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Anno IX - Numero 1 - 27 gennaio 2016
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nu ovo
Femminismo oggi
Quote rosa?
No, alta quota
Il racconto
Anna e Khadija,
dialogo immaginario
tra Islam e Occidente
Le storie
"Uomini, ci siamo prese
i vostri lavori"
Quello che alle donne
non dicono
Dalle violenze nelle piazze tedesche,
agli scontri verbali nelle aule parlamentari.
Anche il 2016 sarà una stagione di lotte
cercando una parità mai raggiunta
Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli
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Zitte tutte
I fatti di Colonia e la "strategia della tensione":
gli aggressori sono musulmani. E la violenza sulle donne
diventa un pretesto per alimentare razzismo e xenofobia
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Il femminismo? Va in alta quota
Il corpo della donna tra strumentalizzazioni, antiche realtà
e novità: dal matriarcato di ieri alle Femen di oggi.
Ecco le battaglie ancora da combattere nel 2016
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«Uomini, così ci siamo presi i vostri lavori»
Autista, pilota, scaricatrice: storie di tre donne determinate
che hanno sconfitto antichi pregiudizi
Anna e Khadija, donne allo specchio
Dialogo immaginario sulla condizione femminile, tra Islam e Occidente:
educazione, sesso, lavoro, povertà e violenza
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Serva sì, ministra no
In Italia le donne guidano 1.061 comuni, 42 prefetture
e 6 ministeri. Ma nelle aule parlamentari il riconoscimento
del loro ruolo è lontano. Anche dal punto di vista linguistico
Il leghista non molla: «Signora? No, solo vanitosa»
Simonetti non cambia idea dopo lo scontro con la Presidente della Camera:
«La sindaca, la ministra, la consigliera sono soltanto delle forzature inutili»
SOMMARIO
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POLITICA
IL CASO
Zitte tutte
I fatti di Colonia e la "strategia della tensione": gli aggressori sono musulmani
E la violenza sulle donne diventa un pretesto per alimentare razzismo e xenofobia
Michele Fratto e Gaia Mellone
Meno 3,2,1… , scatta il 2016 e Colonia si trova
proiettata in un altra dimensione. La città tedesca diventa centro d’isteria collettiva. La comunità si gela, insieme ai propri organi politici e di
stampa. Le ragazze continuano a invadere centri di polizia, pronto soccorsi, ospedali. I racconti
sono sconcertanti, le ferite difficili da curare.
Le istituzioni si sono dimostrate restie a rilasciare dettagli su quello che è stato definito come
un fenomeno di “crimini di una dimensione
completamente nuova”.
“C’è stata fin da subito una grande confusione sui fatti” spiega Francesca Koch, presidente della Casa Internazionale delle Donne,
progetto che unisce al suo interno più di
quaranta associazioni del movimento femminile italiano. Aggiunge ”Le narrazioni dei
media e dei politici sono state costruite su
eventi tutt’altro che chiari”.
Ancora una vota il silenzio prende il sopravvento, la violenza resta muta e le vittime non trovano sfogo alle loro paure, schiacciate da altri
temi ritenuti prioritari. Lo scontro tra culture è
solo una delle considerazioni da fare intorno ai
fatti di Colonia. “La mobilità di massa di persone provenienti da diverse civiltà – come scrive
Laura Berti su articolo 21- può indubbiamente
causare conflitti di tipo culturale, ma certo non
è un caso che questo scontro avvenga in modo
così plateale sul corpo delle donne”.
La stessa tv pubblica tedesca ZDF ha poi chiesto scusa per aver informato in ritardo i tele-
spettatori, con il vicedirettore Elmar Thevessen
che ha ammesso: “E’ stato un evidente errore
di valutazione”. Le vere scuse non vanno fatte
ai generici telespettatori, ma a quelle ragazze
che straziate dal dolore speravano di trovare
appoggio nella loro comunità.
Appoggio che è arrivato, in maniera controversa, dal sindaco della città. Henriete Renker,
primo cittadino di Colonia, ha prontamente
condannato gli eventi, preannunciando poi il
rilascio sul sito del comune della città di alcune
“linee guida”, un codice di comportamento da
adottare per evitare aggressioni future. I consigli? Mantenersi a distanza di sicurezza (equivalente a un braccio) da persone dall’aspetto
straniero. Non girare per le strade da sole ma
sempre in gruppo. Non assumere in pubblico
atteggiamenti che possano essere fraintesi da
persone di altre culture. Come se il problema
fosse il comportamento femminile, la libertà a
cui le donne sono abituate in Occidente, e toccasse a loro prevenire le possibili violenze.
“Ancora una volta è stata chiamata la difesa delle ‘nostre donne’ dagli stranieri.- continua Francesca Koch- Questo alimenta meccanismi di
xenofobia e razzismo uniti al sessismo per giustificare le critiche alle politiche di accoglienza
tedesche promosse recentemente da Angela
Merkel”. Le donne infatti non sono esseri vulnerabili e indifesi, e non è aumentando il controllo
su di loro che si argineranno i fenomeni di violenza. Un esempio positivo e controcorrente è
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Le violenze di Capodanno riaccendono i riflettori
sulla condizione della donna in Europa
E in Italia le vittime di abusi sono quasi 7 milioni
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IL CASO
Koch (Casa internazionale delle donne): «Le violenze di San Silvestro
non portino alla xenofobia. E invece ancora una volta si invoca
la difesa delle "nostre donne" dagli stranieri»
l’esperimento avviato in Norvegia, che propone ai migranti e ai rifugiati in arrivo un
corso di integrazione per far comprendere
il diverso ruolo che la donna ricopre nella
società occidentale rispetto al loro bagaglio culturale, che la vede invece come una
proprietà, se non un oggetto. Si insegnano
loro i codici che in Europa sono alla base
della relazione tra i due sessi.
Ma la violenza sulle donne, che sfoci nello
stupro o meno, non è una questione religiosa e di colore della pelle. Come dice Giulia
Blasi, blogger e scrittrice: “Non è dell’Islam
che bisogna avere paura, non sono gli immigrati a portare la violenza e la sottomissione
delle donne. Fenomeni che sono sempre lì,
sottotraccia, in attesa”. Voci rotte tra le mura
domestiche, mancate denunce di molestie
e aggressioni urbane sono solo alcuni degli
aspetti di un fenomeno ben più radicato e
profondo della nostra società. Secondo i dati
raccolti in un recente sondaggio compiuto
dal Fre, l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali, su un campione di quarantaduemila
donne in tutta Europa, emerge che il 22% di
loro sono state vittime di violenze da parte del
partner. Il direttore del Fra Michael O’Flaherty
ha dichiarato: “L’abuso che ha avuto luogo a
Colonia e altrove nella notte di Capodanno è
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stato terribile ed è stato un grave abuso. Non
esiste una gerarchia dei diritti fondamentali. Il rispetto deve essere chiaro per tutti”.
Continuando nel suo intervento, O’Flahery
ha aggiunto “tuttavia la ricerca del Fra dimostra chiaramente che la maggior parte
degli autori di violenze contro le donne fa
parte del nucleo familiare, sono amici o conoscenti della vittima. Gli eventi del mese
scorso non devono essere utilizzati come
pretesto per incitare pregiudizi contro gli
immigrati o contro qualsiasi altro gruppo”.
Ingrandendo la lente sul nostro Paese, grazie ai dati Istat relativi al 2014, le vittime di
soprusi sessuali, ma non solo, sono state 6
milioni e 788mila. Solo l’11,8% ha sporto denuncia. La stessa percezione della violenza
fisica o sessuale da parte delle vittime fa accapponare la pelle: non più del 35,4% ritiene
di aver subito un crimine. Il 44% sostiene che
si è trattato piuttosto di qualcosa di sbagliato ma non di reato, mentre il 19,4% considera la violenza solo qualcosa che è accaduto.
La sfiducia nelle istituzioni, la paura delle ritorsioni da parte della società, l’imbarazzo e
la vergogna diventano un alibi per il silenzio,
che viene continuamente alimentato.
Lo stesso rapporto che la stampa italiana ha
con i femminicidi deve evolversi. È questo
uno degli obiettivi che ha portato alla creazione di G.I.U.L.I.A., associazione di giornaliste italiane che, come scrive Luisa Betti su “La
27ora” (blog del Corriere della Sera inerente ai
problemi delle donne) vuole “dare una prospettiva diversa al trattamento della violenza
contro le donne all’interno dell’informazione,
al fine di argomentare il fenomeno con una
prospettiva che superi il pregiudizio discriminatorio. Questo deve essere fatto nei confronti delle donne, cosi come nella considerazione di un argomento ritenuto inferiore e senza
dimensione specifica”.
Il problema della violenza sulle donne è un’emergenza continua, la cui
discussione e riflessione non può essere relegata al commento di episodi
eclatanti.
Le Nazioni Unite hanno infatti lanciato nel 2015 l’iniziativa “Orange the
World” per sensibilizzare sul tema,
scegliendo come giornata mondiale
contro la violenza sulle donne il 25
novembre. L’obiettivo? Provare a debellare e sradicare gli abusi entro il
2030. Queste sono le iniziative che
abbracciano, tutelano e proteggono
le donne di tutto il mondo. Animandole di coraggio, non di paura.
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POLITICA
L'INCHIESTA
Il femminismo? Va in alta quota
Il corpo della donna tra strumentalizzazioni, antiche realtà e novità: dal matriarcato di ieri alle Femen di oggi. Ecco le battaglie ancora da combattere nel 2016
Roberta Sias e Giulia Cavola
C’erano una volta le donne nomadi. A loro ogni
libertà era negata, tranne che nella Tenda Rossa.
Nascita, morte, tradizioni, la vita passava da lì.
Dal matriarcato di ieri alle Femen di oggi. A quota 1500 metri ci sono donne che si incontrano in
un rifugio alpino, per riscoprire il proprio legame
con le origini. Sono le firmatarie della “Risoluzione delle donne della montagna” e sostengono
che senza il contributo femminile l’economia
alpina sia destinata a soccombere.
Mentre gli uomini erano spesso a valle a cercare
lavoro, era questa forza a permettere alla comunità di sopravvivere in ambienti limite. Come?
Senza mai dimenticare il proprio rapporto con
la natura, senza rinunciare alla magia e alla poesia. Riscoprire il “mistero femminile” è quello che
propone un’altra associazione, Tenda Rossa, attiva in tutta Italia. «È il ritrovare questa profonda
connessione che fa arrivare la magia, non è fare
il rituale. Anche durante la giornata, qualunque
cosa si faccia diventa magia se c’è un legame profondo con la natura», racconta Marianna Farci di
Tenda Arrubia Janas di Cagliari. La Tenda Rossa
era quello spazio che le popolazioni nomadi attrezzavano quando si fermavano in un luogo un
po' più a lungo. Rossa perché sacra, rossa perché
riservata alle donne. La nascita, la morte e tutto quello che avviene nel mezzo erano vissute
in quello spazio. La Tenda Rossa era l’ambiente
dove si raccontavano le storie di cui le donne
più anziane si facevano custodi. Un luogo dove
la legge degli uomini non entrava, una sorta di
matriarcato. La Tenda Rossa è oggi un luogo d’incontro, «uno spazio in cui le donne
riescono a trovare quella connessione tra
di loro, la più libera e sana possibile». Non
solo l’insegnamento del passato, ma anche
una prospettiva per il futuro.
Statuette della fertilità, miti della roccia, intesa
come divinità portatrice di vita, incarnazioni simboliche del corpo femminile. Ecco la nuova strada intrapresa dal movimento delle donne a partire dagli anni Sessanta: non più femminismo, ma
ecofemminismo. Nato negli Stati Uniti, propone
una connessione tra l’oppressione delle donne e
quella della natura nella società occidentale. «Lo
sfruttamento della natura è andato di pari passo
con quello delle donne, che in ogni epoca sono
state identificate con essa», così il fisico e saggista austriaco Fritjof Capra. Nel saggio La rete della vita, mette in relazione la prospettiva femminista con quella ecologista. Le femministe di oggi
suggeriscono una visione naturalista della realtà,
«una società eco-sana, non basata sullo sfruttamento, giusta, non patriarcale, capace di auto
sostenersi». Questa è la prospettiva suggerita
da una delle rappresentanti più attive dell’ecofemminismo Vandana Shiva, filosofa e scrittrice
indiana. “Sopravvivere allo sviluppo” è la nuova
parola d’ordine delle femministe. Tanto al Nord
quanto al Sud, l’ambientalismo femminista lotta
per superare le disparità di genere del sistema
capitalistico attuale, perché oggi dove ci sono le
donne c’è sviluppo. Nessun dominio dell’uomo
Esiste ancora un filo rosso che lega le esperienze di oggi
alle lotte femminili di due generazioni fa
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L'INCHIESTA
Dalle provocazioni del "Women against feminism"
all'ecofemminismo della Tenda rossa
sul corpo della donna, come dell’essere umano sulla natura, ma semplicemente un rapporto unitario,
che ancora oggi manca.
Non è un caso che una femminista storica come
Lea Melandri davanti ai recenti fatti di Colonia abbia
sottolineato come «ancora una volta l’odio si manifesta contro il corpo delle donne, originaria forma di
dominio che riguarda la relazione fra i sessi». Forse
per questo è necessario che ci sia un 25 novembre,
giornata nazionale sulle donne. Insomma, in mezzo
secolo di femminismo le donne hanno raggiunto
la parità con gli uomini, ma le discriminazioni non
sono scomparse, «quando a parlare è una donna
gli uomini fanno altro: chi chiacchiera, chi controlla
le mail», ha raccontato all’Huffington Post Christine
Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Sono ancora tante le battaglie da combattere,
dal sessismo che dilaga negli uffici, fino alla difesa
dei diritti delle non occidentali, passando per il divario retributivo. Ma quale voce può rappresentarle?
Nel 2016 ha ancora senso parlare di femminismo? Per Femen senz’altro. Movimento fondato a Kiev
nel 2008, si è guadagnato il successo su scala internazionale manifestando per strada a seno nudo,
scandendo slogan e sfidando ogni consuetudine.
Ancora una volta il corpo femminile è protagonista, anche se per protesta. “We will win”, vinceremo,
urlano davanti agli occhi increduli degli uomini. Un
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modo insolito e provocatorio per protestare, ma l’unico per essere ascoltate: «Mi sono resa conto che il
femminismo tradizionale qui in Ucraina non avrebbe attecchito, né con le donne né con la stampa, né
tanto meno con la società. E allora perché non adattare il femminismo al modello ucraino?», si chiede
Anna Hutsol, fondatrice dell’organizzazione. D’altro
canto c’è chi il proprio corpo lo nasconde. Ma qual è
la giusta via? «Entrambe, non uoma, sapendo che la
donna ha una sua femminilità e ricordandosi di valorizzarla» come spiega Mirella Batini, la presidente del
partito “Fratellanza Donne”.
E come nei sit-in degli anni Settanta, ripartono da
zero le Pussy Riot, le artiste russe con il passamontagna colorato, disposte a scontare anni di carcere per
le loro rivendicazioni. Seppur in maniera più timida,
anche in Italia le femministe hanno ricominciato a
farsi sentire. Inedita la protesta del 13 febbraio del
2011: un milione e mezzo di donne scesero in 230
città del Paese, unite per chiedere dignità e rispetto. Inedita anche la mobilitazione organizzata in tre
settimane, senza partiti, senza sindacati, ma solo sul
Web. Le attiviste erano state in grado di coinvolgere
migliaia di lavoratrici e precarie, donne laiche e cattoliche, da destra a sinistra, uomini inclusi. Lo slogan
di quella manifestazione “Se non ora quando” è diventato il simbolo di un nuovo laboratorio di pensiero. La prima rete di donne decise a dialogare con le
forze politiche, per imporre nell’agenda del governo
temi come la conciliazione dei tempi casa-lavoro.
“Snoq” riunisce non solo diverse associazioni attive
già da anni, come Filomena, Di Nuovo, Usciamo dal
silenzio, ma anche vari talenti e donne di diversa
estrazione. Dalle sorelle Cristina e Francesca Comencini, alle docenti universitarie come Serena Sapegno. Ma di recente nuove divergenze hanno fatto
vacillare il fronte del femminismo in Italia. A distanza
di cinque anni da quel 13 febbraio, è il dibattito sulla
maternità surrogata a dividere il gruppo. Due le correnti nate in seguito all’appello contro l’utero in affitto: “Se non ora quando-Libere” che lo sostiene e “Se
non ora quando- factory”, che ha preso le distanze.
Il disaccordo non è stato tanto sui temi, quanto sulle differenti modalità di affrontarli. Francesca Koch,
presidente della Casa Internazionale delle donne:
«Le attiviste di Snoq sono uscite sulla vicenda della
maternità surrogata in modo un po’ autoritario e
autoreferenziale» e aggiunge «invocano i divieti e
non si risponde ai problemi con i divieti, ma con il
confronto, l’ascolto delle varie esperienze. Fermo
restando le perplessità che tutte noi condividiamo
su questa scelta solo commerciale di comprarsi la
maternità». E le divisioni, si sa, non fanno altro che
indebolire le future battaglie. «Nel mondo di oggi
ognuno va alla cieca, pensando a sé e l’individualismo prevale», sostiene la scrittrice Dacia Maraini.
Infine, c’è anche chi non crede più nell’esistenza del femminismo. L’idea “il femminismo
non mi serve, mi sento già libera” è andata
avanti fino alla protesta: “Women against feminism”, lanciata con un hashtag su Twitter e
su Tumblr, diventata campagna virale su Facebook e su YouTube. Ma il femminismo non
è scomparso, «è terminato come modalità,
ma ha fatto grandi conquiste, il problema è
che non hanno lasciato un’eredità alle più
giovani» precisa Mirella Batini.
La rivoluzione delle donne non è stata sconfitta, è solo in stand-by. Nel 2016 manca l’unità e la consapevolezza delle giovani ragazze, che ignorano che la loro libertà è frutto
delle coraggiose battaglie delle loro nonne
e madri. Forse non sarebbe male ricordare
la storia, in una simbolica Tenda Rossa. Anche perché non tutte le conquiste durano
per sempre. La pensa così anche Francesca
Koch:«Siamo in una situazione di tale regressione che c’è spazio per il ritorno di mostruosità sul discorso dei diritti civili».
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POLITICA
LE
STORIE
« Uomini, così ci siamo prese i vostri lavori »
Autista, pilota, scaricatrice: storie di tre donne determinate che hanno sconfitto antichi pregiudizi
Andrea Walton e Lodovica Palazzoli
Pilota, idraulica, camionista. Sono sempre di più le donne che svolgono lavori una volta esclusivamente maschili. Chi li sceglie per passione, chi in prospettiva economica, chi per rompere un tabù. Il risultato non cambia e le cifre parlano chiaro; il secondo decennio del 2000 si è aperto in Italia
con quasi 1.800 donne al volante di camion e tir, oltre 400 che eseguono riparazioni elettriche e più di 700 che mettono le mani su carrozzerie e motori. Queste sono le storie di Giovanna, autista, Carla, pilota militare e Francesca, scaricatrice.
CARLA ANGELUCCI, 32 anni. “Sono pilota per passione.” A sei anni Carla, capitano pilota dell’Aeronautica Militare, è in gita con la famiglia, quando un jet AMX le
passa sopra la testa. È amore a prima vista e tanto le basta per decidere il suo futuro. Gli anni passano, lei cresce e continua determinata a voler svolgere la carriera
militare, gettando la famiglia nel panico, nonna in testa. Rimasta vedova proprio
di un pilota militare nel 1953, non riesce a pensare a sua nipote con la divisa e le ali
addosso. Nel 2000, però, anche per le donne italiane arriva la possibilità di entrare
a far parte delle Forze Armate e Carla coglie l’opportunità. Al volo.
Donna e divisa, soprattutto se pilota, resta comunque un connubio originale.
“Tra noi militari non desta più sorpresa, ma agli occhi della collettività continua a
essere percepita come una stranezza e l’argomento genera sempre grande curiosità.”
Intanto Carla prosegue la sua carriera e diventa pilota di elicottero; a 27 si qualifica istruttrice e racconta con un sorriso la sua prima missione con un allievo
uomo di 42 anni: “All’inizio è rimasto un po’ sorpreso, ma il volo ha di bello la concretezza: lassù non c’è spazio per chiacchiere o pregiudizi, a parlare sono i fatti. E
questi hanno subito chiarito chi tra di noi fosse l’istruttore e chi l’allievo”.
Carla ha alle spalle anche esperienze di soccorso aereo, situazioni che richiedono grande competenza, concentrazione e professionalità. “Non mi definisco una
femminista, ma ritengo che le donne debbano avere acceso come gli uomini a
tutti gli ambiti in cui raggiungano i requisiti e gli standard richiesti. Se si è idonei,
lo si è indipendentemente dal sesso”.
Il suo essere donna però l’aiuta nei rapporti con gli allievi e qui sono proprio i
colleghi uomini a sfruttare la sua maggiore sensibilità e comprensione.
Carla non è l’unica donna a avere scelto le stellette. Secondo quanto riportato
dallo Stato Maggiore della Difesa sono attualmente 11.000 le donne presenti nelle
Forze Armate; i loro impieghi spaziano dal ruolo di truppa, a sottufficiali e ufficiali
e tra questi il grado medio è quello di capitano. Si prevede che il primo generale
donna sarà valutato nel 2030. Le donne operano in tutti i settori di attività senza
preclusioni di genere, incluso l’impiego operativo in prima linea non applicato in
molti eserciti di altre nazioni.
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GIOVANNA MUSCI. Romana, 50 anni e autista da trenta. A 21
anni era consulente del lavoro nello studio commerciale di famiglia, quando la passione per i motori la colpisce. Prende la
patente superiore e inizia a guidare bus turistici noleggiati da
gruppi. “Era un modo per guadagnare e per viaggiare mi è capitato di trasportare anche i giudici della Corte Costituzionale.
Se mi fermavo in seconda fila mi si avvicinavano chiedendomi
di dire all’autista di spostare il bus e stupendosi un attimo dopo,
vedendomi salire per mettermi al volante io stessa”.
Oltre ai bus turistici Giovanna decide di guidare anche auto a
noleggio, diventando la prima donna della Capitale a specializzarsi
nel settore. Per capirci, guida quelle auto contrassegnate dalla sigla NCC, noleggio con conducente. All’inizio i colleghi erano pieni
di premure nei suoi confronti, aiutandola con le indicazioni stradali
o sollevando i bagagli; negli ultimi anni, invece, a causa anche della
crisi economica si sono fatti meno scrupoli vedendola come una
concorrente professionale a tutti gli effetti.
“Non mi sono mancati gli episodi curiosi, come il primo
incarico con l’autonoleggio per i matrimoni, in cui il padre
della sposa mi ha confessato di aver stupito inaspettatamente gli invitati presentandosi con una chauffeur donna,
come me, per accompagnare la sposa”.
Giovanna ha anche trovato forza nel suo lavoro. Nel 2012, a causa
di una malattia, ha dovuto trascorrere lunghi periodi in ospedale e
proprio durante uno dei ricoveri ha creato una cooperativa. Dopo le
cure ha riportato un’invalidità del 100%, che l’ha costretta a sottoporsi al giudizio di una commissione INPS per mantenere l’idoneità
lavorativa. Giovanna non si arrende e continua a combattere.
FRANCESCA CEOTTO, 38 anni. Genovese. è il 1998 quando Francesca inizia a lavorare al carico e allo scarico merci nel porto della città.
Non è cosa da tutte. Gli annali la indicano come la prima donna a
svolgere questo lavoro.
I camalli, termine del dialetto genovese per indicare gli addetti al
carico e scarico merci, sono sempre stati solamente uomini.
“Avevo appena terminato gli studi di contabilità ed ero alla ricerca
del mio primo impiego. Faccio una scelta diversa dal solito e partecipo al concorso bandito dalla struttura portuale per addetti alle merci,
settore tradizionalmente riservato agli uomini per via del lavoro particolarmente pesante”.
Francesca, però, non si perde d’animo e alla fine viene assunta.
Sebbene si trovi ad avere a che fare con un ambiente di lavoro prettamente maschile, descrive entusiasticamente il rapporto creato
con i colleghi: la prendono tutti a benvolere e la mentalità aperta
degli altri addetti le permette di crescere molto a livello personale e professionale. “Difficile descrivere in poche parole quanto il
mio carattere sia stato formato da questa bellissima esperienza: la
voglia di insegnarmi, continuamente, nuove nozioni da parte dei
colleghi si è rivelata impagabile.”
Dopo un breve periodo di tempo riesce, nuovamente grazie a
un concorso, a essere assunta all’ufficio fatturazioni della Compagnia unica del porto di Genova arrivando a esserne oggi consigliere d’amministrazione.
“La mia storia dimostra che anche nei contesti apparentemente più
difficili, per una donna un’integrazione è sempre possibile. E sono la
voglia di mettersi in gioco, la disponibilità e la propensione al dialogo
da parte dei colleghi a rivelarsi un’arma vincente”.
Giovanna: « Nessuno credeva che potessi guidare un bus »
Carla: « Un jet sulla testa e la mia vita è cambiata »
Francesca: « Il mio carattere da camallo »
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POLITICA
IL RACCONTO
Anna e Khadija, donne allo specchio
Dialogo immaginario sulla condizione femminile, tra Islam e Occidente: educazione, sesso, lavoro, povertà e violenza
Alessandro Berrettoni, Lorenzo Gherlinzoni e Federico Giustini
Anna e Khadija hanno la stessa età. Trentenni, una ricercatrice,
l’altra medico. Anna e Khadija non si conoscono. Sedute al bancone
di un bar di Parigi, sono sole. Su France 2 c’è Telematin, in studio la
giornalista Charlotte Bouteloup.
Giornalista: «Ci sono stati dei netti miglioramenti, ma essere donna oggi significa ancora vivere in una situazione di diseguaglianza
economica, vuol dire ancora vivere in uno status d’inferiorità rispetto al genere maschile. È quanto afferma l’ONU nel rapporto “The
World’s Women 2015”».
Anna e Khadija si guardano. È un attimo.
Khadija: «Violenza, molestie, parità di genere. Parlate bene, voi
donne occidentali. Dovreste provare cosa significa essere soltanto
un oggetto a disposizione del padrone».
Anna: «Non credere che qui sia diverso».
Giornalista: «L’infibulazione aumenta i rischi del parto ed è spesso
causa di ulcere, infezioni e morte. Nei 29 Paesi dell’Africa e del Medio
Oriente in cui è diffusa, sono state oltre 125 milioni le donne sottoposte alla mutilazione genitale, un quinto delle quali solo in Egitto»
Khadija: «Io vengo dall’Egitto. Anche mia nonna è stata infibulata. La cosa peggiore è fare sesso. Pensa al dolore più forte che hai
provato. Moltiplicalo per mille. Somalia, Sudan Eritrea, Mali, Sierra
Leone. In tutti questi paesi ancora oggi la mutilazione genitale è una
pratica comune. Noi donne africane siamo anche le più colpite dagli
stupri. In Camerun e Guinea Equatoriale, il 30% delle donne è stata
violentata, e più di una su due picchiata».
Anna: «La violenza psicologica può provocare la stessa devastazione interna. Sono stata in Islanda, lo scorso anno, ho letto da
qualche parte che è il paese migliore dove vivere per una donna.
Eppure anche lì, molte delle donne che ho incontrato hanno subito violenze. Un quarto delle donne islandesi ha subito una violenza
nella propria vita. Sì, il dato era questo. Un quarto. D’altronde, siamo
noi occidentali che abbiamo introdotto il reato di femminicidio».
Khadija: «Io la trovo una parola tremenda. Uccidere una donna
solo perché è donna».
Giornalista: «La partecipazione alla scuola elementare ha raggiunto un livello pressoché universale in Occidente, ma nel resto
del mondo le differenze sono più marcate. La disparità cresce di pari
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passo – in tutto il mondo – all’aumentare del livello di formazione,
raggiungendo il livello massimo nella transizione alla carriera, soprattutto nella ricerca».
Anna: «Sai, sono l’unica donna nel mio team di ricerca. I miei colleghi sono brave persone. Mi fido di loro. Eppure credo che un numero maggiore di donne porterebbe qualcosa in più».
Khadija: «Mio padre non voleva che studiassi. D’altra parte, in
Africa, più della metà delle bambine non va a scuola. Ma le cose
stanno migliorando. Ci sono stati investimenti nel settore scolastico
che hanno permesso un aumento della presenza femminile a scuola, soprattutto nell’area mediterranea.
Io sono stata fortunata. Ho vinto una borsa di studio qua in Fran-
cia. Solo scappando sono riuscita a completare la mia formazione.
Ora, sono un medico. Vorrei tornare da mio padre e dirgli che quello
che sono oggi non è merito suo. Mi ricordo soltanto le lacrime di mia
madre. Sono l’unica figlia femmina».
Anna: «Siamo la metà potenziale della popolazione attiva, ma
l’occupazione femminile non raggiunge il 50%. Nemmeno in Europa. Paragonato a quello di un uomo, l’anno retributivo di una donna
europea finisce il 2 novembre. È come se da quel giorno
lavorassimo gratis».
Khadija: «Ne siete consapevoli, però. Non so se c’entra la
religione. Eppure so che il Corano, a interpretarlo in un certo
modo, giustifica l’ineguaglianza. Il padre è sostituito dal marito. Entrambi possono percuotere le femmine della famiglia. E
si ammette la poliginia. Si chiama così, non poligamia, perché
solo l’uomo può avere più mogli».
Anna: «E poi c’è l’ISIS».
Khadija: «Sì. Quello che sta succedendo è molto preoccupante.
Per loro siamo tutte infedeli. Gira un libretto, nei territori del Califfo. Si
chiama “Domande e risposte sul fare prigionieri e schiavi”. Se sei ebrea,
cristiana o yazida, devi essere ridotta in schiavitù. C’è persino un prezzario. Una bambina di 9 anni può valere quasi 200 dollari. Voi chiedete
una retribuzione degna, un ruolo maggiore, mentre nel mondo migliaia di ragazze e bambine sono schiave degli uomini».
Anna: «È assurdo, certo. Quello che voglio dirti è che anche l’Occidente discrimina il suo lato più vitale, quello femminile. Non è tutto
oro quello che luccica. Prendi un bambino nato da una madre single.
Quel bambino, rispetto a un coetaneo che ha entrambi i genitori, ha
una probabilità doppia di vivere in povertà. Questo in Sud Africa; negli Stati Uniti quella probabilità è quadrupla».
Khadija: «Il servizio parla del rapporto ONU “The Women’s
World”. Questa mattina sul giornale c’era una classifica. I 10 migliori paesi dove vivere se si è donna. 8 paesi su 10 sono dell’area
occidentale. Gli unici extra-occidentali sono Ruanda e Filippine.
Islanda, Norvegia e Finlandia i primi tre».
Giornalista: «L’uguaglianza di genere è necessaria per ragioni economiche. Soltanto le economie con pieno accesso ai loro talenti rimarranno competitive e prospere. Ed è anche una questione di giustizia».
Anna e Khadija si guardano di nuovo. Si sorridono, si alzano e se ne
vanno. Senza presentarsi. Senza rivedersi.
« Gira un libretto nei territori del Califfo. Se sei ebrea,
cristiana o yazida devi essere ridotta in schiavitù »
« Anche l'Occidente discrimina il suo lato più vitale, quello femminile »
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POLITICA
IL
CASO/2
Serva sì, ministra no
In Italia le donne guidano 1.061 comuni, 42 prefetture e 6 ministeri. Ma nelle aule parlamentari il riconoscimento del loro ruolo è lontano. Anche dal punto di vista linguistico
Andrea Bulleri, Domenico Di Sanzo e Giorgia Pacino
La signora presidente, la ministra, la sindaca. Infastiditi dall’uso del
femminile? Più che dalla lingua dipende dalla vostra visione del mondo.
Lo avevano già rilevato gli americani Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf
all’inizio del 900: il modo di esprimersi determina il modo di pensare. La
resistenza a declinare al femminile certi termini deriverebbe dalla difficoltà di associare la donna a ruoli di vertice. Il recente botta e risposta tra la
presidente della Camera Laura Boldrini e il deputato della Lega Nord Roberto Simonetti, che ha chiamato la terza carica dello Stato «signor presidente», non è che l’ultimo scontro di una battaglia a suon di desinenze.
Il terreno privilegiato resta l’aula parlamentare. Lì dove la politica italiana
pensa – e parla – ancora al maschile.
«Il nostro orecchio per ora respinge la sindaca, la prefetta, la ministra, tanto più che in tali funzioni la presenza femminile è ancora rara»,
faceva notare quasi trent’anni fa il linguista Francesco Sabatini, oggi
presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Era il 1987 e nel volume “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini si suggerivano per
la prima volta alcuni accorgimenti. “Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua italiana”. Le regole, in realtà, sono sempre esistite. I
sostantivi che terminano in -o, -aio, -ario al femminile mutano in -a, -aia,
-aria: avvocata, notaia, commissaria. I termini che finiscono in -iere mutano in -iera: consigliera, infermiera, portiera. Alcuni sostantivi, infine,
restano invariati. Così si dirà la giudice, la parlamentare, la preside. Lo
stesso per i participi, come la dirigente o la presidente.
E la ministra? «È corretto perché la lingua italiana ci offre le forme femminili di tutti i nomi». La professoressa Cecilia Robustelli, docente di Linguistica all’Università di Modena e Reggio Emilia, da anni collabora con
l’Accademia della Crusca e la Commissione per le pari opportunità di palazzo Chigi. Lei non ha dubbi. «Il fatto che la forma femminile ancora non
sia diffusa per alcune parole, come lo è per maestra, ginecologa, serva,
dipende dal fatto che si tratta di cariche solo recentemente ricoperte da
donne. Sotto sotto si ritiene che siano professioni che dovrebbero fare gli
uomini, come a dire: lo fanno le donne, ma non facciamolo vedere troppo». Professora o professoressa? «La desinenza in –essa venne usata nella
prima metà del 900 dai giornalisti per creare parole nuove femminili e
usarle però in senso ironico, per esempio deputatessa, ministressa».
La parità linguistica tra i sessi, in fondo, è soprattutto una questione di
abitudine. Oggi in Italia le donne amministrano 1.061 Comuni (il 13,26%),
guidano 42 uffici della Prefettura e hanno la responsabilità di sei ministe-
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ri, dalla Difesa alla Pubblica amministrazione, dalla Sanità all’Istruzione. Il
problema, oltre che di genere, è anche di numero.
Dai numeri alle quote rosa il passo è breve. Il termine, oggi declinato in una maggior presenza femminile nelle liste, è adottato per
legge nei consigli d’amministrazione delle aziende. Nelle stanze del
potere, però, non mancano le polemiche.
La storia delle quote rosa in politica comincia con la legge 81 del 1993.
Il testo stabilisce che nessun genere può rappresentare più dei 2/3 dei
candidati alle comunali. Nel 1995 la legge viene dichiarata incostituzionale. Il meccanismo è definito da più parti antimeritocratico. Nel 2012 il
Parlamento ci riprova, adottando la quota di lista e la doppia preferenza
di genere. Per i Comuni con una popolazione superiore ai 5.000 abitanti, nelle liste elettorali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in
misura superiore ai 2/3. La novità, però, è la doppia preferenza di genere.
L’elettore può esprimere due preferenze a condizione che i candidati siano un uomo e una donna. Attenzione anche alla composizione delle liste:
nei Comuni con più di 15.000 abitanti il mancato rispetto delle quote può
provocare la decadenza della lista. Inoltre, in tutti i Comuni con meno di
15.000 abitanti devono essere rappresentati entrambi i sessi.
Arriviamo alle elezioni europee: nel 2014 gli italiani hanno votato con
la tripla preferenza di genere. Se l’elettore decide di esprimere tre preferenze deve essere rispettata l’alternanza. Quindi: due donne e un uomo
oppure due uomini e una donna, pena l’annullamento del terzo voto. La
preferenza di genere sarà ora adottata anche nell’Italicum, la nuova legge elettorale. Il capolista resta bloccato, ma sarà possibile esprimere due
preferenze tra candidati di sesso diverso. In caso contrario, il voto sarà ritenuto nullo. Inoltre, non si potranno avere capilista dello stesso sesso per
più del 60% dei collegi nella stessa circoscrizione regionale.
Un bel traguardo in un Paese in cui fino al 1976 non sedeva-
no donne in consiglio dei ministri. E in cui su 14 presidenti della
Camera, soltanto tre sono state donne.
Da Nilde Iotti a Laura Boldrini. Da Tina Anselmi a Maria Elena
Boschi. Stili diversi, stessi preconcetti: la strada per la parità delle
donne in politica è ancora irta di ostacoli. Mentali, perlopiù. Perché
se il ministro porta i tacchi, prima o poi il confronto politico finisce
in una bolgia di insulti sessisti. Bipartisan.
Si va dalle deputate Pd elette perché brave a fare sesso orale
(copyright Massimo De Rosa, M5s) ai gesti osceni dei senatori Barani e D’Anna. E siccome la lingua batte dove il dente duole, anche
Rosy Bindi, per anni al centro delle attenzioni non propriamente
da charmant di Berlusconi («É più bella che intelligente») ebbe a
dire che alcune ministre del governo Renzi erano state scelte in
quanto giovani e belle. Il bon ton istituzionale oltrepassa i confini:
se la Merkel in Germania è «Mutti» (mammina), in Italia è «culona».
A contendere la palma del cattivo gusto a Berlusconi ci pensa Beppe
Grillo. Dopo una bagarre politica alla Camera il leader dei 5 stelle rilancia
un sondaggio sulla presidente Laura Boldrini: «Che succederebbe se ti
trovassi la Boldrini in macchina?». Et voilà, i commenti sessisti a sfondo
violento sono serviti. Ma la domanda sarebbe stata la stessa se a sedere
sul più alto scranno di Montecitorio fosse stato un uomo?
La femminilità in politica. Chi ne ferisce e chi ne perisce: chiedere
di Alessandra Moretti. La pluricandidata Pd autoproclamatasi «Ladylike»: la donna che in politica «deve anche piacere» perché è «bella oltre
che brava». Anni di battaglie femministe buttate al vento o semplice
constatazione di realtà? La polemica infuria. Essere giovani e belle è
un’arma a doppio taglio. Lo sa bene la «giaguara» Maria Elena Boschi.
Vuol parlare di riforme, ma non disdegna i flash né le domande delle
riviste patinate, perlopiù interessate agli amori passati e venturi.
Sono passati 70 anni dacché anche le donne possono votare
e 40 dalla prima ministra in carica. Ma una donna in politica
deve ancora chiedere di essere giudicata per le riforme e non
per le forme. Qualcosa non deve aver funzionato.
Robustelli, linguista: « Quelle che non vengono declinate si ritiene
che siano professioni che dovrebbero fare gli uomini »
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L'INTERVISTA
Il leghista non molla:
« Signora? No, vanitosa»
Simonetti non cambia idea dopo lo scontro con la Presidente della Camera:
«La sindaca, la ministra, la consigliera sono soltanto delle forzature inutili»
Andrea Bulleri, Domenico Di Sanzo e Giorgia Pacino
«Se io sono il signor presidente,
lei allora è la deputata». Così il 20
dicembre scorso la presidente della
Camera Laura Boldrini ha bacchettato l’onorevole Roberto Simonetti
della Lega Nord, reo di averla chiamata per ben due volte «signor presidente» prendendo la parola in aula.
Onorevole, distrazione o provocazione?
«Credo che la declinazione al femminile delle cariche istituzionali non
sia ligia al protocollo, io la vedo così.
La sindaca, la ministra, la consigliera secondo me sono delle forzature
inutili».
Perché?
«Questa è la mia opinione, il presi-
dente Boldrini ne ha un’altra e buonanotte. Direi che è cacofonico: la
sindaca, la ministra, non credo che
da nessuna parte nel mondo vengano declinati al femminile. Poi il rispetto per l’essere donna non è mai
stato messo in discussione, anzi tanto di cappello che una donna possa
essere presidente della Camera, la
Lega aveva proposto la Pivetti».
Il linguaggio non è importante?
«C’è qualcuno che si nasconde
dietro a queste vanità per dimostrare cose che si potrebbero dimostrare
con i fatti e non soltanto con gli articoli. La femminilità non si evidenzia
solamente attraverso la declinazione
di ogni nome al femminile. Secondo
me i meriti, il prestigio si dimostrano sul campo. Tra l’altro presidente è
un sostantivo maschile, se lei va sul
dizionario vede s.m., sostantivo maschile, poi in Italia va bene tutto però
se si mettono i puntini sulle i…».
Perché prendersela tanto?
«Più che altro la mia arrabbiatura era per il fatto che era l’una
e mezza di notte, abbiamo finito
alle 3 di deliberare su una legge di
stabilità con una maggioranza allo
sbando. Poi quando c ’era da vo tare, lei si è impuntata su questo
punto che io trovo del tutto fuori
luogo, che nulla c ’entrava con l’argomento della discussione».
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Quindicinale della Scuola
Superiore di Giornalismo
“Massimo Baldini”
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Ufficio centrale
Giampiero Timossi, Gianni Lucarini
Progettazione grafica e impaginazione
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Redazione
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Reg. Tribunale di Roma n. 15/08
del 21 gennaio 2008
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