intervista
Giorgio Schön
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di Marco Centenari - Fotografie di Romana Rocco
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intervista
Giorgio Schön
Anche una delle Ferrari di Gilles Villeneuve
(al centro tra la rossa F40 e la gialla 360)
fa parte della collezione di Giorgio Schön.
Nella pagina a fianco, la coda dell’Opel
GT 1900 che vediamo anche sotto
insieme alla grande Commodore 2500.
un tipo spiritoso, Giorgio Schön. Un
umorista sottile, raffinato. Non se la prende quando gli dicono che è un uomo “firmato” perché figlio di Mila Schön, una delle
più grandi stiliste italiane. «Sì, firmato Diaz»,
risponde sorridente. E narra di un curioso fenomeno che si verificò nell’Italia trionfante
della fine del 1918, dopo la diffusione dello storico bollettino della vittoria del 4 novembre.
I nostri soldati avevano sconfitto gli austriaci
sul Carso, e il generale Armando Diaz annunciò la vittoria mediante un bollettino che si
concludeva seccamente con “firmato Diaz”. A
quel tempo ancora parecchia gente aveva un
livello scolastico molto basso e quel “firmato”
venne inteso come il nome proprio del generale. E così, nell’entusiasmo collettivo, alcuni
neonati vennero battezzati Firmato: Firmato
Brambilla, Firmato Esposito, e così via.
Lui, però, è “firmato” davvero. Non tanto fuori, dove aspetto fisico ed eleganza vanno oltre
ogni giudizio. È firmato dentro. È un uomo
esclusivo per stile e piacevolezza, che sembra
arrivato dagli ambienti della più alta diplomazia internazionale. E in verità, pur essendo un
uomo d’affari, può essere davvero considerato un ambasciatore, perché diffonde con convinzione lo straordinario messaggio di due firme dell’automobilismo italiano: Ferrari e Maserati. E lo fa dopo aver operato per anni nel
campo dell’alta moda.
Il passaggio, come dice lui stesso, è stato faci-
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le, perché forma e sostanza sono le stesse, quelle dell’ingegno e del gusto italiani. Ma con
l’automobile Giorgio Schön ha un legame che
va ben oltre la professionalità. È un legame antico e radicato, che nasce dalla passione.
«Sì, la passione che mi ha trasmesso mio padre, che ha partecipato a due o tre Mille Miglia, quelle vere, e che è stato il fondatore della scuderia Sant’Ambroeus – racconta –. Ma
forse il motivo ancor più forte risiede in una
circostanza casuale: quella della coabitazione
nello stesso stabile di corso Sempione, a Milano, con la famiglia del grande Alberto Ascari. Il palazzo era loro e la mia famiglia era in
affitto. C’era profonda amicizia tra noi. Io giocavo con Tonino, il figlio di Alberto, che era
appena più grande di me. Io sono del ’46 e all’epoca d’oro di Alberto ero un bambinetto.
Giocavamo in solaio, Tonino e io, anche se c’era
qualche divergenza di tema: io adoravo i trenini, lui i carrarmati e i soldatini. Entrambi,
chiaramente, eravamo come rapiti dalle imprese di Alberto, che seguivamo anche dal vivo. A Monza per esempio. E andavamo in vacanza insieme, a Cortina. Ricordo che una volta feci il viaggio con Alberto, con la loro auto
di famiglia, che era un’Aurelia B12. Rimasi impressionato da quel maestro, che guidava con
una dolcezza e una fluidità incredibili. Non
cambiava mai. Mise la quarta fuori di casa e
la tolse a Cortina. E un giorno mi fece fare un
giro a Monza con una Ferrari Barchetta. Inebriante. Ecco, penso che la mia passione per
l’automobile abbia queste radici».
E quando hai cominciato a correre?
«A 21 anni, nel 1967. Piuttosto tardi si direbbe
oggi, quando i ragazzini cominciano a correre in kart a otto anni. Ma all’epoca andava così. Per prendere la licenza a 18 anni occorreva
la patria potestà, e io sapevo bene che non
l’avrei ottenuta. Aspettai quindi di essere mag-
giorenne e cominciai. Da tempo con un mio
amico risparmiavamo i soldi per comprarci
una macchina. Inizialmente ci eravamo tassati con una quota di mille lire la settimana, ma
ben presto capimmo che a quel ritmo i soldi
per la macchina li avremmo messi insieme a
cinquant’anni. E allora adottammo un regime
fiscale molto più rigoroso, alla Padoa Schioppa, e passammo da mille a diecimila lire la set-
timana. In tal modo riuscimmo a comprarci
una Mini Cooper S, inglese, perché la Mini Innocenti non c’era ancora, e con quella cominciammo. Base di partenza, come per gran parte dei giovani della nostra generazione, furono i rally. Noi, tanto per essere modesti, cominciammo con quello... “meno impegnativo”, il Rallye di Montecarlo, 1967. Correvamo
entrambi con uno pseudonimo, per non esse-
re individuati dalle famiglie. Il mio era Nohcs,
che è Schön letto alla rovescia; quello del mio
amico Agrev, Verga. Ci beccarono subito, anche perché io ero nella condizione del sorvegliato speciale grazie alla bella idea che avevo
avuto tempo prima, di far preparare da Conrero la Mini che mia mamma usava quotidianamente. Ma ormai il dado era tratto. Con la
Mini io corsi anche in pista e vinsi tre campio-
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nati italiani di velocità. Poi passai alla Porsche
e con l’amico Giovanni Borri, di Parma, che faceva i profumi per il nostro marchio di moda,
disputai il campionato internazionale marche.
Gran bella esperienza, che ho poi ripetuto con
la Beta Montecarlo ufficiale dopo che ero entrato nella squadra Lancia. Col team Martini,
invece, allora diretto da Cesare Fiorio, ho corso molto nei rally, con tutte le versioni della
Delta, fino alla S4».
Cosa ricordi di questo squadrone italiano
che, come si diceva all’epoca, faceva tremare il mondo?
«Quello che ricordo con più piacere è il clima
che si era instaurato all’interno del team. L’atmosfera era sempre piacevolissima, goliardica, e i rapporti tra noi che eravamo tutti diversi l’uno dall’altro, con personaggi irripetibili, come Munari, Mannucci, Verini, Russo,
Ballestreri, erano sempre e comunque improntati alla più sincera amicizia. E, a proposito
dello squadrone che fece tremare il mondo,
voglio raccontare della tremarella che prese
questi grandi uomini, questi cavalieri del rischio, per una curiosa circostanza di cui fui io
l’involontario protagonista. Eravamo in Finlandia, e il giorno prima del rally io cominciai
ad avvertire un fastidioso prurito in varie parti del corpo. Il dottor Bartoletti, nostro medico, mi diede un’occhiata e sentenziò senza appello: varicella. Come varicella, alla mia età?
Certo, se non l’hai fatta da bambino... Ed ecco che tra i grandi uomini, tutti, non uno esclu-
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so, si scatenò una furibonda corsa al telefono.
Il prefisso per l’Italia! Mamma, mamma, sono
io, ho fatto la varicella da bambino? Certo tesoro che l’hai fatta. Ma sei sicura? Sono sicurissima, e hai fatto anche il morbillo e gli orecchioni. La scarlattina no, sta attento!».
E della tua esperienza di motonauta cosa
ci racconti? Sappiamo che hai corso in offshore e che hai vinto una Viareggio-Bastia-Viareggio, vero?
«Sì, è vero, ma fu una cosa del tutto casuale ed
estemporanea. Un giorno mi telefona Cesare
Fiorio e mi chiede se voglio andare a fare un
giro in motoscafo. Che giro? La Viareggio-Bastia. Però, dico io, proprio un giretto! Sì, ma è
solo per onor di firma, me l’ha chiesto il proprietario della barca, che è il Dry Martini. Lui
non può, ha degli impegni. A me servirebbe
un pilota e ho pensato a te. Tu sai andar per
mare, no? Sì, ma ci vado con un gozzo da pesca, che fa sì e no dieci nodi. Va benissimo, è
la stessa cosa, vedrai. E infatti vidi: oltre duemila cavalli, più di 200 all’ora... Vai tranquillo, mi dice Cesare, devi solo tirare diritto. Vado e tiro diritto. E infatti arriviamo primi a Bastia, che è in Corsica. Al ritorno si scatena un
uragano, una pioggia terribile e, sul mare in
burrasca, non vedo più niente. Guido tenendo due dita sull’occhio sinistro per garantirmi una finestrella di visuale. Il destro è chiuso. A un certo punto si fermano i motori, cominciano a fumare, c’è il pericolo d’incendio.
Quelle barche sono serbatoi galleggianti, si sta
a galla su ettolitri di carburante. Ho paura,
quasi quasi mi tuffo e proseguo a nuoto, ma
sono in mezzo al Tirreno, non ce la farei. Miracolosamente i motori ripartono, schizziamo
via verso Viareggio e arriviamo di nuovo primi. Alla premiazione, nell’atmosfera mondana della Bussola, lo speaker invita sul palco i
protagonisti della gara: ed ecco a voi il trionfatore Cesare Fiorio accompagnato dal fido
meccanico Giorgio Scone! Capito? Da notare
che Cesare era la settima o l’ottava gara che
faceva con quello scafo, legato alla nostra squadra, corse per via della sponsorizzazione Martini. E non aveva mai vinto prima. Feci un’altra garetta senza impegno, ma poi tornai al
mio gozzo diesel. Anzi, adesso preferisco la
vela. Se ci ripenso fui molto fortunato in quella circostanza. Su quella stessa barca trovò la
morte Stefano Casiraghi, il marito di Carolina di Monaco. In campo automobilistico, invece, fu l’incidente di Herbert Muller, che morì proprio davanti a me in Francia, nel Campionato marche, che mi convinse a smettere
di correre. Avevo già quattro figli, dirigevo
l’azienda di mia madre e non so proprio come
riuscissi a trovare il tempo per correre. Per certi versi fu una liberazione, ma durò poco. Ricominciai a correre nelle gare per auto storiche, chiaramente con molto minor impegno
ma, devo dire, con immutato divertimento.
Anzi, se penso a certe macchine inglesi che ho
guidato e che conservo tuttora, come la Lotus
23, quella con cui Jim Clark seminò il panico
Nella prima foto a sinistra, si intravede un motoscafo
offshore: Schön ha vinto anche in motonautica.
Le bottiglie del Rosso Corsa vengono prodotte per
gli amici e i clienti. Una visita alla sua modernissima
concessionaria milanese fa sognare a occhi aperti.
negli squadroni Porsche e Ferrari in una leggendaria corsa al Nürburgring, il piacere è stato davvero grande».
Non hai mai corso con vetture di formula?
«No, e un po’ me ne dolgo perché secondo me,
e anche a giudizio di altri, il mio stile di guida si sarebbe adattato bene alla precisione che
richiedono le vetture a ruote scoperte. I rally
sono tutt’altra cosa, è vero. Ma io, tanto per
fare un esempio, prediligevo i percorsi innevati, dove occorre una condotta molto dosata. Ti dirò di più riguardo a quello che manca
nella mia carriera di pilota: non ho mai corso
con una Ferrari, nemmeno nelle gare storiche.
Forse è stata una forma di timore reverenziale nei confronti di queste macchine straordinarie, che ai miei tempi erano irraggiungibili.
Però ho fatto correre molti piloti con le Ferrari della mia scuderia Rosso Corsa nelle gare
del Challenge. Abbiamo conquistato otto titoli su undici. Posso quindi dire di aver vinto
con la Ferrari, ma non da pilota».
Ma oltre al Rosso Corsa, non c’è anche un
Rosso Barchetta fra le tue passioni?
«Certo e, come qualche buontempone mi ha
già chiesto, non riguarda i miei trascorsi motonautici ma attiene proprio all’automobile e
a quel tipo particolare di vettura da competizione che venne definita “barchetta” per le sue
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forme arrotondate e piatte con leggera tendenza del muso e della coda a risalire verso l’alto. Si trattava delle classiche vetture aperte,
delle Sport biposto, che correvano nelle gare
di durata come la Mille Miglia, la Targa Florio, la 24 Ore di Le Mans. In questo settore
Ferrari e Maserati hanno probabilmente recitato il ruolo più importante. Ecco perché dire
oggi barchetta significa chiamare in causa le
nostre due storiche case sportive. Io ho usato
questo termine non per un’automobile ma per
un vino, che produco io, nella mia terra. Un
vino rosso che per le sue doti può suscitare
emozione, come una macchina da corsa. Lo
regalo ai miei clienti. Una confezione magnum
nel bagagliaio».
Non è Lambrusco, vero?
«No, è diverso, anche se il Lambrusco lo conosco bene, non solo grazie a Giovanni Borri,
che è parmigiano, ma anche per un altro motivo che ha legato una fase della mia vita all’Emilia e in particolare a Parma. Studiavo a
Milano, alla Bocconi, e nonostante dedicassi
molto più tempo alle corse che allo studio, non
andavo male. Ma c’erano due scogli che per
me, come per molti altri, sembravano insormontabili. Il primo era l’esame di matematica, col professor Ricci, che la prima volta mi
disse: 15 qui o 18 nel cortile. Non capii e mi
buttò fuori. La seconda volta, debitamente
istruito dagli anziani, gli dissi subito 18 nel
cortile. Il professore segnò il voto sul libretto
e lo buttò fuori dalla finestra. E io andai a raccoglierlo, appunto nel cortile. Passato. Con il
professor De Maria, invece, che insegnava economia, non ci furono né 18 né cortili. Fui costretto a emigrare all’Università di Parma, dove vuoi per il Lambrusco, vuoi per il prosciutto, il culatello, il formaggio e le belle ragazze,
mi laureai. È una bella città Parma».
È la mia città, ti ringrazio.
«Ah, ma allora tu bevi Lambrusco. Meriti un
assaggio di Rosso Barchetta. Vieni, brinderemo alla memoria di Enzo Ferrari!».
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In alto, “Ferrarissime” da collezione. Al centro, Giorgio è tra la
Mini Cooper con cui ha cominciato a correre e una Lotus 23. In
questa immagine, “Barchetta” (come quella appesa alla parete)
è anche il nome del vino rosso prodotto dalle cantine di Schön.
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