Anno 1 Numero 40 - 24.11.2008
Il melodramma o l’arte delle rivoluzioni
mancate
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
A parte tutto, il genere per cui gli italiani sono
famosi nel mondo è il melodramma. Sarà per via
del fatto che la musica non ha frontiere, sarà per
il fatto che per almeno un paio di secoli l’italiano
è stata, internazionalmente, la lingua ufficiale
all’opera, ma non c’è poesia, dramma, romanzo,
film che sia in grado di competere con la Bohème,
Tosca, il Don Carlos, Traviata o Lucrezia Borgia in
quanto ad immagine del Bel Paese nel mondo.
Sono tutte storie di rivoluzioni mancate,
ubriacature romantiche piene appunto di
melanconia. E allora l’aggettivo “melomane”
potrebbe designare sì gli appassionati di questo
genere musicale, ma per assonanza potrebbe
fornire un identikit anche dei protagonisti di tali
vicende, di quelle inventate, come Rodolfo,
Violetta, Mario, e di quelle vere, che invece
riguardano un po’ tutti noi. Eh sì l’aggettivo
“melomane” (se lo facciamo discendere neoetimologicamente da “melo-mania”), con quella
vaga assonanza che lo associa all’idea di
maniacalità e dunque di patologia sembra proprio
attagliarsi allo spirito del popolo italiano. Il colpo
d’occhio è immediato per chiunque passi un
periodo anche breve al di là dei confini nazionali.
Al ritorno, quel clima da Ottocento, da opera
lirica, da rivoluzione sognata titanicamente, ma
appunto sognata, salta all’evidenza di occhi meno
assuefatti.
Gli ingredienti ci sono tutti e rigorosamente
intercambiabili (come nelle vecchie compagnie di
giro), i buoni(sti) che consegnano al cielo i loro
propositi di cambiamento (riformista), i
cattivissimi laidi e bugiardi (col trapianto di
capelli e la tinta), i buoni(sti) che vanno in Africa
per adottare (a distanza) mandrie di bambini e i
cattivissimi che per definire quelli con la pelle
nera passano da uno sprezzante
“abbronzati” (quando sono giornalisti o presidenti
degli Stati Uniti) ad un più classico “bingobongo” (quando sono semplici immigrati). I
buoni(sti), paladini continuamente insidiati
dall’umana imperfezione dei propri colonnelli e i
cattivissimi solidi nella compagine e pronti a
marciare “come un sol uomo”. E in mezzo ai poli,
per fare il quadro drammaturgico più completo,
le mezzane e gli sgherri, i Villari (giusto per stare
alla stretta attualità) e i redivivi squadristi.
Eccolo qua il melodramma già pronto. Gli
ingredienti ci sono tutti, precotti e pronti ad
amalgamarsi appena spunta fuori un libretto
buono. Il carrozzone, col suo carico di nasi finti, è
pronto a ripartire.
E gli Italiani stanno a guardare, come appunto i
melomani, che vanno all’opera a “sentire
fortemente”, a sognare la rivoluzione nelle
Fiandre di Don Carlo e Rodrigo, facendo battere il
cuore al ritmo del più bel duetto della storia della
musica, oppure a piangere con Tosca che chiama
Mario senza risposta e lancia l’ultima maledizione
a «Scarpia davanti a Dio!» prima di gettarsi dal
castello. Poi riprendono i loro cappotti, salgono
sull’autobus, e per dirla alla napoletana “se
vann’a cuccà”.
Insomma, ecco, la melo-mania degli italiani è una
grande forma d’intrattenimento compulsivo di
massa. Ogni giorno una storia nuova da seguire e
poi domani si vedrà. Si segue la fiction politica
come fosse vera, si segue la politica in televisione
come fosse fiction. Si soffre, veramente, a volte,
anzi spesso si paga, in una forma di meticciato col
reality show collettivo. Ogni volta sul piatto c’è la
voglia di cambiare le cose, di fare la rivoluzione,
ma poi... E’ sempre un destino più grande quello
che mutila i sogni degli eroi melodrammatici, un
destino da maledire, ma a cui arrendersi restando
appassionatamente a guardare, in platea, ancora
una volta, la stessa opera.
P.S.
Italiani, popolo di melomani, amanti della musica
e del canto. Nessuno escluso. Da quelli che si
commuovono con le parole dell’inno di Forza
Italia (esistono!) a quelli volevano una nuova era
della politica e poi si sono ritrovati al Circo
Massimo il 25 ottobre a cantare “bandiera rossa”
sulle note dell’inno nazionale. E gli studenti? No,
loro ci stanno provando veramente. Eppure il
rischio di mandare segnali contraddittori c’è. Il
rischio che l’assenza di un segnale al momento
giusto venga avvertito come segnale negativo e il
loro movimento venga percepito nello spirito
delle rivoluzioni mancate di altri molteplici
melodrammi. Pensano a ristrutturare il futuro, è
vero, pensano a rifondare il sistema. Ma l’uomo
della strada, l’uomo che legge il Corriere della
sera per capire come va il mondo, l’uomo che non
fa distinzione fra le scorie del passato che si
riversano sul presente e il lavorio dell’oggi che
tende a edificare il domani, quell’uomo che vede
la realtà solo sui piani sovrapposti dell’attualità
oggi potrebbe dire: dov’erano gli studenti in
queste settimane mentre si truccavano i concorsi
per i 3000 posti da ricercatore? E qualcuno
potrebbe rispondere: in un’altra piazza, a
cantare.
Il doppio mito di Saturno
I diversi volti della malinconia nel coerentissimo
ragionamento di Daniel Birnbaum per la Biennale
di Torino
senso, di uscire dai meccanismi associativi classici
dell’arte contemporanea e ottenere un idea
generale di maggiore respiro che prende forma,
come è naturale per la filosofia, in un filo
sottilissimo tracciato con precisione matematica.
Ed è, infatti, questa esatta coerenza che segue il
dipanarsi della Triennale nelle diverse sedi
(Castello di Rivoli, Fondazione Sandretto Re
Rebaudengo e Promotrice delle Belle Arti) senza
mai cedere a stupire, in parte per meriti propri e
in parte per una certa disabitudine che si ha in
Italia per le mostre ben curate. Fatto sta che
diversi elementi concorrono a far sì che il viaggio
del visitatore, per quanto sballottato in tre punti
assai distanti uno dall’altro nella topografia del
capoluogo piemontese, non subisca mai strattoni
permettendo all’attenzione di non calare mai e di
non produrre in alcun caso un sovraccarico visivo
che richieda uno stacco. Insomma, caso assai raro
nel Bel Paese, la Triennale si riesce a vedere,
tutta d’un fiato, riuscendo a seguire il suo flusso
abbacinante dall’inizio alla fine. Merito va
certamente alla scelta degli artisti (ben 50!) e
delle loro opere. E una parte del merito va anche
all’attenzione che gli si è dedicata, riuscendo a
dare sempre lo spazio necessario perché ogni
opera possa sviluppare una esposizione ottimale
alla percezione del visitatore.
di Gian Maria Tosatti
«Mi sono spiato illudermi e fallire,
abortire i figli come i sogni,
mi sono guardato piangere in uno specchio di
neve,
mi sono visto che ridevo,
mi sono visto di spalle che partivo».
(Fabrizio De Andrè – Anime salve)
La domanda è: “di che tipo di malinconia ci parla
Daniel Birnbaum?” oppure, più semplicemente:
“ c h e c o s ’ è l a m a l i n c o n i a ? ” . Pe r c h é i l
ragionamento del curatore della seconda
Triennale di Torino (nonché della prossima
Biennale di Venezia) è sofisticato e per quanto si
svolga semplicemente nelle sue note introduttive,
in realtà si mostra disseminato di crateri
profondi, gole da capogiro, come quelle che
punteggiano le 50 lune di Saturno (questo il titolo
della mostra), pianeta della malinconia, ma prima
di tutto metafora perfetta per dare forma al
pensiero di Birnbaum. E’ questo astro, cui è
collegato un mito, a fare da punto di contatto tra
l’idea curatoriale e il lavoro degli artisti. Saturno,
divoratore dei propri figli per i greci e portatore
di un’età dell’oro nella tarda mitologia romana.
Tale bilico a strapiombo fra il cannibalismo e
l’energia, fra i risvolti del nero, sembra essere il
filo di rasoio su cui con estrema precisione il
curatore ha costruito un viaggio attraverso un
sentimento profondamente contemporaneo. La
sua formazione filosofica permette, in questo
E sulla dicotomia malinconia-energia si gioca il
principale fuoco della mostra. In tutte le opere è
fortissima una tensione che presuppone il
passaggio, una forza fisica che sviluppa energia,
fino ad arrivare in certi casi alla superproduzione
di azioni che si identifica con l’ossessività del
malinconico. In ogni caso sembra il movimento ad
essere grande protagonista, partendo dalle due
personali, quella dedicata a Olafur Eliasson, il cui
lavoro artistico è centrato da sempre sui
movimenti delle grandi forze e che qui prosegue il
suo ragionamento sulla luce in relazione ai
movimenti dei corpi celesti, e quella dedicata a
Paul Chan, in cui la stasi del punto d’osservazione
nel suo video My birds… trash… the future
(ispirato ad Aspettando Godot di Beckett) diventa
superficie erosa e discarica delle ondate di
movimenti che continuamente la stravolgono. Una
sezione estremamente ricca quella dedicata
all’artista sino-americano, che, per quanto possa
essere percepita come una sproporzione, ha
tuttavia il merito di riuscire a presentare con la
giusta chiarezza l’importantissimo lavoro sul
linguaggio che Chan porta avanti e che vede
anche nel video Happines (Finally) After 35,000
Years of Civilization (after Henry Darger and
Charles Fourier) un esempio di malinconia frutto
della sterilità meta-mediale di un’azione (in cui
non a caso è inserita una irrazionale vena
sessuale) che fa perdere completamente la
cognizione della ripetizione (tecnica) a loop
inserendosi in una prospettiva temporale
indifferentemente lineare.
E una stasi prossima al collasso, ma di segno
opposto, perché forzata disperatamente nelle sue
pareti perimetrali, è anche quella che sta al
centro del lavoro di Andrea Geyer, che nel suo
Audrey Munson Project ha fotografato gli alberi
visibili dalle finestre di un manicomio in cui per
65 anni è stata rinchiusa quella che negli anni ’20
era considerata come la più richiesta modella
dagli artisti newyorkesi. Su tali immagini Geyer ha
impresso brevi strofe di poesie che parlano della
malattia mentale femminile, andando così a
realizzare un ciclo di opere estremamente duro
sul modo in cui nel Novecento l’accusa di insanità
mentale e l’interdizione fosse usata come forma
di controllo sulle donne.
Ma anche il tema del doppio, visto come necessità
di completezza attraverso l’immagine speculare
fa parte di un universo malinconico fondato sulle
tensioni. E’ questo il tema del video Les
ruissellements du diable di Karen Cytter, ispirato
all’opera omonima di Julio Cortazar e alla poetica
di Lygia Clark (uno dei riferimenti strutturali di
Birnbaum), in cui i piani dell’indentità si
mescolano per una irresistibile forza inerziale di
attrazione e generazione. E lo stesso tema, visto
però in una prospettiva soggettiva è quello che
porta Giuseppe Pietroniro, uno dei molti artisti
italiani coinvolti, a proseguire qui la sua ricerca
sulla necessità di una moltiplicazione
dell’immagine che però nel riprodursi esclude
l’osservatore.
Tra queste grandi dorsali dell’esposizione si
intrecciano altre dinamiche immediatamente
derivate dal concetto di malinconia. E’ il caso del
complesso lavoro sull’utopia realizzato da Robert
Kusmirowski, che in DATAmatic 800 ricostruisce,
in una stanza visibile attraverso una finestra, il
primo grande computer per calcoli matematici, in
una operazione installativa che tende a ragionare
sulle utopie attraverso la ricostruzione dei luoghi
entro cui esse hanno preso forma.
E, in fine, il rapporto tra terrestre e altrove, nella
misura della distanza fra l’uomo e lo spazio, vede
nel pathosformel di Wilhelm Sasnal, ispirato
direttamente a Saturno una delle espressioni più
sintetiche e d’impatto (vedi l’opera DrivingSleeping) di questa Triennale torinese.
Fame di niente
In “The Burning Plain” la bulimia sentimentale di
Arriaga si arrende alla meccanica
di Federico Pontiggia
All'orizzonte, un camper abbandonato in fiamme.
Una donna (Charlize Theron) che lavora in un
ristorante chic di Portland. Un funerale in una
città sulla frontiera Usa-Messico, con un ragazzo e
una ragazza che incrociano lo sguardo. Una
bambina che vede l'aereo del padre schiantarsi al
suolo in Messico...
Che cosa cambia quando un premiato e stimato
sceneggiatore esordisce alla regia? Quasi nulla,
almeno nel caso del messicano Guillermo Arriaga
che, dopo la separazione dal connazionale
Alejandro Gonzalez Inarritu, ha portato in
concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia
e ora in sala la sua opera prima, The Burning
Plain. Protagonista una tragedia bifamiliare, nelle
sue molteplici conseguenze, seguita con la
consueta - vedi gli script di Amores perros, 21
grammi e Babel - struttura a incastro: azione,
tempo e luogo giostrate dalla penna di Arriaga per
trarne una materia infuocata, burning.
Ammesso che funzioni sulla carta - troppo
scoperto il salto tra passato e presente,
nonostante la giovane Mariana (Jennifer
Lawrence, premio Marcello Mastroianni quale
miglior attrice emergente al Lido) rimanga (sic!)
innominata per quasi un'ora - questo meccano è
oggi usurato sullo schermo, anche grazie alla
fortuna dei titoli dell'accoppiata Inarritu-Arriaga.
Servirebbe per svecchiarlo - ma oggi la linearità
non è già tornata a essere l'opzione più
innovativa? - una regia non subordinata alla
sintassi della sceneggiatura, capace di liberarsi
dalla punteggiatura della pagina per offrire
traiettorie, squarci e sguardi di cinema per il
cinema, ovvero pura narrazione per immagini,
chiamate a esistere in sé e per sé, senza dover
intenzionalmente ricoprire la minima funzione
didascalica.
Ebbene, questo non avviene, nonostante la strada
messa in discesa da un cast affiatato e di livello:
l'intensa Charlize Theron, nei panni di Sylvia, dal
Messico transfuga a Seattle, lasciandosi alle spalle
una bambina e, invano, il senso di colpa; Kim
Basinger, prova coraggiosa e sofferta la sua, per
un ritorno alle scene da moglie adultera e madre
di famiglia alla deriva, e ancora l'ottima teen
Jennifer Lawrence, J.D. Pardo e José Maria
Yazpik. Fatiche sprecate dalla ricerca di
geometrie drammaturgiche che finiscono per
raffreddare le emozioni, ancora vibranti
nell'interpretazione particolare degli attori ma
rese atone dal quadro cartesiano generale: se i
tasselli sono infuocati, il mosaico audiovisivo paga
lo scotto, perché costretto e asfittico tra l’ascissa
e l’ordinata tracciate sulla carta.
«Esiste una sottile linea fra tragedia e felicità:
come già insegnavano Shakespeare e Sofocle, in
un minuto può cambiare tutto», ha detto Arriaga
di questo esordio dietro la macchina da presa, con
protagonista Mariana/Sylvia, interpretata
adolescente in Messico dalla Lawrence e, poi,
emigrata a Portland e di ritorno in patria con il
volto della Theron. Proprio all’attrice sudafricana,
il neo-regista affida un ruolo preminente anche
dal punto di vista ideologico: «La società
contemporanea reprime la morte e anche il corpo
umano. Per questo, il film si apre con il corpo
nudo di Charlize: il corpo ha un potere sovversivo,
è molto eloquente, quando sei nudo sei
autenticamente te stesso. Questa prima scena
racchiude il significato del film, ovvero la sua
onestà e le sue contraddizioni: Sylvia ha un modo
blasè di mostrarsi nuda, come se per lei non fosse
assolutamente un problema, invece intuiamo
come la sua vita sia piena di difficoltà». Difficoltà
che fanno capo, essenzialmente, alla malinconia,
il vero leitmotiv di The Burning Plain, anche sotto
il profilo meta-cinematografico.
Malinconica è Sylvia, costretta a rimpiangere le
non-scelte del passato, che incarna la mancanza,
il manque à être, “risolto” in una bulimia
sessuale, che è fame patologica e insoddisfabile,
indifferente all’oggetto e sterilmente alimentata
proprio da quella malinconia. Questa malinconia è
subito - e opportunatamente - “messa a nudo” da
Arriaga, quale spia di un desiderato ritorno alle
origini, nello spogliarsi di tutte le successive
sovrastrutture della vita, leggi colpe e dolori. Se il
rogo omicida innescato da Mariana non ha mai
smesso di ardere, ecco che quella combustione
manda in fumo ogni successiva progettualità, con
un odore di bruciato che diventa quello dell’intero
film. Quella roulotte, seppur adulterina, era il
locus amoenus, e la sua distruzione è quella di
tutti i suoi epigoni: il Burning del titolo è
malinconia allo stato puro, ovvero impossibile
(participio presente) presenza di quanto si è già
consumato. Rimane, appunto, una malinconia
vischiosa, poeticamente resa con grande efficacia,
ovvero sentita e partecipata: che Arriaga si sia
guardato in casa, alla malinconica fine del suo
idillio con Inarritu?
Stanze in fondo
Si è conclusa a Parma l’ultima edizione di “Natura
Dèi Teatri”
di Massimo Marino
Opere Pazienti racconta una ferita e uno
splendore: la mansuetudine, la malattia, la
sofferenza, la rassegnazione, e la rabbia, la voglia
saturnina di rifondere un mondo fuori dai cardini
con l’arte. L’acrostico di questa edizione del
festival Natura Dèi Teatri, organizzato da Lenz
Rifrazioni, ricorda – casualmente – quello di
Ospedale Psichiatrico, e non a caso si apre nella
reggia di Colorno, che fu, nel suo abbandono
novecentesco, luogo di reclusione manicomiale.
Inizia con una versione poetica, struggente,
malata della favola di Cappuccetto Rosso, un
percorso itinerante in 17 stanze del piano nobile
dell’edifico settecentesco, in attesa di tornare a
Parma, per il resto della rassegna, negli spazi
industriali di Lenz, che ora giacciono nel vuoto
degli abbattimenti della zona intorno alla
stazione, soggetta a una ristrutturazione
urbanistica. Il capannone di Lenz aspetta un
rinnovamento che dovrebbe farne il centro
culturale pulsante del nuovo quartiere, anche se
in queste operazioni, a capitale pubblico-privato,
si sa dove si inizia e non si capisce dove porterà la
speculazione, in agguato anche alle spalle di un
progetto interessante sulla carta, elaborato dallo
studio Mbm Arquitectes di Barcellona, quello che
ha ridato vita a parte della città catalana in
occasione delle Olimpiadi. Per questo il festival
inizia con Spazi nel vuoto, un incontro sul tema
del teatro che inventa i propri luoghi, tra memoria
e progetto, tra uso (o ridefinizione) di contenitori
esistenti e invenzione, sempre con la guida di
un’etica, una poetica, una drammaturgia, una
identità artistica.
Poi Lenz dà la dimostrazione di cosa vuol dire
“vivere gli spazi”, con il bellissimo Consegnaci,
bambina, i tuoi occhi, dalla Ballata di
Cappuccetto Rosso di Federico García Lorca. Il
testo è un poema giovanile, inedito fino a pochi
anni fa, in cinque parti: uno stupito canto
all’amore e allo smarrimento, che trasforma
Cappuccetto in una specie di Dante persa in un
surrealista bosco dove fiori, uccelli, acque
vogliono i suoi occhi capaci di guardare il mondo
con incanto. La bambina delle favole, in preda
all’ansia, si affida a un ruscello, che la trasporta
in un paradiso inerte, dove i santi vegetano nella
paura dell’irruzione dell’inferno. Le farà da guida
San Francesco, tra stanze polverose come quelle
di un museo, come la religione cattolica vista da
Federico ventenne, nella fase di una prima
ribellione tutta affidata allo stupore della poesia.
Caperucito (così suona Cappuccetto in spagnolo) è
Barbara Voghera, una delle attrici “sensibili” di
Lenz: una donna down che lavora con la
compagnia da alcuni anni, donando profondità
vertiginose ai suoi personaggi. I suoi occhi
leggermente asimmetrici, in qualche momento
fissati come su un altrove o su un’interiorità vicina
e imprendibile, diventano i protagonisti di questo
viaggio per fuggire da chi vuole rapire lo sguardo,
la capacità di vedere, discernere, immaginare. E
gli oggetti, di Maria Federica Maestri, che firma
anche la regia e che con Francesco Pititto è
l’anima immaginativa della compagnia, ci
precipitano in un bosco con il rumore, i colori, le
asprezze dei nostri giorni, con papaveri fatti di
sportelli rossi di furgoni e fiumi come una teoria di
lavandini, con gli occhi di Caperucito duplicati
nelle prime stanze, inquadrati in specchi, in
cornici, in stucchi.
Salverà la bambina un ambiguo San Francesco, che
appare con in bocca un uccellino, come un lupo. È
un’attrice, Valentina Barbarini, rasata e con un
saio, pronta a indossare nelle sue dolci e insidiose
trasformazioni altre pelli. Il paradiso di García
Lorca diventa un viaggio tra le decorazioni e le
boiserie rococò del palazzo e le figure di quel
paradiso inquietante e dimenticato, popolato da
santi interpretati da ex malati reclusi in quelle
stanze quando erano manicomio, fermi, seduti,
immagini di un tempo che non passa, che ancora
ferisce. Ci sono giocattoli, fiori di plastica,
apparizioni attraverso fughe di stanze, croci
indossate per un cammino di liberazione che
assomiglia a una passione dalla protagonista,
piccola, inerme, dalla voce densa come miele,
piena di tremori e piccole sicurezze, con il calore
vibrante e un po’ rauco di chi sa, nonostante la
paura, dove andare. Tra i santi abbandonati, in
trionfi di panini, con le mandibole in eterno
movimento, c’è il mangia-sempre-tutto San
Tr i p p o n e ( S a n A p a p u c i o P a p p a g o r g i a
nell’originale). E ci sono anche dèi pagani, come
Eros, che ferisce a morte Caperucito. Solo una
vecchia Madonna, interpretata da Francesco, lupo
amoroso e feroce nei panni sadomaso di una
giovane bagascia, potrà medicarla,
precipitandola, tremante ancora di quella bestia
fuggente che è amore, nel bosco dell’incubo
iniziale. Mentre le parole del poeta parlano dei
sogni che non devono morire e affidano la
custodia di questa campionessa
dell’immaginazione e di una fanciullezza
minacciata e svanita a una lepre e a un lupo
(ancora), la fantasia degli autori, più
perfidamente, ci insinua l’idea che nessuna
consolazione sia possibile in quella foresta
insidiosa, mortale, che è la vita.
Sta in bilico tra le crepe dell’anima e dei tempi
con la sua irriducibile soggettività, quella che
l’arte esalta come atto di ribellione. Si ostenta e
si sottrae per sondare le strade dei territori del
sacro e dell’umano attraverso le seduzioni, gli
errori, l’ansia più disperata e volgare. Per salvare
almeno un gesto, un respiro, una possibilità.
Vita d’interni
“Sonja” e “Long life”, a Le Vie dei Festival un
dittico sulla malinconia del regista lettone Alvis
Hermanis
di Mariateresa Surianello
Il festival è pieno di performance che sfidano lo
spettatore a guardare e a riguardare, più a fondo,
senza lasciarsi sedurre. Sono magari movimenti
minimi, disposti in serie ordinate,
apparentemente sempre uguali, come in Ordinale,
un breve intenso studio di Habillé d’eau, o lettere
dalla prigionia in Germania di un marito alla
moglie, che fotografano un tempo coatto e
quotidiano, apparentemente senza sviluppo, in
Così lontano, così vicino dei performer Ottonella
Mocellin e Nicola Pellegrini. Così l’altra opera di
Lenz, Chaos, dal primo libro delle Metamorfosi di
Ovidio invoca un altro sguardo.
Qui non siamo davanti a un ipermondo terminale,
ma alle origini del cosmo, all’indistinzione della
materia originaria che precipita
nell’individuazione delle cose. Appare l’età
dell’oro che svilisce in quella del ferro, fino alla
fuga per malinconico dispetto degli orrori umani
della vergine Astrea, indietro fino alla ribellione
dei giganti, dal cui sangue infetto nacquero gli
uomini. Immagini, primissimi piani di dettagli dei
corpi, circondano tre ragazze e un uomo maturo
nudi e rasati, prima ombre, poi presenze ora
mitiche ora abbigliate da bordello, incorniciate
dai versi latini di Ovidio o dal grido di parole
d’amore e disperazione di Romeo e Giulietta, da
suoni lancinanti o da refrain consolanti. Un corpo
di plastica, un corpo incrostato di superfetazioni o
denudato, un corpo poema o immagine, un corpo
tradito, un corpo implorante, un corpo così
presente da risultare vacuo, da svanire, da
gridare, è quello delle fantasie ossessive di Lenz.
In Italia, il nome di Alvis Hermanis circola da un
triennio, ma in maniera epifanica. Per questo la
scelta di Natalia di Iorio di incentrare le romane
“Vie dei festival” sul lavoro del regista lettone ha
un po’ il sapore della scoperta e insieme della
definitiva consacrazione. Classe 1965, fondatore e
direttore del Nuovo Teatro di Riga, Hermanis è
apprezzato in tutta Europa, da Edimburgo ad
Avignone, ma gira anche in Sudamerica. Lo scorso
anno, tra l’altro, gli è stato conferito il Premio
Europa Nuove Realtà Teatrali, a Salonicco, dove –
accomunati dal medesimo previsso - premiata è
stata anche un’altra personalità teatrale dell’Est,
Biljana Srbljanovic, anche lei ex, jugoslava, come
Alvis Hermanis è ex, sovietico.
Al Teatro India, che in questi giorni ha ospitato
Sonja e Long life, Hermanis addirittura c’era già
stato, nel 2005, per il Festival dell’Unione dei
Teatri d’Europa, ma quella volta aveva portato
una produzione della Schauspielfrankfurt, Das Eis
(Il ghiaccio) e non la sua compagnia. Ora invece
col focus di Cadmo, il regista ha mostrato due
spettacoli particolarmente significativi della sua
poetica, due lavori diversi, ma molto simili per la
capacità di toccare l’intimità profonda dello
spettatore e quindi di emozionare. Interessante
anche il ribaltamento cronologico della
programmazione, Long life, del 2003, è stato
proposto dopo Sonja, che Hermanis ha messo in
scena tre anni dopo, nel 2006, quasi fosse un
restringimento dell’obiettivo, un andare ancora
più a fondo nell’intimità che veniva scoperta in
Long life.
Con Sonja (lo scorso anno si è visto a “Vie Scena
Contemporanea” di Modena), tratto da un
racconto della scrittrice russa Tatiana Tolstaya, si
entra in una sorta di stanza della memoria,
condotti da due ladri d’appartamento, con tanto
di volto coperto da una calza. Nel rapido cambio
di registro della pièce, che coincide col
travestimento di uno dei due, compare la figura
della protagonista del titolo, immediatamente
pronta ad avviare il suo menage quotidiano di
solitudine e misere gioie. Guidata dalla voce
ironica e sprezzante dell’altro, che diviene
narratore, Sonja si trascina per la stanza,
silenziosa e malinconica, eseguendo ogni minimo
gesto suggerito da quella voce. Gli occhi fissi e
persi nel vuoto e la testa (con i bigodini) inclinata
sembrano richiamare con smaccata parodia i
motivi dell’iconografia classica della melanconia
(può essere utile Saturno e la melanconia di
Klibansky, Panofsky, Saxl). Farcisce torte, mette al
forno polli e si cuce vestitini fiorati di pessimo
gusto con un bisogno di dare e darsi cieco e
disperato, che magnetizza lo spettatore. In una
scenografia realistica prende forma l’esistenza
grottesca di una donna brutta e stupida, oggetto
di scherno da parte dei vicini, che arrivano
all’estrema perfidia, quando inventano per lei uno
spasimante, appassionato, sposato e grafomane.
Per uno scherzo atroce e senza ritorno, inizia una
lunga relazione epistolare, un amore folle che solo
la guerra, arrivata fino a Leningrado, può
annullare nella tenebre della tragedia mondiale.
In Long life, che appunto nel percorso creativo di
Hermanis arriva prima di Sonja, la narrazione è
invece affidata esclusivamente al dettaglio
scenografico, di un realismo scioccante, tanto è
minuzioso nella ricostruzione dei particolari che
fino alla fine ci si meraviglia di scoprire, e a una
partitura fisica ineccepibile a storpiare corpi ed
espressioni del volto. Il resto è solo un borbottio
continuo, incessante. Una cantilena significante di
una condizione estrema eppure ancora vitale.
Quando viene rimossa la quarta parete – uno alla
volta si levano i pannelli che chiudono la scena –
davanti agli occhi degli spettatori si apre un
museo dell’intimità domestica stratificata da anni
di vita vissuta in uno stesso spazio. Siamo in un
appartamento coabitato da cinque vecchi, due
coppie uomo-donna e un uomo singolo, che
osserviamo dal mattino, al risveglio, e fino a sera,
di nuovo al letto. Un giorno come un altro vissuto
col bagno e la cucina in comune, in quelle stanze
piccole e piene di pezzi di vita, in cui ogni azione
minima dà senso al resto dell’esistenza. Davvero
struggente questo affresco calligrafico che si fa
portatore di un tema tabù della nostra società, la
vecchiaia.
E quasi a voler ancora insistere a giocare col
tempo e col suo inesorabile trascorrere, il regista
lettone è approdato ora a The sound of silence (da
noi ha debuttato a Napoli, lo scorso giugno, al
Teatro Festival Italia). Ha preso i cinque vecchi di
Long life e li ha riportati in quello stesso
appartamento collettivo, quaranta anni fa, nel
1968. Un altro lavoro senza parole, costruito su
una colonna sonora di Simon & Garfunkel,
perfettamente descrittiva di quell’epoca. I magici
anni che Alvis Hermanis considera quelli della
nostra “ultima utopia”.
Che cos’è la malinconia?
Dalla tesi di laurea del medico di Van Gogh una
definizione del male “diffuso in tutta la natura”
di Paul-Ferdinand Gachet
Temperanza del corpo e dell’anima: questa è per
l’uomo la legge di un equilibrio stabile. Non ci
sarebbero più allora in lui e tra i suoi simili né
malati né folli. Ma al posto di questo cosa
abbiamo invece?
L’accrescimento nell’uomo che vive in società
delle sue infermità morali e fisiche, la
diminuzione della longevità umana, la
degenerescenza, l’impoverimento,
l’imbastardimento delle razze.
E’ noto che i nostri padri erano più robusti e più
forti di noi. E’ noto che vi erano meno folli e
suicidi in altri tempi di quanti ce ne sono oggi (…)
Non vogliamo essere accusati di avere uno spirito
retrogrado o nemico del progresso; ma tuttavia
dobbiamo ammettere che la civiltà, il progresso si
portano appresso un interminabile corteggio di
mali. La storia è qui per istruirci. Quale è stato il
momento del marasma, della decadenza della
Grecia e di Roma? Quello del loro apogeo, della
loro civiltà. Non so quale storico ha sagacemente
scritto che un popolo non è mai così vicino alla
propria rovina come quando si avvicina al massimo
della propria civilizzazione (…)
La civiltà, il lusso, l’accresciuto benessere
materiale, la fonte di nuovi bisogni e di piaceri
divenuti indispensabili, rimpiazzano la semplicità
dei tempi antichi. E con essi, la mollezza e la
pigrizia, che producono l’atrofia, l’insterilimento
del popolo che aveva donato delle leggi al mondo
(…) Quale furore ci spinge verso il declino? La
legge inesorabile che regge tutte le cose, e tutti
gli esseri. Sic fata voluere, dicevano gli antichi
(…) Anche senza andare così lontano, cosa
troviamo ripiegandoci sul piccolo angolo della
nostra sfera territoriale, ad esempio nel nostro
paese? (…) Malthus nella sua curiosa opera ci
dimostra che, senza alcun ostacolo, la
popolazione cresce in proporzione geometrica di
2, 4, 8. Mentre i mezzi di sussistenza non offrono
che un rapporto di 2, 3, 4, cosa che non di meno
produrrebbe una crescita quasi illimitata della
popolazione (…) Secondo Malthus le cause di
questo fenomeno sono di due ordini:
Gli ostacoli preventivi alle nascite;
Gli ostacoli repressivi che diminuiscono la
longevità umana.
Tra i primi ci sono il celibato, la deboscia, la
miseria. Questi elementi primordiali portano con
sé l’incontinenza, la prostituzione, la poligamia.
Tra i secondi compaiono le conseguenze delle
infrazioni alle leggi di natura, la scarsa igiene, le
abitazioni insalubri, l’aria inquinata,
l’insufficienza del vestiario, la fame o
un’alimentazione insufficiente, l’ubriachezza,
l’intemperanza… e aggiungiamo a queste cause le
cause morali (…) Avremo così delle cause di
diverso ordine che scaturiscono dai nostri costumi,
dalle nostre passioni, dal nostro stato sociale.
Possiamo riassumerle in due specie:
Quelle che cadono sotto i nostri sensi e che sono
tangibili generano le malattie fisiche;
Quelle che non affettano i nostri organi, e che
sono immateriali, generano le cosiddette malattie
mentali.
Che sia tuttavia chiaro che noi siamo forzati a
stabilire questa partizione da esigenze di analisi,
ma che da questo non inferiamo che cause morali
non possano produrre altro che malattie morali e
cause fisiche soltanto malattie fisiche. Essendo
l’uomo un’unità sotto ogni aspetto, i suoi
differenti elementi possono produrre reazioni
differenti che talvolta, partendo dall’intelligenza,
affetteranno il corpo, talaltra, invece, partendo
dal corpo lederanno gli organi; le une e le altre di
queste cause agiscono di concerto, oppure
associate in questa o quella proporzione, saranno
di natura tale dal portare offesa alle leggi che
presiedono all’equilibrio di questa stessa unità,
ferme restando le individualità, creando in tal
modo delle condizioni anormali. A partire da
questo momento, l’uomo malato esiste.
Delle lesioni materiali, la febbre, un’emorragia,
una congestione di questo o quell’organo, ci
indicano che l’equilibrio è rotto in seno
all’economia fisica, che la forza vitale che
presiede agli atti e ai movimenti è disturbata,
modificata, lesa. Ma se in assenza di questi
sintomi solo le funzioni dell’intelligenza vengono
turbate; se la vita di relazione dell’uomo con i
suoi simili e il mondo esterno è minacciata o
annientata, e questo a danno delle leggi di natura
e del più tenace di tutti gli istinti, quello di
conservazione; se, in una parola, il soggetto non
sembra più godere di tutta la potenza di scelta
che possiede allo stato normale, su se stesso, sui
propri istinti, sugli oggetti esterni, sui suoi simili;
se infine non sembra più possedere l’integrità
della propria volontà, del suo libero arbitrio, si
dice allora che è pazzo; che egli non è più come
dicono i giuristi compos mentis. Ha perduto la
ragione, e con essa il diritto di deliberazione, non
solo su se stesso, ma sugli altri (…)
La malinconia è diffusa in tutta la natura. Ci sono
degli animali, dei vegetali ed anche delle pietre
che sono malinconici.
Quando essa si manifesta, sembra che la creatura
s'ispessisca, che si stringa su se stessa, che si
raggomitoli e che debba occupare il minor posto
possibile nello spazio. L'atteggiamento del malato
è assai particolare. Il tronco sempre piegato sul
bacino, le braccia portate verso il petto; le dita
raggrinzite, piuttosto che piegate. La testa china
a metà sul petto e leggermente inclinata sia a
destra che a sinistra. Tutti i muscoli del corpo,
soprattutto i flessori, sono in una semi-contrattura
permanente. I muscoli sopracciliari, contratti in
maniera permanente, sembrano nascondere
l'occhio e aumentano la sua cavità. La bocca è
chiusa in una linea dritta, sembra che le labbra
siano scomparse. Lo sguardo è fisso, inquieto,
obliquo, diretto verso il basso o di lato.
Sembra che ci sia in tutto l'essere un ostacolo che
ha rallentato, diminuito, o addirittura impedito
completamente il movimento vitale. Di fronte a
questo ostacolo, il pensiero, il movimento si
scontrano senza fine. Questo stato costante,
permanente, concentrico e indefinito di
incubazione è il punto culminante, la pietra di
paragone di ogni delirio malinconico. Ad un alto
grado, la creatura malinconica assume tutti i
caratteri dell'inerzia più completa. Il principio
vitale, che presiede a tutto l'essere, tace, ed
assieme a lui gli organi, i sensi, la mente, gli
istinti e le passioni sono colpiti da mutismo.
L'uomo assomiglia a un vegetale, a una pietra.
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Anno 1 Numero 40 - 24.11.2008