Monica Mainardi
INSEGNANTE
ANIMATRICE CULTURALE
Mitologia greca
La mitologia greca è la raccolta di tutti i miti e le leggende appartenenti alla cultura
degli antichi greci ed elleni che riguardano i loro dei ed eroi, la loro concezione del
mondo, i loro culti e le pratiche religiose. I miti greci sono raccolti in cicli che
concernono le differenti aree del mondo ellenico. Unico elemento unificante è la
composizione del pantheon greco, costituito da una gerarchia di figure divine che
rappresentano spesso forze o aspetti della natura.
Gli studiosi contemporanei studiano e analizzano gli antichi miti nel tentativo di fare
luce sulle istituzioni politiche e religiose dell’antica Grecia e, in generale, di tutta
l’antica civiltà greca.
La mitologia greca si compone di una vasta raccolta di racconti che spiegano
l’origine del mondo ed espongono dettagliatamente la vita e le avventure di un gran
numero di dei e dee, eroi ed eroine, mostri e altre creature mitologiche. Questi
racconti inizialmente furono composti e diffusi in una forma poetica e compositiva
orale, mentre sono invece giunti fino a noi principalmente attraverso i testi scritti della
tradizione letteraria greca. Le più antiche fonti letterarie conosciute, i due poemi epici
Iliade e Odissea, concentrano la loro attenzione sugli eventi che ruotano attorno alla
vicenda della guerra di Troia. Altri due poemi quasi contemporanei alle opere
omeriche, la Teogonia e Le opere e i giorni scritti da Esiodo, contengono invece
racconti che riguardano la genesi del mondo, la cronologia dei sovrani celesti, il
succedersi delle età dell’uomo, l’inizio delle sofferenze umane e l’origine delle
pratiche sacrificali. Diverse leggende sono contenute anche negli Inni omerici, nei
frammenti dei poemi del Ciclo epico, nelle poesie dei lirici greci, nelle opere dei
tragediografi del V secolo a.C., negli scritti degli studiosi e dei poeti dell’età ellenistica
e negli scrittori romani come Plutarco e Pausania.
Le rovine monumentali ritrovate nei siti archeologici micenei e minoici sono state
d’aiuto per chiarire alcuni problemi posti dall’epica omerica e hanno fornito concreti
riscontri su particolari presenti nei racconti mitologici. Gli argomenti narrati dalla
mitologia greca furono anche rappresentati in molti manufatti: i disegni geometrici
sulla superficie di vasi e piatti risalenti anche all’VIII secolo a.C. ritraggono scene
ispirate al ciclo della guerra di Troia o alle avventure di Eracle. Anche in seguito,
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sugli oggetti d’arte saranno rappresentate scene tratte da Omero o da altre
leggende, così da fornire agli studiosi materiale supplementare a supporto dei testi
letterari.
La mitologia greca ha avuto una grandissima influenza sulla cultura, le arti e la
letteratura della civiltà occidentale e la sua eredità resta tuttora ben viva nei linguaggi
e nelle culture che fanno parte di questa zona del mondo. È stata sempre presente
nel sistema educativo, a partire dai primi gradi dell'istruzione, mentre poeti e artisti di
tutte le epoche si sono ispirati a essa, mettendo in evidenza la rilevanza e il peso che
i temi mitologici classici potevano rivestire in tutte le epoche della storia
La nascita delle lingue neolatine
Quando Roma intraprese la sua politica espansionistica impose ai popoli conquistati
le proprie usanze, la propria cultura e soprattutto la propria lingua, per cui gli idiomi
locali vennero, nel corso degli anni, soffocati dalla lingua latina, che si sostituì ad
essi. Quando l’impero romano cadde, nel 476 D. C., venne meno tutta l’impalcatura
culturale, oltre che economica e militare, imposta da Roma. Quindi ritornarono a
galla, una volta andati via i romani, i linguaggi autoctoni (locali) che però non furono
più quelli che erano prima, ma erano mescolati a quanto di romano, o meglio di
latino, si era fuso ad essi. Nasce quindi una nuova lingua, nei vari luoghi di
denominazione romana, costituita dal sostrato linguistico ( lingua originaria alla base
dell’esperienza linguistica dei popoli del posto) più le influenze della lingua romana.
Sette sono le lingue neolatine: l’italiano volgare, il ladino, il francese doil, il francese
doc, il rumeno, lo spagnolo e il catalano. L’impero romano cadde nel 476 D. C. ,le
prime forme di letteratura nazionale si hanno tra il 1000 e il 1100 quindi intercorrono
600 anni (6 secoli). Ciò sta a significare quanto sia lento il processo linguistico.
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La musica antica
La musica antica, greca e romana, pone problemi ben diversi da quelli che si
presentano agli studiosi della musica di altre epoche: infatti non conosciamo nulla o
quasi delle composizioni che furono prodotte e eseguite in quel periodo. Non
possediamo neppure una nota di tutto ciò che è stato composto prima del III secolo
a.C. e i pochissimi testi musicali di età ellenistica e romana che ci sono pervenuti non
forniscono indicazioni precise e esaurienti per la loro esiguità e il deplorevole stato di
conservazione. Dal 1850 in poi il nostro patrimonio di testi musicali si è relativamente
arricchito per la scoperta di tre iscrizioni - i due Inni delfici, il primo anonimo del 138
a.C. e il secondo, di Limenio, del 128 a.C., e l’epitafio di Sicilo, del I secolo - e di una
quindicina di brevi frammenti papiracei, il più antico dei quali è del III secolo a.C. e
contiene alcuni versi dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Queste composizioni, prese
insieme, non arrivano all’estensione di una sonata di Bach per violino solo; per di più
sono quasi tutte molto frammentarie e la loro interpretazione e trascrizione è spesso
problematica. Scarse sono anche le indicazioni culturali che possiamo ricavare dalle
opere dei teorici greci e romani, in quanto essi considerarono il fenomeno musicale
quasi esclusivamente dal punto di vista dell’indagine acustica e matematica. Si
occuparono soprattutto della dottrina degli intervalli, calcolandone l’ampiezza in base
a rapporti numerici e analizzando i vari modi in cui gli intervalli stessi possono
disporsi all’interno dei tetracordi ( schemi musicali elementari, formati dalla
successione di quattro note, che per la musica greca hanno la stessa funzione delle
scale di ottava per la nostra musica) e dei sistemi (strutture più ampie, formate da
due o più tetracordi). Nei loro scritti non si trova mai né un riferimento a una
composizione musicale qualsiasi né una indicazione circostanziata sulla tecnica
compositiva e esecutiva.
E’ invece considerevole l’ampiezza della documentazione, reperibile in tutta la
tradizione letteraria, filosofica e artistica, pertinente all’incidenza del fenomeno
musicale nella cultura antica e ai suoi aspetti sociologici.
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La scrittura
Con la scrittura era nato il problema di trovare una superficie su cui scrivere, problema che
era stato reso ancor più grave dall’invenzione dell’alfabeto e dalla conseguente diffusione
della scrittura; dapprincipio gli uomini scrivevano un po’ dappertutto: sui muri (ne abbiamo
ancora alcune testimonianze, come i manifesti elettorali e le indicazioni militari scritte con
inchiostro rosso sui muri di Pompei), sulle tavole di legno (Aristotele, Cost. At. 7,1), sulle
porte, sulla pelle di vari animali, soprattutto cartapecora e cuoio, ma anche sulla pelle di rettili
e di cani, sulle foglie, sulle bucce dei frutti, su tessuti di seta o di lino, su lamine di piombo.
Anche i volumi in cui si conservavano gli atti pubblici erano in piombo, come ci racconta Plinio
il Vecchio (XIII 69). Qualcuno utilizzava anche il tiglio (Digesto, XXXII 52, pr.: Volumina in tilia
ut nonnulli conficiunt.), mentre chi studiava geometria tracciava figure su una tavoletta
cosparsa di sabbia (Persio, 1,131; cfr. Aristofane, Le nuvole, 177 sgg.): Plutarco scrive
(Dione, 13) che quando Platone si recò in Sicilia alla corte di Dionigi il tiranno, tutti furono
presi da un così grande amore per la geometria che nella reggia c’era sempre un gran
polverone.
Il papiro
Il papiro si indica in latino con i termini papyrus o charta; quest’ultimo vocabolo (da cui, com’è
evidente, deriva il termine italiano “carta”) viene dal greco karasso, che significa “scortico” o
“sbuccio”. La diffusione dell’uso del papiro ebbe inizio dopo la conquista di Alessandro il
Grande e la fondazione di Alessandria (Varrone, in Plinio il Vecchio, XIII, 69). Il papiro era
una specie di carta fabbricata con gli strati interni del fusto di una pianta palustre (il cosiddetto
cyperus papyrus) che veniva coltivata in Egitto sulle rive del Nilo; gli strati venivano tagliati in
lunghe e sottilissime liste (phylirae) che, allineate verticalmente su una tavola impregnata
d’acqua, aderivano ad un altro strato di strisce disposte perpendicolarmente ad esse e vi si
saldavano per pressione. Il papiro di fabbricazione egiziana aveva una superficie irregolare,
ma a Roma esistevano laboratori (officinae) in cui, grazie a torchi e martelli, si riusciva a
rendere il supporto sufficientemente levigato ed adatto alla scrittura. Plinio ci fornisce alcune
indicazioni in proposito: cita l’officina di Fannio in cui si produceva la carta Fanniana, rinomata
per la sua levigatezza (Nat. Hist., XIII, 75), che si distingueva dalla rozza carta egiziana, detta
amphiteatrica perché veniva prodotta ad Alessandria presso l’anfiteatro.
Plinio ci lascia anche qualche notizia sul commercio del papiro, che si produceva in qualità
distinte, la hieratica (che successivamente prenderà il nome di Augusta), che serviva alla
scrittura, e l’emporeutica, mercantile, adatta solo all’imballaggio. A Roma vi erano anche
magazzini di papiro (horrea chartaria). Veniva utilizzata per scrivere soltanto una facciata dei
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fogli di papiro: l’altra facciata (aversa charta) non era utilizzata, oppure serviva per note e
conti di scarsa importanza; vi era tuttavia un ristretto numero di papiri di cui si utilizzavano
entrambe le facciate (opisthographa). Chi per scrivere adoperava una carta meno fine, e
perciò non perfettamente liscia, la raschiava prima con una conchiglia (Marziale, XIV 209) o
con un pettine d’avorio; in questo caso il papiro prendeva il nome di charta dentata (Cicerone,
ad Qu.Jr. II 14,1). Il formato della carta variava secondo gli usi: vi era la carta da lettere
(charta epistolaris) e la carta per i libri. Nei documenti sino all’età di Cesare (Svetonio, Divus
Julius, 56) si scriveva nel senso della larghezza (transversa charta); nelle lettere si scriveva
invece sempre nel senso della lunghezza, come facciamo anche noi oggi, ma anche allora le
aggiunte fatte quando non c’era più spazio si scrivevano per il largo, approfittando di quel po’
di bianco fornito dai margini (Cicerone, ad Att. V 1,3) I papiri latini conservatisi fino ad oggi
sono pochissimi, ma del resto dobbiamo ricordare che non solo la carta degli antichi Romani
era più ingombrante e pesante, ma anche molto più costosa e infinitamente più rara. Al giorno
d’oggi la carta ci appare come una risorsa infinita e accessibile ad ognuno, addirittura
eccessiva in certi casi, ma allora era un’impresa ardua rifornirsene; oggi nel mondo si
consuma in un giorno solo molta più carta di quanta se ne consumava in età romani in molti
anni, pur tenendo conto del fatto che i latini scrivevano moltissimo, mantenevano
corrispondenze epistolari, redigevano atti pubblici e privati, prendevano appunti, pubblicavano
e libri e ordinavano biblioteche. Comunque possediamo ancora un reperto interessante in
proposito, ovvero un gruppo di 24 papiri trovati nel 1752 chiusi in una capsa in una villa di
Ercolano.
Le tavolette cerate
Se pensiamo soltanto al fatto che la frase “aliquid ceris mandare” significava affidare
qualcosa allo scritto, capiamo immediatamente quanto fossero importanti per i Romani le
tavolette cerate. Quelle che i Romani chiamavano genericamente cerae o tabulae erano
assicelle rettangolari di legno o di avorio a margini rialzati che, spalmate di cera, tinta in
genere di colore scuro, servivano alla scrittura di esercizi per la scuola, biglietti, appunti, brevi
lettere, conti o anche primi abbozzi di un’opera letteraria (Giovenale, 1, 63; Plinio, epist. I 6,1;
Quintiliano, Instit., X, 3, 31; Orazio, Sat., I, 10, 72-73). Esse servivano inoltre per certe
pratiche magiche che ricordano i riti con le bambole voodoo: una donna esperta di
incantesimi scriveva su una tavoletta il nome dell’amante, ne tracciava la figura, perforandone
il fegato con un lungo ago; si dice che il rito avesse seriamente effetto sul malcapitato, che
pativa dolori atroci (Ovidio, Amores, III 7, 29-30). Nel più tardo uso comune le tavolette
venivano chiamate codicilli, pugillares (specialmente quelle di piccolo formato) o anche
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Vitelliani; sembra che questi ultimi, piccoli ed eleganti, servissero in particolar modo per lo
scambio di appuntamenti amorosi (Ovidio, amores, I, 12, 1-2; Marziale XIV 8). La cera era
solitamente colorata, di un colore scuro: Marziale infatti definisce le cerae tristes (XIV 5,1) e
Ovidio allude al sanguinolentus color (Amores, I 12, 12), intendendo un rosso cupo, livido.
Si spalmava la cera nell’interno della tavoletta, che era leggermente incavato a causa del
rilievo dei bordi: in questo modo la cera vi rimaneva ben fissa. Di solito si praticava un foro
nell’orlo e vi si faceva passare attraverso un cordoncino, in modo da unire più tavolette; le
cerae prendevano quindi il nome di duplices, triplices, quinquiplices e così via, a seconda del
numero delle tavolette di legno da cui erano composte. Talvolta esse venivano indicate anche
col nome greco di diptycha, triptycha, poliptycha. L’insieme di più tavole nei primi tempi era
chiamato caudex o codex (Seneca, de brev. vitae, 13, 4), che significava alla lettera tronco
d’albero. Ogni tavoletta veniva spalmata di cera sulle due facce; tuttavia nel diptychon si
inceravano solo le facce interne, ed esso assumeva quindi l’aspetto di un libretto: le due
facciate esterne fungevano da copertina, e sulla facciata anteriore alcuni incidevano il proprio
nome. Tavolette cerate degli anni 15-62 d.C., scoperte a Pompei nel 1875, si trovano oggi al
Museo Nazionale di Napoli. Altre databili agli anni 121-137 d.C. furono trovate in Dacia nelle
miniere di Alburnus Maior Vicus Pirustarum (oggi Verespatak in Transilvania). Recentemente
sono stati scoperti ad Ercolano ben sette archivi privati, importanti per la storia dell’economia
e del diritto.
Altri supporti
Né il papiro, né la pergamena, né le tavolette eliminarono l’uso di altri materiali: si continuò a
scrivere infatti su cocci, su cuoio, su tessuti, ecc. Se si voleva esporre in pubblico un
documento lo si trascriveva su tavole imbiancate col gesso (tabulae dealbatae); se invece si
voleva assicurare lunga durata ad uno scritto, lo si incideva su pietra, bronzo o marmo: è
proprio grazie a questo uso che le innumerevoli epigrafi ed iscrizioni latine sono giunte fino a
noi.
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I pasti degli Antichi Romani
Scoprire le abitudini culinarie degli antichi romani è divenuto, ormai da tempo, un
tema di grande interesse. Gli amanti della cucina, oltre a scoprire le antiche
abitudini, si dilettano a cucinare, assaporare e degustare le bevande e i cibi che gli
antichi romani usavano preparare per i propri pasti. Nell’Antica Roma si usava
consumare tre pasti al giorno: jentaculum (la nostra prima colazione), il prandium (il
nostro pranzo) e la coena (la nostra cena). Il primo pasto detto jentaculum era molto
simile alla nostra prima colazione, consumata nelle prime ore del mattino. Era un
pasto leggero e semplice a base di pane, formaggio, frutta secca, miele, latte e vino,
con il quale veniva condito il pane. I più poveri usavano fare il primo pasto
semplicemente a base di pane bagnato nel latte o nel vino. Poco prima di
mezzogiorno, veniva consumato il secondo pasto della giornata il prandium. Questo
pasto veniva consumato velocemente e in piedi; era un pasto freddo a base di
legumi, verdura, frutta e pesce.
La cucina dell’Antica Roma si basava
principalmente sul pasto serale, l’ultimo pasto della giornata: la coena. Le famiglie
più povere finivano la loro giornata con un semplice pasto a base di farina, legumi e
verdure, una sorta di pasticcio nutriente ma dal gusto sempre uguale. Per le famiglie
patrizie, invece, la cena era un momento di divertimento, dialogo e riunione di
familiari, amici, protettori. L’ultimo pasto della giornata poteva durare diverse ore ed
era animato da diversi piatti e ghiottonerie di ogni genere conditi con particolari salse
e accompagnati da vino e bevande.
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