Ilva: una storia di fusioni
il de martino
22-23 / 13
antonella de palma
storia e storie
il primo impianto siderurgico a ciclo integrale italiano1 fu costruito a
piombino alla fine del xix secolo. intorno a questa azienda, nata come “società anonima altiforni e fonderia di piombino” e diventata nel 1909 “società
anonima altiforni, fonderie e acciaierie di piombino”, si raggrupparono progressivamente, nei primi decenni del novecento, molte fra le principali imprese siderurgiche italiane; fra queste la società anonima “ilva”, fondata a
genova nel 1905 per la costruzione a Bagnoli, nei pressi di napoli, del secondo centro a ciclo integrale. al capitale sociale dell’ilva parteciparono
“società siderurgica di savona”, “società ligure metallurgica” e “società
degli altiforni, fonderie e acciaierie di terni”, a cui si affiancarono poco dopo
“Ferriere italiane” e “elba - società anonima di miniere e di altiforni”. nel
1911 l’ilva prese la guida del Consorzio omonimo e nel 1918 si fuse con
piombino, dando vita a “ilva - altiforni e acciaierie d’italia”.
divenuta il maggior complesso siderurgico italiano, nel 1937 l’ilva entrò
nell’ambito dell’iri, che provvide a coordinarne l’attività e a promuoverne
lo sviluppo attraverso la società finanziaria siderurgica Finsider. nel 1938
iri e Finsider decisero la costruzione di un terzo stabilimento siderurgico a
ciclo integrale sul litorale di Cornigliano.
dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale oltre il 70% degli impianti a ciclo integrale dell’ilva furono distrutti e quelli di Cornigliano, mai
entrati in produzione, smontati e trasferiti in germania, l’opera della Finsider
riprese, anche grazie agli aiuti del piano marshall e all’appoggio del governo
de gasperi, che approvò il piano di ricostruzione, ammodernamento e specializzazione dell’industria siderurgica ideato dall’ingegner oscar sinigaglia,
già presidente dell’ilva negli anni trenta e poi della Finsider.
il piano, nella sua prima fase, prevedeva lo sviluppo della produzione a
ciclo integrale quale condizione essenziale per ridurre i costi di produzione,
livellandoli a quelli della concorrenza internazionale, e la specializzazione
della produzione negli stabilimenti esistenti.
1
per ciclo integrale si intende il ciclo completo della produzione dell’acciaio a partire dal minerale fino al
prodotto finale nelle sue varie forme, dalle bramme ai rotoli (coils), ai tubi, laminati piani, lunghi eccetera.
pagina 7
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Questo primo programma fu attuato con la ricostruzione di piombino e
Bagnoli e con la costruzione a genova del nuovo stabilimento a ciclo integrale della società Cornigliano, nel quale furono sperimentate le pratiche lavorative e retributive che furono poi applicate a tutti gli stabilimenti del
gruppo (la job evaluation, di cui ci parla Quiligotti, fu introdotta qui nel 1953
e nel 1960 estesa anche a piombino, Bagnoli e taranto).
nel 1961 ilva e Cornigliano si fusero dando vita all’“italsider altiforni e
acciaierie riuniti ilva e Cornigliano s.p.a.”.
l’attuazione del piano portò a risultati immediati e altamente positivi. già
nel 1957 l’italia era salita al settimo posto nella graduatoria dei maggiori produttori siderurgici mondiali. il mercato dell’acciaio, in particolare legato all’industria dell’automobile e degli elettrodomestici, sembrava allora destinato
a un’espansione senza limiti2 e questo avrebbe presto potuto rendere insufficienti le capacità produttive già realizzate. si pose così il problema se continuare a sostenere lo sviluppo del settore con un nuovo e più ambizioso ciclo
di investimenti oppure ricorrere alle importazioni. iniziò un lungo dibattito fra
impresa pubblica (iri) e privata (Falk e Fiat soprattutto) sulla necessità di costruire un quarto centro siderurgico a ciclo integrale da affiancare agli altri tre,
che si concluse con la decisione da parte dell’iri di potenziare gli impianti già
esistenti e di costruire un nuovo stabilimento, più grande degli altri. il nuovo
orientamento dello stato, favorevole agli investimenti nel mezzogiorno nell’industria di base, sancito già dallo “schema di sviluppo dell’occupazione e
del reddito” del ministro del bilancio Vanoni del 1954, ma soprattutto dalla
legge 634 del 1957 che stabiliva l’obbligo per le imprese a partecipazione statale di destinare il 40% degli investimenti al sud, portò alla decisione di localizzare il quarto centro siderurgico dell’industria di stato a taranto.
durante tutti gli anni sessanta la capacità produttiva dei quattro centri
siderurgici triplicò. Cornigliano, che nel 1954 produceva 362.000 tonnellate
annue di acciaio, nel 1965 ne produceva 2.000.000, Bagnoli 1.700.000 e
piombino 1.500.000. taranto, l’ultima arrivata, produceva da sola 4.500.000
tonnellate annue.
anche il numero dei lavoratori aumentò in proporzione: Cornigliano agli
inizi degli anni settanta aveva circa 7.100 addetti, Bagnoli 6.250, piombino
4.800, taranto 13.000. nel 1971 a taranto fu deciso il raddoppio che avrebbe
2
pagina 8
dal 1950 al 1970 il consumo italiano di acciaio registrò un notevolissimo incremento: dai 3 milioni di
tonnellate del 1950, passò ai 6,5 milioni del 1958, ai 13,6 milioni del 1963 e ai 20,3 milioni del 1970; la
produzione passò dai 2,4 milioni di tonnellate del 1950 agli 8,2 milioni del 1960, arrivando a 17,3 milioni
nel 1970. il consumo di acciaio per abitante crebbe dai 65 chilogrammi del 1950 ai 187 del 1960 fino ad
arrivare ai 393 del 1970 (si veda margherita BalConi, la siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo
pubblico e incentivi del mercato, Bologna, il mulino, 1991, pp. 119-125).
portato la produzione a 10,5 milioni di tonnellate annue e il numero dei lavoratori a oltre 19.000.
il de martino
22-23 / 13
nello stesso anno lo stabilimento di piombino fu scorporato dall’italsider
e accorpato alla nuova società acciaierie di piombino, nata con la partecipazione paritetica (al 50%) della Fiat e dell’italsider.
storia e storie
nel 1975 la siderurgia europea entrò in crisi. la profonda recessione
fece emergere gli errori dei grandiosi piani di sviluppo, fra i quali quello,
non attuato, della costruzione del quinto centro siderurgico a gioia tauro e
la cattiva gestione di manager sempre più dipendenti dai partiti politici. in
questo contesto, nonostante l’occupazione nell’industria siderurgica continuasse a crescere fino alla fine degli anni settanta, l’italsider, nel quadro di
crescenti difficoltà del settore a livello comunitario, fu mal gestita e conobbe
enormi perdite.
Cornigliano e Bagnoli conobbero importanti quanto tardive ristrutturazioni, che non sarebbero mai state in grado di ripagare.
a partire dalla metà degli anni ottanta iniziò una fase di drastico ridimensionamento del gruppo e contestualmente si avviò un processo di privatizzazione.
in questo quadro l’area fusoria di Bagnoli, appena rifatta con le migliori
tecnologie, fu sacrificata e con essa tutto lo stabilimento fu avviato a inesorabile chiusura, in nome di un nuovo presunto assetto economico che “liberando” l’area occupata dall’italsider, dopo opportune bonifiche del territorio
inquinato da quasi cento anni di industria pesante, avrebbe dovuto dare sviluppo al turismo e al terziario avanzato. sugli sviluppi della vicenda Bagnoli
rimandiamo al saggio di maria antonietta selvaggio qui pubblicato.
l’area fusoria dello stabilimento di Cornigliano fu ceduta, nel 1985, al
Cogea (Consorzio genovese acciaio), che due anni dopo si sciolse per lasciare spazio alla nuova società “acciaierie di Cornigliano”, per il 51% di
riva, che ne assunse la gestione.
nel 1988 anche le altre società della Finsider furono messe in liquidazione, tra cui l’italsider (che nel frattempo era diventata nuova italsider), la
nuova deltasider e terni acciai speciali che si fusero in una nuova società,
riprendendo il nome ilva.
di fronte ad una crisi sempre più evidente, nel settembre 1993 il Consiglio
di amministrazione dell’ilva varò un progetto di scissione in due nuove società:
ilva laminati piani, comprendente gli stabilimenti di taranto, genova, novi ligure e torino (divisione laminati a freddo) e acciai speciali terni, comprendente gli stabilimenti di terni e torino (divisione inossidabili).
lo scopo principale della scissione era quello di preparare le due nuove
società ad una rapida privatizzazione, scaricando ancora una volta i debiti
accumulati sulle spalle dello stato italiano.
pagina 9
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
l’operazione di privatizzazione fu completata nel 1995, quando l’intero
capitale dell’ilva laminati piani venne ceduto al gruppo riva. due anni dopo
la società ilva laminati piani assunse l’attuale denominazione ilva s.p.a.
Qualche anno prima, nel 1992, l’acciaieria di piombino era stata ceduta
al gruppo lucchini. la siderurgia pubblica sopravvissuta allo smantellamento era stata completamente privatizzata.
a partire dalla metà degli anni ottanta, quando ancora l’industria siderurgica a ciclo integrale era di stato e si chiamava italsider, il problema dell’impatto della produzione a caldo sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori
e dei cittadini, già sentito da tempo, diventò pressante.
a genova, sotto la spinta del Comitato salute e ambiente e delle “donne
di Cornigliano”, crebbe sempre più forte la volontà di superare la siderurgia
a caldo, sostituendola con attività meno inquinanti. una lotta lunga vent’anni,
fatta propria da una parte del sindacato e che ha coinvolto anche la magistratura che, infine, ha decretato la chiusura dell’area fusoria. dal 2005 a genova
non esiste più produzione a caldo.
emilio riva, nuovo padrone dell’acciaieria, nel 2007, «intervenendo all’inaugurazione dell’infopoint che, nella ex mensa dello stabilimento, voleva
essere il luogo di elaborazione delle idee di cosa fare di quasi cinque ettari
di terreno da restituire alla città, ammetteva: “riconosco che nel centro di
genova un altoforno e una cokeria, in questo momento, non possono esistere.
scusate se qualche volta, anzi molte volte, abbiamo avuto degli scontri”»3.
nel frattempo la produzione a caldo è continuata a pieno ritmo nello stabilimento di taranto e con essa lo stesso padrone ha colmato anche le necessità derivanti dallo smantellamento di genova. Con cinque altiforni (in realtà
quattro perché uno è fermo da tempo) e dieci batterie di cokeria.
nel 2012 anche a taranto è intervenuta la magistratura, imponendo l’adeguamento ambientale della fabbrica. tutto quello che è accaduto a partire
dal 26 luglio dello scorso anno, giorno in cui è stata firmata l’ordinanza di
sequestro degli impianti più inquinanti e fermo della famiglia responsabile
del disastro ambientale e di alcuni capi dello stabilimento, fa parte della cronaca, compresa la disgregazione del sindacato che non è stato in grado di
gestire adeguatamente i nuovi eventi.
3
pagina 10
donatella alFonso, Cornigliano, così le donne hanno risolto l’eterno scontro tra ambiente e lavoro,
«la repubblica», 8 ottobre 2012
In nome del profitto. Taranto e la “sua” fabbrica*
il de martino
22-23 / 13
antonella de palma
storia e storie
“ilva”, “italsider”, ma anche “italsidér” con l’accento sulla “e”, “siderurgico” (sovente deformato in “sitellurgico”, con una “s” pronunciata quasi
come una “z”), “casa grande”, “crepiente” (il luogo dove si crepa), “acciaieriapiùgrandedeuropa” (oggi pronunciato con orgoglio o con sconcerto, a
seconda che si sia al governo o fra la popolazione tarantina): sono i tanti
nomi e appellativi che a taranto ha preso il iV centro siderurgico a ciclo integrale voluto dall’iri. una storia lunga cinquant’anni che ha segnato indelebilmente il territorio tarantino, fino alle cronache più recenti.
non è facile raccontarla. Come mi hanno più volte ripetuto i lavoratori
con cui ho parlato in questi anni di ricerca sul campo sulla storia operaia di
taranto: «se non ci sei stato dentro non la puoi capire. sarà difficile darvi
l’esatta dimensione di cos’è quella fabbrica».
Le esatte dimensioni della fabbrica
le uniche dimensioni esatte della fabbrica che si possono dare sono
quelle che riguardano gli impianti.
un’estensione di 1.500.000 metri quadrati. una rete ferroviaria lunga
200 km, 50 km di strade, 190 di nastri trasportatori per il minerale; 2 cave e
impianti per la produzione di calcare e dolomite; 5 altiforni; 2 acciaierie con
convertitori ld e 5 colate continue; 1 cokeria con 10 batterie per un totale
di 442 forni; impianti di laminazione a caldo e a freddo; 3 treni di laminazione a caldo (di cui 2 per la produzione di nastri ed 1 per la produzione di
lamiere); 1 laminatoio a freddo; 2 tubifici longitudinali, 1 tubificio a resistenza elettrica e 6 impianti di rivestimento tubi; impianti per la produzione
di gas tecnici (ossigeno, azoto e argon); 3 moli portuali per lo scarico delle
materie prime e 3 per la spedizione di prodotti finiti e deposito materie
*
il Centro siderurgico di taranto viene qui chiamato “italsider” e “ilva”. sono i due nomi di una stessa
fabbrica che nacque nel 1960, a partecipazione statale, come ilva, si trasformò in italsider e poi ridiventò
ilva. per semplificazione chiamo italsider la fabbrica pubblica (1960-1995) e ilva quella privata (dal 1995
ad oggi).
pagina 11
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
prime; impianto preparazione materie prime (frantumazione, vagliatura,
omogeneizzazione); 2 linee di agglomerazione; officine; uffici e altri servizi
ausiliari.
al 2010 i lavoratori diretti erano 11.7201. oggi, il numero è più o meno
uguale.
Questa è l’ilva di taranto.
Il Iv centro siderurgico approda a Taranto
la storia tarantina dell’ilva incominciò alla fine degli anni Cinquanta,
quando «l’industria siderurgica italiana, per poter resistere all’accentuata
concorrenza derivante dalla completa attuazione del mercato comune nel settore carbosiderurgico e per soddisfare i crescenti fabbisogni di acciaio del
nostro paese, senza dover ricorrere all’aumento delle importazioni»2 si trovò
nella necessità di ricorrere al potenziamento dei tre centri siderurgici già esistenti a Bagnoli, piombino e Cornigliano e «di procedere rapidamente alla
costruzione di un nuovo grande centro siderurgico a ciclo integrale»3. in considerazione della necessità di sviluppo industriale del mezzogiorno, si dispose di ubicare il nuovo centro «preferibilmente nei pressi di taranto»4.
Cosimo (Mimmo) D’Andria5: «i politici dell’epoca promisero questo stabilimento a quasi tutte le località del sud, perché la fame di lavoro era talmente tanta, i nostri ancora emigravano verso il nord, verso i paesi oltre
confine, tant’è che c’era la battuta che torino era la più grande città della
puglia, all’epoca. alla fine la scelta cadde su taranto: i politici dell’epoca, i
monfredi, i mazzarino, i leone6, anche i comunisti, tutti si sono attribuiti il
merito. eravamo tutti d’accordo. perché? perché prima l’arsenale: grande
occupazione, una risposta ai problemi occupazionali della città. Va in crisi
l’arsenale perché finisce la guerra, vanno in crisi i Cantieri navali, si comincia a parlare della siderurgia. il destino di taranto è sempre stato legato alla
monocultura, in definitiva. e quindi tutti si battevano perché venisse scelta
pagina 12
1
di cui 9.629 operai, 1.116 impiegati, 838 categorie speciali, intermedi, 137 quadri e dirigenti. le donne
sono solo 45, di cui 33 impiegate e 12 operaie, per lo più addette alle pulizie civili. l’85% dei lavoratori
proviene da taranto e dalla sua provincia, il 35% dal solo capoluogo (dati aggiornati al dicembre 2010,
fonte: ilva).
2
eugenio peggio, Polemiche sul quarto centro siderurgico e problemi dell’industrializzazione del Sud,
«politica ed economia», anno iii, n. 7, luglio 1959, p. 8.
3
Ibidem.
4
Ibidem.
5
Cosimo d’andria (1934), operaio Cantieri navali di taranto e poi italsider, sindacalista Fim-Cisl, intervista
del 24.01.06.
6
esponenti dell’epoca della democrazia cristiana locale.
taranto e tutti si battevano perché venisse fatto da un’altra parte com’era
stato promesso, insomma. era stato promesso dappertutto».
per capire la posizione che ebbero allora la sinistra e la Fiom, riporto un
frammento di un’intervista con Vittorio Foa7, trascritta da una trasmissione
televisiva su taranto di cui, purtroppo, non conosco né titolo né data di messa
in onda.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
allora ero sindacalista, facevo parte già da ragazzo del mondo della
sinistra, e per noi per l’emancipazione del mezzogiorno, se si voleva
evitare un’emigrazione faticosa o ridurre la portata dell’emigrazione
da sud a nord o da sud all’estero, bisognava creare fonti di lavoro
nel sud. le fonti di lavoro erano da un lato il rinnovamento dell’agricoltura, ma dall’altro lato soprattutto l’industria. Bisognava
andare avanti, costruire fabbriche. Questa era una mentalità che ha
caratterizzato, poi, buona parte di alcuni settori del mondo industrializzato, siano capitalistici siano comunistici: la superiorità assoluta dell’industria e in qualche modo un certo disprezzo, una certa
disattenzione per i problemi dell’ecologia, della salvaguardia della
salute e anche per quello di grande rilievo, per il paesaggio, che è
il mondo che vediamo, il mondo in cui si cresce, in cui si vive.
Maria Pavese8: «noi abitavamo ancora alla città vecchia quando si diceva: deve venire una grande fabbrica, taranto diverrà una grande città,
come milano, come torino, con migliaia di operai. allora alla sezione [del
pci] della città vecchia organizzammo la raccolta di firme per far venire a
taranto questa sventura, perché era destinata a Bari».
in realtà, la scelta di taranto non fu tanto determinata dai grandi proclami
e battaglie che venivano da tutte le parti del mondo politico e anche dalla
Chiesa tarantina il cui arcivescovo, guglielmo motolese, era molto attento
ai problemi e alle richieste della sua comunità pastorale, quanto piuttosto da
fattori tecnici. a taranto esistevano le condizioni ottimali per l’insediamento.
l’industrializzazione di taranto, infine, rientrava nella politica di industrializzazione per poli di sviluppo del sud in generale e della puglia in particolare, che assegnava ai territori di Foggia e Bari la meccanica, a Brindisi la
petrolchimica e a taranto la siderurgia.
7
Vittorio Foa (torino 1910-2008), in quegli anni era segretario nazionale della Fiom. insieme all’avvocato
parlapiano, presidente della Camera di commercio di taranto, e agli onorevoli napolitano, assennato e
Candelli presentò al ministro delle partecipazioni statali, lami starnuti, una risoluzione, frutto dell’«assemblea per l’impianto siderurgico, l’industrializzazione e lo sviluppo economico della puglia» tenutasi
il 14 dicembre 1958, in cui di fatto si chiedeva la modifica del programma dell’iri per il quadriennio 1959’62 in pieno rispetto del 40% di stanziamenti previsti per il sud e si rivendicava la creazione di un nuovo
centro siderurgico a ciclo integrale e l’impostazione di un organico programma per l’industria di stato da
far sorgere in puglia.
8
maria pavese (taranto 1938), casalinga, militante del pci, intervista del 5.01.08.
pagina 13
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
pagina 14
Cosimo D’Andria: «Furono i tecnici per ragioni oggettive a scegliere taranto. nasceva uno stabilimento che aveva una caratteristica particolare. non
c’era da nessuna parte uno stabilimento di quelle dimensioni tutto assieme.
Facevano nascere alcuni reparti, poi ne aggiungevano altri. Qui invece si è
progettato uno stabilimento che doveva fare tre milioni e mezzo di tonnellate
di acciaio. se si pensa che piombino, Cornigliano e Bagnoli avevano due altiforni… Questo doveva nascere già con tre altiforni, completo, con cokerie,
acciaierie, tutto. C’era bisogno, quindi, di una grande estensione di terreno.
poi, tutti gli stabilimenti siderurgici devono nascere per forza o a bocca di miniera o sul mare, perché hanno bisogno di approvvigionarsi di materie prime,
quando non se ne hanno a disposizione in prossimità. allora, in italia sono
tutti sul mare e, tra l’altro, hanno scelto le zone migliori per costruirli, perché
se si pensa a Cornigliano hanno scelto la riviera di ponente, che va verso pegli,
sanremo… Cornigliano era bellissima. se si pensa a Bagnoli: i Campi Flegrei;
piombino è nel paese… Quando si è costruito a taranto, non si aveva la cultura ecologica, ambientalista, l’avremmo accettato anche se, con una battuta,
l’avessero fatto al centro della città. si è fatto a una certa distanza. era il tratto
più breve per prendere l’acqua dal mar piccolo. l’ilva prende enormi quantità
di acqua dal mar piccolo, che viene desalinizzata, portata, attraverso un tunnel
enorme che attraversa i tamburi, in stabilimento, raffredda gli impianti, poi
viene trattata e attraverso due canali enormi che si sono creati, va a finire in
mar grande. Questo è un aspetto. l’altro aspetto è che, siccome la siderurgia
integrale incomincia dai minerali, i minerali devono stare, con i parchi minerali, davanti alle preparazioni minerali, davanti alle cokerie, davanti all’altoforno, cioè, voglio dire, poi viene l’acciaieria e man mano, fino ad arrivare
alla finitura del nastro… la parte più vicina al mare era quella del molo san
Cataldo perché in linea d’aria, facendo un nastro per portare i minerali dal
mare allo stabilimento, quella era la più breve. oggi diciamo che si poteva
fare in un modo diverso, spostare di più lo stabilimento, invertire il processo
di lavorazione, portare di qui la parte a freddo e di là la parte a caldo, ma non
c’erano moli, mentre il san Cataldo era già pronto. la scelta fu subito quella
e fu una scelta dettata essenzialmente dalla convenienza tecnica. diciamo che
c’erano tutti i presupposti per poterlo fare velocemente e avevano tutte le condizioni per fare quello che voleva il progettista».
- Quindi non è vero che prima si pensava ad altri posti.
Cosimo D’Andria: «assolutamente no. se lei legge la storia, i politici
dell’epoca, ma di tutto il sud, tiravano ognuno l’acqua al loro mulino, però
la ragione per cui è nato è quella. taranto ha avuto la fortuna, grandi speranze, la nascita di questo stabilimento…».
Maria Pavese: «allora: mare, terra e ferrovie, tutto sulla stessa traiettoria.
si sono insediati e ci hanno salutati. Basta».
il nuovo colosso industriale aveva bisogno, per nascere, di una superficie
di circa 600 ettari. all’epoca la città vecchia e la città nuova assieme occupavano poco meno di 120 ettari; includendo il borgo occidentale (i tamburi)
e il borgo orientale (che dall’arsenale arriva a magna grecia, ma che per
buona parte, all’epoca, era ancora campagna) si arrivava a circa 950 ettari.
dopo vari sopralluoghi fu scelta una zona a nord della città, compresa
fra il porto mercantile, la via appia, la strada statale per statte, dove c’era
anche una cava di calcare, fondamentale per il funzionamento degli impianti.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Luca Dicorato9: «io stavo di servizio al casello quando arrivò la commissione: erano due o tre ingegneri che venivano da roma per vedere la
zona dove appoggiare questo stabilimento. e vicino a me rimase il loro autista. gli dissi: “Chi sono quelli?” “no, niente, devono vedere la pianta, dove
piazzare i tubi di scarico che devono uscire a mare”. stavano facendo il tracciato per piazzare l’italsider».
l’area, che con la cava raggiungeva i 1.000 ettari, era distante 5 chilometri dal centro di taranto; una distanza che, secondo l’italsider, sarebbe
stata «ampiamente sufficiente ad assicurare una completa indipendenza tra
la necessità di sviluppo dello stabilimento e della città, ma allo stesso tempo
non tanto elevata da rendere onerosi o difficili i collegamenti e il movimento
del personale»10. Cinque chilometri dal centro della città, ma poche centinaia
di metri, in alcuni punti addirittura qualche decina, dal rione tamburi.
il quartiere aveva iniziato a svilupparsi all’inizio del novecento quando,
data la sua vicinanza alla ferrovia e ai Cantieri navali tosi, sorsero alcuni
insediamenti operai. Qualche masseria, case minime e case popolari; poi le
case del fascio, vari gruppi di baraccamenti militari in località ausonia, orsini, galeso, che nel dopoguerra furono abitate dai più poveri; gli alloggi
del piano Fanfani con l’intervento ina casa e, ancora, case gescal e iacp in
cui si trasferirono molte famiglie dalla città vecchia. una scuola, due chiese
e un cinema, il Castellano. Questo è il profilo urbanistico dei tamburi alla
fine degli anni Cinquanta. tutto intorno, aree agricole classificate a buona e
alta produttività, per la maggior parte costituite da vigneti, oliveti, aranceti
e seminativi, con molte piccole e grandi costruzioni rurali.
sul versante ovest, lungo il mar grande in direzione metaponto, si
estende l’area agricola dei Caggioni (definita “di interesse eccezionale” dal
piano regolatore territoriale dell’area di sviluppo industriale, redatto nel
9
luca dicorato, (margherita di savoia 1921-taranto 2008), ferroviere. all’epoca lavorava al casello situato
lungo la taranto-Bari, al km. 2 da taranto e 111 da Bari. intervista del 19.01.07.
10
mario pomilio, L’acciaio tra gli ulivi, in Italsider Taranto. L’acciaio tra gli ulivi, genova, italsider,
1963, p. 44.
pagina 15
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
1963), poi la “zona di interesse paesaggistico e turistico” (sempre secondo
lo stesso piano) di lido azzurro e pino solitario.
Enzo Quazzico11: «Quando eravamo piccoli noi andavamo a giocare [...]
a piedi verso la zona dei Caggioni. C’era una masseria rossa e poi tutte le
altre masserie. alla torre pizzalonga, dove sta la raffineria12, là era un paradiso, pieno di masserie fino alla zona dell’ilva, tutto pieno di alberi di ulivo,
che poi la costruzione dell’ilva ha buttato tutto a terra. i contadini ci facevano
mangiare la frutta dei Caggioni, sai quanta ne abbiamo portata a casa? Che
poi i contadini non erano come adesso, che pigliano il fucile e ti sparano, allora socializzavano. e noi tante volte davamo in cambio una busta di sardine,
una busta di cozze, che la zona di rondinella, dove hanno fatto lo scarico
dell’ilva, era il mare più ricco di pesce di tutta taranto. là era tutto alghe e
arena, si pigliavano degli scorfani che facevano paura solo a vederli. poi esisteva ’a bariscedde13 il più bel frutto che stava. le trovavi pure alte così. noi
lo chiamavamo ’u ruecchele ed era la cosa più saporita da mangiare. pure i
contadini lo conoscevano. e lì era il mare più ricco di scorfani, voscele, tutto
il pesce azzurro, mio padre basta che batteva la mano [sul fianco della barca]
e si prendeva la faloppa. Basta che tu mettevi le mani nel mare: o cannolicchi
o noci. e basta che ai contadini portavi dieci noci, te ne facevano mangiare
di frutta! ti posso dire che quando andavamo ai Caggioni si fermava l’orologio, era una zona bella bella bella! a chi dobbiamo chiamare criminale?
era una zona che era un paradiso: là sono andati a fare lo scarico dell’ilva».
Maurizio Sarti14: «l’industrializzazione ha schiantato la parte ovest. una
volta lì c’erano due stabilimenti, lido azzurro e pino solitario, che se io dovessi immaginare qual era o quale potrebbe essere una forma di paradiso terrestre penserei a quella roba. lì dove c’è lo sbocco deviato del fiume tara,
perché lì dove sboccava adesso c’è il molo polisettoriale che ha chiuso tutto
e quindi è stato deviato il corso».
Luca Dicorato: «hanno spiantato tutte le piante che stavano. era un giardino, tutta quella zona dell’italsider. C’era un albero di ulivo che ci stavano
dieci persone sotto quando pioveva. era tutto vuoto dentro e serviva da riparo
quando pioveva, talmente che era grosso, secolare».
pagina 16
11
enzo Quazzico (taranto 1952), pescatore poi operaio della ditta Cimi, militante di lotta continua, intervista del 17.01.06.
12
l’attuale raffineria eni, un altro dei siti industriali ad alto rischio ambientale presenti a taranto (sono ben
nove). Fu costruita contemporaneamente all’acciaieria. allora si chiamava shell e la sua fiamma perenne
ci rendeva molto orgogliosi, tanto quanto i fumi dell’italsider, che riempivano il cielo e significavano
progresso e benessere.
13
pinna nobilis.
14
maurizio sarti (ravenna 1942), operaio specializzato italsider, militante del pci, intervista del 12.03.07.
la costruzione dell’ilva procedette per tappe, a suon di vendite e di
espropri di terreni agricoli di alto pregio: il 15 ottobre 1961 entrò in funzione
il primo tubificio; nel 1964 fu avviato il primo altoforno. la capacità produttiva era, allora, di 3 milioni di tonnellate annue, aumentata a 4,5 nel 1971
e a 10,5 nel 1975 (anno di conclusione del raddoppio dello stabilimento).
il personale passò dai circa 6.000 del 1964 (termine della prima fase di
costruzione), a 13.046 del 1971 (termine della seconda fase) e a 19.527 al
termine del raddoppio15. l’occupazione massima l’italsider la raggiunse nel
1981, quando toccò la punta di 21.791 lavoratori diretti16.
dopo la privatizzazione, avvenuta nel 1995 con la cessione al gruppo riva,
impianti e dimensioni dello stabilimento sono rimasti sostanzialmente gli stessi.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Lavoratori
Nicola Taurino17: «i compagni se ne andavano all’estero o a torino o a
milano a lavorare. perché a taranto c’era la crisi del lavoro. Come oggi. allora
ognuno se ne andava e quindi quando sono venute le ditte a taranto, classe
operaia a taranto… era una città operaia, perché la classe operaia del Cantiere
un sommergibile al mese faceva. C’era una classe operaia che ti dava l’impressione di fare maestranza, ma maestranza non indifferente. anche l’arsenale. ma poi, con questa crisi del lavoro, ognuno… a taranto quando sono
arrivate le imprese non hanno trovato una classe operaia specializzata, hanno
trovato un po’ di manodopera. allora se la sono portata da fuori».
nel 1966 la Ceca commissionò ai sociologi guido Baglioni, gian primo
Cella e Bruno manghi una ricerca sulle maestranze dello stabilimento siderurgico di taranto18, che ne delinea un quadro molto accurato. riguardo alle
assunzioni e alla composizione della manodopera di quel periodo, si legge:
15
di cui 15.105 operai, 626 categorie speciali, 3.713 impiegati (dei quali 188 laureati), 83 dirigenti. l’età
media è di 33 anni. il 50% viene dal comune di taranto, il 43,7% dalla provincia di taranto e il restante
dal resto della regione. solo pochissimi vengono dalle province di matera, Cosenza, napoli e da altre
province d’italia (fonte: italsider). Questi dati fanno riferimento solo ai dipendenti diretti. a questi vanno
aggiunti 15.379 dipendenti delle ditte appaltatrici.
16
a cui vanno aggiunti gli 11.427 degli appalti, per un totale di 32.218 (Fonti: ilVa - staBilimento di taranto, Rapporto ambiente e sicurezza 2009, taranto 2009, p. 16 per il numero dei diretti e patrizia Consiglio e FranCesCo laCaVa, Il caso Taranto. Sviluppo economico, lotte sociali, democrazia in fabbrica,
roma, ediesse, 1985, p. 289 per il numero dei lavoratori dell’appalto).
17
nicola taurino (taranto 1922-2010), operaio arsenale, militante pci e Fiom, intervista del 16.02.07.
18
Commissione delle Comunità europee, Comunità europea del CarBone e dell’aCCiaio, Ricerca
sulle nuove aziende siderurgiche. Le maestranze dello stabilimento Italsider di Taranto. Atteggiamenti
operai e lavoro siderurgico, ricerca sociologica condotta da guido Baglioni, gian primo Cella, Bruno
manghi per l’istituto per gli studi sullo sviluppo economico e il progresso tecnico (isvet) di roma, 2
voll., febbraio 1968.
pagina 17
le assunzioni, iniziate nel 1960, hanno avuto la più elevata espansione nel periodo 1963-‘65 per gli operai e nel biennio 1962-‘63 per
gli impiegati.
il reclutamento della manodopera è stato favorito dalle larghe disponibilità di offerta del mercato del lavoro locale e nazionale:
l’azienda, infatti, ha ricevuto più di 75.000 richieste di assunzione.
la selezione – per gli operai – è avvenuta sulla base di tre criteri
fondamentali: età compresa fra 18 e 35 anni, istruzione minima (licenza di v elementare), requisiti fisici ed attitudinali; le larghe carenze di preparazione professionale e di esperienza siderurgica degli
operai assunti hanno indotto l’azienda a programmare e realizzare
un’ingente attività di formazione tecnica ed addestramento professionale in loco e in altri centri siderurgici19.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
i 4/10 degli operai italsider provengono dal settore industriale, gli
altri quasi tutti dall’edilizia e dai servizi (specie il commercio).
Ciò non νuol dire che essi avessero una buona esperienza di lavoro
industriale e di aziende organizzate: spesso si trattava di occupazioni
in modeste unità produttive del settore industriale o dei settori terziari. C’è comunque un dato significativo: solo il 4,7 proviene direttamente dall’agricoltura; ciò vuol dire che, nel caso dell’italsider,
non si è assistito al normale passaggio (normale nei periodi di mobilità territoriale ed occupazionale) di manodopera dal settore primario all’industria20.
Cosimo D’Andria: «lo stabilimento deve partire con un certo numero
di dipendenti che devono essere quelli che poi devono avere la responsabilità,
devono diventare dirigenti e allora cominciano a fare delle selezioni. Queste
selezioni le fanno anche all’interno dei Cantieri navali. per cui anche io sono
sottoposto a selezione e dai Cantieri navali in sette, il 1° settembre del ‘60
siamo stati assunti all’ilva. all’epoca si chiamava ilva, perché piombino e
Bagnoli si chiamavano ilva. poi, dalla fusione di questi stabilimenti con Cornigliano nacque l’italsider, poi è tornato ilva. assieme a noi altri tarantini,
giovani, avevano fatto la selezione e il 2 settembre del ‘60 siamo partiti per
Cornigliano, dove dovevamo andare a fare l’addestramento. perché nessuno
pagina 18
19
Ibidem, vol. i, p. Vi.
20
Ibidem, vol. i, p. xV. in un’intervista pubblicata su «il sole 24 ore» del 3 agosto 2012, Bruno manghi ha
ripreso l’argomento: «taranto è sempre stata una città industriale. ancora prima della siderurgia. l’arsenale
aveva qualcosa come 13mila dipendenti. Qui la cantieristica navale ha prodotto 300 sottomarini da guerra.
per realizzare navi e sottomarini, una figura professionale centrale era il saldatore. le mani e la testa delle
persone, dunque, sono sempre state orientate al lavoro di fabbrica. l’industria è spesso nata con gli arsenali
militari. È successo, per esempio, anche a torino. dunque, la siderurgia di stato non venne impiantata a
freddo su un corpo agricolo e dedito alla pesca e all’allevamento, come vorrebbe una certa oleografia ecologista. no, affatto. l’ambiente era favorevole all’industria. Certo, vennero fatti rientrare dall’estero un
centinaio di persone, per lo più pugliesi e lucani, che lavoravano nelle acciaierie della lorena e del Belgio.
a questi si aggiunsero i mille tarantini che a più riprese furono mandati a genova, per la formazione classica del mondo iri. si tratta di una storia degna, la cui cultura industriale non si è dispersa, nonostante il
progressivo deterioramento del rapporto con la politica».
aveva la mentalità siderurgica all’epoca. entro il mese di ottobre eravamo
diventati quaranta».
- Tutti tarantini?
Cosimo D’Andria: «no, cominciano ad assumere anche da altre parti.
poi si fa un corso di inglese, per cui questo gruppo va in america perché va
a fare un addestramento su un tubificio, che si trovava nell’utah21, che era
un gemello di quello che si trovava a taranto. siamo tornati a taranto nella
primavera del ‘61 e abbiamo cominciato.
Quando siamo arrivati noi il capannone era già pronto; un’altra ditta
dell’ilva, che era di marghera, stava facendo il montaggio del tubificio, dei
macchinari, che nel frattempo stavano arrivando tutti i macchinari sul molo
san Cataldo, con le navi dall’america. e quindi si era cominciato a lavorare.
noi siamo stati messi ad affiancare questi di marghera per renderci conto,
per dare una mano, perché dovevamo essere quelli che, alla fine, dovevano
gestire il tutto. nel giugno ci furono altre assunzioni, per cui diventiamo
un’ottantina i dipendenti dell’ilva. [...] io ero numero 7 di cartellino perché
eravamo in ordine alfabetico, c’erano alcuni Blasi, albano prima di me. il
primo era albano… tra l’altro questo qui ebbe un incidente tremendo nel
‘63 e fu fulminato sul 90% della superficie corporea. [...] siccome avevano
bisogno di molti lavoratori, allora, facevano delle selezioni. loro avevano
bisogno di due figure di lavoratori: quello che aveva il mestiere e quello che
non aveva nessun mestiere. allora quello che non aveva nessun mestiere era
quello che veniva dalla campagna. Quelli che dovevano diventare operai
specializzati sono stati tutti mandati in addestramento a Cornigliano, a piombino; sono stati fino a 1.400 quelli in addestramento. perché? per acquisire
la mentalità siderurgica. Voglio dire: un tornitore non può andare sull’altoforno, quello sa fare il tornitore. sono rientrati tantissimi dei Cantieri navali,
compreso alcuni miei fratelli, che stavano a torino, che avevano il mestiere,
perché all’ilva serviva pure la grande officina per le manutenzioni, mentre
per l’esercizio servivano quelli che non avevano fatto mai un’esperienza lavorativa, perché era più facile farli diventare addetti alla cokeria, addetti all’altoforno, dove sono le macchine che definiscono il processo di lavora21
Fino alla metà degli anni sessanta il modello di conduzione d’impresa applicato all’italsider rimase quello
delle grandi imprese siderurgiche statunitensi, con le quali erano stati allacciati rapporti di consulenza e
furono poi stabilite partecipazioni societarie. dalla seconda metà degli anni sessanta, invece, si impose
il modello giapponese. Come l’italia, il giappone importa la maggior parte delle materie prime necessarie
alla produzione dell’acciaio. la siderurgia giapponese dell’epoca vantava l’adozione delle più avanzate
tecniche in materia di fabbricazione della ghisa e riuscì a produrre acciaio di buona qualità ai costi più
bassi conosciuti. Fu così che a taranto cominciarono, dal 1967, ad arrivare tecnici giapponesi, che vi abitarono per periodi più o meno lunghi, e da taranto partirono delegazioni per il giappone per imparare le
tecniche di produzione (cfr. margherita BalConi, La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo
pubblico e incentivi del mercato, Bologna, il mulino, 1991, p. 136 e la rivista italsider «taranto notizie»,
anno Vi, n. 4, aprile 1966, p. 5).
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
pagina 19
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
zione. la cokeria deve sfornare, adesso, ogni venti ore, diciamo, o l’altoforno
deve fare una colata ogni quattro ore. non è che il lavoratore può decidere
di farle diventare tre ore e tre quarti o quattro ore e cinque. È tutto computerizzato e deve fare quello. sono i tempi stabiliti».
Emanuele Palmisano22: «durante il periodo di lavoratore occasionale [al
porto], siccome che si faceva la fame, parecchi compagni del sindacato
[Fiom] mi dissero: “Vieni a lavorare con noi in qualche ditta, che là c’è uno
spiraglio”. riuscirono a farmi assumere alla Cimi, il 18 novembre 1963, ma
me ne scappai. Vidi delle cose bruttissime. operai che facendo i capannoni
a 80, 90 metri di altezza addirittura senza cinta, sui tavoloni… Quando io
fui assunto, essendo che ero lavoratore portuale occasionale, mi fecero avere
la categoria di operaio e facevo l’imbragatore, praticamente, e giravo per
tutta l’italsider. allora vedendo queste cose… anche io facevo un lavoro rischioso, pericoloso, però c’era una certa attenzione. là all’italsider era una
giungla, ditte che lavoravano da sopra, ditte che lavoravano da sotto. Cose
brutte proprio. dopo due settimane dissi: “non è per me. È una cosa brutta”.
mi licenziai e tornai a lavorare al porto».
Teresa Basile23: «io lavoravo già da d’addario. me ne andai via di là
per andare all’italsider, perché era sicuro. là era ditta privata, questa era
l’italsider… arrivava questa azienda grande ed era un fortuna essere prese.
io feci la domanda, avevo trent’anni e più, e feci la selezione. Fui una delle
prime, bisognava scrivere a macchina, ricordare i numeri del telefono, quelle
cose, e fui subito presa. avevo la matricola 56».
Francesco (Ciccio) Maresca24: «io sono stato operaio all’italsider dal 26
marzo del ‘69 fino al 23 gennaio del 2000. trentuno anni.
provengo da una situazione personale in cui praticamente mi arrangiavo
a lavorare, perché taranto è storicamente una città in cui ci si arrangia. [...]
passare da un’attività tipo fare il cameriere nei ristoranti, fare il montatore
elettrico nelle costruzioni nuove, questo era il livello di tanti giovani di allora,
l’arrangiarsi per potersi comprare le sigarette, per potersi staccare dalla famiglia, entri in fabbrica e ricevi un pugno nello stomaco. [...] durante il corso
ci portarono a visitare lo stabilimento e ci portarono in uno strano posto.
Cos’era? era la cokeria. Che era una cosa infernale, perché ci fanno salire
sopra e c’erano fumi di tutti i colori, c’erano fumi grigi, fumi rossi, fumi blu.
“Ma ce jé aqquà? Addò n’honne purtate? Aqquà amme vené a fatià?”. per-
pagina 20
22
emanuele palmisano (taranto 1935), lavoratore Compagnia portuale neptunia, militante del pci, intervista
dell’8.10.09.
23
teresa Basile (taranto 1930), impiegata italsider, intervista del 26.10.07.
24
Francesco maresca (taranto 1947), operaio italsider, delegato Fiom, intervista del 24.07.05.
ché siccome eravamo molto giovani, io avrò avuto 20 anni, avere questo impatto con questi impianti che fanno tutte queste cose e poi impianti colossali,
di una dimensione inimmaginabile… poi ci portarono all’altoforno, dove
l’impatto fu minore rispetto alle cokerie. perché l’altoforno ti dà l’impressione di una festa patronale con i fuochi di artificio, quando fa la colata è
bellissimo… e quindi un impatto violentissimo. io avevo fatto il corso, mi
avevano fatto fare i pezzi squadrati con una piastra e col minio per vedere
dove dovevi limare per farlo diventare… il calibro a tampone che serve per
misurare la profondità. andiamo lì. dovevamo prendere una misura di una
difensa di un motore che era scoperto. allora, mi dicono: “Vai dall’operaio
più vecchio”. un anno di stabilimento teneva, figurati! “Miche’, e ’u metre?”
“C’hé fa’?” “Amme pigghia’ le misure d’u cose!” “’U metre? ’U spaghe hé
pigghia’!”. uno stabilimento tecnologicamente impressionante e passare da
una situazione in cui dovevi fare tutto centellinato, con calibro, minio, a una
situazione… tu non immagini che possa esistere una cosa del genere».
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Giovanni Angelini25: «nel ‘70 finii la scuola, ero perito industriale,
quindi dentro casa: “o mi danno 250.000 lire o io lavorare non ci vado” perché mi ritenevo, sai, già bello che pronto. io dico quello che sentivo allora.
mi rendo conto che vivevo completamente sulle nuvole.
riuscii a entrare in un’azienda d’appalto dell’italsider, a fare il frigorista.
due giorni di lavoro. immediatamente scappai. immediatamente. andai a
lavorare in acciaieria e tutti e due i giorni mi trovai di fronte a problemi di
sicurezza. il primo giorno scoppiò una caldaia e quindi uscì acqua bollente
da tutte le parti. tutte le sirene… e io non sapevo cosa fare, perché era il
mio primo giorno di lavoro, nessuno mi aveva detto niente, tenevo la mia
cassetta degli attrezzi assieme all’operaio specializzato, perché lì facevo il
manovale, pur di lavorare facevo il manovale, altro che 250.000 lire al mese.
Con questa cassetta mi trovai e mi andai a nascondere in un bagno, mi accartocciai, ragazzo di 19 anni, e ebbi questo impatto terribile. terribile.
tornai a casa, dopo una giornata del genere, e dissi: “Vabbé, però qua
quello è il lavoro e io devo…”. il giorno seguente ci andai e mi trovai sul
piano di colata, sempre dell’acciaieria, lì c’erano gli operai dell’italsider che
con le tute di amianto buttavano delle buste di alluminio su dei contenitori…
mentre passavo io con la mia cassetta, scoppia un contenitore, una siviera.
scoppia la siviera l’acciaio spruzza da tutte le parti… dissi: “qua non è cosa
più”. [...] stetti una ventina di giorni a vagabondare, ma tenevo vent’anni,
una fidanzata, mi servivano i soldi, mio padre non è che aveva cambiato mestiere, quindi mi dovevo dare da fare, che dovevo dare da mangiare?
25
giovanni angelini (taranto 1951), operaio italsider, sindacalista Fiom, intervista del 9.02.07.
pagina 21
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
attraverso un amico di mio padre riuscii a entrare, stiamo parlando degli
anni settanta, quando era possibile entrare nelle aziende d’appalto. nell’italsider si entrava soltanto attraverso le amicizie, le raccomandazioni».
Giovanni Guarino26: «dal negozio [in via duomo, in città vecchia] dove
stavo ero indirizzato verso una carriera di commesso di negozio di tessuti; lavoravo lì dall’età di 7 anni e a un certo punto ho cominciato a incazzarmi col
principale perché ero commesso e mi pagava da apprendista. [...] ho fatto una
serie di lavori, ho fatto il muratore… Fino all’autunno del ‘70, quando mio
padre, che era stato assunto in italsider come invalido di guerra, aveva conosciuto il caporeparto, chiese questa cortesia per il figlio, che aveva moglie incinta. e sono stato assunto prima alla Quadracci, che faceva manutenzione
agli altiforni. sono stato sette, otto mesi là, facevo il manovale, tiravo i cavi,
un lavoro allucinante di sfruttamento. nel frattempo ero entrato in lotta continua e facevo parte già del gruppo operaio che si trovava a Bari ogni mese.
mi ricordo una cretinata pure, sono cose che a vederle ora dici: “Vabbé, ma
giocavamo ai pirati”… si parlava allora di sabotare le macchine del padrone
e io come sabotaggio alle macchine mobili andavo togliendo i tappi ai pressurimetri dell’olio, che non serviva proprio a niente. potevi perdere qualche
cosa di olio, ma… però era l’unica possibilità che avevi, pur di dire: “l’ho
fatta”. ero ragazzino, per me era un’avventura, era tutto enorme, arrivare la
mattina, vedere tutta ’sta gente, ’sti operai, anche con gli specializzati che
avevo su di me perché io facevo il manovale, per loro ero un ragazzino perché
avevo 17 anni, manco 18, e quindi mi tenevano in questa maniera molto… e
per me era come avventurarsi in un’isola magica, andare a vedere questa enormità di impianti, no? Forse il paragone può sembrare… ma per me era disneyland, ogni volta era “mizzica!”, “mizzica!”, “mizzica!” perché, ripeto,
me la sono vissuta in una fase adolescenziale, non pensavo a una serie di
cose… poi, man mano è cambiata la situazione. e quindi ho fatto questo tipo
di lavoro, ho tirato cavi, sono stato agli altiforni, ai parchi minerali… Con
quella ditta giravi continuamente. dopodiché fui assunto alla icrot, azienda a
partecipazione statale, a febbraio del ‘71. Faceva demolizioni di pezzi di impianti, riduceva il rottame a pezzature per essere poi utilizzato nella miscela
con la ghisa nei convertitori dell’acciaieria. Facevo il tagliatore di rottami».
Enzo Quazzico: «io non volevo andare all’italsider, non stava proprio
nel mio dna di andare all’italsider. io stavo bene sul mare, andavo a pescare,
mi facevo le mie pescate, guadagnavo. stavo sempre da solo con la barca
sul mare, facevo l’esca, buttavo le reti, buttavo le nasse. a me piaceva. a me
il mare… poi guadagnavo, facevo le cozze, insomma…
26
pagina 22
giovanni guarino (taranto 1953), operaio italsider, delegato uilm, militante lotta continua, intervista
del 16.02.06.
nel ‘71, mio fratello che sta alla Cimi, mio fratello e mio cognato, mi
dicevano… però, ti ripeto, io non… io pensavo che dovevo continuare a lavorare sul mare… avevo il libretto di imbarco, sono andato in Capitaneria.
me ne volevo andare, poi basta che sentivo viaggiare… Volevo andare in
america, america latina, con le navi di lauro. Quando è arrivato l’imbarco,
era il ‘71, con la sant’agata di lauro, mi sono visto arrivare mia madre che
non voleva, mio fratello, tutti tutti tutti. Cominciarono a partire le telefonate
che non volevano che me ne andassi. e io dicevo: “non voglio andare all’italsider! non voglio andare all’italsider!” allora stava succedendo il raddoppio, tutta l’area vicino al mare. dopo una settimana mi hanno convinto.
mio fratello mi ha preso, mi ha portato, mi ha fatto fare il colloquio. ma a
me non… nel frattempo questo mi telefonava per l’imbarco. alla fine dissi:
“Vabbé, andiamocene in fabbrica, và”».
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Stefania De Virgilis27: «sono entrata col cambio col mio papà, che purtroppo aveva un tumore e quindi hanno assunto me. sono entrata con padron
riva, nel ‘97, al posto di mio padre che stava al movimento ferroviario e mi
hanno assunta come operaio pulizie civili, con la ramazza e con la scopa,
quello e nient’altro.
tutti quelli che avevano delle malattie gravi facevano il cambio con un figlio. naturalmente gli costava di meno sia come contributi che come il resto,
prendeva me a contratto formazione che per due anni non mi pagava i contributi, mio padre lo dovevano tenere a 3 milioni, quindi figurati. loro fecero questa cattiveria che non tennero conto del titolo di studio, di tutto quanto.
il primo giorno ti spaventi, nel senso che non immagini di vedere il fumo
dai tombini, oppure vedere questi luoghi chiusi, vedere carriponte enormi o
siviere… non ti dico quando ho visto l’acciaieria con il convertitore! a livello culturale è molto bello.
lavorare lì all’inizio è traumatico. non c’è nessuno che non abbia subito
un trauma, soprattutto nella nostra generazione, perché ognuno di noi ha studiato, è diplomato quindi pensa a un lavoro in ufficio, poi però ti rendi conto
che in giro non c’è niente e c’è solo la realtà dell’ilva, è solo quello che abbiamo, non c’è commercio… nel momento in cui vai a lavorare lì dentro ti
rendi conto che, magari adesso come sta la legge, devi lavorare per 40 anni,
40 anni a fare la stessa cosa. poi socializzi coi colleghi, si creano dei gruppi,
allora ti rendi conto che il tempo passa, com’è accaduto a me: mi sembra ieri
che sono andata a lavorare. Fa comodo il posto fisso, è inutile essere ipocriti».
Mauro Carrozzo28: «sono stato assunto all’ilva nell’ottobre 2001. naturalmente per il mio percorso personale la cosa mi ha destato una serie di
27
stefania de Virgilis (taranto, 1976), addetta alle pulizie civili ilva, delegata uilm, intervista del 26.05.07.
28
mauro Carrozzo (taranto 1978), ex operaio ilva, intervista senza data ma del 2007.
pagina 23
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
problemi perché ho dovuto scendere a compromessi con me stesso in nome
soltanto della ragione economica».
- Quali sono stati questi compromessi?
Mauro Carrozzo: «i compromessi sono quelli di sapere quali danni questa industria produca all’ambiente della mia città, quali siano le condizioni
di lavoro. lo sapevo a priori, conoscendo l’esperienza di mio padre e i racconti dei miei amici che già ci lavoravano. Questo è stato il grande compromesso: dimenticare tutto ciò che pensavo e cercare di introdurmi al meglio
in questa realtà. [...] se passi vicino con l’automobile senti questa specie di
odore acre, tanfo a volte, però fino a quando non ci stai dentro due, tre ore
non ti rendi conto di cosa sia il meccanismo dei polmoni che si devono adattare a una respirazione diversa. È la cosa che il primo giorno mi ha turbato
alquanto. stavo malissimo. il primo giorno è coinciso con i funerali di un
mio amico che lavorava in ilva e purtroppo si è tolto la vita, quindi vivevo
questa faccenda qui. lui quattro giorni prima si era suicidato, era andato in
depressione, anche per causa del lavoro e io vivevo questa cosa qua. idealmente, nella mia testa prendevo il suo posto, cercando di farmi forza non so
come di questa faccenda. poi, alla fine, non c’è forza che tenga. o piano
piano assimili i concetti della produzione industriale a scapito della operatività umana, emozionale anche, oppure te ne vai: o te ne vai di testa o te ne
vai fisicamente, come poi ho deciso di fare io dopo cinque anni».
Giungla d’appalto
pagina 24
il 9 luglio del 1960, con una grande cerimonia, fu posta la prima pietra
della fabbrica che doveva cambiare i destini di taranto. lo stesso giorno,
con altro tipo di cerimonia, più sommessa, Finsider donò all’ospedale civile
di taranto un tavolo per anatomia e traumatologia. un «gesto umanitario»
lo definì il «Corriere del giorno», che ne riportò la notizia. un preavvertimento, se lo si considera da un’altra angolatura.
nessuno ha tenuto il conto degli omicidi “bianchi” avvenuti dentro lo
stabilimento, non i sindacati, non l’inail, non l’ispettorato del lavoro o
l’azienda sanitaria locale.
il primo di cui parlano le cronache fu giovanni gentile, morto il primo
agosto del 1961. era un dipendente diretto dell’italsider, fu travolto da traversine ferroviarie che gli precipitarono addosso da un camion. aveva 23
anni. l’ultimo, il 28 febbraio 2013, è stato Ciro moccia, di 42 anni, anche
lui dipendente diretto, addetto alle manutenzioni meccaniche, caduto da un
ponteggio della batteria 9 delle cokerie in rifacimento.
nel 1964, anno in cui si compì il grande sforzo per l’apertura di molti
reparti, i morti furono 20, quasi tutti delle ditte appaltatrici, che lavoravano
in condizioni spesso disastrose e con manodopera non qualificata.
all’interno della fabbrica di stato lavorarono contemporaneamente fino a
144 imprese appaltatrici. la differenza fondamentale fra i lavoratori dipendenti
da quelle imprese e i dipendenti diretti stava nelle condizioni ambientali, igieniche e sociali che, decenti per i secondi, erano inesistenti per i primi. poi, con
l’avvento del privato, i lavori che prima svolgevano le ditte appaltatrici sono
stati quasi tutti internalizzati e la condizione è peggiorata per tutti.
tutto questo risulta ben chiaro dai racconti degli operai della fabbrica di
stato, soprattutto quando si parla di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro:
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Salvatore Dicorato29: «nelle aziende dell’appalto si viveva una precarietà del lavoro, una nocività del lavoro che, all’epoca, l’ilva pubblica non
aveva. per dirla in modo franco, io che stavo in una ditta di appalto facevo
dei lavori che i lavoratori dell’ilva non si sognavano nemmeno di fare. anzi,
mentre noi lavoravamo, i lavoratori dell’ilva non diciamo che stavano bene,
ma quasi. noi lavoravamo e i lavoratori dell’ilva stavano chiusi nei gabbiotti,
nelle officine, facevano piccoli lavori. poi c’era l’esercizio… però i grossi
lavori di manutenzione, quelli più nocivi, quelli più pesanti, li facevano i lavoratori delle aziende di appalto».
Francesco Maresca: «dopo anni di lotte contro la nocività riuscimmo a
conquistarci l’elettrofiltro all’agglomerato 1, che all’epoca uno solo era. il
problema non fu tanto conquistarselo, quanto pulirlo. Che un elettrofiltro
andava pulito. mandavano i lavoratori dell’italsider e che succedeva?
Quando aprivano gli elettrofiltri, che poi sono alti quanto un palazzo di dieci
piani, roba che non si capisce da dove devi cominciare, vedevano quello che
c’era dentro e si rifiutavano di lavorare. Così, andava quasi sempre a finire
a quei poveretti dell’appalto. […] la pulizia era una cosa infernale. si entrava, si battevano le lamine, perché erano come delle celle fatte tutte diagonali ed erano grandissime e la polvere si depositava là dentro e per pulirle
si doveva batterle e ti puoi immaginare…».
Angelo Galeone30: «ti capita che stai lavorando sotto e da sopra ti arriva
il ferro tagliato, fuso, addosso e dici: “oh, che cazzo!” “E vabbé, no’ t’agghie
viste!” Questo è. poi succedono gli incidenti. ma perché le ditte appaltatrici,
poi, hanno il tempo contato, per cui ogni volta che c’è una fermata all’interno
dell’ilva ci sono dodici, ventiquattro o quarantotto ore di fermata. in quarantotto ore di fermata devi fare tutti i lavori che ci sono da fare, per cui obbligano la gente a fare ventiquattro ore sul posto di lavoro, che è una cosa
illegale, pericolosissima, perché dopo quindici, sedici ore, ma pure dopo dodici ore l’operaio è sfatto, specialmente se lo metti sotto a lavorare…».
29
salvatore dicorato (taranto 1950), operaio della san marco, delegato rsu, intervista del 20.10.05.
30
angelo galeone (taranto, 1956), operaio dell’appalto, intervista del 23.07.09.
pagina 25
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Salvatore Dicorato: «È chiaro che più sei oppresso e più cerchi di ribellarti. e quindi [nell’appalto] c’era più lotta. […] però, per far scioperare all’epoca i lavoratori dell’ilva pubblica ce ne voleva, eh? non era facile».
Francesco Maresca: «l’italsider era presente in momenti particolari. era
molto poco presente nei cortei. difatti i cortei erano fatti prevalentemente
dalle aziende d’appalto, di montaggio. dell’italsider partecipava diciamo la
parte più avanzata che erano i manutentori, alcuni gruppi di produzione. su
una manifestazione di 5.000 operai potevi trovare 3, 400 dell’italsider. probabilmente, quella che noi consideravamo un’aristocrazia operaia, era visibile. si sentivano un po’ al di fuori della mischia. molto spesso c’erano litigi,
nei consigli di fabbrica, fra i compagni dell’appalto e quelli dell’italsider,
perché i delegati dell’italsider non riuscivano a mobilitare… però gli scioperi
per gli assorbimenti li facevano tutti».
Ambiente e sicurezza. Dentro e fuori la fabbrica
Contrariamente a quanto oggi spesso si lascia intendere, cioè che lavoratori e popolazione vivessero ignari dei veleni che respirano, mangiano e
bevono da oltre cinquant’anni, le preoccupazioni per la salute e l’ambiente
ci furono, e tante, fin dall’inizio. dentro e fuori la fabbrica.
già nel 1964, ancora prima del completamento della prima fase della costruzione dello stabilimento, a taranto si tenne un convegno, organizzato
dall’amministrazione provinciale, su «problemi di medicina sociale in una
zona a rapido sviluppo industriale». il sindaco della città, nel discorso introduttivo, espresse le proprie preoccupazioni per la «comunità municipale, cioè
a dire tutti i cittadini, compresi gli stessi operai che vengono avviati al iV
centro siderurgico» e continuò, dichiarando di aver chiesto alla società italsider di conoscere gli accorgimenti che avrebbero preso per salvaguardare
la salute pubblica. ma si era visto opporre «una specie di segreto che se non
è quello militare quasi lo raggiunge». nello stesso convegno, l’ufficiale sanitario di taranto, alessandro leccese, denunciò il possibile inquinamento
da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro ancora, che metteva a rischio l’ambiente e la salute dei cittadini31. gliene conseguirono vessazioni e denunce
da cui dovette difendersi in tribunale e un lungo, forzato, silenzio.
le cronache dei quotidiani e periodici locali sono piene di denunce contro
questo sviluppo industriale distorto e di preoccupazioni per l’ambiente.
31
pagina 26
Cfr. la pubblicazione Convegno di studi su «Problemi di medicina sociale in una zona in rapido sviluppo
industriale», taranto 24-25 ottobre 1964, atti a cura dell’ufficio studi dell’amministrazione provinciale
di taranto, manduria, lacaita editore, 1965.
i pescatori ebbero paura per il loro mare da subito: nel 1962 protestarono
perché le idrovore che dovevano portare l’acqua del mar piccolo agli impianti, per il loro raffreddamento, avrebbero sicuramente provocato danni
alla pesca e alla mitilicoltura. nel 1972 la loro rivolta fu molto seria: bloccarono per un’intera giornata l’isola della città vecchia con barricate di barche. nel 1981 ci fu una nuova protesta contro il colosso d’acciaio che
ammazzava il mare, ma l’unica cosa che si fu capaci di dire fu: «se non si
riesce più a campare di pesca, allora chiediamo che i pescatori siano assunti
dalla fabbrica». parola di sindacato.
la rivista «taranto oggi domani» nel luglio 1971 denunciò l’alto grado
di inquinamento atmosferico e marino e localizzò nel quartiere tamburi la
massima concentrazione di sostanze velenose. in quel quartiere si svolsero
molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare,
che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. nel
1980, un articolo del «Corriere del giorno» riportava l’aumento folle della
mortalità per mesotelioma nella provincia di taranto nel decennio 1970-‘79,
rispetto a quello precedente.
decenni di denunce quasi quotidiane, cadute nel vuoto.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Salvatore Dicorato: «È dagli anni settanta che esiste una questione ambientale a taranto, dovuta allo stabilimento ilva, alla Cementir, all’eni. il
problema è che vent’anni fa, venticinque anni fa questa coscienza ambientalista non c’era a taranto, o quantomeno non traspariva. perché? Comunque
con l’ilva pubblica erano furbetti, elargivano grosse somme di denaro, su
taranto sono arrivate a cascata. [...] Quando aveva bisogno di qualcosa, la
città si rivolgeva all’italsider e l’italsider si metteva a disposizione. elargiva.
Quindi, purtroppo, dobbiamo dire che tutti quanti si mettevano le bende sugli
occhi e si andava avanti. [...] anche le feste dell’unità erano finanziate dall’ilva pubblica, finanziate nel senso che ci si rivolgeva all’italsider e si diceva
“abbiamo bisogno di contribuzione per mettere in piedi il palco”. si faceva.
Con questo non voglio dire che c’era uno scambio, però… si viveva così.
[...] Questa è una città che ha vissuto con l’ilva pubblica».
in fabbrica ci si cominciò a porre il problema dell’ambiente, inteso però
quasi esclusivamente come ambiente di lavoro, intorno al 1968. si comprese,
allora, anche la necessità di collegare l’azione svolta dentro la fabbrica con
la città, «su cui pesano gli inquinamenti atmosferici, investendo e scuotendo
la insensibilità degli organi statali e locali ai vari livelli di responsabilità»32.
una serie di lotte di fabbrica nel 1971-‘72, quelle a cui accenna maresca
a proposito della conquista dell’elettrofiltro all’agglomerato 1, accompagnate
32
da un documento del Comitato direttivo della Camera confederale del lavoro datato aprile 1968.
pagina 27
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
dalla pressione dell’opinione pubblica e della stampa, costrinse l’azienda a
intervenire e a intraprendere interventi di innovazione tecnologica per il miglioramento delle condizioni ambientali.
ma fu soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta che il
conflitto che opponeva lavoratori e azienda sulla questione ambiente e sicurezza ebbe una svolta importante.
Fu il periodo delle ricerche partecipate, che
sembravano offrire un’occasione per valorizzare la cultura operaia
e il suo sapere tecnico e sociale, per confrontarlo con quello di altre
figure (soprattutto i tecnici); molto grande fu però anche la curiosità
dei lavoratori che, per la prima volta, da oggetto di studio e di analisi
vedevano la possibilità di diventare soggetti attivi nell’elaborazione
delle proposte di modifica nell’organizzazione del lavoro: al di là
dei pericoli di cogestione, attraverso il loro coinvolgimento diretto,
la conoscenza e l’esperienza operaia avrebbero potuto essere utilizzate per affermare il proprio protagonismo sociale33.
si può dire che uno dei risultati più rilevanti delle ricerche fosse proprio
il processo di formazione degli operai, perché, sul versante risultati, molto
spesso le vertenze di reparto nate da queste analisi venivano furbescamente
gestite dall’azienda e si concludevano con la monetizzazione del danno.
Salvatore Dicorato: «C’era il problema della sicurezza, però, se mi davano dieci lire di più, mi prendevo le dieci lire di più, oppure il passaggio di
livello, e non me ne fotteva niente se il fumaiolo menava. diciamocelo francamente. all’epoca ci ponevamo il problema dei soldi, dei diritti, della contrattazione, il contratto, eccetera. però, sulla questione ambientale, all’interno
dello stabilimento di taranto, ilva pubblica, quando si aprivano le vertenze
ambientali di reparto, sai come si chiudevano? i soldi, il passaggio di livello… “e la vertenza ambientale addò sté?” “Ce te ne futte? Amm’avute le
solde!”. hai capito? adesso, invece, per fortuna le cose sono cambiate. anche
perché il livello e i soldi non te li danno comunque, se tu volessi scambiare
non ti danno neanche quello. adesso esiste lo stipendio di novecento euro e
poi esiste l’insicurezza sul lavoro e l’ambiente».
Francesco Maresca: «gli appalti facevano molti scioperi sulle indennità,
cosa che i lavoratori dell’italsider vedevano con molto meno interesse. però,
alla fine, la conclusione degli operai era questa: “io sono costretto a farlo, faccio la lotta per migliorare l’ambiente ma non ci riesco, almeno mi piglio un’indennità”. […] alcune aziende riuscivano ad avere la riduzione dell’orario, che
era legata a quella particolare attività. ma non era generalizzata per tutti».
pagina 28
33
patrizia Consiglio e FranCesCo laCaVa, op.cit, p. 200.
Questo non vuol dire che non ci siano state, negli anni, modifiche sostanziali di impianti e tentativi di migliorare la situazione di ambiente e sicurezza dentro la fabbrica e, di conseguenza, anche fuori, attraverso accordi
sindacali, la maggior parte dei quali avvenuti fra il 1979 e il 1981. poi, iniziò
il lento processo di frantumazione della classe operaia e cancellazione delle
conquiste ottenute.
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Con un colpo di spugna ha cancellato anni e anni di lotta
Con la privatizzazione, uno dei primi obiettivi del nuovo padrone è stato
la liquidazione del sindacato e del conflitto in fabbrica.
Fra il 1997 e il 2003 i lavoratori anziani sono quasi tutti andati in pensione,
grazie ai prepensionamenti e ai riconoscimenti dell’esposizione all’amianto,
che a taranto furono concessi, si dice, con molta prodigalità. oggi il ricambio
generazionale è completo; agli “anziani” sono subentrati i “ragazzi”, spesso
loro figli, che hanno iniziato a lavorare coi contratti formazione lavoro. l’età
media dei lavoratori dello stabilimento, oggi, è intorno ai 37 anni.
Francesco Maresca: «riva, trovandosi di fronte a una classe operaia è
vero decotta, ma anche rompicoglioni, perché ci tiene ai diritti, non lascia
niente di quello che si è conquistato, eccetera eccetera, ha la necessità di
cambiare la classe operaia. e questo può avvenire semplicemente in un
modo: visto che non tutti i lavoratori che stanno in fabbrica raggiungono il
limite minimo per andare in pensione, che all’epoca era 35 anni di contributi
e almeno 55 anni di età ed è molto difficile che si trovi questa combinazione,
allora avviene che i lavoratori vengono agevolati, anche perché l’italsider
uso di amianto ne ha fatto abbondante. […] in questo modo ha eliminato
tutti i, fra virgolette, vecchi, perché chiamare vecchia una classe operaia che
oscillava fra i 50 e i 60 anni…».
C. B.34: «durante il corso di formazione c’era questo ricatto occupazionale, che noi per i primi due anni non potevamo iscriverci al sindacato, non
potevamo partecipare alle assemblee. l’azienda non vedeva di buon occhio
i ragazzi della formazione che facevano sciopero, che facevano malattia perché stavano male, che partecipavano alle assemblee sindacali. […] Questa
era la paura, questo era il ricatto, che non era stampato, era un ricatto silenzioso, che tutti sapevamo, ma non è che l’azienda te lo veniva a dire.
l’azienda te lo faceva capire. ecco come giocava. […] stavano tentando di
formare una nuova classe operaia che non doveva dargli fastidio e in parte
ci sono riusciti».
34
C. B. (taranto 1977), operaio ilva, intervista del 15.06.07.
pagina 29
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Stefania De Virgilis: «tu pensa: io sono arrivata in ilva, dopo due mesi
mi sono iscritta al sindacato, in giornata stessa mi hanno fatta cancellare,
perché era l’epoca di Claudio riva, la guerra al sindacato. poi a distanza di
anni tu pensi “ma che cosa mi dovevano fare?” Contratto formazione…».
- L’azienda ti ha fatta cancellare?
Stefania De Virgilis: «immediatamente. pressioni a morire, manco se…
Facevo le pulizie civili, dove mi dovevano mandare? entrata al posto di mio
padre, mica mi potevano cacciare! però la mia ignoranza nella materia ha
fatto in modo che loro vincessero».
Francesco Maresca: «il sindacato era l’obiettivo da cancellare. e tu che
sei stato 24 mesi quando ti va bene, sennò 48 mesi, sotto le grinfie di questi
che non fanno altro che parlare contro il sindacato, “non ti mettere a fare
sciopero, non ti mettere a fare casino…”».
il sindacato, in questa prima fase, cede al ricatto “lavoro in cambio di diritti” e lancia la parola d’ordine agli anziani sindacalizzati e politicizzati, ai
delegati, di non coinvolgere nelle attività sindacali e negli scioperi i ragazzi,
fino a che non passano a contratto a tempo indeterminato.
Francesco Maresca: «Questo lo sanno tutti. […] Quando, ai tempi nostri,
assumevi nuovi operai, nei 26 giorni per i qualificati e 12 giorni per i comuni,
tu non dovevi fare niente che potesse dare all’azienda lo spunto per licenziarti. allora si parlava di giorni, adesso si tratta di due anni! e addirittura
non essere riconfermato alla scadenza dei 48! per cui, questo il sindacato
non lo diceva neanche sottovoce».
C. B.: «il sindacato in quei due anni di formazione era lontano dall’operaio dipendente, nuovo arrivato. io credo che questo portava un ragazzo che
non si era fatto una coscienza sociale, io dico anche politica, al di fuori della
fabbrica a ringraziare l’azienda del lavoro che gli offriva e cominciava a vedere brutti i sindacalisti perché li vedeva lontani, mai al suo fianco».
l’acciaieria, che aveva un livello di sindacalizzazione quasi totale al
tempo delle partecipazioni statali, oggi raggiunge a malapena il 44%.
anche la leadership sindacale è cambiata: dopo un dominio incontrastato
della Fim-Cisl (seguita, nell’ordine, dalla Fiom e dalla uilm), durato dai
primi anni di vita della fabbrica fino alla privatizzazione, oggi il primo sindacato fra i confederali è la uilm, seguito da Fim e Fiom35. da circa un anno,
in seguito alle vicende che hanno travolto l’ilva, coinvolgendo anche il sindacato, si è formata l’usb, che ha raccolto 210 tesserati. lo slai-Cobas conta
solo qualche decina di iscritti.
d’altra parte, il sindacato non è privo di responsabilità per la situazione attuale.
35
pagina 30
i dati del tesseramento, aggiornati al 3 settembre 2013, sono i seguenti: uilm 2.872, Fim 1.219, Fiom 935
(fonte sindacale).
C. B.: «dagli anni ottanta il sindacato è passato da sindacato di conflitto
a sindacato di contrattazione con i padroni. [...] il sindacato [oggi] non ha
un vero ruolo di conflitto dentro l’azienda e non ha nemmeno un ruolo di
formazione e informazione con gli operai. ecco perché ci troviamo, qua in
ilva, con una classe operaia sfiduciata e anche menefreghista, questo bisogna
anche dirlo, eh? ma io non dò la colpa ai lavoratori. io ho sempre fatto un
esempio, che ci sono tre parti: c’è l’azienda, c’è il sindacato e c’è la classe
operaia. Chi dei tre riesce a gestire bene e con coerenza il suo ruolo è
l’azienda, anche in maniera negativa, anche in maniera cattiva verso l’operaio, però con coerenza. non ha mai cambiato strada ed è quella la sua strada.
Chi fa invece un lavoro sbagliato sono i sindacalisti, non tutti. [...] io dico
che la classe lavoratrice non ti viene dietro perché tu non formi una coscienza
sociale, politica e sindacale agli operai che sono là dentro. tu non gli stai
dietro, tu non li aiuti nel loro percorso lavorativo, non gli fai capire che la
giornata lavorativa non finisce sul posto di lavoro, la giornata lavorativa continua anche al di fuori del posto di lavoro. È questo che manca nel ruolo del
sindacato qua a taranto».
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
in fabbrica, con l’arrivo dei riva, cominciarono a girare oscuri personaggi, non contemplati nell’organigramma aziendale: i “fiduciari”, figure di
controllo che dovevano instaurare la disciplina voluta dalla nuova gestione.
la loro azione si esplicava sui capi, perché a loro volta mettessero sotto pressione gli operai. una struttura sotterranea e illegale, portata alla luce ufficialmente dalle indagini attuali della magistratura, ma di cui tutti i lavoratori
erano a conoscenza fin dalla loro comparsa (non però della loro illegalità).
Giuseppe Pinto: «Quando riva ha preso l’ilva ha cominciato a installare i suoi
sistemi di controllo. ha portato i suoi fiduciari, li ha piazzati in tutte le aree». [...]
Mimmo Vitti: «a lui interessava mettere il terrore prima nei suoi più
stretti collaboratori, perché non c’è mai stato un conflitto operai capi, mai,
in quell’azienda. Ci si mandava a quel paese, al limite si è sfiorata anche la
rissa però, dopo cinque minuti… l’obiettivo suo era quello di mettere il terrore nell’azienda, prima fra gli impiegati36 e poi è toccato agli operai».
36
il riferimento è al mobbing esercitato nei confronti di una sessantina di tecnici, impiegati, programmatori
e altre professionalità altamente specializzate, in larga parte sindacalizzati, considerati dall'azienda in esubero, che non accettavano il demansionamento da impiegati a operai. nello spazio di un giorno si trovavano
confinati in una palazzina “lager”, totalmente fatiscente e svuotata di qualsiasi attività: la palazzina dell'ex
laminatoio a freddo (laf). un episodio allucinante avvenuto fra il 1997 e il 1998, conclusosi con un processo penale e la condanna in via definitiva di undici manager aziendali, fra cui lo stesso emilio riva.
mimmo Vitti: «li retribuiva normalmente, però erano delle cavie umane queste persone, perché se tu
paghi uno senza un lavoro, è l'umiliazione più terribile. non potevano uscire. andavano in questa palazzina,
si sedevano, chiusi, facevano ciò che volevano nei limiti, giocavano a carte, cose… ma non potevano fare
nessuna attività lavorativa. addirittura c'era il vigilante che li controllava davanti alla porta. Veramente al
limite della pazzia. gente che ha rischiato di impazzire. riva li pagava e ne godeva. perché anche se lui
elargiva sessanta stipendi mensili però metteva il terrore a dodicimila dipendenti».
pagina 31
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
Giuseppe Pinto: «Con un colpo di spugna ha cancellato anni e anni di lotta».
Mimmo Vitti: «Quell’azienda era terrorizzata».
Giuseppe Pinto: «ma non volevano neanche che parlassimo con questa
gente. appena mi avvicinavo, dicevano: “ehi tu, non devi parlare nemmeno!”, con questa gente che erano i preposti di riva».
Salvatore Dicorato: «C’è stata gente che è venuta, ha visto la situazione
ed è andata via. tieni conto che tutta questa fascia di controllori praticamente
sta nello stabilimento ventiquattro ore al giorno, perché dormono là. C’è la
foresteria, l’azienda ha fatto la foresteria. stanno là e praticamente accade
anche questo, non sto esagerando, sto dicendo la verità: di notte, quando non
riescono a dormire, si alzano e vanno a controllare sugli impianti se i lavoratori lavorano, se ognuno sta al proprio posto eccetera eccetera».
- Questi vivono dentro?
Salvatore Dicorato: «Vivono dentro. non vanno fuori, hanno la mensa
per conto loro, la mensa dei dirigenti. partono il venerdì pomeriggio tutti
quanti, li accompagnano a Bari, prendono l’aereo e il lunedì mattina, verso
le nove e mezza, le dieci, stanno di nuovo all’interno dello stabilimento. Vivono là. loro, taranto non la conoscono». […]
Giuseppe Pinto: «hanno portato dei ragazzi all’esasperazione. all’acciaieria
1 una sera hanno picchiato un fiduciario di riva poi sono andati nello spogliatoio, si sono spogliati, hanno messo gli abiti civili e se ne sono andati a casa.
automaticamente si sono autolicenziati. però lo hanno mandato all’ospedale»37.
l’azzeramento del conflitto è stato accurato e ha coinvolto anche quelle,
purtroppo poche anche se combattive, forme di opposizione che c’erano, allora,
in città. in particolare il Comitato che si era formato nel quartiere tamburi alla
fine degli anni novanta, il quale si batteva per il risanamento ambientale.
Alessandro Venuto: «Questa è l’ultima carta che si è giocato riva.
Quando ha cominciato ad avere problemi con il Comitato di quartiere, perché
di là poteva venire un pericolo vero, poteva avere anche quarant’anni chi
presentava la domanda, ma se vedevano che era dei tamburi, veniva assunto.
Così lui tappava la bocca alla gente dei tamburi».
Mimmo Vitti: «io una volta stavo alla fermata del bus di via orsini e
ascoltai una discussione fra due donne, una diceva: “ma qua domani dobbiamo fare la manifestazione” e l’altra diceva: “senti, io tengo un figlio che
fatica là dentro, non faccio nessuna manifestazione”. era una realtà… riva
giocò quella carta. Capì che dai tamburi stava venendo una scossa molto
difficile per loro».
pagina 32
37
intervista collettiva del 25.11.10.
Salvatore Dicorato: «da là poteva partire la vera rivoluzione. a genova
così è successo».
Alessandro Venuto: «anche perché era il periodo che stavano chiudendo
genova, proprio perché il sollevamento dei quartieri proprio a ridosso dello
stabilimento ne aveva determinato la chiusura. Quindi, il loro mestiere lo
sanno fare bene».
il de martino
22-23 / 13
storia e storie
nessuna vigilanza operaia all’interno dello stabilimento, poca al suo
esterno, hanno permesso ai padroni della fabbrica di sottrarsi a qualunque
innovazione tecnologica diretta ad un miglioramento ambientale e della sicurezza e di procedere, invece, solo a miglioramenti nel senso della produttività. Così, l’ilva/italsider/ilva di taranto, nata cinquant’anni fa come
fabbrica all’avanguardia, con le migliori tecnologie allora disponibili per la
produzione dell’acciaio, ha continuato a usare lo stesso ciclo produttivo fino
ad oggi, incurante delle trasformazioni avvenute e ampiamente in uso nel
resto del mondo. in nome della produzione e del profitto.
pagina 33
Scarica

Ilva: una storia di fusioni