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SI PARLA DI...
COSTUME & SOCIETA’
mercoledì 19 ottobre 2011
CATERINA GIOIELLA, LA RAGAZZA DI ROCCAPIEMONTE RAPPRESENTA L’ITALIA IN SVEZIA
Dal micromondo alla ribalta internazionale
di Mirko Locatelli
isogna osare per vincere. Ecco
il succo della bella storia che sto
per raccontarvi. Ne è protagonista
una ragazzina di umili origini nata in
un paesino della valle del Sarno. Le
stava così stretto il suo paese, Roccapiemonte, che sin dall’adolescenza si mise a covare il sogno di vivere realtà lontane, alla scoperta di posti, persone, lingue e culture diverse. I sogni - si sa - non costano niente e fanno bene alla salute. Ma poi bisogna realizzarli e non tutti ci riescono. Caterina Gioiella c’è riuscita.
Seguendo il suo istinto s’incamminò
da sola, senza raccomandazioni o
santi in paradiso, fermamente decisa a spuntarla. Ha provato, sgomitato, sofferto e alla fine ha vinto. Fa la
diplomatica. Germania, Egitto, Svezia, le sue prime tappe. In questo momento è il numero due dell’ambasciata italiana a Stoccolma. Ma come diavolo ha fatto?
Lei sorride, ammicca e racconta: «La
mia scelta risale agli anni del liceo
classico “G.B. Vico” di Nocera Inferiore. La mia passione per la storia e
per le relazioni internazionali si sviluppò nell’ultimo anno di liceo, grazie
B
AGRITURISMO
anche ad un brillante professore di
dezza tipica dei bravi ragazzi di prostoria e filosofia. Alla passione si agvincia.
giunse una curiosità verso culture e
Dice: «Ho un ricordo piacevolissimo
tradizioni diverse dalla nostra. Mi ridel mio primo giorno al ministero defiutavo di spendere tutta la vita nel
gli Esteri. Ebbe un po’ i sapori di un
posto dove ero nata».
nuovo primo giorno di scuola, reso
La scelta della carriera diplomatica
ancor più piacevole dalla conoscenle nasce quando un giorno, prossima
za dei miei 50 colleghi di concorso
a conseguire la laurea in giurisprucon i quali si stabilì subito un rapdenza, intravide all’Università di Saporto speciale che ancora oggi ci lelerno il manifesto con cui veniva pubga, benché siamo tutti sparsi per il
blicizzato il corso di preparazione al
mondo».
concorso diplomatico: allora capì che
Prima di passare dal micromondo di
il mondo della diplomazia doveva esRoccapiemonte alla realtà internasere qualcosa di affascinante. Così,
zionale, Caterina ha lavorato per tre
laureatasi col massimo dei voti e una
anni a Roma in servizio al Contentesi in storia delle relazioni internazioso Diplomatico dei trattati conzionali, anziché seguire la A Stoccolma Caterina è il vicario dell’Ampratica foren- basciata: «Mi auguro di poter contribuire
se cominciò a con un apporto significativo al bene della
studiare in- collettività italiana in questo paese, che è
glese, france- molto bene integrata nella società svedese».
se e spagnolo
con brevi soggiorni in Inghilterra, a
clusi dall'Italia in sede multilaterale.
Parigi e in Spagna. Poi frequentò il
Otto mesi fa l’hanno mandata a Stoccorso presso la Sioi di Napoli dedicolma, dopo due anni all'Ambasciacandosi esclusivamente per tre anni
ta d'Italia in Egitto, dove era responallo studio delle materie del concorsabile della Cancelleria consolare, e
so, che prevede esami severissimi.
altrettanti al Consolato Generale di
E vincitrice, eccola varcare l’ingresFrancoforte dov’era Console aggiunso della Farnesina con quella timito.
In Svezia Caterina è il vicario dell’Ambasciata. «Mi auguro di poter
contribuire con un apporto significativo al bene della collettività italiana in questo paese, che è molto bene integrata nella società svedese.
La simpatia che la Svezia nutre per
l'Italia è in gran parte fondata sulle
prove morali e umane di cui la nostra
collettività, nelle sue varie ondate di
arrivo in Svezia, ha dato prova costante».
Durante il suo soggiorno in Germania, Caterina ha conosciuto l’uomo
della sua vita, Toni, un ingegnere tedesco che si è innamorato di lei e che
due anni fa ha sposato a Ravello. Ora
Toni la segue in giro per il mondo sottoponendosi a continui cambiamenti: è il prezzo che paga per avere la
moglie italiana diplomatica. Caterina ha messo in conto di dover cambiare in futuro molte destinazioni,
con tutte le difficoltà connesse ai traslochi vari, ai saluti agli amici, al
cambiamento continuo delle abitudini. «Per intraprendere questa carriera bisogna essere in qualche modo predisposti al tipo di vita, che è
senz’altro speciale, ma anche non facile. Bisogna mettere in conto anche
la nostalgia per l’Italia, gli amici, i pa-
SCAMBIO ENOGASTRONOMICO TRA NAPOLI E VICENZA
Ecco l’unità d’Italia a tavola
S
i è svolto all’insegna della migliore convivialità ed utilità lo
scambio enogastronomico tra le associazioni agrituristiche Terranostra
Vicenza e Terranostra Napoli. Le due
associazioni hanno proposto uno
speciale connubio Nord – Sud, in un
incontro tra i gusti, i sapori ed i colori di Vicenza e Napoli. All’Agriturismo Nonno Luigino a Vico Equense (Na) è stata proposta una serata
con piatti che hanno proposto il meglio della tradizione enogastronomica dei vicentini e della cultura partenopea, in una ricerca di affinità. Con l’occasione è stato proposto
in esclusiva per la prima volta un interessante aperitivo “Coppa Italia” a
base di grappa, ciliegie di Marostica
limone di Sorrento insieme ad un primo piatto di ravioli “Belpaese” al cuore di Asiago con zucchine San Pasquale provolone del Monaco e grana per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia. La conoscenza delle
L’ALBUM
varie cucine regionali ha permesso
di rivisitarle dando loro una sorta di
base comune, di minimo comun denominatore, capace di creare una
nuova tradizione. L’agroalimentare
italiano - sottolinea Terranostra - in
pochi anni da una economia di sussistenza ha saputo conquistare primati mondiali e diventare simbolo e
traino del Made in Italy facendo leva
sulla diversità e sul forte legame con
il territorio che mani esperte hanno
valorizzato. Ma l’esperienza con gli
agrituristi berici non si è fermata qui.
Infatti, lo scambio si è sviluppato con
la piena conoscenza della realtà territoriale in un’immersione di quattro
giorni tra le bellezze artistiche e paesaggistiche del territorio della Costiera Sorrentina e Amalfitana, senza dimenticare di andare a conoscere quello straordinario patrimonio legato ai prodotti locali. L’itinerario della delegazione vicentina di
Terranostra, capitanata dal presi-
dente Elio Spiller, ha previsto la visita ad un caseificio del Consorzio del
Provolone del Monaco, alla cooperativa Solagri con il noto limoncello, quindi è stata la volta dell’esperienza della vera pizza napoletana
e di un laboratorio di trasformazione
di prodotti campani. La presidente di Coldiretti Napoli Filomena Caccioppoli
(nella foto) ed il
presidente di
Terranostra Vicenza Elio Spiller,
hanno definito questo momento come
positivo
esempio di quella “straordinaria
Italia del… Buongusto” ed una felice occasione
per festeggiare l’Italia nel 150esimo
della sua Unità, ricordando un passato storico che ci lega, prospettando un futuro con una società che
riconosca le tradizioni e le diversità
e le sappia valorizzare così come lo fa
il cibo in tavola.
Caterina Gioiella con il marito Tony
renti; nel mio lavoro non mi è concesso di mettere radici in nessuno
dei posti in cui sono destinata».
In effetti l’unico posto in cui sono rimaste le sue radici è la Campania,
dove restano i ricordi e gli affetti più
cari, i familiari. «Ai miei genitori sono legata da un profondo amore e da
una infinita gratitudine. Devo a loro
il privilegio di avermi sempre lasciata libera di scegliere, appoggiandomi
incondizionatamente anche quando
qualche volta non hanno magari capito il perché delle mie scelte, per il
semplice fatto di nutrire una sconfinata fiducia in me».
Ma come vede il suo futuro?
«Lo immagino esattamente come
l’ho sempre sognato. - spiega - Questo lavoro mi dà infinite opportunità
di conoscere persone e personalità,
di venire a contatto con culture e realtà diverse dalla nostra e, al tempo
stesso, di far conoscere, amare ed apprezzare il nostro Paese. Vivo con
estremo orgoglio la possibilità che ho
di rappresentare l’Italia».
Se chiedete a Caterina cosa viene
prima, il lavoro o la famiglia, la sua risposta fa capire molto del suo carattere.
«Una volta avrei risposto che veniva
prima il lavoro, ed in effetti in passato lo studio è stato sempre per me
più importante di tutto il resto. Poi,
una volta realizzata nel lavoro, ho vissuto quello di cui ho sempre avuto
coscienza, e cioè che non si può essere felici vivendo solo di lavoro ma
che, come osservava Kant, la felicità
passa attraverso un lavoro che ci faccia sentire realizzati ed una giusta
persona da amare. Oggi, dico che la
famiglia è più importante, ma questo per me non significa che l’una cosa escluda l’altra. Non sarei felice se
fossi costretta a fare una scelta, cioè
non rinuncerei alla famiglia per il lavoro né al lavoro per la famiglia».
Da studentessa Caterina si sentiva
già diversa dalle sue coetanee perché, alla tv o allo shopping, preferiva
i libri e lo studio. Ha sempre studiato tantissimo, è sempre stata la prima della classe dalle elementari al liceo. «Ma non ero soltanto la classica
secchiona del primo banco, ero anche altro. Così non ho mai badato se
per caso venivo a volte criticata per
delle scelte che non erano le stesse
di altre ragazze della mia età. Come
quando me ne sono andata da sola a
Parigi a studiare il francese o quando ho ospitato a casa uno studente
americano che non aveva un posto
dove stare e col quale è nata una vera amicizia che dura ancora oggi a
distanza di anni».
Ora che fa la diplomatica, Caterina
nasconde ancora nel suo cuore un
piccolo segreto. «Sì, scrivere narrativa, questo è uno dei sogni che conservo ancora nel cassetto. E anche
se i tempi per realizzare questo sogno non sono certamente maturi, è
importante per me continuare a sognare, perché i sogni e i desideri sono degli stimoli indispensabili senza i quali la vita, credimi, diventerebbe piatta».
MARE, AMORE E FANTASIA
E poi arrivò l’opera buffa napoletana
di Carlo Missaglia
A
bbiamo visto come il XVIIesimo secolo sia stato un periodo, dal punto di vista musicale, di
consolidante transizione. La Villanella volge al suo naturale superamento: cosa che vale anche per il
Madrigale. In questo periodo che si
potrebbe dire di stanca e di transizione, abbiamo conosciuto la Cantata, la Luciata, la Moresca ed altri
tentativi di mutamento del modo
di sentire la musica. Il rinnovamento, o meglio ancora l’innovazione è un fatto naturale, consequenziale allo sviluppo dell’uomo
stesso. Questo, come è per tante altre cose, avviene anche nella la musica. Ecco che allora nei primi anni del 1700 un qualcosa di innovativo appare nel mondo delle note:
l’Opera Buffa. Essa può essere considerata come una propagine della
commedia dell’arte. Infatti alcuni
esperimenti furono fatti proprio
quando essa Commedia era nel suo
miglior momento. Nata in Italia,
non si accontentò di rimanervi relegata come forma artistica solamente nostrana ed allora nel 1572
sulle ali dei Confidenti, comici napoletani, come Fabrizio De Fornaris, Bernardino Lombardi e Maria
Malloni, partì alla volta di Parigi. A
questa prima ondata fecero seguito, nel 1576 i comici, detti Gelosi
invitati direttamente da Enrico III
in occasione degli Stati Generali di
Blois. Questi due gruppi si fusero
anche ma solo per un po infatti si
risepararono per tornare in Italia.
Quando Enrico IV si sposò con l’italianissima Maria de’ Medici invitò
in Francia la compagnia dei Gelosi diretta dallo Scala per renderle
omaggio: donandole divertissement italiani. Questi momenti francesi sono da tenere presenti perché è lì che l’Opera Buffa avrà un
suo sviluppo precipuo. L’Opera Buffa sarà la maggiore custode dei
canti profani del popolo napoletano. In essa verranno spesso inserite canzonette napoletane che altrimenti si sarebbero perse. Non vi fu
all’epoca un grande interesse per
la conservazione di quei modesti
momenti artistici, di cui sovente,
non si conoscevano ne i verseggiatori ne i compositori. Vediamone allora quale fu la sua nascita, che
sembra sia avvenuta intorno alla fine del cinquecento. La si deve al
canonico modenese Orazio Vecchi,
morto nel febbraio del 1605. Fu nel
1597 quando in Venezia si rappresentò una sua commedia, l’Amfi-
parnaso, che ai versi accoppiava
la musica. Egli, per spiegare la sua
nuova operazione, così scrive nella
prefazione: se nell’opera mia saranno alcune cose che non finiscono di sodisfare agli intendenti, essi dovranno ridurre al perfetto loro
l’imperfetto di lei; tanto più che essendo accoppiamento di commedia e di musica, non più stato fatto, ch’o mi sappia, da altri, e forsenon immaginato, sarà facile aggiungere molte altre cose per dargli perfezione; et io intanto docrò
esser, se non lodato, almeno non
biasimato dell’invenzione. La sua
“invenzione“ non sortì un effeto positivo tanto che mentre l’opera seria conquistava sempre maggiori
mercati, quella Buffa rimase ignorata, negletta. Bisognerà attendere
gli inizi del Settecento perché a Napoli si avesse una rinascita o meglio nascita di questo genere:
l’Opera Buffa napoletana. Un genere spontaneo ed originale. Cercherò di spiegare il perché mi stia
soffermando su quello che fu una
innovazione anche se sembrerebbe più vicina alla teatralità che alla canzone. Ho detto sembrerebbe,
dato che nella realtà in quelle Opere venivano inserite e cantate canzonette popolari, che solo grazie a
quel veicolo sono pervenute sino a
noi. Bisognerebbe ora riprenderle,
metterle insieme e ridare loro quella visibilità melodica segretamente custodita nei centinaia di spartiti gelosamente, a volte troppo gelosamente, custoditi nelle nostre
biblioteche sia pubbliche che private. Gaetano Amalfi nel suo prezioso libro sulla Canzone Napoletana ci notizia di un raro libretto:
(Canzoni nuove, divote, belle, secondo i suoni della chitarra, e di
ogni altro strumento, dedicate a valenti sonatori da un fedel di Gesù
Cristo. In Napoli 1744, per Giovanni di Simone.) Sono canzonette che
si muovono al suono della Tarantella, della Ciaccona, del Ruggiero,
della Piedimontese, dell’Angioletta , dell’Arianova, della Romanella e
simililari. Abbiamo testimonianze
di raccontatori della nostra storia
più domestica, più casereccia delle usanze del popolo che uscendo
dalle baracche dove si rappresentavano commedie dell’Arte o dai
teatri tipo Fiorentini , Nuovo, ove
venivano rappresentate opere buffe dei grandi maestri dell’epoca: Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Vinci,
Piccinni, dopo le rappresentazioni
canterellavano le canzoni testè
ascoltate, le quali potevano esse-
re state composte anche moltissimi
anni addietro. E quello stesso popolo che amava molto frequentare
i teatri, traeva dalle opere ascoltate le melodie più orecchiabili , più
semplici, facendole diventare canzoni che giravano passando di bocca in bocca fino a che qualcuna, di
maggior successo aveva l’onore di
essere immortalata su foglietti volanti e venduti per le strade, nei vicoli dovunque insomma esistesse
una umanità interessata. Ed era
tanta! Il melodramma ad un certo
momento della sua esistenza cominciò a farsi le cosidette “seghe
mentali” e questo produsse un movimento di stanca di rigetto lasciando spazio a forme sceniche.
Commedie basate sulle realtà quotidiane del popolo. Si passò da
drammoni che si svolgevano in terre straniere o nel nostro passato remoto, a momenti di vita quotidiana, giustamente sceneggiata, della nostra Napoli, con sullo sfondo
scenico sempre l’immagine di una
nostra marina. Sia stata essa il Granatiello, la Marina di Chiaja, il Beverello o il molo di San Vincenzo.
«Vi si sente la viva voce del popolo,
il frizzo indigeno e la canzone popolare e si assiste non più al succedersi di scene bislacche e stra-
vaganti, bensì di tanti bozzetti colti dal vero». Ecco l’innovazione, il
fatto nuovo: parlare la propria lingua, conservare le proprie maschere, far vivere il proprio paese,
cantare le canzoni del territorio.
Questo fortunato, lo dico per chi
vuole sapere del proprio passato
della propria storia, non quella che
si impara a scuola, ma quella più
vicina al nostro sentire, momento
storico poetico musicale ci ha tramandato la conoscenza di quel vivere artistico dei nostri avi. Ecco
spiegato allora il perché mi è d’uopo soffermarmi su quel periodo storico, cercando di investigare nelle
Opere Buffe, quelle parti che andranno a fare parte della storia della nostra Canzone. Spesso però incapperò solo nei titoli delle canzoni , dato che anzicchè scrivere tutte le parole di un brano, si usava per
chiara conoscenza di metterne solo il titolo. Come dire: qui allora si
canta, Munasterio ‘e Santa Chiara,
Anema e core o J te vurria vasà.
Continua
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