, Skira, 2004, pp. 181-195 e le schede nn. 7378, 160-163, 168-173, 188 e 190.
2
A.F. Ivaldi, Don Chisciotte: un “serioridicoloso” nell’opera in Italia
fra Sei e Settecento, in La maschera e l’altro, Atti del Convegno Internazionale di Studio, a cura di M.G. Profeti, Firenze, Alinea, 2005,
p. 341 nota 24.
3
Cfr. Ivaldi, La villa di Mestre, op. cit., pp. 188 e 190, p. 194 nota 26.
4
Venezia, Museo Correr, 975/9 (“Collezione di carte relative al Memoriale…1767”).
5
Ivi, 1081, nn. 565-566.
6
Apparteneva ad una nobile ed illustre famiglia veneziana. Per la sua
competenza e la sua tenacia, dopo l’attività più squisitamente diplomatica, ricoprì la carica di Procuratore di San Marco per vari anni e si
distinse come strenuo difensore dei confini territoriali della Serenissima. Ne tesse lunghe ed amplificate lodi il conte Gasparo Gozzi, Opere in versi e in prosa, tomo IX, Venezia, C. Palese, MDCCXCIV, in particolare pp. 88-93, 112-120.
7
Così l’Hasse definisce il compositore: “Maestro di Cappella del Vescovo di Salisburgo, uomo di spirito fino, e di mondo; e credo sappia ben il fatto suo sì nella Musica, come in altre cose”. Tutte le citazioni dall’epistolario del compositore e quelle dell’ Ortes, qui utilizzate, si ricavano da L. Pancino, Johann Adolf Hasse e Giammaria Ortes. Lettere (1776-1783), “Speculum Musicae, IV”, Turnhout, Brepols, 1998, pp. XVI + 472.
8
W.A. Mozart, Correspondance (1756-1776), vol. I, Edition de la Fondation Internationale de Mozarteum Salzbourg Réunie et annotée par
W.A. Bauer, O. Deutsch et J. H. Eibl. Edition française établié par G.
Geffrai. Traduit de l’allemand par G. Geffrai, Paris, Harmoniques Flammarion, 1986, nn. 14-15 (“L. Mozart à sa femme. Venise, le 13 et
le 20 février 1771”), pp. 222-225. Sui Mozart a Venezia si veda, però, anche il fondamentale studio di P. Cattelan, Un mese di Mozart
a Venezia, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 304.
9
Ivi, n. 145, pp. 225-226, ma anche nn. 146-147, pp. 226-228 (“L.
Mozart à sa femme à Salzbourg. Venise, le 6 et 14 mars 1771”).
10
Ivi, nn. 9-10, pp. 40-42 (“L. Mozart à Lorenz Hagenauer à Salzbourg. Vienne, le 9 et le 29 décembre 1762”).
11
Ivi, n. 2, pp. 30-31 (“L. Mozart à Lorenz Hagenauer à Salzbourg.
Linz, le 3 octobre 1762”).
12
Ivi, n. 9, p. 40.
13
Ivi, n. 147, pp. 227-228 (“L. Mozart à sa femme à Salzbourg. Vicence, le 14 mars 1771”).
14
Vi si ambientarono anche drammi giocosi dell’epoca: cfr. A.F. Ivaldi,
Pregiudizi-giudizi nel dramma giocoso italiano del Settecento: “Madame la France”, in Giudizi e pregiudizi. Percezione dell’altro e stereotipi tra Europa e Mediterraneo, Seminario Internazionale di Studio (Firenze, 9-13 giugno 2008), Università degli Studi di Firenze, Scuola di
Dottorato in Filologia Moderna e Letterature Comparate, Dipartimento
di Lingue e Letterature Neolatine-European University Institute, Department of History and Civilization (Atti in corso di pubblicazione, a
cura di M.G. Profeti).
1
Caterina Cornaro (Corner), che fece a Leopold ed al figlio
doni preziosi e di grande raffinatezza13, li accompagnò fino
a Padova, insieme con altri personaggi, sopra un battello ricco di vettovaglie e bevande, lungo la bella riviera del fiume
Brenta. Chiusa anche la parentesi mozartiana, in quello stesso periodo il conte Durazzo iniziò i lavori della sua villa di
Mestre, località di villeggiatura che aveva superato Marghera
(Malghera)14 e che Goldoni definì “una Versaglia in piccolo”, la quale divenne ben presto un cenacolo di artisti di vario tipo ed un rinomato luogo di musica e di spettacoli. Intanto, si intensificavano anche le frequentazioni culturali con
l’abate Ortes, foriere di nuove iniziative artistico-culturali e
musicali del conte. L’Ortes, del resto, oggi noto soprattutto
come economista, si occupò anche di musica e non solo
da dilettante, ma anche da storico erudito: scrisse infatti cinque drammi per musica e due opere sul teatro musicale,
soffermandosi pure sulla vocalità e sulle possibilità di alcuni interpreti, così come venivano considerate da un compositore che per essi scriveva. Questo era certo un punto
qualificante, nei molteplici interessi dell’abate, che poté forse servire a rendere i rapporti con il Durazzo, se non proprio amichevoli, certo più cordiali e un po’ più frequenti, anche perché l’Ortes era un uomo dall’intelligenza vivace e per
un certo periodo, come si è detto, non disdegnò la mondanità. Fra le altre ‘passioni’ del conte invece, sempre intorno a quegli anni, spiccano non solo la sua curiosità di bibliofilo, rafforzatasi tra Padova e Venezia, ma anche la sua
ambizione di collezionista (secondo un gusto più generale,
diffuso anche fra gli altri ambasciatori stranieri della città lagunare), prima per grandi committenze legate alla Corte di
Costume
Pietra tombale del conte Giacomo Durazzo. Epigrafe latina
del nipote Gerolamo Luigi, davanti all’altare maggiore
della Chiesa di San Moisè a Venezia, 1794 (foto Ivaldi).
A fronte
Veduta veneziana “Palazzo Balbi”, incisione inglese di S. Prout
e Higham del 1831. (Galleria S. Lorenzo al Ducale).
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