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VIVGIG
IL
UUOO
CO
DEELLFF
CO
I LII D
LO STAFF DE L’AVIATORE
Alessandro Aquilino, Mauro Castellano, Giovanni Del Gais,
Sergio Pietruccioli, Franco Restelli, Euro Rossi, Gabriele Rossini,
Luciano Sadini, Giuseppe Santersiere, Bruno Servadei.
DUE RIGHE NOSTRE
L
a presentazione del Presidente di AVIA, che appare cliccando sul nostro logo, è esaustiva
per dire a voi lettori che cosa vuol essere L’Aviatore e non sarebbe quindi necessario
aggiungere altro. Ci preme però sottolineare che questo “taccuino” vuole essere la voce di
tutti gli aviatori, una voce un po’ scanzonata, forse anche fuori dall’ortodossia, ma una voce
sicuramente sincera ed appassionata. Parlare in libertà è difficile, a volte impossibile, scrivere
lo è ancora di più, specie se a volte bisogna farlo dicendo verità scomode. Ebbene questo
nostro taccuino vuole anche dare questa opportunità a tutti coloro che, con onestà intellettuale,
e ripetiamo con onestà, intendono dire la loro a beneficio di tutti e, perché no, anche di tutta
l’Aviazione, sia civile che militare.
Lo staff
LA SCELTA DELLA TESTATA
A
l momento della ideazione della testata de L’Aviatore, Euro Rossi
ha ritenuto di incastonare nella lettera A un’aquila che trae
origine da un inedito documento recuperato durante le sue
ricerche per la realizzazione del volume Nido d’aquile,
libro che descrive la storia dell’Aeronautica
nell’Agro Pontino, per i tipi di Herald editore.
IN TEMPESTATE SECURITAS
1
S
i tratta della lettera di commiato, datata 11 giugno 1940, indirizzata dal tenente colonnello
Giorgio Rossi, primo Comandante della Scuola Volo Senza Visibilità (SVSV) di base
sull’aeroporto Enrico Comani di Littoria, al Principe Don Camillo Caetani e rinvenuta presso
l’archivio amministrativo della Fondazione Camillo Caetani di Roma. Di tale stemma,
raffigurato come capo lettera e che riporta in basso il motto della scuola “In tempestate
securitas”, non vi è traccia nell’araldica dell’Aeronautica Militare in quanto nell’anteguerra
solo i reparti combattenti potevano fregiarsi di uno stemma e di un motto. Il rinvenimento di
tale documento riveste particolare importanza avendo permesso di colmare una lacuna nella
memorialistica della Regia Aeronautica. Si tratta quindi di un’aquila sconosciuta, ritratta in
posizione non usuale e con lo sguardo fiero e teso verso l’alto, che ben raffigura il moto e la
velocità, elementi questi che il movimento artistico futurista aveva saputo magistralmente
simboleggiare. L’utilizzo di tale “stemma” nella testata di questo taccuino della gente dell’aria
vuole dare visibilità ad una ignorata immagine del trascorso aeronautico italiano e nello stesso
tempo, collegando il passato con il presente, esaltare l’allegoria tra il rapace e gli aviatori.
Nel documento originale, ove appare come capo lettera, è in bianco e nero mentre nella copertina
de L’Aviatore è color oro, come d’oro è l’aquila che fregia le divise dei piloti militari.
L’IMMAGINE IN COPERTINA
E
’ una rappresentazione artistica con tecnica ad acquarello di Sergio Pietruccioli che raffigura
alcuni piloti civili e militari e uno specialista intenti a leggere L’Aviatore. I disegni di
Sergio impreziosiranno sempre questa copertina e, grazie alla sua indiscussa maestria con la
matita e i pennelli, accompagneranno i lettori nel mondo aeronautico virtuale dell’artista.
Chiunque abbia bisogno di lui per una tavola personalizzata può contattarlo all’indirizzo
e-mail: [email protected]
LE VIGNETTE
L
e vignette sono tratte dai disegni di un tempo di un istruttore pilota che ha lasciato la
propria impronta anche in alcuni Gruppi di Volo dell’Aeronautica Militare avendone
realizzato gli stemmi (207°Gr., 213° Gr.). “Magnam cum pallarum fractio Sandro Calabresi
fecit”: così, in un latino più che maccheronico, si firma nel goliardico diploma che dal 1977
ad oggi viene dato a quegli allievi che hanno messo “le ali” decollando da solista conseguendo
così il sospirato Brevetto di Pilota d’Aeroplano a Latina. Ora i suoi personaggi, rielaborati da
chi si diletta a curare l’aspetto grafico del nostro taccuino (Franco Restelli e Gabriele Rossini),
ritornano con la loro scanzonata allegria a far bella mostra di sé. Ve lo riproponiamo riadattato
alla presente rivista.
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PER SCRIVERCI
Siamo a vostra disposizione e per inviarci i vostri scritti o contattarci il nostro indirizzo di
posta elettronica è: mailto: [email protected].
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A PROPOSITO DELL’F104 A PIANA DELLE ORME
A
lla fine di Agosto 2011 è apparso sul sito www.Latina24ore.it un articolo di ex piloti
militari che contestava il modo con cui è stato esposto un F 104 Starfighter (ed anche un
C119, due velivoli dismessi dall’Aeronautica Militare) in un sito locato nel Comune di Latina
dal nome Piana delle Orme. Abbiamo ritenuto interessante proporvelo di seguito perché i
suoi contenuti ed i commenti ad esso successivi, oltre ad essere stati numerosi, hanno messo
in evidenza altri stimolanti argomenti che ben si inseriscono nello spirito di questa rubrica:
quello di dare voce a dibattiti costruttivi che, con serietà ed onestà intellettuale, possano essere
di qualche utilità alle controparti di volta in volta chiamate in causa. Non ce ne voglia Piana
delle Orme se alla fine non le dedicheremo più attenzione di quanto dovuto: forniremo solo
un parere circostanziato sull’esposizione degli aeroplani sulla base degli elementi conosciuti
spostando la discussione in un ambito ad essa non attinente. Praticamente quanto riportato
sul sito di Latina24ore ci è apparso ottimo per avviare scambi di idee e pareri su argomenti
più attinenti alla nostra rubrica “A voi il … mouse”. Ecco, di seguito, una selezione di quanto
pubblicato nell’anzidetto sito, con in testa l’articolo “Fenomeno da Baraccone”. Ci limitiamo,
infatti, a pubblicare il pensiero di chi ha argomentato con sobrietà e serietà perché, purtroppo
e come accade nei dibattiti on line, c’è sempre chi dà sfoggio della propria ineducazione e
superficialità.
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FENOMENO DA BARACCONE
N
e avevamo tanto sentito parlare finché abbiamo deciso di andare a visitarlo. Si fa riferimento
a Piana delle Orme un’idea senz’altro originale, un grande collezione eterogenea, che si
definisce Museo Storico, Centro Esposizioni Storiche, Pinacoteca, Mostra Mercato, Militaria,
Centro Guide turistiche, Agriturismo, Ristorante, …. a seconda della bisogna per attirare
un pubblico non solo di appassionati alla storia del territorio ma un pubblico più vasto ed
eterogeneo. Insomma tanto di cappello all’originale idea ed alla grande passione del fervido
collezionista che ha creata questa struttura sui generis e multifunzionale, senz’altro piacevole
da visitare. Non vogliamo però con queste nostre righe criticare questa realtà ma parlare di
una cosa in essa esposta che ci ha negativamente colpito e che, chiaramente, ha condizionato
il nostro giudizio su tale luogo. Abbiamo trascorso la nostra vita in Aeronautica Militare come
piloti. Una vita invidiabile perché volare, e soprattutto con macchine molto performanti, è
senz’altro fascinoso ed altamente qualificante. Vita seducente e ricca di soddisfazioni ma anche
densa di incognite e difficoltà di ogni genere. Se volare è bello è altrettanto vero che sia anche
pericoloso, specie se fatto proprio da militare. Volare con macchine altamente performanti,
non solo in cieli tranquilli ma spesso nei teatri operativi dove si fa sul serio, non è uno
scherzo. E’ per questo che in Aeronautica la selezione al volo è molto alta e l’addestramento
impegnativo e costante. Volare poi su una macchina chiamata impropriamente “fabbrica di
vedove” o “bara volante”, per i molti incidenti dove hanno perso la vita i piloti, lo è ancora
di meno. Diciamo impropriamente perché tutto sommato diventava pericolosa solo se usata
in modo inesatto, con superficialità o eccessiva
disinvoltura. Ci riferiamo al Lockheed F-104
Starfighter, ovvero cacciatore di stelle: un jet
monomotore, supersonico, multi-ruolo. In realtà
non era realmente un aereo, ma qualcosa di più
simile a un razzo con piccole ali trapezoidali.
E’ stato usato, specie nell’Aeronautica Militare
come caccia intercettore, caccia bombardiere e
ricognitore ogni-tempo, volando in Italia fino
alla primavera del 2004, prima di essere
radiato. Una macchina che ha scritto una
pagina lunga ed importante nella storia del volo e che alla sua comparsa, a metà degli anni
cinquanta, rappresentò una nuova tappa nella lunga evoluzione dell’aereo da combattimento:
la capacità di operare a velocità doppia di quella del suono. Fu adottato da molte nazioni
aderenti e non alla NATO ed in tutto ne furono prodotti su licenza poco più di 2500 esemplari.
L’F-104 entrò in servizio nel 1958 con l’United States Air Force (USAF), ma, sebbene dotato
di buone prestazioni di tangenza massima e di velocità di salita che lo rendevano ideale come
intercettore, possedeva una bassa manovrabilità, dovuta soprattutto alla scarsa superficie
alare dell’ala trapezoidale, ereditata dall’essere stato concepito come un vettore di missili. I
piloti avrebbero solo dovuto raggiungere un’area sicura da dove lanciare i loro missili contro
l’obiettivo designato e poi ritornare alla base, senza ingaggiare combattimenti aerei ravvicinati.
Ciò implicava alte velocità di manovra (soprattutto in virata), con eccessivi spazi richiesti per
i duelli ravvicinati ed è questo il motivo che lo ha reso negli anni sempre meno interessante.
Comunque se utilizzato nel ruolo per cui era stato concepito ovvero quello di intercettore
puro d’alta quota, come chiaramente esplicitato dal suo nome, era impareggiabile. Una
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macchina che ha affascinato migliaia di piloti e che ora continua a volare grazie ad amatori
benestanti (soprattutto statunitensi) che, come privati, mantengono efficienti alcuni esemplari
esibendoli nelle manifestazioni aeree. Alcuni di questi si erano rivolti anche all’Aeronautica
Militare per ottenere due o tre velivoli appena dismessi offrendo in cambio velivoli storici
del Secondo Conflitto per arricchire il patrimonio museale dell’Arma ma, per quanto dato di
sapere, il tentativo è fallito per scarsa
lungimiranza e volontà di qualche
generale, timoroso a muoversi tra i
cavilli burocratici di norme nazionali
ed accordi internazionali. Di contro
uno di questi gloriosi velivoli è finito
proprio a Piana delle Orme. Il perché ed
il percome poco importano. Sono scelte,
decisioni e responsabilità di altri, del resto
non c’è nulla di male se questo velivolo fa
bella mostra di sé in un museo, sempre
però che si tratti di un museo con la M
maiuscola. Quello che noi lamentiamo è il modo del tutto particolare con cui viene presentato al
pubblico: se si inserisce una moneta si ha la bella sorpresa di sentire il ruggito del suo motore e
vedere il suo muso alzarsi di qualche decina di gradi. Ci ha ricordato quando da ragazzini al
Luna Park, con un fucile a raggio luminoso, si doveva sparare in un punto preciso di un piccolo
orso che, se colpito, si alzava
su due zampe e ruggiva. Con lo
stesso procedimento è possibile
vedere girare le eliche anche di un
C 119, sempre ex AM; un grande
e famoso velivolo da trasporto
che è tristemente ricordato a
seguito dell’eccidio di Kindu,
avvenuto nel lontano 1961, dove
furono trucidati tredici aviatori
italiani. Facevano parte del
contingente dell’Operazione delle
Nazioni Unite in Congo inviato a
ristabilire l’ordine nel paese sconvolto dalla guerra civile. I tredici militari italiani formavano
gli equipaggi di due C-119, bimotori da trasporto conosciuti come i vagoni volanti, della 46ª
Aerobrigata di stanza a Pisa. Non ci pare che in nessun museo che si rispetti i cimeli vengano
esposti con la fessurina per le monetine affinché producano qualche effetto particolare. Ve
li immaginate i bronzi di Riace che sussurrano: “guarda che muscoli!” o la Gioconda che
sospira un languido “Ciao!”.Sono o non sono queste cose da parchi dei divertimenti? A nostro
avviso sì, e ci duole vedere che a velivoli con i quali hanno perso la vita tanti colleghi per
servire la nostra Nazione sia stato riservato un tale trattamento da attrazioni da parco giochi,
insomma che siano diventati strumenti per un mercimonio da qualche spicciolo. Certo, per chi
ha pilotato per l’ampio spazio lo Starfighter, non è facile accettare di vederlo ridotto così: una
fine ingloriosa da fenomeno da baraccone. Un gruppo di ex piloti militari
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· Andrea 25/08/2011 - 09:00
COMMENTI
Non sono un pilota, ma condivido la vostra amarezza per tale gesto! Amo la mia Patria e coloro che come
voi la difendono! Grazie
Replica
· Laura 25/08/2011 - 09:47
Ma non si tratta di denigrare la Patria! E tantomeno di rendere sciocco il sacrificio di tanti militari! Piana
delle Orme è qualcosa sui generis, appunto, né museo né agriturismo, che si confà perfettamente alla realtà
del sud pontino e alla volubilità della sua gente. La parte dedicata alla bonifica è invidiabile e soprattutto
unica. Se non fosse stato per Pennacchi e il suo Canale Mussolini, la bonifica sarebbe ancora sconosciuta
per gli italiani.. Piana delle Orme,venuta prima, era un tentativo di far riemergere quel pezzo di storia
d’Italia che alle scuole piace solo accennare! E poi.. Se l’interattività -seppur ottenuta con la monetinadispiace così tanto, vuol dire che si è (perdonatemi!) retrogradi e poco lungimiranti: non pensandoci più la
scuola come una volta, come si può in altro modo insegnare la storia ai bambini? E divertiamoci una volta,
affasciniamoci, torniamo bambini!
Replica
· Michele 25/08/2011 - 09:50
Che tristezza … messo lì tra un’accozzaglia di reperti …
Replica
• Fosco (di Piana delle Orme) 25/08/2011 - 15:48
Penso che prima di esprimere un giudizio così perentorio bisogna rendersi conto della meraviglia che
rappresenta Piana delle Orme. Mi sembra un giudizio estremamente superficiale il suo e soprattutto poco
fondato.
Replica
• Mino 25/08/2011 - 18:26
Fosco lasciali parlare. A Latina l’invidia è una brutta bestia. Siamo orgogliosi del nostro F104 e il numero
dei visitatori del museo è la dimostrazione di come Piana delle Orme è e rimane un luogo unico in Italia
per ciò che propone.-GiacomoReplica
· Maurizio 25/08/2011 - 10:01
… condivido pienamente, non ho mai avuto la fortuna di lavorarci ma durante l’attività di volo vederlo
passare sopra le nostre antenne al centro radar era da brividi … capisco l’esternazione per chi l’ha pilotato
... vederlo con la monetina poi.
Replica
· ANTIPIANA 25/08/2011 - 10:59
Piana delle Orme è un totale fenomeno da baraccone, dove i ricordi fanno business e l’accozzaglia del
ciarpame militare è il denominatore comune
Replica
· AD_81 25/08/2011 - 11:03
Che esagerazioni…mettere sullo stesso piano un aereo da guerra nel quale saranno morti anche validi
piloti, ma chissà quanta gente ha ammazzato…e paragonarlo ai Bronzi di Riace o ad altri reperti storici…
mi sembra troppo!!! Piana delle Orme è uno dei pochi musei fatto come si deve che tiene viva la nostra
storia….se per un aereo dobbiamo sputtanarla, stiamo messi male…
Replica
· +2 Marco 25/08/2011 - 12:21
Tanto rumore … per NULLA
7
Replica
· Ale 25/08/2011 - 12:39
Laura……far giocare e divertire i bambini con la guerra ? ? Non c’è niente di più diseducativo!! La
proprietà ha perso l’occasione di creare un parco didattico sulla parte di storia più importante di questo
territorio che è la bonifica: dai tentativi dei vari papi fino alla bonifica mussoliniana. Io fui chiamato per
una consulenza quando il centro era quasi terminato, prima dell’apertura al pubblico e rimasi esterrefatto
e quasi disgustato dal modo in cui erano allestiti i vari capannoni. Presentai un progetto, che ovviamente
non fu approvato dalla società, perché stravolgeva il lavoro fatto sino a quel punto ed evitai di inserire
Piana, tra le offerte escursionistiche dedicate alle scuole. Avevo ragione.
Replica
· Anonimo (di Piana delle Orme) 25/08/2011 - 12:49
Buongiorno, lavoro a Piana delle Orme e per questo motivo preferisco rimanere anonimo. Sono d’accordo
con voi piloti, non mi piace che un oggetto storico esposto sia trasformato in una sorta di giostra al solo
scopo di racimolare ulteriore denaro (2 euro, per metterlo in funzione) oltre il già alto (12 euro) costo
del biglietto. Purtroppo il business, in alcuni casi, viene ancor prima del rispetto di ciò che si mostra
all’osservatore, e questa è una cosa che a me, personalmente, non piace. Detto ciò, Piana delle Orme è
l’unico museo in Europa a proporre ampi percorsi tematici sulla storia del novecento e in particolare sulla
seconda guerra mondiale. Venite a visitarlo, merita davvero.
Replica
· Bruno 25/08/2011 - 17:50
Cari piloti che vi sentite offesi per il trattamento riservato allo spillone a Piana delle Orme, permettetemi
di dissentire un poco dalle vostre idee. Sono anch’io un pilota di F104 e ho goduto delle sue prestazioni
per parecchi anni. Devo francamente dire che mi sento molto più offeso nel vedere, passando sul raccordo
anulare, un F104 buttato fra i rottami che per quello “mobile” di Piana delle Orme. Essendo, poi,
quest’ultimo fonte di denaro, sono certo che godrà negli anni di cure molto maggiori dei numerosi F104
sparsi in tutta Italia come Gate Guardian o monumenti statici. Piana delle Orme è uno dei posti dove
l’F104 si può ammirare meglio nella sua strana configurazione. Sicuramente meglio di dove è fermo a
terra o è circondato da barriere: lo si può ammirare da sotto ed in movimento e non è poco. Certo la
faccenda della monetina che attiva il rumore ed il movimento è dozzinale. Si potrebbe programmare lo
show a orari fissi, senza monetina. Ma immagino che il costo dell’energia richiesta comporterebbe un
incremento del costo del biglietto anche per chi non è interessato allo show. Io vedrei la questione da un
punto di vista funzionale: piace ai ragazzini? Li fa avvicinare o interessare al mondo del volo più che se il
velivolo fosse fisso? Se è così, facciamolo muovere! Non credo che il pezzo di ferraglia a forma di F104 se
ne possa avere a male. Non mi trovate molto convinto nemmeno sul vostro atteggiamento di lesa maestà nei
confronti di un velivolo in generale e nei confronti dell’F104 in particolare. Sarà pure diventato un mito,
ma era di certo anche un grande bluff. In fin dei conti l’F104 non è altro che un agglomerato di ferraglia
che forse sarà anche stato un inno all’innovazione tecnologica negli anni 50/60 ( se è per questo anche
allora c’era già di molto meglio, il Draken svedese ne era un esempio). In compenso per oltre 20 anni è
stata anche la misura della nostra vergogna in campo internazionale. Noi abbiamo continuato ad andare
in giro con quel trespolo la cui unica caratteristica positiva era la velocità (buona per filarsela) quando
tutto il resto del mondo volava con F16, Mig 29 ed altri mezzi con i quali noi non potevamo nemmeno
pensare di misurarci. Ed infatti ai tempi della guerra nei Balcani i nostri confini siamo stati costretti a farli
difendere da turchi, belgi ed altri perché i nostri F104 facevano ridere. L’F104 dagli anni 80 in poi era
già di per sé un “fenomeno da baraccone”, solo che non era su un trespolo mobile ma nelle nostre linee
di volo operative. Noi, quando ancora progettavamo velivoli bellici durante il ventennio (quelli del dopo
guerra lasciamoli perdere per decenza), siamo sempre stati abili nel farli veloci, da record, e acrobatici. Ma
non a farli buoni per la guerra. L’F104, sia pure di progetto USA, sposava perfettamente il nostro concetto
di velivolo: veloce, ma assolutamente inidoneo a fare la guerra. Forse è questo il motivo per cui, unici al
mondo, lo abbiamo tenuto per oltre 40 anni. Perché mai averne questo reverenziale rispetto? Io non ne ho
alcuno: ci ho volato, mi è anche piaciuto, ma sono molto felice di non averci dovuto fare la guerra. E posso
capire la gioia dei piloti che sono passati dagli F104 agli F16. Erano più vecchi di molti dei nostri F104S,
ma ben più dotati dal punto di vista operativo.
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Replica
• Osvaldo 26/08/2011 - 09:31
Anch’io ho avuto modo di raccontare ed esaltare un velivolo le cui caratteristiche tecnologiche per quei
tempi, risultavano effettivamente molto interessanti. L’F104 è stato in Italia il velivolo che ha subito più
aggiornamenti di ogni altro velivolo, proprio perché, come dici, la politica e l’AM non sono riuscite a
trovare “l’accordo” per dare all’Italia il giusto velivolo allineato ai tempi. Come pilota VDS e come grande
appassionato di Aeronautica, ed in particolare quella militare, mi sento di dividere in 3 parti un giudizio non
necessariamente scontato. Dal punto di vista militare l’F104 doveva essere esclusivamente un intercettore
puro, come del resto l’ultimo aggiornamento ha voluto finalmente farlo tornare a quel che era il suo ruolo
più naturale. Vien da sé che per le necessità della nazione nel corso di 40 anni è stato un vero fiasco ed un
inutile forzatura. L’aereo è stato prodotto in Italia nella versione “S” e quindi anche gli interessi industriali
hanno costretto l’AM a indossare una maglietta a maniche corte in un ambiente a temperatura sotto zero.
Dal punta di vista dei piloti non ne ho ancora sentito uno che non abbia avuto il piacere di volare su un
F104 che, sebbene estremamente critico e limitato nelle manovre, ha reso sempre il volo molto eccitante.
Purtroppo l’AM e non solo, ha una lunga lista di piloti deceduti per causa della macchina o perché i
parametri di volo erano talmente rigidi e stretti che un piccolo errore lo si pagava con la vita. Infine, dal
punto di vista degli appassionati di volo e di aeronautica, l’F104 ha rappresentato e lo rappresenta ancora,
un Mito. In 20 anni di manifestazioni a cui ho partecipato l’F104 ha regalato emozioni molto più di quanto
lo abbia fatto un altro velivolo …
Piana delle Orme è una realtà che permette al visitatore di fare un tuffo nel passato, per nulla lontano,
documentando una realtà che è stata vissuta dai nostri cari in un periodo storico che è ormai passato ma che
è la nostra storia. Con il suo F104 ci permette di ammirare ancora le linee ormai statiche ed immaginarlo
mentre solca i cieli arrampicandosi a velocità supersonica. Personalmente lo avrei collocato in un’area
protetta dalle intemperie e sicuramente avrei tolto gli effetti speciali … magari avrei permesso di avvicinare
ancora di qualche metro il pubblico.
Replica
· Roberto Baggio 25/08/2011 - 20:58
Lavoro lì, sono pilota qua, dissento, sono contrario, baraccone o realtà nazionale … personalmente penso:
- A chi piace spendere € 2,00 per un rumore va bene andare a Piana delle Orme, personalmente mi
sembra sciocco, ma io ho avuto la fortuna di sentire l’armonia del rombo di un aereo.
- A me piace andare alla chiesa S. Luigi dei Francesi ed aspettare che un turista straniero metta la
moneta per illuminare i quadri del Caravaggio … ma sono sempre gusti personali.
Un ufficiale AM in congedo
Replica
· Ulisse 25/08/2011 - 22:16
Perché’ generalizzare e valutare Piana delle Orme dall’F104? La struttura è unica e suscita in chi la
visita emozioni e sensazioni coinvolgenti. Io ho avuto modo di visitarla più volte scoprendo ogni volta
nuovi dettagli, nuove sfumature nascoste della nostra storia della bonifica. Ho dedicato meno tempo alla
parte bellica, anch’essa notevole peraltro, ma questa è una scelta personale. Esiste qualcosa di analogo?
O che almeno ci si avvicini? Esiste qualcosa che sfruttando ricchi conferimenti statali ci si avvicina? No,
vuoto assoluto. E tutto grazie ad un privato, animato da una passione immensa per la quale ha lavorato
tantissimo e speso tanti tanti soldi. Ha creato così negli anni l’unico mezzo per o nostri ragazzi di conoscere
la nostra storia, di vedere come si viveva nella palude, l’epopea della bonifica tentata per secoli.L’F104?
Anch’io non avrei fatto nulla del genere, ma capisco che può far piacere a qualche bambino inserire la
moneta. Non credo che sia stato fatto per incassare qualche euro, anzi pochi euro. Un piccolo artificio per
fare spettacolo. E’ importante? Forse sì, forse no. Ma questo è del tutto ininfluente sul valore intrinseco del
complesso che con grandi spese e sacrificio viene portato avanti senza aiuti o interesse dai nostri smemorati
politici. I latinensi invece, o meglio i pontini in genere, dovrebbero conoscere e apprezzare al meglio il
complesso comunque lo si voglia chiamare. Sono le nostre radici.
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Replica
· bumbescu 26/08/2011 - 08:26
Piana delle Orme non piace, è un evidente fallimento, aveva ragione il comune di Latina a boicottarla, è
ambiente per visionari guerrafondai.
Replica
· Quantum 26/08/2011 - 10:21
I musei non sono magazzini da rigattieri, né luna park dei divertimenti, tantomeno luoghi-scatole dove
conservare la memoria ma veri e propri laboratori culturali dinamici, interattivi e didattici, progettati ed
allestiti da professionisti dei più disparati settori multidisciplinari. Non mi pare che Piana delle Orme abbia
questa impostazione, è anche vero che per mantenere e gestire una “collezione” di residuati bellici e mezzi
agricoli c’è bisogno di fare business, ma definirlo museo storico è un errore.
…..e così via …….
Alla luce di quanto sopra riportato, se un consiglio si può dare a Piana delle Orme, in linea con
il pensiero di molti commentatori, è quello di fare un passo indietro limitandosi ad esporre i
due velivoli senza accorgimenti che diano adito ad una critica senz’altro giusta e condivisibile.
Ciò potrebbe portare ancora più lustro ad una realtà amatoriale che, per conoscenza diretta,
ha senz’altro compiuto un grande sforzo nel conservare la memoria storica del territorio,
trasformando capannoni, prima usati per allevamento di animali da cortile, in stand che
raccolgono mezzi civili e militari che hanno lasciato il segno della loro presenza nel territorio
pontino.
Nel merito, l’F 104 e il C119 non hanno alcuna attinenza con tale storia locale e quindi appaiono,
a tutti gli effetti, estranei al contesto tematico di Piana delle Orme ragion per cui ancor di più,
oltre ai contestati effetti a pagamento, sembrano come delle mere attrazioni.
In definitiva, con rispetto parlando e come hanno evidenziato altri commentatori, e non solo
per l’aspetto chiamato in causa dagli ex piloti (faccio riferimento al P40 della Seconda Guerra
Mondiale essendo uno di coloro che lo ricuperarono dal mare donandolo a Piana delle Orme),
il salto di qualità per poter usare l’appellativo di museo deve essere ancora effettuato.
Relativamente alla problematica delle carcasse di velivoli, variamente distribuiti sul territorio
nazionale e conservati in pessimo stato, sollevata da “Bruno”, ex pilota di F104, l’Aeronautica
Militare ha fatto passi da gigante a partire dal 2003 in poi per poter azzerare un fenomeno che,
anche se indirettamente, portava ad essa nocumento.
Proprio chi sta scrivendo, allora Capo Ufficio Storico dell’AM, fu incaricato di studiare tale
problematica essendo impellente la fine della vita operativa proprio degli F 104, avvenuta nel
2004.
In estrema sintesi fu:
- approvato di distruggere i velivoli riducendoli ai minimi termini al fine di evitare che la
loro cessione come “ferro vecchio” potesse consentire successivi possibili usi impropri, come
l’esposizione delle loro fusoliere in modo indecoroso e nei luoghi più disparati;
- stilata una lista di beneficiari delle fusoliere degli F 104, tra tutti quelli che ne avevano fatto
richiesta, nella quale erano inseriti solo Musei, Comuni, Scuole che avessero presentato un
progetto che offrisse le dovute garanzie (per completezza di informazione Piana delle Orme
allora non fu inserita);
- proposto di mantenere un limitato numero di velivoli perfettamente conservati da scambiare
con Musei/Associazioni straniere in grado di fornire velivoli storici (restaurati o da restaurare)
10
mancanti nella collezione del Museo dell’AM di Vigna di Valle, consentendo in tal modo e a
costo zero un notevole incremento dei cimeli storici della Forza Armata;
- proposto l’inserimento nelle pratiche di concessione di clausole ben precise per la salvaguardia
dell’Aeronautica Militare prevedendo anche il recupero di quanto concesso in caso di mancato
rispetto delle stesse. Qualcosa o qualcuno però si “mise di traverso”: la pratica pur completata ed
inviata per la firma (dopo un lungo iter di contatti e coordinamenti anche con altri Ministeri ed in
perfetta armonia con Leggi e Trattati Internazionali in vigore) fu bloccata, anzi ... se ne persero
le tracce. Fortunatamente, anche se dopo un lungo periodo di stasi, l’Aeronautica Militare ha
ripreso il discorso interrotto. Se ne ha conferma nell’intervista fatta dalla Rivista Aeronautica
all’ex Capo del 5° Reparto dello Stato Maggiore generale B.A. Salvatore Gagliano, e non
si può che rallegrarsene anche perché ciò prelude alla possibilità che la Forza Armata possa
riallacciare le trattative a suo tempo interrotte per ottenere importanti pezzi della sua storia.
Si trattava di tre velivoli protagonisti della Seconda Guerra Mondiale che hanno equipaggiato
alcuni Reparti dell’allora Regia Aeronautica: il P39 Aircobra, il P38 Lightning e lo Junker 88,
che venivano offerti come contropartita di alcuni F104 intonsi (ovviamente tutto ciò si potrà
realizzare sempre che ne siano rimasti e che le controparti siano ancora interessate).
Sulla base degli elementi a disposizione e con buona pace per tutti coloro che hanno dato adito
al dibattito sul sito www.Latina24ore.it (si coglie l’occasione per ringraziare il gestore del sito
per la disponibilità) si ritiene di aver contribuito a fare chiarezza su alcune delle valutazioni
avanzate. Per i nostri lettori mettiamo a disposizione la nostra rubrica per una circostanziata
discussione sulle qualità e scelte operative dell’Aeronautica relativamente all’F104, discussione
che ci pare possa e debba essere approfondita. E’ stato o non è stato un bluff come dice un caro
e competente collega nel dibattito anzidetto? Insomma, nel bene e nel male, questo aeroplano,
ufficialmente chiamato cacciatore di stelle, familiarmente chiamato dai suoi piloti spillone ed
ora fenomeno da baraccone o bluff, non vuol finire di far parlare di sé anche dal punto di vista
artistico, come si può vedere dall’immagine qui sotto riportata.
Fateci sapere dunque il vostro qualificato pensiero!
Euro Rossi
KTF 104 di Antonio Riello esposto a Bergamo nella mostra: “il belpaese dell’arte”
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I NOSTRI FILMATI
QUELLA GRANDE PASSIONE PER IL VOLO
“Quella Grande Passione per il volo“ nasce nel 1978 da un’idea, avveniristica per i tempi, di
trasportare su video i principali briefings del corso di pilotaggio che veniva effettuato presso
l’allora Scuola di Volo Basico Iniziale (oggi 70° Stormo) dislocata sull’aeroporto militare
di Latina, dove ancora oggi muovono i loro primi passi, verso il “grande azzurro”, i futuri
Piloti Militari. L’idea nacque a due istruttori, ossia al sottoscritto ed al collega Cristiano Rett,
appassionati sia del loro lavoro che della cineripresa, dal momento che non esistevano ancora
le videocamere amatoriali. Per convincere le “alte sfere” a produrre una siffatta opera magna,
pensammo bene di realizzare, coi nostri mezzi amatoriali (super 8 in pellicola), un filmetto
didattico con riprese fatte sia a terra che in volo e lo mostrammo ai superiori, sottolineando che
la visione a terra di ciò che l’allievo avrebbe veduto in volo era un mezzo didattico efficace.
Nascevano in quei tempi i primi videoregistratori a cassette professionali dal costo proibitivo,
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ma, con un finanziamento adeguato da parte del Comando Generale delle Scuole, l’efficacia
del video-didattico per l’allievo poteva diventare una realtà: un video lo puoi guardare quante
volte vuoi senza scomodare il cinema con le sue delicate pellicole. Il filmetto, oggi gelosamente
conservato da noi autori, piacque talmente che molti credettero in noi, in primis il Comandante
dell’Aeroporto e non ultimo il Comandante dell’Accademia Aeronautica che volle la presenza
mia e di Rett addirittura al matrimonio della figlia. Compito nostro era realizzare il filmato
dell’evento, un piccolo prezzo che pagammo volentieri pur di veder andare avanti il nostro
progetto. A quel punto il ferro da battere era ben caldo e il via ai filmati didattici partì nientemeno
che insieme al competente aiuto della “Troupe Azzurra” del Centro Produzione Audiovisivi
del 5° Reparto dello Stato Maggiore Aeronautica, autori acclamati dei film di propaganda
aeronautica e quindi “professionisti del settore”. I componenti la Troupe Azzurra ci misero
il proprio professionismo cinematografico e noi, in qualità di piloti istruttori, li aiutammo
a risolvere problematiche tecniche relative a situazioni di volo difficili. Ci inventammo ad
esempio una manovra particolare per poter filmare l’aereo che eseguiva la vite, che definimmo
“vite in coppia”. In realtà il velivolo con il cine operatore a bordo che filmava quello in vite
eseguiva uno stallo continuativo a muso basso (difficile da spiegare a parole ed anche da
eseguire, ma funzionò!) Dopo un inizio folgorante culminato con la produzione del primo
film dal titolo “L’atterraggio”, ci fu un intervallo durato quasi due anni, dovuto sia alla cronica
mancanza di fondi che alla poca fiducia riposta nell’efficacia della serie. Si era smorzato
l’interesse delle superiori autorità ma il tutto riprese nel 1980, a seguito della martellante
insistenza dei componenti lo staff addestrativo della Scuola: da ricordare tra questi Pierpaolo
Armenante. Grazie alla sua opera di coordinamento tra lo Stato Maggiore Aeronautica ed
il Comando Generale delle Scuole, insieme ad un lavoro veramente faraonico condotto dal
sottoscritto, da Cristiano Rett e da Gianluca Lo Cascio, la serie andò avanti. Noi ultimi tre, sia
come “attori”, piloti e consulenti, oltre al normale lavoro da istruttori facevamo anche quello
di montaggio alla moviola dei vari spezzoni. Per fare ciò ci recavamo, quasi quotidianamente,
presso lo Stato Maggiore a supervisionare una montagna di pellicole 16 mm da tagliare,
spostare, assemblare, raccomandando anche ai doppiatori professionisti di pronunciare i vari
termini aeronautici correttamente, così come un allievo li avrebbe sentiti dal proprio istruttore.
Da ricordare tra i doppiatori il mitico Riccardo Paladini del Telegiornale degli anni cinquanta.
Portammo in volo i cineoperatori, scrivemmo i testi dei commenti fuori campo, istruimmo
i colleghi “attori” ad assumere la giusta disinvoltura “cinematografica” quando recitavano
i briefing in aula davanti alla cinepresa. Insomma fu un impegno notevole ed oltretutto
nemmeno retribuito da rimborsi spese. Tutto gratis….comprese le spese di produzione che,
con un escamotage del regista, furono demandate ad una ditta civile esterna all’Aeronautica: la
Pegaso Film. Questa avrebbe avuto il copyright e trattenuto per sé gli originali per poi piazzarli
sul mercato francese. Nel 1982 i 16 filmati didattici erano pronti e sono stati usati dalla Scuola
di Volo, riprodotti su videocassette professionali, fino al 2003, anno in cui è stata fatta una
richiesta di finanziamento alle alte sfere, teso a rinnovare la ormai obsoleta video-didattica
della Scuola. Il 70° Stormo avrebbe dovuto provvedere, di contro, ad effettuare un fuori-uso
del vecchio materiale. Purtroppo è stato fatto senza ricordarsi che i video originali non erano
presenti allo Stato Maggiore, ma alla “Pegaso Film” che, nel frattempo, era scomparsa dalla
scena commerciale. Avevo fatto un tentativo nel 1995, approfittando dell’entusiasmo di un
Comandante che aveva militato tanti anni come istruttore alla scuola, ma la passione non era
sufficiente: bisognava rifare tutto di sana pianta e le superiori autorità non avevano orecchie
per sentire. Dopo il 2003 la serie sembrava quindi perduta per sempre se, per una recente idea
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venuta al sottoscritto, non fosse stata “riesumata” quasi miracolosamente oggi… nel 2011.
Come…? E’ un piccolo segreto che ho promesso di non rivelare a chi mi ha aiutato a ritrovarla.
La fortuna ha voluto poi che incontrassi nuovamente l’ex Comandante, a cui nel 1995 mi ero
rivolto e che aveva caldeggiato l’iniziativa, il quale, informato dell’anzidetto “miracolo”, ha
fatto sì che si potesse dare loro il giusto risalto sul Web attraverso questo taccuino per noi
aviatori. È così partito questo progetto per dare visibilità ad un prodotto che se pur “vecchio”,
nulla ha perso riguardo al suo valore didattico. Certo qualcosa da allora ad oggi è cambiato,
io per esempio ho i capelli bianchi e non esercito più la professione di istruttore militare, sono
in pensione, l’SF260 è stato ammodernato, anche nel look, ma la tecnica di insegnamento dei
rudimenti del volo a vista è sempre la stessa. Godetevi quindi i filmati che, dopo aver subìto da
parte mia un certosino restauro dei titoli, dell’audio ed un “ennesimo” montaggio, si presentano
in una qualità accettabile per 15 di essi e molto buona per l’ “Atterraggio” (il primo e l’unico
ad essere negli archivi dello Stato Maggiore). Grazie ora ad AVIA che li ha voluti pubblicare a
puntate su L’Aviatore, il lavoro di un manipolo di appassionati potrà essere nuovamente utile
a tutti coloro che si vogliono avvicinare o che già godono delle meraviglie del VOLO.
Buona visione
Gabriele Rossini
Clicca sul fotogramma per vedere il primo dei filmati
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PAGINE DI STORIA
Il PROGETTO BREDA BA99
il vincitore del concorso “bombardieri normali”
del 1938 che la ditta si rifiutò di costruire
Il concorso Bombardieri Normali
La Regia Aeronautica, agli inizi del 1938, intende rinnovare il proprio parco velivoli bellici e
bandisce ben 7 concorsi per nuovi aerei. Tra questi figura quello per un bombardiere normale
inteso ad affiancare e/o sostituire i velivoli in linea (Savoia Marchetti SM81 e SM79, Fiat BR20).
Le caratteristiche che i costruttori devono rispettare, per realizzare il nuovo aereo, sono di
avere: un equipaggio di 5 persone, 5 armi da 12,7; 500 kg di bombe interne più predisposizioni
esterne, un carico utile di 3.600 kg e sovraccarico di 500 kg, dimensioni le più possibili ridotte,
velocità max di 530 kmh in quota, un coefficiente di sicurezza N=10, velocità minima di 130
kmh; un’autonomia di 2.000 km, la possibilità di effettuare affondate con inizio a 5.000 mt e
mantenere costante la velocità di 690 kmh. L’ordine di priorità, da tenere in considerazione
nelle valutazioni tecniche, è: 1° la velocità, 2° l’autonomia e 3° l’armamento difensivo. Alla
scadenza del bando di gara (30.4.38) vengono presentati dalle ditte aeronautiche 6 progetti,
alcuni interessanti per le soluzioni tecniche offerte. Di questi 3 sono bimotori (Breda Ba 99,
Macchi MC300 e Caproni CA 325) e 3 trimotori (Fiat BR30, il Savoia Marchetti SM89 e
Caproni CA320).
Il caccia da combattimento BA88
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Caratteristiche del progetto BA99
Il velivolo Breda BA99, progettato dagli ingegneri Antonio Parano e Giuseppe Panzeri, si
ispira alla loro precedente realizzazione, il caccia da combattimento BA88. Il nuovo velivolo si
presenta come un monoplano ad ala intermedia, interamente a sbalzo, di costruzione metallica,
bimotore, con motori raffreddati ad aria del tipo Alfa 135 o Piaggio PXXII. Nello studio del
velivolo i progettisti hanno ridotto al minimo le dimensioni della fusoliera e le installazioni
difensive, riducendo così l’equipaggio a 4 persone, pur consentendo lo svolgimento di tutte le
mansioni inerenti all’impiego bellico e alla potenzialità difensiva. L’ala, bilongherone, riproduce
i profili aerodinamici dei Breda Ba 88, la fusoliera è con struttura a guscio e accuratamente
profilata e la cabina di prua è interamente trasparente, consentendo così una completa visibilità
anteriore ed inferiore. Nella cabina di prua sono sistemati due componenti dell’equipaggio, il
secondo pilota-mitragliere ed il motorista-mitragliere che hanno a disposizione le sistemazioni
dei comandi del traguardo di puntamento, macchina fotografica e delle torrette per l’arma
anteriore e inferiore (quest’ultima telecomandata). Immediatamente dietro è sistemata la cabina
di pilotaggio con il 1° pilota e, alle sue spalle, rivolto verso la coda, il marconista mitragliere
che comanda le torrette posteriori (dorsale che caudale).
Valutazioni dei progetti da parte della R.A.
Il 26.7.38 la Direzione Generale delle Costruzioni Aeronautiche (DGCA) inoltra al Comitato
Progetti (CP), l’autorità costituita per la valutazione dei progetti, la documentazione tecnica
riguardante i sei progetti presentati, esprimendo, per quanto riguarda il Breda Ba 99, il seguente
giudizio:
“trattasi di un velivolo bimotore la cui concezione è inspirata al BA88 e persegue il concetto
fondamentale di ridurre al minimo gli ingombri e le dimensioni. Ne consegue la necessità di
una fusoliera scarsamente dimensionata, che non consente la transitabilità dell’equipaggio.
Il progettista ha risolto ugualmente bene il problema dell’impiego perché ha previsto un
equipaggio molto raccolto che per le sue varie funzioni non ha necessità di spostarsi. La
sistemazione delle bombe è rimasta tuttavia sacrificata poiché è previsto un armamento di sole
4 bombe da 100kg, la cabina di puntamento prevede la sistemazione dei puntatori in tandem
e non affiancati. Il sovraccarico delle bombe è previsto all’esterno. L’equipaggio è di sole 4
persone, ma la disposizione di esse può ritenersi sufficiente. E’ poco idonea l’installazione
dell’armamento inferiore per lo scarso campo di visibilità del mitragliere. La struttura in
durall è di tipo moderno a due longheroni e rivestimento operante. Le caratteristiche di
volo sono buone e attendibili ...” Nelle conclusioni il CP riporta che il progetto BA99 è la
soluzione più originale fra tutte quelle presentate e pertanto giudica il velivolo: “idoneo e
meritevole di realizzazione”.
La DGCA, allo scopo di dare la possibilità alle ditte di apportare le varianti e i miglioramenti
richiesti dal CP, protrae i termini per la presentazione dei progetti al 31.12.1938. Per quanto
riguarda il BA99 è stato rilevato che il carico di bombe interno è limitato, la posizione del
mitragliere inferiore è irrazionale, l’armamento di lancio e l’equipaggio non rispettano le
specifiche del bando.
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Disegni di progetto del BA99
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Caratteristiche del Breda Ba 99 Modificato
Sulla base dei sopraindicati rilievi, la ditta Breda rivede sensibilmente il proprio progetto
presentando la versione BA99 M (Modificata). Le principali variazioni rispetto al modello
precedente sono: superficie alare modificata e aumentata, la posizione più bassa dell’ala,
l’aumento delle dimensioni della fusoliera e degli impennaggi verticali, il potenziamento delle
armi difensive (5 torrette con armi da 12,7 mm di cui una frontale per la difesa anteriore,
due telecomandate poste una sul dorso e l’altra sulla parte terminale della fusoliera e due
telecomandate poste sulla parte terminale delle gondole motori), la sistemazione interna di 5
persone (un nuovo mitragliere nella parte posteriore della fusoliera, dopo il vano bombe, per
controllare le armi sul retro dei motori), un vano bombe ingrandito per contenerne fino a 1.200
kg interne; bombe da 800 kg o siluro agganciabili esternamente.
Il giudizio della DGCA, nel presentare il BA99M al Comitato Progetti, riporta che: “... Si
può dire che la ditta ha rifatto un nuovo progetto e che questo risolve i problemi imposti
dal bando di concorso. L’armamento è complesso ma è da presumere che la ditta data
la propria specializzazione abbia la capacità di risolverlo. E’ soddisfatta l’autonomia. Si
giudica pertanto idoneo.”
Disegni di progetto del BA99M (US-SMA)
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Esito del concorso Bombardieri Normali
Il Comitato Progetti, dopo lunghe e attente valutazioni, richiamato ad esprimere con
sollecitudine il proprio parere dal Capo di Stato Maggiore gen. Giuseppe Valle, il 7.03.39
dichiara vincitore del concorso “Bombardieri Normali” il progetto BA99M, seguito dal Ca325
(2° classificato), dal Fiat BR30 (3° classificato) e dal Savoia Marchetti SM89 (4° classificato).
La DGCA su specifica richiesta del gen. Valle, ordina alle ditte la costruzione di n. 2 velivoli
per ognuno dei progetti classificati, con consegne da effettuarsi al massimo entro un anno. A
questo punto, però, la ditta Breda, il 20.04.39, scrive alla DGCA di avere difficoltà di tempo
per la realizzazione dei prototipi. Specifica che le attuali disponibilità di personale nell’ufficio
tecnico non le consentono di assumere nuovi impegni prima di due anni e che in ogni caso
il prezzo di fornitura sarebbe stato senz’altro più alto di quello stanziato, in quanto avrebbe
dovuto sostenere spese di sperimentazione per le numerose innovazioni presenti nel velivolo.
Richiede pertanto di essere esonerata dal concorso e dalla costruzione dei prototipi. Il gen.
Valle cerca di far rivedere la posizione assunta dalla ditta arrivando anche a minacciare possibili
conseguenze nel caso in cui ci siano ritardi nella costruzione dei velivoli. La ditta però mantiene
ferma la propria posizione e lo SMA è costretto ad annullare l’ordine di costruzione. Purtroppo
il concorso “Bombardieri Normali” si rivela un autentico insuccesso per la R.A. perché anche
le altre ditte (Caproni, Fiat e Savoia Marchetti) si mostrano restie alla costruzione dei prototipi
richiesti. Questo perché era economicamente più conveniente continuare a costruire i velivoli
che avevano in produzione, quali l’SM79 ed il BR20, o quelli derivati,in avanzata fase di
costruzione come l’SM79bis (il futuro SM84) o il BR20 Bis. La RA quindi, nei primi del
1940, annullerà l’ordinazione del BR30 dell’SM89 e del Ca325, piuttosto che avventurarsi
nella costruzione di velivoli interamente nuovi. La RA quindi si vede costretta ad annullare le
ordinazioni di tutti i prototipi ordinati.
Considerazioni
Il BA 99, come abbiamo visto, derivava dal caccia da combattimento BA88 che proprio
agli inizi del 1939 iniziava ad essere distribuito ai reparti di volo. La RA, sulla base delle
caratteristiche di volo del prototipo civile del BA88 che aveva conquistato più volte il record
mondiale di velocità arrivando a 554 kmh con 1000 kg di carico, aveva richiesto alla Breda la
costruzione di ben 150 aerei senza aspettare le prove in volo della versione militare. Purtroppo
il velivolo (con nuovi motori, modificato nei piani di coda e appesantito dalle installazioni
militari), una volta assegnato ai reparti, faceva riscontrare una forte velocità d’atterraggio (220
kmh), una bassa velocità massima (440 kmh) e difficoltà di volo a pieno carico. Gli interventi
correttivi effettuati dalla ditta non sortirono alcun effetto ed i velivoli, nella successiva guerra,
non furono quasi mai impiegati operativamente.I dirigenti della Breda, visto tale insuccesso,
pensarono che anche il BA99 potesse avere le stesse pecche del BA88 (le modifiche strutturali
apportate al progetto BA99M ne sono un’evidente riprova) e che, come riportato nella lettera
inviata alla DGCA, fosse necessario dover spendere parecchie ore di studio e lavoro nella
sua realizzazione, con esiti incerti sulla riuscita. Evidentemente questa probabilità di andare
incontro ad un possibile ulteriore insuccesso fece decidere, da parte dei dirigenti Breda, di non
procedere più alla realizzazione del velivolo, anche perché il futuro produttivo della ditta era
assicurato con le commesse per la costruzione, su licenza, dei caccia Macchi MC200. Fu un
vero peccato perché il Comitato Progetti, composto dai massimi esperti della RA, che aveva
valutato attentamente ed intensamente il progetto, lo aveva giudicato il migliore perché il
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più moderno e il più innovativo. Effettivamente il telecomando delle armi posizionate nella
parte posteriore delle gondole motore avrebbe potuto presentare dei problemi ma, come anche
indicato dalla RA nei commenti al progetto, si sarebbe potuto ritornare alla torretta posizionata
nella parte inferiore della fusoliera, proposta nel primo progetto. I problemi maggiori però
sarebbero potuti venire dai motori. L’industria motoristica italiana dell’epoca costruiva
buoni motori di piccola e media potenza (fino a 1.000 CV), quasi tutti però su licenza estera.
Quelli di potenza superiore, in corso di sviluppo, non furono mai all’altezza delle aspettative.
L’Alfa 135, realizzato nel 1939, infatti, non fornì quell’affidabilità richiesta, mentre il Piaggio
PXXII ebbe una lunga gestazione progettuale tanto che al settembre del ‘43 era ancora in
fase di sperimentazione. Purtroppo la Breda con la decisione di non costruire il BA 99M ci
ha tolto il piacere di veder realizzato questo interessante progetto di bombardiere leggero che
come caratteristiche fisiche e di volo si pone alla pari con i contemporanei JU88 e Do 217
tedeschi, Boston e Maryland americani. Nelle tabella 1 sono riportate, a titolo di raffronto le
caratteristiche del BA99, nelle due motorizzazioni (tra parentesi le variazioni della versione
BA 99M), con quelle del BA88 e dei bombardieri italiani costruiti durante la guerra; nella
tabella 2 quelle con i bombardieri stranieri.
Tipo
motori, tipo
potenza, hp
apert.alare,
m
lunghezza,
m
super. alare,
mq
peso vuoto,
kg
peso max,
kg
veloc. max,
kmh
veloc. min,
kmh
tempo
salita
BA88
P.XI
2x1.000
15,6
BA99 M
Alfa135
2x1.400
19,8
BA99 M
P. XXII
2x1.600
19,8
SM 79
Alfa125
3x750
21,2
BR 20
Fiat A80
2x1000
21,56
CZ1007bis
P. XI
3x 1.000
24,8
SM84
P. XI
3x1.000
21,13
CZ1018
P. XII
2x1350
22,5
10,8
13,3
13,3
15,6
16,1
18,47
17,93
17,6
33,34
51 (56,5)
51 (56,5)
61,7
74
70
61
63,1
4650
5.765
(6.350)
10.000
(10.675)
525
5.765
(6.350)
10.000
(10.675)
560
6800
6500
9369
8847
8800
10500
10100
13621
13288
11500
430
430
456
432
524
135
130
120
130
140
140
12’ a
13’ 15” 14’ a
9’36”
12’20”
7’34”
6.000m
9000
6.000m
9000
4.000m 4.000m
7000
9000
4.000m
.8400
4.000m 4.000m
7900
7250
2100
2000
1900
2750
2000
1830
1350
3x12.
3x12.7,
3x12.7
2x12.7
2x12.7
4x12.7
3x12.7
1x7.7
(5x12.7)
600(1200)
4 (5)
metallica
1x7.7
1x7.7
2x7.7
1250
5
mista
1600
1200
5
5
metallica lignea
6750
490
(teorica)
110
135
(teorica)
9’ a
15’ a
4.000m
tangenza,
8000
m
autonomia, 1650
km
armamento 3x12,7
1x7.7
7,1x7.7
(5x12.7)
bombe kg 300
600(1200)
equipaggio 2
4 (5)
costruzione metallica metallica
2x7.7
1000
5
mista
2000
5
metallica
20
Tipo
motori, tipo
potenza, hp
apert.alare, m
lunghezza, m
super. Alare, mq
peso vuoto, kg
peso max, kg
veloc. max, kmh
BA99 M
Alfa135
2x1.400
19,8
13,3
56,5
6350
10675
525
Ju88A4
JJ
2x1350
20
14,36
53,5
7800
11000
470
DO217E
BMW
2x1.580
19
18,2
57
8950
15000
516
Boston
Wright
2x 1.521
18,7
14,6
43,2
6162
7524
520
Maryland
P.W.
2x1.200
18,7
14,3
50
5086
7625
486
tangenza, m
9000
7000
9000
8400
autonomia, km
2100
1800
2750
1600
armamento
5x12.7,
2x13 - 3x7.9 3x13 - 3x7.9 6x7.7
bombe kg
1200
2000
3000
966
equipaggio
5
4
4
4
in servizio
------1940
1940
1940
73150
1210
8x7.7
907
4
1941
Luciano Sadini
I DUE OROLOGI CHE
VOLARONO A TOKYO
La copertina della Domenica del Corriere edizione del 2 agosto 1942, con il
disegno di Achille Beltrame che illustra l’evento trattato in queste pagine.
D
ue orologi – un Eberhard e un Longines – sono
tra i protagonisti di un episodio poco conosciuto
della seconda guerra mondiale: nel 1942 volarono da
Roma a Tokyo, andata e ritorno. Si è in piena guerra e
le potenze dell’Asse non possono comunicare tra loro
via radio perché i codici segreti sono stati decrittati dagli
anglo-americani. Italia, Germania e Giappone decidono
di collegare i tre paesi con un regolare servizio aereo,
anche per trasmettersi i nuovi codici. Gli italiani
saranno gli unici a riuscirvi, grazie ai due orologi ma non solo. Quella che segue è la storia
dell’episodio. Tutti sanno che gli orologi sono utili alla navigazione aerea, così come sono
utili per quella marittima. Nel caso in questione il problema è semplice: si deve fare un volo
di oltre 10.000 chilometri da dividere in tre tappe – siamo nel ’42 e l’autonomia di un aereo
è quella che è – e la tappa più lunga è tutta su territorio nemico. Non c’è GPS, non c’è radar,
non ci sono radioassistenze, radiofari, radiogoniometri, niente. Ci sono le stelle e i due orologi
– o meglio cronometri: dunque, si può fare la navigazione astronomica. Però va fatta da un
21
aereo e non da una nave; e qui casca l’asino, perché i sestanti disponibili sono da marina
e non da aeronautica. È necessario studiare un sestante interamente nuovo, un sestante da
aeronautica appunto. Perciò il ‘navigatore’ del futuro volo si mette in contatto con gli esperti
dell’Accademia Navale di Livorno, dell’Osservatorio Astronomico di Arcetri, dell’Istituto
Geografico Militare di Firenze: studiano la situazione, controllano quel che hanno realizzato
inglesi e americani – attraverso il materiale preso dai loro aerei abbattuti! – e inventano
soluzioni ingegnose. Infine, realizzano il nuovo sestante, che oggi – poco più di sessant’anni
dopo – è completamente superato, abbandonato e dimenticato in qualche polveroso magazzino
del Museo storico dell’Aeronautica di Vigna di Valle. Per i due cronometri fortunatamente
c’è la Svizzera, e fortunatamente la Svizzera è neutrale. Dunque, vi si possono comprare un
paio di orologi Modello Lindbergh alla Longines. Lindbergh è un nome famoso nella storia
dell’aeronautica, è l’autore del primo volo senza scalo sopra l’Atlantico, da New York a Parigi
in 33 ore e 39 minuti: 20-21 maggio 1927. Ed è anche famoso nella storia dell’orologeria,
perché è proprio a seguito del primo volo transatlantico che la Longines crea, su indicazioni
e disegno dello stesso Lindbergh, il modello a lui intitolato. Un modello detto anche ‘Angolo
Orario’, dotato di due quadranti interni, uno fisso e uno mobile, che convertono le ore in gradi
di arco, come fa anche la lunetta mobile esterna: il navigatore regola l’orologio sul tempo di
Greenwich (GMT = Greenwich Mean Time) e posiziona la lunetta mobile sul tempo reale, poi
fa il punto col sestante e legge i gradi e i minuti d’arco sull’‘Angolo Orario’. Sempre dalla
Svizzera neutrale, si possono ordinare alla Manufacture d’Horlogerie Eberhard & Co. di La
Chaux-de-Fonds – alla lettera – “10 pezzi Lepine Cronometri Astronomici per la navigazione,
all’uso dell’Aeronautica, con cassa metallo cromato, grandezza a 20”, movimento senza
sdoppiante, con quadrante 24 ore, e calendario dei giorni e mesi.” Al prezzo di “Netti Franchi
Svizzeri 220,- al pezzo”. “Su tutti questi orologi” – prosegue la lettera di conferma dell’ordine
della Eberhard – “figurerà la denominazione ‘Modello Magini’ e questo tipo di orologi sarà da
noi internazionalmente depositato.” Come è chiaro, anche l’Eberhard è un modello speciale,
Il velivolo SM. 75 RT, prima della partenza da Guidonia (archivio Magini)
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col quadrante ripartito non sulle solite 12 ore, ma sulle 24 ore che corrispondono ai 15 fusi
orari in cui è suddiviso il globo terrestre. Magini è il nome del ‘navigatore’; il comandante del
volo si chiama Moscatelli, il secondo Curto, il motorista Leone, il radiotelegrafista Mazzotti.
L’aereo è un Savoia-Marchetti 75, opportunamente modificato per voli eccezionali e dunque
siglato GA (Grande Autonomia): ha tre motori Alfa Romeo 128RC21, è dotato di impianto
antighiaccio, di sestante tipo Platt, di eliche Idrovaria S53, di carburatori tarati sulla curva
di minimo consumo specifico, di un potente apparato radio. L’SM.75 ha un’apertura d’ali
di 30 metri e una lunghezza di 22; a vuoto
pesa 11.200 chili, al decollo il peso massimo
previsto è di 22.000 chili. Però il volo è
estremamente rischioso; in più il Giappone,
che non è in guerra con l’Unione Sovietica,
non vuole che quest’ultima venga sorvolata
da un velivolo militare e propone una rotta più
meridionale, ma molto più lunga. Nell’attesa
di una decisione definitiva, gli italiani –
con un diverso equipaggio ma con lo stesso
navigatore, e vedremo subito perché – fanno
un volo di prova… Decollano il 7 maggio 1942
da Guidonia, 20 chilometri a est di Roma, e
atterrano al campo K.3 di Bengasi. Bengasi
Il cronometro astronomico della Eberhard; diametro
mm. 50, cassa in metallo cromato, quadrante su 24 ore,
– oggi, purtroppo, lo sanno tutti – sta sulla
calendario dei giorni e dei mesi. Quello fotografato è
costa della Libia bagnata dal Mediterraneo, a
forse l’unico esemplare a portare sul quadrante la scritta
‘Sistema Magini’, invece della dizione adottata in seguito
metà strada tra Tripoli e Alessandria d’Egitto.
di ‘Modello Magini’.
Poi ripartono a sera, puntano verso sudest,
sorvolano il deserto libico, attraversano il
Sudan, entrano in Eritrea e sorvolano Asmara.
Là buttano dei manifestini di propaganda con
scritto “Ritorneremo” – è il sesto anniversario
della fondazione dell’impero, ma l’impero è
già perso, Asmara e l’Eritrea sono in mano
agli inglesi – e prendono la via del ritorno:
Sudan, Libia, Mediterraneo, Sicilia, Tirreno
e, finalmente, Roma-Ciampino. BengasiAsmara-Ciampino: 29 ore filate di volo per
quasi 7.000 chilometri: la prova è riuscita!
Ma il diavolo – si sa – ci mette la coda: il
Il modello ‘Lindbergh’ o ‘Angolo orario’, della Longines;
giorno dopo, nel breve volo di trasferimento
diametro mm. 47, cassa in argento.
da Ciampino a Guidonia, 20-25 chilometri in
tutto, i tre motori ‘piantano’ contemporaneamente e l’aereo vien giù. A dieci metri da terra.
Nuovo aereo e nuovo equipaggio – non che il vecchio sia crepato, è solo fuori uso: tutto nuovo
salvo il navigatore, che è l’unico a saper usare il suo sestante, a aver studiato le posizioni delle
stelle che dovrà osservare durante le lunghe ore di volo notturno, ad aver realizzato l’Eberhard.
Dunque è l’unico a sapere – anche in piena Mongolia e in una notte buia e tempestosa –
‘dove’ diavolo si trova l’aereo e ‘quando’ si deve iniziare la discesa verso l’aeroporto, dove li
aspettano per rifornirli e vederli ripartire.
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L’equipaggio del volo Roma - Tokio - Roma del giugno - luglio 1942 davanti al Savoia Marchetti SM 75 RT
Il nuovo aereo – SM.75 RT ( Roma-Tokyo) – decolla alle 5,30 del 29 giugno 1942 da Guidonia,
sorvola Belgrado, Bucarest, Odessa e atterra alle 14,20 a Zaporoz’e sul Don in Ucraina. Questo
è il punto più avanzato del fronte che divide i tedeschi dai russi. Qui l’aereo fa un pieno
eccezionale e riparte col buio, la sera dopo, alle 18.00 GMT, con un decollo faticoso e lentissimo.
Scrisse Magini anni dopo: “Le luci brillanti e continue degli scoppi coprivano l’orizzonte.
Volavamo molto bassi su terra. Il tempo passava. Moscatelli e io decidemmo di tagliare la
rischiosa linea del fuoco, ben visibile. Spegnemmo le luci di posizione dell’aereo. Poi si tentò
di evitare i tratti del fronte più luminosi, ma ogni manovra faceva perdere quota. Sebbene
inquadrati più volte dalle fotoelettriche, presto ne venivamo persi. Un numero incredibile di
traccianti saliva verso di noi, lentamente, molto lentamente, come in un film al rallentatore, e
ogni volta era una stretta al cuore, poi passavano poco lontano. Vidi per la prima volta salire
dritti verso il cielo strani fuochi d’artificio, lenti in apparenza, che avevano una strana coda.
Il cap. Magini in sosta a Tokio. (archivio Magini)
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Erano razzi, ma non lo sapevamo. Quel tiro al piccione contro di noi durò abbastanza a lungo,
a varie riprese, a intervalli di tempo. Il fronte era evidentemente apprestato a difesa su grande
profondità. Rostov sul Don e un altro paio di grossi centri erano in fiamme. Astrakan ci dedicò
un’ultima salva. Poi non vedemmo più nessuno. Ci perdemmo nel cielo infinito dell’Asia e
nel buio profondo della notte…” Li attendono il mar Caspio e il Kazakistan, il lago di Aral
e il Balkash, i monti Altai e i Tarbagatai, la Mongolia e il deserto di Gobi. Dopo oltre 6.000
chilometri atterrano a Pao Tow Chen (oggi Bao Tou) sul fiume Giallo, alle 17.20 del 2 luglio.
Sono in Mongolia interna, in mano ai giapponesi, e l’aereo viene ridipinto con le insegne del
Sol Levante. Poi ripartono alle 10.35 del 3, sorvolano Pechino e Seul, e arrivano a Tokyo
alle 20.00, dopo altri 2.700 chilometri. Il volo è un trionfo di audacia, di capacità tecniche, di
regolarità, ma viene tenuto segreto: i giapponesi intuiscono che l’aereo ha sorvolato l’Unione
Sovietica e non vogliono che si sappia in giro. Il ritorno segue quasi la stessa rotta. Partenza
il 16 luglio alle 12.20 GMT da Tokyo per Pao Tow Chen, con arrivo a mezzanotte e quaranta.
L’aereo, ridipinto con i colori italiani, decolla alle 21.45 GMT, pesantissimo, da un campo a
oltre 1.000 metri di quota, con una temperatura elevata, di 24 °C. Partenza difficile, 28 ore e
mezza di volo, arrivo pessimo. Ricorda ancora Magini: “Dopo una notte che non finiva mai,
poco prima dell’alba arrivammo nei pressi del mar Nero. Il cielo era coperto: sotto stagnava
uno sterminato lago di nebbia. Ci trovammo in difficoltà: la benzina non era abbondante,
la radio fuori uso, io non ero in grado di usare le stelle che non si vedevano, né il sole che
non era sorto. Girammo molto a lungo sopra la zona nord del mar Nero intorno al punto
stimato di Odessa, sempre tra nubi pesanti sopra di noi e nebbie compatte sotto. Avvistammo
all’improvviso un angolo dell’aeroporto: bastò uno sguardo tra Moscatelli e me: con manovra
acrobatica c’infilammo in una striscia di prato malamente distinguibile in mezzo a fumi
indistinti...” E conclude: “Non fu facile persuadere il comando dell’aeroporto che arrivavamo
dalla Cina e che dovevamo proseguire subito per Roma.” Ultima tappa: Odessa-Guidonia, sei
ore e cinquanta per 1.500 chilometri. Mussolini attende l’arrivo e premia l’equipaggio. Il volo
è eccezionale, l’impresa incredibile – anche se praticamente inutile tanto ai fini della guerra
quanto a quelli del progresso aeronautico – l’episodio quasi sconosciuto. Tutto è dovuto agli
uomini, all’aereo, al sestante e ai due orologi – gli unici che ci sono ancora. Insieme al disegno
di Beltrame che celebra l’avvenimento, sulla Domenica del Corriere del 2 agosto 1942. I
giapponesi “abbozzano”; del resto, né loro né i tedeschi son riusciti a fare altrettanto.
Leonardo Magini*
* L’autore è figlio del “navigatore”
25
AMARCORD
PRIMO DECOLLO DA SOLISTA
E
ro assorto nei miei pensieri quando la voce gracchiante dell’altoparlante mi annunziò che
ero convocato in Sala Operazioni. Ebbi un tuffo al cuore…<<Ecco che il grande momento
si avvicina, coraggio! >>…mi sussurrava una parte di me stesso.
L’allievo Restelli al decollo con il T 6. (archivio Restelli)
<<Bene Restelli, prenda il libretto del 27, il paracadute, faccia i suoi bravi controlli e vada
su…mix 27!>>. Dissi: <<Sissignore!>> e andai….ma mentre scendevo di corsa la scaletta
metallica, che portava in cima alla “torretta-operazioni”, tutto il peso del mio assenso mi
investì in pieno: dovevo decollare da solo per la prima volta….da solo! Una ridda di pensieri
si affollava nella mia mente e, nonostante cercassi di concentrarmi nell’effettuazione dei
controlli, del paracadute prima e del velivolo poi, una parte del mio cervello continuava a
lavorare in autonomia. Gli specialisti mi guardavano sorridenti mentre io, con calma apparente,
registravo le bretelle del seggiolino. La sequenza dei controlli pre-avviamento e pre-rullaggio
sfilava davanti agli occhi della mia mente mentre le mani, quasi automi dipendenti da me solo
per essere meccanicamente congiunte al mio corpo e non per gli impulsi che mi sembravano
avulsi dalla mia volontà, eseguivano tutte le manovre con precisa rapidità. Al primo giro
dell’elica, al primo scoppiettio del motore, però, tutte le mie preoccupazioni scomparvero.
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Anche quella parte autonoma di cellule cerebrali che si era come estraniata dalla realtà si
liberò di tutti i pensieri per accogliere le sensazioni esterne, per registrare ed analizzare la
danza ritmica delle lancette dei numerosi quadranti presenti sul cruscotto, i quali sembravano
ammiccare trasmettendo i rispettivi messaggi relativi a pressioni, temperature e numeri di giri.
Mentre attendevo che il canale “Bravo” fosse sgombro per chiedere a “Pomigliano Torre“
l’autorizzazione al rullaggio, sembrerà strano, riflettevo che da quegli strumenti, da quelle
lancette, da quelle lampadine spia che sembravano avere una vita propria… sarebbe dipesa
la mia tra pochi istanti. Questo pensiero, però, non destava nel mio animo alcun timore…lo
analizzavo con freddezza, come un dato di fatto, come una cosa ineluttabile. Mentre passavo
rullando davanti al gazebo, dove i miei colleghi attendevano che l’altoparlante gracchiasse
anche per loro, vidi delle mani agitarsi e udii qualcuno gridarmi qualcosa di incomprensibile.
Qualche sillaba smozzicata superò comunque la barriera sonora dello scarico del T 6 ….<<In
bocca al lupo!>>…. ricostruii. Una volta allineato in pista effettuai i controlli della prova motore
con calma ed oculatezza, nonostante sentissi l’impulso di accelerare le operazioni. Ormai i
dubbi, i timori si erano trasformati in desiderio impellente di staccarmi da terra ancora una
volta, ma una volta diversa dalle altre….ora ero solo…! Era da tanto che desideravo giungesse
questo momento ed ora che la lancetta del contasecondi stava per scandire l’attimo che segnava
l’inizio della “mia avventura”, mi sentivo incapace di attendere oltre. Finalmente la voce
dell’operatore di “POMI-TORRE”, alla mia richiesta di autorizzazione al decollo, scandisce
nella cuffia: <<Zodiaco 2-7 autorizzato!>>. Stacco i piedi dai freni dando contemporaneamente
tutta manetta. L’aereo inizia la sua corsa con uno spunto rabbioso acquistando rapidamente
velocità. I bordi della pista diventano sempre più indistinti, il verde del prato più uniforme.
Ormai l’aereo ha raggiunto la velocità di sostentamento, sobbalza sulle ruote mentre io lo
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costringo con la cloche a stare ancora un po’ giù. Finalmente, con una mia leggera tiratina i
pneumatici si staccano definitivamente dal suolo. Se ripenso agli istanti successivi al decollo,
ancora adesso mi sento invadere da un grande senso di esultanza…..mi sentivo grande,
enorme…anche se avevo dovuto porre due cuscini dietro la schiena per poter giungere con i
piedi al “fondo corsa” della pedaliera…! Mi sentivo fiero di me, felice di appartenere da quel
momento ad una ridotta schiera di eletti. Mille e mille pensieri, mille e mille sensazioni si
affollavano nella mia mente…ero lì, solo nell’azzurro, padrone del mio sogno! Il rombo del
motore era musica eterea in quello stato di ebbrezza. Uscii fuori dal circuito e mi diressi nella
zona assegnatami. Mentre salivo alla quota fissata, bianche nuvolette sparse sfilavano veloci
accanto a me costringendomi a continue variazioni di direzione. Quando l’altimetro segnò la
mia quota livellai dolcemente e iniziai a volteggiare. Forse non credo avrò fatto in seguito virate
così perfette….inclinavo di un tantino la cloche, davo quel tanto di piede necessario e l’aereo,
docile come non mai, eseguiva perfettamente! Roteando come un falco, rincorrevo le nubi che
sotto di me formavano bianchi cumuli ovattati, descrivevo immaginarie caotiche figure, mentre
l’aria frizzante mi sferzava il volto attraverso il tettuccio aperto di proposito. Con l’istruttore
ciò non mi era consentito, perché a lui il vento dava fastidio occupando il sedile posteriore. A
me, invece, sembrava di soffocare fisicamente e psichicamente con il tettuccio chiuso….non
che soffrissi di claustrofobia, ma il sentire il vento gelido sul mio viso rendeva più reale, più
intimo quel contatto con un mondo diverso dal normale, col mondo delle nuvole e dei falchi
… col mio mondo da quel momento in poi! Fu con grande rammarico che iniziai la discesa
per rientrare al campo. Dalla “biga”, con cui ero rimasto sempre in contatto radio, mi avevano
ordinato di riportarmi in circuito. Mentre perdevo quota la visibilità anteriore, normalmente
alquanto scarsa per via dell’ingombrante vano motore del T 6, aumentò notevolmente così
potei meglio spaziare con lo sguardo e le visioni ormai note del castello diroccato sulla collina,
della sinuosa linea ferroviaria,della casetta rossa vicino al ponticello, della fattoria con gli
archi, del Vesuvio in lontananza apparvero diverse ai miei occhi. Quasi partecipi della mia
conquista, sembravano mettersi in maggior rilievo per guadagnarsi il loro posto d’onore nei
ricordi da imprimere nella mia memoria. Purtroppo la mia missione volgeva al termine…mi
restava da affrontare il più difficile degli ostacoli: l’atterraggio! Finora avevo volutamente
scacciato dalla mia mente quel pensiero, ma ora non potevo più! Avevo già effettuato i controlli
del”sottovento”… ancora una virata, i controlli “base”, un’altra virata e poi il “finale”.
In omaggio a Franco, ecco il Texan con il numero di carrozzella 27: proprio quello del suo decollo.
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Eccoci! Riduco manetta, “trims”, 20° di “flaps”. L’aereo ha un assetto molto picchiato, sembra
cadere giù. Ecco la testata pista dinanzi a me. Fuori tutti i flaps . La testata si avvicina sempre
più. La velocità scende, scende. Mancano pochi metri. Una voce in cuffia mi dice di “richiamare
dolcemente” … è l’istruttore dalla “biga”. L’ho preceduto! Ho superato la testata, sono sulla
pista. L’aereo smaltisce la propria velocità, mentre continuo dolcemente a tirare indietro la
cloche. Il T 6 è ora sui “tre punti”. Sono ancora troppo alto, una “spuntatina” di motore,
qualche attimo di attesa… ed ecco l’impatto! Uno sbalzo sulle ruote … cloche alla pancia.
L’aereo imbarda … piede dalla parte contraria, immediatamente … ecco va dritto, centralizzo
e freno dolcemente. Ormai rullo sulla pista normalmente … un’occhiata in giro, effettuo gli
ultimi controlli, mi rilasso. La tensione di quegli ultimi istanti mi ha spossato, ma la felicità
che ho nel cuore straripa … CE L’HO FATTA!!!
Franco Restelli
1
IL GOLFO PERSICO
N
el luglio del 1990 il mio Gruppo volo si trasferì da Ghedi, vicino Brescia, a Piacenza per
riaprire il mitico 50° Stormo. Eravamo euforici! Mancava ancora parte dei locali dove
lavorare, il nuovo bunker non era pronto, per fare manutenzione ai velivoli dovevamo tornare
a Ghedi…ma eravamo felici di essere lì, di riaprire un aeroporto, ricominciare da zero dopo
aver operato con ottimi successi dalla precedente base. Era come quando, da bambino, ti danno
un nuovo gioco. Bello e complicato, ti luccicano gli occhi perché capisci che ti divertirai
tanto anche se non sai precisamente come si monta! Noi eravamo tutti felici! Mia moglie era
rimasta incinta a febbraio ed avrebbe partorito da lì a qualche mese. Nulla poteva essere più
desiderabile. Fu così che apprendemmo la notizia, il 1° agosto, che il Kuwait era stato invaso
dalle truppe irachene, e dopo un paio di settimane ci dissero che anche il nostro Gruppo si
sarebbe rischierato negli Emirati Arabi Uniti. Dopo l’eccitazione iniziale (confesso che quasi
tutti erano convinti che non ci sarebbe stata alcuna guerra!) ciascuno, in cuor suo, iniziò a
farsi quelle domande che non si era mai posto profondamente. Quando entrai in Accademia, lo
avevo fatto per il volo, per quella grande passione che avevo, e scelsi l’Aeronautica Militare
per farlo nel migliore dei modi, servendo il mio Paese. Chiaramente ero pronto e disposto
a rischiare la mia vita per farlo, ma dire che avevo pensato che nel giro di 8 anni mi sarei
trovato a combattere una guerra…beh, direi una bugia. Quindi ci fu un periodo di smorzata
allegria, durante il quale tutti facevano i preparativi cercando di non lasciare nulla al caso e
durante quei giorni la solita euforia lasciò il posto ad un misto di concentrazione, serietà e
poca voglia di scherzare. I primi a partire furono gli equipaggi più esperti, quelli che avevano
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partecipato alle esercitazioni negli Stati Uniti. Noi che rimanemmo indietro eravamo in un
certo senso invidiosi: loro stavano andando a fare quello per cui noi tutti ci eravamo sempre
addestrati, e sapere che toccava a loro andare lì ed eventualmente combattere una guerra e
rischiare la loro vita ci metteva un po’ a disagio. Non è, come molti pensano, che noi militari
siamo guerrafondai. E’ tutta un’altra cosa! E’ spirito di Corpo, è amicizia, è voler essere al
fianco di chi rischia di più e, se possibile, dividerne il peso. Queste sono le motivazioni che in
noi tutti si formavano e che ci facevano guardare con una sorta di malinconia quei dieci aerei
che, dipinti di giallo, decollavano da Gioia del Colle con prua Sud. Verso la fine di settembre
apparve chiaro che la guerra, se ci fosse stata, non sarebbe iniziata che dopo Natale, ragion per
cui era necessario effettuare una certa turnazione degli equipaggi rischierati. Fu così che anche
i più giovani furono messi in lista per partire. A dire il vero io, che ero uno dei più giovani
del Gruppo, non sarei neppure dovuto partire, ma un mio collega più anziano aveva la moglie
incinta che avrebbe partorito dopo la nostra partenza, motivo per cui poiché mio figlio stava
per nascere, accettai volentieri di partire prima io, subito dopo aver visto venire alla luce il mio
Luca. E così il 15 Novembre del 1990 partii insieme ad altri colleghi per un’esperienza che
si è poi rivelata intensissima, importante ed unica. L’ambiente nel villaggio “Locusta” negli
Emirati era eccezionale! Nonostante ci sia una precisa gerarchia tra i militari, lì eravamo un
unico gruppo di persone che si stava amalgamando in modo da rendere al massimo.
I rapporti con gli equipaggi degli altri Gruppi erano perfetti…riuscimmo anche a procurarci
un piccolo generatore elettrico a benzina e a collegarlo ad un traliccio con luci per poter fare
qualche partitella a pallavolo notturna (viste le alte temperature che ancora c’erano lì nel
deserto). Insomma, ci addestravamo, studiavamo, e piano piano ci portavamo al massimo della
condizione psichica e fisica…e non sapevamo se ci sarebbe stata ‘sta maledetta guerra! Quella
era la cosa più frustrante! Il non sapere cosa sarebbe successo! Avere un obiettivo chiaro e
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sicuro è uno degli elementi che può fare la differenza in un esercito. Noi non ne avevamo
uno chiaro o meglio…sapevamo il livello di addestramento che dovevamo raggiungere, ma il
resto era evanescente. Verso i primi di dicembre ebbi la brutta notizia che appena dopo Natale
sarei stato inviato in Arabia Saudita presso il comando Alleato per fare da coordinamento tra
gli assetti italiani e il resto della coalizione. Fu una grande delusione, per me, dover lasciare i
miei colleghi ed amici per andare lì. Non avrei partecipato alle operazioni belliche, che ormai
sembravano certe, ma avrei seguito tutto da una bella sala di controllo. La rabbia, poiché in
realtà di quello si trattava, era dovuta al fatto che non avrei mai voluto lasciare i miei amici
lì a fare da soli quello per cui ci eravamo addestrati insieme. Mi rendevo conto che era una
cretinata, nessuno avrebbe sentito più di tanto la mia mancanza! Del resto ero il più giovane,
con meno esperienza, ed era logico che dovessi andare io! Ma non c’è nulla che può farti
capire certe cose quando in cuor tuo non vuoi lasciare il tuo Gruppo! E così cominciò una
nuova fase di preparazione per me. Da Riyadh avevo il compito di organizzare le missioni di
volo dei nostri Tornado, di inserirli nel programma generale della coalizione e di curare ogni
aspetto per evitare conflitti con le altre missioni. Mi convinsi che anche il mio lavoro era utile
e cercai di dedicare a quello tutte le mie energie (non che ci fosse molto altro da fare…).
Quando scoppiò la guerra ero completamente inserito in quella incredibile organizzazione
messa su dagli Americani, e il mio lavoro finalmente diede i frutti voluti.
Purtroppo la prima missione dei miei colleghi andò nel peggiore dei modi, ed il velivolo di
Bellini e Cocciolone fu abbattuto. Dalla mia postazione al centro di comando passai minuti
e minuti a cercare di contattarli su tutte le frequenze, feci chiamare il velivolo dall’AWACS,
l’aereo radar che era sempre in volo. Contattai il velivolo che doveva rifornire il nostro Tornado
dopo aver colpito l’obiettivo, ma neppure quell’equipaggio aveva sentito per radio la missione.
Quando scoccò il momento nel quale il velivolo, se ancora in volo, avrebbe finito il carburante,
non mi restò che avvisare la sezione di soccorso per confermare che un Tornado Italiano era
stato abbattuto. Quindi, con una incredibile tristezza nel cuore, chiamai i miei colleghi ad
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Al Dhafra e li misi al corrente della situazione. Non credo di poter descrivere esattamente le
emozioni che provavo in quei momenti. L’equipaggio era del mio Gruppo, avevamo passato
bellissimi momenti a Ghedi e poi sia a Piacenza che nel deserto. Un paio di giorni prima di
partire da solo per Riyadh eravamo andati in “libera uscita” in città ed avevo fatto un po’ di
foto, e su alcune c’erano proprio il “Puffo” ed il “Coccio” che ridevano felici. Ora potevano
essere morti o, nella migliore delle ipotesi, in giro nel deserto iracheno, di notte, cercando
di riportarsi in territorio amico. Non potevo non chiedermi se non fosse stata colpa mia,
almeno in parte! Avevo fornito tutte le informazioni sulle batterie nemiche? La rotta scelta era
sufficientemente sicura? Era stata liberata da altro traffico amico? Non è che qualche batteria
missilistica irachena si era spostata senza che noi ce ne fossimo accorti? Insomma, dubbi di
difficile risposta! In più quella notte iniziarono a cadere i primi Scud iracheni sulla città e,
nonostante quello che dicevano i giornali in Italia, se pur intercettati dai Patriot statunitensi, le
testate di guerra arrivavano quasi sempre al suolo, facendo un sacco di danni e di morti.
Nei film fanno vedere sempre i soldati che non hanno paura, che corrono quasi incuranti tra le
bombe che cadono come se fosse pioggia. Nella realtà le prime volte si prova proprio paura!
Non mi vergogno a dirlo! La prima esplosione di uno Scud mi fece letteralmente balzare sul
letto. Era molto vicina (appena meno di 200 metri) ed erano le 3 del mattino. Essendo molto
stanco per quella prima notte molto sfortunata, stavo ancora dormendo e non avevo neppure
sentito le sirene dell’allarme aereo, ragion per cui quando il missile scoppiò feci un salto sul
letto. La paura, l’adrenalina e l’addestramento fecero sì che, nel tempo in cui il mio corpo
ricadeva sul letto, io avessi già afferrato la maschera anti-gas che tenevo sul comodino e la
stessi infilando, al buio, e con il fiato sospeso. Sì, si prova paura, ed anche tanta! Non capisci
nulla in quell’istante, soprattutto se non sei già in allarme! Non sai se è stato colpito il tuo
edificio, non sai se la testata contiene agenti chimici, non sai se sta per crollarti il soffitto
addosso. In quei momenti l’unica cosa che ti salva è l’addestramento. Rimasi un secondo sul
letto per stringere la maschera, quindi misi anche l’elmetto per la paura che mi crollasse tutto
addosso. Poi presi la pistola e controllai di avere il caricatore inserito … dopo pochi istanti
mi chiesi perché lo avessi fatto, ed ammetto che sorrisi a me stesso! Fu benefico quel sorriso!
Ero ancora vivo, e poi generalmente è difficile che due missili cadano nello stesso punto, e
quindi statisticamente il buon Saddam non avrebbe dovuto colpire il mio bel letto per il resto
della guerra! Quindi guardai fuori dalla finestra, ancora intatta, per vedere se il rivelatore di
agenti chimici che avevo attaccato fuori dal vetro stesse virando ad uno dei colori che avrebbe
indicato la presenza di gas nervini o di qualche vescicante. Nel mettere bene a fuoco quei pochi
centimetri di cartoncino adesivo, vidi gli effetti devastanti del missile: una zona grande come
un campo di calcio era completamente implosa! Lì, fino a pochi minuti prima, c’erano delle
case basse, abitate da una o due famiglie al massimo. Alcune forse erano a due piani … erano
state a due piani! Ora c’era un insieme di polvere e fuoco, ma da quel che filtrava non restava
nulla in piedi! In quei momenti ti viene da fermarti e da chiederti i motivi che spingono l’uomo
a farsi la guerra! Che senso hanno gli eserciti? Perché spendere soldi per armi invece di fare
canali d’irrigazione nelle zone desertiche, di curare le malattie, di costruire parchi e cose belle?
Ma poi la razionalità ti riporta dove sei. Sai che tutto ciò, purtroppo, è solo utopico! Finché
c’è qualche pazzo che invade un altro paese e fa quello che fece Saddam, allora serve anche
chi cerchi di fermarlo. Io parlai con un Maggiore dell’Aeronautica del Kuwait, e mi confermò
le atrocità che aveva visto lui nei primi giorni, prima che riuscisse a scappare! Dopo la nostra
seconda missione dei Tornado, pienamente positiva, lui venne alla mia postazione e mi regalò
alcuni adesivi con scritto “FREE KUWAIT”.
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Per lui quel che stavamo facendo era importante: era liberare il suo paese! Per lui quella non
era una guerra per il petrolio! Per lui significava ritornare a casa e sperare di trovare ancora
tutta la propria famiglia viva! E se pure in mezzo mondo la gente diceva che era solo per il
petrolio, io ero lì anche per dare una mano ad un amico, un amico Kuwetiano! Grazie a Dio
le cose poi migliorarono. Le missioni di volo dei nostri diventarono via via meno rischiose
e iniziai a fare l’abitudine anche agli Scud. Una volta stavo tornando, a notte fonda alla fine
del mio turno in sala operativa, verso il mio alberghetto. Ci fu un allarme aereo ed allora,
come previsto, mi fermai in un punto abbastanza sicuro. Ero sotto il pilone di un cavalcavia.
Avevo, anche se vietato dai “santoni” religiosi arabi, un walkman con le cuffiette nascoste
sotto la tuta da volo ed ascoltavo della musica che avevo registrato prima di partire dall’Italia.
Era incredibile, ero sereno, nonostante ci fosse una guerra in corso, nonostante ci fossero
uno o due Scud diretti verso me. E pensai a mia moglie, con mio figlio nato da due mesi,
lì da sola … aveva sicuramente più paura lei di me! Lei non sapeva esattamente cosa stava
succedendo! In Italia c’era stato chi aveva fatto i rifornimenti di cibo come se la guerra fosse
stata lì. C’era un po’ di sano panico! Lì nel deserto, invece, la situazione era molto più chiara!
Iniziai a scriverle una lettera, che poi, come mio solito, diventò un papiro di quattro pagine,
e per la prima volta dopo molti anni piansi. Di notte, in mezzo ad una strada deserta, sotto
un cavalcavia e con un allarme missilistico in corso mi resi conto di come la vita mi piaceva,
di come volessi, improvvisamente, rivedere i miei cari, ridere, tenere mio figlio in braccio,
fare qualcosa di bello e spensierato invece di stare lontano da casa ad aspettare la fine di un
conflitto inutile poiché già predestinato. Furono lacrime non di paura, non di dolore, ma di
gioia per aver riscoperto quanto fosse bella la vita. I militari non sono così diversi da tutte le
altre persone. Secondo me siamo un po’ più fortunati degli altri poiché possiamo essere utili al
prossimo, possiamo fare esperienze eccezionali, vedere posti lontani, conoscere realtà molto
diverse dalle nostre. Insomma, possiamo crescere facendo molte più esperienze della gente
comune e diventare dei “vecchi saggi”!
Marco Nardini
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SERVIZIO DEI SUPPORTI DEL COMANDO
LOGISTICO DELL’AERONAUTICA MILITARE
È
con vivo piacere che ho accolto l’invito rivoltomi dalla Redazione a tratteggiare qualche
breve nota riguardo all’evolversi storico ed all’attività del Servizio dei Supporti,
articolazione del Comando Logistico dell’Aeronautica Militare quanto mai complessa e
variegata che abbraccia compiti e settori diversificati pur nel comune ed univoco obiettivo
di fornire, insieme ai propri Enti dipendenti, il massimo supporto all’attività volativa ed
operativa della Forza Armata. Senza indugio, lascio ora la penna al decano del Servizio, il
perito nucleare Orlando Guerrisi, dal 1977 impiegato presso il Servizio dei Supporti che, con
stile volutamente spartano, com’è nella natura di chi è fondamentalmente dotato di estrema
modestia, ci introduce, come suggerisce la simbologia del crest dell’Ente, nelle celle di un
alveare in cui Ufficiali, Sottufficiali, Avieri e personale civile hanno operato ed operano,
diligenter sustineo, con umiltà e dedizione e, come in tanti altri casi, donando molto e non
chiedendo nulla, destino questo di uomini forti e generosi.
Il Comandante del Servizio Supporti
Gen. Br. Giuseppe Li Causi
L
a storia del Servizio dei Supporti fonda le proprie origini nell’ormai lontano 1° gennaio
1967, anno nel quale, per effetto del DPR n.1477, fu costituito, presso il Palazzo A.M.,
l’Ispettorato Logistico (I.L.) dell’Aeronautica Militare. Tale struttura, con compiti di gestione
della intera logistica della Forza Armata, era articolata in: Ufficio dell’Ispettore Logistico,
Servizio Materiali Speciali d’Aeronautica, Servizio Commissariato, Servizio Sanità e Servizio
Demanio. L’atto costitutivo rinviava ad altro provvedimento per la ripartizione dei Servizi in
Reparti, Uffici e Sezioni definendone anche le relative attribuzioni e gli organici. In concreto
la ristrutturazione ebbe inizio nel 1972 e si concluse nell’anno seguente con l’atto ordinativo
dello SMA emesso nel gennaio 1974.
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La struttura, ritenuta all’epoca innovativa, aveva la missione istituzionale di coadiuvare lo Stato
Maggiore Aeronautica nella definizione della politica della F.A., nell’elaborazione dei piani e
programmi operativi e logistici e nella definizione dei lineamenti dell’organizzazione logistica
dell’A.M. La struttura ordinativa inquadrava, quali figure di vertice, l’Ispettore Logistico
ed il Vice Ispettore con le relative articolazioni, Segreteria Generale e Ufficio dell’Ispettore
Logistico. Da esse dipendevano sei Reparti ai quali erano attestate pregiatissime competenze:
1° Reparto - Servizio Rifornimenti MSA, 2° Reparto - Servizi di Supporto, 3° Reparto - Servizio
Efficienza Linea Aeromobili e Missili, 4° Reparto - Servizio di Commissariato, 5° Reparto Servizio di Sanità; 6° Reparto - Servizio Demanio. Nei primi anni ’80, il 1° Reparto fu sciolto
e le competenze furono ridistribuite sui restanti Reparti, atto che ebbe breve durata poiché il 1°
Reparto fu ricostituito, in seguito, con la denominazione “EAD” (Elaborazione Automatica dei
Dati). Al 2° Reparto, alle già assegnate competenze, si aggiunse quella della Sezione Trasporti,
inserita nell’ambito del 1° Ufficio. Il 2° Reparto, che negli anni ’70 si articolava su cinque Uffici
operanti con competenze molto peculiari e rilevanti per il periodo storico (1° Ufficio - Fotografico,
materiali d’officina, gruppi elettrogeni e trasporti; 2° Ufficio - Autoveicoli e imbarcazioni; 3°
Ufficio – Carbolubrificanti, 4° Ufficio - Armamento, Difesa NBC; 5° Ufficio – Antincendio),
fu ristrutturato anch’esso nei primi anni ’80, operando alcuni accorpamenti di attività. Al 3°
e 5° Ufficio furono, infatti, sottratte rispettivamente le competenze sugli autorifornitori ed
automezzi antincendio e trasferite al 2° Ufficio. Nel contempo, il 5° Ufficio A/I (antincendio)
fu soppresso e la Sezione competente sulla gestione degli automezzi antincendio fu inserita
nel 4° Ufficio poi ridenominato Armamento, Difesa NBC ed Antincendio. A quest’ultimo
Ufficio fu poi aggiunta una Sezione EOD-EOR (Explosive Ordnance Disposal - Explosive
Ordnance Reconnaissance). Poco dopo, anche il 5° Ufficio ebbe riviviscenza ricostituendosi
con la denominazione Controlli Chimico – Fisici e la competenza sui gruppi elettrogeni,
propria del 1° Ufficio, fu trasferita al 6° Reparto I.L.. E fu proprio negli anni ’90 che una
seconda ristrutturazione interessò il 2° Reparto, allorquando gli Uffici 4° e 5° furono soppressi,
costituendo un nuovo 4° Ufficio che acquisì le Sezioni del ex 5° Ufficio con l’inserimento
delle Sezioni Difesa NBC e A/I dell’ex 4° Ufficio, mentre le restanti Sezioni Armamento e
EOD-EOR confluirono nel 1° Ufficio, articolandosi così su quattro Uffici. Correva l’anno 1999
quando una radicale trasformazione interessò l’intera struttura logistica della Forza Armata
mutando da Ispettorato Logistico a Comando Logistico (C.L.) costituito su quattro Divisioni.
Questo nuovo organismo nacque dalla soppressione dell’Ispettorato Logistico A.M. e
dell’ITAV, l’Ispettorato delle Telecomunicazioni e Assistenza al Volo. La missione affidata a
questo Alto Comando della Forza Armata, al cui vertice è posto un generale di Squadra Aerea
che dipende direttamente dal Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, è quella di «garantire,
compatibilmente con le risorse assegnate, il supporto tecnico logistico necessario a conseguire
la massima operatività dell’Aeronautica Militare». La 4^ Divisione, all’inizio, fu caratterizzata
dall’accorpamento delle competenze degli ormai soppressi quattro Reparti “ex I.L.” (2°, 4°, 5°
e 6°Reparto). Successivamente, anch’essa fu sciolta ed i Reparti, che confluendovi l’avevano
originata, furono riconfigurati negli attuali Servizi del Comando Logistico:
Servizio dei Supporti; Servizio Infrastrutture; Servizio di Amministrazione e Commissariato;
Servizio Sanitario. Essi, ad oggi, affiancano la 1^ Divisione - Centro Sperimentale di Volo, la
2^ Divisione - Supporto T.O. -Aeromobili/Armamento/Avionica, la 3^ Divisione - Supporto
T.O. - Sistemi Comando e Controllo/Comunicazioni e Telematica, formando la struttura del
Comando Logistico nell’attuale assetto su tre Divisioni e quattro Servizi. Merita sottolineare
che, in occasione di tale trasformazione, le Sezioni Armamento, Difesa NBC ed EOD-EOR
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transitarono dal Servizio
dei Supporti alla collaterale
2^ Divisione del Comando
Logistico. Di recente, la
Sezione CBRN (ex Difesa
NBC), dalla 2^ Divisione,
Trasporto DoganeMotorizzazione
è stata ricollocata presso
il Servizio dei Supporti.
La missione attualmente
assegnata al Servizio è quella
di assicurare l’efficienza
tecnica ed il supporto
logistico nei settori trasporti,
Carbolubrificanti (deposito campale)
Antincendio
dogane,
motorizzazione,
carbolubrificanti avio/auto,
ossigeno avio, antincendi,
CBRN, cinefototipografico
e controlli chimico - fisici
ed ambientali per gli Enti e
Reparti dell’A.M. e in OFCN
CBRN
Cinefototipografico
(Operazioni fuori dai confini
nazionali), attraverso l’opera delle articolazioni dipendenti, in sinergia con le strutture tecniche
degli altri Alti Comandi. Per tale missione il Servizio si avvale di due Reparti che espletano tutte
le attività tecniche, di una Segreteria, di un Ufficio Gestione Risorse e Coordinamento Operativo
e di una Sezione Contratti ed Amministrazione. Dal Capo del Servizio (con livello di Generale di
Divisione) dipendono direttamente il Centro Tecnico Rifornimenti di Fiumicino, tre R.A.M.I.
(Rappresentanza Aeronautica Militare Italiana), rispettivamente a Erding (Germania), Bicester
(Gran Bretagna) ed a Torrejon (Spagna) ed i sei Laboratori Tecnici di Controllo, rispettivamente
a Padova, Fiumicino, Bari, Parma, Decimomannu e Trapani. Dal Centro Tecnico Rifornimenti
di Fiumicino, articolazione a livello intermedio, dipendono direttamente i seguenti altri
otto Enti che trattano diversificate materie, dalla gestione dei carburanti, allo stoccaggio
e manutenzione degli autoveicoli, alle attività doganali: Comando Rete POL - Petroleum
Oil and Lubrificant (Parma); 14° Deposito Centrale A.M. (Modena); 64° e 65° Deposito
Territoriale A.M. di Porto Santo Stefano (Grosseto) e Taranto; 2° Gruppo Manutenzione
Autoveicoli (Forlì); 3° Gruppo Manutenzione Autoveicoli (Mungivacca- Bari); 1° Gruppo
Ricezione e Smistamento (Cameri-Novara); 4° Gruppo Ricezione e Smistamento (Fiumicino).
L’efficienza tecnica ed il supporto logistico nei settori di competenza del Servizio si attuano
mediante l’operato del 1° Reparto - Supporto Operativo, da cui dipendono una Sezione Piani
e Operazioni e quattro Uffici: 1° Ufficio - Trasporti e Dogane; 2° Ufficio - Motorizzazione; 3°
Ufficio - Carbolubrificanti e Ossigeno Avio; 4° Ufficio - Supporti Operativi, e del 2° Reparto
- Chimico Fisico dal quale dipendono tre Uffici: 1°Ufficio - Controllo Chimico – Fisico; 2°
Ufficio - Controllo Qualità; 3° Ufficio - Controlli Ambientali. In ambito internazionale, infine, il
Servizio è stato chiamato a dare costante supporto ai contingenti A.M. rischierati in tutti i teatri
operativi che hanno richiesto un impegno realmente rilevante e che hanno messo duramente
alla prova sia gli uomini che i mezzi ed i materiali. Nelle missioni effettuate durante il conflitto
nel Golfo, nelle operazioni per il mantenimento della pace nei Balcani, quelle in Iraq
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Laboratorio Chimico Mobile
ed in Afghanistan si sono potute riscontrare sul campo, in un dinamico divenire, l’efficienza
e l’efficacia della struttura logistica predisposta per tali esigenze. Dal quadro fin qui esposto,
il Servizio dei Supporti potrebbe apparire, all’occhio di un osservatore esterno, un enigmatico
insieme di realtà eterogenee, spazianti dall’assistenza aeroportuale, alla motorizzazione, alla
gestione dei carbolubrificanti, dei materiali NBC, antincendio e fototipografici, al controllo
qualità dei materiali di consumo avio nonché, infine, alle valutazioni sull’antinfortunistica ed
ambientali sui siti aeronautici. In realtà, la coesistenza di tante discipline così diverse rappresenta
una prova tangibile della flessibilità mentale, organizzativa ed operativa del personale assegnato
al Servizio e della capacità dello stesso di recepire ed armonizzare approcci e metodi di lavoro
assolutamente diversi ma peculiari, tutti ugualmente finalizzati al Supporto Operativo alla
Forza Armata ed alla Sicurezza del Volo e del personale a terra. Lo provano le numerose
attestazioni di apprezzamento, indirizzate al Servizio, sia attinenti ai rischieramenti Fuori Area
che nell’ambito del soccorso alle popolazioni civili, in occasione di catastrofi naturali, anche
recenti. Con il nuovo emblema adottato dal Servizio nel 2005 si è voluto rappresentare proprio
l’anzidetto insieme di realtà eterogenee riportando, su sfondo azzurro, i simboli delle molteplici
attività svolte dall’Ente, incastonati in cellette esagonali, a guisa di nido d’ape. Per concludere,
sono elencati, in sequenza cronologica, i Capi Reparto dei Servizi di Supporto I.L., prima, ed
i Capi del Servizio dei Supporti del C.L., poi, che si sono avvicendati a partire dagli anni ’70
a tutt’oggi: Gen. Eugenio PALENZONA, Gen. Amalio RIGHETTI, Gen. Carlo PUGGIONI,
Col. Giorgio RATTO, Col. Aldo BIONDI, Gen. Alfonso MATTEI, Gen. Antonio MANCINO,
Col Vittorio DE ANGELI, Col. Mario ZANGHERI, Col. Francesco P. SCAFOGLIERI,
Gen. Alberto MINELLI, Gen. Vincenzo BASILE, Col. Giovanni ANGELINI, Gen. Giorgio
BANDIERA, Gen. Giovanni ODDONE, Gen. Giovanni CARDINI, Gen. Angelo PAGLIUCA,
Gen. Carmelo MASSARA, Gen. Giancarlo ZENNARO, Gen. Stenio VECCHI.
Orlando Guerrisi
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KAMIKAZE: UN TERMINE USATO
IMPROPRIAMENTE.
Gruppo di piloti “shimpu” fotografati prima della missione suicida.
U
n’agenzia di rilevamento di dati statistici, ha pubblicato uno studio ove si afferma che
negli anni successivi alla tragedia dell’undici settembre a New York, uno dei termini più
ripetuti, dai mass media, quando si parla di disastri, è: kamikaze. Adoperare questa parola per
definire le azioni terroristiche degli integralisti che si auto definiscono islamici è forse discutibile
e poco opportuno, come vedremo in seguito. Addirittura un razzo inviato recentemente dalla
NASA sulla luna per la ricerca scientifica è stato definito kamikaze.
L’uso troppo frequente ed improprio del termine kamikaze è un classico esempio di metonimia
che la retorica classica definisce come: “tropo che denomina un’entità mediante un termine
che originariamente si riferisce ad altra entità significante ad essa strettamente attinente”. Si
tratta di un errore lessicale lieve, ma è pur sempre un’imprecisione. Vediamo di fare chiarezza
sul termine. La parola kamikaze è formata da due termini: kame che è il nome di una divinità
scintoista, e kaze che significa genericamente vento (in italiano sostantivo maschile, al contrario
in giapponese). Un vento dunque, la cui traduzione letterale esatta è: il vento dello spirito.
Questo vento ha sempre portato fortuna al Giappone a differenza di un altro, il kamakaza
che si discosta solo di due vocali dal primo e che si traduce letteralmente come: vento che
falcia. La triade dei venti impetuosi alle latitudini giapponesi si completa con il kamaitachi:
che taglia come un coltello. Questo...”excursus semantico – meteorologico” è coerente con
il tema. Il “vento dello spirito” giapponese, quindi, ha poco a che vedere con la ventata
terroristica attuale che ispira i martiri d’Allah , o Shaid, come al kaida stessa ama definire i
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propri adepti suicidi (quindi non kamikaze). E’ da chiedersi come mai Oriana Fallaci, nella sua
trilogia “antiterrorista”, non si sia soffermata su questa sottile questione lessicale. Quindi, da
dove viene fuori il termine kamikaze? Facciamo un salto nel passato. Il 15 ed il 16 agosto del
1281, una flotta di 4.400 navi, sulla quale era imbarcata la poderosa armata di Kublai Khan,
erede e nipote di Gengis Khan, forte di 140.000 uomini,
era schierata in ordine di attacco di fronte all’isola di
Takashima. I generali mongoli avevano ricevuto ordini
per la conquista e la sottomissione del Giappone,
potenza che non aveva mai subito in precedenza alcuna
invasione straniera. Tuttavia le spade dei samurai, le
temibili katana, rimasero nei foderi e non ci fu battaglia.
Un fortissimo vento monsonico sospinse le navi
nemiche sulle vicine rocce e tutto l’esercito mongolo
che era composto anche da coreani e cinesi si disgregò.
Affogarono più di 70.000 soldati ed il Giappone fu
salvo. Marco Polo accenna nel Milione l’avvenimento,
quando narra la storia del Grande Khan, signore della
Cina. Il vento kamikaze che nella stagione estiva soffia
L’“acimaki”, simbolo degli antichi samurai è dal mare verso terra era stato il migliore alleato dei
annodato sulla fronte di un pilota “shimpu”.
samurai. Recentemente l’archeologo Kenzo Hayashida,
dopo una campagna di ricerche mirate, eseguita con sommozzatori giapponesi esperti, ha
rinvenuto sui fondali del porto di Kozachi, i resti della flotta dei mongoli di Kublai, distrutta
dalla tempesta 700 anni addietro. Sessanta anni fa, l’ammiraglio americano William Nimitz,
quel vento che i giapponesi hanno chiamato divino, lo subì con tutta la forza devastante sulla
coperta delle navi della sua flotta, ma non si trattava di un evento meteorologico. I molti film
sull’attacco a Pearl Harbor, sulla battaglia del mar dei Coralli e di Midway, hanno mostrato
bene le disastrose conseguenze degli attacchi aerei dei piloti del Sol Levante. Gli americani
oltre alle perdite delle corazzate a Pearl Harbor, ebbero trentotto navi distrutte dagli attacchi
dei piloti suicidi nel 1945. Però c’è una bella differenza tra i giovani giapponesi suicidi ed i
Nakajima B6N “tenzan”, aerosilurante usato anche per missioni suicida per la capacità di portare una bomba pesante.
martiri di al kaida. Diciamo le cose come stanno. Per precisione ed amore della verità storica,
visto che il termine kamikaze è tanto utilizzato (ed abusato ) è opportuno chiarire che i piloti
suicidi si comportavano come gli antichi samurai.Essi decollavano per l’ultima missione
con la spada posta tra la cloche e la manetta del motore osservando il codice d’onore del
Bushido, il rito dei guerrieri medievali. Oltretutto non si autodefinirono mai letteralmente
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kamikaze. Di questo termine non esiste una sola traccia nelle numerose lettere che lasciarono
ai loro familiari nel momento dell’ultimo congedo dalla vita. Questi giovanissimi piloti erano
inquadrati in un Corpo Speciale d’Attacco, organicamente diviso in quattro sezioni riferite alla
dislocazione degli aeroporti del Pacifico, denominate: shikishima (arcaica forma della parola
Giappone); yamato (antico nome del Giappone); asahi ( sole che sorge) e yamazakura (fiore
del ciliegio di montagna). Almeno all’inizio della costituzione dei reparti suicidi, non si trova
alcun riferimento esplicito alla parola giapponese kamikaze. Solo in un secondo tempo, nel
1945, quando ormai la sorte del Giappone era compromessa dall’esito della guerra, avendo
perduto le più decisive battaglie aero navali del Pacifico, il comandante in capo dei piloti
suicidi, l’ammiraglio di Divisione Takijiro Onishi, che si suicidò facendo “harakiri”, (ed
anche qui, i nipponici non dicono harakiri, bensì sepuku) subito dopo aver appreso per radio
dalla voce dell’imperatore del Giappone la notizia della resa, dette il nome alle Unità di attacco
suicide: shimpu. Questo il nome che ancora oggi in Giappone è attribuito a coloro che noi oggi
chiamiamo impropriamente kamikaze. E’ interessante però notare che la stessa parola shimpu
a seconda di come la si pronuncia, è un fonema che può anche indicare gli ideogrammi della
parola kamikaze. Il funambolismo linguistico, perfettamente coerente alla mentalità nipponica
di quegli anni, s’inquadra nelle forme di rispetto reverenziale e nella modestia formale, onde
evitare il paragone ed il richiamo esplicito a quel vento divino, ovvero il kamikaze, del quale
oggi i net work fanno così disinvoltamente ed abbondantemente improprio uso.
Bomba volante Jokusuka MXJ / “ohka” (fiore di ciliegio); veniva sganciata da un bombardiere in prossimità dei bersagli.
Stranamente, sempre per essere quanto più possibile precisi in quest’argomento, emerge dalla
storia della guerra giapponese un particolare interessante. Proprio l’imperatore Hirohito,
riverito come una divinità, in giapponese, il Tenno, il Mikado;la Guida del celeste impero, in
un suo messaggio ufficiale rivolto proprio ai reparti di aviazione suicida, quindi destinato ad
essere conosciuto, inserì tra gli elogi agli shimpu, la frase seguente, di strana ed emblematica
lettura: “era proprio necessario giungere a questi estremi”? Molti storici si sono esercitati a
dare un’interpretazione esatta di questa riserva espressa. Qualcuno sostiene che l’imperatore
Hirohito ebbe la sensazione che la guerra era irrimediabilmente perduta proprio dovendo
constatare quegli estremi sacrifici. I giapponesi in questo periodo soffrono per la reiterazione
di questa loro parola purtroppo molto diffusa (impropriamente) ed accostata ai fatti recenti di
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Tattiche d’avvicinamento ai bersagli.
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terrorismo, che oltretutto richiama alla mente di tutti un passato doloroso della loro recente
storia, segnata per sempre dalle cicatrici dell’arma atomica. Passato triste che essi vogliono
esorcizzare e rimuovere. Proprio il 6 agosto 2005 è stato il sessantesimo tragico anniversario
della bomba su Hiroshima. Il Giappone ha perciò rinunciato per legge anche al ricordo ed alla
celebrazione della passata potenza militare che per secoli è stata motivo d’orgoglio nazionale.
Alcuni deputati nipponici hanno assunto però alcune iniziative per difendere e differenziare in
un certo modo questo termine che per alcuni giapponesi rappresenta ancora un passato bellico
recente, sfortunato, ma anche pieno di atti d’eroismo compiuti da soldati in buona fede a difesa
della Patria. Nondimeno, proprio a seguito di un episodio, risalente a tre anni fa, il tribunale
di Fukuoka ha dichiarato censurabile e contrario alla Costituzione nipponica, quindi un reato,
il gesto compiuto dall’ex premier giapponese Junichiro Koizumi, accusato di essersi recato in
veste ufficiale al tempio scintoista nel cimitero Yasukuni, nell’antica città di Kyoto, ove, oltre
alle lapidi che ricordano i giovani shimpu, sono sepolti anche alcuni alti ufficiali dell’esercito
e della marina del passato regime condannati per crimini di guerra; oggi nessuno in Giappone
si azzarda a riaprire la questione del passato bellico, per evidenti motivi di opportunità politica.
Tuttavia si sono verificati episodi sconosciuti nel corso della guerra, in cui l’aviazione militare
giapponese si comportò nei confronti del nemico di allora in modo ineccepibile, mettendo
in luce un comportamento dei giovani piloti che si potrebbe definire senza tema di smentita,
del tutto cavalleresco. Pochi sanno che nelle operazioni aero-navali contro la forza navale
“Z” inglese (formata dalle due corazzate: la Prince of Walles e la Repulse, navi che furono
affondate dopo un’ora di formidabili attacchi da parte degli aerosiluranti e dei bombardieri
con le insegne del Sole nascente, operazioni, che dal punto di vista tecnico militare forse sono
state anche superiori per abilità a quelle di Pearl Harbor), i piloti dei caccia Zero nipponici,
dopo l’affondamento delle navi, sorvolarono lungamente il mare dove si era svolta la battaglia
e non mitragliarono i caccia torpediniere britannici impegnati nelle operazioni di soccorso.
Così la marina inglese riuscì a salvare ben 1800 marinai naufraghi delle due corazzate. I piloti
di marina nipponici erano consapevoli che il prezioso capitale umano britannico poteva essere
impiegato contro il Giappone per altre operazioni, eppure non aprirono il fuoco sui facili,
galleggianti bersagli inermi. Questo episodio è stato ricordato in una trasmissione televisiva da
uno dei marinai inglesi sopravvissuti all’affondamento. Solo nel 2006 sono state pubblicate le
memorie di un asso dell’aviazione di marina giapponese, deceduto nel 2000. Gli appassionati di
aviazione e gli storici del conflitto nipponico – americano conoscono il nome del guardiamarina
Saburo Sakai. Sessantaquattro aerei americani abbattuti (dati accertati: altre 21 vittorie furono
attribuite all’azione collettiva di squadriglia), e sei gravi ferite riportate in combattimento. Le
ultime missioni nel 1945, mentre volava da capo formazione di una squadriglia di shimpu,
le effettuò avendo un solo braccio e cieco di un occhio. Egli non riuscì a portare a termine
l’attacco suicida perché il motore dell’aereo sul quale volava, quasi un rottame imbottito di
esplosivo, piantò nei pressi di un atollo del pacifico e lui riuscì miracolosamente a salvarsi. Ciò
che lascia esterrefatti, leggendo il suo libro, è apprendere un particolare sorprendente. I piloti
suicidi, per la maggior parte, non erano affatto volontari. Ubbidivano agli ordini degli Stati
Maggiori. Interi Gruppi Caccia Mitsubishi 96 e Mitsubishi Zero e squadroni di Bombardieri
Nakajima Tenzan si immolarono per far fede al giuramento di fedeltà al Mikado. Per avere
un’idea dell’etica militare giapponese, soprattutto quella della marina imperiale, per la prima e
unica volta, nel marzo del 1945, il bollettino fece il nome di due piloti, quello di Saburo e di un
maresciallo, Scioici Sugita. In particolare, il grado di sottotenente Saburo Sakai lo ebbe solo
dopo undici anni di servizio, essendo entrato nell’aviazione di marina, da sergente, nel 1934.
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Allora, nonostante tutte le ricerche etimologiche sul termine, i riferimenti storici, i sofismi
retorici e lessicali e le precisazioni, ci si dovrà in ogni modo abituare all’idea che chi si fa
esplodere in un autobus affollato da gente inerme, o fa esplodere una bomba in una strada
affollata in qualsiasi parte del pianeta, continui ad essere definito dai media: kamikaze, in
analogia terminologica (inesatta) a quei combattenti giapponesi che concludevano la loro
tragica picchiata suicida sulle portaerei americane. Quelle navi da guerra, però, (e tutta qui
sta la differenza) si difendevano con sistemi di avvistamento radar ed erano protette da molte
squadriglie di aerei da caccia armati di mitragliatrici e inoltre le navi disponevano di una
selva di cannoni a tiro rapido dell’artiglieria contraerea navale. Si trattava in definitiva di
combattimento tra soldati contro altri soldati non di mere azioni terroristiche.
Giuseppe Santarsiere
VIVGIG
IL
OO
CO
CO
DEELLFFUU
ILIID
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A PROPOSITO DI …. CONCORDIA
D
ue recenti ed inedite fotografie della Costa Concordia effettuate da un collega pilota
civile che ha sorvolato la zona del naufragio. Ai parenti delle vittime va il nostro sentito
cordoglio e ci associamo al comune sentimento di tutti coloro che, come noi, pensano che
queste disgrazie non debbano mai più accadere.
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NOTIZIA DELL’ULTIM’ORA
G
razie ad un manipolo di appassionati e di ex piloti militari, nostalgici dell’Aeronautica
Militare che fu, uno stupendo esemplare di Aermacchi MB 326 sta tornando a nuova vita
in quel di Reggio Emilia.
State sintonizzati .... riparleremo di questa bella iniziativa ed altro ancora e, soprattutto,
pubblicheremo i vostri scritti, commenti, approfondimenti su quanto dibattuto, in questo primo
numero, nella rubrica “A voi il mouse” e di quanto, di nuovo, intendete in essa segnalare.
Alla prossima puntata allora.
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IL TACCUINO DELLA GENTE DELL`ARIA (9 Marzo 2012)