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lunedì 23 febbraio 2015
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Da Repubblica.it del 22/02/15
Il Comune taglia la mensa di via Baracca
"Basta soldi alla carità usiamoli per
l’assistenza"
Cambio di strategia: non possiamo più permetterci di pagare 700 mila
euro. Fondi in più invece andranno ai centripasto per famiglie seguite
dal sociale
di ERNESTO FERRARA
Il Comune taglia la mensa di via Baracca "Basta soldi alla carità usiamoli per l’assistenza"
Mense per i poveri, Palazzo Vecchio taglia e cambia tutto. Di fronte ai quasi 50 milioni di
euro di minori risorse che il bilancio che sarà approvato sabato prossimo porta in dote, la
giunta Nardella si decide a un drastico cambio di strategia nell’assistenza agli ultimi: stop
ai 700 mila euro di finanziamento diretto alla grande mensa comunale di via Baracca,
gestita da Caritas; 300 mila euro in più invece alle piccole mense di quartiere, anche
quelle oggi affidate in appalto all’ente caritatevole della Curia e ospitate in centri anziani,
circoli Arci, locali parrocchiali. Il risultato finale è una sforbiciata sul settore che dovrebbe
arrivare ad attestarsi sui 3-400 mila euro. Da un milione a circa 600 mila l’anno sul
comparto. Qualcosa in più da una parte e in meno dall’altra. E se il conto non è ancora
preciso perché proprio in queste ore in Palazzo Vecchio si completano i calcoli, quel che è
già chiaro è che l’effetto non sarà semplicemente quello di un risparmio, piuttosto di una
ristrutturazione della spesa sociale.
Quel che cambia non è una posta di bilancio, e per questo gli uffici del sociale guidati
dall’assessore Sara Funaro sono a lavoro da settimane. Oggi il settore mense dei poveri
costa alle casse comunali circa 1 milione l’anno. Settecento mila euro per la mega
“centrale” della carità a Novoli, in fondo a via Baracca, dove ogni giorno la Caritas, che ha
un appalto col Comune, serve tra 500 e 800 pasti, in gran parte a immigrati e persone che
si presentano ai centri d’ascolto delle parrocchie, mentre sono pochissimi i soggetti già in
carico ai servizi sociali di Palazzo Vecchio. Circa 300 mila euro invece il Comune li spende
per finanziare 8 tavole di quartiere, le cosiddette ”mense diffuse”, sempre in appalto (con
gara) a Caritas, dove ogni giorno a gruppi di 2030 vengono assistiti in oltre 200, tutti
segnalati dai servizi sociali comunali, che possono contare su un pasto ma anche
ragionano in Palazzo Vecchio su qualche ora in un luogo dove la socializzazione è ben
più efficace che nel grande centro di via Baracca, dove spesso i residenti assistono a
bivacchi senza regole fino a sera.
La rivoluzione a cui lavora l’assessore Funaro è pressappoco questa: tagliare i 700 mila
euro di finanziamento diretto per la mensa comunale di via Baracca, dove l’appalto Caritas
scade a metà anno, e rifare per quella struttura un nuovo bando di gestione per trovare un
soggetto in grado di fornire assistenza senza soldi pubblici, ma rifornendosi dal circuito
delle eccedenze alimentari e dalla rete della carità che fa capo alle parrocchie e al
volontariato. Non chiuderla ma ristrutturarla profondamente insomma. “L’assistenza ai
deboli sì ma la carità non tocca a noi”, è il ragionamento che fanno i dirigenti di Palazzo
Vecchio ricordando che un pasto
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medio per i poveri costa 5,5 euro al giorno mentre quelli per i bambini delle scuole stanno
sui 4 euro, di cui 3 in media pagati dalle famiglie con le rette. L’intenzione di Palazzo
Vecchio tuttavia non è chiudere i rubinetti per i poveri: anzi per le mense diffuse, col nuovo
bando dell’estate 2015, saranno aumentati i fondi, da 300 mila a oltre mezzo milione di
euro: più pasti, assistenza di qualità. Ma addio al super distributore di via Baracca.
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/02/21/news/il_comune_taglia_la_mensa_di_via_b
aracca_basta_soldi_alla_carit_usiamoli_per_lassistenza-107882999/
Da Corriere.it – Corriere Sociale del 22/02/15
La social street di Pietralata, dove il quartiere
torna protagonista
di Matteo Benedetti
ROMA – È una realtà già da qualche mese, grazie al gruppo Facebook Pietralata Roma
Social Street, ma in questi giorni è diventata “tangibile” per la comunità grazie a Pietralata
Strada Aperta. Due giorni di “social street” che ha visto un sabato “di pulizie” a cura di
RetakeRoma e i volontari e una domenica legata alla cultura, al benessere e all’arte grazie
alla presenza dell’Associazione Culturale Yogicamente, di Gestalt Counselling, dei
TipiattIVi, di Bibliopoint Perlasca, dell’Arci Roma e dell’Antica Sartoria Solidale. Spazio
anche allo sport con la presenza UISP Comitato di Roma – Progetto Area Agio e
all’informazione civile con Libera – Associazioni e InfoLibera, punto informativo sulle sue
attività di promozione della legalità. Degna conclusione della social street, costellata dalle
note dell’Orchestra Sambarato, è stato il duplice appuntamento con il “social pranzo” e il
torneo di calcio “Chi segna vince”.La costruzione della social street di Pietralata è uno
degli obiettivi del Progetto Well-Fare | Tra mediazione e comunità, finanziato dal
Municipio Roma IV e realizzato in ATI dalle Cooperative Sociali Eureka Primo e Parsec e
dall’Associazione Culturale Metropolis Europa. Il Progetto mira a costruire una comunità
territoriale competente, capace di riconoscere i propri bisogni e di mobilitare le risorse per
soddisfarli.
http://sociale.corriere.it/la-social-street-di-pietralata-dove-il-quartiere-torna-protagonista/
Da Radio Città del Capo del 21/02/15
Acqua pubblica. In Regione la sfida a
Bonaccini: “Ripubblicizzare Hera”
Bologna, 21 feb. – L’annuncio arriva durante il presidio del Comitato Acqua Bene Comune
di fronte al Comune di Bologna. “A breve presenteremo una proposta di legge regionale
per ripubblicizzare l’acqua in Emilia-Romagna”, dice al megafono di fronte ad un centinaio
di persone il consigliere regionale di Sel Igor Taruffi. Sel non sarà sola nella battaglia. In
consiglio regionale si è appena formato un “intergruppo” a favore dell’acqua pubblica sulla
scia di quanto già successo in Parlamento la scorsa primavera. Oltre ai vendoliani ci sono
i consiglieri del Movimento 5 Stelle, Giovanni Alleva dell’Altra Europa e una piccola
pattuglia di democratici, tra di loro Antonio Mumolo, Silvia Prodi e Valentina Ravaioli. Una
sfida anche al governatore dell’Emilia-Romagna, il democratico Stefano Bonaccini.
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Continua dunque la battaglia per l’acqua pubblica, quattro anni dopo il referendum il 2011.
“Vogliamo ricordare al sindaco di Bologna che nel 2011 anche lui era in piazza a
festeggiare la vittoria dei ‘sì’ – attacca Andrea Caselli dei comitati referendari – Invece
adesso sentiamo voci di vendita di azioni di Hera. L’acqua non è del sindaco, è dei
cittadini. Ci rivolgiamo ai consiglieri comunali e agli amministratori di ogni livello: non
privatizzate l’acqua”. Presenti al presidio di fronte al Comune anche il consigliere
comunale Mirco Pieralisi, eletto tra le fila di Sel, e il pentastellato Marco Piazza. Oltre alle
bandiere azzurre dell’acqua pubblica anche quelle rosse di Rifondazione Comunista, gli
stendardi delle rsu Cgil di Hera e il giallo di Legambiente.
Il movimento per l’acqua pubblica assieme all’Arci e alla Cgil lancia anche una petizione
su change.org. L’obiettivo è quello delle 50 mila firme per chiedere ai sindaci della
Regione di non vendere azioni Hera, come invece annunciato da più parti.
http://www.radiocittadelcapo.it/archives/acqua-pubblica-in-regione-la-sfida-a-bonacciniripubblicizzare-hera-156475/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 23/02/15, pag. 14
NON PROFIT
Nuove alleanze tra Ong e imprese
La capacità di progettazione in realtà lontane può aiutare le Pmi
La legge 125/2014, che riforma la cooperazione internazionale per lo sviluppo, colloca il
settore privato tra i soggetti protagonisti in quest’ambito, insieme ad amministrazioni, enti
pubblici e organizzazioni non governative. È evidente, infatti, che può giocare un ruolo
importante nella lotta contro la povertà, ma nello stesso tempo la cooperazione
internazionale può essere un’occasione attraverso la quale le aziende italiane –
soprattutto quelle piccole e medie – si internazionalizzano e trovano nuovi sbocchi di
mercato.
Su questi temi si sta dibattendo, anche grazie a un documento intitolato “Cooperazione
allo sviluppo, imprese e diritti umani, responsabilità sociale e responsabilità ambientale”,
che il network di Ong Link 2007 ha pubblicato nel dicembre scorso, e a un workshop che
si è svolto all’inizio di febbraio presso il ministero degli Esteri, con rappresentanti delle Ong
stesse e delle aziende, tecnici e politici. In quella sede l’atmosfera era decisamente
collaborativa e libera da ideologismi, anche se qualche chiarimento è necessario, perché,
come ha detto Paolo Dieci, direttore della Ong Cisp, «stiamo parlando del matrimonio non
facile tra aiuto allo sviluppo e investimento economico».
Esiste una base concettuale che può facilitare il dialogo: quella di inclusive business,
termine che si riferisce al modo di operare delle imprese che, pur perseguendo il profitto,
«non solo agiscono concretamente sulla riduzione della povertà, ma vengono percepite
come agenti di sviluppo da parte delle comunità locali».
Si riduce la povertà creando posti di lavoro, ma soprattutto portando conoscenza, come ha
detto Davide Trevisani di Trevi Group: «Se si vuole vincere l’autoreferenzialità occorre
inserire nei progetti trasferimento di competenze, training e strumenti di mantenimento
delle conoscenze».
È vero anche che le imprese internazionali rispettano parametri che spesso quelle locali
ignorano, ma questo è ciò che fa la differenza in termini di sviluppo, per cui Link 2007
insiste sul fatto che le italiane adottino le linee guida dell’Ocse sui parametri di accesso
delle imprese al sistema della cooperazione internazionale, con le relative
raccomandazioni per il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, la lotta alla corruzione e
così via.
Le forme di collaborazione tra Ong e imprese possono essere le più svariate. Pier Luigi
D’Agata, direttore Assafrica e Mediterraneo di Confindustria, ne puntualizza una: «Le Ong
potrebbero incentivare le Pmi offrendo schemi di orientamento in realtà lontane, per loro
difficili da decifrare». Insomma, quello che Roberto Ridolfi, responsabile della direzione
generale Europe Aid della Commissione europea, definisce «il sistema di Ong tra i migliori
al mondo» può offrire radicamento, relazioni, disponibilità a progettare insieme, «cioè quel
genius loci che serve alle imprese». Su questa linea il presidente della Focsiv, Gianfranco
Cattai, propone di «creare una figura professionale ad hoc: gli osservatori internazionali
per l’impresa giusta e responsabile, che aiutino a costruire le filiere». I profili di
competenza dovrebbero essere individuati congiuntamente da Ong e imprese.
Tutto questo non cancella del tutto le preoccupazioni delle Ong, che temono
sostanzialmente due cose: che ci sia una finanziarizzazione della cooperazione e che si
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spostino le priorità dallo sviluppo all’internazionalizzazione delle imprese. La proposta
delle organizzazioni non profit è, quindi, quella di mantenere l’equilibrio tra i diversi obiettivi
della cooperazione, anche attraverso l’aumento delle risorse pubbliche, soprattutto per i
Paesi in cui è più difficile investire risorse private.
del 23/02/15, pag. 14
Associazioni
A Roma in maggio le assise dei volontari
Si svolgerà a Roma sabato 9 e domenica 10 maggio prossimi l’iniziativa di
«autoconvocazione» del volontariato italiano, promossa dalle principali organizzazioni di
rappresentanza del settore, dal Forum alla Consulta nazionale, dalla Convol al Csvnet, il
coordinamento dei Centri di servizio. Lanciata il 5 dicembre scorso in occasione della
Giornata internazionale del volontariato, la due giorni intende chiamare a raccolta gli enti
che associano gli oltre cinque milioni di volontari, per rilanciarne l’azione e richiamare
l’attenzione della sfera pubblica sul ruolo di promozione sociale svolto dalle attività
gratuite.
«Vogliamo riportare il volontariato al centro della discussione - spiega Pietro Barbieri, da
poco confermato portavoce del Forum nazionale del Terzo settore - anche nel dibattito in
corso sul disegno di legge delega di riforma del non profit». «È il momento di dare voce al
volontariato - gli fa eco Stefano Tabò, presidente di Csvnet - per farlo esprimere e, prima
ancora, per ciò che rappresenta per il nostro Paese».
La manifestazione romana sarà preceduta, dal 16 al 19 aprile, dal Festival del volontariato
che, per il terzo anno consecutivo, si terrà a Lucca, su iniziativa del Centro nazionale per il
volontariato.
«L’anno scorso - ricorda il presidente del Cnv, Edoardo Patriarca - il Festival ha visto
l’avvio della riforma del Terzo settore. Con l’edizione di quest’anno non vogliamo limitarci a
fare il punto della situazione, ma intendiamo crescere e fornire risposte concrete».
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ESTERI
del 23/02/15, pag. 17
Video dell’Isis: prigionieri curdi chiusi in
gabbia e portati in parata
L’Isis ha diffuso sul web un nuovo video che mostra un gruppo di prigionieri in tute
arancioni chiusi in gabbia e poi portati in «parata» a bordo di pickup attraverso una
cittadina che si presume irachena. Si tratterebbe di 16 peshmerga curdi, di due ufficiali
dell’esercito iracheno e di tre poliziotti. Lungo la parata, una folla di sostenitori, tra cui tanti
ragazzini, inneggiano al Califfo Abu Bakr al Baghdadi. Alcuni dei prigionieri vengono
anche «intervistati» nelle gabbie,
costretti a dare le proprie generalità e a recitare il copione voluto dai loro carcerieri. «Sono
prigioniero da 15 giorni e il mio governo non fa nulla», afferma uno di loro al microfono. Un
altro condanna i bombardamenti e accusa i propri leader: «Fanno il gioco degli Usa e degli
ebrei». «Questo è un messaggio al popolo dei musulmani curdi. La nostra guerra non è
contro di voi, ma contro i laici e gli atei. Peshmerga fermatevi, o il vostro destino sarà lo
stesso di
quelli in gabbia o sottoterra», dice il miliziano dell’Isis che
introduce il video. Nelle inquadrature finali, i prigionieri sono fatti inginocchiare mentre alle
loro spalle compaiono uomini armati di pistola, ma non si vede quale sia stata la sorte dei
prigionieri. Il filmato contiene spezzoni dei video del pilota giordano bruciato vivo e
dell’esecuzione dei cristiani copti in Libia.
Del 23/02/2015, pag. 14
Gli ostaggi curdi in gabbia l’ultimo orrore
dell’Is
Blitz militare turco in Siria
I prigionieri peshmerga fatti sfilare tra la folla in Iraq Ankara manda i
tank per liberare il mausoleo simbolo
MARCO ANSALDO
Ventuno ostaggi in gabbia vengono fatti sfilare in una città dell’Iraq a 50 chilometri da
Kirkuk. La folla li osserva giubilante. Sono 16 peshmerga curdi, due ufficiali dell’esercito
iracheno e tre poliziotti locali. Dietro le sbarre gli uomini rispondono terrorizzati alle
domande. È l’ultimo filmato postato dai terroristi del cosiddetto Stato islamico (Is),
intercettato dal Centro americano di sorveglianza dei siti islamisti ( Site). Un video che
ricorda quella del pilota giordano arso vivo in gabbia. Né luogo né data sono precisati ma,
secondo fonti curde, le scene risultano girate una settimana fa nel mercato del distretto di
Hawija, controllato dall’Is, a una cinquantina di chilometri da Kirkuk, città ancora libera.
I 21 sventurati appaiono nelle tute arancioni, a testa bassa, portati verso le gabbie in una
piazza circondata da muri di cemento e presidiata da combattenti incappucciati. Un uomo
con la barba e un turbante bianco, il “presentatore” del video, si rivolge ai peshmerga, i
guerrieri curdi, esortandoli a finire le ostilità. «Altrimenti la vostra fine sarà nelle gabbie o
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sotto terra». A questo punto si vedono i prigionieri sfilare uno per uno nelle gabbie sopra i
pickup lungo una strada colma di uomini armati. Il filmato si chiude con gli ostaggi
inginocchiati, ciascuno con dietro un uomo incappucciato e con un’arma in mano.
I prigionieri, dice un comandante dei peshmerga di Kirkuk, il generale Hiyowa Rach,
sarebbero stati catturati il 31 gennaio scorso, «durante un attacco terrorista contro
Kirkuk». Dal giugno del 2014 lo Stato islamico (Is), che conta ampi territori nel Nord e
nell’Ovest dell’Iraq, cerca di impadronirsi dell’importante città petrolifera controllata dai
peshmerga. E ora, dopo il video del pilota giordano bruciato vivo, e le decapitazioni dei
due ostaggi giapponesi, la nuova iniziativa mediatica dell’Is punterebbe a ottenere nuove
fonti di finanziamento. Ieri la Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung sosteneva che lo
Stato terrorista starebbe infatti cercando di vendere alle forze curde i corpi dei loro soldati
uccisi in battaglia. Il prezzo: «Fra i 10mila ed i 20mila dollari» (8.700-17.500 euro). Il
giornale tedesco afferma che l’Is sarebbe stato colpito duramente dalla recente offensiva
della coalizione internazionale. Molte infrastrutture sono rimaste distrutte dai
bombardamenti. E il contrabbando di petrolio o di antichità saccheggiate risulta in gran
parte ostacolato.
Ma il quadro geopolitico si oscura per un’altra iniziativa nell’area. Nella notte fra sabato e
domenica la Turchia ha effettuato un blitz militare, entrando per 35 chilometri in territorio
siriano con 572 soldati e una quarantina di blindati, e portando in salvo il feretro di
Suleyman Shah, il nonno del fondatore dell’Impero ottomano. I 38 militari di Ankara di
guardia al mausoleo, formalmente territorio turco in base ad un trattato del 1921, isolati da
8 mesi, sono stati anch’essi riportati in patria. Nel compiere il blitz i blindati turchi hanno
attraversato la città “martire” di Kobane, ora sotto il controllo dei miliziani curdi siriani.
Ankara ha inviato una nota diplomatica al governo di Damasco, informandolo di avere
«provvisoriamente» trasferito la tomba di Suleyman Shah in un’altra area all’interno della
Siria presa dalla Turchia durante l’incursione nella regione di Ashma. In sostanza, le forze
militari turche ora si sono impossessate di un nuovo pezzo di territorio siriano situato ad
appena 200 metri dalla frontiera: «La nostra bandiera continuerà a sventolare in questo
nuovo luogo per tenere viva la memoria dei nostri avi», dice Erdogan, mentre i media
pubblicano immagini nazionaliste di tre soldati che issano la bandiera di Ankara nel sito
siriano. Ankara ha inviato una lettera alle Nazioni Unite affermando che la base militare
evacuata dal mausoleo «è ancora in terra turca ». L’edificio che ospitava la tomba, vicino
ad Aleppo, è stato fatto esplodere, per evitare che i militanti dell’Is lo utilizzino come base.
Durissima la risposta di Damasco. L’incursione turca, ha detto il governo di Assad in una
dichiarazione letta dalla tv di Stato, è una «palese aggressione» di cui Ankara sarà
ritenuta responsabile. E il fatto che l’Is non abbia attaccato la tomba, sostiene Damasco,
«conferma i legami tra il governo turco e questa organizzazione terroristica».
Del 23/02/2015, pag. 14
“Italia in grado di intervenire in Libia”
L’annuncio di Renzi. La Mogherini: “Rischio reale per noi”. Oggi vertice
tra Alfano e le associazioni islamiche
In tv da Lucia Annunziata il premier Matteo Renzi ieri ha lanciato una serie di messaggi
sulla Libia e sui rapporti dell’Italia con la Russia in queste periodo di crisi sull’Ucraina.
Libia: innanzitutto il tema della possibile sostituzione dell’inviato Onu Bernardino Leon:
«Non è questo il punto: Leon sta facendo tutto quello che gli è possibile. Bastasse
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cambiare il rappresentante dell’Onu, sarei il primo a metterci la firma». Poi il chiarimento
sulla candidatura di Prodi o D’Alema: «Nel settembre scorso, quando ho chiamato Ban Kimoon, lui mi ha spiegato che per il passato coloniale dell’Italia era meglio individuare un
non italiano » come mediatore in Libia. «Già allora si parlava di Prodi o di D’Alema. Erano
ipotesi dei giornali. Ban Ki-moon mi ha detto che preferivano un non italiano».
Sulla pericolosità dell’Is in Libia, Renzi ripete che l’infiltrazione c’è, ma l’Is controlla spazi
limitati in Libia: «L’Italia ha un servizio di Intelligence che non è come la Cia, ma in Libia
siamo i numeri uno. Voglio dare un segnale di tranquillità all’Italia. E siamo in grado di
intervenire». Il premier insiste sul concetto che l’Is è entrato in Libia, ma non ne controlla
parti importanti, per questo l’azione deve essere rapida, bisogna unificare un fronte politico
libico che combatta il terrorismo col sostegno dell’Onu. Per l’Italia l’interlocutore «legale »
è il governo di Tobruk: «In Libia si sono fatte le elezioni il 24 giugno 2104. Per noi sono
valide. Parliamo con il governo di Tobruk». Gli fa eco Federica Mogherini, Alto
rappresentante della politica estera Ue: «La domanda è se esista uno Stato in Libia. È un
mix pronto a esplodere. L’Is rappresenta un rischio reale».
Renzi anche sulla Libia vorrebbe un maggiore coinvolgimento della Russia, ma qui
emerge la questione Ucraina: «Putin ha violato l’integrità dell’Ucraina. Se la Russia torna
al tavolo della comunità internazionale saremmo tutti più tranquilli, ma è chiaro che Putin
deve uscire dall’Ucraina».Intanto oggi il ministro dell’Interno Alfano per la prima volta
convoca le principali comunità e associazioni islamiche d’Italia: incontrerà i prefetti
Morcone e Iurato, Manzione, il presidente dell’Ucoii Izzedin Elzir, Pallavicini della Coereis
e il capo della moschea di Roma Redouane. L’appuntamento, per ora informale, è stato
deciso dopo i fatti di Parigi e Libia.
del 23/02/15, pag. 14
di Leonardo Coen
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA
GHEDDAFI
NEGLI ULTIMI GIORNI IL DANNO PATITO DALLE NOSTRE IMPRESE È
STATO DI ALMENO CENTO MILIONI DI DOLLARI PER LE COMMESSE IN
CORSO, MA IL CONTO SARÀ PIÙ SALATO
Due governi, cento milizie, 1250 clan armati fino ai denti… e certi che rimpiangono
Muammar Gheddafi, “meglio lui che il Califfo tagliagole”, è il sapido commento del leghista
Gianluca Bonanno. Persino il novantenne Angelo Del Boca, massimo studioso del
colonialismo tricolore, non nega che alla fine qualcuno rimpiangerà i tempi di Gheddafi,
ovviamente nei panni dell’uomo politico che aveva tante qualità, non in quelli del dittatore
che fino agli anni Settanta e Ottanta “inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della
morte”. Le qualità del Colonnello? Non le spiega il buon Del Boca che ha appena finito la
riedizione della biografia di Gheddafi (con Laterza), ma sono intuibili: quelle che fanno
comodo a chi investe e vuol guadagnare tanto, in fretta, al netto delle inevitabili tangenti:
regime forte e autoritario, un solo interlocutore, garante della stabilità politica e sociale.
L’escalation jihadista in Libia fa dire persino a Valentino Parlato, che è nato a Tripoli il 7
febbraio del 1931: “Gheddafi era una barriera importante contro i jihadisti”, la “sua” Libia
era un Paese tranquillo, senza pericoli. E i libici stavano bene, perché il Colonnello
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dirottava parte della rendita petrolifera nel welfare. E invece… Invece la Libia è diventata
l’inferno. Altro che “Tripoli bel suol d ’ amore / ti giunga dolce questa mia canzon!”. Altro
che “terra incantata”, “sul mar che ci lega con l’Africa d’or / la stella d’Italia ci addita un
tesor”… Pochi giorni fa il grosso catamarano “San Gwann” della compagnia maltese Virtu
Ferries, affittato dalla Marina Militare, riportava in Italia sessanta connazionali che
lasciavano in fretta e furia Tripoli per approdare ad Augusta. Il filmato, girato da un drone
“Predator” della nostra aviazione, sembrava lo spezzone di un film già visto tante altre
volte, immagini un poco sgranate, un senso di desolazione e tristezza, come del resto
hanno addosso tutte le fughe. E la Libia, per gli italiani, lo è stata spesso, terra di fughe.
Oltre che terra, come si diceva una volta, “di grandi opportunità”.
Il sogno infranto degli italiani
Mi è venuto in mente un vecchio film italiano di guerra, “Bengasi” (1942) di Augusto
Genina, con Fosco Giachetti che interpretava il ruolo di un capitano. Non soltanto un film
di propaganda: infatti colpiscono le immagini assai realistiche dei coloni italiani che
fuggono dalla città cirenaica perché gli inglesi avanzano e stanno per occuparla. In un
romanzo di Mirella Curcio che s’intitola “Libia travolta” (La vita felice, 2009) si raccontano
gli anni drammatici della Seconda guerra mondiale, la distruzione di infrastrutture, colture,
impianti idrici, installazioni industriali e gli effetti della gretta occupazione britannica. Molti
italiani erano rimasti, speravano di ricominciare la loro avventura partecipando alla
ricostruzione e alla modernizzazione di un Paese che avrebbe ottenuto l’indipendenza, il
primo gennaio del 1952. Ma i sogni, si sa, svaniscono all’alba. Il 21 luglio del 1970, la voce
di Gheddafi – che aveva spodestato re Idris I l’anno prima con un colpo di Stato –
annunciava che era giunto “il momento di recuperare la ricchezza dei suoi figli e dei suoi
avi usurpate durante il dispotico governo italiano, che ha oppresso il Paese in un periodo
oscuro della sua gloriosa storia”. Il nuovo leader della Libia aveva bellamente violato il
trattato con l’Italia del 1956 in cui si vincolava il rispetto dei diritti delle minoranze.
1970, cento milioni di dollari di danni
La comunità italiana dovette mollare la Libia nel peggiore dei modi. Un’espulsione di
massa. Ventimila persone erano costrette a lasciar tutto quello che avevano. Un
patrimonio valutato, allora, intorno ai 200 miliardi di lire: 37 mila ettari della terra migliore,
coltivata secondo i criteri agricoli più avanzati; 1750 case, ville e appartamenti.
Cinquecento negozi, botteghe, ristoranti, alberghi, cinema, supermercati, studi
professionali, 1200 auto, aerei e macchine agricole. Doveva essere quella degli italiani,
una cacciata simbolica. Sarebbero rimasti in Libia solo 500 italiani, coloro che il Consiglio
della Rivoluzione libica considerava “buoni”, utili al Paese. Erano tollerati altri 1800
pendolari: tecnici e dirigenti di imprese petrolifere e di lavori pubblici. Stavolta l’esodo non
ha quelle dimensioni: a metà gennaio risultavano operanti in Libia 624 italiani e 175
aziende. Il 15 febbraio erano rimasti in settanta, in gran parte tecnici dei cantieri edili e dei
pozzi Eni. In questi ultimi giorni il danno patito dalle nostre imprese è stato di almeno cento
milioni di dollari per le commesse in corso, secondo una valutazione approssimativa (i dati
certi si sapranno tra qualche mese) della Camera di Commercio italo-libica (250 aziende
associate, il 99 per cento piccole e medie imprese i cui interessi sono più difficili da
tutelare, rispetto a quelli di Eni, Impregilo, Telecom che hanno rapporti istituzionali con le
autorità libiche). Ma il conto è assai più salato. Quelle piccole e medie imprese hanno
prodotto 3 miliardi di export lo scorso anno, perché non dimentichiamo che l’Italia è il
primo partner commerciale della Libia. Siamo noi i maggiori acquirenti e noi i fornitori più
importanti (per il 47 per cento si tratta tuttavia di prodotti della lavorazione derivati dal
greggio libico esportato). I dati sono impietosi, seguono, anzi anticipano il caos libico: c’è
stato un calo di un terzo delle nostre forniture meccaniche nel 2014, ancor peggio (-58 %)
è andata per i mezzi di trasporto, quasi il 40 per cento di contrazione per quel che riguarda
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i metalli. Per non parlare dei crediti che le nostre imprese reclamano: ad ottobre del 2014,
più di 650 milioni. Le prospettive? Un black-out del commercio. L ’ Eni, per esempio,
pensa ormai a concentrare il suo interesse sulle piattaforme offshore, anche se i suoi
pozzi, sinora, sono funzionanti (a tenere in servizio gli impianti è personale quasi tutto
libico, addestrato dai colleghi italiani). Il gasdotto Greenstream che parte dal centro di
trattamento di Mellitah ed arriva al terminale di Gela, nel 2014 ha visto transitare 10 milioni
di metri cubi di gas, mentre nel 2010 erano stati 25 milioni.
Tutti i progetti rimasti in sospeso
Scappano, gli italiani, che hanno tenuto duro sin che potevano, aggrappati ai proclami
post-gheddafiani di una Libia ambiziosa, pronta a investire miliardi di euro in progetti
grandiosi ed imponenti trasformazioni infrastrutturali. Ma anche lì, in un paese senza
legge, si è vista tutta la fragilità della Libia e la nostra diplomazia, capace di elaborare una
politica spicciola, day by day o quasi. L’Italia aveva – col governo Monti – rilanciato il
discusso accordo firmato a Bengasi il 30 agosto del 2008 da Gheddafi e Berlusconi
(ratificato dal parlamento italiano il 3 febbraio del 2009) che prevedeva la realizzazione
dell’autostrada “dell ’ amicizia” dalla frontiera con la Tunisia a quella con l’Egitto, 1700
chilometri (valore dell ’ appalto: 3 miliardi di euro) più un’altra autostrada di 400 chilometri,
quella “costiera” (963 milioni), e il coinvolgimento di duemila operai. L’autostrada
dell’amicizia farebbe assai comodo alle milizie dell ’ Is… il consorzio che la dovrebbe
costruire vede alla guida Salini-Impregilo, con Condotte, Pizzarotti e la Cmc di Ravenna,
insomma un affare politicamente ecumenico. Allo stato attuale, sono iniziati gli
sbancamenti previsti nel primo lotto (400 km, 12 ponti, 8 aree di servizio, 6 parcheggi:
costo previsto 944, 5 milioni). C’è la protezione delle guardie libiche. Ma fino a quando? E
a chi fedeli? Persino uno come l’ex imprenditore Bruno Dal-masso, che ha 82 anni e dal
1975 vive a Tripoli (è il “custode” del cimitero italiano), ha deciso di tornare a Bordighera,
ormai non ci crede più. Gheddafi gli aveva ritirato il passaporto, ma Dalmasso ha detto che
adesso è molto peggio, “quelli che ci sono ora fanno diecimila volte più male di quello che
ha fatto il Colonnello”.
Del 23/02/2015, pag. 2
Ecco il piano di Atene addio promesse
elettorali deregulation, riforma Stato e
un’apertura ai privati
Il documento di sei pagine sarà consegnato oggi a Ue, Bce e Fmi Forse
l’unica misura umanitaria sarà il blocco della confisca di case
ETTORE LIVINI
La Grecia di Alexis Tsipras, con buona pace delle promesse elettorali, riparte dalla Troika.
«É un’istituzione che non riconosciamo e non metterà più piede ad Atene», aveva
garantito il leader di Syriza la sera del 25 gennaio, dopo la vittoria alle elezioni. La
realpolitik e la drammatica fuga di capitali dalle banche hanno però avuto la meglio. Il
premier è stato costretto a raggiungere un compromesso al ribasso all’Eurogruppo
(«senza un accordo, da oggi avremmo dovuto imporre controlli alla circolazione di denaro
e il paese sarebbe collassato », racconta uno dei negoziatori del Partenone). E stamattina
formalizzerà la retromarcia “forzata” inviando per approvazione a Ue, Bce e Fmi — alias la
vecchia Troika — il piano di riforme del governo, l’ultima carta per tenere Atene in Europa.
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«É la prima volta dal 2010 che siamo in grado di decidere noi come salvare il paese senza
farci imporre la ricetta da altri. Non taglieremo le pensioni e non alzeremo l’Iva», è il
mantra soddisfatto del Presidente del consiglio. Le sei pagine di documento in partenza
per Bruxelles sono però una lista di buoni propositi: lotta alla corruzione, deregulation,
riforma del pubblico impiego, guerra totale a oligarchi, burocrazia, cartelli ed evasori fiscali
e persino un impegno a non bloccare le privatizzazioni. Una lista che ricalca a grandi linee
i capisaldi del vecchio memorandum e dove brillano per assenza molte delle promesse
elettorali di Syriza. Se le “istituzioni” — nuovo nome del trio dei controllori — daranno dare
l’ok, Bruxelles formalizzerà la proroga di 4 mesi al piano di salvataggio della Grecia,
avviando l’iter dell’approvazione parlamentare in Germania, Olanda, Estonia e Finlandia.
In caso contrario si riaccenderà l’allarme rosso sul Partenone: domani verrebbe convocato
un nuovo Eurogruppo che — a quel punto — rischierebbe di avere all’ordine del giorno la
gestione ordinata dell’uscita di Atene dall’euro.
Tsipras e i suoi tecnici stavano lavorando nella serata di ieri per provare a infilare nel
pacchetto una minima parte dei provvedimenti umanitari previsti nel programma del
partito. Uno “scalpo” necessario per placare il malumore dell’ala più radicale di Syriza e
della parte più ideologica del suo elettorato. «L’idea allo stato è provare a strappare il via
libera per bloccare la confisca della prima casa di chi non riesce più a pagare le rate dei
mutui», racconta uno dei negoziatori. Sperando che Ue, Bce e Fmi — comprendendo le
ragioni di politica interna — non si mettano di traverso.
L’appuntamento di oggi, a Bruxelles lo sperano tutti, dovrebbe andare via liscio. Il vero
esame della Grecia — dicono — sarà ad aprile quando il premier e il ministro Yanis
Varoufakis presenteranno il piano targato Syriza — comprensivo di cifre e coperture al
centesimo — per portare il paese fuori dall’emergenza. Lì si giocherà la partita finale: se il
premier riuscirà a convincere i creditori che il suo governo è davvero in grado di attaccare
alla radice i problemi appena intaccati da Samaras & C. — corruzione, burocrazia ed
evasione su tutti — Ue, Bce e Fmi potrebbero non solo sborsare l’ultima tranche di
finanziamenti, ma mettersi al tavolo per ragionare su come rendere sostenibile a lungo
termine il debito ellenico. Si vedrà. Il vero problema di Tsipras oggi è convincere la Grecia
che le tante promesse fatte prima del voto non si potranno materializzare dalla sera alla
mattina. «Appena eletti vareremo l’aumento dello stipendio minimo, la luce gratis alle
300mila famiglie più povere, il ritorno alla contrattazione collettiva, il ripristino della
tredicesima alle pensioni sotto i 700 euro, l’assistenza sanitaria gratuita per il milione di
persone che ne ha perso il diritti», recitava il Programma di Salonicco “venduto” da Tsipras
prima del 25 gennaio. «Ci arriveremo un passo per volta — provano a consolarsi a Syriza
— Quando a un tavolo si è in due bisogna scendere a patti, Quando sei uno contro 18
come all’Eurogruppo e non hai un euro in tasca il compromesso può essere ancor più
difficile da digerire». La maretta tra le file del partito è già montata e il premier dovrà
lavorare per evitare che diventi una bufera. Con il rischio paradossale, dopo tutte le pillole
amare mandate giù in questi giorni a Bruxelles, che il salvataggio del paese venga silurato
dal fuoco amico.
Del 23/02/2015, pag. 3
L’INTERVISTA/ PARLA JAMES GALBRAITH
“Ho visto Schaeuble che zittiva Juncker
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Così Berlino comanda nei vertici di
Bruxelles”
EUGENIO OCCORSIO
James Galbraith e Yanis Varoufakis non potrebbero essere antropologicamente più
diversi. Il primo appartiene alla più sofisticata aristocrazia intellettuale del New England, è
il figlio del grande John Kenneth Galbraith che fu l’economista di Kennedy, ha studiato ad
Harvard e Yale, è liberal ma non radicale. Il secondo è il “mastino” che tutti abbiamo
imparato a conoscere in queste settimane, intransigente e iracondo come solo un vecchio
marxista sa essere, con le sue camicie blu elettrico che spiccano fra le grisaglie degli
euroburocrati. Eppure sono non solo colleghi all’Università Lyndon Johnson del Texas, ma
grandi amici legati da una profondissima stima reciproca. Tanto che Galbraith ha
accompagnato Varoufakis a tutte le tempestose riunioni dell’Eurogruppo della settimana
scorsa. Ed è rimasto allibito: «Io ho fatto il consulente di tanti parlamentari americani e le
riunioni del Congresso non sono accolite di anime pie: ma tanta litigiosità perfino all’interno
dello stesso governo, tanto massimalismo, tanta approssimazione non l’avevo mai vista»,
ci racconta nel giorno in cui è rientrato a casa, ad Austin.
Perché, cos’è successo?
«Le racconto due episodi. Eurogruppo finanze del 16 febbraio. Il commissario Moscovici
presenta a Varoufakis una bozza di comunicato che estende l’accordo finanziario.
Varoufakis esulta, “è la svolta”. Ma Dijsselbleom lo stoppa: “No, Yanis, il testo è un altro”.
Stiamo lavorando a un compromesso quando Schaeuble fa irruzione con voce ferma: “La
riunione è finita”. Il 18 febbraio, altra riunione e nuova formale richiesta greca di
estensione del loan agreement. Stavolta è Juncker a dire “mi sembra un buon punto di
partenza”, e il vice cancelliere tedesco Sigmar Gabriel concorda: “Si può fare”. Ma
Schaeuble interviene ancora una volta a contraddire il suo collega di governo: “No, non c’è
niente di sostanziale” ».
Qual è stato il suo ruolo nel negoziato?
«Ho lavorato informalmente con lo staff tecnico del ministero delle Finanze greco. Ero nel
backstage delle riunioni e cercavo di aiutare Varoufakis a trovare le giuste formule. Nella
prima delle due occasioni che le dicevo ho lavorato freneticamente con altri tecnici in una
stanzetta adiacente a quella della riunione, che intanto era sospesa, cercando di trovare le
parole giuste dei due testi contrapposti per redigere qualcosa che potesse essere firmato.
Non ci hanno dato il tempo. Sarebbe bastata mezz’ora in più. Alla fine della storia, è
intervenuta la Merkel a dettare la linea dicendo che un accordo andava fatto e tagliando
corto sulle divisioni nel suo governo che devono averla imbarazzata non poco. Eppure
Schauble non ha potuto fare a meno di aggiungere: “Mi raccomando, finché non si
completa il programma nessun pagamento alla Grecia”. Per fortuna è la cancelliera a
comandare, e a questo punto la sua posizione mi sembra positiva in vista del negoziato
finale. Le lezioni sono due: la Germania detta legge, ma il suo potente governo è diviso e
imprevedibile. Tutto questo è inquietante per il futuro dell’Europa».
E dell’atteggiamento dei due convitati scomodi, Bce e Fondo Monetario, cosa le è
sembrato?
«Lo sa qual è la vera sorpresa? Che i rappresentanti di queste due istituzioni sono
negoziatori molto più preparati, più seri, più coerenti, direi più “politici” dei politici stessi. La
Bce ha ampliato opportunamente gli emergency liquidity agreement per le banche greche
e mi è sembrata disposta, in presenza di un quadro politico che secondo me è diventato
moderatamente favorevole, a ripristinare anche i finanziamenti diretti con i bond greci a
garanzia. Anche con il Fondo Monetario si può trattare, non dimenticate che l’altro giorno il
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segretario al Tesoro americano Jack Lew ha telefonato a Varoufakis dicendo che un
accordo è nell’interesse di tutti».
Su quella telefonata, ci sono interpretazioni difformi: è sicuro che il ministro o il
premier greco non abbiano fatto qualche errore in questa trattativa?
«Intendiamoci: Varoufakis, così come Tsipras, non è così aggressivo come viene dipinto.
Pensi che in privato non manca di lodare Schaeuble, lo ritiene competente e affidabile.
Certo, non cederà: per lui l’importante è ripristinare la crescita in Grecia. Se dovessero
metterlo in minoranza, salirebbe sulla sua moto e uscirebbe dalla scena. Lui e Tsipras
sono due politici preparati e accorti. Stanno combattendo una battaglia onesta e
appassionata in nome del loro Paese che ha perso il 25% del Pil e ha una disoccupazione
del 25%. No, non credo che abbiano fatto alcun errore».
Del 23/02/2015, pag. 1-4
Il sondaggio
Le risposte di sei Paesi sulla fiducia nell’Unione europea. Il 37% dei
tedeschi vuole uscire dall’euro Seconda l’Italia con il 30%, ma la
percentuale sale al 42-43% in Forza Italia e Lega e scende al 18% nel Pd
Dietrofront degli italiani ora sono i più
euroscettici sì forzato alla moneta unica
ILVO DIAMANTI
TIRA una brutta aria in Europa. Verso l’Unione e, più ancora, verso l’euro. Anzitutto in
Grecia, dove il governo di Tsipras ha siglato con l’Eurogruppo un’intesa tutt’altro che
cordiale. Basata sulla reciproca diffidenza. Ciascuno convinto di aver imposto all’altro le
proprie ragioni. Un sentimento, tuttavia, molto diffuso anche altrove. Per averne una
misura attendibile, è sufficiente scorrere i dati del sondaggio condotto nelle ultime
settimane in 6 Paesi europei da Demos e Pragma (per la Fondazione Unipolis). È parte
del-l’VIII Rapporto sulla Sicurezza in Europa (a cui ha partecipato l’Osservatorio di Pavia),
che verrà presentato a Roma domani pomeriggio (a Montecitorio). Colpisce, anzitutto, il
grado di fiducia verso l’Unione Europea. È, infatti, maggioritario soltanto in Germania. Non
per caso, peraltro, vista l’influenza tedesca sulle politiche comunitarie. Ma appare limitato
altrove. In Francia, in Spagna e in Polonia: coinvolge circa quattro cittadini su dieci. Mentre
risulta largamente minoritario in Gran Bretagna e ancor più in Italia. In assoluto, il Paese
più euroscettico, fra quelli indagati dall’Osservatorio (solo il 27% ha fiducia nella Ue). Si
tratta di un orientamento già osservato, in altre, precedenti, ricerche presentate su
Repubblica. Da ultimo: nell’indagine sul “Rapporto fra gli italiani e lo Stato”, pubblicata alla
fine del 2014. Una ulteriore conferma che l’Europa unita non piace a gran parte degli
europei. E se la maggioranza di essi continua ad accettarla è per prudenza. Anzi, per
paura. Di quel che potrebbe accadere se non ci fosse. Di quel che potrebbe capitare a chi
uscisse dall’Unione. Questo sentimento è tanto più evidente se si considerano le opinioni
verso la moneta unica. L’euro. Causa — comunque, indice — principale e più evidente del
disagio e del dis-amore degli europei verso l’Europa. L’euro: solo una minoranza ristretta
dei cittadini dei Paesi dove è stato introdotto lo ritiene una scelta vantaggiosa. Circa il 10%
in Italia. Poco più in Germania. Il 20% in Spagna e in Francia. Mentre per la maggioranza
della popolazione (45-50%) è un “male necessario”. Teme che abbandonarlo sarebbe
peggio. Tuttavia, circa un terzo dei cittadini in Italia, se potesse, lascerebbe l’euro. E in
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Germania, la “guardiana” (e la padrona) dell’euro, quasi il 37% ha nostalgia del marco.
L’euro, peraltro, non suscita alcun desiderio nei Paesi dove non c’è. In Polonia e in GB
poco più del 10% della popolazione (intervistata) sarebbe favorevole a introdurlo. Mentre
7-8 persone su 10 non ci pensano proprio. Così, gli europei si scoprono sempre più
“euroscettici” e “scettici verso l’euro”. Per la reciproca influenza fra “euro-scetticismo” e
“scetticismo verso l’euro”. Perché l’euro è una moneta senza Stato. Mentre l’Unione
Europea sembra affidare, sempre più, alla moneta la propria sovranità. E la propria
identità. In politica estera, nelle politiche sociali e demografiche, invece, la UE risulta
assente. Basti pensare a quel che avviene sulle nostre coste, di fronte agli sbarchi dei
disperati, in fuga dal terrore, che si susseguono, incessanti. Oppure di fronte alla minaccia
dell’IS, divenuta devastante in Libia. Praticamente, a due passi da noi. Emergenze scaricate, come sempre, sugli Stati nazionali. Che agiscono seguendo le loro logiche
(interne) e i loro interessi (esterni). Così, un po’ dovunque cresce l’Anti-europeismo,
insieme ai soggetti politici che ne hanno fatto una bandiera. In Italia, la contrarietà verso
l’euro è molto ampia — superiore al 40% — non solo fra gli elettori vicini alla Lega, ma
anche tra i simpatizzanti di Forza Italia e del M5s. Mentre in Francia l’ostilità verso la
moneta unica coinvolge circa un terzo degli elettori dell’UMP (centro-destra) e, soprattutto,
quasi metà di quelli del Front National. È, però, in GB che l’euro-scetticismo appare più
ampio, come si è detto. In tutte le direzioni politiche. Fra i Laburisti e (ancor più) i
Conservatori. Ma, ovviamente, soprattutto fra gli Indipendentisti. Visto che oltre 9 elettori
su 10 dell’UKIP avversano la moneta unica. E l’85% la UE. D’altronde, questo partito ha
fatto dell’antieuropeismo la propria “ragione sociale”. E ne ha tratto grande vantaggio alle
elezioni locali, ma soprattutto alle successive Europee del 2014, quando si è imposto
come primo partito, in GB, con circa il 27% dei voti. D’altronde, in Francia, il FN, guidato
da Marine Le Pen, amplificando il messaggio antieuropeo, si è affermato, proprio alle
Europee, con il 25%. E oggi è accreditato del 30% dai principali istituti demoscopici, che lo
indicano come probabile vincitore alle prossime départementales di fine marzo.
L’antieuropeismo, associato alla paura dello straniero e alla chiusura verso gli immigrati, è,
dunque, divenuto una “frattura” che attraversa i sentimenti e i sistemi politici in Europa. In
Italia, è interpretata soprattutto, ma non solo, dalla Lega di Salvini. Che dal Nord sta
scendendo, sempre più a Sud. Non per caso ha organizzato una manifestazione a Roma,
proprio domenica prossima. Ma ne ha annunciata un’altra, in aprile, insieme ai Fratelli
d’Italia, con la presenza di Marine Le Pen. Per rafforzare l’alleanza — e la frattura —
antieuropea. La crisi greca, dunque, non può essere trattata come un male “regionale”.
Confinato ai margini dell’Europa. Perché riflette e riverbera un malessere diffuso. Che si
respira dovunque. In Italia, evidentemente. Ma anche in Francia. In Spagna. Nella stessa
Germania. Non credo proprio che l’Unione Europea possa proseguire a lungo il suo
cammino “confidando” sulla “reciproca sfiducia” e sulla “paura degli altri”. In nome di una
moneta impopolare. Io, europeista convinto, penso che non sia possibile diventare
“europei per forza”. O “per paura”.
Del 23/02/2015, pag. 1-26
Il 7 maggio la Gran Bretagna affronta il voto più incerto dal dopoguerra.
Gli ultimi sondaggi danno i Tories in vantaggio, ma nessuno sembra in
grado di governare senza alleati scomodi. Tra leader poco carismatici,
crisi d’identità e populismo lo storico bipartitismo è un ricordo. Una
ricetta per l’instabilità che allarma la City e spiazza persino i bookmaker
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Il rebus di Londra
ENRICO FRANCESCHINI
SULLA lavagna di Paddy Power, l’agenzia di allibratori più popolare d’Inghilterra, c’è una
nuova competizione su cui scommettere: tra calcio, rugby e corse di cavalli, ora gli
appassionati possono puntare anche sulle elezioni del 7 maggio prossimo. Con una
differenza rispetto allo sport: non c’è un favorito. I bookmaker offrono nove risultati
differenti sulla sfida alle urne in programma fra poco più di due mesi, ma tutti a quotazioni
simili. Vittoria dei conservatori, vittoria dei laburisti, coalizione di centro-destra, coalizione
di centro-sinistra, grande coalizione alla tedesca fra i due maggiori partiti, parità e
necessità di fare nuove elezioni: un voto rebus, aperto a ogni esito. L’ Economist lo
dipinge in copertina come una grande frattura: un terremoto che cambia radicalmente il
panorama politico britannico. Nel Regno Unito vigeva da sempre un bipartitismo perfetto,
in cui Tories e Labour si alternavano al potere. Oggi è diventato un sistema simile all’Italia
della prima Repubblica, con mezza dozzina di partiti che si contendono consensi. «Una
ricetta per instabilità e crisi di legittimità», avverte preoccupato il settimanale londinese.
Noi ne sappiamo qualcosa. Gli inglesi non ci sono abituati.
Vari fattori contribuiscono al fenomeno: la mancanza di leader carismatici come sono stati
la Thatcher e Blair, la perdita di identità storica dei partiti principali, con destra e sinistra
che convogliano entrambi verso il centro, il vento del populismo che attraversa tutta
l’Europa. Fatto sta che nel 1951 conservatori e laburisti raccoglievano insieme il 91 per
cento dell’elettorato, mentre adesso ottengono a fatica un terzo dei voti per ciascuno. Gli
ultimi sondaggi assegnano il 36 per cento ai Tories, il 32 al Labour, il 10 all’Ukip (il partito
anti-europeo guidato da Nigel Farage), il 9 ai liberaldemocratici, il 7 ai verdi, il 4 al partito
nazionalista scozzese. È la prima volta in più di tre anni che il partito del primo ministro
David Cameron balza in testa. Ma per effetto del modo in cui vengono assegnati i seggi,
con il sistema maggioritario, è possibile che Tories e Labour ricevano esattamente lo
stesso numero di deputati; ed è sicuro che nessuno dei due conquisterà la maggioranza
assoluta necessaria per governare da soli. Un piccolo partito come quello nazionalista
scozzese, che tuttavia prende voti soltanto in Scozia, potrebbe avere un peso
sproporzionato sul prossimo governo, se decidesse di allearsi con i laburisti,
condizionandone pesantemente le scelte. Viceversa l’Ukip, che ha vinto le elezioni
europee dell’anno scorso, potrebbe avere solo un pugno di parlamentari, perché i suoi
consensi sono sparpagliati per tutto il paese, con difficoltà a raggiungere la maggioranza
nei singoli collegi elettorali, ma può comunque danneggiare i conservatori, portando loro
via voti preziosi. C’è chi pronostica che alla fine i Tories prevarranno, formando di nuovo
una coalizione con i lib-dem, come è accaduto nella legislatura che sta per concludersi, ed
eventualmente pure con l’Ukip. Altri prevedono una maggioranza formata da laburisti e
liberaldemocratici, con l’appoggio esterno dei nazionalisti scozzesi e forse anche dei verdi.
Ma che legittimità avrebbe un governo tenuto in piedi da un partito, quello scozzese
appunto, il cui obiettivo resta l’indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna, nonostante
la sconfitta subita nel referendum del settembre scorso? In apparenza l’incertezza è
difficile da spiegare. Dopo cinque anni di governo Cameron, la Gran Bretagna ha la
ripresa più forte e la disoccupazione più bassa d’Europa, la Borsa di Londra è al livello più
alto degli ultimi quindici anni. Eppure la gente non è contenta. La politica dell’austerità, a
base di pesanti tagli alla spesa pubblica, ha imposto duri sacrifici alla maggioranza della
popolazione. Un rapporto della London School of Economics indica che è stata la classe
media a soffrire particolarmente. Il gap ricchi-poveri continua ad allargarsi. La salute
dell’economia è drogata dal settore finanziario e dalla bolla immobiliare, con i prezzi delle
case che nella capitale crescono di un folle 20 per cento annuo. Per di più, il primo
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ministro conservatore aveva promesso di pareggiare il debito entro il 2015 e ora invece
deve ammettere che ci vorranno altri cinque anni, con tagli e sacrifici ancora più severi.
Protestano perfino i liberaldemocratici, suoi partner di governo: «Se verranno fatti i nuovi
tagli previsti da Cameron, la sanità e gli altri i servizi pubblici essenziali ne usciranno
distrutti», afferma Danny Alexander, numero due lib-dem e viceministro del Tesoro.
“Wealth versus health”, ricchezza contro sanità, riassume il quotidiano Independent.
Scende in campo addirittura la chiesa anglicana, indignata da un capitalismo che giudica
ingiusto, spietato, immorale: gli strali lanciati dall’arcivescovo di Cantebury, Justin Welby,
fanno perdere la pazienza a Downing street, che lo ha accusato di indebita interferenza
politica. Ma ecco un altro paradosso: se cresce lo scontento, a guadagnarci dovrebbe
essere l’opposizione. Invece non succede. Anzi, più il voto si avvicina, più i laburisti
perdono terreno. Il motivo, secondo molti commentatori, è il capo del Labour: Ed Miliband,
privo di carisma, incapace di fornire una chiara visione del futuro e autore di una gaffe
dopo l’altra, tanto che i media l’hanno soprannominato “Mister Bean”, come il clownesco
personaggio di cinema e tivù. Le voci di una congiura laburista per sostituire all’ultimo
Miliband con un candidato più credibile sono andate avanti fino a una settimana fa.
Disperato, per metterle a tacere il leader è stato costretto a dare un ruolo pubblico nella
campagna elettorale a Tony Blair, che lo ha sempre criticato giudicandolo «troppo di
sinistra» per poter vincere e ora dovrebbe difenderlo. Curiosamente, Cameron e Miliband
hanno assunto come consulenti elettorali due guru americani che lavoravano per lo stesso
cliente: Jim Messina, direttore della campagna dei conservatori, e David Axelrod, stratega
di quella dei laburisti, facevano entrambi parte del team che ha portato Barack Obama alla
Casa Bianca. Stavolta rischiano di non portare i loro candidati da nessuna parte. Al punto
da non escludere lo scenario di una grande coalizione conservatorilaburisti, per tenere
fuori dal governo i populisti di destra e di sinistra e riproporre il duello elettorale fra qualche
anno. L’incertezza sul parlamento che uscirà dalle urne riguarda l’edificio medesimo:
Westminster cade a pezzi, avrebbe bisogno di un costoso restauro, si parla di trasferire
temporaneamente i deputati altrove mentre si svolgono i lavori o addirittura di vendere
l’antico palazzo, magari a un miliardario cinese o a uno sceicco arabo, visto che i soldi per
restaurarlo, al momento, non ci sono. L’ Economist suggerisce un restauro non solo
architettonico, ma costituzionale: una riforma per iniettare una dose di proporzionale nel
sistema elettorale britannico, per ridurre le pretese di forze regionali come i nazionalisti
scozzesi. Di certo c’è che la Gran Bretagna sembra alla vigilia di un terremoto. E nessuno
si sente di scommettere su come si risveglierà dopo le elezioni. Nemmeno i bookmaker.
del 23/02/15, pag. 17
Nigeria, in missione a 8 anni
La kamikaze più piccola
Almeno cinque morti. La bimba cresciuta tra i fanatici di Boko Haram
Una bimba bomba, forse la più piccola della storia (non solo africana): non aveva più di 8
anni, secondo i testimoni, la kamikaze che Boko Haram ha mandato a uccidere e a morire
nel mercato di Potiskum, una città nel nordest della Nigeria.
Il bilancio parla di almeno 5 morti. L’esplosione ha lasciato per terra anche 19 feriti. In
totale 24 vittime, tre per ogni anno di età dell’attentatrice. Sotto la tunica la bambina
nigeriana era vestita da kamikaze: probabilmente portava l’esplosivo fissato al corpo,
come un giubbetto oppure a mo’ di sacca. Lo indossava come i bambini italiani portano lo
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zainetto andando a scuola, o il vestito di Carnevale. Lei era vestita (e si è comportata) da
kamikaze.
Decisa e cocciuta come soltanto i bambini sanno essere. Era già stata allontanata diverse
volte dai vigilantes all’entrata del mercato. Forse loro hanno chiuso un occhio, forse hanno
abbassato la soglia di guardia. Come si fa a pensare che una bambina costituisca un
pericolo mortale per una comunità? Si può, anzi si deve, quando si vive in un piccolo
inferno di provincia chiamato Potiskum, nello Stato di Yobe.
E’ in quella savana la centrale delle baby kamikaze. Già a metà gennaio gli islamisti di
Boko Haram, che dal 2009 cercano di instaurare con la violenza un Califfato islamico nel
Nordest, avevano fatto «brillare» tra la folla due bambine di 10 anni. Ieri hanno abbassato
ulteriormente l’età d’ingresso nel reparto attentati. Cresciuta probabilmente in una famiglia
di fanatici fedeli di Abubakar Shekau, il leader del gruppo originario proprio di Yobe,
l’ultima kamikaze è riuscita a sfuggire al controllo delle guardie e ha respirato per l’ultima
volta prima dello scoppio.
Un boato, una nuvola di fumo che si è persa in fretta nell’aria elettorale che si respira nel
più popoloso Paese dell’Africa, in vista delle elezioni presidenziali rinviate al 28 marzo.
Una strage minore nel giorno in cui il governo era impegnato a celebrare la riconquista di
Baga, già teatro del più sanguinoso massacro firmato Boko Haram (duemila morti secondo
Amnesty International). Dal 3 di gennaio i miliziani controllavano la zona, importante
crocevia regionale e città simbolo. La controffensiva dell’esercito si aggiunge ai colpi
assestati ai ribelli dai Paesi vicini, Chad in testa.
Ma quante città, quante case riconquistate vale una bambina di otto anni che si fa saltare
in aria con il più piccolo corpetto bomba della storia?
Del 23/02/2015, pag. 17
“Basta pianti, ricominciamo” torna Charlie
Hebdo con un tesoro di 30 milioni
Mercoledì il settimanale satirico sarà in edicola dopo 50 giorni di stop È
caccia a nuovi vignettisti: molti hanno rifiutato per paura di altri attacchi
ANAIS GINORI
Ormai manca solo la copertina. Attraverso il solito rito, la redazione di Charlie Hebdo si
riunisce oggi davanti al fatidico muro di vignette per scegliere entro stasera il disegno che
finirà in prima pagina. L’ultima volta, subito dopo gli attentati, la decisione era stata una
terapia di gruppo, tra lacrime e crisi di panico, con lo psicologo dentro alla sala. Adesso
tutti cercano una routine, anche se hanno gli occhi del mondo puntati addosso. Dopo oltre
un mese e mezzo di pausa, il numero 1179 del giornale satirico è pronto e sarà finalmente
in edicola mercoledì, per riprendere poi un ritmo di pubblicazione settimanale.
«Questa volta dobbiamo davvero ricominciare » racconta Patrick Pelloux, storico
collaboratore della testata. Per l’edizione del 14 gennaio, uscita qualche giorno dopo
l’attacco e venduta in 8 milioni di copie, la redazione aveva lavorato sull’onda dello choc.
Dopo quell’exploit, ci sono stati i funerali e una lunga interruzione. «Ora siamo costretti a
fare i conti con l’assenza degli altri» sospira Pelloux. Tutti i disegnatori — Charb, Wolinski,
Cabu, Tignous, Honoré — avevano rubriche nel giornale, così come i collaboratori
assassinati, l’economista Bernard Maris e la psichiatra Elsa Cayat. La grafica del giornale
è stata cambiata per non lasciare spazi bianchi. Non sono previsti nuovi omaggi alle
vittime perché, dice Pelloux, «non siamo mai stati un giornale lacrimevole».
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«Sarà sempre Charlie » promette Riss, il nuovo direttore editoriale. Il vignettista, colpito al
braccio durante l’attentato, ha ricominciato a disegnare con la mano sinistra. Lo sfoglio
sarà di sedici pagine tra politica, economia, cultura. I giornalisti feriti, Fabrice Nicolino e
Philippe Lançon, hanno mandato un testo anche se sono ancora in ospedale, così come il
webmaster Simon Fieschi, che ha rischiato la paralisi ed è in condizioni gravi. Ci sarà una
nuova rubrica letteraria con il contributo di scrittori, la prima a fir- mare è la romanziera
Marie Darrieussecq. La tensione resta alta. La giornalista marocchina Zineb El Rhazoui è
stata minacciata di morte sui social network, insieme al marito, lo scrittore Jaouad
Benaissi. Fuori dalla redazione provvisoria, nella sede di Libération , ci sono decine di
agenti di scorta. I nomi più famosi della testata sono tutti sotto protezione. «Fare un
giornale circondati da poliziotti è quantomeno particolare» osserva Laurent Léger,
giornalista investigativo di Charlie Hebdo . «Cercheremo di ricostruirci numero dopo
numero» continua Léger. Durante queste settimane di preparazione, la testata ha fatto
appello a nuovi collaboratori. Una ricerca non facile, soprattutto per i vignettisti. Molti
hanno declinato l’invito, altri hanno chiesto: «Ma dovrò venire in redazione?». Oppure:
«Posso firmare con un altro nome?». Riss non si stupisce. «Lo capisco — dice — quando
ero in ospedale anche io continuavo a temere che qualcuno sarebbe venuto a uccidermi».
Alla fine, due nuovi disegnatori sono presenti: René Pétillon e l’algerino Ali Dilem.
L’unica cosa che non manca più sono i soldi e i lettori. Charlie Hebdo ha ora 220mila
abbonati, contro appena 10mila di inizio anno, e un gruzzolo di 30 milioni di euro grazie
alle donazioni e alle vendite del numero speciale. Un patrimonio improvviso che rischia di
scatenare liti e diventare un “regalo avvelenato” secondo l’espressione di Riss. Tra
qualche settimana, dovrebbe avere una nuova casa. Il comune di Parigi ha offerto degli
uffici nel tredicesimo arrondissement. Il trasloco avverrà solo dopo lavori per garantire la
sicurezza. Charlie Hebdo dovrà rassegnarsi a lavorare in un bunker. Fino a quando,
nessuno lo sa.
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INTERNI
Del 23/02/2015, pag. 6
Dissidenti dem e forzisti preparano la
trappola sull’Italicum
GOFFREDO DE MARCHIS
Chiudere la pratica della legge elettorale è il prossimo obiettivo di Matteo Renzi.
«L’Italicum non cambierà di una virgola e alla Camera farà il suo ultimo passaggio. Per
carità, davvero tutto è migliorabile. Ma abbiamo già raggiunto un’intesa e poi non voglio
ricominciare sempre daccapo». Sarà questo il terreno di scontro con la minoranza del Pd
nelle prossime settimane e il banco di prova per vedere se la rottura con Berlusconi è
momentanea o definitiva. A Montecitorio la maggioranza ha numeri molto ampi anche
senza Forza Italia, ma nello stesso ramo del Parlamento si annidano altre trappole per il
premier. Queste trappole hanno nomi e cognomi. Sono quelli dei dissidenti del Pd, del
capogruppo di Fi Renato Brunetta e della presidente della Camera Laura Boldrini. A
Palazzo Chigi sono convinti che la terza carica dello Stato, dopo le dure critiche al Jobs
Act, tornerà a essere imparziale. «Ha usato il ruolo del Parlamento per contestare Matteo.
Ci può stare», dicono i renziani. Ma ciò non toglie che l’inedita uscita politica della Boldrini
abbia allarmato i vertici del Pd e dell’esecutivo. Si capisce che la presidente è decisa ad
assumere un ruolo più visibile nel confronto quotidiano e c’è un pezzo della sinistra che
pensa a lei come possibile contraltare a Renzi. Molto più che a Landini o a Cofferati. Se la
legislatura andrà avanti fino al 2018, Boldrini rimarrà nei ranghi del suo compito
istituzionale. Ma se dovessero esserci prima degli strappi, «se si apre una partita a
sinistra», allora potrebbe decidere di esporsi di più. E l’affondo sui decreti delegati della
riforma del lavoro e l’accusa dell’uomo solo al comando potrebbe rivelarsi solo una prova
generale di un maggiore impegno. I dissidenti del Pd si preparano all’arrivo del testo
dell’Italicum a Montecitorio cercando un terreno comune con gli azzurri. Un terreno
impossibile da trovare sulle preferenze. La scelta dei capolista bloccati resta il cuore del
patto del Nazareno, una via obbligata per Berlusconi che punta a confermare i fedelissimi
e può usare le liste anche per la battaglia interna, soprattutto contro Raffaele Fitto. È su
questo pilastro della legge che il premier confida di ritrovare un’asse con Arcore. Ma c’è un
altro punto su cui invece la minoranza dem e Forza Italia possono trovare un’intesa. Già
nell’emendamento Gotor, bocciato al Senato, era previsto l’apparentamento al
ballottaggio. I due partiti vincenti al primo turno potevano fare alleanze al secondo con
altre forze, sul modello della norma che vale per eleggere il sindaco e i consigli comunali.
Un modo per resuscitare le coalizioni e attenuare gli effetti del premio alla lista, che sta a
cuore a Renzi per affermare un sistema davvero bipolare. A Palazzo Madama la
maggioranza delle riforme si salvò in extremis sull’emendamento Gotor. Quasi trenta
senatori Pd uscirono dall’aula e furono determinanti le mosse di Denis Verdini e Paolo
Romani per bocciare la proposta di modifica. Alla Camera il “soccorso azzurro” è molto più
a rischio. Per la presenza di Brunetta, per un buon numero di deputati fittiani e perché il
patto si è rotto. La maggioranza, con Pd, centristi e Ncd ha lo stesso i numeri per vincere il
match, proprio com’è successo per la riforma costituzionale. Ma i dissidenti dem sono oggi
più agguerriti. I licenziamenti collettivi varati nel Jobs Act hanno frantumato un tacito
accordo che si era realizzato nel Partito democratico al momento in cui fu votata la legge
delega. Circa quaranta deputati firmarono un documento contro il provvedimento ma alla
fine, partendo da Pier Luigi Bersani, votarono sì. Lo fecero anche Guglielmo Epidani e
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Cesare Damiano, ex Cgil, attirandosi la furia degli ex com- pagni di sindacato. Ma avevano
avuto garanzie, raccontano, che nei decreti sarebbero sparite le norme più controverse e
sarebbe stato rispettato l’ordine del giorno della direzione democratica. Non è andata così,
tanto che Stefano Fassina ha detto: «Ha vinto Sacconi». Questo precedente lascia
immaginare che la minoranza, sull’Italicum, non farà sconti, anche perché non ci sono
prove di appello: se la Camera approva il testo del Senato, diventa legge. Sono 80-90 i
deputati Pd pronti a votare contro il governo. Uniti ai 70 forzisti rischiano di mettere in crisi
le certezze di Renzi. Dopo il Jobs Act, il clima interno è peggiorato. I mediatori della
riforma del lavoro (e tra loro lo stesso Damiano) sono adesso accusati di non aver ottenuto
il risultato sperato. E le mediazioni sulla legge elettorale sconteranno il passaggio sul
lavoro, i pontieri avranno molto difficoltà a far accettare compromessi. Per questo oggi ci
sono le condizioni per far nascere un nuovo patto del Nazareno. Che può rallentare
l’Italicum, costringerlo a un altro rischioso iter al Senato. Esattamente quello che Renzi
vuole evitare.
Del 23/02/2015, pag. 10
Il caso.
I soldi ci sono già, quei 230 milioni della vecchia Alleanza Nazionale. La
Meloni invece sempre più vicina all’alleanza con Salvini e la Le Pen
Da Fini ad Alemanno il cantiere dei reduci di
An ecco la Cosa di destra per il dopo
Berlusconi
CARMELO LOPAPA
I soldi ci sono, i 230 milioni chiusi a doppia mandata nella cassaforte della fondazione An
e salvati per ora da liti giudiziarie e veti incrociati tra i “colonnelli”. Case e uffici per
altrettante sedi di partito, pure, sparse in tutta Italia. Un lusso, in questi tempi di magra e
finanziamenti pubblici azzerati. «Ora si tratta di ricostruirla, quell’area, perché An c’è ma
sarebbe grave riesumare un’operazione nostalgia», ammette il pur volenteroso Ignazio La
Russa. La destra italiana, da anni ormai in piena diaspora, è tutto un cantiere, l’attività
ferve sotto traccia, sveglia puntata all’indomani delle Europee di maggio.
«Perché qui il rischio è di essere risucchiati tutti da Salvini e dalla Lega e noi questo non lo
possiamo accettare», spiega Isabella Rauti, ispiratrice assieme al marito Gianni Alemanno
della manifestazione che due settimane fa, al cinema Adriano di Roma, ha posto le basi
per la “cosa” post An. «Pensiamo a un grande contenitore da lanciare dopo il risultato del
voto alle regionali, che presumiamo non sarà entusiasmante per il centrodestra, nel quale
si potranno riconoscere tutti coloro che hanno voglia di riaggragazione » continua la
responsabile di Prima l’Italia (sempre con Alemanno), che è al contempo dirigente di
Fratelli d’Italia. Come fondatore di Fdi è La Russa, altro protagonista dell’iniziativa. Non
solo gli unici. Gianfranco Fini non sta a guardare. Nato e cresciuto a pane e politica, dà
segni di impaziente attivismo pure lui dopo due anni ai box. Da settimane è tornato con
frequenza nei talk televisivi, si sono intensificati i contatti tra lui e Alemanno. Forse i tempi
per il rientro sono maturi. «Anche se Gianfranco sconta un ostracismo nella destra che,
ammetto, è superiore alle sue pur non poche responsabilità», racconta l’ex braccio destro
e amico La Russa. A marzo ci sarà un convegno, il sito Forumdestra. it («Per la casa
comune» è il sottotitolo) per ora è il contenitore mediatico del progetto e segna un’unica
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data nell’agenda in homepage: “Giu- gno 2015”. Alla kermesse di febbraio a Roma erano
presenti anche Francesco Storace, Domenico Nania, Roberto Menia (che ancora sarebbe
portavoce di Fli), tra gli altri. Sono altra cosa, ma non stanno a guardare nemmeno gli ex
An più berlusconiani. Altero Matteoli, uno che da quel mondo proviene ma che non
abbandonerebbe mai il leader forzista, è al lavoro assieme a Maurizio Gasparri a una
manifestazione che si dovrebbe tenere a Roma a marzo. «Ma io mi muovo nell’ottica di
Forza Italia, per rilanciare l’unità del partito e del centrodestra che qualcuno vorrebbe
minare» sottolinea l’ex ministro toscano. Fatto sta che tutto è tornato ancora una volta in
movimento, sulla fascia destra finora estinta. E non a caso adesso. Il sorpasso della Lega
di Salvini su Forza Italia si è ormai consumato nei sondaggi e, prima che sia conclamato
dal voto delle future politiche, i “colonnelli” della “fu” An non vogliono farsi trovare
impreparati. C’è il panico da “si salvi chi può”, intravedono il tramonto politico di
Berlusconi, anche sulla scia degli ultimi sviluppi giudiziari, e si rifiutano di consegnarsi
mani e piedi a Salvini. «Perché una cosa è avere una struttura, un partito alle spalle, e con
quello trattare con la Lega o con quel che sarà, altra cosa è finire assorbiti» ragiona
Alemanno coi suoi interlocutori di questi tempi. Anche perché il tracollo alle regionali lo
prevedono un po’ tutti, nel centrodestra. Si tratterà poi di non farsi travolgere dalle
macerie. «Le basi per la ricostruzione le abbiamo poste un anno fa nella fondazione An,
concedendo l’utilizzo del simbolo a Fdi, ma si deve lavorare per allargare l’area — spiega
La Russa — la frantumazione è deleteria, ma lo sarebbe anche una rievocazione
nostalgica. Sarebbe un errore. Le vecchie glorie servono, ma non per giocare in prima
linea, il contenitore dovrebbe servire a promuovere nuove leve».
Vuole giocare invece in prima linea, forte della sua età, Giorgia Meloni. Storia e sensibilità
politica assai diversa da La Russa e dagli altri, niente nostalgia per lei, anche se finora ha
militato nello stesso Fdi. Già proiettata su un altro pianeta, l’ex ministra della Gioventù.
Sabato sarà sul palco di Piazza del Popolo promosso dalla Lega di Salvini. Poi, sabato 7
marzo, sarà Salvini a salire su palco che lei ha organizzato in Piazza San Geremia a
Venezia, “Renzi a casa” e molto altro. Tanto che i due, insieme porteranno in Italia ad
aprile (o ai primi di maggio) Marine Le Pen, loro faro in Europa. Altri seguiranno “Giorgia”.
Barbara Saltamartini, uscita dal Ncd e sempre più vicina alla lista Salvini, sarà forse anche
lei sabato in piazza. È solo l’ultimo volto noto che approda in squadra. Non sarà l’unico.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 23/02/2015, pag. 21
La storia.
Montante, indagato, assieme all’ex governatore Lombardo, condannato,
sono i creatori di Caltanissetta “zona franca” anti-pizzo. Tra collusioni e
fiumi di soldi, tutti i paradossi di un’impostura politica dietro la dittatura
degli affari
Il Grande inganno dell’antimafia siciliana così
l’eroe della legalità mette le mani sull’Expo
ATTILIO BOLZONI E EMANUELE LAURIA
CALTANISSETTA . Lo sapevate che esiste una “zona franca della legalità” dove ci sono
gli abitanti più buoni e più onesti d’Italia? E lo sapevate che l’hanno fortemente voluta un
governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di
più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell’impostura
siciliana. Nella città dove è iniziata l’irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero
Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale
Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell’isola, consigliere
per Banca d’Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e
membro dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al
momento autosospeso per un’indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire
come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli
affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove
commistioni — e in alcuni casi connivenze — fra imprese e politica, impresa e stampa,
imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l’aria e fatto calare
una cappa irrespirabile sulla città.
UNA FINZIONE SOFFOCANTE
In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una “legalità”
costruita a tavolino e un’ “antimafia padronale” che copre operazioni politiche opache e
favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la “rivolta degli
imprenditori” del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia
hanno snaturato l’iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto.
La “zona franca” l’ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l’unico “partito” che nel
governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante.
Quando governatore era Raffaele Lombardo — il 2 maggio del 2012 — fu istituita con un
atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come “zona franca della legalità”.
L’obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che «si oppongono alle
richieste estorsive della criminalità organizzata». Previsione di spesa: 50 milioni di euro.
Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più
tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi.
Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su
richiesta di chi — Montante — è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per
legami con le “famiglie”. Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il
paradosso.
SOTTO GLI OCCHI DEL MONDO
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La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l’Irsap, l’istituto che gestisce le aree
industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani
sull’Expo. Pochi giorni fa, l’assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il
rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una
convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di
euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l’inchiesta
per concorso esterno, a decidere quali “eccellenze” siciliane del settore agro-alimentare
dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell’isola.
Materia d’indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele
Cantone, il presidente dell’Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso,
ha annunciato che su Expo è stato avviato «il più grande controllo antimafia di tutti i
tempi».
MARKETING DI IMMAGINE
Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente
con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l’ha fatto La Sicilia in un lungo articolo)
la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta
dall’Università “La Sapienza” all’imprenditore. L’ateneo ha smentito il giorno dopo. Era
falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un “sostegno” a
mezzi d’informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di
Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce “azione di marketing
territoriale”. Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei
loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato
un’intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che
manifestava perplessità sull’opportunità che Montante — sott’inchiesta — mantenesse le
sue cariche. L’intervista è sparita nella notte «dopo devastanti pressioni». Un altro
clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni — 1.300 euro al
mese — che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il
responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati,
che hanno spinto l’Ordine dei giornalisti ad aprire un’indagine conoscitiva.
UN ALTRO PALADINO
Oltre ad Antonello Montante, c’è un altro campione dell’antimafia a Caltanissetta. Si
chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati
sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un’indagine sui
“pizzini” di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da
molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi
(un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in
un’operazione antimafia dove il fratello Vincenzo — secondo il giudizio dei magistrati —
l’avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni «per preservarlo da possibili negative
conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario». Il doppio volto di Caltanissetta
zona franca per la legalità.
L’IMPASTO
C’è promiscuità fra investigatori e magistrati e l’indagato di mafia Montante. A Roma e in
Sicilia. A Caltanissetta — visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l’ha
designato anche all’Agenzia dei beni confiscati — Antonello Montante è riuscito, il 21
ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell’Interno il comitato nazionale per l’ordine
pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da
Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la
scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte
dell’antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c’è una vicinanza molesta fra imprenditori e
rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al
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cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono
investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale
della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano
allegramente nell’ambiente “antimafioso”, c’è una prossimità imbarazzante con molte
toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell’Associazione nazionale
magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi «a una ineludibile concreta distanza da
centri di potere economici ». Più chiaro di così.
del 23/02/15, pag. 13
Reggio Calabria
Il gesuita si è ribellato alla mafia (a ceffoni)
Non chiamatelo “don”, altrimenti vi arriva un “baceffone”. Che sarebbe un sonoro schiaffo
sulle guance, immediatamente seguito da un abbraccio. Il primo fa male, visto che le mani
di chi te lo assesta hanno anche conosciuto la fatica, il secondo fa bene al cuore. Giovanni
Ladiana ti accoglie così nella sua chiesa di Reggio Calabria in Piazza Castello, centro
storico. Le stanze della sacrestia sono state trasformate in ambulatori medici e studi
dentistici, e ogni sera vengono messe in funzione da medici. Sono aperte a tutti. A
nessuno viene rivolta la domanda che in questa città è un ossessivo refrain, “chi sei? A chi
appartieni?”, le cure sono per tutti. Bianchi, neri, asiatici e gente dell’Est dell’Europa.
Aperto è anche il salone dove si riuniscono i reggini di buona volontà che con Giovanni,
senza don, hanno dato vita a “Reggio Non Tace”. Un movimento civico che ha rotto gli
schemi classici dell’antimafia. Non più solo parole, ma fatti concreti. Non più un tavolo
dietro il quale esibire chiacchiere vuote e scontate dietro le quali tutti si possono
riconoscere e con le quali costruire carriere, fare soldi. Ma coerenza. “Non sono un
sognatore, ma sempre più considero folle essere abituati all’idea che occorre stare coi
piedi per terra per essere realisti”. Ventitré parole che possono essere il manifesto di una
vita, quella di Giovanni, gesuita per vocazione, testa dura per carattere. Sessantaquattro
anni il prossimo 12 marzo, la barba lunga, l’occhio puntato sui mali della
cittàdoveviveelavora, affiancato da un confratello ottantenne che ogni mattina va in edicola
a comprare i giornale e poi, orecchie tappate dalle cuffie, si fa una bella passeggiata sul
lungomare di Reggio, Giovanni è da dieci anni nella Città dello Stretto. Ci arrivò nel 2004,
dopo esperienze di vita che lo avevano portato sempre nei luoghi del mondo dove più forte
è la sofferenza. Messico, accanto a padre Miguel Elizondo, maestro del prete Jon Sobrino,
l’unico scampato al massacro dei gesuiti e di due suore del 16 novembre 1989. “E lì ho
fatto esperienza della povertà assoluta come mai avrei immaginato. Niente a che vedere
con i nostri disagi in condizioni analoghe: l’acqua o la luce come ipotesi, le zanzare e gli
altri insetti, camminare a piedi, attraversare un fiume su un ponte di corde, dormire a terra
o su una panca d’una capanna… No, era non sapere se quell’anno sarebbe bastata la
riserva di fagioli e mais”. E poi la morte, la morte giovane di chi non ha come curarsi.
“Martino, dodicenne, malato di tifo alla prima visita al villaggio, morto al ritorno”. Il Messico,
e poi l’Italia deldolore. Leperiferie di Firenze, Bari, il Bronx di Librino a Catania. Napoli e
Scampia”, nel 1983. Tre anni dopo il terremoto che colpì Campania e Basilicata. Non
ancora gesuita, Giovanni va a Sant’Angelo dei Lombardi, insieme a Lioni, paese del
cratere e si rimbocca le maniche. Più baracche per i terremotati che avevano perso tutto
che preghiere, in quell’inferno di morti e macerie. Cristo, a Scampia, si pregava in uno
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scantinato. “Un giorno – racconta Giovanni – all’uscita trovammo un’auto bruciata, dentro il
cadavere carbonizzato di una donna”. Eralamogliediunbossperdente, unodei mille capi
della droga e del pizzo che hanno avvelenato Napoli. “Sono fatti loro”, il commento della
gente ormai indifferente alla violenza e alla morte. Loro no, lui no. I gesuiti e Giovanni,
senza don, decisero di non arrendersi, anche quando i don veri, i malacarne boss e killer
di camorra, decisero che il corpo crivellato di colpi di quel guaglione che voleva uscire
dalla droga, non “farsi più” e non spacciare più, dovevano lasciarlo a pochi metri dalla
porta della parrocchia. Bari, Napoli, Reggio Calabria. Con in tasca gli scritti di Pietro Ingrao
e Rossana Rossanda, le analisi del teologo ed economista Enrico Chiavacci, e
l’insegnamento di Nicolas Babadilla, uno dei primi compagni di Sant’Ignazio da Loyola, “il
più pazzo”, che proprio in riva allo Stretto svolse la sua “mission”. Città difficile, Reggio,
con la sua mafia imperante, i salotti bene assurti a camere di compensazione degli
interessi di politici famelici, boss in giacca e cravatta, massoni e pezzi infedeli dello Stato.
E la sua Chiesa, indifferente, silenziosa, ambigua. Qui, nel Duomo della città, all’inizio
degli anni Novanta un Vescovo aveva riunito le mogli e le vedove dei boss che avevano
trasformato la città in una Beirut italiana, per mettere la parola fine alla guerra di mafia.
Qui, alle processioni, usava e usa ancora, purtroppo e nonostante le parole di Papa
Francesco, far inchinare santi e Madonne davanti alle case di boss. Bisognava andare
oltre, schierare la Chiesa su un fronte di giustizia e di “vera” lotta alla mafia, al suo potere
e agli altri “poteri” che le hanno consentito di diventare la mafia più potente. Sapendo,
questo l’assillo di Giovanni e dei gesuiti, che parlare di “legalità” in una città del Sud
devastata dalla crisi e da classi politiche inadeguate, colluse, complici, non basta. “Che
fare quando diventa legale ciò che è frutto di leggi ingiuste ed esprime un disegno che
alimenta disuguaglianze economiche?”. Che fare in una città come Reggio “avvelenata dai
rifiuti tossici e dalla criminalità organizzata, una città dove, a volte, ci sembra di morire e
dei vivere come in un campo di concentramento”? Ribellarsi. Gennaio dell’anno 2010 è il
mese della ribellione. È l’alba del 3 quando un boato interrompe il sonno dei reggini, e
buttano Giovanni dal letto. Una bomba ha sventrato l’ingresso della Procura generale a
pochi passi della chiesa degli Ottimati, la parrocchia dei gesuiti. Un’altra bomba in
quell’anno di bazooka fatti ritrovare a pochi passi dalla procura antimafia, di una macchina
piena d’armi in una stradina dell’aeroporto dove atterra Giorgio Napolitano, di minacce e
manovre oscure. Giovanni pregò e chiese ai fedeli di “chiedere perdono a Dio per aver
permesso che si arrivasse a questo senza dire basta”. Nasce “Reggio non tace”. E furono
riunioni, assemblee di cittadini che vogliono sapere tutto su come funziona il Comune,
pretendono risposte dai politici, vogliono serietà, impegno, pulizia. E non stanno con le
mani in mano. Aprile 2010, arresto di Giovanni Tegano, big-boss della ‘ ndrangheta. Sotto
la Questura centinaia di persone inneggiano al capo, “uomo di pace”. È uno sfregio per la
città, con i tg del pomeriggio pieni di quelle immagini della vergogna. La sera il riscatto,
Giovanni e i suoi portano centinaia di “altri reggini” ad applaudire per l’arresto, ad
esprimere solidarietà e fiducia verso polizia e magistrati. Una vita, quella di Giovanni
Ladiana, di impegno e fede, raccontata nel bel libro Anche se tutti io no (151 pagine,
Laterza editore, euro 15). Il titolo è già di per sé eversivo in questi tempi dove tutti aspirano
a essere come gli altri. Un libro sincero nel quale Giovanni parla anche della paura, quella
che ti assale quando in terra di mafia ti minacciano. “Quanti attacchi di diarrea…”,
confessa ridendo dietro il suo volto barbuto e agitando le mani possenti. Quelle dei
“baceffoni” se lo chiami don.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 23/02/15, pag. 34
La nuova architettura sostenibile
La rivoluzione tecnologica silenziosa
che cambia “ in piccolo” la nostra vita
Luca Molinari
È di pochi mesi fa la notizia che l’Italia aveva vinto il Solar Decathlon Europe 2014
aggiudicandosi con il progetto «RhOME for denCity» il titolo di architettura più sostenibile
del mondo! Non sapevo esistesse questo concorso internazionale bandito dal
Dipartimento per l’Energia statunitense, ma rimasi colpito dalla qualità diffusa dei diversi
padiglioni realizzati da 20 squadre universitarie e dalla soluzione vincente ideata dagli
studenti di Roma Tre. Un appartamento di 76 metri quadri con altissime prestazioni
energetiche e riduzione degli sprechi, realizzato con materie e linguaggi elementari, ben
lontani dall’immaginario green e futurista che aleggiava nei lavori dei pionieri di quella che
oggi chiamiamo architettura ecologica, che sognavano edifici coperti di pannelli fotovoltaici
e di ampie superfici verdi.
Rivoluzione silenziosa
In realtà, quella che noi stiamo vivendo da alcuni anni è una sorta di rivoluzione
tecnologica silenziosa che si risolve nell’ambito di pochi micron di spessore e avrà la forza
di cambiare la qualità ambientale degli spazi che abiteremo. Dalle membrane quasi
invisibili che, sovrapposte alle vetrate, consentono il controllo della luce e del calore a
seconda delle giornate e stagioni, passando per le ceramiche e i cementi di nuova
generazione che possono consumare C02 e gli agenti batterici, fino ai sistemi di controllo
puntuale del consumo energetico, il mondo delle costruzioni avrà sempre più a
disposizione soluzioni e materie capaci di cambiare radicalmente la qualità diffusa delle
nostre case senza modificare sensibilmente le loro forme e linguaggi. L’ingresso delle
nano-tecnologie nel mondo dell’architettura e del design cambierà il nostro immaginario
perché ci permetterà di vivere in edifici antichissimi come se fossimo nello spazio più
avanzato e sofisticato possibile, di stampare cibi e materie biodegradabili in ogni luogo che
vorremo e di condividere queste esperienze con una comunità variabile e costantemente
collegata in rete con noi.
Qualità più che quantità
A questo punto faranno sempre meno notizia le città ecologiche come Masdar City,
costruita con i proventi dei petrodollari nel cuore del deserto, modello urbano sostenibile
ma a prezzo di uno sforzo produttivo esagerato, per passare alle pratiche metropolitane
globali in cui le vere forme di ecologia urbana saranno rappresentate dalla
rinaturalizzazione di edifici abbandonati, dalla costruzione diffusa di un pensiero ecologico
alla portata di tutte le tasche e dalla possibilità di vedere nei nuovi spazi comunitari i centri
di un pensiero sostenibile inedito. Con una diffusione di tecniche sostenibili a prezzi
sempre più ridotti e con impatto fisico sempre meno invadente si potrà pensare alla
riduzione radicale del consumo di suolo e risorse attraverso forme di densificazione
dell’esistente e all’uso intelligente dei tanti vuoti urbani ancora irrisolti. La semplicità delle
soluzioni dei decatleti «solari» ci dimostra oggi che la vera sostenibilità è nel modo di
pensare e di vivere insieme, con una forma attiva di consapevolezza critica che ci
potrebbe rendere finalmente attori di un processo di trasformazione che è l’ultima
chiamata per recuperare il pianeta in cui viviamo.
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INFORMAZIONE
del 23/02/15, pag. 5
Rai, legge a marzo. E il governo non esclude
un decreto
Il presidente del Consiglio: non faremo eleggere il nuovo cda con la
Gasparri. Proteste dal centrodestra
ROMA Casomai fosse rimasto un dubbio. «Il nostro obiettivo è di non far eleggere il nuovo
consiglio di amministrazione della Rai con una legge chiamata Gasparri», ha detto ieri il
premier Matteo Renzi in due momenti ravvicinati (al summit sulla scuola e a In ½ h da
Lucia Annunziata), confermando che il governo ha fretta. Infatti si parte a marzo: «Se ci
sono i tempi in Parlamento faremo un disegno di legge, se invece ci sono le condizioni di
urgenza e necessità procederemo con un decreto legge, come prescrive la Costituzione».
E con il board di viale Mazzini in scadenza ad aprile si dovrà agire entro l’estate.
Istantanea, intanto, è scattata la reazione furiosa del centrodestra. Scatenato su Twitter il
vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri che si vendica: «Matteo Renzi è un vero
imbecille, figlio di massone, di una abissale ignoranza, privo di basi culturali, solo
chiacchiere, distintivo e insider trading. Ma finché la Rai resta pubblica il dittatorello
fiorentino dovrà rinunciare ai sogni di vana gloria». Il padre del premier, Tiziano Renzi,
annuncia querela.
Indignato Renato Brunetta: «La Gasparri ha innovato e migliorato la tv in Italia, Renzi è
uno spudorato, il solito battutista, dimostra la sua ignoranza e la pochezza di contenuti».
Stringata Alessandra Mussolini: «Renzi è solo un poveraccio». Il vicepresidente della
Vigilanza, Giorgio Lainati, si duole per «la caduta di stile del premier con una battuta poco
elegante e mal riuscita», mentre Giovanni Toti ricorda che «la legge Gasparri ha
modernizzato il sistema radiotelevisivo, cosa che la sinistra non è mai riuscita a fare».
Paolo Romani rivendica la bontà della Gasparri: «Se oggi la Rai è una industria culturale è
merito suo». Un altro senatore forzista, Franco Cardiello, chiede: «Ma Renzi chi crede di
essere? Nemmeno un bullo come lui può ignorare la Costituzione».
Il piglio di Renzi non va giù n ai 5 Stelle: «Se il servizio pubblico non può essere
disciplinato da una legge che si chiama Gasparri, non può esserlo nemmeno da un
decreto che si chiama Renzi, la riforma la fa il Parlamento». Secondo Michele Anzaldi, Pd,
segretario della Vigilanza, «i tempi per intervenire in via parlamentare ci sono, per quanto
stretti», perciò invita i presidenti di Camera e Senato «ad aprire una corsia preferenziale».
L’indignazione del centrodestra, sostiene Lorenza Bonaccorsi, responsabile Cultura Pd, è
solo per «continuare a spartirsi i posti».
Giovanna Cavalli
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 23/02/2015, pag. 9
Sessantamila docenti per le materie in più
asilo unico da 0 a 6 anni al posto dei nidi
CORRADO ZUNINO
La domenica della festa di governo, con il fisiologico sovrappiù di propaganda, è servita
agli orchestratori della Buona scuola — il ministro Stefania Giannini, che per rompere
l’accerchiamento del Partito democratico ha aderito al Pd, il sottosegretario Davide
Faraone, che sta portando sul testo del decreto legge la voce di Renzi e un po’ quella
degli studenti, la responsabile scuola Francesca Puglisi che coordina tutto ricordandosi
che il partito trova tanti voti nel bacino degli insegnanti — per fare il punto su una bozza
ancora lunga e non definita in ogni articolo. Sarà portata a misura nei cinque giorni che
mancano al Consiglio dei ministri di venerdì.
LE ASSUNZIONI E L’ANNO DI PROVA
La stabilizzazione dei 148 mila precari di lunga data resta il cuore e lo snodo del decreto.
Dice il premier Matteo Renzi: «Non assumiamo solo per dare serenità ai supplenti,
assumiamo perché far vivere gli insegnanti tra l’incubo degli spezzoni, le chiamate ad
agosto, le rinunce concordate, alla fine danneggia gli studenti». C’è una scelta di
prospettiva, intende, non una stabilizzazione “a pioggia”. Ma le stratificazioni ventennali
delle graduatorie (a esaurimento, d’istituto, di merito, sette fasce oggi esistenti) hanno
lasciato incrostazioni difficili da sciogliere senza aprire un nuovo fronte di ricorsi ai Tar. I
precari saranno presi e stabilizzati da tutte e tre le graduatorie esistenti: Gae provinciali a
esaurimento (120 mila docenti, si calcola), quindi seconda e terza fascia d’istituto.
Entreranno poi i 1.793 che, secondo il ministero dell’Istruzione, hanno fatto 36 mesi di
supplenze annuali su un posto vacante (i sindacati sostengono che sono decine di
migliaia). Poco più di diecimila docenti arriveranno dalle gra- duatorie di merito: sono i
“vincitori residuali” del concorso 2012. In questa settimana si dovrà decidere come coprire,
infine, i 19 mila posti — Matematica e Fisica, alle medie e alle superiori — ancora vacanti.
Tre le ipotesi per quest’ultimo stock di assunzioni: criterio di anzianità di servizio, un anno
ponte da convertire in assunzione a tempo indeterminato, un concorsino ad hoc.
L’AUMENTO DEL TEMPO PIENO
Il testo, in diversi punti, è già a un buon grado di raffinazione. Dei 148 mila assunti in ruolo
per il prossimo settembre, 88 mila saranno ex supplenti (in graduatoria) che andranno a
coprire i ruoli vacanti. I restanti 60 mila andranno a sviluppare le “nuove materie” e
amplieranno il tempo pieno nel primo ciclo garantendo 2-3 ore di doppio maestro
compresente. Consentiranno poi l’avvio della “flessibilità del curriculum”, ovvero la
possibilità per uno studente delle superiori di costruirsi un piano di studi proprio su un
ventaglio di discipline offerte dalla scuola. Per tutti i docenti sarà necessario un anno di
prova, durante il quale l’insegnante sarà valutato da un tutor, dal Consiglio d’istituto
preside in testa e anche dagli studenti. Dal 2016 gli aspiranti docenti delle scuole italiane
prenderanno una cattedra solo per concorso.
I PROGRAMMI RAFFORZATI
Nel decreto legge ci sarà la reintroduzione di un’ora di Economia e di Diritto in terza e
quarta superiore, licei e istituti tecnici. Si chiamerà “Competenze di cittadinanza”, versione
ristrutturata di educazione civica. Storia dell’arte sarà estesa con un’ora aggiuntiva nei
cinque anni di liceo, nei tecnici e professionali potrebbe essere inserita in modo facoltativo.
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È in fieri — insieme a una più ampia riforma dell’alta formazione musicale — l’introduzione
di due ore a settimana di educazione alla musica nelle classi IV e V della scuola primaria.
Quindi, un’ora di educazione fisica per tutti dalla seconda alla quinta elementare: in molte
scuole già si fa.
Ci sarà una crescita dell’informatica e del coding, il codice informatico che crea le basi per
il pensiero algoritmico: nei prossimi tre anni in ogni aula delle primarie gli alunni dovranno
imparare a risolvere problemi complessi applicando paradigmi informatici. “La buona
scuola” prevede già dalle primarie lo studio di una materia in inglese con il metodo Clil: si
parla in lingua dall’inizio alla fine della lezione. Per integrare i figli degli immigrati si varerà
“Italiano 2”, nuova classe di concorso per l’insegnamento del nostro idioma come seconda
lingua (questa parte finirà nella legge delega). L’alternanza scuola-lavoro prevede che
nell’ultimo triennio gli studenti degli istituti tecnici e professionali vivranno 200 ore in
un’azienda. La riforma del sostegno coinvolgerà 230 mila alunni disabili e chiederà una
maggiore preparazione, anche medica, ai docenti. Sarà integrata la riforma dell’infanzia:
nessuna divisione tra nido e asilo, un unico percorso educativo da 0 a 6 anni sotto l’egida
e la responsabilità del ministero dell’Istruzione. Il nido non sarà più un servizio a domanda
individuale, ma generale. Lo Stato vuole investire soldi propri sull’apertura di nuove classi
per la scuola dell’infanzia.
L’AUTONOMIA E GLI SCATTI DI MERITO
La senatrice Francesca Puglisi dice che la novità di sostanza, alla fine, sarà l’applicazione
di un’autonomia scolastica varata da tempo e mai vista: consentirà «di rivoluzionare i
programmi, gli orari, la didattica». L’organico funzionale porterà a ogni istituto tra i due e i
cinque insegnanti in più. Sarà abolita la figura del preside vicario. Saranno inaugurati,
invece, gli scatti di merito: 60 euro netti ogni tre anni, dicono le simulazioni. Sopravvivono,
ridimensionati, gli scatti d’anzianità. Nessun tetto massimo di docenti da premiare,
piuttosto un tetto finanziario. I professori saranno valutati ogni anno, anche dagli studenti,
attraverso un questionario.
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 23/02/2015, pag. 46
Ciao Luca
Con Ronconi il teatro era una festa fuori dai
riti e dalle convenzioni
CURZIO MALTESE
CONOSCEVO Luca Ronconi da regista fin dall’adolescenza e poi da giornalista l’avevo
intervistato qualche volta, ma siamo diventati amici una sera a Milano, quando mi ha
sorpreso mentre uscivo a metà di un suo spettacolo per andare a mangiare una pizza.
Non feci in tempo a trovare una scusa che lui: «Ottima idea, ci vediamo dopo, se torni».
Tornai. Era uno spettacolo stupendo, il Pasticciaccio da Gadda, ma lungo sei ore. L’avrò
visto dieci volte, sempre con una pausa diversa. Del resto, chi legge di un fiato la
Recherche di Proust o l’ Ulisse di Joyce o anche Guerra e Pace? Il teatro di Luca Ronconi
è stato una festa per cinquant’anni, e come nelle feste si poteva uscire e rientrare, godersi
la meraviglia per ore e poi annoiarsi, appassionarsi ancora, cambiare il destino con un
incontro, insomma vivere.
È stato un privilegio unico, per i milanesi di una certa generazione, vedere due rivoluzioni
teatrali, prima con Giorgio Strehler e poi con Luca Ronconi, due geni che hanno
trasformato il Piccolo nella vera anima della città. Ronconi è forse il più grande regista del
teatro italiano, uno dei maggiori del Novecento europeo, che ha segnato con una serie di
capolavori, dall’ Orlando Furioso agli Ultimi giorni dell’umanità da Karl Kraus, dalle Tre
Sorelle di Cechov al Pasticciaccio a Lolita di Nabokov. Ma è difficile anche considerare
come minori spettacoli come il Professor Bernhardi , probabilmente la miglior
rappresentazione di un testo di Schnitzler mai fatta in Italia. Oppure Il silenzio dei
comunisti , dal carteggio fra Miriam Mafai, Vittorio Foa e Alfredo Reichlin realizzato per il
Progetto Domani a Torino, di cui si ricorda una messa in scena indimenticabile nell’hangar
industriale di Sesto San Giovanni, fra vecchi operai commossi.
Ennio Flaiano scrisse una volta che i film di Rossellini andavano oltre il cinema, e così si
potrebbe dire per il teatro di Ronconi. A volte alla lettera. Coltissimo, ironico e insofferente
alle convenzioni, Ronconi ha spesso portato il teatro fuori dal rito, nelle piazze, nelle
fabbriche dismesse, nei capannoni, costruendo complesse e sbalorditive macchine
teatrali. Ma il fine del suo teatro non era la meraviglia, piuttosto l’intelligenza del testo,
esercizio nel quale non aveva rivali. Chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue prove può
capire. È stato il maestro di tre generazioni di grandi attori, da Mariangela Melato e Ottavia
Piccolo a Galatea Ranzi e Massimo Popolizio e Fabrizio Gifuni, eppure nessuno riusciva a
dire le battute altrettanto bene come lui. Ho seguito i suoi seminari a Santa Cristina, il
rifugio creativo fondato con Roberta Carlotto, nel cuore dell’Umbria. Il luogo dove forse era
più felice, dove poteva sfogare la furiosa passione per il teatro in interminabili prove con
compagnie di attori appena usciti dall’accademia, cavando come da un cilindro magico
intuizioni folgoranti su ogni singola pagina. Quando si è saputo che ave- va dovuto
annullare il seminario estivo, sapendo quanto amasse quel lavoro, gli amici hanno
cominciato a preoccuparsi. Ma lo si era visto risollevarsi tante volte dalla malattia e
riprendere a fare lo stakanovista. Anche stavolta era tornato con una nuova passione, il
bel testo di Stefano Massini sui fratelli Lehman, monumentale storia dell’ideologia
finanziaria. Quest’estate in una Milano deserta me ne aveva parlato per ore. «È un po’
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lungo, ma tanto tu hai la pausa ristorante » ha scherzato. Poi ha aggiunto: «Ma sbrigati,
perché forse non mi trovi».
Del 23/02/2015, pag. 1-25
LA SCOMPARSA DEL REGISTA
L’irresistibile fatica di Ronconi così il teatro
diventava poesia
MELANIA MAZZUCCO
IL TEATRO è fatto di voci nello spazio, di corpi nel tempo, di odori, silenzi, luci, rumori.
Cose passeggere, friabili, effimere. Per questo è così difficile provare a raccontare, a chi
non ha mai assistito a uno spettacolo del maestro Ronconi, cosa davvero ha perso: potrà
vedere le registrazioni in video e nello schermo, ma l’immagine non potrà mai restituirgli la
fatica fisica di coloro che l’hanno creato.
E DI coloro che vi hanno assistito. Se penso a Ronconi, mi assale il ricordo dello spazio
(officine chiese in disuso, scenografie di legno, cartapesta o vetro, come la serra nella
quale a Spoleto soffocavano gli Spettri di Ibsen e gli spettatori nell’estate del 1982). Poi
quello del tempo. Perché i suoi spettacoli dilatavano le ore. Negli anni ‘80, il teatro era
concepito come una dura maratona: registi come Brook, Stein, Wilson, Mnouchkine e,
appunto, Ronconi, allestivano spettacoli nei quali lo spettatore abitava anche giorni interi.
Poi delle parole: con le quali ingaggiava duelli ariosteschi. I testi — fossero classici come
Euripide, Racine e Goldoni, moderni come Hoffmanstahl e Bernanos, o contemporanei
come Baricco e Barrow, fossero scritti per la scena, oppure per le pagine dei romanzi
(Gadda, Dostoevskij, Nabokov) — venivano dissezionati e insieme rispettati con
accanimento. E una folla di attori e attrici, chiamati a prove ardue: Annamaria Guarnieri
nella Fedra e nella Serva amorosa, Marisa Fabbri nelle Baccanti, Ignorabimus, Dialoghi
delle Carmelitane, Mariangela Melato nell’ Affare Makropulos… E però, fra tanti, mi piace
ricordare uno spettacolo che ho visto al teatro Argentina di Roma nel 1984: Le due
commedie in commedia. L’autore del testo era G. B. Andreini, geniale attore, impresario e
drammaturgo del ‘600. Nel foltissimo cast si misero in luce Luca Zingaretti e Massimo
Popolizio, destinati a un grande avvenire: Luca Ronconi è stato anche un formidabile
maestro di giovani. La commedia si svolgeva a Venezia. L’inizio dimostrava come una
macchina teatrale possa farsi poesia: una barca scivolava sul palcoscenico. Dalla barca
scendevano i comici. Ecco, il teatro è tutto qui. Non c’è acqua, eppure in platea vediamo la
laguna di Venezia. L’intricatissima trama della commedia non è riassumibile: dirò che era
l’apoteosi del teatro nel teatro. Ronconi trasformò quella vertiginosa commedia barocca —
in cui il gioco degli specchi tra realtà e illusione teatrale, tra verità e finzione scatenava
rifrazioni senza fine — in un omaggio al potere del teatro e insieme un congedo dalla sua
magia. Nonostante lo scatenato plurilinguismo del testo, gli equivoci e i travestimenti, il
ritmo era riluttante, la recitazione cerebrale, il tono distaccato, quasi lugubre. Nel finale (mi
pare), gli attori si radunavano in un angolo del palcoscenico. Sembravano sul punto di
salpare, o di andarsene, portandosi via un’idea antica e nobile di teatro — gioco,
riflessione sull’identità, sulla verità e sulla menzogna, sempre esperienza. Un teatro
agonista e antagonista rispetto al mondo, che fosse sfida all’intelletto dello spettatore e
alla sua resistenza. Mi piace pensare che quella barca sia venuta a prendersi il
capocomico e scivolando sull’acqua che non c’è lo abbia portato dove quel teatro di
oltranza — fatto di parole, meditativa lentezza, durata infinita — può ancora esistere.
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del 23/02/15, pag. 33
Fatta l’Italia era già fatto l’italiano
Luca Serianni mostra come anche nei secoli passati, pur senza essere
andati a scuola, grazie soprattutto alla Chiesa molti abitanti della
Penisola erano italofoni: l’unità linguistica e culturale ha preceduto
quella politica
Mirella Serri
È arrivato il sorpasso. Dialetto, addio. Dal 2012 la quota di coloro che dichiarano di parlare
abitualmente l’italiano in famiglia è salita al 53,1% e la percentuale di quelli che lo usano
fuori delle pareti domestiche arriva all’84,8%. Non basta: tra i giovani dai 18 ai 24 anni, il
60,7% utilizza la lingua italiana per comunicare con parenti e affini mentre il 90,9% dialoga
con il vocabolario di Foscolo e Manzoni a scuola, in discoteca e fuori casa.
Il merito di tutto ciò? Delle grandi trasformazioni mediatiche, della diffusione di giornali,
radio e tv? Non c’è dubbio, ma c’è ben altro: il gran maestro della linguistica Luca
Serianni, in un dotto libretto, Prima lezione di storia della lingua italiana (in uscita da
Laterza, pp. 190, € 13), capovolge molti schemi acquisiti. Nel ’900 si è sviluppato, sostiene
il professore, un nuovo idioma, una lingua super-regionale che ha intaccato e poi ha
messo ko i dialetti. Ma l’utilizzo dell’italiano parlato, osserva lo studioso, viene da molto
lontano ed è stato più forte e stabile di quanto non si pensi.
Nell’Italia, per secoli frammentata culturalmente e politicamente, sono stati proprio gli
intellettuali ad attivare la formazione di una lingua in grado di superare tutte le divisioni
regionali. Il lavorìo degli «operai dell’intelligenza», a cominciare da Dante, Petrarca e
Boccaccio che hanno gettato le fondamenta proprio di lessico e sintassi con cui ci
esprimiamo attualmente, ha coinvolto e contaminato in un lungo viaggio anche i ceti meno
acculturati.
Un autodidatta del ’500
Come dialogava, come comunicava, per esempio, al processo a cui lo sottopose nel ’500
l’Inquisizione, il friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, il mugnaio, a cui ha
dedicato anni fa una bellissima monografia lo storico Carlo Ginzburg? Autodidatta, aveva
appreso l’italiano dai libri d’avventura e dai testi religiosi: opere che aveva avuto in prestito
dalla sua piccola comunità di cui facevano parte lettori e persino lettrici.
Ma la vittima del tribunale ecclesiastico che impara a parlare sui testi degli scrittori non è
l’unico esponente di una classe subalterna che supera le barriere del dialetto: la povera
Bellezze Ursini, è un altro esempio, fu accusata di stregoneria nel 1527. Si difendeva
disperatamente (si darà la morte, tagliandosi la gola con un chiodo) davanti ai giudici con
un fraseggio incerto, abborracciato ma non con espressioni e modi di dire provenienti dalla
natìa Sabina.
Anche senza essere mai andati a scuola, gli abitanti della Penisola erano italofoni. A volte
esibendosi in un’esposizione pasticciata, approssimativa, che lo scrittore Tommaso
Landolfi ha chiamato, con una definizione poi ripresa dagli studiosi, «l’italiano pidocchiale»
dei miserabili e degli emarginati.
Come si diffonde questa oratoria che coinvolge le classi più umili? Tra gli «emittenti
linguistici» c’è la Chiesa: con l’insegnamento del catechismo e con la rete d’istruzione, i
religiosi diventano i solerti maestri di italiano dei più poveri. Per almeno tre secoli, dal XVI
al XVIII, l’idioma di Dante ha un po’ il ruolo che ha oggi l’inglese, è usato nella diplomazia
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internazionale, domina nell’area mediterranea e nell’Europa orientale, è il mezzo con cui si
trattano acquisti e vendite e con cui ci si difende da truffe e raggiri. Si diffonde così anche
tra funzionari e varia manovalanza. Ma lo impiegano persino i giovani patrizi greci che
frequentano le università italiane come Padova e poi riportano in patria il fraseggio appena
imparato.
I dialetti, insomma, ancorché presenti nella comunicazione soprattutto dei ceti meno
abbienti, non hanno avuto il ruolo dominante che è stato loro attribuito. E ora? Abbiamo
davvero raggiunto un parlato comune? Oppure dobbiamo considerare le differenziazioni,
ancora presenti nel lessico quotidiano, spie di localismi e di campanilismi linguistici duri a
morire? Come dobbiamo chiamare, per esempio, i lacci per le scarpe? Vi è una pletora di
definizioni che va da stringhe, ad aghetti e legacci come a Firenze, legacci e cordoni come
a Modena, fino all’assai particolare córdoni.
Il nome dell’attaccapanni
E per indicare quelli che perlopiù si chiamano attaccapanni? Anche in questo caso siamo
di fronte a una scelta difficile che ci pone di fronte a grucce, ometti, appendini, stampelle,
crocette. «Ne dovremmo dedurre», si domanda Serianni, «che l’italiano non esiste
nemmeno oggi, rinunciando a uno dei pochi fattori unificanti (insieme al cibo e allo sport)
che sembra tenere insieme il nostro Paese?». Ma sono solo episodi marginali, osserva lo
storico della lingua. Di fronte alle ricorrenti tentazioni di separatismi, di autonomie e
all’affermazione di individualismi vari, possiamo ricordare che l’unità linguistica e culturale
è sempre esistita. E ha anticipato l’unificazione politica grazie anche a una tradizione
letteraria colta. È il caso di dire che l’omologazione raggiunta è stata creata a tavolino,
ovvero da coloro che la lingua non solo la parlavano ma pure la scrivevano.
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ECONOMIA E LAVORO
del 23/02/15, pag. 15
Pagelle Ue anticipate per Francia e Italia
Venerdì il supplemento d’esame alla manovra. Il nodo del debito.
Padoan: avanti sulla cessione di Poste e Fs Con i nuovi margini europei
Roma (con Parigi) rischia meno, ma la Commissione valuta nuovi rilievi
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES L’appuntamento è per il giorno dello
stipendio, venerdì 27. E in questo caso, lo stipendio dell’Italia sarà il giudizio della
Commissione Ue sul piano di Stabilità e crescita del governo Renzi. Era stato rimandato
da ottobre, prima a marzo e poi appunto a fine febbraio. Ed ora l’«udienza» è finalmente
fissata, come quelle che riguardano Francia e Belgio. Tre Paesi che in un modo o nell’altro
violano le regole del patto di Stabilità: non sono certo ridotti come la Grecia, ma possono
rischiare una procedura di infrazione, cioè in media centinaia di milioni di multa. L’Italia
dovrebbe cavarsela con un’assoluzione o al peggio con un’assoluzione a metà per
insufficienza di prove, secondo le assicurazioni ufficiose ricevute da Bruxelles negli ultimi
mesi e anche negli ultimissimi giorni. Per la Francia, il problema principale è un deficit che
sfiora il 5% del Pil, ben oltre quel tetto massimo del 3% fissato dall’Ue. Per noi è invece il
debito pubblico, 2.134,9 miliardi o il 131,6% del Pil, il secondo debito europeo dopo quello
della Grecia, la ragione che ha spinto il Washington Post , l’altro giorno, a definirci una
«bomba ad orologeria», «il vero problema del continente». Non solo: «Da quando è stato
creato l’euro, 16 anni fa, l’Italia è cresciuta solo del 4%», facendo «peggio della Grecia…
Cosa è andato storto? Praticamente tutto. Hanno problemi di offerta e di domanda, la
prima parte significa che è troppo difficile avviare un’impresa, troppo difficile ampliarla e
troppo difficile licenziare le persone. E questo rende le economie sclerotiche anche in
tempi buoni, spacciati per tempi difficili».
Il «Post» non è certo la voce del re Salomone, e vede le cose da una prospettiva atlantica
che comprende una crescita sempre più forte e sicura. Ma la realtà di oggi, per Roma, ha
davvero dei lati inquietanti: mentre per il deficit possiamo stare relativamente tranquilli, la
Commissione ha lasciato trapelare che proprio il debito pubblico potrebbe essere la
trappola di venerdì prossimo. Quello, e le riforme ancora in via di completamento: Fisco,
privatizzazioni, mercato del lavoro. Esiste da tempo una “road map” delle cose da fare.
L’ha ricordato ieri il ministro dell’Economia Per Carlo Padoan, in un’intervista a «Italy 24»:
«L’Italia ha fatto molto più di altri Paesi per ritirare progressivamente la presenza dello
Stato dai settori dell’economia dove il mercato può essere più efficiente». Ora, tocca a
Poste e Ferrovie, «settori che possono essere aperti alla concorrenza con l’obiettivo di
creare più efficienza»: e quindi «nel 2015 apriremo ai privati il capitale di queste società».
Ma «senza svendere». Quanto alla riforma del Fisco, «è molto ampia, una vera e propria
operazione di manutenzione straordinaria», e sarà varata a maggio.
Luigi Offeddu
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