Anno XVI - n. 86 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
DEVinis
LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ,
LA CULTURA, IL PIACERE,
I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Marzo / Aprile 2009
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - [email protected]
Editoriale
Un’occasione
da non perdere
di Terenzio Medri
el 2015 Milano ospiterà l’esposizione universale incentrata sul
tema: “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. L’evento sarà di
grandissima portata. Secondo le stime verranno investiti 20 miliardi di euro in infrastrutture, e nei prossimi sei anni verranno creati settantamila nuovi posti di lavoro. Saranno 120 i Paesi presenti come espositori con settemila eventi organizzati e si calcolano trenta milioni di turisti in arrivo nel nostro Paese durante l’Expo. Per concludere il capitolo
grandi numeri, le previsioni parlano di un aumento di fatturato pari a
44 miliardi di euro per gli imprenditori milanesi.
Insomma, l’evento è unico e proprio per questa sua caratteristica richiede scelte e decisioni importanti. Diciamo subito che l’Ais ha già cominciato a lavorare: l’Expo ci tocca in prima persona, a cominciare dal
titolo, “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Si tratterà il tema dell’alimentazione in tutti i suoi aspetti: le tecnologie alimentari, l’educazione
al cibo, la valorizzazione culturale, l’alimentazione come ricerca di qualità, salute, sicurezza e genuinità.
Sono tutti temi che ci stanno da sempre a cuore e lo testimoniano le iniziative e i numerosi articoli pubblicati nel corso dei mesi su questa
rivista.
In ambito Expo i sommeliers saranno chiamati a comunicare ed esaltare eccellenza, qualità e valore dei prodotti enogastronomici e agroalimentari. Tutto questo avverrà non solo in ambito lombardo, ma in tutto
il territorio nazionale. I turisti arriveranno a Milano per visitare l’Expo,
ma poi si distribuiranno nelle altre regioni attratti dall’arte, dal paesaggio, dal mare, dai monti, dalle isole, dalla cucina e dal vino.
Il sindaco di Milano e Commissario Expo Letizia Moratti sta firmando
accordi di programma con numerosi comuni di tutta Italia; Maria Vittoria
Brambilla, titolare del Dipartimento del Turismo, sta varando pacchetti turistici personalizzati e soprattutto integrati che offriranno anche la
possibilità di scoprire le zone meno conosciute d’Italia.
L’intento è quello di sviluppare le potenzialità e l'immagine dell'intero
“sistema Italia”; nei programmi ci sono anche lo sviluppo dell'offerta di
ospitalità turistica, come ad esempio gli alberghi, e il coordinamento per
manifestazioni che promuovono l'agroalimentare, l’enogastronomia e
la tutela del marchio Italia.
Ciò significa che gli alberghi dovranno essere strutture funzionali anche
dopo l’Expo e non cattedrali nel deserto da abbandonare una volta calato il sipario sulla grande kermesse, che treni ed aerei dovranno funzionare a meraviglia per rendere agevoli i trasferimenti in tutta la Penisola
e nelle Isole, che la rete stradale e autostradale dovrà essere adatta a
sostenere il grande impatto con milioni di autoveicoli. Noi sommeliers
diremo la nostra nelle manifestazioni e nei convegni a cui verremo invitati, ma anche e soprattutto nelle strutture alberghiere e nei ristoranti.
Sarà insomma un’occasione da non perdere.
N
3
AIS Associazione Italiana Sommeliers
Presidente | Terenzio Medri
Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani
Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo
Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene.
Anno XVI marzo-aprile 2009
Associazione Italiana Sommeliers Editore
Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, [email protected]
Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, [email protected]
Per la pubblicità | Roberto Pizzi, [email protected] tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 –
20121 Milano
Redazione | Associazione Italiana Sommeliers
Viale Monza 9 - 20125 Milano
Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - [email protected]
Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, [email protected]
Hanno collaborato | Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Carla Bruni, Francesca Cantiani, Luigi Caricato,
Riccardo Castaldi, Elisa della Barba, Roberto Di Sanzo, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Salvatore Giannella,
Katia Giarrusso, Maddalena Giuffrida, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta,
Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Morello Pecchioli, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Valentina Pillot, Paolo Pirovano,
Barbara Ronchi Della Rocca, Alessandra Rotondi, Lorenzo Simoncelli, Stefano Tura, Franco Ziliani.
Fotografie | Archivio Ais, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessandro Franceschini, Maurizio Maestrelli, Angelo
Matteucci, Morello Pecchioli
Per l’articolo a firma di Salvatore Giannella il ritratto di Umberto Veronesi e l’illustrazione “Mondi e idee in un bicchiere”
sono di Ro Marcenaro
Per l’articolo a firma di Roberto Piccinelli foto di Francesca Sandoli
Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice
Per gli articoli a firma di Alessandra Rotondi foto di Walter Karling e della stessa autrice
Si ringrazia Urbano Sintoni per il ritratto fotografico al presidente Terenzio Medri (editoriale)
Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001
Associato USPI
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Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento
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4
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Sommario
Marzo / Aprile 2009
10
LA
“Le Parole Maestre”: Umberto Veronesi
RICETTA DEL GRANDE ONCOLOGO MILANESE PER VIVERE A LUNGO
16
L’universo giovane e il vino
ESPERIENZE “IN & OUT”
20
NEL
Facebook clicca sul “bere responsabile”
FAMOSO SOCIAL NETWORK DI INTERNET LE VOCI FAVOREVOLI ALLA CULTURA DEL VINO
24
IL
Troppi inglesi alzano il gomito
GOVERNO BRITANNICO CORRE AI RIPARI CONTRO L’ABUSO DI ALCOL
26
Finalmente Vinitaly!
APPUNTAMENTO
36
IN
NEI LOCALI PIÙ ALLA MODA
VERONA
DAL
2
AL
6
APRILE
Che ne sarà delle denominazioni?
ARRIVO IN
40
ALLA
A
EUROPA
LA RIFORMA DELL’ORGANIZZAZIONE COMUNE DI MERCATO
I nostri vini sulla via della seta
CONQUISTA DEI MERCATI PERCORSI DA
44
Italia-Francia, la sfida continua…
TURISMO:
52
MACCHÉ
MARCO POLO
LE DUE ETERNE RIVALI A CONFRONTO
Il bon ton nasce a casa nostra
FRANCESE, IL GALATEO A TAVOLA PARLA ITALIANO!
Sommario
Marzo / Aprile 2009
56
LA
Vivace, brioso e deciso!
DEGUSTAZIONE DEL
62
Alla conquista della Germania
ENOTRIA VINO,
84
32
60
72
74
76
78
80
112
114
ENOTECA ITALIANA IN TERRA TEUTONICA
Il castello dei gourmet
RISTORANTE ESCLUSIVO TRA LE MURA DI UNA FORTEZZA
94
All’interno
SCANSANO
ALLA SCOPERTA DELLE PRELIBATEZZE EMILIANE
68
IL
DI
I musei dei sapori di Parma
VIAGGIO
UN
MORELLINO
Alla tavola di Mosé
VINO E LA CUCINA NELLA TRADIZIONE EBRAICA
Cucina
Fiere
Olio
LA CHAMPIONS LEAGUE
ALLA MIA
DI
RIMINI
L’OLIVOTECA D’ITALIA,
Birra
ARTIGIANI
Distillati
Acqua
SOTTO LA
IN OLANDA
IL
Sullo scaffale
Io non ci sto!
IL DEBUTTO DI
DIVINO LOUNGE
UN’IDEA VINCENTE
LANTERNA
SI CURAVANO CON IL GIN
NANOTECNOLOGIE
Enopassione
DEGLI CHEF
E DEPURAZIONE
VINO DEL PITTORE
LE
È
NOVITÀ EDITORIALI
DEL PRODUTTOR (DI VINO) ANCORA IL FIN LA MERAVIGLIA?
Le parole maestre
MONDI E IDEE
IN UN BICCHIERE
ECCO
LA RICETTA PER VIVERE A LUNGO:
A CONSIGLIARLA È IL PROFESSOR
UMBERTO VERONESI,
IL MEDICO IMPEGNATO DA OLTRE MEZZO SECOLO
NELLA LOTTA CONTRO IL CANCRO
bicchiere
di vino,
Un
poca carne
e molta verdura
di Salvatore Giannella
nni fa, quando portai a iscrivere mio figlio agli scout, fui sorpreso da quanto mi disse il capogruppo a proposito di una delle iniziative in programma. Si chiamava “Le Parole Maestre”, erano le
frasi caratteristiche pronunciate dai personaggi chiave del Libro della Giungla, richiamate durante le attività per trasmettere ai bambini un particolare insegnamento. Queste frasi, mi fu spiegato, hanno
un’importanza molto rilevante: dal momento che vengono proposte direttamente dai personaggi amati
dai bambini, questi ultimi ne sono particolarmente attratti e affascinati, e (di conseguenza) le ricordano meglio.
A quel lontano ricordo si ispira il titolo di questa nuova serie di interviste (questa volta “possibili”, dopo
quelle “impossibili” a personaggi immaginari della storia che vi hanno accompagnato negli ultimi sette
numeri). Sono dedicate ai pionieri e ai protagonisti della cultura, delle scienze, dello spettacolo, del giornalismo. Uomini e donne faro ai quali, in questi momenti di tempestoso cambiamento, occorre guardare con fiducia, per la saggia esperienza accumulata: mondi e idee in un bicchiere, come sintetizzato felicemente nel logo disegnato da Ro Marcenaro.
Il primo dei nostri dialoghi è con il professor Umberto Veronesi, “medico di famiglia” di milioni di italiani (la sua rubrica su Oggi, dal 2001, è da sempre la più letta su quel settimanale), impegnato da oltre
mezzo secolo nella sfida al cancro ma anche disposto a calarsi con umiltà d’animo e semplicità di
parole nei piccoli malanni della nostra vita quotidiana.
A
10
UMBERTO VERONESI, MEDICO, MINISTRO E SCRITTORE
Umberto Veronesi, nato a Milano nel 1925 da una famiglia contadina, laureato
in medicina nel 1952, sposato con una pediatra, sette figli, è chirurgo e
ricercatore, ex ministro della Sanità e attualmente senatore Pd, uomo di scienza
e di cultura, noto nel mondo per aver introdotto la chirurgia conservativa nel
tumore al seno che risparmia alla donna l’asportazione totale della mammella.
■ Creatore del movimento Europa contro il cancro, ha dato grande impulso
mondiale alla ricerca: è stato direttore scientifico dell’Istituto nazionale dei tumori
di Milano e, alla scadenza del mandato, ha fondato l’Istituto europeo di oncologia.
■ La sua sfida al cancro è raccontata nei libri Un male curabile, Colloqui con un
medico, Da bambino avevo un sogno (Mondadori), L’ombra e la luce (Einaudi),
e, da Sperling & Kupfer, Una carezza per guarire e Le donne vogliono sapere. Da segnalare anche
Essere laico (Bompiani).
■ E’ vegetariano per motivi etici, ama la poesia, le moto e il cioccolato.
11
Le parole maestre
MONDI E IDEE
IN UN BICCHIERE
GIANNELLA - “Il vino fa buon sangue”, dicevano i nostri nonni. O anche:
"Un bicchiere al giorno toglie il medico di torno". Professor Veronesi, le
ricerche degli scienziati con strumenti sofisticati nei laboratori moderni
stanno dando loro ragione?
VERONESI - “Sì, perché rispetto alle altre bevande alcoliche, il vino sembra avere un effetto protettivo contro i tumori. Questo effetto pare sia
dovuto al resveratrolo, una molecola presente in dosi significative nel vino
rosso, un po’ meno nei vini bianchi. Questa molecola, in studi di laboratorio, ha dimostrato la capacità di inibire i processi tumorali. Al momento comunque i dati scientifici sono stati ottenuti soltanto su modelli animali e non c’è evidenza diretta e conclusiva di un effetto protettivo sull’uomo.
La ricerca, inoltre, sta verificando recenti dati sperimentali che dimostrerebbero questo: bere alcool in dosi moderate (corrispondenti a uno o al
massimo due bicchieri di vino al giorno) riduce i rischi di infarto accrescendo la quantità di colesterolo buono (Hdl, sigla che
indica High Density Lipoproteins, lipoproteine ad alta
densità), ma non toccando, però, i livelli del colesterolo totale. Non si deve comunque dimenticare che,
viceversa, un eccesso di consumo di alcool, che sia o
meno sotto forma di vino rosso, è nefasta sia per quanto riguarda il rischio di malattie cardiovascolari che
per lo sviluppo del cancro, senza contare che quest’abitudine provoca una serie di problemi sociali gravi”.
GIANNELLA - A proposito di resveratrolo: ho sentito parlare di tanto propagandate pillole della lunga vita a
base di questa molecola antiossidante contenuta nei
semi dell’uva. A parte il fatto che io preferirei mangiare un bel grappolo a fine pasto, una curiosità: quanto
valgono effettivamente queste “pillole di vino”?
VERONESI - “Finora le pillole di resveratrolo non hanno
prodotto gli effetti desiderati”.
GIANNELLA - Ormai ci stiamo abituando alle stragi
del sabato sera, sono cronaca quotidiana gli incidenti
stradali causati dal cocktail assassino “alta velocità +
livello alto di tasso alcolico”. E nella stragrande maggioranza a perdere la vita dopo una notte spensierata
in discoteca sono giovani, maschi tra i 25 e i 29 anni.
C’è chi fa ricorso alle droghe, ma molti bevono troppo, e l’età di chi alza il gomito si abbassa sempre di
più. E non attecchisce da noi il trucco salvavita del
mondo nordeuropeo dell’autista astemio o astemio solo
per quella sera. Lei, come medico e come padre, che
cosa direbbe a questi giovani per condurli a un “bere consapevole”?
VERONESI - “Io credo che famiglia e società dovrebbero concentrare la loro
attenzione e i loro sforzi sul perché i giovani non bevono per convivialità
o per avere uno stimolo piacevole all’allegria, ma per perdere il contatto
con la realtà. Poco importa, a loro giovani, se cadranno in futuro in una
dipendenza. L’importante è fuggire da tutto, adesso e il più in fretta possibile. È chiaro che una legge più restrittiva sul consumo di alcool non
può sanare questo disagio profondo. Per questo contro le dipendenze ci
vogliono politiche educative (e quindi la scuola) centrate sullo sviluppo
della cultura dello sport, del teatro, del cinema, dell’arte e di tutte quelle
attività che creano nei ragazzi le condizioni naturali per una motivazione
alla vita e alla creatività che contrastino l’uso di sostanze alcoliche e stupefacenti”.
GIANNELLA - Lei da sempre raccomanda che la prevenzione e l’informazione sono le armi più potenti che abbiamo nelle nostre mani. Il suo idea-
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MONDI E IDEE
IN UN BICCHIERE
le è un cittadino “bene informato”, consapevole non solo del proprio diritto alla salute, ma anche del proprio ruolo di soggetto attivo nel “fare salute”, assumendo un’attenzione quotidiana sui fronti a rischio, specie quello alimentare. Se dovesse sintetizzare in poche righe il messaggio ai cittadini, quali parole o cifre userebbe?
VERONESI - “La prevenzione e la tutela della salute è oggi più che mai
responsabilità di ciascuno di noi, perché dipende proprio da gesti quotidiani, come alimentarsi. E la prima prevenzione per molte malattie avviene a tavola, perché l’alimentazione è il più grande determinante della salute, il caposaldo della prevenzione del cancro e delle malattie più gravi del
mondo occidentale. Se poi consideriamo che il 30 per cento dei casi di
cancro è legato all’alimentazione, mentre l’aria inquinata incide solo nel
3 per cento dei casi e i fattori ereditari nel 5 per cento, mangiare con buon
senso non è affatto secondario. Dobbiamo recuperare quella coscienza
che per millenni è stata alla base della medicina tradizionale e che oggi è
andata perduta: la coscienza del valore terapeutico dell’alimentazione”.
GIANNELLA - Un recupero molto difficile per chi, nelle metropoli, è costretto ogni giorno a rifocillarsi con un piatto veloce. E allora, che cosa mettere nel piatto? Elenchiamo i principali tra i cibi dannosi e, dall’altra parte,
quelli virtuosi e protettivi.
VERONESI - “Occorre moderare il consumo di carne (in particolare carni
rosse bovine, ovine e suine e salumi) ed evitare gli alimenti ricchi di
grassi di origine animale (burro, lardo, strutto, margarine, ecc.). Il grasso animale, infatti, veicola facilmente i residui di pesticidi, erbicidi, fungicidi che si usano in agricoltura, il fall-out radioattivo, il benzopirene che
emana dalle città inquinate. Inoltre anche il modo di trattare la carne può
essere importante: per esempio, se sottoposta a elevatissime temperature, può denaturarsi e produrre idrocarburi cancerogeni. Occorre poi, oltre
a moderare il consumo di alcool, evitare i cibi molto salati, affumicati o in
salamoia. Ma soprattutto occorre mangiare poco: quando ingeriamo una quantità
eccessiva di calorie, sotto forma di proteine, grassi e zuccheri, queste vengono convertite in molecole di trigliceridi e accumulate nel tessuto adiposo come depositi di
riserva. Ed è proprio nel grasso corporeo
che più facilmente si accumulano le
sostanze dannose presenti nell’ambiente.
Da queste ci proteggono invece frutta e verdura: questi alimenti, poverissimi di grassi e ricchi di fibre, agevolando il transito
del cibo ingerito riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti tossici presenti nella dieta quotidiana. Inoltre frutta e verdura, meglio se
di stagione, sono scrigni di preziose sostanze che consentono di neutralizzare gli agenti cancerogeni, di “diluirne” la formazione
e di ridurre la proliferazione delle cellule
malate. Faccio qualche esempio: una
sostanza presente in una classe di vegetali, le crucifere (cioè cavolfiori,
broccoli, cavoli, verze e cavolini di Bruxelles, ma anche rape, rapanelli e
rucola) ha dimostrato un’evidente funzione protettiva anti-cancro. Alcuni
vegetali, come la soia, sono ricchi di fitoestrogeni (sostanze simili agli ormoni femminili) e per questo possono svolgere un ruolo di regolazione di eventuali influenze ormonali sullo sviluppo dei tumori. Il licopene, che è il pigmento responsabile del colore rosso del pomodoro, svolge un’azione protettiva nei confronti del tumore della prostata. Le componenti principali
degli agrumi, i polifenoli e i terpeni, sono stati identificati come molecole
dotate della capacità di interferire con i processi responsabili dello svilup-
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Le parole maestre
MONDI E IDEE
IN UN BICCHIERE
po del cancro e di incrementare il potenziale antitumorale di altre sostanze fitochimiche presenti negli alimenti”.
GIANNELLA - Insomma, meno mangio più vivo...
VERONESI - “Non ci sono dubbi che un’alimentazione povera di carne e
ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in salute. Frutta e verdura,
oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, contengono princìpi
attivi (flavonoidi e polifenoli) che, combinati assieme, agiscono come potenti antiossidanti e proteggono l’organismo dai radicali liberi, aiutandolo a
difendersi da processi infiammatori, allergici, virali e tumorali. Ripeto
anche che la miglior difesa è comunque l’abitudine a mangiare poco. Noi
mangiamo per conservare la vita e il nostro organismo preleva calorie
dai depositi di grasso, che vengono prudentemente immagazzinati quando ci si nutre. La salute sta nel mantenere in equilibrio questo processo
di entrate e uscite. Basta per esempio alzarsi da tavola sempre con un po’
di appetito”.
GIANNELLA - Albert Einstein era vegetariano, e così tanti altri nomi illustri. Anche lei è un convinto assertore della bontà di un’alimentazione
vegetariana e, nel suo ruolo di senatore, intende promuovere la cultura
vegetariana in Italia. Su quali basi poggia questa sua solida convinzione?
VERONESI - “Il mio intento è quello di promuovere la cultura vegetariana
come una libera scelta ispirata dal rispetto per la vita e dalla solidarietà
verso gli esseri viventi. Abbiamo raggiunto un livello di benessere per cui
i nostri stili di vita vanno oltre la tutela della salute individuale, per avere
un’influenza anche sull’inquinamento ambientale, sul rispetto degli animali e della loro sofferenza, sulla fame e le epidemie di alcune popolazioni, sulla scarsità
di acqua e di energia. Per contrastare lo squilibrio assurdo per il quale decine di migliaia
di esseri umani poveri muoiono ogni giorno
per mancanza di cibo e allo stesso tempo quasi
altrettanti muoiono per eccesso di cibo, bisogna agire non solo a livello politico ed economico mondiale, ma anche sul comportamento alimentare dei singoli e delle famiglie, per
arrivare a condividere, oltre che una scienza, un’etica della nutrizione. Oggi abbiamo
sufficienti dati per confermare che ridurre il
consumo di carne nel mondo occidentale può
contribuire a ridurre la scarsità di cibo e di
acqua nei Paesi più poveri. Perché in realtà i
prodotti agricoli sarebbero sufficienti a sfamare tutti se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare gli animali da allevamento, perché i terreni destinati al pascolo potrebbero essere coltivati e dare più alimenti, perché per produrre un chilo di carne occorrono 20.000 litri d’acqua. Un graduale aumento della cultura del ‘mangiare vegetale’ appare quindi la condizione necessaria per porre fine a questa tragedia, oltre a essere un’ottima soluzione per mantenere in salute e ridurre i rischi di chi ha il problema opposto: un eccesso di cibo che può far ammalare fino a uccidere”.
GIANNELLA - Lei, professor Veronesi, a 83 anni è l’immagine di una buona
salute. A quali allenamenti sottopone il suo corpo e la sua mente? E’
vero che un suo grande sostegno è il cioccolato? Quando e quanto ne prende? E il caffè, con la sua teobromina, lo consiglia o no?
VERONESI - “A causa dei ritmi del mio lavoro, ho sviluppato l’abitudine a
saltare il pranzo: durante la giornata prendo un paio di caffè, che aiutano la concentrazione e attenuano la stanchezza, e alla sera mi concedo
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MONDI E IDEE
IN UN BICCHIERE
un pasto gradevole in compagnia. Questo regime mi permette di restare
lucido e non appesantito fino a sera. È vero, sono golosissimo di cioccolato, anzi, direi che sono un vero e proprio estimatore, senza contare che
il cioccolato fondente contiene quantità importanti di polifenoli in grado
di prevenire le malattie croniche come il cancro e i disturbi cardiocircolatori. Mi impegno a tenere sempre in esercizio la mente con progetti, idee,
ricerche, studi e anche, più banalmente, con i giochi di intelligenza. Inoltre
cerco sempre di coltivare una grande curiosità, che anima le passioni intellettuali e spinge a non smettere mai di cercare nuovi stimoli. Per questo
amo la lettura, la musica, il cinema, il teatro e l’arte. Il mio obiettivo è
quello di mantenere nella quotidianità un equilibrio fra entusiasmo del
cuore e scetticismo della ragione, senza mai cadere nel pessimismo”.
GIANNELLA - Sta avanzando una scienza dal nome difficile, nutrigenomica. Di che si occupa? E che cosa cambierà?
VERONESI - “La nutrigenomica è una nuova disciplina, nata dalla rivoluzione del Dna, che si occupa della relazione fra cibo e geni individuali, cioè
di comprendere come ciascuno di noi reagisce agli alimenti che consumiamo e come questi influenzano la comparsa di determinate malattie. Si
tratta in fondo di spiegare perché certi alimenti sono più dannosi per un
individuo e innocui per altri, e viceversa perché altri proteggono la salute di qualcuno ma sono inefficaci per altri. Sappiamo che la risposta è nei
geni, meglio, nella loro interazione con le sostanze che introduciamo nel
nostro organismo. Negli ultimi anni abbiamo scoperto, per esempio, che
alcuni geni coinvolti nella regolazione di processi vitali della cellula si attivano o si disattivano al variare delle calorie che assumiamo o alla presenza o meno di determinate sostanze nella nostra dieta. L’alimentazione
sarebbe dunque uno dei fattori in grado di regolare “l’espressione del genoma”, cioè di influire su come alcuni fra i circa 35.000 geni che si trovano
nel nostro Dna vengono attivati per fare in modo che la cellula esegua le
funzioni vitali. L’obiettivo di questo complesso studio è arrivare a consigliare una dieta personalizzata per prevenire il tumore, ma anche utilizzare diete arricchite in determinate sostanze come nuovo approccio terapeutico”.
GIANNELLA - La mortalità per cancro diminuisce dal ’94. Ma quando crede
che quella malattia sarà definitivamente sradicata?
VERONESI - “Questa è la domanda che più di frequente mi viene posta. Non
è possibile naturalmente fornire un tempo preciso, una scadenza esatta,
perché la ricerca scientifica, in biomedicina, così come nelle altre discipline, vive in primo luogo di metodo e di princìpi, ma anche di intuizioni,
di casualità, di fughe in avanti e di battute d’arresto. Possiamo però
offrire alla gente delle prospettive e degli orizzonti, sulla base dell’esperienza e della conoscenza disponibile, possiamo dare delle speranze o al
contrario sfatare certe forme di illusione e possiamo aiutare a capire il
percorso della ricerca scientifica. Detto questo, sì, penso che sconfiggeremo il cancro. È ragionevole pensare che fra una decina d’anni, forse meno,
e con l’aiuto delle conoscenze sul Dna umano e le nuove tecnologie in
grado di studiarlo, riusciremo ad avere un controllo più esteso della malattia tumorale. Al tempo stesso, però, possiamo fin d’ora iniziare ad adoperare le conoscenze che progressivamente acquisiamo per fini pratici:
sulla base di conoscenze parziali, anche se approfondite, si può già ridurre il peso della malattia.
Il cancro oggi sempre più spesso non è più ritenuto, come fino a pochi
decenni fa, un ‘male oscuro’, una maledizione che colpisce alla cieca e che
non si può nemmeno nominare, ma piuttosto una malattia su cui la ricerca sta ottenendo risultati sempre più importanti, una malattia che in molti
casi si può curare e soprattutto si può prevenire. Ricordiamoci che il futuro della lotta al cancro è in mano non solo alla ricerca, ma anche alla politica di sanità pubblica e soprattutto ai cittadini, perché nella prevenzione conta soprattutto la responsabilità individuale”.
15
In & Out
C’è chi dice
AL
BERE DISSENNATO, AL VINO TRASCURATO
E ALLA QUALITÀ SOTTO I TACCHI.
STORIE DI TUTTI I GIORNI, ATTRAVERSO L’UNIVERSO
ESEMPI POSITIVI E NEGATIVI, DA STUDIARE
no
GIOVANE.
di Roberto Piccinelli
olgorato sulla via di Damasco. Non può che iniziare così la storia di Luca Olivan, attuale titolare delle Osterie Moderne di Campodarsego (Pd).
Ex discotecaro nell’anima, ex proprietario di un negozio di abbigliamento trendy-dance in quel di Vicenza ed
ex patron di una trasmissione Tv (Crazy Dance), totalmente votata al settore. Dopo i primi, movimentati anni
di vita, ha improvvisamente svoltato. Ha ricominciato a
studiare, per finire l’università. Ha dato vita ad un locale tutto suo. Ha iniziato ad appassionarsi di vini, spumanti e Champagne, fino a diventarne un paladino. Al
punto di farsi promotore di eventi quali “I love
Amarone”, “Opus One sfida Sassicaia, Ornellaia,
Tignanello” e “L’Esprit du Champagne. The Party!“,
cena a buffet e degustazione di 50 etichette. Certo, l’amore per la musica è rimasto e nel suo grande ed allegro
risto-disco con giardino, musica mixata e live non mancano mai. Ma questo è un bene, perché riuscire a proporre divertimento, food & beverage di qualità, a prezzi calmierati è senz’altro da considerare un pregio non
da poco. Per di più, in un momento in cui impazzano
gli “show-window”, locali-vetrina dove non è tanto importante ciò che si mangia o beve, ma l’atmosfera che si
respira. Forse non ci crederete, eppure tante, troppe
volte abbiamo notato clienti andar via contenti da luoghi à la page, pur avendo mangiato male, poco e, perfino, essendo stati serviti peggio. Veder sborsare con il
sorriso sulle labbra fino a 100 Euro, per cene che non
varrebbero nemmeno la metà, permette però di prendere coscienza di un nuovo fenomeno in atto, la “vetrinizzazione della società”. La vetrina, al cui interno si
collocano gli attori della rappresentazione, merci o persone che siano, ha spinto fino all’estrema conseguenza la sua funzione comunicativa di rappresentazione
spettacolare, diventando peraltro protagonista di un
fenomeno che affonda le sue radici addirittura a cavallo fra la prima e la seconda Rivoluzione Industriale. E,
acquisendo un valore crescente mano a mano che andavano in porto i passaggi epocali dalle botteghe ai negozi, dalle gallerie commerciali ai grandi magazzini.
Ora, tre secoli dopo, la vetrina deve essere interpreta-
F
16
ta come messa in scena del prodotto, ma anche come il
punto di partenza per un’estensione della sua area di
competenza ad altre tipologie di luoghi, i locali pubblici. Basti pensare, oltretutto, a quante strutture hanno
deciso di rendere totalmente trasparenti le pareti esterne, puntando a farsi ammirare da chi passa per la strada. Certo, il giochino funziona solo per chi è effettivamente capace di riempire gli spazi interni… Ma questa
è tutta un’altra storia, di cui non tutti gli imprenditori
paiono tener conto. In ogni caso, il fine della frequentazione di questi locali non è il solo guardare, ma anche
e soprattutto l’essere visti. Eh sì, perché essere scorti
da uno o più amici, pronti a testimoniare urbi et orbi,
che si era al posto giusto nel momento giusto vale più
di qualsiasi altra cosa al mondo. Perché giova alla propria immagine, termine sacro della società odierna. Per
fortuna, ci sono discoteche à la page come La Cabala
(Roma), Marina Club (Jesolo-Ve) e Le Mirage (Monte
San Savino-Ar), che si sforzano di equilibrare gli elementi. Con un ristorante sottostante, supervisionato da
Gualtiero Marchesi, la prima, con una sommelier ben
▲ Gli interni e il cortile del ''Maison & Jardin''
preparata, la seconda e con una carta dei vini molto
basica, ma intrigante, la terza. Anche se ciò che ci fa
davvero ben sperare in un vero sviluppo qualitativo sono
le nuove tipologie del loisir.
Tipo il Maison et Jardin di Monticello Brianza (Lc), deliziosa villa dell’Ottocento trasformata da una donna di
gran gusto, Yasmina Bonaiti, in un magico conceptstore di matrice arredamentale, avente a cuore tanto il
giardino quanto gli interni. Entrambi virati sul fascinoso tout court, ma soprattutto debitamente affiancati da
un bar, Spoleto Cafè, ovviamente votato alle bontà
umbre. E’ Mattia, figlio di Jasmine, ad occuparsene ed
a puntare forte sul ciauscolo, per un verso e sui vini
dell’Azienda Agricola Perticaia, per un altro. Ed è bello
trovare un ragazzo giovane che crede in prodotti ben
precisi, senza lasciarsi andare alla classica filosofia dello
“spara nel mucchio, per non sbagliare”… I Sagrantino,
Passito e Rosso targati Montefalco, ma anche l’Umbria
Rosso ed il Trebbiano Spoletino assaggiati in occasione
dell’ultimo aperitivo qualitativo con i fiori, etichettato
“Fleurs du Charme”, sono risultati piacevoli al palato.
Ed esaltati da un’atmosfera che ha strizzato l’occhio alla
famosa raccolta poetica di Charles Baudelaire, per predicare l’esatto contrario... Quasi a volersi avvicinare
all’“Innamoramento e Amore” di Francesco Alberoni,
condito di un sano realismo.
A proposito di giovani e di proposte decise, ci fa piacere elogiare anche Mirko Di Paoloantonio che, al ristorante Don Beta di Volterra (Pi), non solo fa scalpore con
carni di canguro, zebra, cammello e antilope, ma anche
con la proposta dei vini locali, fino ad ora molto poco
considerati. Ci sono voluti due professionisti come
Carmen Vieytes e Gottfried E. Schmitt per lanciare
prodotti by Tenuta Monte Rosola, quali “Corpo Notte”,
“Canto della Civetta” e “Crescendo”…
■■■ RACCONTI DI VITA VISSUTA
Di sorpresa in sorpresa, passiamo all’Etablì di Roma,
wine bar di stampo piacevolmente salottiero, a due passi
da piazza Navona, in grado di barcamenarsi fra sprazzi vintage e gusto provenzale, sgabelli ferrosi e soffitti
a rastrelliera lignea, pavimenti listellati e lampadari
simil-candelabri, spazi sfalsati e pubblico à la page,
sedute anticate e bancone squadrato. Locale assolutamente gradevole, quindi. Eppure, colto in fallo. Passi il
fatto che il Sirah ordinato all’ora dell’aperitivo sia stato
servito in un bicchiere non idoneo ad un vino rosso e
sponsorizzato in maniera non pertinente. Passi, perfino, che per 6 euro di spesa (decisamente troppo per l’etichetta servita e per il fatto che ci si sia accomodati al
bancone, senza chiedere un tavolo) non sia prevista
nemmeno una bruschetta, ma non è possibile che il barman mi piazzi accanto una ciotola di noccioline stile
Anni Settanta. Avessi chiesto un “Americano”, almeno…
Sulla stessa scia, incredibile a dirsi (deve essere un’epidemia!), anche il bar del Four Seasons Hotel di Milano.
Dove qualità, atmosfera e relax sono al top. Senza
17
In & Out
orde di cavallette all’assalto di buffet stomachevoli ed
anti-igienici, ma anche bevande di scarsa qualità, tanto
nei cocktail quanto nei vini. Ovvio, che io lo frequenti
spesso, quindi. Ultimamente, ci sono stato con l’amica
Veronica Maya, conduttrice di RaiUno, che non vedevo da un po’. E con la quale avevo piacere di chiacchierare del più e del meno, in santa pace. Ore 20.00:
lei ordina una cioccolata (8,50 Euro) e, giustamente,
le portano alcuni pasticcini di contorno. Io ordino una
flute di Champagne Philipponnat Brut Royale Reserve,
che reca seco un prezzo un tantino esagerato, 23,00
Euro. Basterà dire che il costo di un’intera bottiglia, in
enoteca, oscilla fra i 33,00 ed i 50,00 euro, per capire
l’antifona. Ma il punto non è questo, perché la cifra è
correttamente riportata sulla carta, pur se non corredata dell’annata. Il fatto è che al sottoscritto hanno portato solo il classico ed anonimo trittico di noccioline,
mandorle ed affini, senza il consueto marchio di fabbrica della casa, foglie di alloro ed olive ascolane fritte.
Ideali, per accompagnare una cuvèe dotata, al palato,
di un buon crescendo aromatico. Diamo per scontato
che la colpevole dimenticanza sia stata cagionata dalla
vista dei magnifici occhi chiari di Veronica, che devono
senz’altro avere stregato il cameriere. Resta il fatto che io
ho dovuto fare buon viso a cattiva sorte e bere a stomaco totalmente vuoto. Perché le noccioline, come già scritto, le lascio volentieri agli appassionati dell’“Americano”.
In compenso, avviandoci verso l’uscita, il bravo pianista ha azzeccato, come per incanto, la canzone preferita dalla mia splendida amica, “As Time Goes By”, hit
del film Casablanca… Sì, suonala ancora Sam, ma non
far più portare le noccioline con lo Champagne. E se
proprio non puoi, fai in modo che non si dimentichino
del resto. Grazie.
■■■ IMPORTAZIONI SCONSIGLIATE
Dalle situazioni da migliorare alle usanze da non copiare il passo è lungo e doloroso. Purtroppo. Perché il
fatto che gruppi di studenti italiani abbiano importato
dalla Spagna l’esecrabile Botellon, fino al punto di organizzarne un tour attraverso le città universitarie, è
davvero una bestialità. Da combattere e condannare per
la loro salute. Tanto per essere chiari, il cosiddetto “movimento del botellón” è originariamente rappresentato
da gruppi di ragazzini che si aggirano per le strade, di
notte, scolando fiumi di birra, acquistata a poco prezzo
nei supermercati e miscelata in un grande contenitore
▲ Il Calimocho, vino rosso di livello scadente e cola.
Da evitare!
di vetro con tutto quanto di liquido capiti a tiro. Gin,
vodka, rhum, tequila e quant’altro vi venga in mente,
ma sempre di qualità infima. L’alternativa alla birra è
un beverone altrettanto micidiale chiamato, a seconda
dei casi, calimocho (vino rosso di livello scadente e cola),
kalitxurri (con vino bianco) o kaligorri (con rosé). In
seguito, vista l’internazionalizzazione del fenomeno, è
nata una terza via, definita “free for all”, in cui si mischia
praticamente di tutto. Ebbene, io ho assaggiato queste
misture malefiche per ben tre volte, a Madrid, Malta e
Venezia: vi posso assicurare che solo ingurgitare un
ditale di quella roba fa scattare l’impulso di vomitare.
E non sto scherzando: pensate all’incrocio fra il vino al
metanolo ed una grappa adulterata, per averne un’idea…
La scelta di chi partecipa al botellon è quella di bere
tanto, al punto di ubriacarsi in compagnia. Una delle
forme di trasgressione del Nuovo Millennio. Ma se a molti
di noi, nella vita, è capitato di dover smaltire una sbornia, che gusto c’è a “bere schifoso”? Più volte, mi sono
fermato a parlare con quei ragazzi, che ripetevano “ il
nostro è un divertimento a basso costo e un tentativo di
conoscere tanta gente, all’aria aperta, senza costrizioni”. Più volte, ho suggerito loro un mare di altri modi di
raggiungere quei traguardi, senza mettere a repentaglio
la salute con quegli intrugli. Più volte, ho regalato loro
una bottiglia di quello buono, stando attento che non la
mischiassero con alcunché. Fatelo anche voi, ve ne prego,
perché il problema è serio e dobbiamo tentarle tutte per
fare in modo che non si propaghi ancor di più…
Gli indirizzi
Don Beta
Etablì
Four Seasons
La Cabala
Le Mirage
Maison et Jardin
Marina Club
Osterie Moderne
18
Via Matteotti 39, Volterra (PI). Tel. 0588/86730
Vicolo delle Vacche 9, Roma . Tel. 06/6871499; 06/97616694
Via Gesù 6/8, Milano. Tel. 02/77088
Via dei Soldati 25/c, Roma. Tel. 06/68301192
Loc. Ponte Esse-Verteghe, Monte San Savino (AR). Tel. 0575/810215
Via Cadorna 18, Loc. Torrevilla, Monticello Brianza (LC) Tel. 039/9275106
Via Roma Destra 120/b, Lido di Jesolo (VE). Tel. 0421/370645
Via Bassa II 18, loc. S. Andrea, Campodarsego (PD). Tel. 049/5565236
Bere consapevole
La battaglia corre
su
di Carla Bruni
E’
DA
QUELLA VINTA
ALBERTO DEFILIPPI
CONTRO LA PROPOSTA
DI ABBASSARE
IL TASSO ALCOLEMICO
CONSENTITO
NEL SANGUE
DEGLI AUTOMOBILISTI:
DUECENTOMILA VOCI
HANNO CONDOTTO
UNA PROTESTA CIVILE
IN NOME
DELLA CULTURA
E DEL BERE
RESPONSABILE
20
volte basta poco per farsi notare. Metti la tastiera di un computer, lo schermo acceso sulla
pagina web di Facebook (il più famoso social network di internet), l’idea
giusta e un argomento che da sempre divide l’opinione pubblica: l’abuso di alcool e il codice della strada.
Così è bastato veramente poco ad
Alberto Defilippi per diventare popolare tra i navigatori della rete e per
farsi ascoltare dalla politica (bloccando addirittura l’iter di un disegno di legge ed una vera e propria
ingiustizia). Il giovane, nato e cresciuto sulle colline dell’Oltrepò
Pavese, ha creato un gruppo di
discussione on-line (No al ritiro
patente con tasso alcolico a 0,2%)
capace di far ascoltare alle istituzioni la voce di 200.860 iscritti. Una
voce che fin da subito si è detta contraria al disegno di legge che la
Commissione Trasporti della Camera
dei Deputati voleva inserire all’interno della finanziaria, ossia abbassare ulteriormente il tasso alcolico
massimo consentito per chi si mette
al volante.
Quando si parla di giovani e alcool
spesso si pensa ai terribili incidenti stradali. Il pensiero corre alla
superficialità di questi ragazzi che,
A
annebbiati dal troppo bere e a volte
dal micidiale mix di droghe con
superalcolici, si comporta in maniera così irresponsabile da essere un
pericolo per se stessi e per gli altri.
Ed è stato proprio Defilippi che con
grande forza ed abilità è riuscito in
poco tempo a creare una vera e propria protesta di popolo, costruttiva
e di grande impatto mediatico.
L’obbiettivo? Difendere uno dei vanti
del nostro Paese: il settore vitivinicolo.
“Questa iniziativa - spiega Alberto
Defilippi - è nata il 15 dicembre
2008, giorno in cui il Presidente della
Commissione Trasporti della Camera
dei Deputati, Mario Valducci, ha
annunciato la proposta di legge, condivisa da Pd e Pdl, per abbassare il
tasso alcolico massimo consentito
nel sangue degli automobilisti a
0.2%, contro lo 0,5% attuale”.
Alberto Defilippi, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza con un diploma di perito agrario e una passione
per la vite e il vino coltivata fin da
bambino anche grazie al nonno che
è imprenditore vitivinicolo, ha voluto unire con i suoi studi due passioni, quella per la politica e quella dell’amore per i vitigni, decidendo così
di rimanere nel mondo agricolo col-
▲ Alberto Defilippi,
promotore dell'iniziativa
laborando con alcune aziende della
sua zona.
“Da amante della cultura del buon
‘bicchiere’ - dice Defilippi - ho trovato assurda e non produttiva questa proposta di legge. Ho deciso di
muovermi tempestivamente, visto
che vengo da una zona che vanta un
importante fatturato economico grazie proprio alla produzione di vinicola. Credo molto nella sicurezza
stradale, ma non trovo giusto punire chi ha bevuto due bicchieri di vino
o una birra ed è in perfette condizioni per guidare. Sono convinto continua il ragazzo - come dicono
alcuni esperti che bisognerebbe fare
un test di riflessi più che di tasso
alcolico”.
Citiamo l’intervista alla Stampa,
ripresa anche dal gruppo “No al ritiro patente con tasso alcolico a
0.2%”, del dottore Augusto Consoli:
“Ogni organismo ha la sua risposta all’assunzione dell’alcool.
Dipende dal metabolismo di ciascuno, oltre che dal tempo che passa
dall’assunzione al controllo della
polizia. In teoria basta un residuo
di vino in bocca, quello dell’ultimo
sorso prima di salutare gli amici al
ristorante, per portare l’etilometro
oltre il limite concesso prima del ritiro della patente. Un esame di riflessi, invece, fornirebbe un’analisi più
completa e complessa: alcool, oppiacei ed altro”.
Sempre secondo Alberto Defilippi:
“Il ‘proibizionismo’ può portare a un
pericoloso effetto boomerang, molti
giovani potrebbero essere quasi legittimati a esagerare, questo è il modo
per non responsabilizzare i ragazzi,
ma per fare pura repressione.
Bisognerebbe educarli al ‘bere
responsabile’ più che punirli e basta,
spesso sono quei miscugli nei cocktail che non fanno bene, meglio insegnare a sorseggiare del ‘buon vino’,
che oltre ad avere effetti positivi sulla
salute bevuto in piccole quantità, è
uno dei valori aggiunti della nostra
cultura enogastronomia, che con le
sue tipicità è il fiore all’occhiello
dell’Italia”. E poi ancora: “Pensiamo
se entrasse in vigore una legge di
questo tipo, quali problemi potrebbe creare a categorie come i ristoranti, le cantine o ai sommeliers, che
a causa del loro lavoro potrebbero
essere i principali bersagli al ritiro
della patente. E’ per questa mia passione che va dal vino alla politica,
alla società che ho pensato di usare
uno strumento così giovane e di
massa come internet, in particolare Facebook, per creare questo gruppo di discussione”. In pochissimi
giorni sono stati raggiunti i 60.000
membri e quindi “abbiamo iniziato
a farci notare anche dal mondo
‘irraggiungibile’ della politica nazionale”.
“Grazie a questa mobilitazione ‘di
massa’ - continua Defilippi - e all’aiuto di alcuni sindacati e del deputato della Lega Nord Matteo Salvini,
che fin da subito ha appoggiato la
nostra causa interessandosene direttamente come componente della
Commissione Trasporti della Camera
dei Deputati, è stato possibile un mio
incontro con l’onorevole Valducci.
Fortunatamente ha compreso i riflessi negativi che una simile norma
proibizionista avrebbe avuto su zone
che vivono di vitivinicoltura. Questo
era il mio obiettivo, sensibilizzare
21
Bere consapevole
l’opinione pubblica e allontanare i
pericoli del bieco proibizionismo”.
Ma non è tutto. La battaglia contro
lo 0,2% (così è stata ribattezzata dai
200 mila iscritti di Facebook) è stata
vinta da un giovane che evidentemente ama “bere responsabilmente”. Continua Defilippi: “Ammetto
che per me è stata una grande soddisfazione personale, in pochissimo
tempo dall’anonimato totale, politici e carta stampata hanno iniziato a contattarmi, ancora adesso faccio fatica a crederci. Nel mio gruppo di discussione abbiamo aperto
vari forum gestiti da giovani spesso
di età intorno ai 30, in cui si discute in maniera propositiva dell’argomento. Qualcuno scrive che lo Stato
sta diventando intollerante, ma non
serve, i controlli andrebbero fatti
soprattutto per chi frequenta luoghi
come le discoteche; c’è chi propone
anche il ritiro del libretto di lavoro
agli ‘ubriachi’, chi pensa che alla fine
chi ci va di mezzo è solo ‘lo sfortunato di turno’ uscito con gli amici
e non colui che a fine serata travolge innocenti sulle strade. Molti
componenti del gruppo si lamentano dalla scarsa informazione e dei
servizi che vanno in onda nei nostri
Tg, considerati da molti strumenta22
lizzati sia dalla politica sia da molte
associazioni”.
Mille idee messe in rete. Ognuno
lancia proposte per risolvere il problema dello “stato di ebbrezza” alla
guida: interessante è quella di organizzare una rete di trasporti pubblici notturni che aiutino i ragazzi
che “bevono” a tornare a casa sani
e salvi. C’è chi vorrebbe l’aumento
dei taxi di notte e soprattutto tariffe più basse come in tanti Paesi del
mondo. Ad esempio Riccardo scrive: “In Italia, i taxi sono pochi e si
fanno pagare come un Eurostar,
forse era meglio liberalizzarli”.
Opinioni vengono anche da italiani
all’estero che raccontano l’esperienza di Paesi dove hanno provato il
proibizionismo e poi, inevitabilmente, sono tornati sui loro passi e al
vecchio limite di 0.5%.
Un forum interessante che, tra commenti in bacheca e idee lanciate in
chat, mette in evidenza un mondo
di giovani per nulla superficiali: oltre
a tenere alla propria vita e a quella
degli altri si dimostrano interessati
alle problematiche sociali.
“Per il futuro - dice Defilippi - penso
sia importante mantenere un ‘coordinamento’ attraverso il mio gruppo, per prevenire e cercare di met-
tere un freno a spinte proibizioniste che potrebbero ripresentarsi nei
prossimi anni. Gente di età, cultura, professionalità e sensibilità
diverse hanno capito l’importanza
di questa ‘battaglia’ ed è un fatto
nuovo nel nostro Paese.
Bisognerebbe promuovere campagne per bere ‘bene’ e di qualità, non
come metodo per ‘sballarsi’ il sabato sera, ma come fatto di cultura,
di promozione di prodotti che rendono il nostro Paese unico e inimitabile”. Come dire che bisogna trasmettere alle nuove generazioni l’importanza di questi valori, per evitare la dispersione del tradizionale
patrimonio enogastronomico, cercando di evitare di dilapidare una
cultura che ci appartiene senza che
nessuno “gridi allo scandalo”.
Conclude Defilippi: “Grazie anche
a questa nostra iniziativa, la
Commissione ha deciso di non
abbassare il tasso alcolico allo 0.2%.
Tranne che per i giovanissimi neopatentati che dai 18 ai 21 anni non
potranno guidare dopo aver bevuto: per loro il tasso alcolico massimo consentito nel sangue deve essere zero. Insomma mi aspetta un’altra lotta!”.
Naturalmente on-line.
Alcol e giovani
Gran
Bretagna
La
corre ai ripari
di Stefano Tura *
NEL
OGNI ANNO
REGNO UNITO
PIÙ DI DIECIMILA
ADOLESCENTI
VENGONO RICOVERATI
IN OSPEDALE
PER ABUSO DI ALCOOL:
IL GOVERNO
BROWN
STA CERCANDO
DI PORRE UN FRENO
AL FENOMENO
CHE HA COSTI SOCIALI
ELEVATISSIMI
24
a Gran Bretagna ha un problema serio. Beve troppo e, come tutti
coloro che abusano di alcool, non lo vuole ammettere. Chiunque
abbia trascorso una serata a Londra o in un’altra città del Regno
Unito, si sarà reso conto dell’enorme quantità di bevande alcoliche consumate dagli inglesi. Nei pub, nei club o semplicemente per strada.
Il fattore preoccupante è che la maggior parte di essi è costituita da giovani e addirittura adolescenti.
Secondo le stime più recenti, in Gran Bretagna i giovanissimi ricoverati
in ospedale ogni anno per problemi legati all’abuso di alcool sono più di
diecimila. Gli ultimi dati ci dicono che il 20% degli undicenni ha già sperimentato l’alcool, percentuale che sale al 54% per i tredicenni e all’81%
per ragazzi di quindici anni.
In totale sono più di un milione e mezzo i teenager britannici che bevono e la dose di alcool assunta pro-capite è aumentata, negli ultimi 17 anni,
di più del 60%.
Se chiedete ad un ragazzo inglese di 15 anni il motivo per il quale beve
tanto alcool, vi risponderà che la considera una cosa normale, una fatto
naturale. Per questo non c’è da meravigliarsi se in alcune zone dell’isola
britannica, in particolare nelle Midlands, il limite di età tra coloro che consumano alcool è sceso fino ai 10 anni scatenando una situazione di emergenza sociale. E’ una questione di mancanza di cultura, di ignoranza sociale e di declino istituzionale.
Per troppo tempo diversi governi hanno ignorato il problema. Hanno cercato di mantenere buoni rapporti con le grandi compagnie del settore, le
L
▲ Gordon Brown. Il Primo Ministro
britannico sta attuando
una politica per ridurre
l'abuso di alcool
distillerie e i pub, offrendo loro una regolamentazione leggera. In cambio, si richiedeva un impegno per un minimo di auto-regolamentazione e
responsabilità. Che non è mai arrivato.
Oggi il governo Brown sembra aver capito. Il Ministero della Salute ha calcolato i costi economici del fenomeno alcool ed i suoi abusi: fra i 17 ed i
25 miliardi di sterline all'anno. Un'enormità.
Ecco quindi che l’esecutivo ha cambiato strategia ed ha iniziato ad urlare a gran voce che “l'alcool (che in molti posti viene pubblicizzato e venduto in maniera irresponsabile) arreca un danno alla salute dei cittadini
molto maggiore di quanto si possa pensare".
Di recente il governo britannico ha lanciato delle linee guida dirette ai
genitori, agli educatori e ai ragazzi per tentare di porre un freno ad un
fenomeno che spesso ha dei risvolti tragici.
L’intento è quello di far capire ai cittadini che un’infanzia senza alcool è
la scelta più sana per un bambino e responsabilizzare le famiglie affinché
neghino l’accesso all’alcool ai minori.
Cinque i punti fondamentali della nuova strategia governativa:
■ impedire ai giovani l’accesso all’alcool in famiglia, almeno fino all’età
di 15 anni.
■ permettere l’assunzione di alcool dai 15 ai 17 anni solo dietro stretto
controllo dei genitori o degli educatori e limitarne l’uso solo ad eventi speciali come feste o compleanni.
■ mettere tutti a conoscenza degli effetti negativi dell’alcool sull’organismo dell’individuo sottolineando come, in età precoce, possa pregiudicare il corretto sviluppo di organi fondamentali come cervello e fegato.
■ istruire famiglie e genitori sulle risposte da dare alle eventuale richieste di alcool da parte dei figli.
■ favorire il ruolo di mediazione della famiglia tra istituzioni e giovani nella
comprensione dei principi della cultura britannica riguardo al consumo
di alcolici, mettendone in risalto i pro e i contro.
Ciò che però risulta difficile modificare è il concetto britannico del “drinking”. Se nel resto d’Europa chi si ubriaca regolarmente viene guardato
con diffidenza e commiserazione, in Gran Bretagna la sbronza, a qualunque età, è vista come qualcosa di “cool”.
Nascite, matrimoni, funerali, venerdì e sabato sera, domenica pomeriggio. Qualunque occasione e qualunque scusa sono buone per andare oltre
il limite.
La cronaca è piena di esempi negativi. Il 39% dei reati commessi in Gran
Bretagna da giovani di età tra gli 11 e i 17 anni, è da ascrivere ad individui che abusano di alcool.
Per correre ai ripari il ministero dell’interno ha varato da meno di un anno
una serie di norme che vanno dall’ introduzione di un codice obbligatorio per i commercianti, riguardante la vendita di alcool agli under 18, a
quella di un nuovo reato sempre per gli under 18 trovati ripetutamente
in possesso di alcool in un posto pubblico, all’aumento della pena pecuniaria per un adolescente che consumi bevande alcoliche in un luogo vietato (come la metropolitana), fino alla confisca delle bevande alcoliche possedute dai teenager, insieme al dovere della polizia di riaccompagnare a
casa il ragazzo nel caso in cui questo sia al di sotto dei 16 anni.
Resta inoltre vietato vendere bevande alcoliche ai ragazzi al di sotto dei
18 anni ma secondo la nuova legge la sanzione pecuniaria fino a 10.000
sterline, scatterà per il negoziante dopo la seconda volta consecutiva in
cui è provata la vendita. E se il reato viene reiterato c’è la sospensione
della licenza per tre mesi.
i costi economici e sociali del problema sono ormai sotto gli occhi di
tutti. Il governo Brown sembra aver finalmente capito che la Gran Bretagna
deve ri-bilanciare la propria relazione speciale con l’alcool.
Sapere bere prodotti di qualità e nella giusta misura è un dovere che i
sudditi di Sua Maestà devono imparare.
* Corrispondente Rai da Londra
25
Vinitaly
Vinitaly,
tutto il mondo
che amiamo
APPUNTAMENTO
A
VERONA,
DAL
2
AL
6
APRILE,
CON IL SALONE DEL VINO E DEI DISTILLATI
26
AIS
Associazione
Italiana
Sommeliers
L’
AIS Associazione Italiana Sommeliers
Vi aspetta al
PADIGLIONE 7 – STAND 10
di Roberto Di Sanzo
l mondo che amiamo”. E’ questo il titolo della
quarantatreesima edizione di “Vinitaly”, il salone internazionale del vino e dei distillati in programma a Verona, dal 2 al 6 aprile. E’ ormai tutto pronto per la rassegna veneta, punto di riferimento internazionale per buyers, produttori, enologi, ma anche
semplici appassionati e amanti – appunto – del mondo
che ruota attorno al vino e non solo.
“Il vino prima di tutto – come è sottolineato nel sito ufficiale della manifestazione (www.vinitaly.com) – ma anche
la qualità, il territorio, l’ambiente e la sua tutela, gli
uomini e le loro sfide, i borghi e la loro storia…”.
Una manifestazione a 360 gradi, dunque, dove le occasioni di business si moltiplicano anno dopo anno anche
grazie alla lievitazione del numero degli espositori e delle
aziende estere che decidono di partecipare alla fiera.
Bastano i numeri per comprendere meglio la portata
dell’evento: nel 2008 sono stati oltre 57 mila gli ope-
“I
ratori, il 42% dei quali stranieri. Oltre 20 mila i buyers
presenti, su 43 mila presenze estere totali da 110 Paesi
(con un incremento del 25% degli operatori stranieri).
Arrivi massicci dai cinque continenti, insomma, con
una partecipazione boom di cinesi e in generale di asiatici. Russia e nazioni dell’Est europeo in primo piano,
ma anche dagli Stati Uniti, nonostante la riflessione del
mercato americano, sono aumentati i visitatori.
Un’edizione, quella del 2008, davvero positiva, che si
è chiusa “con oltre 150 mila operatori complessivi –
come ha sottolineato Luigi Castelletti, presidente di
Veronafiere - dei quali più di 45.000 esteri, che rappresentano il 30% circa del totale, in aumento di quasi il
15% rispetto all’edizione del 2007”.
Si prospetta, quindi, una rassegna ancora più importante e sempre più internazionale per il 2009. E proprio per andare incontro alle richieste degli espositori,
quest’anno gli spazi sono stati ottimizzati e ulterior27
Vinitaly
mente ampliati, grazie anche al completo rifacimento
del padiglione 1, dotato di 2.000 metri quadrati di pannelli solari, che sarà inaugurato proprio in occasione
dell’apertura della rassegna.
Ad ogni edizione, Vinitaly potenzia poi la sinergia con
Sol, Agrifood, il Grappa Tasting ed Enolitech, che allargano la prospettiva del settore proponendo vino e olio
extravergine di oliva abbinati a prodotti di qualità della
gastronomia, distillati di alta gamma.
Gli strumenti a disposizione di Vintaly sono innumerevoli, a cominciare dalla rete di delegati di Veronafiere
nei più importanti Paesi del mondo. Altro fiore all’occhiello, il “Vinitaly World Tour”, da dieci anni attivo,
percorso che sta fortemente aiutando l’internazionalizzazione delle aziende e del sistema agroalimentare Made
in Italy. La prima tappa di un tour che toccherà anche
la Russia, la Cina ed il Giappone è stata in Florida, negli
Stati Uniti. A febbraio le aziende e i buyers italiani hanno
presentato i loro prodotti prima a Miami e poi a Palm
Beach. Appuntamento davvero importante e molto riuscito, con oltre mille presenze complessive tra operatori del settore e wine lovers al full day del 9 al Bitlmore
“Il Vinitaly è la risposta alla crisi”
Ecco il parere di Elena Amadini, Brand Manager di Vinitaly,
con cui abbiamo scambiato alcune battute
▲ Elena Amadini
La crisi che sta toccando tutti i settori
dell’economia sembra, almeno per il
momento, risparmiare il mondo del
vino. Come si presenta l’edizione di
quest’anno del Vinitaly?
Malgrado la crisi economica stia
toccando da vicino tutti i settori
dell’economia italiana, le aziende
vitivinicole hanno risposto in maniera
molto positiva e attualmente
abbiamo una lista d’attesa che non
riusciremo a soddisfare. Penso che ciò
dipenda dal fatto che la reale
difficoltà del mercato abbia imposto
alle aziende di selezionare
ulteriormente gli appuntamenti cui
partecipare e Vinitaly, essendo
diventata ormai fiera di riferimento
nel panorama mondiale, ha avuto
sicuramente una posizione
privilegiata: non è un caso che molti
espositori ad esempio, dovendo
scegliere tra ProWein e Vinitaly
abbiano optato per quest’ultima.
D’altra parte anche l’altro parametro
di valutazione del successo della
nostra fiera ci rende molto orgogliosi:
l’accredito degli operatori esteri
quest’anno ha avuto un incremento
del 20%.
Qualcosa di particolare da
segnalare?
Molte le novità di quest’anno a
partire dal quartiere: la
razionalizzazione degli spazi espositivi
ha prodotto una maggiore evidenza
28
delle regionalità nei singoli padiglioni
e la riorganizzazione di gallerie e viali
ha permesso di realizzare un layout
bello e funzionale.
Inoltre la costruzione del nuovo
Padiglione 1, ospitante la Regione
Emilia Romagna ha portato a un
ulteriore ammodernamento del
quartiere, in un ottica di
ottimizzazione dei consumi energetici
attraverso un sistema di pannelli solari.
Alle novità strutturali si affianca un
significativo potenziamento di tutte le
iniziative commerciali, a partire dal
Buyers Club, atte a favorire il più
possibile i nostri espositori.
Come valutare il successo di Vinitaly
World Tour 2008 in vista dell’evento di
Verona?
Il successo raccolto in tutte le tappe
dal Vinitaly World Tour ci conferma la
validità dell’azione di supporto alle
piccole-medie aziende che vogliano
approcciare i mercati esteri, diversi
da nazione a nazione.
Il recente successo della tappa
americana conferma che dobbiamo
continuare a essere presenti per
proseguire nell’opera di formazione,
educazione al consumo, promozione
culturale e di business, in modo da
dare il nostro contributo al
consolidamento e all’incremento
della quota di mercato dei vini
italiani.
(E.L.)
Hotel, ai due eventi enogastronomici del 10 presso il
ristorante “Gaia” con lo chef pluristellato Gaetano
Ascione e l’11 a Palm Beach. Un programma ricco e che
ha consolidato ancora di più il legame tra Italia e Stati
Uniti in questo settore strategico: numerosi sono stati
i workshop per mettere in contatto le aziende con i principali importatori, esportatori e distributori del territorio (oltre 1.500 a Miami), retailer e ristoratori locali.
Davvero apprezzate le degustazioni guidate e i seminari dedicati agli operatori sul “ruolo del vino italiano nell’industria della ristorazione in Florida” e su “come scegliere le strategie giuste in tempo di crisi”. Un successo probabilmente previsto dagli organizzatori, visto che
la Florida rappresenta l’8% dell’intero mercato vinicolo targato Usa, subito dopo – in un’ipotetica classifica
– la California, con un tasso di crescita delle vendite
vertiginoso, addirittura del 60% in dieci anni.
A Verona continueranno le iniziative che negli anni passati hanno riscosso il consenso del pubblico. Come
“Taste Italy”, proposta per la prima volta nel 2007, rivolta agli operatori stranieri con degustazione assistita.
La conoscenza dei vini e la scheda aziendale permette
ai buyers di contattare direttamente i produttori presso i loro stand nei giorni della manifestazione. E poi
ecco “Tasting Ex...Press”, una carrellata sulle migliori
produzioni mondiali presentate dalle più autorevoli
testate internazionali di settore. Sono invece i produttori a presentarsi direttamente ai giornalisti in “Taste
and Dream”, dedicato alle verticali d’eccellenza.
Ma non è finita qui: con “Trendy Oggi, Big domain”,
spazio completamente riservato ai vini e alle aziende
emergenti, una scelta ragionata in base al miglior
rapporto tra qualità e prezzo.
Festeggiamenti previsti il 4 aprile, quando sono in programma le celebrazioni per i 150 anni dell’impegno vinicolo di Gaja, una lunga e prestigiosa tradizione iniziata con la nascita della cantina nel 1859, a Barbaresco.
“Non c’è modo migliore per festeggiare questa ricorrenza che a Vinitaly”, sottolinea Angelo Gaja. Ed ecco quindi la degustazione guidata da Jancis Robinson, nota
wine writer britannica. Il ricavato della partecipazione
all’evento con la Robinson, che si annuncia eccezionale, sarà devoluto in beneficenza.
Tra le manifestazioni collaterali particolarmente attese dagli appassionati non professionisti, “Vinitaly for
you” è quella più importante, con un suo spazio ben
definito all’interno di Vinitaly, ma “fuori” dalla mani-
festazione (dedicata agli operatori specializzati), in quanto si svolge nel palazzo della Gran Guardia, nel centro
storico di Verona.
Seminari, dibattiti e momenti di approfondimento saranno dedicati per analizzare le numerose ricerche che verranno presentate proprio nel corso della manifestazione. Un esempio? Le ultime tendenze del turismo enogastronomico in Italia, pubblicate nel Rapporto annuale “Osservatorio sul turismo del vino” delle Città del
Vino, realizzato dal Censis Servizi Spa e presentato a
Bit 2009, la Borsa Internazionale del Turismo. Tra i
dati, emerge un elemento: la crescita del numero degli
eno-appassionati – dai 4,5 ai 6 milioni – in giro per
l’Italia, che scelgono di impiegare il tempo libero per
viaggiare il più possibile, alla ricerca di emozioni nuove
e slegate dal tradizionale tour verso il mare o la montagna, ma finalizzato all’insegna del cosiddetto
“wine&food”. Un trend che naturalmente fa felici gli
operatori del settore, con un volume di affari che si attesta sui 2,5 miliardi di euro.
29
Vinitaly
DEGUSTAZIONI VINITALY 2009
L’Ais organizza una serie
di degustazioni guidate
che si svolgeranno durante
la prossima edizione di Vinitaly.
Gli eventi si terranno
nella Sala D – 1° piano,
padiglione 9.
La quota di partecipazione
è di ! 18 da versare
presso lo Stand Ais – D10
Padiglione 7.
Le prenotazioni saranno accettate
fino a disponibilità dei posti.
Ricordiamo che lunedì 6 aprile
i soci Ais in regola con la quota
associativa 2009 entreranno
gratuitamente in fiera
dalla Porta San Zeno fino alle 12.30
(presentare la tessera associativa).
■■■ Giovedì 2 aprile
Per informazioni ed iscrizioni
[email protected]
■■■ Sabato 4 aprile
Dieci vini che hanno cambiato la storia
presentati dai campioni dell’Ais
Ore 14 – Sala Argento – Seminterrato Palaexpo
I vini bianchi del Friuli Venezia Giulia, innovativi ed estremi,
interpretati dai piccoli grandi vignerons
Ore 15 – Sala D – 1° piano padiglione 9
■■■ Venerdì 3 aprile
I Supertuscans. Il rilancio della Toscana
nella vitivinicoltura nazionale e internazionale
Ore 12 – Sala D – 1° piano padiglione 9
I vini passiti delle Isole: dolci, sensuali, morbidi
e dal carattere minerale
Ore 15 – Sala D – 1° piano padiglione 9
Il fascino e la personalità delle bollicine italiane,
Franciacorta, Trento e Oltrepò Pavese
Ore 11 – Sala D – 1° piano padiglione 9
Presentazione del Premio Internazionale
“Innovazione nella Professione”
Con l’occasione si degusterà Cartizze Vigna “La Rivetta”
abbinato a Culatello di Zibello
Ore 12 – Padiglione 6 Stand Villa Sandi E4
Amarone della Valpolicella: vino dal nerbo solido,
ricco di estratto, alcolico, rotondo e da lunga evoluzione.
Un gran cru per eccellenza
Ore 14 – Sala D – 1° piano padiglione 9
■■■ Domenica 5 Aprile
Lo Champagne: un vino dalle mille sfaccettature,
intrigante, esuberante, maestoso, complice, mai tranquillo!
Ore 11 – Sala D – 1° piano padiglione 9
Il Bordolese: vini eleganti ricchi di storia,
uno stile inconfondibile nel mondo
Ore 14 – Sala D – 1° piano padiglione 9
Piemonte, regione di grandi rossi, dove il vitigno Nebbiolo
nei diversificati terroirs esprime potenza, eleganza e longevità
Ore 17 – Sala D – 1° piano padiglione 9
■■■ Lunedì 6 aprile
Esordi: nuovi vini all’orizzonte
Dalle ore 11 in Sala Argento – Seminterrato Palaexpo
30
La rassegna veronese è anche interattività e high technology. “L’Italia del Vinitaly” è lo spazio che Vinitaly dedica su web alle Regioni, per poter presentare con largo
anticipo tutti gli eventi in programma e per tutto il periodo successivo anche alla fiera i propri territori e le produzioni oleicole e vitivinicole ad essi legati, le attività
promozionali e anche le iniziative che si svolgono all’interno dei singoli stand durante Vinitaly. Si tratta di una
finestra privilegiata che apre una panoramica sulle molteplici ricchezze che valorizzano e rendono davvero uniche al mondo le realtà regionali del Bel Paese.
E come dimenticare i tanti concorsi internazionali che
da sempre rappresentano un valore aggiunto per la manifestazione scaligera? Innanzitutto, una menzione particolare merita il “Concorso Enologico Internazionale
(www.vinitaly.com/concorsoenologico), il più selettivo al
mondo con solo il 3% di riconoscimenti assegnati sul
totale di 3.500 vini in media presenti.
Il “Concorso Internazionale di Packaging” (www .vinitaly.com/concorsoenologico) si pone come obiettivo quello di premiare la capacità delle aziende di dare un’immagine vincente ai propri prodotti tramite bottiglie, etichette, tappi e chiusure; infine, ecco il “Premio internazionale Vinitaly” che premia ogni anno l’imprenditore o
l’operatore del settore (media, sommelier, winemaker etc.)
che si è particolarmente distinto nel corso della propria
attività per valorizzare e promuovere il settore.
Chiusura con “Vino e gastronomia”, ideale punto di
incontro tra vino, cibo e olio extra vergine di oliva.
Vinitaly, Sol e Agrifood club organizzano, in collaborazione con i più noti chef al mondo, laboratori gastronomici e degustazioni di piatti realizzati con gli ingredienti della migliore tradizione culinaria italiana, in
abbinamento a una selezione di vini esposti. I Grandi
Ristoranti di Vinitaly (Ristorante d’Autore, dei Signori,
Sol Goloso e Cittadella della Gastronomia) completano
il menu della rassegna per soddisfare i palati, anche
quelli più esigenti, di tutti i visitatori.
Manifestazioni
La
Champions
League
degli
chef
di Morello Pecchioli
orbert Niederklofer è uno che
sa leccarsi le dita. Lo ha detto
Shakespeare: “Per la madonna, signore, cattivo cuoco è colui che
non sa leccarsi le dita” (Romeo e
Giulietta, atto IV, scena II). Ora, siccome tutto quello che Shakespeare
dice è vangelo e dato che Norbert
Niederkofler è un grandissimo chef,
due più due fa quattro. Grazie al
cuoco bis-stellato del St. Hubertus
di San Cassiano, le dita, alla Chef’s
Cup tenuta in Alta Badia dal 18 al
20 gennaio scorso, se le sono leccate anche i gourmet giunti da ogni
parte d’Italia. Norbert si è mosso da
perfetto padrone di casa: ha creato,
cucinato, insegnato, abbinato e sparso a piene mani sapere gastronomico e simpatia umana, ad un popolo
di adoranti ghiottoni. E’ stato lui a
inventare, per beneficenza, la Chef’s
Cup qualche anno fa. In poco tempo
la manifestazione è talmente cresciuta da diventare la Champions League
dei grandi cuochi. Vi partecipano i
Kakà, i Beckham, gli Ibrahimovic, i
Del Piero dei fornelli: i campioni stellari della cucina italiana e di quella
internazionale.
Quest’anno è scesa in campo una squadra di lusso, dodici cuochi tra i miglio-
N
32
▲ Marica Bonomo e lo chef Norbert Niederkofler
ri d’Italia più uno, grandissimo, francese. Li citiamo in ordine sparso precisando che i primi sette hanno una
stella Michelin (piaccia o no, la stella di
Bibendum è l’unità di misura alla Chef’s
Cup) e i secondi sei ne vantano due: 19
stelle brillanti nel piccolo firmamento
pieno di neve e di bontà che era la Val
Badia a gennaio.
Ecco i “galacticos” scesi in campo nei
vari appuntamenti gastronomici delle
tre giornate: Claudio Melis (La Siriola,
San Cassiano), Arturo Spicocchi (Stüa
de Michil, Corvara), Maura Gosio (La
Piazzetta di Ferno, Varese), Giuseppe
Guida (Osteria della Nonna, Vico
Equense), Giancarlo Morelli (Osteria del
Pomiroeu, Seregno), Antonio Guida (Il
Pellicano, Porto Ercole, Grosseto),
Luciano Zazzeri (Bibbona Marina, La
LA RICETTA
Polipo brasato all’amarone
su purè di fagioli Risina
e fegato grasso affumicato
Ingredienti per 4 persone
■■■ Per il polipo
- 1 polipo piccolo
- 2 cucchiai di olio
extravergine di oliva
- 2 spicchi di aglio
- 1 foglia di alloro
- 1 gambo di sedano
- 1 carota
- 1 cipolla
- ½ bottiglia di Amarone
■■■ Per il purè di fagioli Risina
- 200 gr di fagioli Risina
- una foglia di alloro
- uno spicchio di aglio
- una noce di burro
- ½ gambo di sedano
- ½ carota
- 1 cipolla bianca piccola
- 1lt circa di brodo
▲ Polipo brasato all'amarone, ricetta di N. Niederkofler
■■■ Per il fegato grasso affumicato
80gr circa di fegato grasso d’oca affumicato
■■■ Il polipo
In una pentola con il fondo spesso ed abbastanza grande da contenere il polipo
intero, scaldare bene l’olio e rosolarvi il polipo. Quando questo inizia a rilasciare il
suo liquido aggiungere l’aglio, l’alloro, le verdure tagliate a pezzi e l’Amarone.
Coprire e cuocere fino a che il polipo sará morbido (aggiungere un po’ di acqua
se necessario).
Passare poi la salsa passando al chinois anche le verdure (schiacciandole bene
con l’aiuto di un mestolo) e ridurla a giusta consistenza.
Prendere il polipo, eliminare l’”occhio” e le ventose piú grandi, tagliarlo a pezzi non
troppo piccoli.
■■■
Il purè di fagioli Risina
Mettere a bagno i fagioli Risina in acqua fredda per 12 ore.
Soffriggere velocemente le verdure, le erbe e l´aglio, aggiungere i fagioli sgocciolati e coprire con il brodo. Portare ad ebollizione e continuare a cuocere lentamente fino a cottura ultimata (circa 40 minuti) aggiungendo brodo se necessario.
Frullarne ¾ e conservare il resto intero da aggiugere al purè all’ultimo momento.
Adagiare sul fondo del piatto il purè di Risina e posarvi i pezzi di polipo intiepiditi
nella loro salsa all’Amarone. Terminare con una fettina di fegato grasso affumicato.
33
Manifestazioni
Pineta, Livorno); Gennaro Esposito (Il
Saracino, Vico Equense), Valeria Piccini,
(Da Caino, Montemerano, Grosseto),
Giovanni D’Amato (Il Rigoletto, Reggiolo),
Andrea Berton (Trussardi alla Scala,
Milano), Jean-Andrè Charial (L’Oustau
de Baumaniere, Baux de Provence,
Francia). E Norbert Niederkofler, ovviamente. Grandissimi piatti, vini superbi: altoatesini alla cena di benvenuto,
veronesi dell’azienda agricola Monte del
Fra di Sommacampagna, abbinati ai
piatti del Pasta Party al parterre della
gara di sci, maremmani al rifugio Piz
La Ila la seconda sera, champagne
Paillard al brunch del martedì e internazionali al Gala Dinner che ha chiuso le manifestazioni.
Evento nell’evento è stato l’appuntamento con l’Amarone 2005 Lena di
Mezzo dell’azienda Monte del Fra. Una
presentazione due volte straordinaria:
per il vino in se stesso, presentato in
assoluta anteprima (l’Amarone annata
2005 viene commercializzato quest’anno) e per i due piatti abbinati da Norbert
Niederkofler al vino della famiglia
Bonomo: “Polipo brasato all’Amarone
Lena di Mezzo 2005 con fegato grasso
affumicato e crema di fagioli Risina” e
“Risotto di mele cotogne con filetto di
lepre selvatica, tartufo nero e un pizzico di lime”.
E’ stata un’esperienza indimenticabile.
Il trionfo del gusto: cultura, creatività
e sapienza di abbinamento coniugati
con la massima semplicità. L’Amarone
Lena di Mezzo 2005 rappresenta una
nuova concezione di Amarone: rispettoso del territorio, la Valpolicella, e dei
suoi magici vigneti di Corvina,
Corvinone e Rondinella, ma comprensibile ed elegante. E, pure, grande protagonista in pentola. Che fosse un grande attore, in cucina, si sapeva. Un re è
sempre un re, sul trono o tra i fornelli.
La tradizionale cucina veronese lo dimostra: è protagonista assoluto nel risotto all’Amarone- il duetto che recita col
vialone nano veronese igp è da applausi scroscianti- e comprimario di lusso
34
nello stracotto d’asino (“stracoto de
musso”, lo chiamano i veronesi che adorano mangiarlo con la polenta). Si ha,
però, l’impressione che i grandissimi
chef non abbiano, almeno finora, avuto
il coraggio o la fantasia di usarlo nella
preparazione di piatti superbi.
L’Amarone in pentola, insomma, non
ha ancora avuto la possibilità di recitare al meglio la sua parte di vino shakesperiano, pronto a dominare la scena.
Ci voleva l’altoatesino Niederklofer per
regalarci l’indimenticabile emozione di
assistere alla creazione di un nuovo
incredibile piatto: “Polipo brasato
all’Amarone Lena di Mezzo 2005 con
fegato grasso affumicato e crema di
fagioli Risina”, appunto. In sala aleggiava lo spirito di Jean Anthelme BrillatSavarin, il fondatore della moderna
gastronomia: “La scoperta di un nuovo
piatto dà più gioia all’umanità che la
scoperta di una nuova stella”. Piatto e
vino superbi.
“Musica”, ha sintetizzato Terenzio Medri,
presidente nazionale dell’Associazione
italiana sommelier, riverito ospite della
manifestazione. “Un abbinamento da
Champions League: piatti di grande
innovazione e vino eccezionale, da oscar
dell’eleganza. Sono stato il fortunato
spettatore di un matrimonio davvero
unico”. “E’ un vino che unisce splendidamente innovazione a tradizione”, ha
aggiunto Davide Di Corato, direttore del
mensile enogastronomico Horeca, “finalmente un amarone non stucchevole,
non lezioso. E’ un Amarone non impegnativo, ma puoi decidere se farlo diventare impegnativo. Rappresenta un’evoluzione del gusto, come si evolve la cucina è giusto che si evolva il vino”.
L’Amarone Lena di Mezzo di Monte del
Fra nasce in piena Valpolicella classica,
nel comune di Fumane. Le vigne di
Corvina, Corvinone, Rondinella, salgono dai 150 ai 300 metri della piccola vallata del torrente Lena che garantisce
una eccezionale ventilazione naturale,
con sbalzi termici che irrobustiscono le
uve che al mattino si svegliano asciut-
te. Praticamente il marciume dovuto a
una eccessiva umidità, qui non lo conoscono. La ventilazione naturale fa crescere le uve sane e, successivamente,
le fa appassire naturalmente nel fruttaio. I terreni fino ai 200 metri portano in
dono al vino la struttura medio-alta. I
terreni rossi, calcarei, sui 300 metri gli
regalano la complessità aromatica.
“Puntiamo molto sulla freschezza e sulla
tavolozza aromatica naturale”, spiega
Claudio Introini, l’enologo che, con Eligio
e Claudio Bonomo, “firma” l’Amarone
Lena di Mezzo. “Un altro aspetto che privilegiamo sono i lieviti autoctoni. Quando
si hanno in mano uve così, è nostro dovere assecondarle. L’attenzione enologica
è altissima: pigiatura soffice, macerazione a freddo, fermentazione spontanea.
E poi? Poi il 25 per cento viene messo in
legno piccolo, rovere francese, il resto
nelle botti da 35 ettolitri, sempre di rovere francese”.
Risultato un grande vino. Profumi,
corpo, rotondità ed eleganza esaltati ed
esaltanti. Introini, del resto, è abituato
a evidenziare i caratteri più identificativi delle uve. Come fa con il nebbiolo della
sua Valtellina: i suoi Sforzat sono la sua
fotografia di enologo preparatissimo, di
grande umanità e modestia: vini in assoluto equilibrio tra struttura ed eleganza. “Ma l’Amarone”, dice, “ha qualcosa
che va oltre. Ha possanza, è un vino più
immediato, che affascina nelle degustazioni anche se, talvolta, si privilegiano
troppo i muscoli a scapito dell’eleganza. Con il Lena di Mezzo puntiamo su
un Amarone elegante, che in termini di
macerazione non si spinga oltre i tempi
in cui emergono tannini e polifenoli che
finirebbero per prevalere sull’eleganza”.
Insomma si gioca sugli zuccheri: residui che in Valtellina porterebbero lo
Sforzat a una disarmonia, ma che nella
piccola vallata sopra Fumane rendono
questo Lena di Mezzo un Amarone di
nuova generazione, più affascinante in
bocca e indelebile nel cuore. Una cartolina dalla Valpolicella, con l’anima del
territorio.
Riforma Ocm
La parola d’ordine
di Cesare Pillon
TRA
QUALCHE MESE
LA RIFORMA
DELL’ORGANIZZAZIONE
COMUNE DI MERCATO
SARÀ OPERATIVA:
È GIÀ COMINCIATA
LA CORSA CONTRO
IL TEMPO
PER REGOLAMENTARE
DOC
DIVERRANNO DOP
LA FORESTA DELLE
CHE
36
partire dal primo agosto, la
gestione delle 472 (attuali)
denominazioni d’origine del
vino italiano sarà affidata a Bruxelles
e ogni variazione diventerà quindi di
più difficile e complessa attuazione.
Prima che questa disordinata foresta di nomi venga pietrificata dall’euroburocrazia sarebbe opportuno
mettervi un po’ d’ordine, ma purtroppo non è possibile: la commissione
presieduta da Giuseppe Martelli, cui
il Ministro delle Politiche Agricole,
Luca Zaia, ha dato il compito di traghettare il vino italiano dalle Doc alle
Dop, per attuare la riforma dell’Ocm
(Organizzazione comune di mercato), ha troppe gatte da pelare, nei
pochi mesi che rimangono, perché
A
trovi anche il tempo per razionalizzare le denominazioni.
Eppure Dio sa quanto ce ne sarebbe
bisogno. La questione più seria a cui
bisognerebbe porre rimedio è un problema di comunicazione: le denominazioni controllate sono garanzie ufficiali fornite in etichetta, e l’etichetta è lo strumento più immediato che
consente a chi produce vino di parlare a chi lo beve. Il problema però
è questo: non si può pretendere che
un normale consumatore, anche se
amante del vino, anche se appassionato, memorizzi i nomi di 316 Doc,
38 Docg e 118 Igt (ed è possibile che
queste cifre aumentino, prima di agosto). Se è già difficile, per un bevitore occasionale italiano, orientarsi in
è razionalizzare
una tale sovrabbondanza di opzioni,
è facile immaginare la confusione che
essa genera all’estero. Ma perché i
nomi da ricordare sono così tanti?
Per varie ragioni. La più evidente è
che sono espressione di entità assurdamente diverse tra loro, ufficializzate alla rinfusa senza un disegno
logico e coerente: che cos’ha in comune la Docg Chianti, che coprendo
buona parte di una regione come la
Toscana riguarda centinaia di produttori e milioni di bottiglie, con la
Doc Loazzolo, che nasce in un villaggio astigiano di 354 abitanti, e con
la Doc Bolgheri Sassicaia, rappresentata da un solo produttore?
Spesso lo si dimentica, ma lo scopo
di fondo delle Doc dovrebbe essere
quello di guidare i consumatori di
tutto il mondo verso vini che essi
siano in grado di identificare e di cui
possano avere fiducia. I loro nomi
dovrebbero perciò soddisfare due esigenze primarie: essere rassicuranti e permettere di individuare
con facilità il territorio in
cui nasce il vino da
essi designato. E buona parte delle
Doc italiane risponde effettivamente a queste caratteristiche, anche se
i loro territori sono di diversa estensione e di differente importanza
(Roero, Oltrepò Pavese, Soave, Colli
di Parma, Cortona). Non tutte, però,
possiedono entrambi i requisiti
richiesti. Il Bosco Eliceo, per esempio, ha un nome molto suggestivo,
ma quanti italiani sanno dov’è situato? Quanti, leggendo Pergola, non
pensano affatto a un comune marchigiano ma piuttosto al modo in cui
sono allevate le viti? E quanta fiducia può riporre un consumatore nel
vino di Cisterna?
Ma questi sono peccati veniali. Il fatto
più preoccupante è un altro: non
tutte le Doc sono denominazioni
d’origine pure e semplici. Molte, trop-
pe, al nome della località geografica
accoppiano quello di un vitigno
(Grignolino d’Asti, Vernaccia di San
Gimignano, Verdicchio dei Castelli di
Jesi, Aglianico del Vulture). E questa
aggiunta, che sposta il baricentro del
nome sulla varietà dell’uva, ha immediatamente messo in moto un meccanismo perverso che ha stimolato
la proliferazione delle Doc: ogni altra
zona in cui si vinificano in purezza le
stesse uve si è infatti sentita in dovere di pretendere un’altra denominazione in concorrenza: Grignolino del
Monferrato casalese, Vernaccia di
Serrapetrona, Verdicchio di Matelica,
Aglianico del Taburno.
Il record appartiene al Piemonte, che
di Dolcetto è stato costretto a riconoscerne addirittura sette: d’Acqui,
d’Alba, d’Asti, delle Langhe monregalesi, di Diano d’Alba, di
Dogliani, di Ovada.
37
Riforma Ocm
C’è da ringraziare il cielo che non si
sia propagata anche la gara a creare nuove denominazioni di Vin Santo,
dopo che in Toscana l’hanno chiesta
e ottenuta tre zone: il Chianti, il
Chianti Classico e Montepulciano.
Più ragionevolmente, tutti gli altri
territori dove si produce questa tipologia, hanno deciso di classificarla
semplicemente come variante all’interno di una Doc già esistente:
Trentino Vino Santo, per esempio, o,
nella stessa Toscana, a Montalcino,
Sant’Antimo Vin Santo. Questa scelta ha evitato che le Doc dei Vin Santo
diventassero ancor più numerose di
quelle dei Dolcetto e si diffondessero in varie regioni. Ma c’è anche il
rovescio della medaglia, che non va
sottovalutato: la coesistenza dei Vin
Santo inglobati nella Doc del territorio e dei Vin Santo con una Doc autonoma è una contraddizione che dà
una netta impressione di sciatteria
e fa pensare che i vini italiani vadano in giro per il mondo scomposti e
approssimativi come un’armata
Brancaleone, ognuno per sé e Dio
per tutti. E il grave è che le cose stanno proprio così.
Il nome del vitigno abbinato a quello del territorio, anche se quasi sempre è imposto dalla tradizione, rappresenta sicuramente un errore, in
un paese come l’Italia che ha scelto
le denominazioni d’origine geografica per tutti i suoi prodotti agroalimentari. Il vitigno si può infatti piantare dovunque: nessuno sfrutta questa possibilità se la sua diffusione è
limitata, ma quando il vino che se ne
trae ha successo, può far gola a molti
imitarlo altrove e sfruttarne la fama
saltando sul carro vincente. E sono
subito guai.
La prima grana provocata da un caso
38
del genere scoppiò qualche anno fa
per il Brunello di Montalcino, quando si scoprì che la sua denominazione era abusivamente utilizzata da
qualche disinvolto produttore del
nuovo mondo, che aveva impiantato viti di sangiovese del clone chiamato Brunello. Legalmente si poteva vietare al plagiatore soltanto l’uso
della parola Montalcino: è un toponimo che si può attribuire esclusivamente ai prodotti che scaturiscono dal territorio di quel comune. Ma
il termine Brunello non gli si poteva impedire di utilizzarlo. Per riuscirci fu necessario cancellare quel nome
dal registro dei cloni omologati di
sangiovese e brevettare la denominazione Brunello di Montalcino come
marchio depositato.
Attualmente è il Prosecco, premiato
da una clamorosa affermazione all’export, che bisogna salvare dalle imitazioni straniere, e si spera di riuscirci in tempo utile, cioè prima di agosto, grazie a un piano suggerito da
Gianni Zonin e attuato dalla Regione
Veneto. Di che cosa si tratta? La riuscita di questo spumante che nasce
tra Conegliano e Valdobbiadene (oltre
57 milioni di bottiglie per un valore
di 370 milioni di euro) fa gola anche
fuori dei confini italiani: nell’Est europeo, soprattutto in Romania, sono
stati impiantati enormi vigneti pronti a inondare il mondo con fiumi di
Prosecco.
Come impedirlo? Prosecco è il nome
di un vitigno e può essere usato ovunque da chiunque. Ma se il vino avesse una denominazione geografica gli
stranieri non potrebbero utilizzarla.
E allora? Allora si è scoperto che probabilmente questa varietà ha preso
nome dalla località Prosecco presso
Trieste (dove si coltiva con il nome
di Glera). Basta perciò estendere la
Doc a tutte le zone del Veneto e del
Friuli in cui è autorizzata la sua coltivazione facendo esplicito riferimento a quella località e si otterrà la tutela internazionale. Geniale, no?
Nell’oltretomba Niccolò Machiavelli
si dev’essere sentito fischiare le orecchie.
E’ confortante che gli italiani trovino sempre modo di cavarsela grazie
alla loro fantasia, ma non si può
andare avanti solo a colpi di furbate. Bisognerebbe avere idee geniali
sul modo migliore di razionalizzare
la situazione, non sulle tattiche da
seguire per rattopparne le falle. Qual
è il difetto di fondo delle denominazioni d’origine all’italiana? Che non
sono state pianificate (come in
Francia) con una struttura a piramide: denominazione d'un territorio
molto vasto (per esempio, Bordeaux),
all'interno del quale far emergere
zone più piccole particolarmente privilegiate (Pauillac, Margaux, Graves),
ed enucleare i loro vertici nei vigneti più vocati (Château Latour piuttosto che Château Haut-Brion).
L’esigenza di arrivare anche in Italia
a un sistema altrettanto semplice e
comprensibile non è avvertita solo
adesso, se ne discute da molto
tempo: la proposta più interessante
fu avanzata, a un dibattito svoltosi
durante il Vinitaly del 1989, da un
giornalista americano che vive in
Italia, Burton Anderson, e che conosce i problemi del vino italiano più
di molti giornalisti italiani. “Non ci
sono soluzioni semplici per la classificazione”, sostenne, “ma come giornalista che ha di fronte lo scoraggiante compito di spiegare il vino italiano ai lettori stranieri, proporrei un
concetto che sembrerebbe fornire la
chiarezza e la logica che ora mancano. Il sistema dovrebbe riconoscere
ogni regione come una Doc primaria, il cui nome dovrebbe essere in
etichetta per tutti i vini che raggiungono o superano un dato standard
di qualità”.
Il progetto, spiegò Anderson, avrebbe il massimo effetto all'estero se per
prime fossero valorizzate le più importanti regioni e i loro vini. “Più della
metà di tutto il vino a Doc” fece notare, “oggi è prodotto in tre sole di esse:
il Veneto, la Toscana e il Piemonte. Gli
stranieri spesso hanno qualche problema nell'indicarle su di una carta
geografica, figuriamoci poi nel sapere
quale produca l'Amarone, il Brunello
o il Barolo. Ma se ciascun vino di qualità indicasse il nome della regione, i
consumatori comincerebbero a orizzontarsi, proprio come hanno fatto da
tanto tempo per lo Champagne, il
Borgogna e il Bordeaux” . Delle tre
regioni a cui Anderson aveva indirizzato con maggior calore il suo sug-
gerimento, l’unica che nei 20 anni
trascorsi da allora ha utilizzato il proprio nome per istituire una Doc è
stata il Piemonte. Ma lo ha fatto per
un motivo molto particolare: perché
nel proprio ambito ha voluto orgogliosamente riconoscere soltanto
Docg e Doc, e si è rifiutata di istituire anche solo un’Igt (Indicazione geografica tipica), categoria che Veneto
e Toscana hanno ritenuto viceversa
più adatta per la denominazione
regionale.
Il lato più sconfortante dell’iniziativa è che invece di unificare le troppe denominazioni esistenti, la Doc
Piemonte è servita al contrario a moltiplicarle. Come mai? E’ molto semplice: poiché, assurdamente, la denominazione Piemonte non è stata attribuita all’intero territorio regionale,
ma soltanto ai territori viniferi delle
province di Alessandria, Asti e
Cuneo, tutte le zone produttive minori delle altre province, che avrebbero potuto esservi felicemente inglo-
bate, sono state costrette invece a
istituire nuove Doc. E non sono
poche, sono almeno sette: Canavese,
Collina torinese, Colline novaresi,
Colline saluzzesi, Coste della Sesia,
Pinerolese, Valsusa.
Dunque, per quanto lavori, e lavori
bene, la commissione presieduta da
Giuseppe Martelli consegnerà fatalmente alla gestione di Bruxelles una
mappa di denominazioni bisognosa
di radicale ristrutturazione. Che non
potrà essere attuata con la rapidità
che sarebbe auspicabile.
L’unica speranza è che si ripeta il
miracolo di 30 anni fa, quando per
reazione alle assurde imposizioni
della normativa sulle Doc, nacquero quei vini che oggi si chiamano
SuperTuscan. A pensarci bene è
l’unica classificazione semplice e
comprensibile che agevola la diffusione dei vini italiani su scala internazionale. Anche se non ha alcun
valore legale (o forse proprio per questo, chissà).
D a l l e T er r e
di P a n za no
I
g r a n di v i n i
del
Il Molino di Grace
Chianti
loc. il Volano-Lucarelli - 50020 Panzano in Chianti (FI) Italia - Tel. +39 055 8561010 Fax +39 055 8561942 - www.ilmolinodigrace.com - [email protected]
Vino e finanza
crisi
il bicchiere
Dopo la
sarà mezzo pieno
LA
CRESCENTE RICHIESTA DALL’ASIA RISOLLEVERÀ LE ESPORTAZIONI ITALIANE
ED EUROPEE: MA PER CONQUISTARE I NUOVI MERCATI OCCORRE RINNOVARSI
E STUDIARE STRATEGIE ADEGUATE.
A
COMINCIARE DAI PREZZI
di Lorenzo Simoncelli
opo aver illustrato nel numero precedente le opportunità e le modalità di investimento in fondi vinicoli, questa volta,
spinti dalle congiunture economicointernazionali e dall’esigenza di un
ritorno all’economia reale, anche nel
vino, ci concentriamo su una serie
di dati che fanno riflettere. Se, infatti, come abbiamo visto nei mesi scorsi il comparto di investimenti vitivinicoli sembra non aver accusato
il colpo della crisi finanziaria, la produzione di vino in Europa invece nel
2009 subirà un calo. Secondo dati
della Copa–Cogeca (organizzazione
degli agricoltori e delle loro cooperative nell’Unione Europea) la produzione europea di vino scenderà
dai 172,98 milioni di ettolitri dello
scorso anno a 169,77 ettolitri. Una
flessione dell’ 1,85%. Numeri che,
nonostante il segno meno, rappresentano un miraggio per gli altri settori industriali, auto su tutti, che
D
40
hanno registrato perdite di cinquanta volte superiori. Se però si vanno
a prendere le medie di produzione
degli ultimi cinque anni, la flessione
aumenta. Come ha infatti osservato
Alejandro Garcia Gasco, vicepresidente del Comitato consultivo Vino
dell’Ue, «la produzione stimata per
quest’anno prevede una riduzione
del 7%».
A confermare le dinamiche tutt’altro
che scontate, in questa particolare
fase economica, la caduta dei prezzi delle uve nella maggior parte dei
paesi europei, nonostante la diminuzione della produzione. E’ vero che
il prodotto vino non va inteso in
senso quantitativo, ma qualitativo,
e quindi differisce in parte dalle logiche di mercato e di produzione, ma
è anche vero che una riduzione così
drastica (- 37% in Spagna) del prezzo delle uve non era previsto, né in
qualche modo ravvisabile. Ma non
tutti i mali vengono per nuocere. In
ottica nazionalistica, infatti, c’è da
sorridere. Le dinamiche economiche
e le condizioni atmosferiche che
hanno colpito i vigneti francesi la
scorsa estate, hanno fatto sì che nel
2009 la produzione italiana molto
probabilmente supererà quella dei
nostri cugini d’oltralpe. Saranno,
infatti, circa 45 milioni gli ettolitri
prodotti da noi, contro i 42 della
Francia, che ha così perso il podio,
almeno per quest’anno, di primo
paese produttore al mondo.
Accantonata la chiave patriottica, ciò
che lascia riflettere è il calo notevole di produzione registrato da alcune delle più nobili etichette: - 5%
rispetto all’annata 2007 - 2008. Nella
speciale classifica della produzione
annua di uva al terzo posto si classifica la Spagna con circa 40 milioni di ettolitri prodotti. Ma il paese di
re Juan Carlos, non promette alcunché di buono per i prossimi mesi.
Stime aggiornate prevedono che sarà
uno dei Paesi europei che si rialzerà
più lentamente dalla situazione
attuale di stallo. E il settore vitivinicolo di certo non gli darà una
mano. Infatti, la produzione è diminuita tra l’8% e il 12% rispetto all’anno precedente e i prezzi delle uve e
delle bottiglie sono pressoché bloccati. Dura la critica di Alejandro
Garcia Gasco, vicepresidente del
Comitato consultivo Vino dell’UE,
▲ Hong Kong, nuovo epicentro del commercio vinicolo asiatico
che contesta l’Ocm (Organizzazione
comune del Mercato) per non aver
stilato un disegno chiaro e comune
per uscire dalla crisi.
Nonostante ormai la parola “comune”, quando si parla dell’Europa a
ventisette, viene proposta come fosse
prezzemolo, non tutti i Paesi europei
produttori di vino hanno avuto lo
stesso destino negativo. E così a uscire dal coro dei “segni meno” tocca
inaspettatamente alla Germania, che
con i suoi 10 milioni di ettolitri prodotti, pari a un quarto di quelli italiani, farà registrare un aumento del
10-15% sempre nel 2009. A chiudere questo panorama europeo fatto di
sorprese e sorpassi c’è il Portogallo.
Un Paese in grande difficoltà, il cui
rating (per quello che vale) sarà
declassato, e la cui produzione vinicola farà segnare una riduzione del
30% sulla media degli ultimi cinque
anni. A questo si aggiungerà anche
una flessione dei prezzi, Porto compreso, intorno al 2%.
La situazione generale vitivinicola
non è dunque delle più rosee, colpa,
anche e soprattutto, della contrazione del credito al consumo, che inevitabilmente produce una riduzione
di acquisti primari e accessori, tra
cui il vino. Premesso questo, c’è chi
come Alejandro Garcia Gasco, vicepresidente del Comitato consultivo
Vino dell’UE, ritiene responsabile
di questa situazione l’Ocm. Sia per
aver eliminato alcune regolamentazioni, sia per aver ridotto gli aiuti alla
produzione.
Fatto sta che oggi la riduzione degli
ettolitri e la caduta dei prezzi delle
etichette fa sì che molte cantine non
riescano, o riescano appena, a coprire i costi di gestione.
Detto questo non bisogna perdere
l’entusiasmo che contraddistingue
un buon produttore di vino e per farci
tornare un po’ di buon umore basta
mettere il naso fuori dal nostro vecchio e amato continente. Più precisamente in Asia. Infatti, il mercato
asiatico sarà il protagonista del settore vinicolo nel 2009.
Dopo anni di previsioni dubbiose e
futuri incerti è arrivato il momento
delle certezze. Il consumo di vino in
Asia è aumentato notevolmente e la
tendenza continuerà. Nei prossimi
cinque anni si registrerà un ulteriore incremento della domanda tra
il 10% e il 20%, a margine di una crescita media mondiale che sfiorerà
l’1%. A guidare la riscossa asiatica
la Cina e in particolare la città di
Hong Kong, nuovo epicentro del commercio vinicolo. Si aspettava solo la
decisione governativa di abolire la
tassa del 40% sul vino (solo ad Hong
Kong) per far esplodere un mercato
che già da tempo covava enormi sorprese e attese. Basti pensare che il
23% dei lotti vinicoli delle principali aste internazionali sono venduti
ad acquirenti di Hong Kong.
Per sfruttare i benefit fiscali le principali case d’asta internazionali
hanno trasformato la città cinese
nella porta d’ingresso d’oriente ai
grandi vini europei. Il 2009 sarà dun41
Vino e finanza
que l’anno delle conferme, con un record da battere: superare gli 8,2 milioni di dollari di vini battuti in un sol giorno dalla casa d’asta statunitense Acker Merrall. Non tutti però sono concordi sul
ritenere che Hong Kong diventerà la porta d’ingresso del mercato continentale. Tra gli scettici,
Don St Pierre, padre fondatore dell’Asc, il maggiore importatore di bottiglie del paese asiatico: «Con
tutta la burocrazia che c’è in Cina mi sembra molto
difficile che il mercato del vino si possa espandere così senza grossi vincoli. C’è qualcosa che non
mi quadra». Parole forse, mosse dal fatto, che le
autorità cinesi in seguito a una normale ispezione su un carico importato, hanno arrestato suo
figlio, rilasciato poi un mese dopo. Le leggi locali,
tra l’altro, autorizzano i funzionari di controllo a
prendere tre bottiglie di vino dal carico per “analizzarlo”. Ora bisognerebbe capire cosa si intende
per analizzarlo, anche perché su una partita di
200 bottiglie di una normale etichetta è poco grave,
ma su un carico di sei bottiglie di Lafite ’96, il controllo sarebbe alquanto costoso.
La scommessa giocata dagli esportatori europei
sulla diffusione del vino di qualità è stata ampiamente vinta. Ora per rendere il vino globale nei
Paesi emergenti, c’è da giocare la partita più difficile, e cioè coinvolgere un largo strato di consumatori, magnati esclusi. La sfida da vincere è educare il consumatore al vino, perché come abbiamo
più volte ripetuto e non ci stancheremo mai di farlo,
il vino, prima che business e piacere, è cultura.
In Paesi (quasi tutti gli emergenti), dove la diffusione media di enofili non è neanche lontanamen-
Hong Kong (⾹港 Pinyin Xiānggǎng
– Porto Profumato)
è una regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese.
Formata da una piccola penisola della costa meridionale cinese e da 236 isole
nel Mar Cinese Meridionale, fra cui l'isola di Hong Kong, seconda per estensione
all'isola di Lantau. Con la politica di "un paese, due sistemi" Hong Kong gode
di autonomia amministrativa e di una propria valuta, il dollaro di Hong Kong.
Importantissimo centro commerciale e finanziario, turistico e aeroportuale.
Area totale:
Popolazione:
Densità:
PIL (2008):
42
1.104 km²
6.985.200
6.327 ab./km²
293.400 milioni di $
te paragonabile a quella europea, la prossima sfida
sarà puntare sulla quantità. La previsione, quasi
la certezza, è che la crisi economica in corso non
permetterà grosse spese almeno fino al 2010, e in
questo senso aiuterà a incrementare ulteriormente la domanda di etichette low cost. Anche perché
non è ragionevole pensare che in paesi dove fino
a pochi anni fa alla voce bevande si leggeva birra
e sakè, ora si trovi una prestigiosa e costosa etichetta d’annata. Tempo al tempo.
E’ certo però che in una fase economica di profonda ristrutturazione anche l’industria vitivinicola
dovrà rinnovarsi e scovare nuove opportunità.
Questo dovrà essere lo scenario per una diffusione globale del nettare di bacco nel nuovo e nel vecchio mondo. E come sempre un ruolo fondamentale sarà svolto da quelli che sono i “padri fondatori” del vino: la Francia, l’Italia e la Spagna. In
particolare sarà proprio il Paese transalpino a dover
modificare maggiormente le sue abitudini nella
produzione. Non solo vino di alta qualità, ma anche
vino a prezzi più accessibili per i mercati esteri e
per non rimanere un mercato di nicchia. Tirando
le somme, dopo questa lunga analisi, tutti coloro
che lavorano nell’industria-vino possono ritenersi fortunati e tirare un lungo sospiro di sollievo.
Perché l’uragano ormai è passato, e nonostante
qualche danno, circoscritto e inevitabile, la maggior parte dei produttori è salva. A loro un consiglio per il futuro. Non più solo bottiglie di qualità,
ma una gamma completa, perché la domanda è in
aumento, ma non a tutti i costi. E’ la dura legge
del mercato. Dura lex, sed lex.
Turismo
▼ Le Cinque Terre
Gridiamo al mondo
LA FRANCIA
È IL
PAESE
PREFERITO DAI TURISTI STRANIERI: LO
STIVALE
È
SOLO QUINTO. IL PROBLEMA RISIEDE NELLA COMUNICAZIONE, MA ANCHE NELLA
MANCANZA DI INFRASTRUTTURE E DI COLLEGAMENTI FERROVIARI ADEGUATI
di Elisa della Barba
ori Imperiali, Roma. Tiepida giornata di ottobre,
cielo terso e sole autunnale. Con in testa l’ennesima statistica pubblicata che proclama la Francia
come il Paese più visitato al mondo (per numero di
turisti stranieri) e Parigi come città, ci si chiede come sia
possibile che i nostri monumenti, il nostro clima, la nostra
gastronomia possano essere solo al quinto posto dietro a Francia,
Spagna, Stati Uniti e Cina (Statistica World Tourism Organization 2008).
Anche la rivista Americana International Living ci dà il massimo dei punti
per quanto riguarda la categoria della cultura e del tempo libero ma poi ci
lascia settimi nel Quality of Life Index del 2008 (classifica generale). La vincitrice? Neanche a dirlo, la Francia.
Nove le categorie considerate per la valutazione finale: il costo della vita, la
cultura e il tempo libero, l'economia, l'ambiente, la libertà, la salute, le
F
44
▼ Costa Azzurra, Cannes
quant’è bella
l’Italia
infrastrutture, la sicurezza e il clima. Dal profilo tracciato, la Francia (tolta
Parigi) appare meno cara dell’Italia. E al contrario del Bel Paese offre infrastrutture che sono fra le migliori del mondo e una presenza numerosa di
imprese private che la rende molto competitiva.
Con quasi 82 milioni di arrivi (di cui 45 milioni con 4 o più notti di
pernottamento) tra Europa, America, Asia, Africa e Medio
Oriente, la Francia è campionessa mondiale per quanto
riguarda il turismo. I principali visitatori stranieri:
l’Inghilterra, la Germania, il Belgio e l’Italia.
Nel 2007 i turisti stranieri hanno speso in Francia
39,6 miliardi di euro, con un 7,2 % di crescita rispetto al 2006, mentre i francesi hanno speso all’estero
26,8 miliardi di euro, con un 7,8% di crescita, per un
saldo riguardante il turismo pari a 12,8 miliardi di
euro cioè un 6% in più rispetto al 2006.
Con 25.707 hotel, 13.172 strutture ospitanti alternative e
112.221 ristoranti (al 2007), la Francia genera ogni anno una
media di 894.000 posti di lavoro direttamente connessi al turismo. Il World Tourism Organization per il 2007 annuncia risultati soddisfacenti anche per l’Italia: + 7% di turisti. Nonostante questo, le strutture alberghiere sono in ribasso. Bilanci negativi infatti
per l’Associazione Italiana Catene Alberghiere (AICA), che danno un tasso
di occupazione delle camere al -1,4% totali per il 2007 rispetto al 2006,
presentando in special modo un forte calo al Sud. L’incongruenza fra aumento dei turisti e diminuzione delle prenotazioni alberghiere è presto spiegato: più crociere in Italia rispetto al passato – nessun bisogno di camera
45
Turismo
▲ Parigi, dai Jardin des Tuileries
con il Louvre alle spalle si gode
un magnifico colpo d’occhio che
abbraccia gli Champs Élysées,
l’Arc de Triomphe e i palazzi
della “Défense”
▲ L’EDF Tower nel modernissino
quartiere della “Défense”
▲ Il TGV, il famoso treno francese
ad alta velocità
46
d’albergo quindi – e un 10% in più di visite nelle città d’arte che però molto
spesso si riducono a un paio di giorni. Va detto poi che molto spesso le statistiche – come quella del Wto – includono negli arrivi anche i semplici transiti negli aereoporti, che quindi non vogliono necessariamente dire anche
pernottamento.
Resta il fatto che il turismo italiano nel 2007 ha registrato i risultati migliori degli ultimi cinque anni, con un record di 31.079 milioni di euro per consumi dei turisti stranieri superando di 3.457 milioni i ricavi del 2003.
Comunque siamo ben lontani dai numeri presentati dalla Francia.
Infatti i dati del World Economic Forum 2008 confermano le variazioni negative: si evince che la competitività dell’Italia è in grave declino, al 28esimo
posto nella “capacità di attrazione”.
È specialmente preoccupante verificare che non potevamo permetterci di
peggiorare in un settore che da noi porta il 10% del Pil e posti di lavoro per
due milioni di persone all’anno.
Questi dati parlano da soli e fanno pensare: visto che l’avvocato Achille
Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia e dell’Associazione Italiana Amici
dei Grandi Alberghi, dichiara che “in Italia l’asset del turismo è di 33.000
alberghi, 16.000 agriturismi e un patrimonio culturale, artistico, storicomonumentale e museale che tutto il mondo ci invidia (80.000 fra chiese e
castelli)”, cos’è che fa davvero la differenza, per ritrovarci al quinto posto
della classifica degli arrivi internazionali nel mondo quando per attrattive
e risorse turistico-culturali meriteremmo almeno uno spareggio?
La differenza la fa il coraggio della Francia di investire responsabilmente
in un futuro da affiancare a un grandissimo passato.
Dai trasporti all’organizzazione alberghiera, dall’architettura alla gastronomia, la Francia ha dimostrato di saper guardare avanti coniugando tradizioni e passato con futuro e modernità, anche grazie a fondi decisamente più sostanziosi dell’Italia. Con un sistema ferroviario all’avanguardia, la Francia vanta la rete più veloce e più estesa dell'alta velocità in
Europa con circa 1300 chilometri di nuove linee. I collegamenti ferroviari
coprono un’estensione totale di 30.880 chilometri e percorrono praticamente tutto il paese. Questo la rende di conseguenza uno dei Paesi più
facili in cui viaggiare (nonostante i treni italiani, seppur a volte fatiscenti,
siano molto più economici) e quindi meta molto più appetibile.
Anche per quanto riguarda la situazione alberghiera, la Francia mette a
disposizione dei turisti infrastrutture con standard qualitativi che soddisfano l’ampio target di chi non vuole spendere troppo ma nemmeno stare
in camerata in ostello, un “terreno di mezzo” che manca all’Italia, dove soluzioni alternative all’hotel come i Bed & Breakfast e gli agriturismi rimangono comunque piuttosto care.
L’architettura non è da meno, anche se va segnalato che la maggior parte
degli interventi contemporanei sono stati concentrati su Parigi: la Torre
EDF nel quartiere della Défense dell’architetto Ieoh Ming Pei (2001), la stazione della metropolitana Saint Lazare a cura di Arte Charpentier nell’8º
arrondissement (2003), la Passerelle Simone de Beauvoir di Feichtinger
Architetti sulla Senna (2006), La Cité de l’Architecture et du Patrimoine,
con mostre permanenti e temporanee dedicate all'architettura (2007).
È vero: noi abbiamo Renzo Piano con il Grande Bigo a Genova (1992) o
l’Auditorium di Roma (2002), Fuksas per la Fiera di Milano (2005), Zara
Hadid per il MAXXI a Roma (in teoria la sospirata inaugurazione dovrebbe avvenire quest’anno). Ma le tempistiche per i due Paesi sono spesso
molto diverse: i progetti francesi vengono portati a termine nei tempi prestabiliti, prerogativa indispensabile per la buona riuscita dell’impresa
(ma spesso miraggio in Italia), il che comporta anche un rientro dei costi
più rapido.
E se è vero che investire nell’architettura contemporanea a volte può portare a delle mostruosità di cui non ci si può liberare, è innegabile che la
propensione ad affiancare a monumenti storici nuove creazioni abbia contribuito ampiamente a rinnovare l’interesse – e l’immagine – per mete francesi che altrimenti avrebbero avuto bilanci ben diversi.
Argomento scottante per questi due Paesi è la gastronomia. Ultimamente
▲ La piramide del Louvre
E’ una piramide di vetro commissionata dall'ex presidente
francese François Mitterrand e
disegnata da Leoh Ming Pei. Si è
trattato della prima parte del
progetto di rinnovamento
chiamato “Grand Louvre”.
Nonostante sia stata un’opera
controversa è uno dei luoghi più
visitati e fotografiati di Parigi.
▲ La capitale francese
vista da Montmartre
il conflitto si sta inasprendo ulteriormente, visto che la Francia ha intenzione di presentare quest’anno una proposta formale all’Unesco, più precisamente alla Delegazione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale
Intangibile nata nel 2003, per far dichiarare la gastronomia francese patrimonio mondiale, nel tentativo di capitalizzare – in tempo di crisi – quello
che è da anni fonte di orgoglio nazionale, supportato anche da una petizione firmata da più di 300 chef francesi, tra cui Guy Savoy, Paul Bocuse,
Alain Ducasse, Pierre Troisgros e Michel Guérard. Questo è quanto è stato
comunicato con un annuncio estemporaneo dal Presidente Nicolas Sarkozy
nel febbraio 2008 alla Fiera annuale francese dell’Agricultura.
Molti i Paesi che si sono sentiti “sfidati”, compresa l’Italia: la Coldiretti ha
infatti argomentato come il patrimonio gastronomico italiano sia già superiore a quello francese, visto che l’Unione Europea riconosce 166 specialità gastronomiche all’Italia, mentre solo 156 alla Francia.
Non è comunque facile parlare di numeri né provare a comprendere le dinamiche turistico-economiche di due Paesi in fondo così diversi, specialmente in un anno come il 2009. La recessione è ovunque. E se si può dire che
l’Italia non è il Paese nella situazione peggiore in questo scoraggiante panorama europeo, è semplicemente perchè il Paese cresce a rilento in epoche economicamente stabili e di
conseguenza ora risente meno degli sbalzi della crisi,
pur con una previsione per il 2008 di un rapporto deficit/Pil del 2,6%. Anche per la Francia c’è poco da stare
allegri, con un deficit commerciale record nel 2008:
secondo le previsioni del Ministero del Bilancio francese annunciate il 20 gennaio dal ministro Eric
Woerthal, il rapporto deficit/Pil ammonterebbe al 3,2%,
che dovrebbe poi attestarsi al 4,4% nel 2009.
Quello che si può dire però tornando alla situazione
turistica è che la Francia è forte di eventi storici che
l’hanno resa da sempre economicamente avvantaggiata rispetto all’Italia e che ha saputo utilizzare le
risorse del Paese per valorizzarsi al meglio.
Si parla tanto di come venga percepita dal cliente (dal
turista) l’immagine del prodotto (della Nazione): in questo la Francia batte
chiunque, abilissima nel comunicare un’immagine vincente del suo territorio, dal piccolissimo paesello sperduto al sud alla nominatissima Parigi.
Insomma, grazie alle risorse economiche e a un Ministero del Turismo che
funziona, la Francia si promuove da sola.
E l’Italia? L’Italia non ha ancora trovato il modo di comunicarsi efficacemente, perché non riesce a comunicare internamente. Infatti quello che
rende il nostro Paese magnifico è allo stesso modo incredibilmente deleterio: la regionalità. Che certo, appartiene anche alla Francia, ma passa in
47
Turismo
▲ Nizza, Costa Azzurra, centro storico
▲ Uno scorcio della Riviera Ligure
di Levante
48
▲ Nizza, la Promenade
secondo piano rispetto all’identità nazionale che viene ribadita in ogni campagna per il turismo.
L’Italia è perennemente, adorabilmente divisa, orgogliosa e disorganizzata. Per nostra fortuna in qualsiasi altro paese del mondo questo atteggiamento viene tradotto e interpretato – ironia dell’ironia – come “charme” italiano: la disinvoltura di fare le cose sbagliate, e/o in ritardo, ma con classe. Ecco perché siamo comunque amati, ecco perché oltre i monumenti e
le ricette e i profumi e i dialetti rimangono soprattutto gli italiani e le loro
anime imperfette e bellissime, a ricordare a chi viene a vedere se ci siamo
ancora che sì, magari siamo un po’ più in bilico degli altri ma resistiamo
e a testa alta.
Certo, è vero, di Mastroianni e di Fellini e di Calvino non ce ne sono più,
ma è il fatto che siano figli di questa terra e che siano ricordati ancora oggi
nel mondo che fa scommettere ancora sul nostro Paese, perché chi è arrivato tanto in alto ci può arrivare ancora: di soldi ne abbiamo più di allora, manca solo un po’ di iniziativa.
Basterebbe capire, per esempio, che l’uso di Internet non è solo un’altra
inutile costosa distrazione per quindicenni (e anche se così fosse, occupiamocene lo stesso, visto che il futuro del turismo italiano è in mano al nuovo
target degli under 18, che costituisce il 24% di
tutti i viaggiatori internazionali). Al contrario
Internet viene utilizzato sempre di più dagli adulti, per l’organizzazione di viaggi individuali: le prenotazioni via Internet in Italia sono al 24%, dieci
punti sotto la media europea. Basterebbe insistere molto di più sul fatto che il nostro è un Paese
che non deve contare solo sulla stagionalità perché ha tutto, sempre.
Sia per territorio che per clima. Perché sembriamo dimenticarci – o ancora una volta, forse non
lo comunichiamo bene – che siamo un Paese mediterraneo, latino nel sole e nell’anima. Un esempio
per tutti: per guadagni e infrastrutture, sulla carta
vincerà anche la Costa Azzurra nell’eterno conflitto con la Liguria, ma sulle emozioni stravinciamo noi: la Costa Azzurra è davvero più pulita e
ordinata, è più di lusso e più chic – e quando si
passa la frontiera in treno Mentone te lo urla in
faccia, con un paesaggio che neanche nella giungla e ville che neanche a
Hollywood – ma di sicuro non ha un porto intriso di storia e di gloria e di
odore di mare come Genova, non ha le acciughe che fanno il pallone, non
ha l’intonaco colorato che fa tanta allegria anche se scrostato, non ha i
“carrugi”, non ha il vociare confuso di ricordi portoghesi e soprattutto
non ha De Andrè.
E così via, per tutte le altre Regioni, per tutto il nostro Paese, che è comunque ancora – e ufficialmente, statistiche alla mano – uno dei più visitati nel
mondo. Allora l’immagine di un Paese speciale passa lo stesso! Allora forse
basterebbe solo crederci di più e urlare un po’ più forte.
Allora c’è da chiedersi una cosa sola: non sarà che questa partita (a proposito di competitività!) la perdiamo solo a causa della troppa umiltà?
Gocce
Un sorso
di
cultura
di Valentina Pillot
■■■ UNA CURIOSITA’ GENETICA
I coreani e i malesi hanno un vantaggio di origine genetica, informa il mensile OK Salute: possiedono una particolare variante dell’Adh, un enzima che li aiuta a frenare gli effetti tossici dell’alcol. A pari quantità di vino
bevuto, insomma, un italiano si ubriaca mentre un abitante di Seoul resta sobrio.
■■■ UN LIBRO SOMMERSO
“Il pane di ieri” è l’ultimo, bellissimo volume di Enzo
Bianchi, biblista rigoroso, priore dei monaci di Bose,
in Piemonte. Ripescando un avvertimento di San
Tommaso d’Aquino (“l’ora più buia della notte è quella
che precede l’alba di un nuovo giorno”), Bianchi riflette sui valori e le verità di cose essenziali, il pane, il vino,
l’orto, la tavola (“il luogo privilegiato per imparare, per
ascoltare, per umanizzarsi; d’altronde un’unica radice
accomuna saperi e sapore”), il silenzio e il suono delle
campane, i proverbi contadini del Monferrato, la sua
terra d’origine, e la sapienza della Bibbia che può aiutare in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo.
(Einaudi editore, 117 pagine, 16,50 euro).
■■■ UNA MAPPA VISIONARIA
L’ultimo studio dell’Assirm (l’Associazione che rappresenta 47 tra i maggiori istituti italiani di ricerche di mercato, sondaggi d’opinione, ricerca sociale) disegna la
mappa dei falsi miti del Made in Italy, ricostruisce i luoghi comuni sui prodotti tipici e svela la discordanza
tra la percezione degli italiani e il paese reale. Per dire:
il marmo per 7 italiani su 10 è indissolubilmente legato alla Toscana, distretto di Carrara, solo l’1,1 per cento
lo associa invece alla Sicilia dove si trova il principale
centro di produzione mondiale, per l’esattezza nel distretto di Custonaci, nel Trapanese. E nel campo del vino:
il 23,3 per cento lo associa di nuovo alla Toscana, e
poi al Piemonte, al Veneto, alla Sicilia. Tutto sbagliato,
secondo i dati Istat 2007, che dicono come le regioni di
maggior produzione sono nell’ordine Veneto, Emilia
Romagna e Puglia. Effetto e magia della pubblicità
che è alla base di questa frattura tra vero e immaginato. Una disparità che converrebbe armonizzare: “E’ necessario comunicare e organizzare i beni, i valori e le eccellenze: l’Italia deve formarsi una cultura dell’informazione efficace e matura”, teorizza Silvestro Bertolini, presidente Assirm. Per saperne di più: www.assirm.it.
50
■■■ UN APPELLO
“Salviamo la cultura del vino” è l’appello lanciato dalla
redazione del quotidiano l’Unità domenica 18 gennaio.
Vi si legge, tra l’altro: “Non abituare i giovani a bere vino
(con moderazione, s’intende) porta al consumo smodato di superalcolici, con le nefaste conseguenze che sono
oggetto di cronache quotidiane. Educare al gusto del
succo d’uva fermentato significa far conoscere i frutti di
un territorio che, anche morfologicamente, è caratterizzato dai vigneti così che sembra quasi impossibile immaginare un paesaggio toscano che non abbia le vigne e
gli olivi. Occorrerebbe, quindi, uno sforzo da parte di
tutti: prezzi fermi da parte dei produttori, pagamenti
certi e ricarichi equilibrati dei ristoratori, un servizio al
bicchiere intelligente dei titolari di wine bar e allora giovani e non giovani, invece di ingurgitare improbabili
bevande dolci, ricominceranno ad assaporare il sapore
di un vino genuino”.
■■■ UN ADDIO
Giorgio Mondadori, l’ultimo editore che profumava di
carta, se n’è andato per sempre 91 anni dopo aver visto
la luce a Ostiglia (Mantova). Fu il primo presidente della
società Mondadori - Caracciolo che diede vita al quotidiano La Repubblica. Nel 1968 fu il successore del padre
Arnoldo alla presidenza della Mondadori. La lasciò nel
1976 dopo i dissidi con le due sorelle Cristina e Laura
detta Mimma. Creò l’Editoriale Giorgio Mondadori e fu
un successo: da Airone, la prima rivista dedicata alla
natura e alle civiltà diventata tra i maggiori successi editoriali del dopoguerra, all’edizione italiana di Architectural
Digest, a Bell’Italia e Bell’Europa, Gardenia, Arte,
Antiquariato, Millelibri, Am. Un’avventura che continuò
fino al ’99, quando passò il timone alla Cairo
Communication. La sua più lunga amicizia? Con Ernest
Hemingway: tra i suoi ricordi c’erano parecchi Capodanni
a Cortina d’Ampezzo con lo scrittore americano che si
divertiva a riempire di vino dei palloncini per poi centrare le bocche degli ospiti.
■■■ UNA CITAZIONE
“Il vino? Mi piace berlo e farlo. Con mia figlia Alexandra
nel nostro agriturismo vicino Arezzo produciamo il Chianti.
Ho disegnato l’etichetta con un grande occhio. E’ buono,
sa?” (Ilaria Occhini, attrice, sposa di lungo corso con lo
scrittore Raffaele La Capria, al settimanale Vanity Fair).
Le buone maniere
Galateo,
lo scippo
della
Francia
di Barbara Ronchi Della Rocca
UN
ESEMPIO: NEL
1533
LA FORCHETTA APPRODA
SULLE TAVOLE FRANCESI
GRAZIE AL MATRIMONIO
CATERINA DE’ MEDICI
CON ENRICO D’ORLÉANS.
IN ITALIA SI UTILIZZAVA
DI
GIÀ DA QUALCHE
SECOLO
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nche nella nostra epoca che sembra non credere più a niente, ci
sono miti che non tramontano. Tra questi, uno dei più duri a morire è un certo qual complesso di inferiorità nei confronti della Francia,
considerata come la culla delle buone maniere e della buona tavola. Il che
è falsissimo: perché fino alla metà del XVII secolo in tutta Europa il galateo e lo stile hanno parlato italiano, e tutte le corti guardavano all’Italia
come modello di raffinatezza ed eleganza. Anche perchè nelle città italiane la forchetta era usata abbastanza normalmente fin dal 1300, mentre
nel resto d’Europa alle tavole reali tutti mangiavano con le mani e si pulivano la bocca con l'ampio giro delle maniche.
Infatti, nel suo trattato di “Saper vivere” pubblicato nel 1530 l’umanista
Erasmo da Rotterdam così insegna a apparecchiare la tavola: “A destra
si mette il bicchiere e il coltello ben pulito, a sinistra il pane”. Il cucchiaio per la minestra era in comune tra tutti i commensali: da usare, asciugare nella tovaglia e passare al vicino perché lo adoperasse a
sua volta; chi non voleva
aspettare il suo turno
portava direttamente la zuppiera alla
bocca…
La forchetta, vero
strumento di rivoluzione della tavola,
era nata sul finire del
Medio Evo come posata di portata a due denti,
ma poi divenne anche di
uso individuale. Accadde
nell’XI secolo, quando il Doge
A
▲ Caterina de’ Medici
Orseolo prese in sposa la figlia dell’Imperatore d’Oriente, che toccava il
cibo solo con una forchetta d’oro. Dapprima quest’abitudine venne bocciata come un eccesso di raffinatezza, tanto che la dogaressa fu rimproverata pubblicamente dal clero e quando morì di peste, si disse che era
stata giustamente castigata da Dio per la sua mancanza di umiltà. Ma la
nuova posata era ormai diventata un ambito status symbol, e si diffuse
in tutte le città italiane, anche perché, snobismo a parte, era lo strumento indispensabile per mangiare la pasta, difficile da prendere con le
mani, scivolosa e bollente com’era.
È nel 1533 che, grazie al matrimonio di Caterina de’ Medici con Enrico
d’Orléans, uno dei figli del re di Francia, la forchetta (che ormai ha tre
rebbi) approda in Francia e di lì si diffonderà lentamente nel resto d'Europa.
Ma questa sposina quattordicenne porta con sé molto di più della
“terza posata”: l’intera civiltà rinascimentale. Il primo settembre 1533 prima di imbarcarsi per la Francia invita
le dame fiorentine a un pranzo d’addio (primo caso di
addio al nubilato della storia!), in vista del quale
alla corte dei Medici viene bandita una gara dei cuochi, vinta dal pollivendolo Ruggeri con un “ghiaccio
all’acqua inzuccherata e profumata”, cioè un sorbetto. Quando parte per la Francia, si porta al seguito
damigelle, cavalieri, musici, poeti, sarti, profumieri,
ricamatrici e guantai capaci di cucire guanti di pelle
conciata con essenze profumate, così sottili da poter
essere arrotolati dentro un guscio di noce.
Ma l’accompagnano anche cuochi, scalchi, maestri pasticceri, ben forniti di ricette e alimenti che rivoluzioneranno il
gusto e la cucina d’Oltralpe, introducendo, tra l’altro,
l’uso dei prodotti dell’orto e delle erbe odorose. Come
Bernardo Buontalenti, grazie al quale il gelato compare
53
Le buone maniere
sulla tavola reale francese. Il 12 ottobre il corteo nuziale sbarca a Marsiglia, dopo una traversata terribile sul mare in burrasca. I profumieri fiorentini dichiarano di non voler più
proseguire il viaggio via terra fino a Parigi, e
dopo una specie di ammutinamento si stabiliscono… a Grasse! Così, quella che viene
unanimemente considerata la culla della profumeria francese è in realtà una “colonia” italiana in terra di Francia!
Giunto finalmente a Parigi, il gruppo dei
fiorentini dà il meglio di sé il 27 ottobre 1533,
per il banchetto ufficiale, nel corso del quale
fanno conoscere ai francesi il meglio della
cultura gastronomica italiana – tra cui la cottura mediante frittura. Per il re Francesco I
preparano crocchette di cervella e di fegato
in agrodolce; per il figlio Enrico, lo sposo, le
lumache, che entrano trionfalmente nel repertorio della gastronomia francese come piatto afrodisisaco; per i palati raffinati delle
signore, le faraone, farcite di marroni e tartufi, irrorate con panna e succo delle arance che provengono dalle serre Medicee. È probabile che l’anatra all’arancia sia un piatto
venuto da Firenze, come la carabaccia, antenata fiorentina della zuppa di cipolle (che allora veniva preparata con l’aggiunta di mandorle pestate, zucchero, aceto, cannella). I
piatti preferiti di Caterina, grande mangiatrice, sono i carciofi (che gli orticultori italiani
hanno ottenuto con operazioni di innesto da
un cardo selvatico importato dalla Spagna) e
le frattaglie di pollo, di cui fa addirittura indigestione.
Anche i dolci di provenienza italiana sono
una novità assoluta, perché non sono più a
base di miele, ma contengono lo zucchero,
che proviene dall’Oriente, dalla Sicilia e
dall’Andalusia, e in Francia è raro, costoso e
non ancora usato in cucina.
Dopo le nozze, Caterina farà venire a corte un
cuoco specialissimo: il grande Nostradamus,
medico, astrologo, profeta e mago, cui insegna a usare zucchero e miele per conservare la frutta e per preparare scorze e frutti canditi e mandorle ricoperte di zucchero, aromatizzati con muschio e ambra.
Ma torniamo al banchetto nuziale, rivoluzionario anche dal punto di vista del costume,
perché il re Francesco I in omaggio al costume italiano costringe le donne della famiglia
reale a sedere a tavola con gli uomini, annullando la tradizione secondo cui le dame non mangiavano in pubblico per
non nuocere alla bellezza dei lineamenti con l’atto “volgare” della masticazione!
In onore alla presenza delle signore, vengono posti in tavola dei bicchieri
fabbricati a Venezia (città che aveva il monopolio assoluto nella fabbricazione di vetri di alta qualità) in sostituzione di quelli usuali sulle tavole
francesi di allora, detti “cul sec”, (o “bois tout”), una sorta di flûte senza
base, che si era obbligati a vuotare in un sorso solo.
54
Non solo, si introduce in Francia anche il gusto italiano (e spagnolo) di
bere vino ghiacciato, usando il salnitro oppure servendolo nella cantimplora, specie di caraffa con in mezzo un buco da riempire di ghiaccio o
neve. Un ultimo aneddoto: le posate portate in dote da Caterina avevano
ben in evidenza sull’impugnatura lo stemma della famiglia Medici, e
allora la regina suocera – ostile alla nuora come nelle migliori tradizioni!
– ordinò che alla corte si apparecchiasse con le posate rovesciate, cioè
ponendo in tavola il cucchiaio con la parte convessa verso l’alto e la forchetta con i rebbi sulla tovaglia, così da mostrare il retro del manico, dove
successivamente fece incidere lo stemma reale francese. Uno squallido
dispetto, di cui dovrebbero prendere nota i molti snob che credono sia più
elegante apparecchiare “alla francese”, ponendo le posate al contrario
rispetto a tutte le altre Corti europee!
Nonostante questa codificazione di apparecchiatura, la nuova posata “italiana” fu ancora per molti anni poco usata e assai contestata dai francesi che la vedevano come simbolo di eccessiva raffinatezza, e collegata
con la sodomia. E certo non giovò alla reputazione del “diabolico” strumento il fatto che l’unico membro di casa reale di Francia che sembrava
apprezzarlo fosse Enrico III, noto effeminato… Ancora 110 anni dopo il
famoso banchetto nuziale di Caterina, il re Sole, Luigi XIV, considerava
“troppo affettati” i cortigiani che usavano la forchetta e, nonostante tutte
le proprie pretese di eleganza, continuava a mangiare con le mani, tanto
che sulla sua tavola figurava come unica posata solo il coltello! Eppure fu
proprio durante il suo regno che la Francia assurse al ruolo di faro delle
buone maniere e della diplomazia, e Parigi divenne la capitale della moda.
Ma questa è un’altra storia…
▲ Luigi XIV
L’equilibrio
Perfetto
L’equilibrio perfetto non esiste, ma noi
ce la mettiamo tutta ed i risultati stanno arrivando.
I nostri vini sono stati premiati
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DOC 2006
Degustazioni
Quel brigante
del
Morellino
di Roberto Bellini
l 24 ottobre 1896, nel podere le Forane, a Capalbio,
in piena Maremma finì l’epopea di radice contadina,
del brigante “Domenichino”, all’anagrafe Domenico
Tiburzi. Sul tavolo della cucina, poco distante dal camino ampio e fuligginoso, un bicchiere di vetro spesso, di
forma tozza e bassa, leggermente svasato, conteneva
l’imbevuto di un vino rosso, scuro nella tinta, opulento nel fruttato, robusto in alcool, malandrino nel tannino, dal finale succoso e saporito: un vino da veglia,
che fosse stato un Morellino?
La terra del vino Morellino fu una terra amara. “Tutti
mi dicon Maremma, Maremma … Chi va in Maremma e
lassa la montagna, perde la donna ed altro non guadagna”, così recita una canzone rurale, intrisa di miseria, di vita e di speranza. Tra le righe di questa rima si
nasconde una ruralità difficile e un’indole agricola incostante e insalubre, giù nella piana malarica. Scansano
sta, e stava, in collina, 500 metri s/l/m. È un comune con un’aureola etrusca, d’antico spirito cristiano,
I
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rifinito infine dai Medici e dai Lorena. Qui che si sagomò, tra il 1969 e il 1970, l’idea di un vino da compiersi con l’uso di sole uve “nere”; seguendo una tradizione enologica, consolidatasi fin dal 1875, che prevedeva la lavorazione delle uve rosse, separate da quelle
bianche, con impiego di tini aperti, in cui si lasciava il
mosto una volta pestate.
Il Sangiovese fu, e ancora lo è, il Re della miscela del
Morellino di Scansano; calato dai monti del Chianti e
dall’entroterra, ha dismesso i nobili abiti (il pugno di
ferro in guanto di velluto del Montalcinese e i fasti gigliati del contado Fiorentino) ed è diventato un brigante del
gusto, in costante ricerca di una abbronzatura tirrenica che smussi l’impeto di un tannino altezzoso per fonderlo nelle morbide coperte di un alcool corroborante.
Il Sangiovese del Morellino è diversamente vino, è tale
perché nacque, nel 1978, con una Doc differente: non
volle abbinare le uve bianche a quel 15 per cento di
altro che previde il disciplinare. Così facendo si presen-
tò sempre briosamente fruttato e floreale, impreziosito dagli intensi profumi dell’Alicante e del Mammolo;
accentuato nella tinta dal Colorino e reso elegante dal
raro “Francese nero”.
All’inizio sembrò avere un certo timore reverenziale
verso gli altri rossi di Toscana, eppure la scelta del nome
Morellino, da ricondursi all’usanza di chiamare Morellino
il miglior puledro (di manto nero) allevato nel branco,
era da intendersi per un vino da competizione, voglioso di affermarsi in Toscana a non solo. Il successo si
è così consolidato che nel 2006 è diventato Docg. Il
disciplinare è divenuto più restrittivo in termini di produzione in vigna, la gradazione alcolica minima s’è innalzata, creando di fatto i presupposti per un vino con una
potenzialità di struttura gustativa maggiore.
Troviamo quindi un Morellino con una tempra decisa
nelle peculiarità fruttate e floreali, tanta ciliegia e viola
mammola rendono seducenti i profumi, finissimi sentori di lavanda e di erbe aromatiche di macchia mediterranea ne allungano la raffinatezza, che spesso si
completa con note di spezie dolci e legno nuovo tostato in quei vini che hanno sostato in barrique. Il gusto
esibisce un tannino potente, ma non aggressivo, la succosità del frutto resta integra e insaporisce il finale, che
chiude spesso con un retrogusto elegantemente amaricante. Nel Morellino di Scansano in versione Docg il
potenziale d’affinamento in bottiglia s’è allungato, si
presume che il base sarà ottimale per il consumo entro
i 5/6 anni dalla vendemmia; la Riserva, se particolarmente curata, arriverà fino a 10 anni. La temperatura
di servizio non dovrà superare i 18°C, mentre in presenza di un Morellino non Riserva si potrebbe scendere a 16°C, per esaltare al meglio la parte fresco-sapida del suo fruttato.
L’abbinamento spazia dai primi piatti al sugo di carne,
strepitoso è l’abbinamento con il maccheroni maremmani, a base di interiore e fegatini di pollo e coniglio;
è particolarmente indicati con ricette a base di oche,
folaghe e anatre. Quando il Morellino viene prodotto
con uve raccolte in vigneti dai declivi ben esposti, da
ceppi di oltre venti anni, macerate a lungo e con pazienza in tini di legno a perfetta temperatura controllata,
esso diventa nero al colore, imponente al profumo, si
carica di un’avvolgenza odorosa che non ha eguali, tira
fuori quelle caratteristiche odorose, quasi syrah-style,
tanto da poter usare i vezzeggiativi “vin de forêt” e “vin
de chasse”: vino di foresta o vino da caccia. Ed è appunto nell’abbinamento con la cacciagione e la selvaggina,
un’attività, la caccia, cara ai briganti prima e ai bracconieri poi, che si esalta la versione Riserva del Morellino
di Scansano, al punto tale da diventare cacciatore dei
sapori dei fagiani e dei tordi, dei cinghiali e delle lepri
e celebrarsi nelle sue gesta gusto olfattive, briganteggiando nei palati dei gourmets di tutto il mondo.
UNA DOCG MOLTO GIOVANE
Il Morellino di Scansano è Docg
dalla vendemmia 2007
Le uve impiegate sono: minimo 85% Sangiovese,
localmente chiamato Morellino; possono concorrere, per un massimo del 15%, anche altre uve a
bacca scura, purchè idonee alla coltivazione
nella regione Toscana. La zona di produzione è
racchiusa nella provincia di Grosseto e più precisamente nella fascia collinare tra i fiumi Ombrone
e Albegna. La resa di uva per ettaro è fissata in 90
q.li, quella per ceppo in 3 kg. La gradazione alcolica minima è di 12,5% vol., 13% nella versione
Riserva. Quest’ultima si appresta a diventare il nuovo biglietto da visita della denominazione, prevedendo
l’allevamento in legno (senza escludere la barrique) per almeno un anno dei due previsti dal disciplinare.
Due i tipi di bicchieri da usare per il servizio: per la Riserva un ballon dal bevante abbastanza ampio; per
la versione base un bicchiere dal bevante più affusolato e bocca medio ampia.
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Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE: MORELLINO DI SCANSANO
MORELLINO DI SCANSANO DOCG POGGIO TREVVALLE
F.lli Umberto e Bernardo Valle – Campagnatico – 2007 – 14,5°
Rosso rubino di media intensità, tinta vivace, briosamente riflessa di vermiglio. Il profumo impatta al naso con una nota di frutta a bacca rossa (ciliegia), di petalo di rosa rossa
appassita, di spezie e termina con un cenno di vegetale secco. Al gusto il tannino crea
una sensazione un po’ verde, mentre l’acidità s’impone con un fruttato al sapore di ciliegia. La persistenza gusto olfattiva è media e le sensazioni finali ripresentano un fruttato
a bacca rossa.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG SAN FELO
Fattoria San Felo – Magliano in Toscana – 2007 – 13,5°
Rubino alquanto concentrato con riflessi color buccia di ciliegia scura. La parte odorosa
della frutta a bacca rossa e scura, matura (mora di gelso), domina il profumo; non mancano note di speziato, come la cannella, il chiodo di garofano e il legno tostato. Tannico
e caldo, compone e ricompone un dualismo di alcool e tannico. Il gusto ha il sapore
della marasca, il suo tannino ha l’asprezza della gioventù, mentre il finale è marcato da
un fondo di oaky. Pai buona.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007
Fattoria Le Pupille – Piaggie del Maiano – 2007 – 13,5°
Rubino intenso con unghia violacea. Offre un fruttato a bacca nera, espressioni floreali
di viola e di rosa, leggero sottofondo olfattivo al fondo di caffè.
Il tannino è deciso e fermo con finale di nocciolo di ciliegia e corredato da sapidità. Buona
è la corrispondenza gusto olfattiva anche se il tannino sembra un po’ esuberante. Ha la
naturale spigolosità del Sangiovese in gioventù, il finale di gusto è lungo e chiude asciugando perfettamente il palato.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007 MARTETO
Azienda Bruni – Fonteblanda – 2007 – 13,5°
Rubino mediamente intenso, buona la vivacità e l’effetto consistenza. Prugna rossa matura al profumo (si ritroverà anche al gusto), la ciliegia del vitigno si alterna a un fondo floreale di viola e iris. E’ un Sangiovese classico, pulito nel gusto, il tannino è ben espresso, arrotondato nell’asperità, e quel che conta è corredato da un fruttato succoso. La persistenza aromatica intensa disegna una corrispondenza gusto olfattiva coerente e crea
un lungo ricordo.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG LORENZOLO
Az. Bioagricola Poggiopaoli – Pomonte, Scansano – 2007 – 14°
Un Sangiovese espresso dalla netta tonalità rubino, senza cessioni a riflessi e nuances.
Mediamente complesso al profumo, marcato da una ciliegia marinata al limone e da un
mix di piccoli frutti rossi, anche un po’ selvatici. Ha una leggera chiusura vegetale, di
gambo di viola. Al gusto il tannino impatta con irruenza serrando le papille gustative e
trascina con sé un effetto dal finale amaricante. La lunghezza gusto olfattiva non trova
un completo allungamento.
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MORELLINO DI SCANSANO PROVVEDITORE
Az. Agr. Provveditore – Solaiolo Di Scansano – 2007 – 14,5°
L’azienda dichiara un Sangiovese 100%. Rubino con riflessi vivacemente porpora, gioioso nella tinta. È floreale e fruttato, simpatico è il ricordo di chicco del melograno che ritorna poi anche al gusto. Originale è l’odore che ricorda la siepe secca mediterranea. Il sostrato finale è sciroppato, al gusto di ciliegia. La struttura gusto olfattiva è equilibrata, la sapidità inizia a insaporire un tannino “dolce”. Il finale di gusto è lungo, al pâté di frutta e di
frutta grigliata.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007
Az. Moris Farm – Grosseto – 2007 – 14°
Netto il colore rubino intenso. Pienamente espressivo del Sangiovese nei profumi di viola,
di rosa rossa, di piccoli frutti rossi e neri.
Il tannino saporito, senza cessioni all’asprezza e all’amaro, combina a pieno una morbidezza ben corroborata dalla componente alcolica, il tutto insaporito da un’acidità delicata ed elegante. Il finale di gusto esprime un’ottima persistenza e chiude con un sapore
finale di ciliegia.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG
Cantine Leonardo – Vinci – 2007 – 13°
Al colore è rubino alquanto intenso e vivace. Il profumo è pulito, franco, di fragola di bosco,
di viola mammola, di ciliegia matura. Il sapore è decisamente fresco, il tannino è mediamente espressivo tanto che la struttura del vino raggiunge già un equilibrio gustativo,
con una sensazione di calore alcolico finemente gradevole.
La persistenza aromatica è abbastanza lunga e la sensazione finale del gusto è siglata
da un ricordo di mandorla grigliata.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG POGGIO BARBONE
Az. Agr. Poggio Amorelli – Magliano In Toscana – 2007 – 13°
Colore rosso rubino mediamente concentrato. Ha una graziosa punta di vinosità, il suo
floreale si caratterizza per la viola. Non mancano i profumi dei piccoli frutti selvatici come
il lampone. Curiose sono le sensazioni di tamarindo, karkadè e tea inglese natalizio. Gusto
in equilibrio tra tannino, acidità e morbidezza, Buona la sapidità, il finale è mediamente
persistente. Se la corrispondenza gusto olfattiva si fosse completata con più armonia ci
saremmo trovati di fronte a un grande sorpresa.
MORELLINO DI SCANSANO DOCG MARIANNA
Az. Agr. Cantine Marianna – Magliano – 2007 – 13°
Rubino nella tinta accompagnato da un’esile unghia porpora. Floreale e fruttato, ha il
fondo di nocciola di ciliegia.
Al palato l’alcool si espande e tende a dominare l’equilibrio, il tannino e l’acidità tendono
a nascondersi nelle morbidezze; si crea quindi un finale condito da un fruttato marmellatoso e da una chiusura amaricante.
Si ringrazia per la performance di degustazione la Compagnia del Morellino composta da: Carlo Barni, Gianluca
Bianucci, Luca D’Antraccoli, Maurizio Giovannini, Antonio Papini, Giovanni Tresca Carducci e Giulio Ulivieri.
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Fiere
Il grande debutto
di
DiVino
Lounge
di Emanuele Lavizzari
ALLA MOSTRA INTERNAZIONALE
DELL’ALIMENTAZIONE DI RIMINI
VINI E SPUMANTI RECITANO
UN RUOLO DA PROTAGONISTI
otevole soddisfazione delle aziende e degli
operatori del settore food & beverage per
la quattro giorni espositiva dedicata all’alimentazione extradomestica alla Fiera di Rimini.
E non poteva essere altrimenti. Cinque manifestazioni in contemporanea hanno offerto un panorama unico e specializzato del mercato alimentare con
la 39.ma Mostra Internazionale dell’Alimentazione
(con le sezioni Catering, Specialità Regionali,
Sandwiches & Snacks, Biocatering, Gluten Free,
Logistics, Frigus), l’undicesimo Pianeta Birra
Beverage & Co. (esposizione internazionale di birre,
bevande, snacks, attrezzature e arredamenti per
pub e pizzerie), l’ottavo MSE Seafood&Processing
(salone internazionale delle tecnologie e dei prodotti della pesca), il quinto Oro Giallo (salone internazionale dell’olio extravergine di oliva) e, dulcis
in fundo, il primo appuntamento con DiVino Lounge
– wine, food and more, dedicato a vini, spumanti e champagne.
Complessivamente quasi 1.500
aziende hanno occupato qualcosa come 100mila mq del
quartiere fieristico riminese. I
visitatori professionali inter-
N
60
venuti sono stati 82.977 dei
quali 2.832 dall’estero. Da
sottolineare la grande visibilità mediatica dell’evento.
Grazie all’autorevolezza raggiunta dall’appuntamento,
si sono accreditati 675 giornalisti (570 alla precedente
edizione) tra italiani e stranieri. Nelle quattro giornate inviati della stampa
specializzata italiana e internazionale, della grande stampa nazionale, regionale e locale, hanno
affollato i padiglioni fieristici e principali tg e gr
nazionali hanno seguito le varie attività proposte
con servizi e approfondimenti.
In evidenza il DiVino Lounge, organizzato da La Madia
Travelfood con la partecipazione dell’Associazione
Italiana Sommeliers e della Worldwide Sommelier
Association.
La nuova sezione rivolta al nettare di Bacco ha
debuttato con un’importante risposta da parte di
grossisti, distributori, importatori, ma anche di
gestori di locali serali e di esercizi pubblici.
Dedicato a tutto ciò che ruota intorno al mondo
di vini, spumanti e champagne, il DiVino ha raccolto i consensi di aziende
molto prestigiose anche per
il format particolarmente
innovativo. Si proponevano
infatti tre aree: wine, con
degustazioni guidate in collaborazione con l’Ais; food,
COL SAN MARTINO
▲ Una degustazione Ais animata
da Roberto Gardini
con carta dei vini a cura dell’Enoteca Regionale
dell’Emilia Romagna e delle acque in abbinamento a cibi gourmet; business, con una welcome
area per meeting con buyers esteri e italiani.
DiVino Lounge ha così rappresentato per le aziende produttrici il punto d’incontro privilegiato con
sommeliers, ristoratori e chefs.
L’Ais ha proposto degustazioni per i numerosi
appassionati accorsi nel padiglione A1. C’è stato
solo l’imbarazzo della scelta: i vini di Sicilia, champagne e spumanti, i grandi rossi d’Italia, le migliori bottiglie di Aglianico e diverse etichette premiate con in 5 grappoli dalla guida Duemilavini 2009.
Il bilancio dell’evento riminese è sicuramente positivo. Nel suo percorso di crescita la Mostra
Internazionale dell’Alimentazione ha puntato
risorse notevoli per aumentare il tasso di internazionalizzazione. Le giornate della 39.ma edizione della MIA hanno infatti proposto la Borsa
di Cooperazione Internazionale con circa ottanta buyers provenienti da Australia, Austria, Belgio,
Bulgaria, Croazia, Francia, Germania, Gran
Bretagna, Grecia, Israele, Marocco, Montenegro,
Polonia, Repubblica Ceca, Serbia, Spagna,
Svizzera e Ungheria. In collaborazione con l’ICE,
l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero, sono
arrivate in visita a Rimini anche delegazioni provenienti da Canada, India, Danimarca, Finlandia,
Polonia, Svezia, Russia, Estonia, Lituania,
Lettonia e Norvegia. Il prossimo appuntamento
con la MIA nel febbraio 2010 si preannuncia perciò sempre più cosmopolita.
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Merotto Spumanti - Via Scandolera 21, 31010 Col San Martino
Treviso - Italia. Tel. +39 0438 989000 - Fax +39 0438 989800
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Musei del vino
Parma
A
la tavola è storia,
sapori e cultura
VIAGGIO
TRA I SAPORI DEL TERRITORIO EMILIANO,
ALLA SCOPERTA DELLE ECCELLENZE FAMOSE NEL MONDO
di Letizia Magnani
è chi dice che noi siamo i letti nei quali siamo stati. Di certo un
territorio è i cibi e i vini che su di esso sono cresciuti e che tramite la storia sono giunti fino a noi, per deliziare le nostre tavole e talvolta anche i nostri letti. Tra tutti i luoghi italiani ce n’è uno che
sicuramente più di altri si può dire vocato: il Parmense.
È ai piedi del Po, nel bel mezzo della pianura Padana, tra Lombardia e
Emilia, in piena Val Padana, che sono nati alcuni dei salumi più mirabili che si conoscano, come il Prosciutto di Parma, naturalmente, ma anche come il Culatello di Zibello, la Coppa di
Parma e il Salame Felino.
Questa terra è stata particolarmente generosa, perché, oltre all’arte della salumeria, ha
insegnato agli uomini, dagli etruschi ai giorni
nostri, anche altre arti, come quella della trasformazione del latte in Parmigiano Reggiano,
il formaggio più noto al mondo, anche uno
dei più buoni.
Dalla trasformazione alla conservazione il passo
è breve. È per questo che, sempre in queste
campagne, è stata inventata, a inizio Novecento,
la Stazione Sperimentale delle Conserve, che
ancora esiste e che ha esaltato le caratteristiche dell’oro rosso, ovvero del pomodoro. Da queste parti naturalmente non ci si fa mancare
niente, e così, ecco che la terra dona agli uomini anche i vini dei Colli di Parma e altre prelibatezze, come il Porcino di Valtaro. Se si mangia e si beve bene, allora si pensa anche bene:
è per questo che Parma è stata scelta come sede
dell’Efsa, l’Authority Europea per la Sicurezza
Alimentare, ma è anche per questo che nella
“Food Valley”, come ormai è stata ribattezzata questa area ad alto contenuto di
golosità, sorgono i Musei del Cibo.
C’
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▲ Una locandina d'epoca per la ditta Gino
Tanzi di Sala Baganza
La vetrina di una tipica salumeria di Parma
■■■ PARMA, LA CAPITALE DEL GUSTO
Cuscinetto fra i domini pontifici e la Lombardia, Parma è stata per secoli, e ancora è oggi, punto di transito privilegiato attraverso l’Appennino
per i collegamenti tra Nord e Sud dell’Italia e dell’Europa. Da qui passava la via Francigena, che già nel Mille, conduceva i pellegrini a Roma. In
questo crocevia naturale hanno regnato i Farnese, di stirpe romana, i
Borbone di Spagna e di Francia, l’austriaca Maria Luigia. Alla Corte di
Parma sono stati creati i migliori piatti delle cucine europee, sapientemente rivisitati grazie al gusto e ai prodotti locali, dando vita a un ricco e raffinato repertorio di prelibatezze. Ora questa cultura dei sapori è raccolta
e raccontata nei Musei del Cibo, che sono stati pensati, ci verrebbe da
dire, col metodo Ais. Qui infatti, oltre a mettere in scena la storia del
prodotto e del territorio (perché tramite il prodotto si scopre il territorio e
viceversa, in un rapporto nuziale inscindibile) si fa anche educazione al
gusto. L’idea è quella di prendere per mano i visitatori e di condurli a conoscere i buoni prodotti della tradizione, per saperli riconoscere e scegliere
consapevolmente.
▲ Battitura e analisi della forma
di Parmigiano
▲ Norcini della ditta Archimede
Rossi di Collecchio, 1920
■■■ I MUSEI DEL CIBO DI PARMA
È questo che raccontano Giancarlo Gonizzi e Gianpaolo Mura, rispettivamente coordinatore e presidente dei musei. Al momento il territorio parmense ospita tre Musei del cibo: quello del Parmigiano Reggiano, a Soragna,
quello del Prosciutto e dei Salumi parmigiani, a Langhirano, e quello del
Salame, a Felino. Presto però verrà inaugurato anche il quarto museo del
cibo, dedicato interamente al Pomodoro. Che cosa c’entra il pomodoro con
Parma? Tutto e niente. È qui, che, grazie alla generosità della terra, per
la prima volta, ci si deve ingegnare sul tema della trasformazione e della
conservazione (in breve, dal latte al Parmigiano Reggiano, ma anche dal
suino ai prelibati salumi di queste zone). E sono queste due parole, trasformazione e conservazione, che legano fra loro tutti i prodotti, dal prosciutto al salame, dal parmigiano al pomodoro. Come conservare e trasformare questi particolari materiali di cui si dispone? La genialità e
63
Musei del vino
▲ L'apertura della forma di Parmigiano
▲ Una sala del museo dedicato al
Parmigiano Reggiano
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praticabilità della soluzione ha determinato le straordinarie filiere dei prodotti tipici.
La storia del pomodoro è legata alla creatività di Carlo Rognoni, agronomo che capì l’importanza di questo prodotto e lo propagandò come coltivazione sperimentale. Altri, come lui, si appassionarono al pomodoro, da
Bizzozero a Solari, e le Casse di Risparmio, nate da poco, sostennero la
sperimentazione. Ma non basta coltivare una nuova pianta, occorre che
il mercato compri il prodotto che ne deriva. L’intuizione vera fu quindi la
conservazione; si affacciano così alla storia i pionieri dell’industria nascente: Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora, che daranno vita a
delle vere e proprie dinastie di imprenditori. Il sistema del pomodoro decolla però solo nel 1922 quando vede la luce a
Parma la Stazione Sperimentale delle Conserve.
Da qui nascono la pasta al pomodoro,
l’industria del pomodoro, ma anche la
Mostra delle Conserve (antesignana dell’odierno CIBUS). Presto questa affascinante storia sarà raccontata in un
museo dedicato all’oro rosso.
■■■ UNA CASA PER IL “RE DEI FORMAGGI”
Conservazione e racconto sono fondamentali anche per andare alla scoperta
del Parmigiano Reggiano, il “Re dei formaggi”, la cui storia si può ripercorrere nel museo che si trova nel Casello
Meli-Lupi, a Soragna, nel complesso
“Castellazzi”. L’antico caseificio, dalla
struttura circolare, è stato adibito a
moderno museo, dove sono raccolti
oggetti e materiali provenienti dall’intero territorio di produzione del Parmigiano
Reggiano. Il percorso è storico: nel corpo
più antico del fabbricato ci sono gli
oggetti necessari alla trasformazione,
mentre nella parte più moderna sono
state allestite le sezioni non collegate
con la trasformazione.
In un salatoio interrato si possono
ripercorrere le fasi della salatura,
ma anche il racconto del prodotto, dalle sue origini, alla
sua storia, passando per il
suo impiego gastrono-
mico. Proseguendo il viaggio, si entra nella camera del latte sopraelevata,
dove si trovano le sezioni dedicate alla stagionatura, alla commercializzazione e al Consorzio di Tutela della Denominazione d’Origine. Ampio spazio è dato al tema della pubblicità e della comunicazione, grazie alle quali
questo prodotto, unico al mondo, è stato conosciuto (e copiato) ovunque nei
cinque continenti. Nonostante le tante copie, però, nel museo si capisce
perché ogni pezzo di Parmigiano Reggiano sia un’opera d’arte: solo l’aria,
l’umidità e la passione di questa terra, infatti, possono dare ogni anno forme
buone e perfette.
▲ Marchio del Consorzio
del Prosciutto di Parma
■■■ DOLCE COME IL PROSCIUTTO DI PARMA
La comunicazione (e la dolcezza) ha reso famoso nel mondo anche il
Prosciutto di Parma, unico per sapore e forma. La differenza la fa, ancora una volta l’aria, ma anche, non va mai dimenticato, il suino. E’ proprio
al maiale che sono dedicati gli altri due musei del cibo, ed è in quello del
Prosciutto e dei salumi di Parma che si scoprono vita, morte e miracoli
di un maiale che non si può certo dire comune. Spostandosi da Soragna
a Langhirano si entra nel regno vero e proprio del gusto. È solo qui, nel
Foro Boario, ora divenuto museo, che si intuisce quanto ingegno e quanta cultura ci siano in una fetta di prosciutto. Il museo è organizzato in otto
sezioni e, non stupirà, il percorso di visita inizia dal territorio, con la descrizione dell’agricoltura parmense dall’antichità all’Ottocento.
Nella seconda sezione, dedicata alle razze suine, si ripercorre la storia del
maiale. Ma per un ottimo prosciutto non basta la carne, servono anche
l’aria, il tempo e il sale. Al principale strumento di conservazione dei cibi
è dedicata una intera sala. Il sapore inconfondibile del Prosciutto di Parma
è dato da un sale particolare, di terra, che veniva (e viene ancora) ricavato sfruttando i pozzi di Salsomaggiore Terme. Nelle altre sale vengono raccontate l’arte della norcineria e quella degli altri salumi di Parma, i loro
impieghi in cucina, l’evoluzione delle tecniche di lavorazione del prosciutto e le certificazioni. La scelta dell’ex Foro Boario di Langhirano come sede
del Museo ha consentito il recupero funzionale di una struttura legata alla
vita economica di questa terra e, nel contempo, la sua trasformazione in
uno strumento di lettura e comprensione dell’attività alimentare odierna.
■■■ TU CHIAMALO, SE VUOI, SALAME FELINO
Cosa sarebbe la tavola senza il salame? Anche gli egizi lo sapevano, è
per questo che nella tomba di Ramses III vengono raffigurati dei salami
appesi, a testimonianza del fatto che al gusto nessuno può rinunciare. Ed
è proprio al gusto che si ispira il Museo del Salame Felino, a Felino,
testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra questo capolavoro culinario e il suo territorio d’origine. Felino rende così omaggio al suo figlio più amato, la cui storia ha trovato casa negli splendidi locali settecenteschi delle cantine del castello.
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Musei del vino
▲ Il Museo del Salame Felino e l'ingresso del castello
▲ Lavorazione del Salame Felino, 1930
Il Museo è l’occasione per apprezzare non solo l’essenza di quello che è
stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è
espressione, a partire dalla qualità delle materie prime, fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo. Organizzato in cinque sezioni,
il percorso di visita inizia con le testimonianze storiche del rapporto tra
Felino, il salame e il maiale nero parmigiano.
Si prosegue parlando di gastronomia, nelle affascinanti cucine del castello, ripercorrendo ricette, miti e riti dei contadini, ma anche dei Gesuiti che
da queste parti erano abili salumieri. Nella sala grande si trova invece la
sezione relativa alla norcineria e alla produzione casalinga dell’insaccato.
Nel museo si possono vedere molti attrezzi, oggetti e foto d’epoca, che fanno
intendere che cosa sia davvero la cultura materiale, dal macello in poi,
fino ad arrivare alla tavola. La trasformazione e la produzione dei prodotti qui seguono ancora i ritmi della natura. Fra le curiosità da non
perdere ci sono il mantello del norcino e una grande macchina insaccatrice da salami. Una sezione è riservata alla commercializzazione e presenta la documentazione relativa alla vendita del salame di Felino a partire dal Settecento. Infine non mancano le cose insolite, come la storia del
Du Tillot, primo ministro del Duca di Parma e marchese di Felino.
GLI INDIRIZZI
Musei del Cibo: www.museidelcibo.it
Museo del Parmigiano Reggiano
C/o Corte Castellazzi - Via Volta, 5 - Soragna (PR)
Info: 0524 596129, [email protected];
Aperto dal primo marzo all’8 dicembre
Visita con degustazione: 5 euro
Museo del Prosciutto e dei salumi di Parma
C/o Ex Foro Boario - Via Bocchialini, 7 - Langhirano ( PR)
Info: 0521 864324, [email protected]
Aperto dal primo marzo all’8 dicembre
Visita: 3 euro
Assaggio di Prosciutto di Parma: 3 euro
Museo del Salame di Felino
C/o Castello di Felino
Strada al Castello, 1 - 43035 Felino ( PR)
Info: 0521 831809, [email protected]
Visita con degustazione: 5 euro
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Sommelier nel mondo
L’ENOTECA
“ENOTRIA VINO”
GESTITA DA
DOMENICO DI PAOLO
È UNA DELLE MIGLIORI
DELLA
GERMANIA:
TRA I SUOI CLIENTI
GRANDI ALBERGHI
E RISTORANTI STELLATI
italiano
L’
che ha stregato
i
tedeschi
di Luisa Barbieri
he ci provasse gusto a deliziare la Germania con le bontà
del made in Italy, lo dicono i
suoi trascorsi da giovane e brillante
intermediario della Regione Molise,
impegnato, a soli 22 anni, a esportare, proprio lì, prodotti rigorosamente italiani: pasta, caffè, olio e vino.
Vino, sì, quello che poi, per lui, sarebbe diventato il must, ben interpretando e soddisfacendo la realtà tedesca da esperto conoscitore quale era
stato in grado di diventare. Certo,
C
68
grazie anche a prodotti di primissima qualità e ad una professionalità
ben consolidata nel tempo.
Ed ecco Domenico Di Paolo, imprenditore cinquantenne, insignito come
Cavaliere della Stella della Solidarietà
Italiana nel 2008 dal presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, lanciarsi, due anni dopo quegli esordi,
in questa avventura, come la definisce il cavalier Domenico. E aprire
nel 1986, ad Hagen, in Nord Reno
Vestfalia, la sua “Enotria Vino”,
un’enoteca con vendita al dettaglio
e all’ingrosso, una delle 400 migliori di tutta la Germania. Il bilancio, a
22 anni di distanza, è favoloso, con
un’offerta di prodotti internazionali
ma che non poteva non puntare su
vitigni autoctoni italiani.
Il programma enologico è infatti completo e spazia su tutte le regioni dello
stivale, isole comprese.
Unica in questo senso, l’enoteca si
avvale della professionalità di ben sei
sommeliers Ais. Grazie a loro, qui i
▲ Domenico Di Paolo
▲ Cristian Fabrizi e Daniela Bianco,
sommeliers dell'Enoteca Enotria
privati trovano una vasta scelta di
vini, un consulto professionale, la
possibilità di degustare e di scegliere il prodotto che cercano, sicuri di
andare ad acquistare quello giusto.
E qui si riforniscono anche i ristoranti della regione, ai quali viene
offerto un servizio che non si ferma
alla consegna della merce.
Il cliente viene accompagnato nella
scelta delle bottiglie per le quali viene
anche creata appositamente l’etichetta. Da non dimenticare il servizio
garantito alle grandi catene alberghiere come il Rocco Forte e il
Gruppo Althoff, con ristoranti da tre
stelle Michelin. Clienti che hanno
reso questa azienda un nome in tutta
la Germania, grazie a una distribuzione che parte da Hagen per arrivare ad Amburgo, a Monaco, a
Berlino e ad Aquisgrana.
Formatosi ai corsi Ais, oggi il cavalier Domenico, per primo, si avvale
proprio di quella professionalità riconosciuta dallo Stato e che ha risonanza in tutto il mondo. Fatta di una
serietà, dice Domenico, che la contraddistingue da molte altre associazioni. “Il nostro, dice, è stato il primo
corso bilingue tenuto all’estero ma
gestito direttamente dall’Italia, e ha
visto la nascita di 24 sommeliers. E’
importante istruire i ristoratori italiani all’estero, perché sono loro che
ogni giorno devono confrontarsi con
i clienti tedeschi e sono ambasciatori in prima linea del made in Italy”.
Il suo successo, dunque, lo porta
oggi a credere nella necessità di diffondere più professionalità anche tra
i privati, invitandoli a prendere parte
ai corsi Ais con seminari, 30 all’anno fuori casa e 10 in casa, che lui
stesso organizza regolarmente. Un
modo, racconta Domenico, per consolidare così la diffusione della cultura del vino italiano. A partire dalla
sua esperienza personale, quella da
maestro degustatore, vera espressione del fascino che il mondo del vino
ha sempre esercitato su di lui. “Da
ragazzo, racconta, quando ancora
vivevo in Abruzzo, partecipavo già con
interesse alle vendemmie. In seguito
al conseguimento del diploma all’istituto commerciale, ho preso parte a
vari corsi istituiti dall’Accademia del
Maestro Degustatore”.
L’incontro con questa associazione
avvenne per lui negli anni Ottanta,
durante il Vinitaly, a Verona. Da inesperto, Domenico voleva dare una
base teorica a quella passione. Ne
nacque un’esperienza più che positiva. Una formazione poi proseguita
e che ha dato ottimi frutti: un’azienda in grado di offrire una panoramica completa del vino italiano, con un
programma standard al quale di
affiancano le novità, rappresentate
dai vitigni autoctoni non diffusi, non
conosciuti oppure riscoperti.
Per incuriosire la clientela e avvicinarla al mondo del vino italiano, ecco
la trovata: puntare su arte, musica
e moda... Da qui l’idea di organizzare degustazioni e seminari, abbinando vino e cibo, vernissage con artisti sia italiani, tra cui in passato, l’artista piemontese Carlo Crosso, sia
tedeschi come Horst Becking, sfilate di moda come Miss Italia nel
Mondo e ricevimenti consolari.
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Sommelier nel mondo
▲ I sommeliers della delegazione della Germania settentrionale
▲ Domenico Di Paolo
e Daniela Bianco
70
E i tedeschi gradiscono, eccome: la
clientela è cosmopolita, molto aperta a livello internazionale, predilige
il vino italiano e quello francese.
Preparata, insomma.
E affascinata dall’Italia e dalla sua
cultura, amante dei viaggi, con un
occhio di riguardo a Piemonte, Veneto
e Toscana, regioni trainanti della produzione vitivinicola italiana. Solo ultimamente hanno iniziato ad interessarsi al sud e alle isole e questo ha
portato ad una conseguente richiesta di vini di quelle zone, grazie anche
all’ottimo rapporto Qualità-Prezzo
offerto.
E se i tedeschi rispondono magnificamente, gli italiani non sono da
meno. Soprattutto gli imprenditori,
a maggior ragione quelli impegnati
nella ristorazione, mentre i privati
sono rimasti, per la maggior parte
dei casi, molto legati alle loro radici
e tradizioni e al motto “La roba fatta
in casa è sempre la migliore...”. Chi
ha attività ha cercato di evolversi nel
tempo, per competere con la gastronomia internazionale. Si è avvicinato al mondo del vino e ne ha capito
l’importanza, al punto che oggi, nei
ristoranti italiani si trovano carte con
80-200 vini. Un dato molto significativo, che sottolinea l’apprezzamento dei prodotti di casa nostra.
Soddisfazioni per il cavalier Domenico
insomma, come le innumerevoli citazioni che gli sono state dedicate da
parte della stampa nazionale e locale e da riviste specializzate come il
“Feinschmecker” e il “Wein Gourmet”.
Oltre al fatto che proprio a lui sia stata
assegnata l’organizzazione di uno dei
più importanti eventi che celebrano
l’Italia. “Ho avuto l’onore di organizzare per ben tre anni la “Festa
Italiana” ad Hagen, nel 1990, 1992,
1994, con il patrocinio dell’ambasciata italiana e dell’Ice, Istituto di commercio estero.
Una manifestazione centrata sul
made in Italy, della durata di 5 giorni, che ha visto la partecipazione di
circa 400 mila persone per strada,
con grande risonanza di stampa, “Die
Zeit”, “Die Welt”, e il riconoscimento,
da parte della città, del titolo di manifestazione di maggior successo dal
dopoguerra ad oggi”.
Oli d’Italia
olivoteca
d’Italia,
L’
un’idea vincente
di Luigi Caricato
i sono idee che vanno coltivate. Per esempio quella maturata da Pasquale Di Lena, fondatore dell’associazione delle Città dell’olio. La sua proposta di realizzare una “olivoteca d’Italia” ha avuto sin da
subito i primi favorevoli riscontri. L’idea è stata lanciata sul settimanale “Teatro Naturale”, agli inizi di dicembre 2008, ed è stata prontamente ripresa dall’agenzia di
stampa Ansa e successivamente da altri media. Un
riscontro iniziale avvenuto sotto i migliori auspici, visto
che già si muovono in diversi, a livello istituzionale e non.
In diversi, dunque, si dichiarano pronti in questa fase
iniziale di lancio ad accogliere lo spirito che anima la proposta e ad aderire al progetto. L’Italia d’altra parte vanta
un patrimonio varietale piuttosto esteso. Un decreto ministeriale del novembre 1993 riporta l’elenco delle cultivar
d’olivo ufficialmente iscritte nello schedario oleicolo nazionale. Elenco che è ripartito secondo un numero progressivo da 1 a 395, e che offre una essenziale descrizione
con relativo codice di appartenenza. Un lavoro prezioso,
che ci fa capire quanto sia effettivamente importante il
germoplasma olivicolo, vero punto di forza, più di altri,
della nostra olivicoltura.
E oggi l’Ivalsa, l’Istituto per la valorizzazione del legno e
delle specie arboree di Sesto Fiorentino, riferendosi alla
risorse genetiche presenti nei nostri oliveti, ne mette in
elenco addirittura 538. E’ dunque il caso non solo di
valorizzare, ma di fare, di questo esteso e ricco patrimonio di varietà, una risorsa da rendere ancora più felicemente operativa del solito. Intanto, il primo a scendere
in campo, dopo la proposta di Di Lena, è stato il presidente della Cia Giuseppe Politi, quindi, a seguire,
l’Associazione nazionale delle Città dell’Olio, l’Assitol, e
altri riferimenti istituzionali come la Regione Campania,
la Provincia di Campobasso, e molti altri ancora che ad
oggi hanno manifestato un vivo interesse. C’è da fidarsi, così almeno sembra. E pare infatti che il progetto
possa prendere davvero corpo, nella speranza che non
resti tuttavia solo sulla carta. L’idea di approntare una
sorta di oliveto speciale, che raccolga tutte le identità, è
d’altra parte strategicamente fattibile. “Non solo perché
C
72
raccoglie, presenta e promuove il ricco patrimonio di biodiversità dell’olivicoltura italiana – come opportunamente ci tiene a precisare Pasquale Di Lena – ma anche perché, a conti fatti, disporre di una olivoteca ben strutturata consente oggi di creare una attrazione e un punto
di incontro per studiosi e cultori dell’olivo e dell’olio, fino
a diventare anche una meta per turisti, scuole, università e appassionati consumatori.
Pasquale Di Lena già pensa al futuro: “L’Olivoteca d’Italia
– dice – dovrà diventare la maglia centrale di una rete di
strutture similari a carattere pubblico e di livello regionale”. E, con l’intenzione di precisare meglio l’idea del
progetto, insiste: “Noi siamo partiti da pochi dati, sufficienti per avere il quadro della realtà dell’olivicoltura italiana, all’interno di quella mondiale, e abbiamo visto che,
sui 12 miliardi di alberi che esprimono ambienti e paesaggi spettacolari del nostro Paese, sono ben 224 milioni e più gli alberi di olivo, i quali per l’esattezza ricoprono 1,1 milione di ettari di superficie coltivata a oliveto”.
Un numero ragguardevole di piante, non c’è che dire; un
numero su cui peraltro non si è ancora puntato a sufficienza, fino ad oggi. E lo si vede peraltro da come viene
trascurata la nostra olivicoltura a livello di Istituzioni
centrali. Ci pensate? E’ come assistere alla costruzione
di tante nuove città senza alcun piano regolatore. Voi mi
direte, ma è quello che accade comunemente. Già, ma
con l’olivicoltura è ancora peggio. Accade proprio di tutto.
C’è pure chi – pensate un po’ – cerca di spacciare cultivar spagnole – proprio così: spagnole – nel tentativo di
importarle in Italia al fine di promuovere e favorire una
spagnolizzazione dei nostri impianti olivetati. Ora, sia
detto per inciso: io sono aperto a qualsiasi forma di sperimentazione, ma non accetto forme di colonizzazione.
Non per una chiusura mentale, ma perché è da idioti, di
fronte a un vasto patrimonio varietale come il nostro,
importare cultivar spagnole. Sorge dunque il dubbio che
ci sia, da parte di qualcuno, un po’ di malafede. Da
qui, l’idea di allestire una Olivoteca d’Italia, oltre che una
bella idea in sé, rappresenta anche un baluardo a difesa del nostro germoplasma olivicolo.
GLI ASSAGGI
Nel bicchiere. Verde dai riflessi dorati, è limpido alla vista. Al naso ha
profumi fruttati di media intensità, puliti e freschi, dalle connotazioni
erbacee, con rimandi netti al frutto. Al gusto è vegetale, con richiami
al carciofo e alla mandorla. Al palato è armonico e vellutato, ha
buona fluidità e note amare e piccanti ben dosate. In chiusura una
lieve punta di piccante e toni mandorlati.
L’abbinamento. Insalata di carciofi con patate e valeriana; gnocchetti di segale con cipolle al cartoccio e fagioli; arrosto di maiale al
finocchio.
ITALIA
“Poggio del Fiore” è un 100% italiano, frutto di un blend di diverse tra
le più rappresentative cultivar nostrane.
“Dagla” è un blend, in produzione limitata, da olive Frantoio (80%),
Leccino e Pendolino.
Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdolini, si apre al naso con profumi fruttati di media intensità, fini ed eleganti, con toni erbacei e di
frutta bianca. Al palato ha buona fluidità ed è morbido e avvolgente, armonico, equilibrato nelle note amare e piccanti, con gusto
vegetale di carciofo e lattuga. In chiusura note floreali, sentori di
mandorla e lieve tocco piccante.
L’abbinamento. Pasta di farro alla salvia; insalatina di sedano, mela,
montasio e noci; involtini di pesce spada al cartoccio con pomodorini.
Boris Pangerc, Dolina 116, 34018 San Dorligo della Valle (Trieste),
tel. 040.228541, [email protected]
FRIULI VENEZIA GIULIA
Olitalia Gourmet, via Meucci 22/a, 47100 Forlì, tel. 0543.794811,
www.olitalia.com
Nel bicchiere. Verde dalle sfumature dorate, è limpido alla vista. Al
naso ha profumi fruttati di media intensità, freschi e vegetali. Al palato è morbido e suadente, di buona fluidità, con note amare e piccanti evidenti e nette, persistenti, ma in buon equilibrio. In chiusura
note di erbe di campo e punta piccante.
L’abbinamento. Crema di carote; gnocchi di ricotta e spinaci; tonno
fresco scottato con carpaccio di carciofi.
LAZIO
“Tor de’ Sassi” è un blend da olive Frantoio (40%), Moraiolo (30) e
Leccino (30).
Azienda agricola Francesca Barberini-Tenuta Porta Medaglia,
via Porta Medaglia 152, 00134 Roma, tel. 06.7136018,
[email protected]
Nel bicchiere. Verde dagli intensi riflessi oro, è limpido alla vista.
All’olfatto ha profumi che rimandano netti al frutto fresco e verde,
con marcati sentori erbacei e richiami a frutta bianca. Ha buona fluidità e armonia al palato, con gusto vegetale di carciofo ed erba di
campo, amaro e piccante netti ma ben dosati. In chiusura i toni
mandorlati e la persistenza del piccante.
L’abbinamento. Riso rosso in insalata con salsina alla rucola; macedonia di pomodori con fagioli cannellini e pecorino; polipo con
pomodorini, patate e capperi.
LAZIO
“Cetrone” fruttato intenso 2008, da olive Itrana in purezza.
Azienda agricola Gina Cetrone, via Cornarolo 4, Sonnino (Latina),
tel. 0773.949008, [email protected], www.cetrone.it
73
Birra di qualità
birra
Una
sotto la Lanterna
di Maurizio Maestrelli
DUE
COLLEGHI
CHE PRIMA LAVORAVANO
ALLA
DEL
LATTE
CENTRALE
DI GENOVA
DECIDONO DI SEGUIRE
LA LORO PASSIONE
E DI APRIRE
UN BIRRIFICIO
ARTIGIANALE
74
a data della prima cotta, ovvero della prima produzione ufficiale, è
quella del 5 giugno 2008. Nemmeno un anno fa. Eppure il birrificio
Maltus Faber di Genova ha ottenuto il massimo riconoscimento, al
pari di soli altri ventuno produttori, sulla Guida alle Birre d’Italia 2009.
Ce l’ha fatta con la sua Ambrata, ma quello che stupisce è la rapidità felina con cui si è insediato ai vertici qualitativi nazionali. Una rapidità, per
l’appunto, che potrebbe quasi destare dei “sospetti” se non si conoscesse
la storia dei due titolari del birrificio stesso: Massimo Versaci e Fausto
Marenco.
Cominciamo allora a spiegare che i due si conoscono dal 1992, lavorano
insieme alla Centrale del Latte di Genova, un’azienda nell’orbita del gruppo Parmalat. Marenco è impegnato nel controllo qualità del prodotto,
Versaci nell’ufficio marketing. Più tecnico il primo, orientato al commerciale e alla comunicazione il secondo. E già queste, verrebbe da dire, sono
delle buone premesse. Ma i due condividono anche una feroce passione
per la birra: collezionista, organizzatore di corsi e di viaggi birrari Massimo
Versaci, eccellente homebrewer Fausto Marenco.
Quest’ultimo passa in breve dalle cotte casalinghe a quelle, più impegnative, per una nota associazione di Pasturana, nel basso Piemonte, ed
è probabilmente in queste occasioni che affina la tecnica e il talento. Fino
al giorno in cui, con Versaci, decidono di mettersi a “giocare” sul serio,
producendo birra in proprio e nella propria città: Genova. Tutto quello che
segue ha in effetti un’accelerazione insolita: viene trovato lo spazio per
l’impianto in via Fegino 3, all’interno di uno stabile del centro storico
che ospitava dal 1907 la fabbrica di birra Cervisia, un vero e proprio punto
di riferimento per i genovesi. Sembra un segno del destino e forse lo è. Il
passo successivo è l’impianto di produzione, un passaggio importante per
tutti gli artigiani della birra. “Avremmo potuto acquistarlo semplicemente”, spiega oggi Versaci, “ma volevamo qualcosa su misura e che avesse le
caratteristiche tecniche che noi riteniamo irrinunciabili. Vede, molti impianti pronti si scontrano poi con le necessità del lavoro quotidiano tra cui
quella, fondamentale, della sanificazione dell’impianto stesso. Non ho detto
L
▲ Massimo Versaci
e Fausto Marenco
lavaggio, ho detto sanificazione perché su questo siamo proprio intransigenti. Lo consideriamo un requisito sine qua non”.
La pulizia dell’impianto è in effetti
una regola sulla quale non si può
discutere, perché è una delle basi
sulle quali si costruisce la qualità
delle birre. Sarà un aspetto poco
creativo, ma è sicuramente un
atteggiamento professionale. Fatto
l’impianto ad hoc su un progetto di
proprietà con un’azienda specializzata ecco che si parte con la prima
birra, quella appunto del 5 giugno 2008. Si chiama In Primis, è a
tiratura numerata e se si è fortunati forse la si può ancora trovare. Noi l’abbiamo assaggiata e l’abbiamo
trovata molto corretta, anche elegante, con una bella schiuma fine, i
profumi fruttati e un netto finale amaro al palato. Per essere una cotta
di prova, non c’è che dire. “La nostra filosofia produttiva”, continua a raccontare Versaci, “non fa ricorso in nessun modo alle spezie. Non è che non
condividiamo chi lo fa, solo preferiamo attenerci agli ingredienti base.
Lavoriamo sulla miscelazione dei malti, sull’utilizzo dei luppoli e sul lievito. Produciamo alcune birre che vanno bevute “fresche” di produzione,
anche se tutte hanno un periodo di maturazione in bottiglia prima della
vendita, ma anche delle birre che migliorano con il tempo”.
Il birrificio Maltus Faber (Tel. 340.1230069; www.maltusfaber.com;
[email protected]) lavora adesso su tre linee: ci sono le birre cosiddette “base” ovvero la In Primis, la Blonde e l’Ambrata; le birre speciali o
stagionali come la Brune, la Triple Blonde e la Birra di Natale; e le birre
da meditazione ossia la Extra Brune e l’Imperial. “Ammetto che non abbiamo dimostrato una grande fantasia nella scelta dei nomi”, scherza Versaci,
“ma siamo riusciti a comporre una gamma abbastanza ampia e articolata per la nostra clientela. Sono tutte birre di alta fermentazione, non pastorizzate e non filtrate, in bottiglia da 0,75”. Una gamma che già si può
trovare in giro, a Genova ma non solo. Il successo di un’iniziativa, oltre
che dai commenti favorevoli, si misura anche con i risultati concreti. La
distribuzione delle birre di Maltus Faber è affidata in esclusiva per la
Liguria a un grossista, altri accordi sono stati già raggiunti o stanno per
essere conclusi in altre zone d’Italia. I più interessati sembrano essere,
come spesso accade, ristoranti ed enoteche che di anno in anno sembrano farsi maggiormente affascinare dal gusto e dai profumi delle birre artigianali italiane. “Ma, e la cosa ha preso in contropiede anche noi”, conclude Versaci, “riscontriamo notevoli consensi nelle pizzerie. Ci sono locali di questo tipo che stanno imparando come la pizza con la birra artigianale possa costituire un matrimonio ideale e che ogni pizza può avere la
sua birra in abbinamento perfetto. Qualche tempo fa, ad esempio, abbiamo organizzato una serata a base di focaccia di Recco e le nostre birre, ed
è stato un successo oltre le nostre migliori previsioni”. Già, perché se
Marenco è il deus ex machina della produzione, la mente sempre rivolta
alle ricette e ai fermentatori, Versaci non si è dimenticato la sua competenza nel marketing.
La conoscenza e la diffusione delle birre artigianali passa necessariamente attraverso il passaparola, le piccole ma appassionanti iniziative rivolte
alla degustazione e ai possibili abbinamenti. Una sorta di “torrente carsico” della comunicazione che non compare sulle pubblicità dei giornali
ma che, lentamente, sta facendo capire al grande pubblico come le birre
non sono solo i grandi marchi. I piccoli artigiani, in definitiva, sono alla
riscossa, conquistandosi un loro mercato. Di nicchia, indubbiamente, ma
non per questo meno importante, forse anche più interessante, di quello
governato dalla legge dei grandi numeri.
75
Distillati
In
Olanda
si curavano
con il
gin
di Angelo Matteucci
mmaginate una giornata faticosa, apparentemente interminabile:
difficoltà e contrattempi ci fanno desiderare con impazienza la sua fine
per assaporare la libertà della sera che finalmente arriva con uno splendido tramonto da contemplare in allegria e distensione con le persone più
care, seduti al bar preferito con terrazzo a picco sul mare.
Sul tavolo davanti a noi vi è un bicchiere alto, appannato da goccioline
formate dalla diversa temperatura tra il contenuto ghiacciato e la tiepida
temperatura serale. Il ghiaccio nel bicchiere si scioglie lentamente e le bollicine a scatti si staccano dal fondo per esplodere in superficie. Il drink è
un perfetto gin & tonic preparato con maestria dal barman amico ed è lo
splendido compagno rilassante di quel felice momento.
A differenza di altri distillati il gin, nell’immagine del consumatore, è un
prodotto metropolitano legato soprattutto al capoluogo britannico per la
denominazione London Dry gin. Contrariamente a quanto si crede, non
nacque in Inghilterra ma vide la luce in Olanda probabilmente nella seconda parte del XVI secolo a scopo medicinale contro la cattiva digestione per
volere di Sylvius e Franciscus de la Boe, entrambi medici e professori dell’università di Leida. A purissimo alcol varie volte distillato furono aggiunti in infusione alcuni elementi botanici comprese bacche di ginepro per
distillare l’infuso ancora una volta.
Ben presto il genever, come è chiamato in Olanda, varcò l’uscio dell’alchimista per essere considerato un ottimo medicinale per vari disturbi ed
anche una piacevole bevanda con aromi derivanti da bacche di ginepro,
semi di coriandolo, liquirizia, angelica e altro. Il distillato ha una storia
particolare con alterne fortune dato che nella sua lunga esistenza fu ed
è talvolta prodotto e presentato in modo incorretto pur avendo nobili origini. Fu largamente utilizzato anche dalle truppe olandesi prima delle battaglie per dare coraggio ai soldati. Gli alleati inglesi di stanza nei Paesi
Bassi durante la guerra dei trent’anni (1618-1648) impararono a farne
largo uso decidendo di portare il genever in patria al loro ritorno. In
Inghilterra in quel periodo la nobiltà e l’alto clero bevevano vino e cognac
importati dal territorio francese mentre il popolo consumava esclusiva-
I
IL
GENEVER VENIVA
BEVUTO A SCOPO
MEDICINALE CONTRO LA
CATTIVA DIGESTIONE
E ALTRI DISTURBI:
GLI ALLEATI INGLESI
LO CONOBBERO NELLA
TERRA DEI TULIPANI
GUERRA
TRENT’ANNI
DURANTE LA
DEI
E DECISERO
DI PORTARLO
OLTREMANICA
76
▲ Un ''Gin Toddy'', preparato
con gin, acqua, limone,
zucchero e cannella
▲ Bacche di ginepro, semi di
coriandolo, liquirizia e angelica,
ingredienti botanici del gin
▲ Il Plymouth, l'unico gin con
denominazione geografica,
e lo storico Gordon's Gin
mente birra locale. I produttori di birra inglesi colsero al balzo l’opportunità di iniziare anch’essi l’attività di distillatori utilizzando cereale e bacche di ginepro senza peraltro aggiungere elementi botanici particolari. Nel
1638 fu fondata a Londra la Company of Distillers che stabilì regole atte
a premiare la purezza dei distillati con più passaggi in alambicco.
L’ascesa al trono d’Inghilterra di William III d’Orange nel 1689 favorì l’importazione del distillato dall’Olanda, boicottando così vini e distillati della
nemica Francia. Il successo del genever olandese in territorio inglese ed
il distillato locale (denominato geneva ed in seguito gin) uniti divennero la
bevanda nazionale politicamente legata all’Inghilterra protestante, mentre il francese cognac era visto come simbolo cattolico. La produzione di
gin esplose in quegli anni raggiungendo consumi da capogiro nel vero
senso della parola! Nel 1730 solamente nel territorio metropolitano londinese vi erano settemila vendite di liquori. La produzione fu lasciata anche
nelle mani di locandieri, spesso senza scrupoli, che distillavano con metodi rudimentali e con risultati catastrofici per la salute dei cittadini. La vendita di pessimo gin corretto con miele per renderlo dolce e meno sgradevole, raggiunse nel 1743 ben settanta milioni di litri con una popolazione inglese di sei milioni. Si può facilmente comprendere che il basso costo
del gin alla portata di tutti indusse larghi strati della popolazione meno
abbiente allo stato di alcolismo cronico, piaga particolarmente nociva per
le donne, soprattutto madri che traevano il loro sostentamento esclusivamente dal gin. In quel periodo il tasso di mortalità a Londra superava quello delle nascite con picchi altissimi per i bambini. Il parlamento britannico prese vari provvedimenti e solamente nel 1751 riuscì a porre un freno
a questa epidemia. La tassa alcol aumentò sensibilmente rendendo il gin
notevolmente più costoso. Un maggior controllo da parte delle autorità
ridusse la possibilità di bere smodatamente e la qualità del gin migliorò
raggiungendo e probabilmente superando il livello originale.
Vi furono grandissime proteste e tafferugli in tutto il Paese che si spensero nel tempo. A Londra, tuttavia alcuni distillatori di grande capacità e
serietà professionale producevano gin di qualità. I nomi che sono giunti
ai nostri giorni sono i fratelli londinesi Robert e Daniel Booth che iniziarono la distillazione nel 1742 e lo scozzese Alexander Gordon che aprì la
sua distilleria a Londra nel 1769 ed altri ancora che, sempre nel capoluogo inglese, produssero un eccellente gin secco, pulito che chiamarono
London Dry Gin. In seguito si unirono ai nomi citati altri che produssero
i gin Tanqueray, Bombay e Beefeater’s. Nel 1793 nacque nella città di
Plymouth sulla Manica la distilleria omonima che opera ancora nel
luogo originale ricavato da un antico monastero benedettino. E’ l’unico
gin con denominazione geografica (Plymouth gin) mentre il non protetto
London Dry Gin può essere prodotto ovunque. Nel frattempo altre bevande, un tempo riservate alla nobiltà, furono introdotte sul mercato a prezzi abbordabili.
Ci riferiamo al caffè, alla cioccolata e soprattutto al tè importato dai domini britannici che divenne la bevanda per tutti gli strati sociali. Nel XIX
secolo il gin inglese iniziò la distribuzione in bottiglia che diede maggior
impulso alla sua distribuzione mondiale. Divenne la bevanda della Reale
Marina e seguì i britannici nel Commonwealth. In India fu particolarmente apprezzato miscelato con acqua al chinino (dolcificata e gassata), Indian
tonic water che rese il gin & tonic la bevanda alcolica di fama mondiale.
Sempre nel XIX secolo furono preparate le prime miscele coadiuvate da
ghiaccio che presero nome di cocktail resi famosi negli anni venti e tristemente famosi durante il proibizionismo statunitense (1919-1933) quando in molti casi il gin usato era di pessima qualità. Ancora oggi si producono alcune qualità di gin economici di scarso valore che vengono serviti in certi bar non qualificati e soprattutto nel mondo della notte.
Sua maestà il gin, il più versatile tra i distillati, è comunque vincente grazie all’ottima produzione in generale e per il fatto che nella preparazione
di una bevanda a base di gin viene spesso richiesta la marca favorita dal
consumatore esigente che sa apprezzare le cose buone della vita.
77
Acqua
Le nanotecnologie
nuotano
nell’
acqua
di Davide Oltolini
ome appare evidente non
tutte le acque sono adatte ad
essere consumate dall’essere umano. Per essere tali, cioè per
non arrecare danno all’organismo se
non, addirittura, causare la morte
di chi le beve, devono, infatti, rispondere al requisito della potabilità. Un
tempo sul territorio italiano era possibile commercializzare e consumare unicamente due tipi di acque. Con
l’attuale disciplina di derivazione
europea, che si esplicita nel decreto legge n. 339 del 1998 e n. 31 del
2001, ai fini dell’immissione in vendita, non è più rilevante l’origine dell’acqua, ma unicamente la sua corrispondenza alle caratteristiche di
potabilità previste dalla normativa
vigente. Di conseguenza nella nostra
penisola sono commercializzate
essenzialmente due diverse macrotipologie di acque: le acque cosiddette “non trattate”, che si identificano nelle acque “di sorgente” e nelle
acque “minerali”, e le acque “trattate”, come l’acqua “dell’acquedotto”
(ovvero l’acqua di rubinetto, detta
anche acqua “del Sindaco”) e l’acqua
“purificata”. Quest’ultima, dopo esser
stata depurata, viene demineralizzata ed equilibrata, prima di essere
immessa al consumo. Questo prodotto ha riscosso già da tempo un
C
78
▲ Un “Water Cooler”, da noi spesso
indicato come “boccione” d'acqua
grande successo, soprattutto negli
Stati Uniti, dove è tra l’altro spesso
presente, come ormai anche in Italia,
nei cosiddetti “boccioni”, ovvero i
“water coolers” che, secondo la
nostra legislazione, possono contenere anche acque “di sorgente”, mentre risulta vietato, in questi particolari contenitori, l’impiego di acque
riconosciute, da parte del Ministero
della Sanità, come minerali.
Tra le novità in tema di depurazione
riveste, indubbiamente, grande rilievo, quella dell’impiego di tecnologie
hi tech ed, in particolare, di nanotecnologie. Queste ultime sono, infatti, sempre maggiormente presenti in
ambito gastronomico dove, da tempo,
si parla ormai di nanofoods. Ma cosa
sono le nanotecnologie? Si tratta di
un insieme di procedimenti che consentono la manipolazione della materia a livello molecolare ed atomico
sulla scala di un miliardesimo di
metro. E’ indubbiamente la novità
scientifica più rilevante del nostro
secolo e le sue applicazioni pratiche risultano essere infinite.
In realtà già incontriamo tali tecniche di manipolazione della materia
nella nostra vita quotidiana, pur
senza rendercene conto: in alcuni
farmaci, nelle marmitte catalitiche,
in diverse creme antirughe, che utilizzano l’ossido di titanio, in vari
dentifrici, ma anche in pellicole alimentari e nella produzione di padelle, come accade, ad esempio, in
Veneto dove un’azienda impiega carbonanotubes, ovvero molecole di
carbonio legate tra di loro in modo
da formare nanotubi più resistenti
dell’acciaio.
Si parla addirittura di approntare,
nel giro di non molti anni, come
sostiene lo statunitense Ray
Kurzweil, esperto di intelligenze artificiali, dei nanorobot che, per mezzo
del nostro sistema circolatorio
potrebbero arrivare al cervello e lì
operare in sinergia con lui. Per quanto riguarda i nanofoods si possono,
invece citare diversi cioccolati, maionese, chewingum ed altri ancora.
Lo scorso anno il giro d’affari nel
mondo per i materiali nanotech ammontava a 50 miliardi di dollari e, prima della
recente crisi economica, il
tasso di crescita annuo
delle aziende che vi si
dedicano era, addirittura, del 28%. Il vero problema è, però, quello di
riuscire a capire se le particelle impiegate dalle
nanotecnologie, soprattutto (ma non unicamente) quelle utilizzate in ambito gastronomico, siano, o meno, pericolose per la salute dell’essere umano.
A tal proposito lo scorso anno la
Commissione Ue ha, infatti, incaricato l’Efsa (European Food Safety
Authority), cioè l’Autorità europea
per la sicurezza alimentare, che si
occupa della valutazione dei rischi
relativi all’alimentazione umana e
animale fornendo consulenza scientifica indipendente, di approfondire
adeguatamente l’argomento. In ogni
caso, a livello medico, non si conoscono ancora, almeno con precisione, gli effetti che tali tecnologie hanno
o possono avere sul corpo umano.
Si tratta di un aspetto estremamente rilevante, anche perché le nanoparticelle sono in grado di penetrare all’interno delle cellule, risultando, quindi, assolutamente indispensabile che siano biodegradabili, al
fine di scongiurare anche gli effetti
negativi di un’introduzione nell’organismo che potrebbe essere prolungata nel tempo.
Ma, in particolare, come avviene
l’applicazione della nanotecnologia nel campo della
depurazione delle
acque?
Si
tratta di un processo ideato da Peter
Majewski e Chiu Ping Chan,
dell’Università del Sud Australia, che
consente un rilevante abbattimento
dei costi di purificazione di queste
ultime, con conseguenti enormi vantaggi economici. Minuscole particel-
le di silice rivestite da uno strato
nanometrico di un idrocarburo, che
funge, così, da sostanza attiva, possono essere impiegate al fine della
depurazione dell’acqua da virus, batteri e sostanze chimiche tossiche per
l’uomo. La silice (SiO2), solido cristallino di colore bianco, è un composto
del silicio.
La natura di semiconduttore di quest’ultimo ne suggerisce l'impiego nel
settore dell'ingegneria elettronica,
come, ad esempio, nella fabbricazione di circuiti integrati e di vari
ulteriori componenti elettronici.
Nel processo di depurazione la
polvere di silice si mescola all’acqua dove rimane ad agire per
circa una sessantina di minuti. Successivamente il liquido
mischiato con tale polvere nanotecnologica viene sottoposto a filtrazione e risulterà, così, alla fine
del processo, del tutto privo di agenti patogeni.
Questi ultimi, infatti, rimangono inevitabilmente intrappolati sulla superficie delle particelle a causa dell’attrazione elettrostatica (l’elettrostatica è, infatti, quella branca della fisica che studia le forze esercitate da
un campo elettrico stazionario, ovvero che non muta col tempo, su corpi
carichi).
Concludiamo questo nostro piccolo
“viaggio” nel mondo della più recenti tecnologie regalando ai lettori di De
Vinis una curiosa anticipazione: un
tempo quelli che erano considerati i
prodotti dell’alta tecnologia venivano
misurati in “Milli” prefisso 0,001
(ovvero in millimetri), poi è arrivata la
cosiddetta microtecnologia che si evidenzia in “Mikro” prefisso 0,000001
ed ora siamo alfine giunti, come illustrato, alla nanotecnologia: “Nano”
prefisso 0,000000001. Qual è, quindi, il termine che potrebbe, un giorno, contraddistinguere la tecnologia
del futuro, se continuerà tale incredibile evoluzione? Si tratta di picotecnologia da “Piko” prefisso
0,000000000001. Avremo visto
giusto? Conservate questo articolo e ne riparleremo tra una
cinquantina d’anni.
Prosit.
79
Vino che passione!
Il
del
80
vino
pittore
▲ Angelo Accadia nella sua vigna
▲ La campagna a Serra San Quirico
di Francesca Cantiani
a pittura e il vino si sono incontrati molte volte,
perché il vino non è esclusivamente materia e
colore ma è anche luminosità e metamorfosi. I
pittori da sempre sono legati al vino, musa ispiratrice
e fuoco vitale ma d’altro canto anche il vignaiolo, come
il pittore, possiede una sua tavolozza dove dosa e trasforma, mescola e crea, giocando con le leggi naturali
che presiedono alla fermentazione e all’evoluzione del
vino. Insomma il vino e la pittura sono due modi diversi di interpretare la vita. Non c’è da stupirsi dunque
se il passaggio da artista a vignaiolo, per Angelo Accadia,
sia avvenuto in maniera naturale, come la semplice
conseguenza di pensieri, passioni e scelte.
Ed è stata proprio la decisione di stabilirsi nel cuore
delle Marche, sulle dolci colline a sinistra del fiume
Esino, tra la frazione Sasso e Castellaro di Serra San
Quirico, in provincia di Ancona, e il desiderio di vivere
in una casa colonica con annesso piccolo vigneto a spingere il pittore Accadia, dotato di una spiccata vena artistica, a mettere in un angolo tavolozza e pennelli e a
dedicarsi totalmente al vino.
«L’artista nasce prima del vino» spiega Angelo. «La mia
vita era incentrata prevalentemente sull’arte, la pittura e la scultura e il vino era un piacere che apprezzavo ma che non condizionava la mia vita. Oggi natural-
L
mente accade il contrario, però se devo essere sincero, non so se quella per il vino sia una passione che è
sempre stata dentro di me oppure sia nata con il tempo
per l’energia e l’attenzione che richiede il lavoro di chi
produce vino. Comunque continuo a dipingere, a scolpire ed espongo le mie opere in giro per il mondo».
E infatti appena si entra in azienda la prima cosa che
colpisce l’attenzione sono i quadri dai colori vivi e le
sculture che campeggiano solitarie come divinità silenziose.
■■■ Ma perché un pittore diventa vignaiolo?
«Mia moglie ed io abbiamo comprato questa casa nel
1979 e ci siamo trasferiti per un certo periodo. Vivendo
qui ce ne siamo innamorati a tal punto da decidere di
stabilirci definitivamente. Oltre alla casa colonica abbiamo acquistato il piccolo appezzamento di terra in parte
vitato, detto vigneto storico, dove veniva coltivata una
molteplicità di uve che servivano sia per le esigenze di
chi viveva qui prima di noi sia per farne vino.
Inizialmente il poco vino prodotto era esclusivamente
destinato alla nostra tavola e agli amici. Sono stati proprio loro a spingerci “ad allargare la cerchia”, a farlo
assaggiare anche ad altri. Abbiamo deciso quindi di
piantare nuove viti. L’azienda vera e propria è nata
81
Vino che passione!
nel 1983 e può contare su cinque ettari, posti a 370
metri di altezza, messi a dimora nel 1991, e dove grazie ad un attento lavoro di selezione di porta-innesti e
di cloni dell’impianto siamo riusciti a realizzare vini di
forte personalità».
■■■ Si è avvalso della collaborazione di un esperto?
«Effettivamente è dalla conoscenza di un agronomo che
è nata l’idea di impiantare un vigneto di uve bianche
Verdicchio per ottenere il vino Verdicchio dei Castelli di
Jesi nella tipologia Classico e Superiore e di mettere a
dimora un vigneto di uve nere Montepulciano,
Sangiovese e Lacrima per ottenere il vino Rosso Piceno.
La collaborazione ha portato di conseguenza alla necessità di organizzare in modo ottimale il vigneto e la cantina e alla scelta delle attrezzature più idonee per la
gestione del vigneto, per la spremitura e la conservazione del vino. Inoltre la tipologia del nostro vino è determinata dalla scelta degli appezzamenti, sempre a basso
impatto ambientale, sulla base delle caratteristiche morfologiche del terreno».
■■■ Si può dire che è un lavoro partito in silenzio, quasi
in sordina, ma che ha portato ad ottimi risultati?
«Esatto. Pensi che all’inizio vendevamo il vino sfuso.
Abbiamo cominciato ad imbottigliarlo nel 1985 e da
quel momento è stato un crescendo, con un aumento
inaspettato della produzione. Oggi produciamo trentacinquemila bottiglie, che non solo distribuiamo su tutto
il territorio nazionale ma esportiamo anche all’estero:
Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada, Giappone.
La nostra soddisfazione maggiore è che i nostri vini sono
apprezzati in molte parti del mondo».
■■■ Quali sono i vini che producete?
«Il nostro prodotto di punta è Cantorì, Verdicchio dei
Castelli di Jesi Classico Superiore Doc. Viene ottenuto dalla selezione di uve Verdicchio in campo, in appez-
zamenti di vigneto con esposizione climatica e caratteristiche morfologiche particolari. L’uva viene vendemmiata surmatura a mano in piccole casse e in più passaggi e viene messa integra nella pressa pneumatica
per prenderne soltanto il mosto migliore. Infine la fermentazione avviene a temperatura controllata e in
vasche di acciaio inox. Il Conscio, Verdicchio dei Castelli
di Jesi Classico Superiore Doc, è ottenuto da appezzamenti ben esposti al sole. Anche in questo caso la
raccolta è fatta a mano in piccole casse e la vinificazione è in bianco con spremitura soffice e con fermentazione in vasche di acciaio inox. Il Consono, Verdicchio
dei Castelli di Jesi Classico Doc, è dato da uve Verdicchio
con una resa per ettaro inferiore a quella prevista dal
disciplinare di produzione e comunque adeguata all’andamento stagionale. Si tratta di un vino che esprime
tutta la tipologia classica del Verdicchio. E infine il
Riverbero Rosso Piceno Doc, ottenuto da uve
Montepulciano, Sangiovese e Lacrima. Ha un lungo affinamento, dieci mesi in barrique e tonneaux, dieci mesi
in vasche di acciaio e quattro in bottiglia».
■■■ Un particolare interessante di questi vini riguarda
le etichette.
«Le etichette sono estratte dai miei quadri e poi elaborate graficamente. Ad esempio sull’etichetta del Cantorì
c’è l’immagine dei cantori e per un errore tipografico è
stato messo l’accento. Anche il Riverbero riprende il
tema della musica con i suonatori. Il Conscio rappresenta invece dei catamarani e dei pescatori e ricorda
che solo se si beve un bicchiere di vino si resta consci,
consapevoli».
■■■ Il vino è arte?
«Fare vino è un’arte perché bisogna capire la pianta,
sapere come lavora il mosto, anche se alla fine il vino
deve rimanere una cosa semplice perché non è altro
che una spremuta di uva».
SERRA SAN QUIRICO
UN PAESE DA SCOPRIRE
L’azienda Accadia si trova a pochi chilometri da una vera e propria perla
delle Marche: Serra San Quirico. È un paese di pietra adagiato su costa
rocciosa e con le sembianze di una nave con la prua sulla valle
dell’Esino. I monti sovrastano l’antica fortezza, testimoni di un passato che
i secoli non hanno cancellato. Il centro storico conserva intatto l’impianto medievale, con una particolarità: le “Copertelle”, passaggi coperti
che corrono lungo le mura. Di vero interesse la torre principale di difesa
detta il “Cassero” e la chiesa di Santa Lucia,
uno degli esempi più interessanti ed integri di
barocco delle Marche. A pochi chilometri
non si può non visitare l’Abbazia di
Sant’Elena, un esempio di romanico marchigiano. Ovunque regna il verde delle pinete e
delle montagne che offrono spunti per passeggiate e dolci atmosfere di pace. Da non
dimenticare le Grotte di Frasassi, uno dei più
spettacolari complessi carsici del mondo,
che destano l’emozione di un universo
nascosto e bellissimo dove il silenzio è rotto
solo dallo stillicidio delle gocce d’acqua.
82
▲ Una ''copertella''
Sommelier
Nel castello
officina
del gusto
c’è l’
di Antonello Maietta
A BRESCIA
UN BALUARDO NATO
PER DIFENDERE
I POSSEDIMENTI,
NEGLI ANNI
NOVANTA
È STATO TRASFORMATO IN
UNO DEI PIÙ ESCLUSIVI
E CONOSCIUTI
RISTORANTI
DEL TERRITORIO
GESTITO DAL SOMMELIER
DARIO DATTOLI
84
embrerebbe quasi impossibile, lasciando il frenetico e rumoroso
traffico dell’autostrada Milano-Venezia, poter trovare a pochi chilometri dal centro di Brescia, dopo qualche dolce tornante, un’oasi
incontaminata e selvaggia immersa nel silenzio e nel verde. Trentamila
metri quadrati di parco faunistico con cerbiatti, pavoni e anatre selvatiche, circondano infatti l’aristocratico edificio che ospita uno dei più esclusivi ristoranti del territorio.
Sulla sommità del Colle San Francesco, alla fine del Cinquecento, la nobile e potente famiglia dei Malvezzi edificò il suo castello, un baluardo nato
con l’intento di difendere, spesso in modo cruento, i possedimenti circostanti. Alla fine del Seicento accanto al castello venne poi innalzato un
altro edificio: un oratorio a pianta ottagonale dalla cupola in cotto, destinato ad accogliere la cappella di famiglia. Solo in epoca successiva la dimora conobbe maggiore tranquillità, quando venne destinata ad elegante
“casina” di caccia e… di piacere! Qui per secoli si sono ritrovati i nobili
della città e dei dintorni per cacciare lepri e fagiani ma talvolta anche
per sistemare, con duelli a colpi di spada, insanabili questioni d’onore.
S
▲ Alessandro Cappotto,
Chef Directeur de Cuisine
A partire dal 1960 un paziente e delicato intervento di restauro ha restituito all’edificio il suo altissimo valore storico ed oggi la costruzione è
più facilmente identificabile in una villa fortificata, avendo perso l’antica
cinta difensiva che caratterizzava il fabbricato originario. Nel 1977 l’intera struttura viene trasformata da Dario Dattoli, un appassionato gourmet, in un ristorante di charme con il nome di Castello Malvezzi.
L’edificio principale, che segue il tipico schema delle ville palladiane con
quattro salette minori disposte a coppia in modo simmetrico ed impreziosito dal grande salone delle feste, viene destinato ad accogliere il ristorante, mentre la piccola cappella gentilizia, sconsacrata da tempo, viene
trasformata in una suggestiva cantina per ospitare negli anni il frutto
del paziente lavoro e dell’encomiabile passione del suo anfitrione nella
ricerca di vini di alto lignaggio. L’ordine regna sovrano e le pregiate etichette che ammiccano dagli scaffali identificano il carattere di una cantina dal respiro internazionale. Qui, al riparo di ampie volte, tuttora
riposano e si affinano le nobili bottiglie che compongono una carta di grande spessore: duemila blasonate referenze suddivise per regione e per tipologia di vitigno o di uvaggio, raccolte in un volume di 180 pagine, rilegato in brossura.
La ricerca degli appassionati si può sbizzarrire tra bottiglie rare come lo
Champagne Grand Cru Blanc de Blancs Brut 1985 di Lilbert, il Meursault
1992 di Coche Dury, il Montrachet 1995 di Amiot o il Pauillac Château
Mouton-Rothschild 1973 oppure ancora il Gewürztraminer Quintessence
1989 di Clos des Capucins. Chi decidesse invece di restare al di qua delle
Alpi potrà trovare l’annata 1988 del Chianti Classico Vigneto San Lorenzo
del Castello di Ama oppure il Brunello di Montalcino Case Basse 1986 di
Gianfranco Soldera, tutti accomunati dall’encomiabile filosofia di ricarichi molto contenuti. Il vino più economico presente in carta è un vero
tributo al territorio e si identifica nel Ronco di Mompiano 2006 prodotto
a poche centinaia di metri dall’azienda agricola di Mario Pasolini. Si tratta di un sapiente uvaggio di Marzemino e Merlot di elegante complessità
che, per nulla incurante della sudditanza psicologica di essere proposto
in carta a 15 euro, si trova perfettamente a suo agio tra il meglio della produzione vinicola del pianeta. Tra i vini più costosi troviamo invece Pétrus
1990 e Romanée Conti 1997, posizionati al loro rango grazie anche ai
rispettivi prezzi di 3.000 e 4.500 euro.
La passione di Dario Dattoli per i vitigni nobili, con una particolare predilezione per il Pinot Nero, ha lasciato una traccia indelebile nelle molte
bottiglie dei grandi millesimi di Borgogna che ancora oggi, a distanza di
parecchi anni dalla sua prematura scomparsa, sublimano la loro massima espressione in una serie di pietanze, oltre che in un ricco carrello dei
formaggi di ricercata composizione.
Attualmente l’intera struttura è gestita da un affiatato tandem che si concretizza nelle sapienti capacità comunicative di Enrica Bortolazzi eccellente manager dell’accoglienza e del buon gusto e nelle felici intuizioni di
Alessandro Cappotto, regista a tutto campo di tutto ciò che è cibo e vino.
85
Sommelier
Fin dal suo debutto qui al Castello Malvezzi, avvenuto nel 1992, Alessandro
ha conferito alla cucina una sua particolarissima impronta, frutto dell’ammirevole legittimazione del suo variegato percorso professionale che
lo ha portato dal Cavalieri Hilton di Roma al Royal Garden di Hong
Kong, passando per gli Intercontinental di Londra, Francoforte e Ginevra,
giusto per citare solo qualche tappa, senza trascurare stage di approfondimento da Alain Ducasse a Monaco e Jacques Maximen a Lione. Sarebbe
stato tuttavia molto difficile lavorare per molti anni fianco a fianco di un
patron dalla personalità indiscutibile come quella di Dario, senza assorbire una parte importante della sua inclinazione e così Alessandro ha frequentato anche i corsi Ais, acquisendo la qualifica di sommelier professionista.
Alessandro accompagna oggi gli ospiti del ristorante in un percorso dei
sensi mirabilmente sintetizzato nei semplici concetti della sua filosofia
di chef: “Amo pensare alla mia cucina come un officina del gusto, dove i
profumi provenienti dai vapori delle pentole e gli aromi delle verdure e
delle spezie, ti riempiono di emozioni tali da essere già loro sufficienti a
giustificare i sacrifici da affrontare per ottenere quei risultati che fanno
grande un ristorante”.
Si ritiene quindi estremamente gratificato dall’idea di poter trovare delle
semplici armonie mediante l’accostamento di sapori primari con nuove
presentazioni ricche di colore e di gusto estetico. Ed in effetti, dopo la tendenza all’eccesso che ha dominato in molti settori negli ultimi anni, la sua
è una cucina tendenzialmente caratterizzata da sapori originali ma non
troppo marcati, da piatti non grassi, poco speziati, sapidi, sviluppati con
cotture rapide nell’intento di mantenere il più possibile inalterato il gusto
e il valore nutritivo degli ingredienti di origine. Una cucina del mercato
sostanzialmente, trasformando solo ciò che di meglio offre quest’ultimo,
con il categorico rifiuto delle inutili complicazioni, nella riscoperta della
bellezza e della semplicità.
Ma anche una cucina di territorio con i suoi prodotti più tipici, senza tuttavia alienare la curiosità di introdurre nuovi ingredienti e sperimentare
nuovi accostamenti, esplorando di pari passo le tecniche d’avanguardia e
le cucine straniere.
E’ difficile e riduttivo a questo punto continuare a pensare al “Malvezzi”,
com’è familiarmente chiamato dalla sua clientela più abitudinaria, semplicemente come un ristorante, il luogo viene identificato da oltre 30 anni
come sede ideale di incontri di lavoro o come meta tranquilla per raffinati gourmet, grazie all’amorevole compendio di riservatezza, di ospitalità e
di proposte enogastronomiche di assoluta credibilità. L’organizzazione del
Info:
Ristorante Castello Malvezzi
Via Colle San Giuseppe, 1
25133 Brescia
Tel. 030 2004224
E-mail: [email protected]
86
locale è peraltro in grado di allestire catering esterni ambientati nei luoghi più ameni. Saltuariamente vengono inoltre organizzate serate di degustazione a tema che si trasformano in occasioni pressoché uniche per condividere l’apertura di bottiglie veramente rare, difficilmente reperibili altrove. Mentre nelle calde serate estive la “Cantina” viene aperta al pubblico
con la stuzzicante offerta di un centinaio di etichette proposte al bicchiere, da accompagnare in modo informale a taglieri di salumi e formaggi,
carne e pesce alla griglia, comodamente seduti ai tavoli antistanti il prezioso edificio.
Ma l’arrivo della bella stagione è scandito anche dal rapido susseguirsi
di affascinanti eventi, accade allora che, per offrire a queste iniziative uno
spazio adeguato, ai margini del parco viene allestita la Khaima, una tenda
estiva arredata in stile etnico dove vengono sovente organizzati spettacoli musicali di vario genere, dai ritmi caldi e suadenti del jazz ai toni garbati della musica da camera, alternati di tanto in tanto a sfilate di moda,
rassegne d’arte, mostre fotografiche ed eventi culturali di grande spessore. Insomma tutto quanto contribuisce a determinare uno stile impeccabile che corre il rischio di farci dimenticare la vista mozzafiato che da
qui si gode sulla città.
A tavola
Le mille risorse
del
mosto
di Riccardo Castaldi
DAL
MOSTO D’UVA
IN
ROMAGNA
SI RICAVANO
PREPARAZIONI
CHE OGGI
SONO CONSIDERATE
GOLOSITÀ
MA UN TEMPO
SERVIVANO
PER CONSERVARE
PARTE DELLA RICCHEZZA
DELLA VENDEMMIA
NEL POVERO
PERIODO INVERNALE
aba, sugal e savôr sono prodotti
derivati dal mosto di uva che
fanno parte della tradizione alimentare rurale della Romagna e traggono origine dalla necessità di trasferire parte dell’abbondanza dell’ultimo raccolto autunnale, la vendemmia, al più parco periodo invernale.
Mentre oggi sono considerati fonte di
piacere per il palato, in passato, quando le possibilità di conservare il cibo
erano limitate, queste preparazioni
costituivano un’importante riserva di
calorie, sfruttata per soddisfare le esigenze alimentari di coloro ai quali il
vino era proibito, ovvero i bambini, oltre
che per variare ed arricchire la dieta.
Saba, sugal e savôr si conservano a
seguito del processo di cottura a cui
viene sottoposto il mosto, a differenza del vino che invece si conserva grazie al grado alcolico, all’acidità e all’anidride solforosa aggiunta. La lunga cottura, eseguita a fuoco diretto, esplica
S
la sua azione uccidendo la maggior
parte dei microrganismi presenti, in
virtù delle elevate temperature raggiunte; si deve considerare inoltre che
la cottura determina un significativo
aumento della concentrazione zuccherina, e quindi del potenziale osmotico, che si oppone alla proliferazione
delle cellule microbiche provocandone la disidratazione.
■■■ LA SABA E I SABADÒ
La saba viene ottenuta dalla cottura
di mosto di uva a bacca bianca,
Trebbiano romagnolo principalmente, ma anche da vitigni a bacca nera.
Le sue origini sono sicuramente molto
antiche, tanto da essere già conosciuta
al tempo dei Romani; in particolare
Apicio nel De Re Coquinaria annovera il “sapum”, ovvero l’odierna saba,
tra i differenti mosti cotti preparati al
suo tempo. Pellegrino Artusi rende
invece omaggio alla saba inserendola in “La scienza in cucina e l’arte di
mangiar bene” – ricetta 731 – sottolineando che “può servire in cucina a
diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti”.
La cottura del mosto avviene a fuoco
diretto, utilizzando un paiolo di rame,
e deve procedere molto lentamente.
Il mosto può essere filtrato preventivamente con un canovaccio – come
consiglia Pellegrino Artusi – oppure
ripulito dai vinaccioli e dai frammenti
di buccia con un colabrodo; spesso
però la pulizia avviene esclusivamente
ad inizio cottura, togliendo a più riprese la schiuma che affiora con l’ausi-
I Sabadò, dolci tipici
della tradizione contadina
romagnola
88
▲ La cottura del mosto
lio della ramina prima che il mosto
inizi a bollire, operazione che da sola
è in grado di garantire l’eliminazione della maggior parte delle particelle in sospensione.
La cottura, che può richiedere da dieci
a quindici ore e oltre, termina solo
quando il mosto si sarà ridotto a circa
1/3 – 1/4 del volume iniziale; siccome la cottura determina la perdita di
acqua e la caramellizzazione degli zuccheri, la saba assume una colorazione molto scura e una consistenza
oleosa. Dopo la cottura la saba viene
lasciata raffreddare e decantare per
diverse ore, al fine di poter eliminare le particelle solide rimaste, quindi viene messa in bottiglia, dove si
conserva senza problemi per anni,
migliorando le proprie caratteristiche
organolettiche.
La saba veniva utilizzata come condimento per legumi lessati quali fagioli, lupini e ceci, abbinata al formaggio oppure impiegata per insaporire
i dolci natalizi e di carnevale, come
riportato da Graziano Pozzetto in
“Cucina di Romagna”. Le nonne ricordano ancora come un tempo, la saba
venisse versata sulla neve raccolta in
un bicchiere, per preparare una sorta
di granita casalinga molto apprezzata dai bambini.
Il suo impiego principale è però quello di ingrediente per la preparazione
dei sabadò, uno dei dolci tipici della
tradizione contadina romagnola. Si
tratta di tortelli ripieni, ottenuti a partire da una sfoglia tirata piuttosto
spessa, dalla quale si ricavano quadrati di 7-8 centimetri di lato; per il
ripieno, a conferma delle umili origini, si utilizzano fagioli e castagne
secche lessati, i quali vengono schiacciati, aromatizzati con scorza di limone e amalgamati con la saba. Dopo
essere stati chiusi con cura, i sabadò vengono cotti, in acqua oppure
in graticola, ed infine riposti in un
tegame dove sono inzuppati abbondantemente con la saba.
Per la “Saba dell’Emilia-Romagna” è
stata richiesta l’Indicazione geografica protetta, proponendo un disciplinare di produzione che prevede che
sia ottenuta a partire da uva prodotta all’interno della regione e proveniente da vigneti iscritti all’albo dei
vigneti Doc e Docg o all’elenco dei
vigneti IGT. Il disciplinare proposto
prevede inoltre che i vigneti siano a
produzione integrata o biologica, che
le uve presentino una gradazione
minima pari al 17,5% di zuccheri in
peso e che il mosto, prima che inizi
la cottura, sia conservato tra -1 e 4°C
per evitare l’avvio della fermentazione alcolica. Il mosto deve cuocere a
fuoco diretto per almeno sedici ore,
fino a ridursi di oltre 2/3, e deve
maturare per almeno sei mesi prima
di essere imbottigliato.
Non è superfluo ricordare che la saba
è in definitiva anche il prodotto di par89
A tavola
tenza utilizzato per l’ottenimento del
pregiato Aceto Balsamico Tradizionale
di Modena e Reggio Emilia.
■■■ I SUGAL
Si tratta di un dolce tradizionale estremamente semplice, ottenuto anch’esso con ingredienti poveri, ancora piuttosto diffuso nelle campagne romagnole, dove non è troppo difficile reperire il mosto necessario per la sua preparazione.
Per la loro preparazione il mosto di
uva, eventualmente filtrato, viene
messo a cuocere a fuoco diretto fino
a ridursi a circa 1/2 del volume iniziale; anche in questo caso si deve
prestare attenzione all’eliminazione
della schiuma. Terminata la cottura
il mosto viene lasciato raffreddare e
travasato in un altro recipiente, in
modo da eliminare le particelle decantate, poi vi si aggiungono con gra-
▲ I Sugal
90
dualità e mescolando diversi ingredienti, tra i quali rientrano il pane
grattugiato, la farina di mais, la farina di frumento e i semi di anice; talune ricette prevedono anche l’aggiunta di buccia di limone e di qualche
fettina di mela cotogna. Il mosto viene
rimesso sul fuoco e riportato in ebollizione, mescolando con un cucchiaio di legno per assicurarsi che non si
formino grumi, dopo di che lo si versa
in piatti fondi, dove raffreddandosi si
rapprende e diviene solido.
All’interno dei piatti, mantenuti in
ambiente fresco, i sugal venivano conservati in passato per qualche mese;
durante la conservazione poteva formarsi sulla loro superficie una leggera muffa biancastra, che veniva semplicemente rimossa prima del consumo. I sugal vengono attualmente con-
sumati per lo più a fine pasto come
dolce, mentre in passato si consumavano anche a colazione e a merenda, sempre col pane, tagliando spesse fette dal piatto col coltello o con i
rebbi della forchetta. Si presentano di
colore bruno, con differente intensità
in funzione del grado di cottura ed
hanno un sapore ricco, leggermente
acidulo e per nulla stucchevole, che
li rende particolarmente piacevoli.
Nel corso degli anni la loro preparazione è rimasta prettamente casalinga, per cui è difficile trovarli nei ristoranti; talvolta li si può incontrare in
alcune delle sagre paesane cha a fine
vendemmia animano la campagna
romagnola.
■■■ IL SAVÔR
Anche per la preparazione del savôr,
il mosto viene cotto fino a ridurlo della
metà e ripulito dalla schiuma, dopo
di che vi si aggiungono una serie di
frutti fino a ritornare al volume iniziale. Tra i frutti utilizzati rientrano
noci, pinoli e mandorle, pere, mele e
mele cotogne tagliate a fette, le piccole pere volpine intere, fichi secchi,
zucca tagliata a cubetti, oltre a scorze di agrumi e bucce di melone tagliate a sottili strisce e poste ad essiccare al sole durante i mesi estivi, come
indicato da Gianni Quandomatteo in
“Mangiari di Romagna”.
Dopo l’aggiunta si riporta in ebollizione il tutto, mescolando lentamente con un cucchiaio di legno, fino a
ridurre il volume a 1/3 della massa
iniziale, ottenendo così una composta di colore scuro, con pezzi di frutta che devono rimanere perfettamente
intatti; terminata la cottura veniva
versato in recipienti di terracotta, dove
si conservava fino alla primavera successiva e anche oltre, mentre attualmente si conserva in vasi di vetro a
chiusura ermetica.
Ricco di zuccheri, sali minerali, fibra
e vitamine, il savôr veniva utilizzato
per l’alimentazione di bambini, anziani e donne in gravidanza.
Sotto il profilo gustativo si presenta
delicato, morbido, con leggera e piacevole nota asprigna, dolce ma non
stucchevole e lo si può consumare
semplicemente con pane comune, che
ne esalta i sapori, o con la piadina
romagnola, oppure lo si può abbinare a formaggi, sia freschi sia stagionati; perfetto l’abbinamento con le
sensazioni piccanti del formaggio di
fossa di Sogliano sul Rubicone (FC).
Annualmente a Montegelli, sulle colline di Cesena, questa prelibatezza
viene celebrata nell’ambito della sagra
degli Antichi Sapori.
Eventi
New York
assaggia l’Italia
LA GRANDE MELA HA OSPITATO UNA MANIFESTAZIONE CON LE GRANDI FIRME DEL NOSTRO
VINO CHE HANNO PRESENTATO LE LORO ECCELLENZE A GIORNALISTI, IMPORTATORI,
DISTRIBUTORI E ADDETTI AI LAVORI IN UN COCKTAIL DI ARTE, MUSICA, DESIGN E MODA
di Alessandra Rotondi
i è tenuta a New York, presso il Marriot Marquis
Hotel di Manhattan la 24.ma edizione del Gala
Italia, evento vitivinicolo e prestigiosa presentazione del “Made in Italy”: la migliore enogastronomia
nazionale abbinata all’arte, musica, design e moda. Alla
manifestazione, organizzata come ogni anno da Lucio
Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute
- insignito dal presidente Terenzio Medri di un’onorificenza durate la visita della delegazione Ais a New York
nel 2007 - hanno partecipato i più qualificati produttori vinicoli nazionali, presentando ad un pubblico di
addetti ai lavori, giornalisti, importatori e distributori,
ristoratori, ma anche ad una vastissima platea di consumatori “a stelle e strisce”, alcuni delle etichette italiane più famose.
Il gala si è aperto con il seminario-degustazione “The
taste of Italy”, letteralmente “Un assaggio dell’Italia”, in
cui 30 grandi produttori hanno presentato vini di notevole livello a 300 selezionatissimi giornalisti del settore. Il seminario, condotto da Lucio Caputo, ha appassionato tutti per oltre 3 ore durante le quali non si è
S
92
mai avvertito un abbassamento di attenzione, nemmeno durante il contemporaneo servizio del pranzo predisposto dal ristorante Le Cirque.
Tre i segmenti del seminario: “From Sicily with Love:
The Nero d'Avola”; “Chianti, SuperTuscan or Brunello”;
e “My Best Wine from 2000 to Today”, cioè i grandi vini
italiani. Al termine si è sorteggiato un viaggio in Sicilia
offerto dall’Istituto Vite e Vino di Palermo, vinto da una
giornalista locale. Al seminario ha fatto seguito l’eccezionale “Wine and Food Tasting”: 282 vini di 70 case
produttrici italiane; 5.900 bottiglie aperte; oltre 2.500
tra operatori, giornalisti e Vip presenti; oltre 1.400
importatori, grossisti e dettaglianti provenienti dagli
Stati dell’est degli Usa; 480 ristoratori e 450 giornalisti, nonché 550 operatori e 350 giornalisti del settore
moda e numerose reti televisive; oltre 36.000 i bicchieri usati; 58 vini premiati da una giuria americana con
la “Gold Medal”; sorteggio di cinque viaggi, in Toscana,
Sardegna e Sicilia, e di una Vespa Piaggio.
Il Food Tasting, ha visto la partecipazione di 20 tra i
nomi più famosi della ristorazione italiana di New York,
Lucio Caputo, presidente
dell’Italian Wine
and Food Institute,
con Alessandra
Rotondi
▲ Simona Ventura, Lucio Caputo
e Jo Squillo
▲ La sala del Marriot Marquis Hotel
di Manhattan,
sede della manifestazione
tra cui Serafina con i suoi 6 locali su Manhattan, sinonimo di “pizza, pasta e cucina italiana”; Salumeria Rosi
con l’amatissimo Chef Cesare Casella; l”Osteria del Circo,
versione toscana dello storico Le Cirque di Sirio Maccioni;
Sandro, la porchetta più buona addirittura di quella dei
Castelli Romani, e molti altri. Parallelamente si è avuta
la mostra dei dipinti del Guercino organizzata in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura. È stata quindi la volta della parte più spettacolare del “Gala Italia”,
con la performance musicale di Jo Squillo e delle presentazioni di moda delle collezioni primavera-estate di
“Star Chic”, di Simona Ventura e Federica de Pompeis
e “Curiel Couture” di Raffaella e Gigliola Curiel.
Il pubblico presente ha gradito particolarmente la presenza radiosa di Simona Ventura, che generosamente
si è intrattenuta con tutti dimostrando una grande affabilità nei confronti dei suoi fan d’oltre oceano. Presente
anche Giovanni Bozzetti, presidente del Comitato
“Lombardia per la Moda”, che è stato la forza motrice
dietro la grande partecipazione della Lombardia all’evento. La “Cena di Gala”, ad inviti, preparata dallo chef
▲ Alcuni tra i partecipanti:
la salumeria Rosi
di Cesare Casella
Giancarlo Morelli, appositamente venuto dall’Italia per
predisporre un tipico menù milanese con selezione di
grandi vini lombardi, ha concluso l’intensa giornata,
allietata da una performance del tenore Leonardo
Cortellazzi e del pianista Vincenzo Scalera dell'Accademia
del Teatro alla Scala di Milano. Al Gala hanno partecipato autorità e Vip, tra cui l’ambasciatore italiano a
Washington, Giovanni Castellaneta, l’ambasciatore
d’Italia presso le Nazioni Unite, Giulio Terzi di Santagata,
il console generale Francesco Talò. È stata una iniziativa di grandissimo spessore e di altissimo livello, oltre
la tradizionale e notevole rilevanza commerciale che va
avanti con successo da oltre 20 anni.
Uno dei pochissimi eventi che viene segnato in agenda un anno prima come “qualcosa da non perdere”.
Appuntamento a New York il 25 Febbraio 2010, contando ancora sull'Alto Patronato dell'Ambasciata italiana a Washington, la collaborazione dell'Istituto del
Commercio Estero, il patrocinio dell'Istituto Italiano di
Cultura, dell'ufficio di New York dell’Ente italiano del
turismo e del Vinitaly.
93
Enogastronomia e culto
Il vino:
un veicolo di dialogo
tra religioni diverse
di Maddalena Giuffrida*
er conoscersi non c’è niente di meglio che sedersi a tavola insieme.
L’atto di mangiare non ha solo a che fare con il nutrimento fisico,
ma riveste una importanza squisitamente culturale: l’etimologia stessa della parola convivio (cum-vivere) associa il concetto del vivere insieme con il mangiare insieme.1
La tavola è il luogo destinato alla condivisione e alla scambio: a tutti i livelli la partecipazione alla mensa è il primo segnale di appartenenza a una
famiglia, a un gruppo, a una comunità.
Parlare di cibo significa, dunque, fare riferimento ad una cultura, a delle
abitudini, ad una religione.
Ogni Paese ha infatti il suo modo di alimentarsi, di usare certi prodotti
piuttosto che altri. Anzi, attraverso il cibo noi possiamo scoprire la storia
di un paese, le abitudini, le tradizioni, la religione e l’identità di una persona.
Il cibo si presenta, dunque, come un importante paradigma di identità
culturale e allo stesso tempo segno di scambio tra culture, oltre ad essere uno strumento per riconoscere e trasmettere la propria appartenenza
religiosa.2
Nel panorama delle tre grandi religioni monoteistiche nate nel “mosaico” del
Mediterraneo, l’Islam e l’Ebraismo marcano profondamente l’appartenenza
alla loro forma di vita attraverso una stretta osservanza delle norme alimentari. Il cristianesimo si presenta invece come sistema “più libero” in
campo gastronomico, caratterizzato da consumatori di gusti molto diversi.
Un denominatore accomuna, tuttavia, l’ebreo, il musulmano e il cristiano: il concetto di cibo come dono divino.
Al di là di questo aspetto unificante, profonde differenze caratterizzano il
rapporto con il cibo all’interno dell’ebraismo, islamismo e cristianesimo.
Conoscere queste diversità aiuterà, ad esempio, a non presentare a
tavola cibi in contraddizione con le rispettive normative alimentari a degli
ospiti musulmani o ebrei.
I nostri figli a scuola non si stupiranno se uno o più compagni di classe
di diversa appartenenza religiosa consumeranno cibi diversi, perché attraverso quel cibo arriverà loro un messaggio diretto e preciso sul senso di
appartenenza culturale e religiosa.
P
▲ La Torah (‫ )הרות‬è il documento
primario dell'ebraismo ed è la
sorgente delle 613 mitzvot (613
precetti) e della maggior parte
della sua struttura etica-amena in
cui sono scritte. Secondo la
tradizione furono rivelate a Mosé
da Dio sul Monte Sinai.
NOTE
1. Cfr. Massimo Montanari,
Il cibo come cultura,
Laterza, 2004
2. Cfr. Oscar Marchisio (a cura di),
Religione come cibo e cibo come
religione,
Franco Angeli, 2004
94
LE REGOLE ALIMENTARI EBRAICHE
▲ Nella religione ebraica è vietato
mescolare il latte con la carne
nella preparazione dei piatti
Le regole alimentari ebraiche, che costituiscono uno dei pilastri della loro
pratica religiosa, trovano il fondamento teologico ed ideologico nella Torah,
ovvero nella legge dettata da Dio all’uomo. Non solo il Pentateuco, ma
anche l’insieme di norme rabbiniche della legge orale formano il più importante codice legislativo ebraico chiamato curiosamente “shulkhan aruch”,
ovvero tavola apparecchiata. I commenti e le glosse seguono lo stesso
immaginario gastronomico, chiamandosi tovaglia, utensili, posate, ecc.
È degno di nota il fatto che uno dei primi precetti impartiti agli esseri
umani concernesse il cibo, con la proibizione ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita.
Regolando l’alimentazione, la Legge ebraica, impone una via per la sacralizzazione degli atti più semplici e comuni della vita dell’ebreo. Per ogni
tipo di alimento esiste, infatti, una benedizione appropriata che va pronunciata prima di consumarlo.
Il termine “kashèr” significa valido, adatto, buono. Un cibo è kashèr quando è adatto ad essere consumato e quando è stato preparato nel rispetto
delle norme alimentari ebraiche. La “kashèrut” è l’insieme delle numerose norme che regolano l’alimentazione ebraica.
Schematicamente le regole principali possono essere così riassunte:
1. Suddivisione delle specie animali permesse e proibite
Gli ebrei suddividono gli animali in quattro gruppi principali: quadrupedi, animali acquatici, volatili e insetti. All’interno di questi gruppi le specie animali vengono permesse e proibite, definendo l’animale permesso
“puro” e quello proibito “impuro”. Ad esempio, tra i quadrupedi sono
permessi quelli con lo zoccolo diviso in due e ruminanti, quindi sono puri
la mucca, la pecora, mentre sono impuri quelli che non corrispondono a
questi criteri, come il cammello, il maiale, etc. Tra gli acquatici sono permessi solo i pesci che hanno pinne e squame. Tra i volatili vengono considerati puri il pollame e specie simili. Sono proibiti tutti gli animali striscianti.
▲ Carne bovina kasher
2. La macellazione
La kashèrut di un animale dipende anche dalla macellazione, dalle condizioni di salute dell’animale e dalla preparazione della carne prima del
consumo. Un animale che non è stato macellato seguendo le regole della
macellazione (Shechità) non può essere considerato permesso. E’ proibito bere il sangue degli animali e mangiare alcune loro parti.
3. Divieto di mescolare carne e latte
E’ proibito cucinare, mangiare e trarre qualsiasi giovamento dalla mescolanza di carne e latte. La separazione fra carne e latte si applica non solo
al cibo stesso, ma anche a tutti gli utensili impiegati per la sua conservazione, preparazione e consumazione.
4. Vegetali
Tra le norme che regolano il mondo vegetale, ricordiamo il divieto di produrre e mangiare alcuni tipi di frutti provenienti da innesto in Israele oltre
a quello di consumare i vegetali senza un accurato controllo sull’assenza
di uova di insetto.
▲ Frutta kasher
5. Rendere kashèr gli utensili da cucina
Alcuni tipi di utensili da cucina che vengono a diretto contatto con il
cibo devono essere sottoposti ad una speciale “immersione” prima di essere usati.
Quelle che abbiamo elencato sono le principali norme alimentari che debbono seguire gli ebrei che abbiano raggiunto la maggiore età (13 anni i
maschi, 12 le femmine), anche se in realtà esiste una vasta gamma di prescrizioni che per brevità qui non abbiamo riportato.
Mentre le prescrizioni di cui sopra sono sempre valide, in certi periodi dell’anno vigono prescrizioni ulteriori. In particolare, durante la festa di Pasqua
in memoria dell’affannosa uscita degli Ebrei dall’Egitto, si deve escludere qualsiasi alimento lievitato o fermentato, ad esclusione del vino.
95
Enogastronomia e culto
UN BICCHIERE DI VINO KASHER
▲ Preparazione di pane kasher
96
Il vino è oggetto di una particolare attenzione per il ruolo simbolico attribuito
nel rito ebraico: il vino è, infatti, considerato una bevanda “speciale”.
La normativa ebraica classifica il vino come una speciale bevanda di uva
fermentata che merita una benedizione particolare: a differenza di tutte le
altre bevande sulle quali viene recitata una benedizione generale, sul
vino già fermentato viene recitata addirittura una benedizione speciale
“borè peri ha gafen” (che ha creato il frutto della vite). Numerosi sono i riferimenti biblici a dimostrazione della grande importanza che il vino riveste:
nel libro del Genesi Noè è ricordato come fondatore della viticoltura ed
anche come colui che per primo sperimentò gli effetti inebrianti del vino.
Durante l’incontro tra Melchisedek, re di Salem, e Abramo, capostipite del
popolo ebraico, che torna vittorioso da una certa battaglia fatta per liberare suo nipote Lot, Melchisedek “sacerdote del Dio altissimo” gli si fa
incontro per offrirgli “pane e vino” e benedirlo: per l’autore della Genesi
l’offerta del pane e del vino presentata ad Abramo era segno di sacra ospitalità: accoglienza, sicurezza, permesso di transito.
Assaporare il vino nella Bibbia è simbolo di ogni piacere, di ogni delizia e
gioia della vita
(Salmi 104, 15), “Bevi il tuo vino con cuore lieto” attesta il libro dell’Ecclesiaste
(9, 7). Un uso eccessivo, smodato, del vino è tuttavia deplorato nella Bibbia:
l’autore del libro dei Proverbi rimprovera la stoltezza di colui che “si lascia
sopraffare dal vino” (20, 1).
Ma al di là di questa condanna dell’eccesso e dell’ubriachezza, il vino,
nel suo significato traslato, è non soltanto simbolo di vita e di salvezza,
ma anche d’amore.
Nel Cantico dei Cantici, uno dei testi poetici più alti della Sacra Scrittura,
il vino diviene infatti il suggello dell’unione d’amore tra l’amato e l’amata. Non è un caso, credo, che la prima parola del Cantico dei Cantici sia
proprio quella che descrive un bacio inebriante, accompagnato da “tenerezze più dolci del vino”.
La specificità del vino nel mondo ebraico si evidenzia inoltre nel suo consumo in occasioni particolari legate al calendario delle festività (a cui gli
Ebrei accordano una grande importanza) e nelle rigide norme che regolano la sua produzione.
La presenza del vino è obbligatoria, ad esempio, durante il rituale della
circoncisione o durante la cerimonia nuziale. Durante la festa di Pasqua
è obbligatorio bere quattro bicchieri di vino, mentre è proibito bere vino
▲ I principali simboli dell’ebraismo:
La stella di David, la Torah, la
Menorah (candelabro a sette
bracci), la Kippah (il copricapo
indossato dagli osservanti
maschi)
nei giorni di lutto nazionale e personale. Ma qual è il vino che un ebreo
può bere? L’unico vino permesso dalla normativa alimentare ebraica è il
vino kashèr, prodotto secondo le regole della kashèrut.
“Affinchè sia considerato kashèr, il vino deve essere prodotto da ebrei osservanti del Sabato e profondi conoscitori delle norme alimentari – afferma il
Rabbino dottor Umberto Piperno, già docente del Collegio Rabbinico Italiano,
ora attivo presso la Yeshiva University di New York.
Il controllo della produzione - continua il Rabbino Piperno - inizia dalla
spremitura dell’uva fino all’imbottigliamento. La kashèrizzazione delle vasche
inizia nei giorni precedenti alla spremitura per poter riempire ogni cisterna
d’acqua e svuotarla dopo 24 ore per tre volte consecutive. Occorre preparare tutti i macchinari, smontarli accuratamente e verificare che tutto sia
pulito. Ogni intervento deve essere compiuto da ebrei, così come ogni altro
ingrediente o coadiuvante deve essere autorizzato dal Rabbino sulla base
di un certificato valido per l’anno in corso. Saccaromiceti, bentonite, perlite
per la chiarifica devono avere un certificato valido. Per quanto riguarda l’imbottigliamento, la norma ebraica richiede che vi siano tre segni di riconoscimento della specificità del prodotto: etichetta, eventuale retroetichetta o
in alternativa capsula termica, tappo con segno di riconoscimento, con segno
di riconoscimento o marchio del Rabbinato. Nell’etichetta - conclude il Rabbino
Piperno - dovrà apparire inoltre il nome del Rabbino che ha eseguito il controllo e rilascia il certificato. La produzione annuale sarà accompagnata da
un certificato originale registrato presso il Rabbinato Centrale d’Israele”.
La certificazione non si limita naturalmente al vino, ma investe tutti i prodotti alimentari trasformati.
Sono più di 6.000 nel mondo le aziende che vantano la certificazione
kashèr, con oltre 110.000 prodotti certificati tra vini, liquori, formaggi,
pasta, ecc. Negli Stati Uniti il cibo è diventato sinonimo di sicurezza alimentare, al pari dei prodotti “bio” e non solo per gli ebrei, ma anche per
vegetariani, per chi soffre di intolleranze alimentari o chi è semplicemente attento a ciò che viene riportato in etichetta in tempi di mucca pazza,
suini alla diossina e aviaria. Anche in Italia grandi aziende, ristoranti e
negozi hanno iniziato a muoversi nell’ottica della certificazione kashèr, a
sottolineare l’importanza di un rigido controllo alimentare.
Esistono diversi siti informativi che forniscono indicazioni sull’universo
kashèr, dai negozi ai ristoranti, dalle liste dei prodotti alle sinagoghe, monitorando le principali città italiane, mentre per informazioni sulla produzione è possibile interpellare lo stesso Rav Piperno ([email protected]).
CONSIDERAZIONI FINALI
“In vino veritas” non è solo un noto proverbio latino - spiega il Rav Piperno
- bensì l’insegnamento di una massima talmudica (T.B. Meghillà) che propone, attraverso il comune valore numerico di settanta, un legame strutturale tra il vino (iain) ed il mistero (sod), ovvero la capacità del vino di permettere la comunicazione tra persone di settanta lingue diverse, laddove il
settanta nella numerologia ebraica indica tutti i popoli esistenti”.
Il vino, con la sua forte carica culturale ed economica, potrebbe divenire
a buon diritto un potente veicolo di dialogo tra religioni e culture diverse, tenendo presenti, ovviamente, le specifiche prescrizioni religiose dei
diversi popoli che ne proibiscono l’uso.
Queste ultime potrebbero anche diventare un momento formativo importante per tutti coloro che, per professione, mettono la “buona tavola” al centro della loro attività lavorativa (ristoratori, sommeliers, ecc.), aprendo interessanti opportunità di espansione su mercati ancora poco esplorati.
Oggi abbiamo posto al centro della nostra tavola un bicchiere di vino
kashèr.
*Con la collaborazione del Rabbino Umberto Piperno
97
Identità Golose
La creatività
come antidoto
alla
crisi
di Alessandro Franceschini
on è semplice parlare di alta ristorazione o
“Cucina d’Autore” in un periodo dove la parola
crisi è all’ordine del giorno: eppure, anche quest’anno, i cuochi chiamati a congresso a Milano, durante la quinta edizione di Identità Golose, lo hanno fatto
senza alcun timore o incertezza. “Non è possibile gettare al vento molti anni di creatività”, questo il messaggio che durante la seconda giornata del congresso ha
lanciato uno dei personaggi più attesi: Ferran Adrià.
Lo chef spagnolo, che per sei mesi gira il mondo, partecipa a congressi come quello italiano, ma, soprattutto,
sperimenta nuove invenzioni, mentre nella seconda metà
dell’anno (quest’anno dal 16 giugno al 21 dicembre) le
mette in scena nel suo ristorante/laboratorio El Bulli,
non ha dubbi: l’antidoto per superare questo periodo
di recessione mondiale è guardare al futuro con ottimismo, pensando a quanta strada è stata fatta sino ad ora
dalla cosiddetta alta cucina, magari di avanguardia e
sperimentazione, di cui lui è il più alto ed indiscusso
protagonista. Stimoli, voglia di sperimentazione, come
l’introduzione della liofilizzazione delle verdure, che quest’anno il cuoco spagnolo ha presentato alla stampa ed
ai colleghi. “Apro il mio ristorante se ho stimoli, altri-
N
menti non ha senso” afferma Adrià e chissà quanti vorrebbero permettersi di poter ragione in questo modo, con
liste di attesa lunghissime per sedersi al suo ristorante,
come nel suo caso. Ma la voglia di stupirsi, più che di
stupire e quindi di mettersi sempre in discussione, sembra uno dei leit motiv di questa edizione. “Bisogna avere
la capacità di stupirsi e per far questo bisogna pensare
come un bambino. Quando non senti più questo, cambia
lavoro”. E’ il pensiero di un altro grande chef spagnolo,
basco per la precisione, Juan Mari Arzak, grande amico
del genio di El Bulli, che con la figlia Elena conduce il
suo ristorante tristellato a San Sebastian. L’essenza del
suo lavoro è racchiusa proprio nello sguardo fanciullesco che un cuoco deve avere per saper cogliere dal mondo
che ci circonda “anche da un bar o una semplice taverna” idee che poi si tramutano in piatti, nonché spunti
per andare avanti ogni giorno con rinnovata fiducia. Ecco
quindi il bonito parterre, ispirato dalla visione di un giardino o il dessert “Pietra di Luna”, ispirato al film 2001,
Odissea nello Spazio di Kubrick, con delle palline di arancia in azoto liquido, olio di oliva, salsa al vino rosso e
Xantana che appoggiati su polvere di sesamo e zucchero disegnano un paesaggio extraterrestre.
99
Identità Golose
▲ Carmine Calò
▲ Ferran Adrià
Anche Massimo Bottura, chef dell’Osteria Francescana
di Modena, gioca con il quotidiano e con i ricordi di una
vacanza a New York: lo skyline della Grande Mela osservato dal grande verde di Central Park si trasforma in
una rivisitazione del bollito misto, dove i sette tagli classici si trasformano in rettangoli, o meglio, piccoli grattacieli, cotti sotto vuoto con una spuma di salsa verde
ai piedi. “Vivere il quotidiano, ma non perdersi nel quotidiano”, questo il motto del vulcanico cuoco modenese, perennemente in movimento, quasi frenetico nel
presentare i nuovi sviluppi della sua cucina, anzi, della
sua arte, fatta di contaminazione con il jazz di Thelonius
Monk, come nel caso del merluzzo infuso nel suo sugo
con tonno essiccato insieme a degli spaghetti di radici, carote e cipollotto al nero di seppia ed ancora zenzero e pelle del merluzzo. Un piatto di pura improvvisazione, da assaporare al buio, per concentrarsi solo
sui sapori.
Le stelle non sono mancate, come nelle passate edizioni, praticamente per tutti e quattro i giorni del congresso, che quest’anno si sono alternate nella nuova, e più
funzionale, sede del Mic (Milano convention centre) a
pochi metri dal vecchio velodromo Vigorelli: se in passato bisognava guardare lo schermo, per vedere le brigate cucinare ed impiattare in ambienti separati, quest’anno un’unica sala accoglieva cucina e relatori, circondati, come di consueto, dagli stand degli sponsor.
La formula, oramai ampiamente sperimentata negli anni,
è una macchina veloce che procede senza intoppi e
riesce a portare sul palco settanta chef provenienti non
solo dall’Italia, ma dal mondo intero. Dai diciotto della
prima edizione, il passo in avanti è stato inarrestabile,
così come i temi che hanno ispirato tutti gli appuntamenti: quest’anno le verdure sono state il filo conduttore, non per motivi quaresimali o salutistici, come ha
sottolineato l’ideatore di Identità Golose, il giornalista
Paolo Marchi, aprendo i lavori, ma: “quale nuova cuccagna e rivoluzionario riscatto da contorno a epicentro, capaci, emancipandosi, di aprire una fase nuova”.
Le verdure, quindi, ingredienti semplici, se vogliamo,
al centro di molte delle creazioni di cuochi stellati o
aspiranti tali, non solo di Pietro Leemann, che del Joia
a Milano ha fatto uno dei punti di riferimento per gli
amanti della raffinata cucina vegetariana. E le verdure le abbiamo trovate abbondantemente anche tra le
ricette degli chef che rappresentavano quest’anno la
regione ospite: le Marche. Un’invasione di ortaggi ed
erbe, con tanto di lezione sui fondamenti dell’analisi
sensoriale, ha caratterizzato le proposte di Michele
Biagiola, dell’Enoteca Le Case di Macerata, attinte dall’orto posto a due passi dal ristorante.
Tagliatelle cotte nell’acqua delle biete con coste e scorza di limone o ancora l’incredibile quadro cromatico e
100
▲ Massimo Bottura
di sensazioni composto da una passata di finocchi e
spinaci con origano, acetosella, mela selvatica e ancora pimpinella e caccialepre ed un mix di fiori assortiti.
Semplicità, sia nella ricerca delle materie prime sia nell’esecuzione, che però non fa rima con banalità, anzi.
Questo il comun denominatore di molti dei giovani ristoratori marchigiani che si sono avvicendati sul palco: a
partire da Carmine Calò, del Caffè Meletti di Ascoli
Piceno, con la sua dichiarazione di amore nei confronti delle vere olive ascolane, rivisitate ed alleggerite
con un ripieno di solo coniglio ed avvolte con una sottile crosta di pane, prima di essere fritte in extravergine di oliva. Riccardo Agostini del Piastrino di Pennabilli
(Pesaro Urbino) che valorizza quaglia e capriolo oppure un flemmatico ma coinvolgente Aurelio Damiani che
in quel di Porto San Giorgio ha fatto delle patate, uno
dei suoi cavalli di battaglia: possono essere rosse provenienti da Visso, oppure bianche, le “fiocco di neve” di
Montemonaco o ancora di altura perché provenienti dai
Colli Sibillini, e lui le abbina con le cozze in una millefoglie piuttosto che con il tartufo, il siero di latte ed il
rosso d’uovo. “Due chicchi di sale, delle eccelse patate
lesse ed un buon olio, sono già un grande piatto, una
vera goduria”: questa la sua filosofia in cucina, che odia
“le standardizzazioni del sottovuoto e delle grammature” ed adora “la cucina spontanea, senza menù prestabilito, facendo la spesa con la stagione, con il territorio
e con il mercato ogni mattina”. Questo è il bello della
cucina: dal pesto che si gelatinizza per creare dei ravioli senza pasta di Ferran Adrià al minimalismo di Aurelio
Damiani, passando da Moreno Cedroni, che da
Senigallia colora di blu le seppie utilizzando l’acqua di
cottura del cavolo nero.
Forse, come dice l’ex direttore del Gambero Rosso,
Stefano Bonilli, dalle pagine del suo seguitissimo blog
“Papero Giallo” (http://blog.paperogiallo.net/), è mancato un confronto, una tavola rotonda, per parlare di
crisi e di come uscirne, anche nella ristorazione, oppure ha ragione lo stesso Paolo Marchi, quando dalla sua
newsletter gli risponde: “per quanto sappia bene quanto è duro il momento, non mi è mai sfiorata l’idea di
allineare degli esperti in fallimenti o delle cassandre o
dei ragionieri dietro a un tavolo. Sono cose che spettano
a enti e associazioni di categoria tipo la Fipe”. Aspettando
che qualcuno, siano gli attori principali o le categorie
di settore, ne parli, ci piacerebbe poter dire, estendendo l’affermazione a tutto il comparto enogastronomico,
“Nel nostro universo non c’è crisi”, prendendo in prestito le parole con le quali ha esordito Frédéric Bau, direttore dell’ Ècole du Grand Chocolat Valrhona. Peccato
si riferisse solo alle dolcezze del cioccolato, altro protagonista, insieme alla cucina francese, di questa quinta edizione del congresso Identità Golose.
Pillole
Il mercato premia
il Franciacorta
Il Franciacorta non conosce crisi. Nel 2008 le
bottiglie vendute hanno oltrepassato i 9,6 milioni, il 16% in più rispetto all'anno precedente: un
bilancio che conferma il valore straordinario
delle bollicine Docg coltivate nel territorio che
comprende diciannove Comuni della provincia di Brescia.
Il trend in crescita è stato confermato dal
Consorzio per la tutela del Franciacorta, i cui
vini metodo classico hanno anche ottenuto
diversi riconoscimenti da parte delle guide
enologiche 2009: in particolare, secondo
quanto riferisce il Consorzio in una nota, «sono
stati 33, su un totale di 53 bottiglie (il 62% del
totale), i Franciacorta premiati con i massimi
riconoscimenti dalle diverse guide del settore».
A crescere, oltre alla dimensione commerciale
firmata Franciacorta, è anche la superficie
vitata sul territorio della denominazione, salito
a 2.215 ettari (+5% rispetto ai 2.115 del 2007).
«Risultati soddisfacenti» li ha definiti Ezio
Maiolini, presidente del Consorzio per la tutela
del Franciacorta. «Il mercato – ha dichiarato –
sta riconoscendo ai produttori la giusta notorietà del Franciacorta, nato da un disciplinare di
produzione unico, che ne è prerogativa fondamentale».
In effetti, per raggiungere un prodotto sinonimo di qualità superiore e contemporaneamente emblema di uno straordinario territorio, i
viticultori di Franciacorta hanno puntato sul
nuovo disciplinare di produzione. Pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale a metà 2008 è in assoluto il più rigido al mondo a
parità di metodo
produttivo.
Per le aziende si
tratta di uno straordinario impegno che ha
richiesto importanti investimenti
economici.
Ma gli sforzi profusi sono stati riconosciuti anche
dalla critica. Le guide dei vini 2009 hanno confermato la leadership qualitativa del
Franciacorta fra i “metodo classico” (simbolo
per antonomasia dei brindisi di fine anno, ma
ormai apprezzati anche come piacevole
accompagnamento a tutto pasto): oltre alle
già citate 33 etichette su un totale di 53, incrociando i punteggi di tutte le guide, fra le
migliori 9 bottiglie in assoluto, ben 6 sono
Franciacorta.
«Il 2009 è partito bene – precisa Maiolini – ma
la situazione economica attuale è tutt’altro
che rassicurante. Intendiamo comunque continuare a investire nella comunicazione, potenziando altresì la presenza del Franciacorta a
eventi nazionali e internazionali».
Se l’eccellenza qualitativa si profila infatti
come un assunto imprescindibile, sul versante
della comunicazione c’è ancora un certo margine di azione. Tra gli obiettivi del Consorzio per
il nuovo anno spicca la volontà di consolidare
la riconoscibilità del marchio franciacortino
all’estero, in particolare in Germania (il Paese
dove oggi si concentra il 30% dell’esportazione). Senza tralasciare il mercato di casa nostra,
come conferma la folta presenza di aziende di
Franciacorta al Vinitaly 2009 con 49 produttori
(l’anno scorso erano 42) che occuperanno 1.063 metri quadrati di esposizione. Uno spazio in cui di certo
non mancheranno visitatori alla
ricerca di «un’esperienza di
assoluto prestigio – sottolinea
Maiolini – sinonimo di qualità
superiore, cultura e tendenza».
101
Pillole
▲ Aniello Musella, direttore dell'Ice
▲ L’inaugurazione al Warldorf Astoria
Per il vino italiano
un tour a stelle e strisce
Il vino italiano è stato protagonista di una “tournée” al
di là dell’Oceano: l’Ice, in collaborazione con le
regioni Abruzzo, Calabria, Lombardia, Toscana e
Veneto, ha lanciato la prima edizione della
“Settimana del Vino italiano negli Usa”, a Boston, New
York e Miami. A New York ha collaborato anche il
Consorzio del Brunello di Montalcino, guidato dal
Presidente Patrizio Cencioni.
“Era giusto in questo momento di difficile congiuntura
economica aiutare le nostre imprese a ribadire la priorità del mercato americano come principale sbocco
dei nostri vini. Abbiamo ricevuto segnali di grande
attenzione da parte di importatori e distributori locali
ed una vera e propria rincorsa tra i più importanti nomi
del settore a guadagnarsi il ruolo di ‘speaker’ o ‘panelist’ negli eventi previsti. Oltre alle regioni menzionate,
hanno partecipato circa 270 produttori – molti ancora
non presenti negli Usa – tutti rappresentanti della vasta
gamma di stili delle aree geografiche italiane” ha
commentato Aniello Musella, direttore esecutivo
dell’Ice negli Usa. Gli eventi americani celebrano un
successo: secondo le anticipazioni sui dati della
Commissione Europea – riportati dal bollettino Vini&Vini
dell’Ice di New York – l’Italia ha riconquistato la vetta
della classifica dei produttori mondiali, superando la
Francia. Alla fine del 2008, la produzione italiana è cresciuta dell’8%, avvicinandosi a 47 milioni di ettolitri di
vino, contro i 44,4 milioni della Francia, in calo del 5%.
Boston ha dato avvio a “Vino 2009”, con un omaggio
al Montepulciano d’Abruzzo. A New York, il programma è iniziato con un ricevimento presso il Warldorf
Astoria. Nei giorni successivi, degustazioni e seminari
riguardanti tutte le realtà coinvolte, con enfasi particolare sul Brunello di Montalcino, il cui Consorzio ha
presentato un’anteprima della vendemmia 2004.
Infine a Miami, attenzione particolare alle diverse
“meraviglie microclimatiche”.
102
New York ha rappresentato senza dubbio il clou del
tour. Le regioni hanno organizzato cene-degustazioni
nei più esclusivi ristoranti di Manhattan per presentare
i patrimoni enogastronomici e le peculiarità di ognuna, con guide speciali: Valentino Sciotti per l’Abruzzo;
Paolo Librandi per la Calabria; Riccardo Ricci
Curbastro per la Lombardia; Lamberto Frescobaldi
per la Toscana e Marilisa Allegrini per il Veneto.
Infine, presso la Rainbow Room di Cipriani, sono stati
assegnati, i “Distinguished Service Awards”, i premi ai
rappresentanti dell’industria vinicola maggiormente
impegnati nella promuovere i vini italiani negli Usa, tra
cui: Leonardo Lo Cascio, presidente/fondatore di
Winebow; John Mariani Jr., presidente emerito di Banfi
Vintners e Castello Banfi; Hubert Opici, presidente di
Opici Wine Group; Piero Selvaggio, proprietario del
ristorante Valentino a Santa Monica e Anthony
Terlato, presidente della Terlato Wine Group.
(Alessandra Rotondi)
▲ I banchi d’assaggio
I “top 40”
sbarcano a Londra
I migliori vini italiani hanno percorso
le acque del Tamigi per raggiungere la city londinese e conquistare la
corte della Regina Elisabetta. Detto
così sembra quasi un’impresa, ma
in realtà è stato tutto decisamente
più semplice. È noto che i gusti dei
britannici sono molto distanti dai
nostri, ma è altrettanto vero che le
eccellenze vitivinicole del Bel
Paese mettono d’accordo anche i
palati più differenti.
Così è stato lo scorso 2 marzo,
quando la Worldwide sommelier
association e l’Associazione italiana
sommeliers hanno portato oltremanica una selezione di etichette premiate con i 5 Grappoli dalla guida
Duemilavini 2009, il “meglio del
meglio”, potremmo dire. Non a
caso la degustazione è stata intitolata“I like the best” per conferire
quel tocco di esclusività all’evento.
I banchi d’assaggio sono stati allestiti grazie al prezioso contributo di
Andrea Rinaldi, delegato Ais e portavoce della Wsa nella capitale bri-
tannica, presso lo storico
Commonwealth Club, prestigioso
ritrovo della Regina d’Inghilterra.
Situato nel cuore di Londra, a pochi
minuti da Trafalgar Square, il Club
ha rappresentato la cornice ideale
per ospitare alcune tra le bottiglie
che hanno più emozionato la commissione della Duemilavini. Fondato
nel 1868 come un luogo di incontro
internazionale per lo scambio di
idee e la conversazione, l’ambiente unico del locale continua la sua
missione in un modo estremamente
moderno a dispetto della sua tradizionale facciata. Celebra la diversità e promuove l’istruzione e il multiculturalismo. La Wsa e l’Ais l’hanno
perciò scelto proprio per esaltare lo
spirito cosmopolita di quest’iniziativa. La degustazione è stata aperta
al pubblico per tutto il pomeriggio
in presenza di importanti personaggi del panorama vitivinicolo nazionale e internazionale, grandi esperti della ristorazione londinese, i principali mass media e diversi vip.
103
Pillole
Quando il gusto
diventa un’occasione!
L’appuntamento con “Squisito!” è a San Patrignano nei primi quattro giorni di Maggio
In diverse occasioni della vita capita di sottolineare come la cucina sia
cultura e passione, e non una semplice attività per soddisfare il bisogno
primario di nutrimento.
In Italia, e soprattutto a San Patrignano, questo punto di vista è un imperativo categorico.
Dal Primo maggio fino al 4 torna infatti l’appuntamento con Squisito, l’unica manifestazione enogastronomica interamente organizzata all’interno
di una Comunità di recupero, che giunge quest’anno alla sua sesta edizione.
In quest’occasione, i 1500 ragazzi di Sanpa seguiranno personalmente
l’organizzazione dell’evento, dando prova di come l’arte culinaria possa
trasformarsi in un importante momento di integrazione sociale.
La Comunità di San Patrignano fu fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli
con lo scopo di fornire assistenza gratuita a tossicodipendenti ed emarginati.
In breve tempo l’associazione ricevette un sempre maggior numero di
richieste d’aiuto e ad oggi risulta essere la più grande comunità terapeutica d’Europa.
La sua ricchezza risiede nell’unicità del progetto: a San Patrignano i
ragazzi non vengono considerati dei malati bensì giovani con grandi
potenzialità, a cui fornire un ausilio per riscoprire le proprie capacità e svilupparle al meglio.
Squisito rappresenta una delle tappe di questa forma mentis, un’occasione per ricercare e riassaporare il gusto della vita in senso lato!
Anche quest’anno sono in programma iniziative con chef affermati che
delizieranno i palati con prelibate ricette; accanto a loro ci saranno giovani aspiranti cuochi che cercheranno, come si suol dire, di “rubare il
mestiere”.
Ecco quindi che “la Giostra dei cuochi”, uno degli appuntamenti più
seguiti di Squisito, vedrà a fianco di Davide Paolini, suo “inventore”, gli
chef di Jre (Jeunes Restaurateurs d’Europe), in una formula del tutto innovativa che suscita grande curiosità. Ogni giorno i ragazzi proporranno le
loro ricette ad un pubblico di spettatori che avrà così la possibilità di interagire con la loro cucina, per conoscerne i segreti e i trucchi.
I “Giovani ristoratori” hanno da poco cambiato guida: Marco Bistarelli
che per tre anni e mezzo è stato presidente dell’associazione, in occasione della manifestazione milanese “Identità Golose” ha passato il testimone all’amico e collega Emanuele Scarello; proprio in quest’occasione
Bistarelli ha ricordato le grandi emozioni che l’associazione gli ha regalato
e ha voluto sottolineare che i momenti che resteranno indelebili nella sua
memoria sono in maggior parte legati a San Patrignano e a ciò che i
ragazzi sono stati capaci di creare.
Altra tappa importante del programma è rappresentata da “Identità
Squisite”, appuntamento ideato da Paolo Marchi, giornalista e pioniere
delle già citate Identità Golose, un palcoscenico culinario utilizzato da
104
▲ Degustazioni a Squisito
diversi astri nascenti, che quest’anno a Milano ha visto il debutto di Fabio
Rossi, chef del ristorante della comunità di Sanpa, insieme alla sua brigata
di cucina.
Grazie al successo riscosso, prosegue anche l’appuntamento con
“Vigneti in Bottiglia”, il tradizionale incontro con degustazioni e seminari
organizzato dall’Associazione italiana sommeliers e dalla rivista Bibenda,
che ripeterà la formula doppia introdotta lo scorso anno: l’area 100 etichette, raccolta esclusiva delle migliori produzioni italiane e l’area delle
verticali, degustazioni guidate dai migliori sommeliers.
In un momento difficile come quello attuale, in cui i giovani si trovano a
dover affrontare una situazione di grande precariato e sempre meno
punti di riferimento, Squisito diviene ancora di più un esempio di ciò che
dovrebbe avvenire all’interno di ogni società che si rispetti, dove i giovani
vengono considerati delle vere e proprie risorse, con cui è dunque possibile intavolare riflessioni sull’offerta formativa disponibile per il settore e le
concrete opportunità di inserimento.
Il programma procede con l’immancabile Paolo Massobrio e il suo club
del Papillon che, come d’abitudine, ci presenteranno “Experimenta”, il
laboratorio che insegna ad utilizzare inusuali combinazioni di gusti ma
anche a riconoscere i prodotti freschi e di qualità.
Per soddisfare i gusti dei più patriottici non mancherà anche quest’anno
“Il Villaggio degli Artigiani”, produzioni 100 per cento made in Italy, che
vede come novità la presenza di degustazioni durante le quali sarà possibile scoprire i segreti delle creazioni ponendo domande e curiosità ai protagonisti.
Molte quindi le aspettative anche per questa edizione: verranno certamente soddisfatte grazie all’impegno e alla costanza ai quali ci hanno
abituati, nel corso degli anni, i ragazzi della Comunità.
(Katia Giarrusso)
105
Pillole
I primi quarant’anni
del Prosecco
Verranno festeggiati con una rinascita a “Vino in villa”, il festival in programma dal 16 al 18 maggio
A pensarlo oggi sembra quasi impossibile. E’ infatti divenuto il vino
“moderno per eccellenza”, con la sua nota fruttata e la moderata alcolicità, che lo rendono abbinamento perfetto anche con la cucina light o
esotica che oggi vanno tanto di moda. Eppure era il 1969 quando
Conegliano Valdobbiadene otteneva la Denominazione di origine controllata.
A quarant’anni dal riconoscimento, il Prosecco di Conegliano
Valdobbiadene rinnova la propria identità presentandola in anteprima a
Vino in Villa, Festival internazionale che si svolgerà dal 16 al 18 maggio
nello splendido Castello di San Salvatore a Susegana, in
provincia di Treviso.
La novità più importante? La richiesta della Docg a partire dalla prossima vendemmia e la modifica del disciplinare, che porterà in primo piano il territorio.
“La richiesta della Docg è un’esigenza nella prospettiva
del cambiamento del mondo Prosecco grazie alla
Riserva del Nome”, afferma il presidente Franco Adami.
“Se fino ad oggi il nostro vino era conosciuto nel mondo
come Prosecco Doc, dal momento che l’ottenimento
della Denominazione di origine controllata è avvenuto
nel 1969, tra le prime doc d’Italia, e fino ad oggi si è
mantenuta l’unica Doc del Prosecco con Montello e
Colli Asolani, oggi non basta più. Con la nuova normativa verrà creata una nuova grande Doc base
Prosecco, estesa su ben otto province. Per l’area storica, quindi, il nome Prosecco diventa stretto… Cambiare è una scelta
coraggiosa ma i tempi sono maturi per farlo”.
Dopo il riconoscimento a primo Distretto spumantistico d’Italia, l’area
intraprenderà una nuova sfida: ottenere il riconoscimento a Patrimonio
Unesco, dal momento che, in Italia, oggi non esistono territori che abbiamo ricevuto la preziosa qualifica grazie alla viticoltura.
A “Vino in villa” si parlerà quindi di un “territorio in fermento”. L’evento,
giunto alla dodicesima edizione, sarà aperto al pubblico sabato e domenica, mentre lunedì l’ingresso sarà riservato agli operatori e ai soci Ais.
Nelle sale del Castello di San Salvatore, le aziende non saranno disposte in
ordine alfabetico ma per territori, cru e vigneti. Calice alla mano, si partirà
da Conegliano per arrivare, comune per comune, a Valdobbiadene per
scoprire il cru Cartizze.
Un modo originale, questo, per incontrare i produttori, uno ad uno, e per
conoscere attraverso la degustazione dei vini le differenze dei singoli suoli
e microclimi. Durante le giornate, poi, saranno organizzate visite al territorio per conoscere gli scorci più belli che diverranno base di valutazione
Unesco. Si potrà anche prendere parte alle singole iniziative che i produttori dell’area offriranno in cantina.
Sabato sarà il giorno dedicato alla cultura, la mattina con il convegno di
presentazione del progetto Unesco e delle molte novità 2009, nel pomeriggio con i Simposi di Vino in Villa, appuntamento culturale in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, quest’anno dedicato a
L’Abbondanza.
106
Food and beverage:
primo master in Bocconi
In gennaio è cominciato il “Master in Fine
Food & Beverage”, il primo master internazionale in general management dedicato al
mondo del food and beverage, organizzato
dalla Sda Bocconi, la Scuola di direzione
aziendale dell’Università Bocconi di Milano.
Diretto dai professori Massimiliano Bruni e
Giorgio Lazzaro, il corso ha l’obiettivo di formare manager in grado di sviluppare la competitività delle realtà imprenditoriali italiane in
un contesto di crescenti opportunità e di
pressioni internazionali.
Il master è un programma full-time, della
durata di un anno, tenuto in lingua inglese,
dedicato alla gestione delle imprese che a
vario titolo operano nei settori del food and
beverage di fascia alta, nella tradizione della
cultura e dell’imprenditoria italiana. L’Mffb è pensato per formare giovani
laureati provenienti da tutto il mondo che abbiano sviluppato una prima
esperienza di lavoro e che intendano proseguire la propria carriera professionale in questi affascinanti settori, in cui sempre più è richiesta la
capacità di coniugare una superiorità di prodotto e di servizio, tipica delle
aziende che operano in questi ambiti, con logiche e strumenti manageriali avanzati, capaci di assicurare percorsi di crescita nazionali ed internazionali.
Coerentemente con questo obiettivo, il Master coniuga il rigore e la profondità di contenuti che caratterizzano da sempre le iniziative della Sda
Bocconi, il cui prestigio internazionale è stato recentemente ribadito dalle
classifiche del Financial Times e del Wall Street Journal Europe, con interessanti momenti d’esperienza, in cui i partecipanti entrano in contatto
diretto con le imprese, le tradizioni e le culture internazionali del food and
beverage, attraverso degustazioni, visite in azienda e permanenze in
regioni italiane riconosciute a livello mondiale per i loro prodotti.
Proprio in quest’ottica trova spazio la collaborazione con l’Ais, che, con il
contributo scientifico e didattico di Rossella Romani e di Michele Garbuio,
coinvolgerà i 23 Partecipanti Mffb (di cui 19 italiani) nel corso per sommeliers negli spazi della Sda Bocconi.
L’intenzione è quella di promuovere una cultura manageriale di valore nel
settore del food and beverage e di sviluppare una specifica sensibilità
verso l’importanza del ruolo assunto dalla professione del sommelier nelle
diverse realtà che a vario titolo operano nel settore.
107
Pillole
Alla Brambilla
il titolo
di Sommelier onorario
Da giovane imprenditrice a giornalista per Mediaset,
da responsabile numero uno degli imprenditori under
40 della Confcommercio a Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio con delega al Turismo.
Michela Vittoria Brambilla è senza ombra di dubbio
una donna di successo. E il suo lavoro per quel settore tanto caro all’Ais le è valso il titolo di “Sommelier
Onorario”, conferitole dal presidente nazionale
Terenzio Medri.
La Brambilla ha ricevuto il riconoscimento con grande emozione e ha voluto ribadire subito il suo impegno per tutto il comparto turistico: «Ringrazio di cuore
l’Associazione italiana sommeliers e spero al più presto di poter ricambiare la fiducia con provvedimenti
concreti a vantaggio di questo settore tanto rilevante per l’economia del nostro Paese».
Così come annunciato dal presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi, nel corso del 2009 arriverà un nuovo
Ministero delle Politiche Turistiche e la Brambilla sarà
a capo di questo dicastero. All’origine della decisione di reintrodurre la figura del ministro del Turismo,
dopo l’abrogazione tramite referendum nel 1993 e il
passaggio di competenza alle Regioni con la modifica del titolo V della Costituzione, c’è la presa d’atto
della centralità di questa attività per lo sviluppo dell’economia nazionale. Da ciò la necessità di avere
nel governo un referente autorevole per una materia
così importante. «Non è pensabile – ha aggiunto la
Brambilla – che in un momento di crisi come questo
in cui c’è bisogno di aiutare le imprese, il turismo non
possa contare sulla massima operatività e sostegno
da parte delle istituzioni locali e nazionali». L’Ais è
quindi pronta a brindare con entusiasmo all’insediamento del nuovo ministro.
▲ Il presidente dell'Ais Terenzio Medri e Michela Vittoria Brambilla
108
▲ Paola Aldegheri e Giovanni Rana
▲ Luciano Padovani, autore dell’opera da cui è stata realizzata
l'etichetta
Quando il vino
è solidarietà
L’Amarone della Valpolicella Classico Doc Riserva Speciale 1995 rappresenta il fiore all’occhiello della produzione dell’azienda Aldegheri. A questo nettare unico è stata riservata un’occasione speciale che permettesse di dargli un valore aggiunto. L’Amarone Riserva 1995 è stato infatti il
protagonista di un’iniziativa benefica, scelta per sottolineare l’evento e il
profondo rapporto che lega il vino al territorio. Sono stati realizzati trenta
jeroboam da cinque litri, il cui ricavato è andato in beneficenza
all’Associazione Arcobaleno di San Pietro in Cariano. L’ente da anni si
occupa di disabili, di emarginati e del sostegno sanitario, economico e
legale delle persone affette da problemi psichici. L’associazione, inoltre,
ha appoggiato un progetto in un ospedale in Uganda per il sostentamento di bambini orfani e ammalati di Aids. Per conferire un ulteriore significato questo speciale Amarone è stato proposto con un inedito packaging
d’autore, realizzato da Luciano Padovani. L’artista, veronese di nascita e
residente a Sant’Ambrogio nel cuore della Valpolicella, è profondamente
legato alla realtà del territorio. Nella piena maturità del suo percorso artistico ha affrontato la tematica del vino e per questo Amarone unico ha
realizzato il quadro riprodotto poi sull’etichetta. “Un abito” di alta classe
per un vino dallo stile difficilmente eguagliabile e che segna un connubio
perfetto tra arte, territorio e solidarietà.
L’eccezionale annata 1995 ha permesso all’azienda Aldegheri di ottenere
un Amarone speciale, prodotto in un numero limitato di bottiglie, frutto di
un attento lavoro. Dopo un accurato appassimento, infatti, nei primi giorni
di febbraio, le uve vengono diraspate e pigiate in modo soffice. Il mosto e
le vinacce sono fatte poi fermentare per lungo tempo e quindi, dopo
alcuni travasi, il vino viene trasferito in apposite grandi botti di rovere per il
lungo invecchiamento. Dopo l’imbottigliamento l’Amarone viene ancora
affinato un anno in bottiglia per poter esprimere, al momento dell’apertura, le sue caratteristiche migliori. E proprio il particolare tipo di invecchiamento lo rende ancora più robusto, pieno e caldo, con profumi di confettura di prugna e di liquirizia e una sensazione di equilibrio e di morbidezza al palato. Caratteristiche che ne fanno un ottimo accompagnamento
per arrosti, piatti a base di selvaggina, agnello al forno, filetto di maiale
fino ai formaggi a pasta dura e come vino da conversazione.
(F. C.)
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Pillole
L’Ais premiata
con l’Eurhodip Award
Con questa prestigiosa onorificenza viene riconosciuto il ruolo dei sommeliers nello sviluppo del turismo
Un riconoscimento per la sua instancabile attività nel
settore alberghiero e della ristorazione. Il presidente
dell’Ais, Terenzio Medri, ha ricevuto l’Eurhodip Award,
un premio conferito dall’omonima associazione con
sede a Bruxelles, che raduna le più importanti scuole
alberghiere e di ristorazione europee e non solo.
Eurhodip ha recentemente ricordato i suoi vent’anni
di attività in occasione dell’annuale conferenza,
svoltasi in Marocco a Casablanca, oltrepassando i
confini continentali sulle coste mediterranee del
Nord Africa.
«Siamo lieti di consegnare questa onorificenza al presidente Medri. Con i sommeliers dell’Ais contribuisce
all’evoluzione del nostro settore in tutto il mondo. Il
turismo e i valori dell’ospitalità sono una ricchezza
che ogni Paese possiede e che devono essere valorizzati non solo perché fanno da traino dell’economia interna, ma soprattutto perché diffondono la
cultura e le peculiarità di ogni singolo territorio», ha
dichiarato Alain Sebban, presidente di Eurhodip.
La cerimonia di consegna dei riconoscimenti, che ha
visto protagonisti anche alcuni tra i migliori istituti
alberghieri europei, si è tenuta all’Hotel Golden Tulip
Farah di Casablanca per sottolineare che il
Mediterraneo è risorsa comune tra il nostro continente e quello africano. «Sono onorato di ricevere insieme a questo premio tutta la stima di Eurhodip. È la
dimostrazione che il lavoro che l’Ais porta avanti da
anni per la formazione di molti sommeliers ha raggiunto un valore internazionalmente riconosciuto. Un
ringraziamento va a tutti coloro che giorno per giorno si impegnano e portano avanti le nostre attività in
Italia e oltre i confini nazionali con la Worldwide sommelier association», queste le parole che il presidente
Medri ha tenuto a sottolineare. «Rivolgo inoltre la mia
riconoscenza a Eurhodip: come noi dell’Ais, favorisce
la formazione alberghiera a partire dai più giovani
ed è innegabile che il futuro del nostro settore non
può che essere affidato nelle mani delle nuove
generazioni».
CONVOCAZIONE DI ASSEMBLEA PER L’APPROVAZIONE DEL BILANCIO CHIUSO AL 31 DICEMBRE 2008
È convocata l’Assemblea dell’Associazione italiana sommeliers prevista dall’articolo 11 dello Statuto vigente
presso la sede dell’Ais, Viale Monza 9, Milano per mercoledì 22 aprile 2009 alle ore 6.00 in prima convocazione
e per GIOVEDÌ 23 APRILE 2009 ALLE ORE 10.30 in seconda convocazione per discutere e deliberare sul seguente
ORDINE DEL GIORNO
1 – Lettura della relazione sull’attività gestionale
2 – Lettura della relazione del Collegio Revisori dei Conti
3 – Discussione e approvazione del Bilancio al 31 dicembre 2008
4 – Discussione e approvazione del Bilancio Preventivo 2009
Il Presidente
Terenzio Medri
Libri
SULLO SCAFFALE
GUIDA AL PIACERE
E AL DIVERTIMENTO 2009
Tutti gli indirizzi più nuovi
e alla moda d’Italia
Autore: Roberto Piccinelli
Editore: Outline
Prezzo: 15,00 euro
2008, anno bisestile, anno funesto: così recita un celebre motto esclusivo delle culture di base romana. Se
nei primi giorni dell’anno vi siete affrettati a leggere le
previsioni astrologiche per questo 2009 agli esordi,
foriero, sembrerebbe, di fortune e riscatti in barba
all’inesorabile crisi economica e di valori che ci attanaglia, allora non fatevi mancare l’edizione 2009 dell’ormai consueta Guida al Piacere e al Divertimento
di Roberto Piccinelli. Un prezioso concentrato di consigli e suggerimenti sui locali dove trascorrere le nostre
serate, abbandonando per un momento la difficile resa
dei conti con mutui e disoccupazione incipiente.
Usciamo e divertiamoci: ce lo meritiamo, senza con ciò
dover necessariamente contribuire alla invocata ripresa dei consumi.
A guidarci nella ricca offerta del mondo del loisir,
Roberto Piccinelli, giornalista, scrittore e creatore di
neologismi ormai entrati nel parlato comune (in pochi
ormai ignorano cosa sia un dream hotel). Giunta alla
sua dodicesima edizione, la guida e la sua periodicità
annuale si spiegano per due ordini di
motivi, indicati dallo stesso autore: la
frenetica successione dei locali meritevoli di segnalazione e la continua
individuazione di nuove tipologie strutturali. Immobilismo e preconcetto
sono aggettivi che Piccinelli aborrisce,
convinto che la realtà odierna, sempre più propositiva e instabile, non
possa essere approcciata passivamente, ma prevista in anticipo.
Delle oltre 2.500 strutture personalmente censite dall’autore sono fornite indicazioni essenziali quali nominativo, indirizzo, telefono, giorni e orari
di apertura, periodo di chiusura annuale, oltre a descrizioni curate di taglio giornalistico.
Imperdibile, in chiusura del volume, la sezione “I protagonisti del Bien Vivre”, dove troviamo elencate le persone giuste i cui nomi non possono essere ignorati da
chi va alla ricerca del meglio della vita: politici
(Santanché, ma anche Veltroni e Gelmini), attori
(Scamarcio, Mastelloni), manager e imprenditori, architetti, giovani rampanti.
di Natalia Franchi
TRAPANI
Le terre del gusto
Autore:
Editore:
Camera di commercio
Industria Artigianato
Agricoltura di Trapani
PS Advert Edizioni
Terra dalle mille promesse, la Sicilia esprime nella
provincia di Trapani un affascinante incrocio di sole,
terra e mare. Una terra che andrebbe inserita nelle
guide turistiche più popolari, per far conoscere al
turismo mondiale una delle mete meno scontate e
più preziose della nostra penisola. La parte introduttiva del volume si sviluppa con l’illustrazione dei
tre principali percorsi enogastronomici
del sale, del vino e
dell’olio, nei quali il
lavoro dell’uomo si
intreccia spesso con
leggende antichissime. E con luoghi dal
fascino secolare mai
tramontato: Marsala
e Selinute, per citare solo i più noti siti di interesse del trapanese. La
straordinaria offerta enogastronomica fa infatti
da contraltare alle vestigia e alle tradizioni frutto di
quasi tremila anni di storia, che dalle prime colonie
greche arrivano ai giorni nostri, in una straordinaria miscellanea di culture e civiltà nel centro del
Mediterraneo.
Scopo dell’apprezzabile volume, curato dalla Camera
di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di
Trapani, dunque, far conoscere le bellezze e i prodotti di eccellenza del territorio trapanese. L’opera si propone come una guida agile e coinvolgente per scoprire la ricchezza e la varietà sia dei prodotti della terra
sia dei piatti più caratteristici. I modi di preparazione dei cibi variano spesso da una città all’altra, dando
così vita a un avvincente affresco di sapori.
Ecco quindi un’attenta elencazione e descrizione di
ricette suddivise nelle seguenti sezioni:
gli antipasti, preparati con ingredienti semplici ma
dal sapore deciso; il pane e le pizze; le insalate, in
cui vengono realizzati accostamenti sorprendenti;
le minestre e le zuppe, piatti semplici della cucina
popolare in cui si mischiano verdure, legumi, ortaggi e pesce; i primi piatti; il pesce; la carne, in particolare maiale, agnello, capretto e coniglio; la pasticceria, in cui accanto ai dolci tipici come cassate e
cannoli troviamo molte prelibatezze preparate con
le mandorle, i semifreddi, i torroni e le torte a base
di ricotta.
Non fatevi mancare nulla.
Vedi Trapani e poi muori.
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VINI DI LIGURIA
VinidAmare
Autore: Antonello Maietta
Editore: Corigraf Genova
Chi scrive conosce ed apprezza da anni le dolcezze,
gli spigoli e il fascino unico della località di Camogli.
L’odore, l’atmosfera e il significato di un posto dove
il solo osservare la fierezza del faro che si erge semplice e maestoso tra le acque del suo piccolo porto,
basta a dimenticare la banalità di lunghi giorni trascorsi in una grigia metropoli. Un porto che è espressione della sostanza e della chiara lealtà della gente
che vi abita. Al di là della focaccia e dei luoghi comuni che attirano i sempre più numerosi milanesi.
Il volume arriva dopo cinque anni di indubbio successo della rassegna di vini liguri “VinidAmare”, ospitata appunto dalla cittadina di Camogli (il prossimo appuntamento è previsto nel mese di maggio).
Una iniziativa che vanta il
patrocinio della Regione
Liguria e delle Province di
Genova, La Spezia, Savona e
Imperia, a rispondere alle esigenze di quanti, produttori,
giornalisti o appassionati
della cultura del vino, apprezzano la tradizione vinicola
ligure e desiderano approfondire la conoscenza di ogni suo
aspetto. Occorre superare il
luogo comune della Liguria
come sito condizionato unicamente dal suo stretto rapporto con il mare, per cogliere la varietà del patrimonio regionale in cui rientra a pieno titolo la produzione di vini con suoi vigneti costruiti sui pendii delle
riviere.
Otto le zone della Liguria, caratterizzate da altrettante Doc – Denominazione di origine controllata –
presentate nel volume, in un percorso da Ponente
a Levante che analizza i diversi disciplinari di produzione, opportunamente privati del freddo e poco
comprensibile linguaggio burocratico.
All’autore, Antonello Maietta – vice presidente nazionale Ais – va il merito di aver reso l’opera un affresco non solo del territorio ligure, ma altresì un ritratto delle ultime generazioni di uomini che hanno trasformato le sorti di un’economia fino ad oggi devastata dal dissesto idrogeologico e dal declino paesaggistico. Giovani che hanno rivitato le superfici, creando nicchie di autentica qualità, capaci di reinterpretare, modernizzandolo, il tradizionale individualismo di queste terre.
Una terra da amare.
ACETI FAI DA TE
Paolo Giudici, Carlo Zambonelli,
Luigi Grazia
Editore: Ed. Agricole
Il Sole 24 Ore Business Media
Prezzo: 16,00 euro
Autore:
A torto lo si considera il più umile e il più facile
da produrre tra gli alimenti fermentati. Fama
immeritata, quella dell’aceto, che a buon diritto
è tra i condimenti maggiormente consumati in
tutto il mondo e il più sicuro sotto l’aspetto igienico sanitario. Tanto da essere il “conservante”
per eccellenza di altri alimenti.
Ancora, l’umiltà che gli si attribuisce non considera l’enorme varietà di materie prime da cui l’aceto può derivare. Ogni materia prima suscettibile
di fermentazione rappresenta una fonte per la sua
realizzazione. A differenza degli altri membri della
famiglia degli alimenti fermentati (vino, birra,
bevande alcoliche, formaggi, pane), l’aceto è il solo
a derivare dall’attività di più microrganismi che
lavorano in successione; la cosiddetta fermentazione acetica è
sempre l’ultima e non
è mai così scontata.
Nelle intenzioni degli
autori – che hanno
personalmente sperimentato le tecnologie
proposte nel volume –
consentire ai curiosi di
cimentarsi nella produzione di aceti comuni, esotici, non convenzionali.
E proprio nella descrizione degli aceti non convenzionali risiede l’elemento curioso che fa del volume una chicca per
chi non intende fermarsi al solito aceto di vino.
Accanto al più noto aceto di mele (di sidro), troviamo illustrate procedure per la realizzazione
di aceti da numerosi frutti – fichi, banane, agrumi e frutti di bosco – dal miele, dalla birra, dal
riso e dall’orzo.
Esaustiva e doverosa la lettura del capitolo dedicato al mai abbastanza conosciuto aceto balsamico. Chiude il volume un omaggio agli aceti “strani”, le cui materie prime, oltre che insolite, potrebbero essere di difficile reperimento, come la palma,
le radici e i tuberi.
A ognuno il suo aceto.
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Io non ci sto
E’ del produttor (di vino)
ancora il fin la meraviglia?
di Franco Ziliani
isognerà scriverla, prima o
poi, a bocce ferme, la storia
del mondo del vino di questi
ultimi vent’anni, che accanto ad una
innegabile crescita, qualitativa, d’immagine e di prestigio presenta pagine molto meno esaltanti. Bisognerà
parlare dei molti errori compiuti,
delle ingenuità, della tendenza diffusa a compiacere e talora cavalcare le mode, della grande difficoltà a
delineare con lungimiranza e senza
continue correzioni di rotta, precise
strategie. Per molti produttori italiani questi sono stati e sono ancora
anni all’insegna del marinismo.
Non fraintendetemi, non mi riferisco alla bionda e giunonica Valeria,
attrice, showgirl e ora anche stilista,
anche se l’opulenza di certi vini
farebbe pensare ad una sorta di ispirazione alla “burrosa” soubrette. Il
marinismo cui penso è proprio quello che prende nome da Giovan
Battista Marino, massimo rappresentante della poesia barocca italiana, il cui motto più celebre, tramandato da tutte le storie della letteratura, dice che “È del poeta il fin la
maraviglia”. Cosa sono state, cosa
sono difatti molte libere interpretazioni enologiche, tutte ghirigori, trovate ben calcolate, specchietti per
allodole, se non libere variazioni e
applicazioni al tema vino di quell’invito, lanciato secoli fa da Marino, a
sorprendere, con tutti gli effetti speciali dati ieri dalla retorica e oggi da
una tecnica sempre più agguerrita,
il lettore e, oggi, mutatis mutandis,
il consumatore ed il degustatore professionale? Cos’erano difatti se non
effetti speciali, espedienti per farsi
notare, più con elementi collaterali
che con la verità e la bontà del prodotto finale, il ricorso ad inutili e
costose bottiglie super pesanti o di
foggia particolare create appositamente, il vorticoso turn over delle
etichette, ogni volta affidate al grafico o al designer (verrebbe voglia di
dire lo stilista…) più in voga, e poi
B
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l’adozione di nomi che più fantasiosi, stravaganti, privi di ogni legame
con il territorio, scelti per battezzare i vini più ambiziosi e costosi?
Vi sembra esagerato quello che dico
e viziato da un tradizionalismo che
mi spinge a diffidare della “creatività” e del nuovo? Bene, allora voglio
citare quanto ha scritto recentemente, parlando della proliferazione delle
cosiddette super cuvées, uno dei più
autorevoli wine writer britannici,
Andrew Jefford, sulle colonne di
Decanter. Ha scritto: “Non v’è dubbio che la scelta di produrre vini
da singoli vigneti (parla di un fenomeno che dalla Borgogna si è esteso anche ad altre zone vinicole francesi) otterrà il plauso dei puristi e
non v’è dubbio che rappresenti la
migliore soluzione se il luogo in questione ‘consente la creazione di un
vino che presenta una qualità e uno
stile unici e ben percepibili dovute
al particolare ambientamento di
quelle uve in quel posto’. Ma anche
in Borgogna questa unicità non è se
non raramente distinguibile”.
La conclusione è che “la scelta della
super cuvée, della selezione speciale, è una sorta di mostro generato
dall’ascesa e dall’imporsi di una critica del vino basata sui punteggi”. E
queste selezioni speciali, “innegabilmente impressionanti”, lo sono “più
per l’accumulazione delle qualità,
facile da tradurre in un punteggio,
che per la definizione di queste stesse qualità”, che è più difficile da percepire e richiede che ai vini venga
concesso il giusto tempo per maturare e poterle esprimere. Come si è
tradotto questo discorso relativo alla
situazione francese nel panorama
vinicolo italiano? Si è tradotto, lo
spettacolo, se così si può dire, è sotto
gli occhi di tutti, in un’assurda,
incontrollata, disordinata frammentazione della produzione in cru, sotto
cru, super cuvées, selezioni particolari, vini di nicchia, che hanno ridotto la massa critica ed il potenziale
appeal commerciale di molti vini,
perché un conto, soprattutto per un
importatore, è contare su 50,100
mila bottiglie di un determinato vino,
un conto è sapere di avere a che fare
con un “vin de garage” da tremila
pezzi, ma hanno funzionato, finché
hanno funzionato, maravigliosamente come rilucenti attrazioni in grado
di catturare l’attenzione di una stampa e di una critica alla ricerca del
nuovo.
Perché un conto, nel loro ragionare,
è parlare del vino già noto e affermato, un conto è raccontare al lettore dell’ennesima novità, della sperimentazione in corso, della stranezza e particolarità provata “per vedere come si ambientava quell’uva in
quel determinato terroir”, o perché,
insomma non provare a produrre un
Merlot, un Pinot Nero, un Viognier
in zone dove da secoli si lavorava
solo sul Sangiovese, o sul Nebbiolo,
è un po’ da “provinciali”... Pensiamo,
ad esempio, alla sola Toscana, al
Chianti Classico, oppure ad altre
zone come Montalcino dove in ossequio alla parola d’ordine dei Super
Tuscan, accanto ai classici vini a
denominazione sono fioriti, espressione, ci è stato detto, delle uve
migliori, tutta una serie di vini “innovativi” prodotti con incroci e commistioni di varietà autoctone e alloctone o totalmente internazionali nella
loro composizione e nello spirito.
A cosa sono serviti? A nulla, solo a
far parlare, ad attirare l’attenzione,
a dimostrare che era davvero il marinismo ad ispirare larga parte di un
mondo produttivo intento solo a
dimostrare che é “del produttore il
fin la meraviglia”. Innovazione l’hanno chiamata, capacità di rinnovarsi, di offrire nuovi stimoli al consumatore. Sarà anche vero, ma se questo è il mondo del vino e se queste
sono le “ricette” per affrontare i mercati in tempi di crisi, non posso che
dire, a costo di apparire ripetitivo,
scusate, ma io non ci sto…
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Marzo / Aprile 2009 - Associazione Italiana Sommelier