«STRUMENTI PROFESSIONALI»
Dello stesso autore
BUSINESS WRITING
A cura di
Alessandro Lucchini
LA MAGIA
DELLA SCRITTURA
Con un’intervista a John Grinder
LA MAGIA DELLA SCRITTURA
Proprietà Letteraria Riservata
© 2005 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
ISBN 88-200-3927-3
15-I-05
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia per la gentile concessione a riprodurre il seguente materiale:
figura «Oltre l’emancipatio», p. 279: prof. Dario Mantovani, docente di Istituzioni di Diritto Romano,
Università degli Studi di Pavia; grafico «Indicatori EVM», p. 280: prof. Flavio Ferlini, direttore del
Centro di Calcolo dell’Università degli Studi di Pavia; pagine di diario, p. 286: prof. Celestino Colucci, docente di Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale, Università degli Studi di Pavia; esempi di
grafia, pp. 336-337: prof. Pacifico Cristofanelli; Fortunato Depero, Festa della sedia, p. 343: Museo di
Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Fortunato Depero, Libro imbullonato, p. 344:
eredi Depero; Fortunato Depero, Il semaforo ideale, p. 345: Collezione Campari.
La Sperling & Kupfer Editori S.p.A. potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una
porzione non superiore a un quindicesimo del presente volume. Le richieste vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2,
20121 Milano, tel. e fax 02809506.
Indice
Come un bambino di un anno. Intervista a John Grinder
di Alessandro Lucchini
Introduzione
di Alessandro Lucchini
IX
XV
PARTE PRIMA
I modelli
di Marzia Andreoni,
Consuelo Casula, Francesca Gagliardi,
Alessandro Lucchini e Annalisa Pardini
1.
I sistemi rappresentazionali
3
2.
Il rapport
9
3.
Il metamodello. Schemi di precisione linguistica
13
4.
Il Milton model. L’anti-metamodello
27
5.
Altri propulsori di efficacia
43
6.
E... tutto ciò non ricorda qualcosa? Retorica e modelli neurolinguistici
di Marzia Andreoni
67
7.
Un nuovo terreno di ricerca. Conversazione con Claudio Belotti
di Alessandro Lucchini
71
PARTE SECONDA
Le applicazioni
ADVERTISING. Dallo spot al dialogo
di Paolo Iabichino
81
In campo! di Maria Vittoria Re 87
BUROCRAZIA.
Il linguaggio di difesa del posto a sedere
di Pierluigi Voi
Parole che creano fiducia
di Mafe De Baggis
91
CUSTOMER CARE.
Dialogo tra scienza, giornalismo
e persuasione di Emiliano Ricci
97
DIVULGAZIONE SCIENTIFICA.
Scrivere o parlare?
di Alessandro Lucchini
103
E-MAIL.
113
Analisi del testo con il metodo CRG di Maristella Addante 121; SMS:
cause o effetti? di Elisa Marconato 125; Chat: simmetria o complementarietà? di Elisa Marconato 126
FORMAZIONE.
La scrittura per l’apprendere
di Pier Sergio Caltabiano e Stefania Panini
129
Un modello di apprendimento emotivo di Pier Sergio Caltabiano 134
L’uso della metafora nella formazione di Consuelo Casula
Dalla notizia al film
di Mario R. Conti
135
GIORNALISMO.
Scriversi, annunciare, negoziare
di Fiorella Zaggia
Ambiguità fatali di Giampaolo Pecorari
Valutazione della prestazione. Strutture superficiali
e strutture profonde a confronto di Carlo Bosso
143
HUMAN RESOURCES.
La magia della rete
di Silvia Frattini
153
160
163
INTERNEt.
167
Eye-tracking: pensare con gli occhi. Intervista a Leandro Agrò di Silvia
Frattini 173
Case study: tre siti «neurolinguistici» di Alessio Albano,
Monia Brizi, Sabina Del Monego, Remigio Guadagnini,
Marco Lucchetta, Ezio Maisto, Florio Panaiotti,
Simone Ramaccini e Roberto Sanna
Buona Lombardia: parole da vedere, da ascoltare, da gustare di Rosella
Gaudiuso 178
174
JE T’AIME.
Le lettere d’amore
di Mariella Minna
181
Scrivimi, amore! Intervista a Marina Modiano di Mariella Minna 185
KINEMA.
Neurolinguistica sul grande schermo:
il caso di «Il negoziatore» di Francesca Gagliardi
187
LETTERATURA. Corpo, mente e linguaggio nel mestiere dello scrittore
di Stefania Zenato
Sole, cuore, amore. Il linguaggio degli affetti nei poeti dilettanti
di Lorenzo Carpanè
195
203
MARKETING.
Quante storie!
di Luisa Carrada
207
& CO. Parole che creano luoghi
di Mafe De Baggis
219
NEWSGROUP
ORGANIZZAZIONE.
L’idea con le persone intorno
di Paolo Carmassi
Europee 2004: un esempio di scomunicazione
di Claudio Maffei
229
POLITICA.
Il diario: come la scrittura crea il mondo
di Nilda Tempini
237
QUOTIDIE.
Informazione e linguaggi dell’etere
di Tiziana Valtolina
245
RADIO E TV.
Quando la scrittura prende anima e corpo
di Paola Perna
249
SPEECH WRITING.
Istruzioni per l’uso
di Fabrizio Comolli
257
TECHNICAL WRITING.
267
Da technical writing a technical communication di Vilma Zamboli 275;
Il technical writer in azienda di Giovanna Chiozzi 276
UNIVERSITÀ. Alma
mater! La scrittura fra toghe e matricole
di Elena Caldirola
Come creare il momento magico
di Claudio Maffei
277
VENDERE.
287
Buon compleanno! di Maria Vittoria Re 294; Evasione con alibi di
Maria Vittoria Re 295; Mettetevelo nella zucca! di Chiara Zuccalà
297
WORLD WIDE WRITING.
Quando la scrittura è globale
di Davide Alemani
301
X GENERATION.
Polivalenza che suscita emozioni
di Chiara Fornari
Tu, voi e gli altri
di Alessandro Lucchini
307
YOU.
311
ZITTI TUTTI!
E il silenzio vi parlerà
di Francesca Gagliardi
Valore della parola e del silenzio di Ugo Canonici
317
322
APPENDICI
1.
2.
3.
4.
Corpo, mente e linguaggio nel mestiere del comico
di Stefania Zenato
327
Dimmi come scrivi... Grafologia: dalla scrittura alla personalità
di Pacifico Cristofanelli
333
La parte dell’occhio
di Mara Lombardi
339
Mnemotecnica. Ginnastica per ricordare
di Sergio Borra
347
Memoria e scrittura: alternative o alleate? Intervista a Sergio Borra
di Paola Perna e Alessandro Lucchini 350
Gli autori
353
Bibliografia
365
Indice dei modelli neurolinguistici
373
Come un bambino di un anno
Intervista a John Grinder,
fondatore della PNL
di Alessandro Lucchini
Modeling, calibrazione, ricalco, rapport, guida, dialogo interno, strutture decisionali, ancore. I fondamenti della PNL applicati alla comunicazione scritta.
JOHN Grinder è uno tra i maggiori pensatori del nostro tempo. Insieme con
Richard Bandler ha fondato la programmazione neurolinguistica (PNL).1 In
occasione di un seminario, nel dicembre 2004, ho potuto incontrare Grinder
e porgli alcune domande.
Qual è la tua opinione sull’uso dei modelli neurolinguistici nella scrittura?
L’ambito privilegiato della neurolinguistica è la comunicazione interpersonale. È qui che si sono concentrati finora gli studi. La scrittura è
un’applicazione ancora poco studiata, e per questo ben più interessante.
Penso subito alla pubblicità: slogan, annunci, testi informativi e promozionali. Per rendere il testo interessante per il maggior numero di lettori devi
usare tutti i sistemi rappresentazionali. Presenta il messaggio in termini visivi, auditivi e cenestesici, con sostantivi, verbi, aggettivi e avverbi appartenenti a ciascun sistema: desterai attenzione in tutti i lettori, qualunque
sia il loro sistema rappresentazionale dominante, e sarà più facile creare il
rapport.
Eccoci al punto: come posso entrare in rapport, scrivendo, con una serie
di persone che magari neanche conosco?
Tutti gli scrittori hanno l’esigenza di farsi leggere e capire da ampie
fasce di pubblico, che magari neanche conoscono. La creazione del rapport
è fondamentale. Qualunque cosa tu stia scrivendo, puoi cominciare a ricalcare il dialogo interno del tuo lettore: prevedere quali domande egli si porrà
quando inizierà a leggerti. Anzitutto, puoi strutturare le tue affermazioni in
modo da suscitare in lui sorpresa e interesse. A quel punto inserisci una
piccola pausa, uno spazio, per dargli il tempo di formularle bene, queste
IX
domande: «Che cosa mi vuol dire? Com’è possibile? A cosa mi serve?». Tu
conosci la risposta: mettila nel testo, nell’esatto momento in cui sai che il
lettore si è posto la domanda. Ed è rapport.
Questo vale per la comunicazione uno-a-molti. Che cosa cambia nell’uno-a-uno, per esempio in lettere, proposte ecc.?
Anche nell’uno-a-uno è molto vantaggioso conoscere qual è il sistema
rappresentazionale dominante del tuo lettore, qual è la sua strategia decisionale preferita, quale il modo in cui prende una decisione. Se sai che la sua
strategia decisionale parte dal visivo e si conclude nel cenestesico, puoi
scrivergli: «Vorrei che lei desse uno sguardo alle nostre proposte, e che poi
focalizzasse quella che ritiene più brillante, quella che riflette più chiaramente le sue esigenze. Quando avrà esaminato ogni dettaglio, potrà sentire
di avere in pugno la soluzione per spingere la sua azienda oltre le attuali posizioni». È un ricalco molto potente.
Anche un po’ manipolatorio?
Anche un po’ manipolatorio, certo. Credo che tutta la comunicazione sia
manipolazione. Si tratta sempre di conciliare il tuo concetto di etica con il
raggiungimento dei risultati che ti sei prefisso. Un esempio. Hai un capo, o
un cliente, al quale devi presentare tre progetti. Tu vorresti che ne scegliesse
uno. Sei un professionista, e hai un solido senso dell’etica: presenti tutti e
tre i progetti con la stessa completezza d’informazione e di dettaglio. Nel
tuo preferito metti qualcosa in più: organizzi le informazioni nella sequenza
che sai lui userà per processarle. Tutto qui: il ricalco contiene già la guida. Il
risultato è sicuro.
Parliamo di e-mail: che spazio di applicazione vedi per gli schemi neurolinguistici?
Oh, l’e-mail… strumento molto pericoloso. Pericoloso, perché non offre
informazioni, o ne offre poche, di tipo relazionale. A volte, l’acutezza del
tuo pensiero può compromettere la relazione con il tuo lettore, a causa di
una banale incomprensione. Questo non perché tu gli abbia mancato di rispetto, ma perché nella scrittura non avevi a disposizione i segnali non verbali che caratterizzano la comunicazione interpersonale: un sorriso, un abbassamento di volume, una mano sulla spalla. Quelli gli avrebbero fatto
sentire che tu lo rispetti e che gli stavi proponendo la cosa più vantaggiosa
per entrambi. Per questo nelle e-mail diventa un’assoluta necessità usare il
framing: devi «incorniciare» le tue intenzioni, annunciare quello che stai
per fare prima di scrivere, così da stringere un patto con il lettore, un ambito
di condivisione prima di esporre la tua idea.
X
Puoi fare qualche esempio?
«Il mio proposito nei prossimi paragrafi è farti conoscere il mio pensiero
sulla proposta che mi hai mandato.» Oppure: «La mia intenzione è mettere
a punto la proposta fino a che entrambi possiamo condividerla». Prima annunci ciò che vuoi fare, poi lo fai. Primo passo, dunque: creare la cornice.
Questo accende una lampadina nella mente del lettore e gli fa capire che
può condividere la tua proposta. «Questo è ciò che ti propongo di fare insieme», poi via con la proposta. Così sei al sicuro. Se invece parti subito con la
proposta, senza averla preparata, il rischio è che il lettore non sappia come
applicarla alla propria situazione, non riesca a creare le ancore adatte a
stringere la sua relazione intorno a te.
A proposito di ancore: poiché ci sono ancore positive e negative, come si
possono attivare quelle giuste nella scrittura?
Ecco, questo è un ambito in cui la scrittura può invece agevolare la relazione interpersonale. Pensa alle cattive notizie. Per esempio: è venerdì sera,
se ne sono andati tutti, in azienda siamo rimasti solo il capo e io, ché voglio
finire una cosa prima di staccare. Squilla il telefono. Che faccio? Lascio
squillare? Non rispondo? No: rispondo. È il nostro maggior cliente. Mi dice
che a seguito di una razionalizzazione degli acquisti deve annullare il contratto con tutte le commesse per il prossimo anno.
Panico. Che faccio? Vado di là e lo dico al capo o gli lascio passare il
weekend in pace? No, ho una responsabilità: vado di là e glielo dico. Busso.
Avanti. Entro con la faccia mesta e balbetto: «Ha telefonato il nostro cliente.
A seguito di una razionalizzazione degli acquisti deve annullare il contratto
con tutte le commesse per il prossimo anno». Che fa il capo?
Credo che cada nello sconforto, e vi tiri dentro anche te.
Inevitabile. A livello inconscio, àncora la mia faccia e la mia voce ai suoi
sentimenti negativi in quella disgraziata situazione. D’ora in poi potrò fare
strepitosi giochi di prestigio, ma per lui sarò sempre quel menagramo che
gli ha portato la notizia più ferale della sua carriera.
Che cosa puoi fare, invece, con la scrittura?
Posso usarla come filtro tra me e la cattiva notizia, e come chiave di ristrutturazione percettiva. Torniamo nella scena: ricevo la notizia al telefono.
Respiro. Scrivo la notizia su un foglietto. Poche parole, asciutte, senza aggettivi. A macchina, o anche a mano, ma con uno stampatello che dissocia
la notizia dalla mia persona. Busso, entro senza dire una parola, appoggio il
foglio sul tavolo e mi faccio da parte. È importante che non stia davanti a
lui: mi metto al suo fianco, meglio se un po’ dietro, e resto in piedi. Lui legXI
gerà il biglietto, e io non c’entrerò nulla. Poi alzerà gli occhi verso di me:
«Qualunque cosa io possa fare in questo momento», dirò sottovoce, «eccomi, sono qui». Ecco l’ancoraggio positivo prodotto dalla scrittura: il problema è lì sul tavolo, sotto i suoi occhi, tra le sue mani, ancorato al foglio di
carta; io sono da un’altra parte, più in alto, al suo fianco, ancorato alla collaborazione, e quindi alla soluzione del problema.
Hai parlato di «manipolazione», e vorrei farti qualche domanda più generale. Anche l’ultimo caso che hai raccontato è manipolazione. È vero, è
manipolazione l’azione di un genitore con i figli, quella di un insegnante
con gli allievi, di un allenatore con la sua squadra. Quella che tu stai facendo con me. Ma qual è il confine tra una manipolazione «buona» e una «cattiva»?
Il confine, per me, è quello che pone il mio senso dell’etica. Per il
resto, mi interessano solo i risultati. D’altra parte, su questa base è stata
fondata la PNL. Che cos’è il modeling? È l’abilità di estrarre dei modelli
dal comportamento eccellente dei geni, cogliere «le differenze che fanno
la differenza»; le differenze tra un performer o una squadra eccellente e un
performer o una squadra nella norma. È dunque il processo che sa identificare, estrarre, codificare e trasferire ad altri queste differenze, in una
forma che si possa riprodurre, e quindi insegnare ad altre persone, enti o
aziende per migliorare le loro prestazioni. Tensione ai risultati, attraverso
l’imitazione.
Una catena di ricalchi, dunque.
Proprio così, una catena di ricalchi.
In questo processo quanto pesano le conoscenze individuali? Quanto
aiutano, oppure quanto ostacolano il nuovo apprendimento?
La conoscenza ha un costo: crea dei filtri che ci fanno passare solo le
parti della nuova esperienza congruenti con il filtro stesso. Prendi un fisico,
e mettigli un pallone davanti. Avrà bisogno di pochi dati (massa, distanza
ecc.) e saprà calcolare la forza e la traiettoria da imprimere al calcio per buttare il pallone in rete. Sostituisci la palla con un cane. Che cosa potrà calcolare il fisico? Niente. I sistemi viventi hanno regole diverse dai sistemi meccanici, e i filtri cognitivi del fisico non sono adatti a studiare sistemi diversi.
Quando studiamo una persona, un’impresa o una situazione, dobbiamo sospendere i nostri filtri cognitivi, per sfuggire la gloria e la maledizione della
nostra esperienza precedente.
XII
Come faccio a sospendere i miei filtri?
Mettiti a terra di fronte a un bambino di un anno, che sta facendo le esperienze più importanti della sua vita. Ricalca tutto ciò che fa. Capirai cosa significa sospendere i tuoi filtri.
Con questo ampliamento di visuale – dalla scrittura all’etica, alla conoscenza – e con l’immagine di me davanti al bambino di un anno, si chiude
questa intervista e si apre il libro. Ormai l’àncora c’è: ogni volta che vedo
un bambino comincio mentalmente a ricalcarlo. E penso che scrivere bene
possa voler dire comunicare bene, e comunicare bene possa voler dire vivere bene. Questo è l’augurio che rivolgo a tutti i lettori.
Note
Laureato in Filosofia, negli anni della guerra fredda John Grinder si arruola nei berretti verdi e presta servizio in Europa, dove lavora per i servizi segreti. Studia linguistica, e si distingue nell’analisi della sintassi, sviluppando le teorie della grammatica trasformazionale di
Noam Chomsky. Studia poi scienza cognitiva con il suo fondatore, George Miller, e diventa
professore di Linguistica all’Università di Santa Cruz, California. Qui, nei primi anni Settanta, incontra Richard Bandler, all’epoca studente di matematica, che sta analizzando il lavoro
di alcuni «geni» della psicoterapia.
Grinder è affascinato dai modelli linguistici di terapeuti eccellenti come Fritz Perls, Virginia Satir piuttosto che Milton H. Erickson, e comincia a lavorare con Bandler, sviluppando
la ricerca della PNL. Negli anni Ottanta è consulente di grandi aziende e organizzazioni governative statunitensi, per tornare, a fine anni Novanta, a tenere corsi a livello internazionale.
Per maggiori informazioni vedi: http://www.quantum-leap.com e http://www.pnl.info
1
XIII
Introduzione
di Alessandro Lucchini
a. Cara Paola, il suo testo illustra bene le linee guida tracciate la scorsa settimana…
b. Cara Paola, il suo testo racconta bene le ragioni del nostro accordo…
c. Cara Paola, il suo testo esprime bene gli umori del momento, ma anche la
concretezza e lo spessore della nostra relazione…
Solo tre varianti di stile? Di più: tre sistemi di rappresentazione della
realtà, ai quali corrispondono tre schemi espressivi differenti: «visivo» (illustra, linee guida, tracciate), «auditivo» (racconta, accordo) e «cenestesico»
(umori, concretezza, spessore).
Mi chiedo se vogliamo rendere più efficace la nostra comunicazione. Quando
lo vorremo davvero, potremo aumentare la nostra visibilità…
Solo domande retoriche? Di più: meccanismi di potenziamento della relazione. Domande nascoste (mi chiedo se) e comandi nascosti (Quando lo
vorremo davvero, potremo aumentare) che agiscono sulla sfera inconscia
del lettore.
Stefano, mi riconosco a pieno nel titolo con cui hai presentato il problema al
nostro capo: «Rivalutazione degli incarichi relazionali».
Solo un espediente per cogliere la benevolenza del lettore? Di più: un efficace «ricalco», ossia l’esibizione di una forte identità di prospettive.
Sistemi rappresentazionali, domande e comandi nascosti, ricalco: di che
cosa si tratta? Diavolerie? Trucchi? Al contrario: modelli linguistici antichissimi, ben noti ai grandi scrittori, che danno energia al testo. Ci sono
XV
scrittori, infatti, che sanno stabilire sintonia con i lettori, toccare le loro corde razionali ed emotive. Hanno la «penna facile». Qualcosa di magico.
Dietro la loro magia, però, c’è ben più che un’inclinazione naturale: ci
sono tecniche, schemi comunicativi, registri di stile che si possono imparare. Questo libro vuole dimostrare che tutti, con un po’ di allenamento, possiamo rendere più efficace la nostra scrittura.
Per i curiosi del linguaggio
Il libro è rivolto a lettori di diversi tipi.
A chi usa la scrittura per lavoro: giornalisti; professionisti di marketing,
vendite, organizzazione, risorse umane e relazioni esterne; organizzatori di
convegni; dirigenti e funzionari pubblici e privati; segretarie; studenti e giovani alle prese con il curriculum.
A chi vuole capire come funziona il linguaggio scritto, sia nelle analogie
con la comunicazione verbale, sia nelle sue differenze.
A chi pensa che la parola scritta sia più povera di quella parlata, perché
manca della sfera paraverbale (tono, velocità, ritmo ecc.) e non verbale (gestualità, sorrisi, sguardi ecc.). E a chi sa di poter trovare queste caratteristiche anche nella scrittura.
Neurolinguistica, senza «programmazione»
Il libro presenta l’uso dei modelli neurolinguistici nella scrittura. Parliamo dei meccanismi percettivi: degli schemi logici, psicologici ed emotivi su
cui si fonda la lingua scritta. Parliamo dei filtri attraverso i quali l’esperienza soggettiva diventa pensiero, il pensiero diventa parola, la parola diventa
scrittura.
Molto si è detto sull’influenza di questi modelli nella psicoterapia, nella
selezione del personale, nel management, negli ambienti militari, nello sport.
In verità la definizione più in uso è «programmazione neurolinguistica»,
o PNL. Si tratta del modello comportamentale elaborato da John Grinder e
Richard Bandler negli anni Settanta, definito come «lo studio della struttura
dell’esperienza soggettiva». La PNL studia gli schemi o «programmazioni»
create dall’interazione tra il cervello (neuro), il linguaggio (linguistica) e il
corpo.
Qui preferiamo sfumare la parte della «programmazione» per limitare il
campo d’indagine alla scrittura, dove la parola è assoluta protagonista.
Campo d’indagine quasi del tutto inesplorato finora. Almeno da noi. Questo
XVI
libro vuole così diffondere un’accezione della scrittura meno sacrale di
quella maturata sui banchi di scuola, che spesso porta a dividere il mondo in
«bravi a scrivere» e «negati»; e dimostrare che la scrittura non è solo una
dote di natura: si può apprendere.
Due parti: la teoria e le applicazioni
Il libro è organizzato in due parti.
La prima parte illustra 80 modelli neurolinguistici normalmente usati
nella comunicazione interpersonale, con le indicazioni per il loro impiego
nello scritto.
La seconda parte esamina alcune applicazioni di quei modelli in diversi
settori della comunicazione scritta. A volte si sofferma più sulla parte neurologica della comunicazione, intesa come la mappa che ogni esperienza
crea nella mente delle persone e che poi determina il loro linguaggio; in altri casi si concentra sulla parte strettamente linguistica, analizzando alcuni
testi nelle loro strutture e nei loro stili.
Per maggiore praticità, queste applicazioni sono organizzate in un alfabeto: A come advertising, B come burocrazia, C come customer care, D come divulgazione scientifica, E come e-mail, F come formazione… fino alla
Z di «zitti tutti!» (il valore del silenzio). In appendice, alcune riflessioni su
comicità, grafologia, grafica e memoria.
Gli autori sono specialisti di vari settori: un copywriter per l’advertising,
un amministratore pubblico per la burocrazia, un consulente per il customer
care, un astrofisico per la divulgazione scientifica… Esperienze e idee diverse sulla parola scritta, e quindi anche voci diverse, da mettere a confronto con le esperienze e le idee di ogni lettore.
Semplice, non semplicistico
Questo libro vuol essere semplice, non semplicistico. Chiaro, non banale. Basic, per chi affronta questi temi per la prima volta; concreto, per chi è
già esperto nella scrittura; stimolante, per chi è pronto a riflessioni più
profonde.
Non è un bigino di psicologia: argomento troppo serio per discuterne
fuori dalle sedi opportune. Né un trattato di linguistica: i linguisti sono così… linguisti, così puri, nel loro olimpo di glottologia, filologia, semiotica e
altre segretissime cose. Non è un libro di formule magiche né di assiomi
matematici. È un libro di esperienze.
XVII
Non a caso ha una struttura che ricorda un sito web, con tanto di titoli,
sommari, box, note e indirizzi internet. È un libro che vuol essere «luogo»,
più che «mezzo»: spazio di confronto per le conoscenze e le opinioni.
Come leggere un libro su come scrivere
Si può leggere questo libro in modo lineare, dalla prima pagina all’ultima, oppure saltellando tra un capitolo e l’altro, per approfondire ciò che più
interessa. Come uno spiedino: gustando un boccone alla volta, oppure sfilando tutto per cominciare dalla cipollina in mezzo. Sfogliandolo, o scrivendoci sopra commenti e spunti di pensiero.
L’importante è che, dopo aver letto il libro, il lettore lo chiuda e cominci
a scrivere speditamente, senza pensare troppo ai modelli.
A quel punto, diventerà magia.
XVIII
LA MAGIA
DELLA SCRITTURA
Parte prima
I modelli
di Marzia Andreoni,
Consuelo Casula, Francesca Gagliardi,
Alessandro Lucchini e Annalisa Pardini
Le prossime pagine presentano
i modelli neurolinguistici che
di norma si applicano alla
comunicazione interpersonale,
con le indicazioni per il loro
impiego nella comunicazione scritta.
Sempre con una definizione,
il funzionamento e alcuni esempi.
1
I sistemi rappresentazionali
Che cosa sono
Sono sistemi per elaborare informazioni, usati dalle persone per conoscere e rappresentare il mondo.
Come agiscono
L’uomo, mentre si muove nella realtà, la rielabora a partire dalle informazioni che riceve dai suoi canali di ingresso: i cinque sensi. Le informazioni sono poi ulteriormente rielaborate nel linguaggio. Così egli si crea una
rappresentazione mentale del mondo fatta di immagini, suoni, gusti, odori e
sensazioni sempre frutto di una semplificazione del modello originario.
I sistemi rappresentazionali visivo (V), auditivo (A) e cenestesico (K) indicano qual è l’organo sensoriale privilegiato nel raccogliere ed elaborare le
informazioni percepite da vista (V), udito (A) e tatto-gusto-olfatto (K).
Ognuno di noi può organizzare la propria esperienza con tutti i sistemi
rappresentazionali, tuttavia tendiamo a prediligerne uno. Questa inclinazione comporta una scelta – inconsapevole, ma accurata – delle parole usate
per codificare l’esperienza stessa. Le parole sensorialmente specificate,
dunque, esplicitano il processo di percezione che le sottende.
Naturalmente non sono solo le parole a rivelare il sistema rappresentazionale dominante. Prima ancora, l’analisi dei comportamenti dice parecchio. Facciamo qualche esempio.
I visivi hanno una forte immaginazione, di ogni avvenimento memorizzano soprattutto colori, dimensioni e distanze. Hanno tono e volume di voce
alto, respirazione veloce, postura eretta e sguardo alto; fanno poche pause.
La loro gestualità è descrittiva, le mani si muovono verso l’esterno, con i
palmi aperti a taglio e rivolti verso il basso.
3
Gli auditivi hanno un tono di voce alternativamente armonico e monotono. Spesso inclinano la testa verso la fonte del suono. La loro gestualità è a
tempo con le parole; le mani, spesso vicine alle orecchie.
I cenestesici hanno un tono e un volume di voce bassi, fanno pause lunghe assaporando ogni singola sensazione. Spalle rilassate, sguardo basso,
respiro profondo, addominale. La loro gestualità muove dall’esterno verso il
proprio corpo. Hanno il palmo delle mani spesso rivolto verso l’alto, in modalità propiziatoria.
Sintonizzarsi sul sistema rappresentazionale dell’interlocutore è un metodo molto efficace per conquistarne la fiducia.
Il sistema rappresentazionale visivo
Come agisce
Può essere impiegato per osservare il mondo che ci circonda e per riprodurre o visualizzare internamente delle immagini. Nel linguaggio, l’influenza del sistema dominante visivo si manifesta nella scelta di parole che rimandano alla vista: vedere, osservare, chiarire, focalizzare, dipingere, tratteggiare; chiaro, limpido, cristallino, nitido, brillante, oscuro, fosco, torbido; immagine, quadro, scenario, schema, colori e così via.
Esempi
■
■
In una prospettiva a lungo termine, il quadro della situazione si presenta
più roseo del previsto.
Eccoti la bozza per il rinnovo 2004. Puoi darle un’occhiata per vedere se
può andare?
I visivi curano molto anche gli aspetti non verbali della scrittura: scelta e
dimensione dei caratteri tipografici, titoli ben evidenti, formattazione del
paragrafo, spaziature, interlinea, sfondi, loghi ed elementi decorativi.
Il sistema rappresentazionale auditivo
Come agisce
Esalta l’attenzione prestata a come «suonano» le informazioni che una
persona sta acquisendo ed elaborando, e porta a costruire dialoghi per organizzare le proprie percezioni.
L’influenza del sistema dominante auditivo si manifesta nel linguaggio
con la scelta di parole che rimandano all’udito: ascoltare, sentire, parlare,
4
dire, spiegare, suonare; acuto, sordo, stridulo, forte, piano; campanello
d’allarme, dissonanza e così via.
Esempio
■
Ti comunico le scadenze delle garanzie da rilasciare alla società XYZ. Dimmi se potete dare risposte rapide.
Nella scrittura, chi predilige questo sistema rappresentazionale presta in
genere molta attenzione anche agli aspetti paraverbali del messaggio, soprattutto al ritmo: allitterazioni, assonanze, metrica, lunghezza delle parole
e delle frasi. Ma anche respiri e pause; riprese veloci o fluire tranquillo del
testo.
Il sistema rappresentazionale cenestesico
Come agisce
Organizza le percezioni del mondo intorno alle sensazioni tattili, olfattive e gustative. La produzione linguistica è qui caratterizzata da parole che
appartengono alla sfera delle sensazioni fisiche e dell’emotività. Le scelte
lessicali prediligono verbi come sentire, provare, gustare; aggettivi come
caldo, freddo, pesante, concreto; sostantivi come odore, contatto, sapore,
sensazione, attrazione e così via.
Esempi
■
■
Il servizio dedicato alle Marche propone un modo attraente per coniugare
gli ozi della spiaggia alle puntate verso un entroterra dolce e affascinante,
ricco di profumi e sapori, tutti da scoprire.
Nel pieno della stagione estiva, una visita a uno dei nostri borghi antichi è
un’occasione da non perdere per assaporare la quiete di una giornata o di
un fine settimana lontano dalle folle, in un ambiente incontaminato, dove
si trovano ancora prodotti gastronomici gustosi e genuini.
I predicati
Che cosa sono
Sono il «vocabolario» interno a ogni sistema rappresentazionale. Sono
verbi, sostantivi, aggettivi e avverbi con riferimenti sensoriali specifici.
5
Come agiscono
Offrono molte informazioni sul sistema sensoriale dominante del nostro
interlocutore e sulle parti della sua esperienza alle quali possiamo accedere
in un dato momento.
Esempi
Predicati
visivi
Predicati
auditivi
Predicati
cenestesici
Verbi
chiarire
focalizzare
inquadrare
mostrare
vedere
ascoltare
dire
domandare
informare/spiegare
sintonizzare
afferrare/contattare
assaporare
annusare/fiutare
rimuginare
scuotere
Sostantivi
occhiata
contorno/sfumatura
prospettiva
obiettivo
visione
domanda
armonia/sintonia
parola chiave
suono/voce
tono
contatto/impatto
sapore/odore/sensazione
panico/gioia/eccitazione
calma/fibrillazione
emozione
Aggettivi
brillante/opaco
chiaro/scuro
cristallino/fosco
definito/vago
grande/piccolo
altisonante
acuto/grave
inaudito
silenzioso
stonato
caldo/freddo
duro/morbido/garbato
ruvido/viscido
gustoso/dolce/amaro
profumato/inebriante
Avverbi e
locuzioni
avverbiali
chiaramente
brillantemente
a prima vista
visibilmente
orientativamente
rumorosamente
in silenzio
parola per parola
a tempo/fuori tempo
a tono
leggermente
mollemente
visceralmente
a pelle
dentro/fuori
Le submodalità
Che cosa sono
Sono le caratteristiche specifiche di ogni sistema rappresentazionale.
Come agiscono
Molto influenti nella comunicazione interpersonale, connotano alcuni
comportamenti e rendono più immediata la comprensione del sistema dominante dell’interlocutore.
Per l’efficacia del dialogo è interessante capire qual è la submodalità critica dell’interlocutore, ossia quella al cui variare varia la sua esperienza, e la
relativa rappresentazione.
6
Tra i visivi, per esempio, ci sono persone più sensibili ai colori, altre alle dimensioni, altre ancora alla luminosità ecc. Scegliere per il sostantivo fatica l’aggettivo «nera», o «grande», oppure «cupa» potrebbe avere effetti ben diversi.
Se affiniamo la comprensione e la sintonia con il lettore fino alle submodalità, possiamo scegliere in modo più consapevole le parole per comunicare.
Esempi
Submodalità
visive
Submodalità
auditive
Submodalità
cenestesiche
colore: bianco/nero,
colori
luminosità: offuscata,
brillante
messa a fuoco: nitida,
sfocata
dimensione: grande,
piccolo
posizione: davanti, dietro,
destra, sinistra, sotto,
sopra
profondità: tridimensionale,
piatta
movimento: veloce, lento
orientamento: associato,
dissociato
distanza: vicino, lontano
intensità: forte, debole
volume: alto, basso
posizione
tono: nasale, stridulo,
pieno
tempo: veloce, lento
movimento
ritmo: regolare, irregolare,
cadenzato
direzione: mono, stereo
durata: costante,
intermittente
direzione
temperatura
Il metodo «trial and error»
Che cos’è
È un modo per comprendere meglio il sistema rappresentazionale cui
l’interlocutore è più sensibile.
Come agisce
Attraverso una serie di domande poste nelle varie modalità sensoriali è
possibile far emergere il sistema rappresentazionale dominante del nostro
interlocutore.
Esempi
■
■
■
Questa idea ti sembra buona?
Come ti suona?
Quali sono le tue sensazioni a riguardo?
7
Rendiamo più efficace la comunicazione se rendiamo più comprensibile
ciò che diciamo. Se non otteniamo una risposta significativa alla domanda
presentata nel sistema visivo, passiamo a quello auditivo, o a quello cenestesico. Spesso la mancanza di una risposta significativa è interpretata come
resistenza, mentre potrebbe indicare che per l’altro quel tipo di comunicazione ha semplicemente poco senso.
Le sinestesie
Che cosa sono
Sono la combinazione fra due o più sistemi rappresentazionali.
Come agiscono
L’utilizzo simultaneo di più sistemi rappresentazionali, o il passaggio rapido da uno all’altro, provoca un accumulo sensoriale percettivo che rende
la comunicazione più aperta, ricca e degna di interesse.
Esempio
La discussione sulla circolazione dei SUV [un tipo di auto fuoristrada, n.d.r.]
in città – vietarli o no? – ha assunto connotati interessanti. È subito sembrata
impulsiva, aggressiva, emotiva, esplosiva. Ma i fuoristrada si dividono in diverse categorie; e così i conducenti. I fuoristrada possono essere piccoli, medi o
grandi. I conducenti ragionevoli o sbruffoni. Il proprietario sbruffone di un
Suv-transatlantico, non ho dubbi, è responsabile della piega che ha preso la
vicenda e dall’antipatia che circonda certe automobili.
A Milano un tipo così si chiama «sun-chi-mi». Il suono giapponese non
v’inganni: vuol dire «son-qui-io». Il «sun-chi-mi» arriva e fa subito quattro cose
sbagliate: 1) ha la macchina troppo pulita e in quel modo confessa che il suo
fuoristrada resta perennemente in strada. 2) Arriva gridando al cellulare, senza auricolare né viva-voce, una cosa che in Italia fanno solo i pregiudicati e un
paio di amiche mie. 3) Parcheggia e occupa due spazi. 4) Scende dal transatlantico con un saltello (nei casi più inquietanti dice anche «Hop»).
(Beppe Severgnini, Io Donna, n. 30, 2004)
8
2
Il rapport
Che cos’è
È una relazione segnata dall’armonia, dall’allineamento e dal feeling fra
due interlocutori.
In alcuni casi il rapport si stabilisce naturalmente: durante la comunicazione interpersonale nasce una sintonia spontanea. In altri casi, invece, si
può creare con un buon lavoro di calibrazione (studio del destinatario) e di
ricalco (rispecchiamento).
calibrazione +
ricalco
=
rapport
➜ guida
Come agisce
Il rapport consolida la sintonia facilitando l’ascolto, l’osservazione delle
risposte – verbali e non – dell’interlocutore e la calibrazione del feedback.
Permette quindi di verificare se il messaggio è andato a segno e, se occorre,
di scegliere i comportamenti più appropriati agli obiettivi da raggiungere,
preparando la fase della guida.
La calibrazione
Che cos’è
È lo studio del destinatario (dei suoi atteggiamenti, dei suoi modelli di
conoscenza e di rappresentazione del mondo) e la verifica dell’efficacia di
un messaggio attraverso l’analisi del feedback.
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Come agisce
Attraverso l’osservazione dell’interlocutore, delle immagini che usa,
delle sue manifestazioni fisiche ed emotive, e attraverso l’ascolto del suo
vocabolario.
Le parole, le frasi, le immagini che le persone usano per comunicare, e il
modo in cui le usano, offrono informazioni importanti sul loro mondo interiore. Durante l’interazione è importante prestare attenzione:
●
●
●
al proprio modo di comunicare, in particolare ai messaggi verbali, paraverbali e non verbali, alla congruenza fra questi tre canali e le sensazioni
provate nell’ascoltare e nell’osservare l’altro;
all’interlocutore, per avvalersi del feedback verbale e non verbale;
alla relazione in corso, al processo di influenzamento reciproco, agli
scambi, alla collaborazione o all’antagonismo generati.
Queste osservazioni forniscono stimoli e indicazioni per operare continui aggiustamenti verbali e non, così da rendere più comprensibile la comunicazione.
Il ricalco
Che cos’è
È un processo di rispecchiamento con cui una persona riproduce il comportamento dell’interlocutore, dimostrando così attenzione al suo punto di
vista e al suo modello del mondo.
Come agisce
Con le informazioni acquisite nella calibrazione è possibile uniformare il
proprio agire rispetto a ciò che in un dato momento si considera il comportamento più appropriato alla relazione in corso.
Nella comunicazione interpersonale, elementi facili da ricalcare nell’interlocutore sono:
●
●
●
●
●
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postura:–rigida/rilassata, in avanti/indietro, posizione di mani, braccia,
gambe;
respirazione:–toracica/addominale, ritmo lento/veloce;
movimenti:–mani, testa, corpo;
modo di parlare:–tono basso/squillante, ritmo, velocità, gergo;
valori:–le cose importanti per l’interlocutore.
Nella comunicazione scritta, oltre al registro lessicale e stilistico, si può
ricalcare la lunghezza del testo, la struttura argomentativa, la velocità e il
ritmo delle frasi, la formattazione (font, stile, colori). Se analizziamo i comportamenti di chi ci scrive, infatti, possiamo riprodurli ed entrare in una relazione di affinità. Se invece scriviamo noi per primi, o scriviamo a un pubblico indefinito, possiamo immaginarne le aspettative e ricalcarle.
Il ricalco è un modo molto efficace per stabilire fiducia: inteso come attestazione di somiglianza e condivisione, produce senso di appartenenza e
quindi di sicurezza.
La guida
Che cos’è
È l’infrazione del ricalco, ossia il processo con cui una persona smette di
riprodurre le scelte comunicative dell’interlocutore, e comincia a condurlo
verso la conoscenza della propria mappa mentale, e quindi verso l’adesione
ai propri obiettivi. Requisito fondamentale, il rapport.
Come agisce
Se si è instaurata una fiducia sufficiente, la transizione avviene con dolcezza e facilità. Se invece l’interlocutore non segue la guida, si può tornare
a ricalcarne il comportamento fino a quando non si sia ristabilito o consolidato il rapport.
Il passaggio alla guida può essere manifesto, quindi gestito soprattutto a
livello verbale, o più sottile: un’alterazione del respiro, dello sguardo, del
tono di voce o dell’atteggiamento.
Questo principio vale per la comunicazione interpersonale, ma è anche
molto efficace in quella scritta, dove ovviamente ci si concentra sulla parte
verbale. Efficace e delicato, perché si entra qui nella sfera delle opinioni e
delle convinzioni personali.
Un’applicazione più che sperimentata per il passaggio dal ricalco alla
guida è quella descritta dal pubblicitario francese Paul Le Roux, molto adatta a lettere di motivazione, proposte commerciali, testi pubblicitari.1 Potremmo intitolarla «le sette leve della convinzione»:
1. visione d’insieme:–si parte da un ampio panorama (ricalco situazionale/sociale);
2. problema/bisogno:–la visuale si stringe sul problema specifico del lettore (ricalco specifico, sensoriale, di credenze ecc.);
3. idea/soluzione:–la nostra proposta che risolverà quel problema (inizio guida);
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4. evidenze:–fatti, statistiche, giudizi di esperti che ne testimoniano l’efficacia (citazioni corroboranti);
5. vantaggi:–i benefici specifici per il lettore (ricalco sul futuro);
6. riepilogo:–sintesi di quanto detto fin qui (consolidamento del modello);
7. azione:–è il nostro obiettivo, il motivo per cui scriviamo (firma, spedisci,
telefona, compra, vieni ecc.), o le reazioni del lettore al nostro scrivere
(guida finale e controllo del feedback).
Note
LE ROUX, PAUL, Presentare per convincere. Strategie di presentazione, 2ª ed., Lupetti, Milano 1995.
1
12
3
Il metamodello
Schemi di precisione linguistica
Che cos’è
È lo studio del rapporto tra struttura profonda e struttura superficiale del
linguaggio.1 Si basa sulla teoria della grammatica trasformazionale di Noam
Chomsky.2
Come agisce
Secondo Chomsky, il linguaggio è strutturato su due livelli: la struttura
profonda, nella quale si forma il significato soggettivo; e la struttura superficiale, ossia la frase così com’è enunciata nell’atto comunicativo.
La struttura profonda di una persona non compare quasi mai in modo
esplicito nel suo uso della lingua, anche se ogni interlocutore può avere intuizioni circa il suo contenuto. Nel passaggio dalla struttura profonda a
quella superficiale, infatti, vengono operate delle trasformazioni su alcune
parti dell’informazione. Ciò accade perché attraverso il linguaggio ciascuno
comunica la propria – soggettiva – mappa del mondo, che a sua volta è una
– soggettiva – rappresentazione della realtà. Il tutto, filtrato attraverso tre
procedimenti universali: cancellazioni (perdita di alcune parti dell’esperienza), generalizzazioni (trasformazione di alcuni aspetti dell’esperienza
soggettiva in fatti universali) e deformazioni (distorsione di alcune parti
dell’esperienza).
Se vogliamo descrivere il processo con una rappresentazione grafica,
questo è ciò che accade quando una persona percepisce la realtà, e se ne
crea una propria rappresentazione, o un modello, o una mappa:
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I tre meccanismi
modello/mappa
deformazioni
generalizzazioni
cancellazioni
realtà
Dopo di che, questo è ciò che accade quando una persona comunica ad
altri ciò che ha percepito:
La struttura dell’esperienza linguistica
struttura superficiale
deformazioni
generalizzazioni
cancellazioni
struttura profonda
Se preferiamo, possiamo rappresentare il processo in linea orizzontale,
come nella pagina accanto.
Quando qualcuno ci parla o ci scrive, fa dunque riferimento a situazioni/esperienze passate. Grazie al metamodello possiamo attivare una ricerca
transderivazionale, ossia individuare queste situazioni/esperienze.
Definito anche modello di precisione linguistica, il metamodello tende
infatti a migliorare la qualità e la quantità delle informazioni disponibili in
relazione al problema. Esso ci dà uno schema per sapere quali parti del discorso sono state cancellate, generalizzate o deformate.
A questo proposito, il metamodello si serve di un repertorio di domande
che ci permettono di capire meglio le affermazioni del nostro interlocutore,
recuperando le informazioni della sua struttura profonda andate perdute nella
struttura superficiale. Domande che ci permettono, dunque, di entrare nella
sua mappa, e così arricchire e precisare la sua rappresentazione della realtà.
Per esempio, prendiamo la frase «Tutti sostengono che questa non è una
buona idea». C’è un soggetto non specifico che evidenzia un processo di
14
La struttura dell’esperienza linguistica.
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
realtà
realtà
1
2
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
mappa
della realtà
(struttura
profonda)
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
realtà
mappa
della realtà
(struttura
profonda)
realtà
3
4
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
cancellazioni
generalizzazioni
deformazioni
struttura
superficiale
(linguaggio)
mappa
della realtà
(struttura
profonda)
realtà
5
15
generalizzazione. Applicando il metamodello, possiamo cercare di risalire
all’esperienza originaria dell’interlocutore, attraverso la domanda «Chi,
precisamente, sostiene che questa non è una buona idea?».
La risposta permetterà di risalire a una o più persone specifiche alle quali l’individuo si riferisce. O, in caso contrario, lo indurrà a rivedere le proprie convinzioni.
Vediamo ora più da vicino i tre processi (cancellazione, generalizzazione
e deformazione) e le varie forme nelle quali si esprimono.
Cancellazione
Che cos’è
È un processo di selezione dell’esperienza, che porta ad avere una percezione ridotta della realtà.
Come agisce
Inconsciamente, le persone creano dei modelli ridotti rispetto a ciò che
esse poi intendono riprodurre, prestando attenzione solo ad alcune parti del
proprio vissuto, ed escludendone altre. I tipi più comuni di cancellazione
sono:
➜
➜
➜
➜
cancellazione semplice
comparazione mancante
verbi non specificati
mancanza di indici referenziali.
Cancellazione semplice
Che cos’è
È l’eliminazione di informazioni presenti nella struttura profonda.
Come agisce
Nella frase enunciata non è specificato a chi o a che cosa si faccia riferimento, perché mancano alcuni argomenti che completano l’informazione,
che sono taciuti o dati per scontati da chi parla o scrive.
Esempi
■
■
■
16
Ho paura.
Sono confuso.
Questo incarico è noioso.
■
■
Quello lì non mi piace.
Il progetto è povero.
La cancellazione consente a tutti noi di orientarci nel mondo, in particolare di concentrarci su ciò che per noi è più funzionale. Questo processo,
però, condiziona fortemente la nostra rappresentazione della realtà: le frasi
dell’esempio mostrano come parti importanti dell’esperienza vengano eliminate. Le domande che aiutano a recuperarle possono essere: «Di che cosa, precisamente, hai paura?»; «Che cosa ti confonde?» e così via.
Comparazione mancante
Che cos’è
È la cancellazione che riguarda i comparativi e i superlativi relativi.
Come agisce
Nei comparativi, la parte cancellata della struttura profonda è il secondo
termine di paragone. Nel superlativo relativo, l’elemento di un dato insieme
viene contraddistinto come caratteristico (o peculiare) dell’insieme stesso.
Esempi
■
■
■
■
■
■
Per me Olga è più simpatica.
Voglio migliorare quest’azienda.
Questo progetto è troppo caro.
Lei ci ha offerto la soluzione più interessante.
Ormai è troppo tardi.
Laura è la migliore.
Le domande qui possono essere: «Più simpatica rispetto a chi?»; «Migliorare in relazione a che cosa?»; «Troppo caro paragonato a che cosa?»;
«Migliore rispetto a cosa?».
Verbi non specificati
Che cosa sono
Sono verbi che non specificano in quale modo avvenga l’azione di cui si
parla. Le persone camminano, pensano, fanno, dicono, chiedono, guardano:
sono azioni elementari che possono essere eseguite in forme o con intensità
differenti, la cui modalità spesso è lasciata indeterminata e ambigua.
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Come agiscono
Inducono l’interlocutore a determinare per proprio conto le modalità dell’azione, completando l’enunciato con le informazioni mancanti.
Esempi
■
■
■
■
■
Maria affermava di essere terrorizzata.
Lei mi rifiuta.
Egidio mi ha ferito.
La situazione è al limite.
La XYZ si è sempre dimostrata molto attenta all’andamento del mercato.
Le domande qui possono essere: «In che modo esattamente?»; «Come,
specificatamente?».
Mancanza di indici referenziali
Che cos’è
È la perdita nella forma esplicita dei termini cui l’azione si riferisce o in
cui essa si sta svolgendo: chi, che cosa, con chi, con che cosa, come, dove,
quando, perché.
Come agisce
In una frase, l’assenza di nomi che individuano qualcosa di specifico dilata l’esperienza stessa, rendendo la comunicazione parziale o vaga.
Esempi
■
■
■
■
■
■
■
I giovani non hanno voglia di lavorare.
Nessuno fa caso a ciò che dico.
Uno dovrebbe rispettare i sentimenti altrui.
Tornati dal convegno, proverete una certa sensazione.
La gente non legge libri.
Sento che succederà qualcosa.
Con i clienti facciamo brutte figure.
Oltre a essere una cancellazione, la mancanza di indici referenziali è anche una generalizzazione: proprio la genericità del soggetto o dell’oggetto
dell’azione porta a generalizzare un’esperienza specifica.
Per verificare la qualità dell’informazione è utile riprendere l’affermazione sotto forma di domanda, o porre domande del tipo: «Chi?»; «Di chi si
parla?»; «Quando?»; «Dove?»; «In che modo?». Oppure ancora: «C’è almeno un giovane che ha voglia di lavorare?»; «Hai riscontrato almeno un
caso in cui non sia così?». In questo modo si estraggono i casi particolari.
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Generalizzazione
Che cos’è
È il processo attraverso il quale le persone decontestualizzano un’esperienza specifica e le attribuiscono un significato universale. Una semplificazione della realtà, con la quale l’uomo si crea categorie di riferimento per
gestire al meglio situazioni simili ad altre passate.
Come agisce
Induce a perdere molti particolari, tendendo a confondere la singola
esperienza con tutte le esperienze possibili. Attraverso il metamodello è
possibile recuperare le parti d’informazione perse, effettuando così distinzioni e smontando la generalizzazione.
I principali tipi di generalizzazione sono:
➜
➜
➜
➜
predicati simmetrici e asimmetrici
quantificatori universali
operatori modali
performativa persa.
Predicati simmetrici e asimmetrici
Che cosa sono
Sono verbi che indicano emozioni o atteggiamenti e che implicano reciprocità o simmetria, come litigare, discutere, chiacchierare, baciare: se si
accetta per vero un enunciato, sarà vero anche l’inverso.
Come agiscono
In un processo di reciprocità, uno dei due attori è presentato come elemento passivo e non simmetrico.
Esempi
■
■
■
■
Il mio capo litiga sempre con me.
I miei colleghi non mi sorridono mai.
Antonio non parla mai con me delle nostre strategie di gruppo.
Carlotta non mi telefona mai.
Le domande qui possono essere: «Se il tuo capo litiga con te, anche tu litighi con lui?»; «Se i tuoi colleghi non ti sorridono, tu invece sorridi loro
spesso?».
Negli esempi riportati, le immagini dei processi di «litigare con» e «sor19
ridere a» sono incompleti perché nella descrizione del rapporto una sola
persona sembra svolgere un ruolo attivo. Se A litiga con B, invece, si suppone che anche B litighi con A.
Diversamente dalla logica matematica, da un punto di vista linguistico
«sorridere a» può non essere considerato simmetrico: se A sorride a B, non
necessariamente B sorride ad A. Anche se non vi è necessità che l’inversa
struttura sia vera, però, a livello psicologico generalmente lo è.
Quantificatori universali
Che cosa sono
Sono le unità di significato che indicano tutti gli elementi di un determinato insieme.
Pensiamo a parole come tutto, ciascuno, ognuno, qualsiasi; o anche in
negativo: mai, nessuno, niente. I quantificatori universali indicano la misura
nella quale le persone applicano certe generalizzazioni.
Come agiscono
Rendono universale un enunciato, escludendo qualsiasi possibilità di eccezione.
Esempi
■
■
■
■
■
■
■
Sei sempre in ritardo.
Nessuno ascolta ciò che dico.
Non sono mai riuscito a…
È impossibile fidarsi dei propri superiori.
Non cerchi mai di immedesimarti nel tuo cliente…
Tutte le volte che gli dico… lui…
Non sa mai scegliere il momento.
Nella comunicazione interpersonale, per recuperare le informazioni
perse si può intensificare la generalizzazione rimarcando con parole e voce la presenza dei quantificatori: «Sempre sempre?»; «Mai nessuno, per
niente?». Oppure ricercare nell’esperienza dell’interlocutore un’eccezione a quanto appena enunciato: «Non ti sei proprio mai fidato dei tuoi superiori?».
Il recupero è possibile anche nella scrittura, purché ci sia rapport tra mittente e destinatario. In ogni caso, l’uso dei quantificatori universali connota
il testo in modo piuttosto rigido, assoluto.
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Operatori modali
Che cosa sono
In grammatica, sono i verbi detti servili e fraseologici: volere, potere,
dovere, sapere. Con termine desunto dalla logica, vengono chiamati «operatori modali» perché indicano il modo dell’azione, non l’azione in sé.
Come agiscono
Aggiungono al verbo principale una particolare modalità che indica volontà, possibilità, vincoli e competenze correlate all’azione descritta. Ha infatti implicazioni molto diverse dire che il tale fa/non fa qualcosa, oppure
che vuole/non vuole fare qualcosa, o che deve/non deve fare qualcosa.
Esempi
■
■
■
■
■
■
Non devo farmi coinvolgere troppo a fondo.
Non posso cambiare lavoro.
Vorrei cambiare lavoro.
Devo spedire il progetto oggi.
Non riesco a sopportarlo.
Non devi perdere questa occasione.
Gli operatori modali rendono universale un enunciato sotto il vincolo
della necessità o della volontà. In questo modo, consentono a chi legge di
individuare regole o limiti nel modello del mondo di chi scrive.
Le domande qui possono essere: «Che cosa succederebbe, altrimenti?»;
«Che cosa te lo impedisce?»; «Che cosa ti trattiene dal…?».
Performativa persa
Che cos’è
È una generalizzazione che si presenta come giudizio o regola valida in
sé, e non solo per chi la emette. È una frase performante (ossia che intende
influenzare il lettore), in cui però manca l’indicazione di chi compie la valutazione espressa nell’enunciato.
Come agisce
Il parlante, nel proporre regole e giudizi che appartengono alla sua mappa mentale, propone degli enunciati validi in sé. La struttura superficiale
non è relativizzata al parlante.
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Esempi
■
■
■
■
■
■
È giusto scrivere come si parla.
Bisogna scrivere testi brevi.
Non bisogna comportarsi in modo spontaneo.
Non si deve arrivare tardi agli appuntamenti.
È inutile, si sa, contraddirlo!
Il rapporto con i colleghi è importante.
Qui le domande possono essere: «Chi lo ha stabilito?»; «Quale regola lo
impone?»; «Chi lo impedisce?».
Deformazione
Che cos’è
È una percezione distorta della realtà, sulla quale sono proiettate le mappe personali interpretate come elementi oggettivi anziché frutto di elaborazione soggettiva.
Come agisce
Trasforma la realtà secondo le aspettative dell’individuo, limitandolo
nella possibilità di scegliere i comportamenti da adottare.
I principali processi di deformazione sono:
➜
➜
➜
➜
➜
nominalizzazione
lettura del pensiero
causa/effetto
equivalenza complessa
presupposizione.
Nominalizzazione
Che cos’è
È l’uso di forme che affidano a un sostantivo (parola di evento, statica)
un significato che potrebbe essere meglio affidato a un verbo (parola di processo, dinamica).
Come agisce
Un’azione presente nella struttura profonda in modo dinamico (come un
processo, appunto) emerge in quella superficiale come sostantivo: effettuare
un pagamento anziché pagare; apportare modifiche anziché modificare.
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Così scompaiono le informazioni su chi sia la persona che effettua l’azione
e su chi o su che cosa essa ricada.
Esempi
■
■
■
■
■
■
Abbiamo preso una decisione.
È stata avviata una costruzione.
Mi pare una dimostrazione di sfiducia.
È una questione di amore.
La crescente domanda di greggio induce a credere in un aumento del fabbisogno.
L’importante è che ci sia un cambiamento.
Le domande qui possono essere: «Chi, precisamente, ha deciso/avviato…?»; «Chi dimostra sfiducia per chi?».
Se ingiustificata, la nominalizzazione appesantisce il testo per diverse
ragioni:
●
●
●
●
il nome è statico, il verbo è dinamico;
richiede l’uso di verbi poveri di significato (essere, effettuare ecc.);
richiede articoli e preposizioni che allungano il testo;
mette in secondo piano il soggetto e l’azione a vantaggio del risultato: il
pagamento non è stato effettuato contro lei non ha pagato (certo, a volte
può essere molto utile: vedi su questo il Milton model, a pagina 27).
Lettura del pensiero
Che cos’è
È una classe di strutture superficiali costituite da asserzioni illecite su ciò
che un’altra persona pensa o sente. Manifesta la convinzione di una persona
di conoscere il comportamento altrui basandosi sulla propria percezione.
Come agisce
Chi parla presume di essere a conoscenza delle condizioni interne degli
altri, oppure ritiene che altri possano provocare direttamente e necessariamente un’emozione in un altro essere umano.
Esempi
■
■
■
■
■
Vedevo che eri di fretta.
Perché sei così ansioso?
Io so che cosa lo rende felice.
Avresti dovuto sapere che non ne sarei stato contento.
So che tu…
23
■
■
■
So che cosa è meglio per lei.
So a che cosa stai pensando.
E non dirmi che non ti capisco.
Qui le domande possono essere: «Da che cosa lo vedi?»; «Che cosa ti dice che io sia agitato?»; «Che cosa ti fa pensare che io sia ansioso?».
Causa/effetto
Che cos’è
È la correlazione arbitraria di eventi secondo un meccanismo di
causa/effetto.
Come agisce
Le correlazioni create arbitrariamente sottolineano che un certo comportamento causa, provoca o induce un altro comportamento, una reazione o
un’esperienza certa e prevedibile.
Esempi
■
■
■
■
■
■
Marta mi dà sicurezza.
La sua voce mi mette a disagio.
È chiaro che mi blocco: Giovanni mi rimprovera sempre.
La presenza del pubblico mi spaventa.
La tua presenza mi allieta.
Alessio mi rende nervoso.
Qui le domande possono essere: «Se non ci fosse Marta, non ti sentiresti
sicuro?»; «Se tacesse, non ti sentiresti a disagio?»; «Se Giovanni non ti rimproverasse, non ti bloccheresti?».
Equivalenza complessa
Che cos’è
È lo sviluppo della correlazione causa/effetto in modo ancora più forzato, al limite del paradossale. Lega due eventi in modo che uno implica, significa, esprime, attesta o vale l’altro evento.
Come agisce
Crea delle correlazioni arbitrarie fra due eventi distinti e indipendenti fra
loro.
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Esempi
■
■
■
■
■
Un buon fornitore fa sempre lo sconto ai clienti.
Se tieni alla mia collaborazione devi cambiarmi ruolo.
Un formatore efficace stabilisce sempre un patto con l’aula.
Non apprezzi il mio lavoro, non mi fai mai i complimenti.
Se mi vuoi bene devi portarmi al cinema.
Qui le domande possono essere: «Se non le faccio lo sconto, non sono
un buon fornitore?»; «Se non ti cambio ruolo vuol dire che non tengo alla
tua collaborazione?».
Le deformazioni per causa/effetto e le equivalenze complesse sono sempre presenti nella formazione delle convinzioni.
Presupposizioni
Che cosa sono
Sono frasi che devono essere vere perché qualche altra frase a esse collegata abbia senso.
Come agiscono
Danno per scontate delle informazioni implicite, degli assunti di base
non verificati.
Esempi
■
■
■
■
■
Se il capo diventa furibondo come l’ultima volta che gli ho chiesto le ferie,
stavolta ci rinuncio.
Anche stasera ho lavorato troppo.
Fu l’eccessiva pressione a rovinare la trattativa.
Preferisci iscriverti subito o domani?
Pensi che sia troppo alto per me?
Nel primo esempio, le informazioni date come presupposte sono che in
passato ho chiesto le ferie al mio capo e che in quell’occasione il capo era diventato furioso; nel secondo, che ho lavorato troppo anche altre sere; nel
terzo, che la trattativa è fallita. In questi casi si può accettare il presupposto e
chiedere una migliore definizione degli elementi non specificati: «In che
modo il capo divenne furioso, l’altra volta?». Se invece il presupposto non
viene accettato, si possono chiedere informazioni dirette: «Quando, oltre stasera, hai lavorato troppo?»; «Che cosa ti fa pensare che voglia iscrivermi?».
25
Note
Vedi BANDLER, RICHARD - GRINDER, JOHN, La struttura della magia, Astrolabio, Roma 1981.
Professore di Lingue moderne e linguistica al Massachusetts Institute of Technology (MIT),
Chomsky è il caposcuola del generativismo, una teoria linguistica che vuole spiegare quali
leggi governano il prodursi del linguaggio e che si oppone alla linguistica strutturalista funzionalista. Il generativismo si propone di sviluppare una grammatica in grado di generare
frasi, come il parlante di un linguaggio è in grado di produrre un numero virtualmente infinito di frasi usando un numero finito di parole e di regole grammaticali di sua conoscenza. Vedi http://www.chomsky.info
1
2
26
4
Il Milton model
L’anti-metamodello
Che cos’è
Abbiamo visto finora il metamodello, un modello di precisione linguistica il cui scopo è giungere alla struttura profonda dell’interlocutore, recuperando informazioni attraverso una ricerca transderivazionale, ossia la ricerca di ciò che egli intende specificamente. Vediamo ora la strada opposta: il
Milton model.
Si tratta di un modello di ambiguità linguistica che utilizza solo strutture
superficiali, lasciando all’interlocutore la libertà di adattarle alle proprie
strutture profonde.
È definito anche linguaggio della generalità, inteso come la capacità di
fare affermazioni abbastanza generiche da costituire un adeguato ricalco dell’esperienza di chiunque, e che quindi spingono l’interlocutore ad attivare un
processo transderivazionale, ossia la ricerca di un significato più specifico.
È un linguaggio che coinvolge il destinatario a livello inconscio, e che
deve la sua forza persuasiva proprio al fatto di essere «abilmente vago», per
dirla con il suo ideatore, il medico ipnotista americano Milton H. Erickson
(1901-1979).
Terapeuta di straordinaria levatura, Erickson sapeva curare i propri pazienti con la sola forza del linguaggio. Sapeva comunicare al loro inconscio
perché adottava lo stesso linguaggio dei pazienti con una meticolosità unica. Arrivò persino a registrare gli schemi linguistici usati da uno psicotico
per comunicare con lui nel suo stesso stile. Famosi i suoi racconti didattici:
metafore e aneddoti apparentemente senza senso, in realtà strumenti terapeutici raffinatissimi che instillavano nei suoi pazienti i semi di una nuova
visione del mondo, dando il via al cambiamento.1
27
Come agisce
Agisce come una comunicazione emozionale, non informativa: l’interlocutore interpreta il messaggio attraverso il decodificatore della propria esperienza. Adotta un linguaggio persuasivo e ipnotico. Persuasivo, perché fatto di
affermazioni talmente generiche da saper ricalcare l’esperienza soggettiva di
chiunque. Ipnotico, perché guida il lettore con la forza del coinvolgimento inconscio. La strategia sta nel confermare qualcosa che il lettore già ritiene vero, fargli prendere in considerazione altre possibilità e poi fargliele accettare.
Un esempio. Siamo davanti alla vetrina di un’agenzia immobiliare. L’occhio cade su un cartello. Diverse foto evocative, e un testo che dice:
Vendesi appartamento di 150 mq, secondo piano, 4 locali, 2 servizi, terrazzo con veranda, doppio ingresso, pavimento in marmo, infissi in legno di rovere, riscaldamento
a pannelli, box, cantina, solaio, esposizione a sud.
Questa è una comunicazione informativa, in stile metamodello: fornisce
dati molto dettagliati sulla proposta. Si rivolge all’emisfero sinistro del lettore. Splendido. L’appartamento ci andrebbe a pennello… se non fosse per
quel riscaldamento a pannelli, che non possiamo sopportare.
Altra agenzia, altra vetrina, altro cartello. Foto quasi identiche, e un testo
che dice:
La casa come la vuoi tu.
Il linguaggio è volutamente generico, come quello tipico della pubblicità
televisiva o radiofonica. Obiettivo: solo incuriosire il potenziale cliente?
Ben di più: attirare la sua attenzione, generare interesse, far nascere desiderio e spingere all’azione. Il lettore proietterà sul cartello la propria idea di
casa, e questo lo spingerà a fare il primo passo verso una scelta: che sia già
di impegno per l’acquisto, o solo di richiesta d’informazioni, in ogni caso
sarà una scelta.
La persone – insegnava Erickson – agiscono secondo la propria «mappa» o rappresentazione della realtà, che non coincide mai con la realtà: bisogna dunque andare incontro al cliente all’interno del suo modello del
mondo. Ecco che il linguaggio generico, seducente a livello emozionale
(emisfero destro), e non razionale, spinge il destinatario a muovere un passo
verso il mittente.
Vediamo ora le principali forme linguistiche del Milton model, alcune
comuni al metamodello, ma con finalità comunicative opposte: vaghezza
contro precisione.
28
Cancellazioni
Le cancellazioni sono buchi informativi che il lettore riempirà con la
propria esperienza. Quando una parte del significato di una frase viene taciuta, è il lettore a generare «un» significato, quello più vicino alla propria
esperienza. La cancellazione seleziona e concentra l’attenzione del lettore
su ciò che per lui è funzionale.
Gli strumenti per operare cancellazioni sono:
➜ nominalizzazioni
➜ indici referenziali non specificati
➜ verbi non specificati.
Nominalizzazioni
Che cosa sono
Sono sostantivi, e quindi parole statiche, che indicano in realtà un processo in corso. Si formano con i suffissi nominalizzatori -ione, -mento, -ità,
-ismo, -tura, -ezza, che trasformano un verbo o un aggettivo in un nome. Sono parole astratte che indicano azioni, stati d’animo ecc.
Obiettivo: sollecitare il lettore a recuperare le parti cancellate, selezionando il significato più utile alle proprie aspettative e ai propri bisogni.
Come agiscono
Si è portati a riconoscere nella nominalizzazione il processo da cui essa è
derivata (chi-fa-cosa). È un’attribuzione del tutto arbitraria, e qui sta il gioco della vaghezza.
Esempi
■
■
■
L’iscrizione alla nostra polizza le garantirà certezze e miglioramenti.
La vitalità viene dall’assunzione della radice del ginseng.
Il rilassamento dato da un ambiente nato all’insegna della comodità e della
naturalezza.
Le nominalizzazioni hanno una capacità evocativa e sono portatrici di
molteplici significati. Nella scrittura la mancanza di chiarezza spinge il lettore a cogliere messaggi che siano, o sembrano essere, frutto di una sua
scelta, con relativi suggerimenti e conclusioni.
29
Indici referenziali non specificati
Che cosa sono
Sono soggetti generici come tutti, ognuno, parecchi ecc. Il linguaggio non
entra nello specifico, non permette di criticare le affermazioni per rifiutarle.
Obiettivo: far riconoscere al lettore un’affermazione come propria esperienza.
Come agiscono
Attivano processi di identificazione tra lettore e soggetto generico.
Esempi
■
■
Parecchie persone hanno provato il nostro prodotto con risultati eccellenti.
Qualcuno reputa assurdi gli interventi di chirurgia estetica. Ma quelli favorevoli sono la maggioranza.
Rientra in questo modello anche l’uso del tu, noi, voi al posto di io. È riproducibile con efficacia nella scrittura quando si vuol essere persuasivi o si
ricerca un contatto più stretto con il lettore. Dire «Tu sai come può sentirsi
uno quando si trova in certe situazioni» attiva il processo di identificazione,
e aiuta a guidare il lettore nella situazione evocata.
Verbi non specificati
Che cosa sono
Sono verbi che riferiscono azioni elementari eseguibili in modi e con intensità diverse, la cui modalità resta indeterminata: fare, pensare, sapere,
capire, provare, riconoscere, chiedersi ecc.
Obiettivo: aumentare la verosimiglianza dell’enunciato che contiene l’esperienza e al tempo stesso richiamare l’attenzione del lettore sulle parti
cancellate.
Come agiscono
Inducono il lettore a completare l’azione non esplicitata.
Esempi
■
■
■
30
Kilofat Gold Fruit ti fa perdere i chili di troppo.
Se tutti lo imparaste aumenterebbe la vostra conoscenza.
Pensa come sarebbe bello saper capire gli altri.
Al lettore si presenta una situazione avviata, che poi, però, ha bisogno
di essere gestita. Il verbo generico aiuta a ovviare all’assenza del contatto
diretto. Stabilendo un rapporto di mutuo soccorso, avvicina con discrezione autore e lettore, ma è il lettore a decidere modi e tempi (o credere di deciderli).
Presupposizioni
Le presupposizioni sono la parte sommersa del discorso, il livello
profondo che compare modificato a livello superficiale. Contengono un sapere che origina il contenuto espresso. Per dar senso compiuto a una certa
asserzione, il lettore deve riconoscerla e condividerla come un dato vero o
scontato, e quindi non metterla in discussione.
I tipi più comuni di presupposizioni sono:
➜
➜
➜
➜
➜
subordinate temporali
numeri ordinali
congiunzioni disgiuntive
predicati di consapevolezza
verbi, avverbi e aggettivi pragmatici.
Subordinate temporali
Che cosa sono
Sono frasi subordinate rette da avverbi o locuzioni avverbiali temporali
come dopo che, prima di, quando, mentre, durante, a partire da. Definiscono l’origine dell’azione principale oppure confrontano un prima e un dopo,
e descrivono lo sviluppo di una situazione.
Obiettivo: accompagnare il lettore verso l’azione principale, immettendolo in una situazione che necessariamente ne presuppone un’altra.
Come agiscono
Come forme di induzione ipnotica, ossia superando i filtri della mente
conscia del lettore, per arrivare direttamente al suo inconscio.
Esempi
■
■
■
Quando l’estate scoppierà, non fatevi trovare sprovvisti di condizionatore.
Dopo che avrete inserito la spina, azionate il meccanismo d’accensione.
Cittadini, una volta eletto manterrò ogni promessa.
31
Nella comunicazione verbale, le subordinate temporali sono strutture
portanti del discorso. Veicoliamo i messaggi di condotta diretti agli altri
marcando vocalmente i termini e gli avverbi temporali che introducono l’azione principale.
Nella scrittura, le subordinate temporali assolvono la loro funzione soprattutto quando precedono la frase principale (creano un’attesa alla ricezione del messaggio).
Numeri ordinali
Che cosa sono
Oltre a 1°, 2°, 3° ecc., sono ordinali anche ultimo, un’altra parte.
Obiettivo: aiutare il lettore a elaborare le informazioni, offrendo uno
schema che gli consenta di collocare i fatti e integrare gli argomenti.
Come agiscono
Sfruttano la spazialità del messaggio e inducono il lettore a elaborare archivi mentali, guidando così l’attenzione e la memoria.
Esempi
■
■
Primo: abbatteremo le barriere architettoniche. Secondo: destineremo più
spazio alle aree verdi. E in ultimo, ma non ultimo, limiteremo il traffico nel
centro storico.
I 3 comandamenti del wellness sono:
● un’accurata visita medica;
● una disciplina sportiva adeguata;
● una dieta equilibrata.
L’oratore accompagna l’ordinamento di dati e fatti con il linguaggio corporeo (per esempio, conta con le dita), incatenando il pubblico al proprio ragionamento. Lo scrittore può ricorrere a elenchi numerati (se c’è un ordine
prioritario) o puntati (se non c’è), può dividere il discorso in paragrafi, usare caratteri e dimensioni diverse.
Congiunzioni disgiuntive
Che cosa sono
Sono o e oppure, e forniscono al lettore diverse alternative, che però portano tutte a una certa reazione.
Obiettivo: realizzare almeno una delle alternative fornite.
32
Come agiscono
Guidano il lettore all’epilogo dell’esperienza, a prescindere dalla via imboccata.
Esempi
■
■
Questi progetti saranno portati a termine prima dell’estate, oppure no:
l’importante è averne definito la struttura.
Il mare o la montagna? Comunque VACANZA!
Le alternative possono essere ulteriormente disgiunte con la punteggiatura (la virgola, ma anche il punto interrogativo se si preferisce una netta separazione), con capoversi, con elenchi incalzanti.
Predicati di consapevolezza
Che cosa sono
Sono verbi di carattere introduttivo, usati per presupporre il resto della
frase: sapeva che…, si è reso conto che…, è consapevole che…
Obiettivo: rafforzare il concetto base.
Come agiscono
Sono strumenti persuasivi che consentono di accedere alla mappa del
mondo del lettore.
Esempi
■
■
Ci siamo resi perfettamente conto che questa era un’occasione irripetibile
per la nostra azienda.
Lei mi insegna che quando si hanno simili oggetti di valore in casa, è necessario installare un sistema di antifurto.
I predicati di consapevolezza spingono il lettore ad accettare il nostro
messaggio, ancor più se accompagnato da avverbi di commento come veramente, naturalmente, fortunatamente, certamente, giustamente.
Verbi, avverbi e aggettivi pragmatici
Che cosa sono
Si distinguono in:
●
verbi e aggettivi fattitivi (rincrescere, dispiacersi, rendersi conto, essere
felici/tristi per);
33
●
●
●
●
verbi implicativi (riuscire a, cercare di, dimenticarsi/ricordarsi di);
verbi e avverbi di cambiamento di posto, di stato, di tempo (cominciare,
procedere, smettere/continuare, partire, già, tuttora, ancora);
verbi o avverbi iterativi (verbi introdotti dal prefisso iterativo ri- e avverbi quali di nuovo, di solito, anche);
aggettivi, avverbi, verbi di giudizio e di commento (fortunato, assodato,
necessariamente, accusare, criticare, ritenere).
Obiettivi: attenuare una situazione incresciosa ma inevitabile (o irrimediabile: «ho cercato di rimediare all’errore, ma era troppo tardi»); mascherare un’esitazione o una perplessità; presupporre circostanze nelle quali si
verificheranno inevitabilmente (o auspicabilmente) determinate situazioni;
commentare fatti e comportamenti.
Come agiscono
Il lettore prende coscienza dei presupposti all’origine di esperienze che è
sollecitato a condividere, oppure è indotto a mettere in discussione i presupposti su cui basa la propria mappa del mondo.
Esempi
■
■
■
Tutti sono consapevoli che per essere felici basta poco: non dimenticare se
stessi. Vi aspettiamo al Beauty Centre.
Come cominciare a stare meglio: gli specialisti rispondono.
Quando ritornerete dalla crociera nel Mediterraneo, la vostra vita non sarà
più la stessa.
Sono formule di esordio che introducono toni garbati e discreti. Una notizia sostenuta da un «mi rincresce», o da un «sono felice per te» è come
una mano poggiata sulla spalla; dire «ho cercato di fare il possibile» è un
modo per scaricare una parte di responsabilità (meglio rimediare poi con un
«è assodato che non si ripeterà più»). Verbi e avverbi di cambiamento sono
percepiti come garanzie di successo («e già comincia a…»). Si pensi anche
allo spot della signora che piange al supermercato, incapace di «riadattarsi»
alla quotidianità dopo essere «ritornata» da «quella» crociera. Non ci guida
forse a provare la stessa esperienza, che si presuppone straordinaria?
Malformazioni semantiche
Spesso noi modifichiamo la realtà per adattarla alle nostre aspettative.
Le malformazioni semantiche ci portano a valutare e decidere quali com34
portamenti adottare e ci permettono di conformare le situazioni alle nostre
attese.
I processi di malformazione semantica riguardano:
➜ congiunzioni e collegamenti temporali o causali
➜ lettura del pensiero
➜ performativa persa.
Congiunzioni e collegamenti temporali o causali
Che cosa sono
I connettivi e, ma, e non, mentre, quando, via via, prima/dopo, perché,
se, allora, e i predicati che esprimono una connessione necessaria tra parti
diverse dell’esperienza come causare, fare, obbligare, richiedere ecc.
Come agiscono
Stabiliscono relazioni strette tra ciò che sta avvenendo e qualcosa che
vogliamo avvenga.
Esempi
■
■
■
■
Quando avrete raggiunto il punteggio indicato sul Catalogo, prenotate il
premio presso il punto Fìdaty.
Non possiamo permetterci la sua consulenza: è molto preziosa, ma è molto
cara.
Mentre aspettiamo il mio socio, si metta a suo agio e mi parli di lei; poi le
formuleremo la nostra proposta. Mi esprima ogni dubbio perché ci teniamo a essere chiari.
Per il ritiro del veicolo si richiedono: targhetta di circolazione, bollo, assicurazione RC e casco.
E, mentre, e non rappresentano le forme più delicate di collegamento
perché creano una sequenza di immagini affiancate, sullo stesso piano. Il
ma crea invece una relazione più brusca, perché nella mente del lettore sovrappone le due immagini (la parte di frase che segue il ma si sovrappone
alla parte che lo precede: vedi su questo pagina 51).
Lettura del pensiero
Che cos’è
È un’asserzione su ciò che il lettore pensa o sente, espressa in modo vago, che incorpora ciò che sta effettivamente accadendo.
35
Obiettivo: aprire la mente del lettore per inserirvi furtivamente pensieri
nostri, che lui riconosca come propri.
Come agisce
Stabilisce una corrispondenza tra identità, bisogni e motivazioni del lettore.
Esempi
■
■
■
Arriva l’estate e tu non sai cosa fare con l’animale di casa: non abbandonarlo.
Whiskas: i gatti riconoscono la differenza.
La nostra azienda è in grado di fornirle il tipo di servizio di cui lei ha bisogno.
La scrittura diventa efficace perché interviene a modificare un processo
già in atto nel lettore, sempre che ci siamo ben sintonizzati con le sue
aspettative e sappiamo riconoscere su quali presupposti fondare il nostro
messaggio.
Performativa persa
Che cos’è
È una frase in cui manca l’indicazione di chi compie l’azione, o esprime
una valutazione.
Obiettivo: rafforzare una presupposizione, dare più credibilità alla propria affermazione, spostandola in una zona franca di oggettività.
Come agisce
Si propone come giudizio già confermato.
Esempi
■
■
■
Fa impressione che ragazzini di dieci anni stramazzino davanti al computer
in preda a convulsioni.
Non è necessario che le persone seguano la moda a tutti i costi.
Visitare Atene in estate non è l’ideale, ma assistere alle Olimpiadi nella terra in cui sono nate val bene il viaggio.
Limitazioni al modello
Usando quantificatori universali e operatori modali la comunicazione
diventa estremamente vaga. Si annullano totalmente i riferimenti alle situazioni concrete e agli eventuali agenti. Laddove compare il soggetto, alle sue
reali capacità e possibilità si sostituiscono capacità e possibilità ipotetiche.
36
Quantificatori universali
Che cosa sono
Sono gli aggettivi indefiniti ciascuno, ognuno, qualsiasi, o le parole negative mai, nessuno, niente. I quantificatori universali e le frasi che li contengono non hanno indice referenziale.
Obiettivo: intensificare una generalizzazione, rendendola ancora più credibile.
Come agiscono
Dichiarano un’affermazione universalmente accettata o confutata. Fanno
leva sul sentimento di appartenenza sociale del lettore.
Esempi
■
■
■
Qualsiasi nostro cliente potrà confermarle che quanto le dico corrisponde
a verità.
Nessuno vi ha mai spiegato come scrivere una lettera?
Non ho mai detto niente che possa aver danneggiato qualcuno.
Operatori modali
Che cosa sono
Sono gli ausiliari volere, potere, dovere, e i predicati essere in grado, essere capace di, che non indicano l’azione, ma solo il modo di eseguirla.
Obiettivo: attenuare il comando o la richiesta rivolta al lettore con una
formula di cortesia, invitarlo ad agire, enfatizzando le sue capacità e conoscenze.
Come agiscono
Rafforzano l’autostima del lettore.
Esempi
■
■
■
Da oggi puoi contattare ING Direct al Numero Arancio gratuito.
Ogni mese la newsletter di cucinait.com ti dimostra che anche tu puoi essere in grado di preparare deliziosi piatti.
Dovresti essere così gentile da rispondermi al più presto.
Realizzeremo desideri o necessità solo motivando il lettore. Perché percepisca l’azione come raggiungibile, incoraggiamolo sollecitando il suo
ego; perché la percepisca come necessaria, veliamo il vincolo della necessità con una presunta possibilità di scelta.
37
Forme di estrazione indiretta
Sono forme linguistiche indirette, appunto, valido aiuto per fronteggiare
quella paura del rifiuto cui anche gli abili comunicatori devono far fronte, e
per ottenere reazioni specifiche senza sollecitarle esplicitamente. Le forme
di estrazione indiretta comprendono:
➜
➜
➜
➜
➜
➜
ambiguità
suggerimenti e comandi nascosti
domande nascoste o indirette
comandi negativi
marcature per analogia
postulati conversazionali.
Ambiguità
Che cosa sono
Sono unità linguistiche (parole, frasi, periodi) che possono esprimere più
significati e indurre a diverse reazioni contemporaneamente. Esistono quattro tipi di ambiguità:
1. fonologica:–il suono di una frase ha diversi significati;
2. sintattica:–la funzione di una parola non può essere determinata dal contesto;
3. semantica:–il significato della frase non può essere determinato dal contesto;
4. di punteggiatura:–in un’unica frase si riscontrano due frasi sovrapposte.
Obiettivo: guidare il lettore a scegliere il significato per lui più appropriato.
Esempi
■
■
■
■
38
Totò: «Chi è Nicoletta?» / Marchese: «L’ava, la nonna…» / Totò: «Lava la
nonna? Perché? La nonna c’aveva i moncherini?! Non si poteva lavare da
sé?» (Il monaco di Monza).
La vecchia legge la regola (vecchia è aggettivo o sostantivo? Legge è sostantivo o verbo?).
Il direttore pubblica sull’intranet un messaggio al nostro team per dargli visibilità (visibilità al messaggio o al gruppo?).
È un personaggio trascinante, famosissimo per il suo programma, amato
da migliaia di telespettatori (amato il programma o il personaggio?).
L’ambiguità di solito è voluta. Si pensi all’impatto mediatico delle campagne pubblicitarie, al sensazionalismo suscitato da alcuni titoli giornalistici. Le intuizioni linguistiche ci fanno riconoscere l’ambiguità e, giocando
con le parole, ce la fanno correggere consapevolmente. Ci coinvolgono,
dunque, nel messaggio.
Suggerimenti e comandi nascosti
Che cosa sono
Sono unità di significato (parole, frasi, immagini), celate all’interno di
un contesto più ampio (un periodo, una pagina, un racconto), che identificano un ordine.
Obiettivo: guidare dolcemente il lettore, condizionandone le scelte e il
comportamento.
Come agiscono
Risvegliano delle associazioni inconsce. Usati con persone che sembrano non prestarci attenzione, ci aiutano a condurle quasi «spontaneamente»
verso il nostro obiettivo.
Esempi
■
■
■
■
Ti invitiamo a partecipare alla nostra indagine. Apprezziamo moltissimo il
tempo che vorrai dedicarci.
Tariffe per una settimana di noleggio da euro 106, per arricchire i propri
progetti di vacanze. Prenotare è semplice.
Forse ieri hai avuto poco tempo per apprezzare il mio progetto. Puoi farlo
con comodo, ora.
Cibalginadue FAST. La prendi quando serve, agisce subito.
I suggerimenti sono in posizioni sintattiche strategiche (per esempio, a
fine periodo) ed è usato un lessico appropriato all’effetto che si vuole ottenere, rispondente al sistema rappresentazionale del lettore. Al visivo si dice:
«Vedi come sono felice quando mi scrivi?»; all’uditivo: «Senti come sono
felice…?»; al cenestesico: «Ti accorgi come sono felice…?». Il messaggio
avrà così maggiori possibilità di successo.
Se nella comunicazione interpersonale si può aumentare l’efficacia di un
comando nascosto rendendo più brillante il tono della voce, o dando enfasi
a certe parole, nella scrittura è possibile evidenziare quelle parole con grassetti o corsivi, oppure metterle accanto al nome del lettore (parola magica,
che cattura la sua attenzione).
39
Domande nascoste o indirette
Che cosa sono
Sono domande implicite, nascoste in un’affermazione.
Obiettivo: guidare dolcemente il lettore in una precisa direzione.
Come agiscono
Per la maggior parte a livello inconscio e di solito senza suscitare resistenza.
Esempi
■
■
■
■
Mi chiedo chi di voi vorrebbe migliorare il proprio uso del linguaggio.
Se sei pronto a viverla fino in fondo, Magnum Moments è la dimensione
del piacere.
Non ho capito se hai letto il materiale che ti ho allegato.
Mi piacerebbe sapere, dott. Bianchi, quanto le interessa il nostro prodotto.
La domanda nascosta richiede grande abilità mimetica. Nella comunicazione interpersonale il segnale di via è fornito da indizi non verbali e paralinguistici: una buona calibrazione che avverte quando l’altro è pronto a rispondere alla domanda; un contesto che facilita il porgerla (una discussione
tra amici, un colloquio di lavoro improntato alla cordialità).
Nella comunicazione scritta occorre anche grande cura sintattica: calibrare le parole, i modi dei verbi (indicativi e condizionali per le frasi reggenti, indicativi e congiuntivi per le interrogative dirette o indirette), gli
aggettivi e gli avverbi rispondenti alle submodalità critiche del lettore (vedi pagina 6).
Comandi negativi
Che cosa sono
Sono ordini impartiti in forma negativa. Si dice di non fare quello che in
realtà si vuole sia fatto.
Obiettivo: vincere le resistenze di lettori riluttanti, per poi guidarli verso
determinate azioni.
Come agiscono
Il loro potere deriva da uno schema definito del comportamento umano:
il bisogno di scorgere un ordine. Quando l’ordine è dato in forma negativa,
al cervello giunge molto prima (oppure solamente) l’istruzione positiva. La
negazione, infatti, è un concetto matematico che viene recepito solo dall’e40
misfero sinistro (logico-razionale), quindi in ritardo. Per l’emisfero destro
(istintivo-emotivo) essa non esiste (per esempio, del comando negativo
«non fumare», al cervello prima arriva «fumare», poi «non»).
Esempi
■
■
Non rinunciate ai vostri piatti preferiti, ma controllate il vostro peso.
Se la tua salute non ti interessa non informarti sulle emissioni tossiche in
cucina.
Il divieto di solito stimola l’infrazione: si usa dunque la forma affermativa quando è alta la probabilità che l’altro presti ascolto, e la forma negativa
quando invece ha bisogno di «cadere in trappola» per ascoltare.
Marcature per analogia
Che cosa sono
Sono suggerimenti posti in modo indiretto, evidenziando alcune parti del
discorso (predicati, avverbi, aggettivi ecc).
Obiettivo: ottenere precise reazioni, senza suscitare resistenza.
Come agiscono
Sono suggerimenti percepiti in modo inconscio. Allo stesso modo, poi,
chi li riceve opera i necessari collegamenti.
Nella comunicazione interpersonale, per esempio, modifichiamo il tono
di voce, il ritmo, la mimica facciale o del corpo, o abbiniamo alle parole da
sottolineare un gesto o un rumore (battere il piede, una penna ecc.). Nello
scritto ricorriamo a sottolineature, grassetti, corsivi, o a determinati caratteri (bastone, per concetti legati a rigore e affidabilità; scrittura, per affermazioni personali; fantasia o graziati, per suggerimenti o consigli leggeri).
Oppure evidenziamo con ombreggiature o gradazioni di colore.
Esempi
■
■
T i i n v i t o ad assumere un altro atteggiamento: non tollero essere criticata
a priori. Altrimenti sarò costretta a prendere provvedimenti.
Con una maschera
maschera di frutta come facevano le nostre nonne o una diditata di crema naturale come suggeriscono in profumeria, il risultato è
sempre splendido: la pelle diventa
diventa più bella e più liscia .
41
Postulati conversazionali
Che cosa sono
Sono modi convenzionali di porgere richieste mascherando l’intenzione
imperativa, e di porre domande senza che siano percepite come un’intromissione. Apparentemente vorrebbero come risposta semplici sì o no, ma in
realtà determinano reazioni diverse.
I postulati conversazionali si avvalgono di:
●
●
●
●
enunciati autoreferenziali:–vorrei che, ti sarei grato se (attenuano l’espressione del desiderio);
enunciati eteroreferenziali:–saresti disposto a, ti spiacerebbe, vuoi (sondano con garbo la disponibilità del lettore);
condizionale o interrogativa negativa:–sarebbe opportuno che, sarebbe
meglio, dovresti essere più, perché non (sostituiscono l’ordine diretto e
nel contempo suggeriscono i motivi per compiere certi gesti);
operatori modali:–puoi o sai (non misurano realmente le capacità del lettore, ma semplicemente attenuano la richiesta).
Come agiscono
Alcune regole sintattiche consentono al lettore di intuire le richieste celate.
Esempi
■
■
■
Puoi andare allo sportello della tua banca o puoi ordinarlo via web (così risparmi tempo).
Scegli la comodità. Direttamente dal tuo PC o al telefono, con semplicità e
in completa sicurezza, puoi fruire di tutti i servizi bancari senza più inutili
perdite di tempo.
Il tuo oggetto è in vendita su eBay! Potrebbero occorrere alcune ore prima
che l’oggetto sia mostrato. Sarebbe opportuna una conferma via e-mail.
I postulati conversazionali esprimono toni distesi, chiari, attraenti, che
predispongono il lettore a una risposta positiva.
Note
ERICKSON, MILTON H., La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici, Astrolabio, Roma
1983.
1
42
5
Altri propulsori di efficacia
Ancore
Che cosa sono
Sono parole o espressioni che innescano ricordi, sensazioni o altre reazioni. Si tratta di fenomeni di associazione tra cose spesso distanti tra loro.
Obiettivo: ottenere reazioni desiderate, senza che il lettore ne sia consapevole.
Come agiscono
L’ancoraggio è un processo naturale, potente perché invisibile. È possibile estrarre, ancorare e ri-estrarre reazioni desiderate. Per esempio, per far
provare una reazione di piacere, si può evocare il ricordo di un evento piacevole. Quando l’emozione riattivata raggiunge il culmine, si compie un qualcosa di percepibile (un gesto, un rumore), e ciò sarà probabilmente collegato all’emozione del momento e diverrà una chiave di accesso per ri-estrarre
la stessa reazione in futuro.
Lo stesso accade con le parole, soprattutto i nomi propri e certi aggettivi
o verbi che esprimono sensazioni particolari.
Esempi
■
■
■
■
Dove c’è Barilla c’è casa.
Acquistate le colonne sonore della vostra vita. Solo 15 euro per emozioni
senza prezzo.
Ogni volta che ascolto la musica di Profondo rosso mi vengono i brividi.
Mi ricorda la voce di Francesca…
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Nella comunicazione scritta può essere un’ancora (positiva o negativa)
anche il mezzo usato: un telegramma provoca panico, perché porta cattive
notizie o condoglianze (anche felicitazioni, ma lì è atteso, quindi innocuo);
una lettera personale che accompagna un curriculum dà un senso di «umanità»; una pagina scritta di proprio pugno avvicina.
Metafore
Che cosa sono
Sono figure di spostamento di significato, attraverso le quali si esprime,
sulla base di una similitudine, una cosa diversa da quella nominata. Una
sorta di paragone senza il «come». Questo spostamento può essere espresso
con nomi, verbi, aggettivi.
Sono stimoli all’immaginazione e alle emozioni del lettore: parole ricreate, suggestive, che giocano sull’ambiguità della verità letterale.
Obiettivo: individuare un modello per ricalcare il lettore e le sue aspettative.
Come agiscono
Trasmettono messaggi persuasivi che si avvalgono di fattori strutturali (organizzazione del discorso, scelta dei contenuti e delle argomentazioni), valoriali (valori universali condivisi) e affettivi (emozioni come leva per le azioni).
Le metafore non parlano direttamente alla mente conscia del lettore. La loro morale, però, è perfettamente chiara alla parte inconscia della mente, e arriva con grande vigore perché opera a un livello meno soggetto a resistenza.
Esempi
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■
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Calvizie? Puoi combatterla!
Gli aumenti dei prezzi mettono le famiglie italiane sulla graticola.
Vuoi dare una spinta alla tua carriera?
Mi sento una principessa… grazie a Meetic che mi ha fatto incontrare un
principe.
Le più comuni metafore evocano la guerra (per esempio, combattere),
evidenziano un movimento orientato nello spazio (spingere, buttarsi giù,
sentirsi su), sono di carattere ontologico (sentirsi).
Più la metafora si avvicina alla sua mappa, più il lettore familiarizzerà
con l’idea che c’è dietro.
Dimostrano l’efficacia della metafora la pubblicità, la propaganda politica, i titoli dei giornali, gli aneddoti raccontati dai comunicatori aziendali
(story telling) e dai formatori (vedi pagina 135).
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Citazioni
Che cosa sono
Sono riferimenti, riproduzioni di scritti, parole o pensieri altrui.
Obiettivo: conferire autorevolezza a un’affermazione, fornirla di un garante illustre che aiuta a far passare un concetto.
Come agiscono
Le citazioni sono riconosciute come tali dal lettore, ma inconsciamente
egli le percepisce come rivolte direttamente a lui.
Esempio
Alice: «Ho conosciuto un uomo che mi ricorda te. È un irresponsabile, molto
estroso; ma anche molto bello, sai».
Eddie: «Non commettere atti impuri, Alice. Non è mia, la battuta. È una citazione». (Woody Allen, Alice)
Le citazioni funzionano purché siano pertinenti e facilmente condivisibili. Ma evitiamo di calcare troppo la mano: i nostri scritti potrebbero risultare appesantiti e spersonalizzati.
Truismi
Che cosa sono
Sono osservazioni di senso comune così evidenti da non poter essere negate. Si tratta di semplici constatazioni su qualcosa di innegabile (dall’inglese true, «vero»), e riguardano comportamenti che il lettore ha vissuto più
volte o che sta sperimentando in quel momento.
I truismi più comuni fanno riferimento a:
●
●
●
●
●
tempo:–sottolineano l’inevitabilità o l’irreversibilità di certi eventi;
processi psicologici:–riferiscono frequenti comportamenti del tipo ricordare, dimenticare, progettare, sognare cose e situazioni;
processi affettivi:–evocano emozioni;
processi relazionali:–trattano dei rapporti interpersonali e delle loro implicazioni;
processi comportamentali:–riportano alle azioni svolte nella quotidianità.
Obiettivo: ricalcare e rinforzare un senso di credibilità nei confronti di ciò
che si afferma; predisporre il lettore ad accettare le successive asserzioni.
45
Come agiscono
Si presentano come suggestioni indirette alle quali è difficile opporre resistenza. Creano falsi sillogismi o equivalenze.
Esempi
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■
Quando ci si annoia il tempo non passa mai. Perché non vi iscrivete al nostro
circolo?
I sogni non hanno prezzo; questo spiega perché un vestito di Dior costa oltre 100 mila euro.
Se è vero che uno dei fini del processo minorile è il pieno recupero del cosiddetto soggetto deviante, nulla impedisce che nei casi gravi o gravissimi
questo percorso avvenga in carcere.
L’estate si avvicina e tu continui inutilmente a digiunare. Con XYZ potrai
ritrovare la linea perduta.
Uno specchietto per le allodole, nel quale il lettore trova riflesse le motivazioni della propria sfera relazionale ed emotiva. Il testo, però, dev’essere
coerente (le relazioni e i concetti premessi devono essere riconoscibili e accettabili) e persuasivo (deve mantenere vivo l’interesse del lettore, così da
reiterare l’intesa su ciò che non si è ancora verificato).
Parole «maluma» e parole «takete»
Che cosa sono
Le parole hanno una forma, un suono. E una carica emotiva. Persino
quando sono prive di significato, trasmettono sensazioni.
Come agiscono
Influenzano a livello inconscio il gradimento del lettore.
Esempi
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■
■
Mamma, babbo, nanna, pappa ecc.
Ahm!
Iiiiw!
Già Platone ipotizzava che il significato delle parole fosse legato a forma
e suono.
Studi recenti l’hanno confermato: noi attribuiamo agli oggetti alcune
proprietà, dette «terziarie» o «espressive», sulla base di informazioni quali
forma, colore, movimento. Questo vale anche per le parole. Una verifica in46
teressante si deve a Wolfgand Köhler, il quale sottopose a un gruppo due parole senza senso, «maluma» e «takete», e i disegni di due forme astratte, una
tondeggiante e l’altra spigolosa. Alla richiesta di associare le parole alle figure, il 97 per cento delle persone abbinò quella la figura a «takete» e quella tondeggiante a «maluma».1
takete
maluma
È l’emisfero destro del cervello che induce ad associare le labiali (m) e la
liquida (l) di «maluma» ai contorni morbidi, e le dentali (t) e la gutturale (k)
di «takete» a quelli rigidi. I due emisferi svolgono funzioni differenti: il sinistro governa la logica, la ragione; il destro è depositario dell’intuito, e
funziona per analogia.2 Ecco perché le parole non sono solo razionalità, ma
emozione.
Percepiamo parole tenere o aspre, carezzevoli o taglienti. Parole dure
piene di t e r. Parole veloci piene di z, s, tr. Zang tumb tumb: così è la guerra
per Filippo Tommaso Marinetti, caposcuola del Futurismo. Parole morbide
piene di m, n, p, b: mamma, nonna, papà, babbo, regine del linguaggio infantile.
E proprio i bambini ci insegnano che la geminazione (raddoppiamento
di una consonante) suscita emozioni rassicuranti. Così Giovanni Pascoli in
La mia sera:
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
.........
sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi…
Coccolino, un ammorbidente, deve la sua fortuna anche al copywriter
che ne ha ideato il nome: evocativo di coccole, morbide appunto. Forse non
dovremo essere esperti di naming (settore della pubblicità che studia i nomi dei prodotti), ma possiamo diventare più sensibili agli effetti inconsci
delle parole.
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Nomi di persona
Che cosa sono e come agiscono
La parola più emozionante che possiamo leggere è il nostro nome.
I nomi propri di persona sono parole magiche che avvicinano scrittore e
lettore in un’intesa confidenziale.
Iniziare una lettera con «Gentile signor Bianchi» produce un effetto diverso rispetto a «Gentile Cliente».
Esempi
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■
■
■
Anna, in riunione è andato tutto al meglio!
Luca, ho accolto l’offerta del direttore.
Capisci le mie titubanze, Paola?
Sì che ti capisco, Stefano, però avevamo deciso diversamente.
Leggere il proprio nome avvince l’interlocutore, sia quando gli si deve
dare una notizia positiva sia quando si dissente: nel primo caso lo si invita a
condividere il successo, nel secondo caso sfuma la delusione.
Nominalizzazioni/denominalizzazioni
Che cosa sono
Le nominalizzazioni sono parole processo (dinamiche) trasformate in
parole evento (statiche).3
Come agiscono
Spengono l’energia dei verbi, trasformandoli in sostantivi.
Esempi
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■
■
■
■
comunicare
cambiare
essere felici
amare
essere consapevole
➞
➞
➞
➞
➞
comunicazione
cambiamento
felicità
amore
consapevolezza
Possono allontanare il linguaggio dall’esperienza, creare fraintendimenti. Soprattutto quando esprimono valori.
«Lottiamo per la libertà» è una frase ambigua. La libertà è un valore che
ciascuno sperimenta a proprio modo. E a proprio modo scartabella l’archivio della propria esperienza, per recuperarne il senso.4 Se si vuole scendere
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nel dettaglio, si deve denominalizzare: si recuperano le informazioni cancellate, e si riporta il nome a verbo: «Lottiamo per essere liberi».
Attenzione, però. Come si è già detto, la nominalizzazione può essere
d’aiuto: velocizza la scrittura, la fluidifica, la generalizza.
Avverbi utili e avverbi dannosi
Che cosa sono e come agiscono
La comunicazione ha due livelli: uno esplicito e uno sommerso. La parte
sommersa è quella dei presupposti linguistici:5 senza di loro le parole di una
frase non avrebbero senso.
A questa categoria appartengono gli avverbi di cambiamento, gli iterativi, quelli di giudizio: già, tuttora, ancora, di nuovo, necessariamente ecc.
Esempi
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■
■
Lascia che scriva ancora due righe.
Tuttora emergono i dubbi.
Giustamente ti sei risentito.
Questi avverbi sono utili, economici ed emotivi. Fanno risparmiare parole e chiarimenti, e permettono di condividere un’esperienza con il lettore.
Altri avverbi sono dannosi: molti di quelli in -mente, per esempio, denotano una cancellazione. Possono persuadere, perché trasformano una valutazione soggettiva in evidenza:
■
■
Ovviamente a lei non importa.
Naturalmente era in buona fede.
Tuttavia hanno un suono sgradevole, e possono dare la sensazione che si
stia, appunto, mentendo:
■
■
È gradevolmente intervenuto al dibattito.
Firmeremo il contratto sicuramente.
Predicati temporali: la «time-line»
Che cosa sono
Sono verbi e avverbi che esprimono lo svolgimento di un’azione nel
tempo: continuare, smettere, cominciare; già, ora, mentre, ancora, più, prima, durante, dopo, poi ecc.
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Come agiscono
Indirizzano il lettore a percepire uno stato o un evento come passato,
presente o futuro.
Esempi
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■
■
Non sei più interessata alla mia offerta?
Se sei ancora favorevole al progetto, ti prego di continuare ad aderire.
Ti sei già arreso? Provaci ancora.
Prima di essere tradotto in parole, il tempo è una percezione. Già Aristotele ne ha esplorato la dimensione soggettiva e lo ha descritto in termini di un
«prima» e un «dopo», marcati dalle nostre azioni ed emozioni. È il concetto
di time-line, la linea del tempo, vale a dire il modo in cui percepiamo immagini, suoni e sensazioni, e li disponiamo nel nostro passato, presente o futuro.
passato
presente
futuro
Un uso accurato dei predicati può sfumare un problema, spostandolo nel
passato, o rinvigorire una speranza, collocandola in un futuro prossimo:
A Sembra una decisione rischiosa!
B Be’, prima sembrava rischiosa, ma se la consideri ora, cominci a capire
quanto è interessante.
A Se ci fossimo già incontrati avremmo chiarito.
B Ci incontreremo presto per chiarire ogni dubbio.
Tempi e modi dei verbi
Come agiscono
Alcuni verbi piuttosto che altri offrono informazioni su come vengono percepite e interpretate le esperienze. Questo vale anche per l’uso di tempi e modi.
Esempi
■
■
■
■
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■
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Se provi, puoi toccare con mano l’infondatezza dei tuoi dubbi.
Se proverai, potrai toccare con mano…
Se provassi, potresti toccare con mano…
Proveresti, e potresti toccare con mano…
Prova, tocca con mano…
Provando e toccando con mano…
L’indicativo è concretezza: una realtà percepita e trasmessa in modo nitido e sicuro (presente) o più sfumato (futuro). Il congiuntivo e il condizionale esprimono ipotesi (più deboli, quindi). L’imperativo è forte, a volte anche
troppo. Il gerundio è freddo, impersonale, poco motivante: lascia troppe cose implicite, e appesantisce il tono con quegli -ando, -endo.
Un discorso a parte merita l’infinito. L’indeterminatezza qui è un punto
di forza: non pone limiti, né al tempo né all’energia:
■
■
Provare, per toccare con mano…
Provare, per credere.
Ma, però, tuttavia, e, mentre, anche se, nonostante ecc.
Che cosa sono
Sono congiunzioni che collegano periodi o parti di un testo, guidandone
l’interpretazione.
Come agiscono
Le congiunzioni ma, però, tuttavia, se, benché, e le locuzioni malgrado
che, anche se, nonostante che e simili, hanno un valore emotivo che trascende la loro funzione sintattica.
Esempi
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■
■
Ti credo, ma verificherò.
Tu sostieni questa versione, mentre i fatti ti contraddicono.
Hai voluto farlo, nonostante te l’avessi sconsigliato.
Chi legge il messaggio si concentra su «ma verificherò», «mentre i fatti
ti contraddicono», «nonostante te l’avessi sconsigliato». Vi legge un’accusa,
una rettifica, e sfuma quanto scritto poco prima. Di sicuro impatto in alcune
situazioni. Scrivere: «Ti credo, ma verificherò» è mettere il dubbio in primo
piano.
Per ridurre l’attrito, talvolta si usa la copulativa e, che unisce anziché disgiungere, oppure si ricorre a due versatili segni di punteggiatura, la virgola
e i due punti:
■
■
■
■
Ti credo, ma verificherò.
Ti credo, e verificherò.
Ti credo, verificherò.
Ti credo: verificherò.
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«Junko logic»
Che cos’è
È una strategia sintattica: indica l’apparente connessione tra affermazioni del tutto indipendenti. Non le unisce la logica, ma l’emotività.
Come agisce
Invita il lettore a cedere al fascino di presunte correlazioni di causa/effetto e di arbitrari presupposti.
Esempi
■
■
■
Visto che mi conosce, le sarà persino più facile credermi.
Mentre leggerai quello che ti dirò, avrai chiari i tuoi obiettivi.
Vuoi essere felice? Allora guarda qui.
La mente crede anche a connessioni che non hanno alcun senso logico.
Attribuisce una relazione a frasi indipendenti, solo perché le legge giustapposte. Ciò avviene grazie ai connettivi e, se, poi, non appena, mentre.
Se si inserisce in una porzione di frase il comando nascosto e nell’altra
uno stato desiderabile per il lettore, sarà per lui naturale protendersi verso la
meta che gli si propone.
Punteggiatura
Che cos’è
È il repertorio dei segni che potenziano/depotenziano/cambiano il senso
di una frase. O almeno la sua percezione da parte del lettore.
Come agisce
Dà il ritmo alla frase: pause, intonazioni, sospiri, emozioni. Il punto offre riposo, la virgola respiro. I due punti verità e promesse. I puntini di sospensione stuzzicano. Il punto esclamativo coinvolge (a volte sbraita).
Del punto interrogativo, be’, che dire, quante volte celebreremo il suo
incanto?
Parentesi e trattini racchiudono microcosmi: un altro registro, una precisazione, un inciso.
L’asterisco è un richiamo. Se triplo, protegge l’anonimato:
Il padre Cristoforo da *** era…
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Il punto e virgola annebbia i contorni dei concetti. Perciò è in disuso. Le
virgolette, invece, sono spesso abusate. E per smussare un concetto, rischiano l’effetto contrario:
Diciamo che la tua proposta è stata un po’ «spinta».
Al di là delle regole, ognuno ha le proprie idiosincrasie: sceglie di evidenziare parole e struttura come meglio crede. La fretta però inganna: induce a utilizzare la punteggiatura con approssimazione. Il rischio è di essere
ambigui o sottovalutare la carica emotiva del messaggio.
Caro professore, ho trascorso l’estate a pensare cosa mi ha fatto studiare lei,
a lezione. Quest’anno mi ha chiarito mille modi in cui potrei accontentarla
con la preparazione che mi ha dato. Riuscirò ancora di più l’anno prossimo a
migliorare il mio rendimento.
Così viene da pensare a un’allieva che ha stima dell’insegnante. Ma se i
punti e le virgole si spostano, cambia tutto.
Caro professore, ho trascorso l’estate a pensare cosa mi ha fatto. Studiare lei,
a lezione, quest’anno mi ha chiarito mille modi in cui potrei accontentarla.
Con la preparazione che mi ha dato riuscirò ancora di più l’anno prossimo a
migliorare il mio rendimento.
La punteggiatura indica come viene vissuta l’esperienza. Insomma, prima di essere una regola di grammatica, è un fatto mentale ed emozionale.
Sia che si scriva sia che si legga.
Intonazione
Che cos’è
Quando si parla, non si mantiene costante l’altezza dei suoni: si in-tona
la pronuncia. L’intonazione registra appunto le variazioni di tono di una frase, le diverse altezze dei suoi fonemi.6
Nello scritto, tutto è concentrato sulle parole: quali si scelgono, come si
dispongono, quale punteggiatura si usa.
Come agisce
L’ordine delle parole ha una precisa funzione emotiva: mostra quale elemento si vuole enfatizzare.
53
Esempi
■
■
■
Ho aspettato il tecnico per ore in strada.
Per ore ho aspettato il tecnico in strada.
Il tecnico l’ho aspettato in strada per ore.
Le parole, inoltre, hanno un suono. E proprio i suoni e i loro accenti formano il ritmo, il rapporto tra sillabe atone e toniche.7 Anche il ritmo veicola
emozioni: un andamento concitato non potrà esprimere noia o rassegnazione. Il ritmo giambico, per esempio, nel suo alternarsi di sillabe atone e toniche, ben testimonia la concitazione o la rabbia:
■
Finì così perché mentì.
I suoni si avvicinano in sillabe, si attraggono in parole, si uniscono in
frasi: nasce così la «curva melodica», il gioco tra le altezze dei fonemi. E
l’intonazione musicale è di sensibile importanza in alcune situazioni, come
nel parlare affettivo (le parole d’amore, appena sussurrate) e nelle diverse
funzioni sintattiche della frase.8
Si noti come cambia l’intonazione della frase, quando viene pronunciata
sotto forma di domanda, affermazione o comando:
■
■
■
Firmiamo il contratto domani?
Firmiamo il contratto domani.
Firmiamo il contratto domani!
d o m a n d a :– intonazione ascendente
a f f e r m a z i o n e :– intonazione piana
e s c l a m a z i o n e , c o m a n d o :– intonazione discendente
La differenza è nella curva melodica. Se sale, si esprime una domanda.
Se scende, un comando. L’intonazione ascendente delle domande è molto
efficace: induce l’interlocutore a rispondere, riabbassando il tono.
L’accento tonico delle parole, invece, può cadere sull’ultima, penultima,
terzultima o quartultima sillaba. E formare così parole tronche (città, caffè),
piane (lìbro, versaménto), sdrucciole (attitùdine, leggìbile) o bisdrucciole
(véndimelo, telèfonaglielo). La parola tronca a fine frase, per esempio, enfatizza la curva melodica della domanda:
■
■
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Pensi che verrà?
Credi a tutto ciò?
L’accento sull’ultima sillaba, infatti, supporta l’intonazione in crescendo
della domanda, e la interrompe in prossimità della sua acme: passa così repentinamente la parola all’interlocutore.
Se l’accento indietreggia, la forza ascendente della domanda sfuma:
Credi a tutto quésto?
Accade il contrario nell’esclamazione: la sillaba tronca in chiusura compensa in parte l’abbassamento tonale. La curva melodica discendente è trattenuta da quella sillaba, che spinge, renitente, in fondo alla frase:
Credi a tutto ciò!
Domande di comprensione
Che cosa sono
Sono le domande introdotte da perché?, come?, chi?, che cosa? e simili.
Come agiscono
Arricchiscono le mappe mentali, ampliano le risorse, creano sintonia con
l’interlocutore.
Esempi
■
■
■
Come hai risolto la questione?
Che cosa ti sei prefisso?
Perché non me ne hai parlato?
La domanda stimola apprendimento, creatività, cambiamento. E specifica quali informazioni si desidera ricevere. Con la domanda «che cosa?» ci si
sofferma su un evento, un comportamento. Con «come?», sulle strategie, le
modalità. Con «perché?», sulle credenze e i valori.
■
■
■
Che cosa hai fatto?
Come l’hai fatto?
Perché l’hai fatto?
Rivolgere la domanda «perché?» equivale a scandagliare i significati
comportamentali. Vuol dire addentrarsi nel privato del lettore, nelle sue intime motivazioni. Non è detto che lo gradisca. Può avvertire la domanda come intimidatoria, o inquisitoria, o troppo confidenziale, e rispondere con
55
una chiusura. E infatti se si chiede «Perché ti senti in colpa?», il lettore potrebbe rispondere «Perché sì».
Diverso è invece chiedere «In che senso ti senti in colpa?», oppure «Su
che cosa ti senti in colpa?».
Ricalco interrogativo
Che cos’è
È una particolare domanda di comprensione: l’ultima affermazione dell’interlocutore ripetuta sotto forma di domanda.
Come agisce
Crea rapport con il lettore.
Esempi
A Inoltre avrei bisogno di maggiore considerazione.
B Vuoi maggiore considerazione? Allora potresti…
A Vorrei farle capire quanto sia importante ottenere l’invito alla presentazione.
B Ottenere l’invito? Bene, credo sia opportuno…
È una tecnica che funziona bene nei «botta e risposta»: per esempio, nell’e-mail, nei forum, in chat. Si calibra e si ricalca il lettore, si crea sintonia,
si presta attenzione ai suoi bisogni espressi. E di solito il lettore ripagherà:
si sentirà capito e si aprirà.
Domande guida
Che cosa sono
Sono domande retoriche che chiedono la conferma di quanto appena affermato.
Come agiscono
Ricercano il consenso dell’interlocutore.
Esempi
■
■
■
56
Intuizione geniale, vero?
Investimento oculato, giusto?
Una scelta fortunata, ti pare?
La lingua inglese si avvale spesso di queste formule, chiamate «question tag»: domande retoriche che rispondono a uno schema obbligato:
●
●
frase affermativa + negative tag:–«Abbiamo ancora molti aspetti da approfondire, no?»; «L’efficacia è importante, non credi?».
frase negativa + positive tag:v«Non abbiamo perso tempo, vero?»; «Non
è un caso, ti pare?».
La lingua italiana è più flessibile: permette di connotare la domanda come si vuole, enfatizzandone il lato positivo o negativo. E dal punto di vista
neurolinguistico, sempre meglio la prima opzione: scrivere «Possiamo farcela, vero?» piuttosto che «Possiamo farcela, no?» offre ben altro vigore al
nostro stimolo.
Questa costruzione si presta anche ad altri scopi: chiedere garbatamente
o esortare.
Nel primo caso la domanda serve a ottenere un’informazione o un aiuto.
Si può domandare: «Dov’è l’ufficio spedizioni?», oppure «Mi dice dov’è l’ufficio spedizioni?».9 O ancora: «Sa dirmi dov’è l’ufficio spedizioni, vero?».
Si può stimolare la risposta: la domanda è sprone, invito, comando.10
■
■
■
Ascoltami, vuoi?
Ascoltami, puoi?
Ascoltami, non puoi?
(invito)
(comando amichevole)
(amichevole, con una punta di polemica)
Nel secondo caso, la forza delle domande è evidente soprattutto quando
si susseguono per far rispondere sempre «sì» al destinatario: È questo un
modo per suscitare in lui un’emozione positiva:
■
Vuoi essere tranquillo? Vuoi goderti le ferie? Vuoi essere soddisfatto delle
tue scelte?
Domande banali? Tutt’altro: suadente stimolo per quei piccoli sì che
convincono gli interlocutori.11 E a questo punto già si intuisce che «convincere» è «vincere insieme».
«Win/win»
Che cos’è
Dal verbo inglese to win, «vincere». Nell’accezione di con-vincere,
«vincere con»: io vinco/tu vinci. Vinciamo insieme.
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Come agisce
Si pensi alla pubblicità: per Vance Packard i pubblicitari sono «persuasori occulti».12 Anche chi padroneggia la scrittura è visto come un prestigiatore. Ed è vero. Ma la magia della scrittura è anche questo: l’idea può essere
davvero buona, l’argomentazione efficace. E la soluzione positiva per entrambi: scrittore e lettore.
Il vantaggio di questo atteggiamento è che il lettore continua a giocare,
perché recepisce uno scambio proporzionato. È anche una strategia per prevenire un conflitto, o affrontare e risolvere una resistenza.
Come esprimere l’atteggiamento win/win nella scrittura? Sempre mettersi nei panni dell’interlocutore. Meglio, diventare l’interlocutore. Scrivere
come si vorrebbe leggere.
Incorporazione
Che cos’è
È una tecnica che assorbe possibili elementi di disturbo, per trarne beneficio anziché danno.
Come funziona
Si applica molto bene ai discorsi in pubblico, e nelle comunicazioni visà-vis. Anche nella scrittura, quando un elemento esterno all’argomentazione
rischia di togliere attenzione o credibilità al nostro messaggio.
Esempi
■
■
■
■
E mentre percepiamo i rumori che vengono dall’esterno…
E mentre sentiamo il telefono squillare, possiamo compiacerci di come la
nostra concentrazione rimanga salda…
Anche in questo momento, di grande attenzione ai costi, possiamo dirigere
i nostri pensieri allo sviluppo delle nuove competenze…
La competizione si fa sempre più accanita, e noi riusciamo ugualmente ad
affermare il nostro stile.
Nella scrittura, questa tecnica dà il meglio di sé quando si usa la funzione emotiva del linguaggio: ogni percezione, ogni palpito, pur imprevisti,
possono accendere la creatività.
Maestro è stato Giacomo Leopardi. In L’infinito ogni elemento di disturbo è incorporato e trasformato in stimolo emozionale:
58
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura.
Improbabile che il lettore condivida il nostro ambiente, avverta lo stesso
suono, gioisca o rabbrividisca per la stessa scena. Sarebbe lì con noi, e la
magia verrebbe dalla voce, non dalla scrittura. Ma possiamo coinvolgerlo
nella percezione che ci avviluppa.
È un altro maestro, Gabriele D’Annunzio in La pioggia nel pineto, a
suggerirci come:
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
................
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo.
Lo stesso nella pubblicità:
Sst… silenzio: parla Agnesi.
Ristrutturazione
Che cos’è
È la trasformazione del significato di un’esperienza.
Come agisce
Quando intravediamo comportamenti efficaci, siamo portati a emularli:
ampliamo così le nostre prospettive. Non è detto che accada sempre, e spontaneamente. E soprattutto che accada al nostro lettore. Ma è una trasformazione che possiamo favorire, per superare una convinzione limitante e per
creare sintonia. Punto di inizio è accettare di relativizzare ogni esperienza: il
bicchiere mezzo pieno, da un’altra prospettiva, è anche mezzo vuoto. O viceversa.
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Esempi
Esistono due tipi di ristrutturazione: del contesto e del contenuto. La ristrutturazione del contesto dimostra che un comportamento, un’abitudine,
una caratteristica che in alcune situazioni sono giudicati fallimentari, in altre si rivelano utili:
■
■
■
Sei pignolo: non ti facilita nei rapporti interpersonali, ma nel lavoro ti dà
una marcia in più.
La sua smodata ambizione le sarà utile per la carriera.
Insegue sempre le fantasie: questo la aiuta nella scrittura creativa.
Motivare il lettore, spingerlo a valutare le proprie caratteristiche come
possibili punti di forza, crea rapport e favorisce la guida.
La ristrutturazione del contenuto, invece, interpreta una frase non riuscita, un’espressione stonata come esiti di una buona intenzione. Risultato e
intenzione non sempre coincidono. Può essere necessario rivedere il senso
che diamo a un evento:
■
■
Invece di apprezzare i miei sforzi, è rimasto impassibile!
Non è stimolante trattare con una persona che evita conclusioni affrettate?
Scommetto che non ne conosci molte che avrebbero fatto altrettanto!
Talvolta si ristruttura anche per superare le barriere che si frappongono
con il lettore, così da sintonizzarsi sul suo sistema rappresentazionale.
La ristrutturazione è utile anche nella gestione delle obiezioni e nei «con
& pro».
Gestione delle obiezioni
Che cos’è
Le obiezioni sono forme di resistenza. Gestirle significa semplicemente
superarle, trasformandole in cooperazione.
Come agisce
Spesso le obiezioni dell’interlocutore sono solo il prodotto delle resistenze e dei pregiudizi accumulati nei suoi confronti: la sua risposta alla
fretta con cui è stata impostata la comunicazione.
Talvolta basta dimostrare interesse verso il lettore: se già lo si conosce, ricalcandolo. Se non lo si conosce, calibrandolo, e poi iniziando a ricalcarlo
con prudenza. Se l’obiezione si presenta ugualmente, è il momento di modifi60
care qualcosa.13 Controproducente mettersi sulle difensive: una smentita è interpretata in genere come contrattacco, e aumenta l’ostilità. Meglio trovare
un’area di accordo. Che significa trovare un punto di contatto, per esempio
mostrando di apprezzare le ragioni del lettore. Senza rancore o sarcasmo.
Esempi
A Dobbiamo predisporre l’incontro che le ho prospettato per riorganizzare
l’ufficio con criteri più produttivi.
B Spiacente, ma come le ho scritto non ritengo risolutore questo intervento.
Abbiamo tentato la stessa via pochi mesi fa ma non ha funzionato. Non abbiamo definito il problema e abbiamo perso molto tempo.
A Credo abbia ragione sul fattore tempo. In effetti…
Così si sfuma la competizione, si crea cooperazione e ci si concede la
possibilità di indagare meglio l’obiezione del lettore. Magari si impara qualcosa dalla sua resistenza (la logica è sempre win/win).
Con & pro
Che cosa sono
Forse più noti nella formula «pro e contro», sono gli argomenti a favore
e a sfavore.
Come agiscono
Quando si propone un piano e si vuole convincere il lettore della bontà
dei propri argomenti, è meglio prima elencarli e metterli in discussione con
puntuali controargomenti. Giocare d’anticipo: si parte dalle possibili obiezioni, poi se ne sviscera la forza.
Esempio
Valuti le caratteristiche del nuovo prodotto. A fronte di alcuni svantaggi, i vantaggi sono evidenti:
svantaggi
vantaggi
❍. . . . . . .
❍. . . . . . .
❍. . . . . . .
❍. . . . . . .
❍. . . . . . .
❍. . . . . . .
Questa impostazione serve all’autore per comparare i punti forti e quelli
deboli della proposta. Poi serve al lettore: ha su di lui un impatto visivo ed
emotivo. Schematizzati su due colonne parallele, i con e pro connotano la
61
spazialità dei concetti. Sollecitano il sistema visivo in modo non verbale.
Come se si fosse lì, a commentare le argomentazioni con i propri gesti: di
qua / di là, da una parte / dall’altra.
Evidenziando le proprie debolezze, ci si dimostra imparziali: si guadagna fiducia. E si mettono in luce i pregi della proposta (che saranno, ovviamente, di più).
Via da / verso
Che cosa sono
Sono filtri con cui si selezionano e incanalano i dati.
Come agiscono
Aiutano a evitare problemi già vissuti o temuti (via da), oppure a muoversi nella direzione di un obiettivo desiderato (verso).
Esempi
■
■
■
■
Mi piacerebbe organizzare una vacanza lontano dallo stress. (via da)
Mi piacerebbe organizzare una vacanza dove rilassarmi e riposare. (verso)
Nel lavoro evito accuratamente le persone negative. (via da)
Nel lavoro amo circondarmi di persone positive. (verso)
Capita di chiedere a un amico i suoi progetti, e sentirsi rispondere
quello che non ha intenzione di fare: sa ciò che non vuole, lavora per non
impoverirsi, di tanto in tanto fa l’amore per fuggire l’apatia. È impostato
sul via da.
Eppure via da e verso non sono opzioni disgiunte, ma un continuum su
cui posizionarsi secondo l’umore, il contesto, gli interlocutori. Saper modellare ogni volta la comunicazione su via da o verso significa saper usare
la lingua del lettore, e ricalcarne la mappa:
■
■
Segua il mio consiglio, eviterà ogni fallimento.
Segua il mio consiglio, godrà piena soddisfazione.
Interruzione di schema
Che cos’è
È una tecnica che scombina i cliché e aggira le resistenze.
62
Come agisce
Le tecniche di interruzione di schema sono molte. Qui consideriamo
quelle legate alla scrittura, soprattutto nei botta e risposta tipici delle e-mail.
Esempi
Si può bloccare una resistenza interrompendo l’interlocutore, accumulando tante domande da non consentirgli repliche:
Che ne pensi? In che senso non sei d’accordo? Cosa proponi? Quali aspettative hai?
Oppure si può evitare di rispondere al messaggio dell’interlocutore,
sviandone l’attenzione:
A Questo non è possibile perché…
B Ah, c’è un’altra cosa che voglio chiederti ed è che…
In entrambi i casi si blocca la strategia del lettore: i suoi processi mentali non completano il loro corso. Il disagio e lo smarrimento che ne derivano
inducono anche i più riluttanti ad aprirsi.14
Un altro metodo è la confusione. Se si scrive: «Quante volte sei stato
chiamato più volte prima di essere chiamato?», il lettore rimarrà confuso.
Oppure: «Mi rendo conto che ritieni giusto sviluppare flessibilità, ma sei
preoccupato che appaia ridicolo. Vuoi essere giustamente ridicolo o ridicolmente giusto?». Così verrà spiazzato. E se si aggiunge: «È giusto tu sia confuso dalla domanda, è una cosa così ridicola da chiedere. Ma non è ridicolo
che sia giusto rispondere in quel modo a una domanda ridicola?». Per poi
domandare: «Che ne pensi?». Il lettore, stordito, forse inizierà a ridere, e supererà l’obiezione.
La tecnica della confusione ammorbidisce l’interpretazione problematica di alcune parole. Libera il lettore dal suo stesso blocco, amplia la sua
mappa del mondo.
Un altro metodo, ancora, è di «tirar per le lunghe». Una strategia che si
autoalimenta:
A
B
A
B
A
B
A
Sono stupido, non riesco a fare questa cosa.
Come sai che non riesci a farla?
Me lo dice l’esperienza.
Come sai che l’esperienza ti dice proprio quello?
Perché ho già provato e non sono riuscito.
Come sai di aver provato e non essere riuscito?
Me lo ricordo!
63
B Come fai a ricordartelo?
A Posso verificarlo.
B In che modo puoi verificarlo?
Un circolo in cui qualsiasi output ridiventa input. Il lettore acquisisce
maggior consapevolezza dei propri meccanismi mentali. Talvolta conclude
che le sue certezze non erano così fondate.
«Swish pattern»
Che cos’è
È un’interruzione di schema. Una tecnica che rimuove la coazione ad
agire dettata da alcune abitudini o schemi mentali.15
Come agisce
Molti soggiacciono ad abitudini spiacevoli e non riescono a liberarsene.
Creano dentro di sé immagini in cui si vedono in preda a situazioni sgradite
e reiterate. Lo swish pattern, o schema della scozzata, consiste invece nel
creare una nuova immagine piacevole, capace di «scozzare», cioè di mischiarsi repentinamente con l’immagine negativa per poi scalzarla.
Individuo e visualizzo il comportamento sgradito, poi creo una seconda
immagine in cui compare il cambiamento desiderato. A questo punto faccio
scozzare le immagini sostituendo in loro qualche elemento: per esempio,
l’immagine negativa all’inizio sarà grande e luminosa, ma perderà queste
caratteristiche a vantaggio della nuova immagine.
immagine negativa
nuova immagine
nuova immagine
immagine negativa
La tecnica si applica con pari efficacia alla scrittura. È utile per presentare un progetto con le slide: nuove immagini, nuove parole, nuove frasi o formule, magari anche un po’ azzardate, potranno scozzare le precedenti, evidenziando la propria forza.
Altrettanto utile è l’applicazione alla scrittura quotidiana. Per esempio,
64
«La sua mancanza di puntualità la rende insopportabile», può essere diversamente formulata scozzando la frase così da depotenziarne la vecchia suggestione e volgerla in una nuova direzione: «Migliori la sua puntualità e
sarà affidabile come gli altri».
Note
KÖHLER, WOLFGANG, Gestalt Psychology, Liveright, New York 1929.
La scoperta della lateralizzazione del cervello si deve a Roger W. Sperry, premio Nobel per
la medicina nel 1981. Studi specialistici hanno confermato che il 70 per cento delle azioni
umane dipende dall’emisfero destro. Su queste basi è nata una scienza, la psicolinguistica,
che esamina le nostre modalità percettive e le conseguenti scelte comportamentali. Interessante, in proposito, il volume Qual è Takete? Qual è Maluma? (Angeli, Milano 2000), scritto
da Francesco Belli, esperto di marketing e comunicazione, e da Felix Sagrillo, ricercatore
psicolinguista (vedi anche: http://www.sperry.it).
3
Sulle nominalizzazioni vedi pagine 22 e 29.
4
È quella che la programmazione neurolinguistica chiama «ricerca transderivazionale».
5
Si tratta di proposizioni temporali e ipotetiche, verbi, aggettivi e avverbi che stanno prima e
sotto ciò che si scrive e hanno funzione di fondamenta (vedi pagine 25 e 31).
6
In linguistica, l’intonazione è un fattore prosodico. La prosodia studia gli aspetti fonologici
(relativi al suono) di sillabe, parole e frasi, quali timbro, altezza, intensità, durata e, appunto,
intonazione.
7
Nella realizzazione fonetica di una parola, l’accento evidenzia una sillaba con il rafforzamento dell’intensità della voce (accento intensivo o tonico), o con l’aumento dell’altezza
della voce (accento musicale).
8
In molte lingue africane e dell’Estremo Oriente, sull’accento tonico prevale quello musicale che distingue parole altrimenti identiche. Nello ewe, per esempio, una lingua sudanese,
una stessa sillaba può avere ben cinque toni diversi: variando la melodia, varia il significato.
9
Vedi anche i postulati conversazionali a pagina 42.
10
Vedi i comandi nascosti a pagina 39 e le domande nascoste a pagina 40.
11
Di fronte a una risposta negativa può insorgere la «paura del rifiuto». Ma si è visto che,
specie nelle trattative commerciali, l’interlocutore risponde in media cinque volte «no» pri1
2
65
ma di un «sì». Ogni rifiuto, dunque, è un passo verso l’assenso: dietro un «no» può nascondersi anche solo il desiderio di ulteriori informazioni. O una semplice obiezione, superabile.
12
PACKARD, VANCE, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958, 1980.
13
Polemica e silenzio sono due modi in cui il lettore manifesta il proprio disaccordo: entrambi gestibili con una ristrutturazione.
14
È la tecnica del «costruire aspettativa» di Milton H. Erickson, chiamata anche «accumulo»
da Richard Bandler e John Grinder. Si basa sul bisogno di realizzare le aspettative, cioè di
portare a termine qualcosa che appare già iniziato.
15
Tecnica ideata da Richard Bandler e ben descritta nel libro Usare il cervello per cambiare.
L’uso delle submodalità nella programmazione neurolinguistica (Astrolabio, Roma 1985,
pp. 118-36).
66
6
E... tutto ciò non ricorda qualcosa?
Retorica e modelli neurolinguistici
di Marzia Andreoni
LA persuasione non è cosa nuova. Il linguaggio è da sempre efficace quanto
più adopera figure retoriche. L’idea di persuasion engineering è dunque cosa positiva, presa di coscienza, rinnovamento. Non del tutto novità.
Attualizziamo allora le figure retoriche. Rispolveriamo un tesoro, restituiamogli la sua funzione di scintilla relazionale. Ridefiniamo il sistema retorico alla luce dei modelli neurolinguistici. Ridistribuendo il materiale secondo lo schema calibrazione-ricalco-guida, coglieremo schemi comunicativi che sono lì da millenni.
Ricalco e rapport
Sintonizzarsi sulla frequenza dell’altro. Utile scorrere un manuale di retorica. Nascosta fra le righe, la parola chiave ci avverte: «Attenti a come gli
altri mi usano e con che frequenza, perché indico un valore supplementare,
allusivo, evocativo, affettivo»; un sovrappiù di senso, che dalla struttura superficiale porta alla struttura profonda di chi parla o scrive e al suo modo di
percepire ed elaborare informazioni. Imparerò così a scrivere un testo che il
visivo leggerà con interesse, che l’auditivo percepirà nella sua melodia, che
il cenestesico gusterà a fondo.
Al visivo servirò su un brillante vassoio anafore, antitesi, chiasmi, climax:
●
anafora:–ripetizione di una o più parole; ribadisce e mette in evidenza
elementi chiave. In lucem proferre, dicevano i latini: puntare una torcia
perché il messaggio sia mirato e rimirato («Per me si va nella città dolente, / per me si va nell’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente»,
Dante, Inferno III,1-3);
67
●
●
●
antitesi:–accostamento di termini di significato opposto; il visivo la recepisce più in fretta, vedendola spiccare di fronte al suo esatto contrario
(«Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e
’nvolti», Dante, Inferno XIII,4-5);
chiasmo:–disposizione incrociata di elementi costitutivi di due proposizioni collegate; magica X, richiama l’attenzione e consolida i legami tra
i concetti («né il sol più ti rallegra / né ti risveglia amor», Giosuè Carducci, Il pianto antico);
climax:–progressione ritmica ascendente/discendente; una scala di
grandezze, misurabile dai visivi con il loro centimetro mentale («Il mal
mi preme e mi spaventa il peggio», Francesco Petrarca, Canzoniere,
CCXLIV).
Dicembre, agenzia di viaggi. Combiniamo questi elementi, e il visivo
partirà:
Allontana i tuoi occhi dall’inverno e alla luce tropicale rivolgi il tuo sguardo.
Vieni da noi. Vieni con noi. Fallo per te, per lei, per la vostra vita.
All’auditivo potrò bisbigliare (promo crociera per single):
Il vento sibila. Il mare sussurra. Il sole invita. RISPONDI. (Solo se sei solo).
All’anafora aggiungo allitterazioni, onomatopee, paronomasie:
●
●
●
allitterazione:–ripetizione di lettere o di sillabe dello stesso suono; sonorizza il testo. È la chiave per porsi in sintonia con un auditivo: per lui il messaggio deve vibrare, cavalcare le onde sonore e bussare al suo padiglione;
onomatopea:–armonia imitativa; è la voce delle cose. L’auditivo la sente,
le cose lo chiamano;
paronomasia:–accostamento di più suoni simili; come la filastrocca,
rafforza la memoria.
E sul vassoio del cenestesico? Sensazionali sinestesie.
●
sinestesia:–accostamento di più vocaboli che esprimono percezioni legate a organi sensoriali diversi; al cenestesico offre sensazioni altrimenti
deboli. Il linguaggio renderà tangibile, odorabile e assaporabile ciò che
non si può toccare, odorare, assaporare.
Gusta il mare d’inverno e il profumo di spiagge deserte.
Non limitarti ad accarezzare un sogno. Afferra l’occasione.
68
Guida
Si parla di guida da secoli. Dante con l’allegoria indicava l’exit dalla selva oscura: ancorava il lettore medievale a una sensazione di panico che riestraeva ogni qualvolta era sul punto di cadere in tentazione. E il più delle
volte metteva in bocca al suo duca, o alle varie anime, suggerimenti, ordini,
comandi nascosti (che lui chiamava allusioni). Li sollecitava con postulati
conversazionali (al tempo chiamati captatio benevolentiae).
– O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi, – cominciai – com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
(Inferno X,4-6)
E ancora:
Io li risposi: – Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin della città partita;
(Inferno VI,59-61)
Bei tempi quelli di Orazio che, libero da ogni morale, invitava il lettore a
godersela: «Ora cacciate col vino gli affanni» (Odi I,7,31).
Sfondo all’ode un freddo inverno (presupposto temporale). Fuori la bufera; dentro un fuoco che scalda gli animi. Antitesi esterno/interno, freddo/caldo, morte/vita. Vediamo i gesti del poeta commentare il discorso, collocare di qua e di là i concetti chiave dell’atto persuasivo.
E poi il celeberrimo carpe diem, marcatura analogica della poesia oraziana. Cogli l’attimo. Non è ormai verità universale (truismo)?
Il bagaglio retorico tocca la sfera emozionale: le frasi diventano evocative, invitano il lettore ad attivare le proprie risorse interne. Utile perciò perdere la performativa, operare una cancellazione (detractio: «omissione»
per gli antichi retori) con l’uso di indici referenziali generici (ellissi: eliminazione di alcuni elementi della frase). Cos’è, altrimenti, la preterizione? Si
finge di tacere qualcosa, che in realtà poi si dice (altro stratagemma per nascondere suggerimenti).
Sospettando il tradimento di Cinzia, il poeta Properzio l’avverte:
Non dico che strapperò le vesti dal tuo corpo di spergiura, né che la mia ira infrangerà la tua porta chiusa. Neanche oserei afferrarti per i capelli, tanto meno graffiarti
con le dure unghie dei pollici. (Elegie I,2)
69
E cos’è la reticenza? Interruzione di una frase o di un discorso, fatta in
modo che il lettore comprenda ugualmente quanto è stato omesso. Non è attivare in lui una ricerca transderivazionale, per indurlo ad attribuire «quel»
senso al discorso? Manzoni:
…e quando udì il nome di don Rodrigo, «ah!» sclamò, arrossendo e tremando, «fino a
questo segno».
«Dunque voi sapevate…?» disse Renzo.
«Pur troppo!» rispose Lucia, «ma a questo segno!»
«Che cosa sapevate?»
«Non mi fate parlare ora, non mi fate piangere […]»
(I promessi sposi II)
Come poi Renzo abbia recepito i comandi negativi della promessa sposa
è noto: la obbligherà a pagine di spiegazione (e di lacrime). Il divieto, si sa,
stimola l’infrazione.
Per chiudere, definiamo una tipica figura retorica:
C o n c e s s i o n e— Figura […] con cui si concede, cioè si ammette che l’avversario abbia ragione. L’ammissione può essere ipotetica […] o riguardare elementi secondari
del problema trattato. «Restringendo le pretese, abbandonando certe tesi, rinunciando a certi argomenti, l’oratore può rendere la sua posizione più forte […]».1
E paragoniamola al ricalco:
Ricalcare significa andare incontro all’altra persona nel punto in cui lui o lei si trova,
riflettendo quello che lui o lei sa o presuppone sia vero, o accordarsi ad alcune parti
dell’esperienza che lui o lei sta vivendo. […] Quando sei allo stesso passo dell’altra
persona lei è propensa a seguire il passo successivo che fai tu.2
Adattarsi all’altro per guadagnare credibilità. Non si inventa nulla. O almeno così ci pare.
Note
1
2
MARCHESE, ANGELO, Dizionario di retorica e di stilistica, 3ª ed., Mondadori, Milano 1981, p. 62.
RICHARDSON, JERRY, Introduzione alla PNL, Roberti, Bergamo 2002, p. 31.
70
7
Un nuovo terreno di ricerca
Conversazione con Claudio Belotti,
docente di PNL
di Alessandro Lucchini
HO conosciuto Claudio Belotti in un corso da lui tenuto a Milano. Mi ha
colpito la sua comunicativa, oltre alla grande preparazione. Per questo ho
seguito il suo corso con due tipi di attenzione: sui contenuti, e sul metodo
didattico.
Claudio ha studiato PNL con i maggiori esperti: John Grinder, Richard
Bandler, Ken Blanchard, Deepak Chopra, John Gray, Robert Dilts, John La
Valle. È socio di NLP Italy e codirettore della NLP Coaching School.
Gli rivolgo alcune domande sull’uso dei modelli neurolinguistici nella
scrittura. Claudio dimostra interesse perché – dice – è un tema cui la PNL
ha dedicato finora poca attenzione. Ciò aggiunge un pizzico di orgoglio allo
spirito di ricerca che ha animato questo libro.
Claudio, come si applica la PNL alla scrittura? Nella tua attività quali
metodi usi?
Quando creo una brochure, per esempio, cerco di entrare subito in ricalco. Pongo domande o affermazioni che «presuppongono»: «Vuoi migliorare
la tua vita personale o professionale?»; «Vuoi ottenere più di quello che desideri?»; «Vuoi sentirti più sicuro, motivato, felice?».
Uso molto i sistemi rappresentazionali. Se scrivo per un pubblico ampio,
per esempio brochure e newsletter, uso vocaboli di tutti e tre i canali (VAK), per
entrare in ricalco con ognuno. Quando rispondo a un’e-mail, invece, cerco il ricalco usando la stessa struttura e soprattutto gli stessi verbi usati dal mittente.
Perché soprattutto i verbi?
A livello inconscio la struttura mentale si muove principalmente grazie
ai verbi. Ricalcare i verbi è importantissimo, specie quelli sensoriali e gli
71
operatori modali, essenziali per creare rapport. Se un cliente ti scrive: «Voglio una soluzione così...»; «ho bisogno di questo...»; «mi piacerebbe...», ti
dà indicazioni precise sul proprio modo di operare. L’operatore modale è il
verbo che determina il modo di operare delle persone: è la combinazione
della sua cassaforte. Ricalcarlo in modo preciso aiuta a costruire una buona
relazione. Se io scrivo devo e tu rispondi puoi, il dialogo è difficile, perché
mi costringi a spostarmi su un altro modo di operare.
Altro strumento di ricalco è la nominalizzazione, che trasforma un processo in un evento finito (decidere → decisione, amare → amore). In questo
modo generalizza l’azione, sfuma i ruoli di soggetto-oggetto, e permette a
chi ascolta di sentirsi il diretto e unico destinatario del messaggio nominalizzato, rimanendone affascinato e convinto.
Sento una contraddizione: prima suggerivi di ricalcare i verbi, ora le
nominalizzazioni. Se scrivo per convincere, personalmente uso più verbi
che sostantivi.
Meglio se sono verbi non specificati, che lasciano al lettore la libertà di
interpretare e facilitano il ricalco, come le nominalizzazioni. Quando invece
ho già ricalcato e sono in rapport, se voglio passare alla guida uso i verbi
specificati, che indicano il processo e spingono all’azione.
Fondamentale è anche decidere la persona dei verbi. Se devo convincere
un lettore, comincio con un ricalco generale, con cui egli possa entrare subito in contatto. Se devo presentare un concetto nuovo, posso cominciare parlando di qualcosa che potrebbe essere capitato a tutti. Se sono già in rapport,
faccio riferimento a me stesso e parto con l’io, che poi diventa tu e infine
noi; oppure comincio con il noi, per poi cercare di condividere la mia esperienza con gli altri (per esempio, «Sarà capitato anche a voi…»).
Così ci spostiamo dal ricalco alla guida.
Certo. Il ricalco è solo una fase intermedia del rapport: l’obiettivo è la
guida. A proposito di guida e di verbi, cambiando i tempi verbali posso guidare l’attenzione del lettore sulla linea del tempo (time-line). Per esempio,
posso illustrare i vantaggi della mia proposta parlando al futuro: «Quali risultati potrai ottenere con la PNL?». Poi passo dal futuro al presente: «Questo corso ti permette di...»; «Con questo corso impari a...». Grammaticalmente non è proprio corretto, ma è efficace: rivolgo la prospettiva al futuro
pur rimanendo nel presente, proietto l’immagine in avanti. Infine posso ricavare un riquadro e titolarlo «Abilità che avrai imparato». Il lettore mentalmente si volge indietro e guarda che cos’ha imparato: come se avesse già
deciso.
72
Strutture che agiscono a livello inconscio, dunque. Certo molto efficaci
nel dialogo interpersonale: è così anche nella scrittura?
Nel dialogo alcuni metodi ipnotici mandano in sovraccarico la mente dell’ascoltatore, che perde il filo del discorso ed entra in una sorta di trance, di
rilassamento; chi parla riesce così a scavalcare lo strato razionale. Lo stesso
può accadere nella scrittura, se intendiamo narrativa o poesia. Nel business
writing è più difficile: il rischio è quello di generare confusione, e la confusione non è molto apprezzata nel lavoro, come non sono apprezzate le persone confuse o che confondono. Però si può creare un effetto di rilassamento,
per esempio in una presentazione con le slide, sostituendo un’informazione
precisa e dettagliata con una metafora, un aneddoto. Se poi scelgo bene anche la formula di cambio slide (per esempio, tutto a dissolvenza nella parte
metaforica, poi a veneziana quando arrivo al punto chiave) interrompo uno
schema e stimolo al massimo l’attenzione sul mio messaggio.
Le slide sono una buona applicazione per tutto questo, essendo una
scrittura vicina al parlato. Per esempio, quando paragono una tecnica utile
a una inutile o dannosa, posso usare lo «swish»: presento la soluzione dannosa con una grafica grigia e fiacca, poi inserisco in un angolino quella positiva e luminosa, e la espando di colpo, giusto?
Certo, funziona. Del resto, lo swish si fonda sul modello classico della
comparazione, aggiungendo l’energia della sostituzione rapida. Guarda lo
spot TV del detersivo Sole: all’inizio le due persone discutono, in uno sfondo bianco e nero, del dilemma «risparmio senza qualità o qualità senza risparmio»; d’improvviso il contesto s’illumina e prende colore proprio quando la scelta cade sul prodotto pubblicizzato. Il tutto in 30 secondi.
Se esamini anche il posizionamento dei prodotti in un supermercato, noti
che il consumatore tende ad associare il proprio umore, e la posizione fisica
che deve assumere per servirsi di un certo prodotto, al prodotto stesso: più in
basso si trova un prodotto negli scaffali, più «bassa» sarà la sua percezione.
O meglio, come ci indicano i movimenti oculari (vedi figura a pagina 74),
più legata sarà alle condizioni di dialogo interno o di cenestesia. Se il consumatore è in uno stato favorevole all’acquisto, possiamo anche permetterci di
«giocare» sulla cenestesia; altrimenti è preferibile posizionare il prodotto ad
altezza occhi, così si va sul visivo e quindi sull’immaginazione.
A proposito di movimenti oculari, ho riflettuto sulla loro influenza nella
scrittura. Esistono metodi che analizzano i movimenti oculari nella lettura
di testi web («eye-tracking»), e danno informazioni sui processi cognitivi
del lettore. Il nesso tra movimenti oculari e impostazione grafica della pagina è oggetto di studio dell’usabilità. Ma credo che valga anche per una let73
I movimenti oculari rivelano in parte le strategie di pensiero delle persone
VR
Occhi in alto a sinistra:
visivo ricordato (VR). La
persona ricorda una situazione, vede un concetto, si aiuta a costruire il discorso con la memoria visiva.
AR
Occhi al centro a sinistra: auditivo ricordato
(AR). Sente dei suoni o
delle voci (esterne e/o
interne); ricorda un dialogo, una conversazione.
DI
Occhi verso il basso, a
sinistra, spesso con testa inclinata: dialogo interno (DI). Sta riflettendo, pensa ad alta voce o
parla fra sé.
K
VC
AC
Occhi verso il basso, a
destra: cenestesia (K).
Sta provando delle sensazioni, delle emozioni,
piacevoli o spiacevoli, o
sta prendendo una decisione.
Occhi in alto a destra:
visivo costruito (VC). Si
sta costruendo un concetto. Per esempio, immagina cosa avverrebbe
se accettasse una proposta.
Occhi al centro a destra: auditivo costruito
(AC). Sta costruendo il
proprio discorso, cerca
argomenti razionali, parole chiave, concetti da
esporre.
tera. Non sarà un caso che il logo si metta quasi sempre in alto a sinistra,
incidendo sul visivo ricordato (identità); né che la firma vada in basso a destra, area della cenestesia (personalità dell’autore); né che le argomentazioni logico-razionali si mettano nella parte centrale, quella del richiamo
auditivo (concetti, parole chiave).
Già. Confesso che non ci avevo mai pensato. È un buon terreno di ricerca. Io non uso molto le tecniche legate ai movimenti oculari; c’è un trainer
di PNL che le usa moltissimo, Ted James. In aula ha sempre due lavagne:
scrive gli argomenti nuovi su quella di destra (concetti da costruire), quelli
noti su quella di sinistra (concetti da ricordare). Anch’io uso diverse lavagne
in aula, ma più che altro per poter gestire i contenuti in modo sistemico,
aprire molte parentesi, ancorare determinati concetti allo spazio ecc.
Tornando a calibrazione e ricalco: ha senso calibrare e ricalcare, oltre
al registro stilistico, anche la punteggiatura e la sintassi dell’interlocutore?
Io cerco di ricalcare tutto. Nelle e-mail no, ma nelle presentazioni e nei
74
progetti scritti a mano cerco perfino di usare lo stesso colore di inchiostro.
In calibrazione, poi, mentre leggo cerco di capire la mappa mentale dell’autore, sapendo che dietro ogni ma, però, se, allora c’è una convinzione. Per
esempio, ricevo una e-mail che dice: «Potremmo consegnare il progetto entro la data concordata, ma ritengo che il lavoro richiederà più giorni di ricerca». Il ma è avversativo, quindi nega ciò che viene prima, a causa di ciò che
viene dopo. Deduco che, nel sistema di convinzioni di chi mi scrive, il valore tempo/calma è più importante del valore puntualità.
Fino a che punto può spingersi la calibrazione? Ha senso cercare di
tracciare un profilo della persona?
Calibrando la scrittura possiamo capire le intenzioni dell’autore, individuando i suoi metaprogrammi. I metaprogrammi (la PNL ne indica 50) sono leve decisionali inconsce, schemi di pensiero che ci portano a prestare attenzione a una cosa o a un’altra, a cancellare alcune informazioni, a deformarne altre, a adottare una strategia di decisione o un’altra. Calibrare i metaprogrammi di chi ci scrive facilita il ricalco. Per esempio, alcune persone
basano la loro vita su ciò che è successo nel passato, altre sul presente, altre
sul futuro. Se uno mi scrive: «Vorrei venire in vacanza nel vostro albergo
poiché ho già frequentato la vostra zona e mi sono trovato bene. Anche alcuni amici me ne hanno parlato bene. Vorrei ripetere l’esperienza...», capisco che il suo orientamento del tempo è nel passato. E capisco anche altre
cose. Capisco che la sua leva motivazionale non è «via da», ma è «verso»,
cioè è una persona che si muove per raggiungere un obiettivo (verso), più
che per evitare problemi temuti (via da); capisco che il suo indice referenziale è esterno, cioè non si fida delle proprie sensazioni e cerca testimonianze prima di prendere una decisione. Posso dunque rispondergli: «Gentile signor ..., la ringrazio per la sua e-mail. In passato altri clienti con esigenze simili alle sue hanno trovato il nostro albergo all’altezza dei loro desideri. Le
propongo una soluzione che ha già dimostrato di garantire...».
Ancora, alcune persone hanno un metaprogramma comparativo che cerca sempre le somiglianze negli argomenti di cui discutono (matching), altre
persone cercano sempre le differenze (dismatching). Anche questo facilita il
ricalco.
I metaprogrammi, comunque, non sono caratteristiche fisse di una persona, variano secondo lo stato d’animo e il contesto: scegliendo un albergo
potrei essere «verso» e «matching», scegliendo un cappotto potrei essere
«via da» e «dismatching». La calibrazione dev’essere perciò accurata e specifica.
75
Anche nel vostro sito web (www.pnl.info) userete la PNL. Mi citi un messaggio in home page costruito con i modelli neurolinguistici?
«La differenza che fa la differenza.» In questo slogan ci sono diversi modelli: anzitutto due nominalizzazioni e un verbo non specificato. Poi: mancanza di indice referenziale (quale differenza?), cancellazione semplice (fa
la differenza dove?), comparazione mancante (differenza rispetto a che cosa?), performativa persa (chi lo dice?). Non dice niente. O dice tutto.
Immagino che queste scelte siano ormai istintive per te. Ricordi un episodio in cui hai invece applicato volontariamente i modelli della PNL nella
scrittura?
Avevo tenuto un corso con Anthony Robbins. Aspettavo il pagamento
del mio compenso, che tardava. Piuttosto che scrivere alla contabile «Mi hai
mandato l’assegno?», che sarebbe stato poco delicato, le ho fatto una domanda indiretta: «Mi chiedevo se hai già potuto spedire l’assegno, perché
non mi è arrivato». Lo chiedevo a me, non a lei. Ovviamente, risposta immediata e molto gentile.
Funziona così anche negli SMS, ma solo se riusciamo a superare la mania di abbreviare sempre tutto, e ci concediamo qualche forma magari
grammaticalmente inutile (come appunto le domande indirette), ma neurolinguisticamente efficace. Un «ciao» alla fine, per esempio, può cambiare la
percezione del lettore. Alcuni mi scrivono SMS senza neanche mettere la
firma, pensando che io abbia memorizzato il loro numero, e quindi presupponendo di essere molto importanti per me. È sempre imbarazzante dover
rispondere «Chi sei?».
Nella prefazione al libro «Persuasion engineering» di Richard Bandler,
una nota sottolinea che la PNL e la grammatica non condividono necessariamente le stesse strutture. Poiché questo libro parla di scrittura, dove la
correttezza formale ha più peso che nel parlato, mi aiuti a comporre questa
divergenza?
Non si tratta di divergenza. Torno a quello che dicevo poco fa: noi studiosi di PNL non diciamo certo che la grammatica non serve. Diciamo solo
che a volte preferiamo concederci un errore di grammatica, ma avere un’efficacia maggiore.
Allora non si tratta di non condividere le stesse strutture: si tratta di scegliere lo stile più efficace. Se è così, anche le figure retoriche (anacoluti,
anafore, climax, metafore ecc.) sono forzature linguistiche mirate all’efficacia. Proprio come l’equivalenza complessa o la performativa persa. Licenze prosastiche. Giusto?
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Giusto. Se uno mi scrive che «da Giovanni è il miglior ristorante di Milano», grammaticalmente non potrei fare ricalco-guida rispondendogli che
«da Giovanni è il miglior ristorante di Milano» e «da Peppino è ancora meglio»: il superlativo assoluto non me lo permetterebbe. Però funziona.
Per concludere, Claudio, un tuo commento a questo libro su neurolinguistica e scrittura. Mi sto chiedendo (domanda indiretta) se vuoi farci gli
auguri.
Te li faccio volentieri, anche perché nessuno in Italia aveva mai condotto
uno studio del genere, e forse neanche nel mondo. Esiste un libro in inglese,
The Power Process,1 ma è sul processo creativo, non sull’applicazione dei
modelli. Avete aperto un nuovo terreno di ricerca. Del tutto in linea con uno
dei principi chiave della PNL: ampliare la propria esperienza, per avere più
scelte e quindi comunicare meglio con gli altri.
Note
HICKMAN, DIXIE ELISE - JACOBSON, SID, The Power Process. An NLP Approach to Writing,
Crown House, Williston (VT) 1997.
1
77
Parte seconda
Le applicazioni
Fin qui abbiamo analizzato i modelli
neurolinguistici impiegabili nella
scrittura. Nelle prossime pagine
esaminiamo alcune applicazioni
di questi modelli in diversi settori
della comunicazione.
A volte l’esame riguarda più la parte
neurologica, ossia la mappa che
ogni esperienza crea nella mente
delle persone e poi determina
il loro modo di esprimersi;
altre volte si concentra sulla parte
linguistica, analizzando strutture
e stili dei testi.
Per praticità di lettura, le applicazioni
sono disposte in ordine alfabetico:
dalla A di «advertising» alla Z
di «zitti tutti!».
Advertising
Dallo spot al dialogo
di Paolo Iabichino
QUANTI dei nostri copywriter hanno familiarità con i modelli neurolinguistici? Confesso di aver scoperto solo di recente la PNL e mi sono accorto
di quanto essa, in realtà, vada già a braccetto con il nostro advertising, forse inconsapevolmente. E ho provato a chiedermi di chi sia il merito. O la
colpa.
La persuasione pubblicitaria è ancora occulta?
Era il 1957, e mentre in America si pubblicava I persuasori occulti di
Vance Packard,1 in Italia il 3 febbraio andava in onda la prima puntata di
Carosello.
Per quanti, come me, hanno cominciato a frequentare l’advertising una
trentina d’anni più tardi, è risultato improbabile associare i divertenti teatrini di Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Paolo Panelli, alla denuncia
dell’autore americano. Le sue allarmistiche previsioni su una società dei
consumi in grado di controllare la cultura di massa sono finite nel cassetto
della fantapolitica.
Per la maggior parte dei pubblicitari della mia generazione è difficile
pensare che Calimero, Susanna, Pippo e Caballero siano stati animati da occulti disegni persuasivi per avere la meglio sul libero arbitrio delle nostre
mamme. Noi abbiamo cominciato a scrivere advertising all’inizio degli anni
Novanta, quando la persuasione pubblicitaria era tutt’altro che occulta e internet faceva capolino.
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Che cosa c’entra internet?
Per chi scriveva pubblicità, il web era la realizzazione di un sogno. Perché prima di tutti i plug-in e le animazioni in Flash, prima di tutte le sbronze da new economy e delle tante colpe attribuite alla rete, internet rappresentava il trionfo della parola scritta. Solo alcune immagini, qualche virtuosismo grafico in HTML e poi lettere, parole, testi.
Righe sottolineate in blu che collegavano nuovi paragrafi, altri capitoli, insomma luoghi in cui continuare questa infinita esplorazione attraverso la lettura.
Quasi subito anche l’advertising finì in rete. Si muoveva con presunzione: piazzava ovunque banner, pop-up, portali. Mostrava i muscoli con migliaia di siti che portavano on-line tutto quello che fino al giorno prima abitava annunci pubblicitari, brochure, cataloghi e company profile.
E noi si continuava a scrivere. Esattamente come il giorno prima. Ma se i
nostri clienti investivano miliardi in TV, e un nostro spot aveva buone possibilità di essere ricordato, su internet, invece, scoprivamo per la prima volta
la vulnerabilità del nostro scrivere. Eppure i clienti credevano in questo
«nuovo media», e le strategie sembravano disegnate in punta di fioretto per
individuare il target.
Nel frattempo, qualcuno cominciava a capire che non si potevano applicare le stesse logiche del passato. E non era solo un problema dei creativi:
anche gli altri reparti delle agenzie pubblicitarie avrebbero dovuto rivedere
l’approccio a questo lavoro, a cominciare dal vocabolario belligerante che
affidava a piani, strategie, obiettivi, bersagli e conquiste il nostro scrivere
per la pubblicità. La lezione era appena cominciata.
C’era una volta il target
Su internet non eri tu a scegliere il target. Potevi ancora illuderti di farlo
attraverso una pianificazione mirata all’interno di un palinsesto televisivo o
tra le pagine di un settimanale. Qualcuno riscopriva il direct marketing, trasformandolo in CRM (customer relationship management),2 e liquidando la
questione con sofisticatissimi software per l’analisi e la segmentazione dei
clienti.
Ma sia le aziende sia le agenzie pubblicitarie cominciavano a capire di
essere passate dall’altra parte del mirino. A prendere la mira c’era quello
che ci si ostinava a chiamare consumatore e che dovevamo riconoscere come individuo, con il quale mettersi davvero in relazione.
Adesso era lui a scegliere con chi parlare, dove, come e quando. Leggeva
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il nostro scrivere attraverso percorsi imprevedibili, perché l’ipertesto cancellava la sequenzialità della lettura. Potevi perdere il contatto stabilito dopo
il primo clic per una riga di troppo o per non essere riusciti a stimolare la
sua navigazione. Il suo personalissimo timone non lasciava spazio al superfluo. E noi scrivevamo pensando d’avere di fronte un singolo e non un gruppo sociodemografico. Dare del tu diventava obbligatorio e si intravedeva già
una maggiore confidenza, direi quasi un’intimità.
Per fortuna la creatività era ancora un tramite fondamentale, ma era come se la continua disponibilità di informazioni e il libero accesso ad alcuni
servizi/prodotti ci stesse finalmente affrancando dalle logiche seduttive della comunicazione tradizionale.
È accaduto tutto velocemente: il ritmo di questa trasformazione ha
spiazzato i guru e spalancato le porte a nuove forme di comunicazione.
L’advertising ha dovuto mettersi alla prova, ridefinire i propri confini, nonché accogliere quelle discipline da sempre relegate nelle soffitte dei suoi
palazzi d’epoca.
Il one-to-one,3 le promozioni e un po’ tutto il below the line 4 finiscono
per diventare parte integrante dei nuovi progetti di comunicazione. Le
aziende nostre clienti adesso vogliono essere certe dei loro investimenti,
misurare le risposte al nostro scrivere, mettersi in relazione con chi sceglie
i loro prodotti.
Il vero millennium bug
Alle soglie del nuovo millennio, banche, assicurazioni, grande distribuzione, aziende automobilistiche, telecomunicazioni, così come le agenzie
pubblicitarie, i centri media e le concessionarie guardavano il passaggio al
2000 con preoccupazione. Il panico del Y2K (Year 2000) ha tenuto banco
per buona parte dell’anno. Responsabili di information technology (IT) e
amministratori delegati cercavano di capire come arginare i danni, come
risollevarsi da un caos informatico che neanche Nostradamus, gettonatissimo in quei giorni, aveva intravisto. Qualcuno ha trascorso il capodanno in
ufficio, accendendo il computer un minuto dopo la mezzanotte e brindando in coffee area per festeggiare il perfetto funzionamento di reti, server e
periferiche.
In realtà, credo che il vero millennium bug di agenzie e clienti avesse poco a che fare con l’IT. Tutti erano adesso costretti a un «reload» decisamente più significativo. Nelle riunioni non sentivo più parlare di tattiche e consumatori conquistati, ma di fedeltà, legami, affinità e relazioni durature. Si
passava dal vocabolario di guerra a quello dell’innamoramento.
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Non era più il budget a determinare quale media utilizzare e di conseguenza il nostro scrivere. Perché una fascia anagrafica era diventata uno stile di vita, un profilo emotivo, un universo di valori che dovevano riconoscersi con quello dei nostri prodotti e delle nostre marche, ammesso che
avessero dei valori da trasmettere.
Scrivere per la pubblicità diventava più difficile, ma anche molto più divertente.
I copywriter di oggi devono essere assolutamente più versatili, sapendosi muovere agevolmente tanto all’interno di un dialogo radiofonico quanto
sull’espositore di un punto vendita. In ogni momento di contatto tra il prodotto, la marca e il suo interlocutore il copywriter deve saper trasferire la
sintonia a due, rispettando il tono di voce, il registro e il codice di comunicazione che li ha fatti sentire sulla stessa lunghezza d’onda.
Modellarsi sull’interlocutore
Non è solo la versatilità dello scrivere a guidare la comunicazione pubblicitaria di oggi. L’advertising, infatti, deve continuare a modellarsi in funzione del suo interlocutore.
La PNL si affida alla «legge della varietà indispensabile»5 per stabilire
che consapevolezza e flessibilità permettono di rendere più efficace la comunicazione. Come lo fa? Riconoscendo se il messaggio viene accettato o
rifiutato (consapevolezza), e modificando il comportamento (flessibilità)
per vincere le resistenze dell’altro nell’accogliere la comunicazione.
Ecco, credo che il linguaggio pubblicitario attuale abbia perso un po’
della presunzione, dell’arroganza e dell’invadenza che l’ha caratterizzato fino a qualche tempo fa, per guadagnare in consapevolezza e flessibilità.
Ho la sensazione che l’advertising di oggi proceda con un maggior rispetto del suo interlocutore. Dal registro sfacciatamente seduttivo degli anni
Ottanta, siamo passati a un codice più funzionale per quei prodotti e per
quelle marche che hanno potuto permetterselo, avendo continuato a investire nell’innovazione e nel servizio alla clientela.
Hanno saputo farsi scegliere grazie a un concreto e reale valore aggiunto, in linea con le esigenze del proprio pubblico. A questo fidanzamento è
seguito un periodo più o meno lungo di conoscenza reciproca, in cui è stato
coltivato un territorio comune di valori.
Ed è qui che le persone, gli individui – e non i consumatori o, peggio ancora, i responsabili degli acquisti – si sono ritrovati affini alla marca sposata. Sarà difficilissimo a questo punto, per chiunque altro, avvicinarli e convincerli del contrario. Perché sono in perfetta sintonia: la comunicazione fa
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leva sulle corde emotive, i valori sono condivisi, e non sarà certo un prezzo
più basso o un supermercato un po’ più vicino a separarli.
Avvicinando la PNL, ho messo a fuoco un altro importante punto in comune con l’advertising delle agenzie più sensibili a questa evoluzione: i
neurolinguisti lo chiamano rapport, in Ogilvy si chiama MOT’s (moments of
truth, momenti della verità). I colleghi di altre agenzie lo chiamano in altro
modo, ma la sostanza non cambia.6
Il rapport è il frutto di un buon lavoro di calibrazione e ricalco, è la capacità di entrare in sintonia con l’interlocutore per rendere più efficace la comunicazione, attraverso la gestualità, la postura del corpo, la respirazione,
per arrivare insieme alle medesime conclusioni. È una danza a due, in cui si
accompagna il messaggio, modulandolo sulle reazioni del destinatario (consapevolezza e flessibilità) e guidandolo verso la condivisione dei contenuti.
Il MOT’s applicato da Ogilvy è un ricalco emotivo per raggiungere il
pubblico desiderato al di fuori dei percorsi dell’advertising tradizionale. Avviene quando il nostro messaggio – fuori dal suo abituale contesto, quale il
punto vendita o lo spazio pubblicitario – arriva inaspettato al destinatario e
lo incontra più rilassato e predisposto all’ascolto, perché la comunicazione
in quel momento è all’interno di un territorio valoriale comune. Sarò più
propenso a relazionarmi con Heineken durante una rassegna jazz piuttosto
che sugli scaffali di un supermercato; preferirò assaggiare una nuova miscela Illy a una mostra d’arte anziché al bar sotto l’ufficio, insieme alle tensioni di ogni giorno.
Ciò non significa che la comunicazione tradizionale sia destinata a
scomparire, ma solo che i pubblicitari dovranno saper identificare l’alchimia delle variabili che creano un messaggio credibile ed efficace. Dal tono
di voce al media, dall’idea creativa alla sua capacità di rispettare i tempi e
gli spazi del destinatario.
Vorrei che continuassimo il difficile cammino che qualcuno ha già intrapreso, in cui la pubblicità si sforza di arrivare al momento giusto, nel posto giusto, alla persona giusta, agendo a livello emotivo, divertendo e tornando utile.
Verso la pubblicità «on demand»
Forse il libro Permission marketing di Seth Godin è stato sfogliato anche
dal garante della privacy, se è vero che, dopo aver messo a punto la legge
più aggirata della legislazione italiana, varerà i superelenchi telefonici.7 Sui
nuovissimi tomi, consultabili anche in versione digitale, ciascuno potrà scegliere se pubblicare anche il proprio indirizzo di posta elettronica, insieme
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al numero o ai numeri di cellulare. Ogni cittadino deciderà come comparire,
se ricevere pubblicità e sotto quale forma. Forse anche il garante inizia a fidarsi un po’ di più degli addetti ai lavori, riconoscendoli capaci di rispettare
gli spazi privati.
Del resto, alcuni canali satellitari trasmettono già film, documentari e
manifestazioni sportive con inserzioni pubblicitarie consultabili a richiesta
attraverso il telecomando. Un’icona segnala l’opzione e finalmente è lo
spettatore a decidere come, quando e se interrompere la proiezione per godersi una pausa pubblicitaria e magari acquistare in tempo reale il prodotto
o il servizio reclamizzato.
Credo che i copywriter alle prese con questi spot debbano scrivere in
maniera diversa rispetto a uno di trenta secondi in prima serata o, peggio ancora, all’ennesima telepromozione in coda a un reality show.
E ancora, non so se anche questo finirà nei cassetti di un fantascenario,
ma le nuove normative sulla pubblicità via telefono sembrano destinate a
confermare il trend dei messaggi pubblicitari richiesti direttamente dall’utente. E non per le improbabili bollette telefoniche pagate grazie all’ascolto
di spot tra una chiamata e l’altra, ma per alcune rivoluzionarie applicazioni
già sperimentate. A Londra, per esempio, grazie a speciali chip inseriti nelle
affissioni, è possibile scaricare sul cellulare un buono sconto per il fast food
dietro l’angolo o prenotare due posti per il concerto pubblicizzato su un altro manifesto. È sempre l’utente a scegliere di interagire con il messaggio:
la nostra comunicazione è solo nel posto giusto, al momento giusto. E in attesa di incontrare la persona giusta.
Ecco che i consumatori diventano interlocutori, e la comunicazione pubblicitaria diventa dialogo con marche e prodotti che sanno diversificare la
propria offerta, guadagnando stima e fiducia, grazie al rispetto con cui trattano chi li preferisce.
A proposito di rispetto
Credo che nessun talento creativo possa rimediare ai danni creati dalle
politiche sconsiderate di alcune multinazionali. I fenomeni di boicottaggio e
di acquisti consapevoli sono destinati a coinvolgere fasce di pubblico sempre
più allargate, grazie a una più massiccia circolazione delle informazioni.
Molti clienti Coop non scelgono solo un supermercato, e tanti correntisti UniCredit sono probabilmente orgogliosi di sapere che la propria banca
ha chiuso i rapporti con centinaia di aziende impegnate nella produzione di
armi.
L’affezione a una marca, infatti, passa anche attraverso un codice non
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scritto, che è quello dell’etica. Spero che in futuro saranno sempre più numerosi i consigli d’amministrazione, i presidenti, gli amministratori delegati e i direttori marketing capaci di raccogliere consensi intorno a iniziative
creative di responsabilità sociale.
Il contrario, quando funziona, paga forse nel breve termine, ma nel lungo
termine non costruisce legami, non crea fiducia, non risulta credibile neanche di fronte alla più suggestiva comunicazione pubblicitaria.
Per i copywriter di oggi è quasi impossibile sedurre e suggestionare. Possono usare la creatività per sorprendere ed emozionare, ma devono sempre
far leva sulla capacità di creare affinità con un pubblico sempre più attento,
critico e consapevole.
Buon lavoro. Davvero.
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IN CAMPO!➊
di Maria Vittoria Re
Tre esempi di campagne pubblicitarie costruite sui modelli neurolinguistici.
OIL OF OLAZ: LA BATTAGLIA DELLE RUGHE
Rivista femminile—Elegante, sorride; viso luminoso, poco trucco. Solo qualche
ruga d’espressione: occhi e angoli bocca.
■ Le rughe?
Perfetti calibrazione e ricalco: donne dalla pelle matura, ma ancora in grado di
contrastare l’età.
■ Solo uno dei sette segni del tempo.
Altro ricalco. Avverbio ristrutturante (solo), numeri (1 e 7) e metrica incalzante.
■ Con Total Effects puoi combatterli tutti.
Guida: nome del prodotto, operatore modale puoi (libertà di scelta), verbo
drammatizzante, combattere (K) e pronome tutti, rassicurante quantificatore
universale.
RAI: MARITI, CALZINI E ABBONAMENTO TV
Televisione—Una moglie alle prese con il marito imbranato che non trova i calzini. Ricalco situazionale.
■ A Sono nel cassetto!
B Quale cassetto?
A Il tuo!
Il dialogo prosegue sul non verbale: lei gli mette i calzini sotto il naso, con un’espressione tipo dev’essere-per-il-tuo-senso-pratico-che-ti-ho-scelto-amore.
Finale:
■ Nessuno vi conosce come noi. Voi ci seguite perché noi vi seguiamo.
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Nessuno come noi: comparazione con quantificatore universale negativo. Comando nascosto (seguiteci) ed equivalenza complessa con indici referenziali a
sandwich (noi-voi-noi).
MICROSOFT: RICALCO SUL FUTURO
Stampa e televisione—Nonno e nipote davanti al campo che diventerà una vigna
fruttuosa:
■ Vediamo realizzarsi il sogno della tua famiglia.
Metropolitana, Montenapoleone. I binari come una passerella di moda:
■ Vediamo il tuo nome diventare una grande firma.
I bambini sognano di volare. Eccoli su un albero pronti al decollo:
■ Vediamo un nuovo principe del cielo.
Vari soggetti, stesso attacco: Vediamo, predicato visivo (e ridondanza auditiva)
che proietta nel futuro grazie al disegno sulle immagini. Coinvolge in una «visione»
con indice referenziale bivalente – «noi», «noi Microsoft» e «tu e noi insieme» – e
nobilita gli strumenti con cui le persone realizzano i loro sogni.
Con finale tutto cenestesico: Your potential, our passion. Credere nel potenziale
delle persone ispira a creare software in grado di realizzarlo. Equivalenza un po’
complessa, ma di grande suggestione.
➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜
Note
PACKARD, VANCE, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958, 1980.
Il customer relationship management è un nuovo approccio strategico che mira a fidelizzare il cliente, infatti costa molto meno conservare un cliente anziché acquisirne uno nuovo.
Ogni cliente chiede servizi e soluzioni differenziati e personalizzati. Da qui nasce l’importanza di migliorare la relazione con il cliente e soddisfare le sue specifiche esigenze. Ciò è
possibile solo nel momento in cui l’azienda comprende il valore strategico delle informazioni che già possiede sui propri clienti, e riesce a sfruttare al meglio tale patrimonio informativo, per esempio condividendolo nel network aziendale attraverso un data base sempre aggiornato. Posta elettronica e web sono strumenti preziosi per ottenere informazioni e procedere a una più precisa segmentazione dei clienti.
3
L’espressione «marketing one-to-one» è spesso utilizzata come sinonimo di CRM. Indica
infatti la capacità di relazionarsi con il singolo cliente di un prodotto o di un servizio. Le
aziende si pongono l’obiettivo di trattare clienti diversi in maniera diversa, attraverso alcune
attività di comunicazione che finiscono per saldare il legame con chi le sceglie. Tutti i media
a disposizione vengono utilizzati nelle quattro fasi principali delle attività:
a. identificare i clienti;
b. diversificarli in base al comportamento d’acquisto;
c. interagire con i clienti, sfruttando i canali di comunicazione attivati da loro stessi;
d. personalizzare l’offerta per rispondere alle singole esigenze.
1
2
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4
Con below the line gli addetti ai lavori hanno sempre etichettato la cenerentola della pubblicità. Se con above the line («sopra la linea») si identificava tutta la comunicazione visibile al
grande pubblico (televisione, stampa, affissione), sotto quella linea immaginaria finivano tutte le attività di comunicazione che utilizzano gli spazi rimasti a disposizione, dal punto vendita ai concorsi, dal packaging ai cataloghi sino al direct marketing.
5
La «legge della varietà indispensabile», formulata da William Ross Ashby, dice che più si è
capaci di flessibilità, più si è parte vincente di un sistema. Questo vale per ogni realtà, che sia
meccanica, biologica o sociale. A noi interessa in quest’ultima accezione, e ci invita a riflettere su come gestire la comunicazione. Ogni persona è un microsistema che interagisce con
gli altri: per far parte con successo di un sistema complesso quale la società, dobbiamo allenare consapevolezza e flessibilità (vedi ASHBY, WILLIAM ROSS, Introduzione alla cibernetica, Einaudi, Torino 1971). La legge della varietà indispensabile è stata ripresa da Gregory
Bateson (ID., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976; ID., Mente e natura,
Adelphi, Milano 1984).
6
L’autore è direttore creativo di OgilvyOne, la prima agenzia di marketing one-to-one in Italia.
7
GODIN, SETH, Permission marketing. Trasformare gli estranei in amici e gli amici in clienti,
Alchera Words, Milano 2000.
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Burocrazia
Il linguaggio di difesa del posto a sedere
di Pierluigi Voi
BUROCRAZIA: poche parole di uso comune suonano a tutti tanto sgradevoli.
Subito essa evoca cumuli di scartoffie dietro cui siedono uggiosi impiegati,
quelli delle pagine di Monsù Travet o del cinema di Alberto Sordi. Al solo
sentir parlare di burocrazia qualcuno percepisce perfino un odore di polvere
e di stantio, o quella pesantezza allo stomaco che lo ha accompagnato durante le estenuanti permanenze negli uffici pubblici.
La burocrazia è solo questo insieme di emozioni negative? No, c’è dell’altro: dal punto di vista del cittadino-utente c’è anche il disappunto per i
costi della pubblica amministrazione che tutti ci sobbarchiamo.
Tanta perversità in sole cinque sillabe merita qualche parola in più, da
spendere proprio sul linguaggio della burocrazia, per tentare di scoprire,
dietro gli incartamenti sulle scrivanie, i volti e i pensieri di quelli che li sfogliano.
Un nome significativo
L’etimo stesso della parola contiene già una connotazione negativa. Emidio De Felice ricorda che questo termine ebbe origine in Francia nel periodo
in cui i modelli statuali e amministrativi francesi influenzarono fortemente
l’Italia, come la maggior parte dei paesi europei e perfino l’America:
il termine bureaucratie è coniato in Francia dall’economista Vincent de Gournay
avanti il 1759: è un composto «ibrido», formato con due elementi di lingue diverse, il
francese bureau, «ufficio», e il greco kratía, «potere», sul modello di aristocratie e démocratie. In Italia penetra alla fine del Settecento, negli ambienti degli economisti, e
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si afferma nell’Ottocento: singolare è il fatto che fin dall’inizio comporta un’intonazione negativa, di condanna e di distacco polemico da una struttura che aveva già
acquistato un potere eccessivo, imponendo un’osservanza rigidamente formale delle
norme e dei regolamenti.1
Da questo illustre parere, le nostre emozioni paiono legittimate. Ci rammarica piuttosto il fatto che gli stessi motivi di sofferenza dei cittadini permangano tenacemente dopo oltre due secoli.
Nel commento di De Felice è interessante il richiamo al concetto di «potere eccessivo» che impone «un’osservanza rigidamente formale delle norme e dei regolamenti». Quando parliamo di burocrazia ci riferiamo al potere per eccellenza, cioè quello dello Stato, esercitato attraverso l’amministrazione pubblica.
Per la maggioranza delle persone la parola burocrazia è un’àncora negativa: ci sospinge difilato di fronte all’Autorità dello Stato, alla Legge (con le
maiuscole!); tanto che, se solo immaginiamo di commettere un errore burocratico, seppur piccolo e involontario, subito ci appare la scena umiliante di
noi stessi che paghiamo una multa, o perfino (orrore!) che veniamo trascinati via come Pinocchio dai due carabinieri. La paura della sanzione o della pena schiaccia perfino la nostra statura etica: di fronte alla burocrazia non c’è
retta intenzione che tenga, contano solo le carte in regola. Da questo punto di
vista la democrazia è più terribile delle tirannie della Magna Grecia.
La parentela etimologica fra le parole burocrazia, aristocrazia, democrazia è dovuta non solo ad assonanza, ma a comune presupposto: quello di
una relazione fondata sulla forza. In un rapporto di forza è già scontato che
uno dei due sia perdente; tutt’al più possiamo sperare che le forze al potere,
prima o poi, agiscano a nostro vantaggio. Eppure, quando parliamo di democrazia (struttura superficiale), tutti pensiamo a una realtà positiva e gliele
associamo altre come libertà, equità, pace, giustizia, solidarietà ecc. (struttura profonda).
Forse è meno immediato definire ciò che concretamente colleghiamo a
queste parole. Se facessimo questo esercizio probabilmente scopriremmo
che la questione fondamentale sta nel concetto stesso di potere. Per non
pungerci troppo, facciamolo in modo indiretto.
Potere e difesa del territorio
Torniamo alla burocrazia e al suo etimo che la imparenta al potere. Vi riporto una curiosità raccolta durante la mia trentennale esperienza di lavoro
nella pubblica amministrazione. Le mie attività, legate alla formazione e al92
la comunicazione esterna, mi hanno offerto dei punti di osservazione insoliti, forse meno efficaci quanto a obiettivi di carriera, certamente più divertenti rispetto a quelli dei «seri» impiegati pubblici.
Un dirigente, incaricato degli immobili e delle attrezzature presso la Regione Lombardia, ripeteva sovente che il suo vero problema era quello di
trovare tante sedie quanti fossero «i culi da far sedere ogni giorno»: considerati i quasi cinquemila dipendenti dell’ente, la preoccupazione non sembrerà eccessiva.
Ma l’aspetto curioso è che il «posto» in un ufficio pubblico deve avere
un rigoroso riscontro fisico nel posto a sedere. In ogni caso, la sollecitudine
dell’ente pubblico di assegnare a ciascuno il proprio posto a sedere è suggerita non da uno spirito di fraterna cura per il proprio dipendente, ma dalla
procedura: «un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto».
Il posto a sedere nella pubblica amministrazione nasconde però un lato
oscuro: quanto più si discende la scala gerarchica, tanto meno è accessibile
ai colleghi di altri settori. Se infatti bussate alla porta del magazzino o del
«locale commessi», e dopo lunga attesa socchiudete con discrezione la porta,
potrete ottenere un breve momento di ascolto solo se prima avrete ossequiosamente inchinato il capo e radiosamente sorriso. Quanto all’ottenere un taccuino e una matita, il rischio di fallimento resta elevato. Ma se date un’occhiata nel locale, stenterete a enumerare tutti i segni di «personalizzazione»
presenti, la cui natura dipende dal sesso del «titolare»: appesi alle pareti possono esserci foto di pin-up provocanti o di gattini leziosi, manifesti di calciatori o di tramonti tropicali; sullo scaffale, pezzi di ricambio di macchine o
conchiglie bianche; sulle scrivanie, i segni della proprietà privata: un recinto
di automobiline o di pupazzetti, a proteggere l’ultima foto dei bambini.
Se è vero che il non verbale è ancora più efficace delle parole, questi segni sono altrettante frasi che affermano ad alta voce la personale determinazione nella difesa di quel territorio, conquistato in genere dopo un concorso
seguito a molti anni di precariato. Si tratta perciò di un possedimento, un
luogo di potere individuale, nel quale tacitamente ma eloquentemente il
proprietario afferma che il suo agire dipende dalla sua personale discrezione. È come se vi dicesse: «Qui dentro, chi ha bisogno di una matita deve
chiederla a me!». Questi segni ci dicono dunque come la logica di potere
della struttura burocratica, che determina l’assegnazione di sedie e scrivanie, trovi corrispondenza nella logica di piccolo potere delle persone che vi
si siedono. Ammettiamo pure che il maggior numero di dipendenti assecondi semplicemente l’istinto di difesa: resta il fatto che tutti partecipano allo
stesso gioco delle parti. Chi ne fa le spese è il cittadino: proprio quello che
adesso viene definito «utente del servizio». A volte addirittura «cliente».
93
Il burocratese: una forma della mente
Se gli oggetti, pur essendo muti, sono eloquenti rispetto alla persona che
li ha scelti e collocati in un certo modo, analogamente le parole, pur riferendosi in maniera esteriore a concetti noti a tutti, dicono tra le righe come pensa la persona che le pronuncia o le scrive, e rivelano i presupposti in base ai
quali, più o meno consapevolmente, sta comunicando con noi.
Pensate a uno di quei cartelli che stanno affissi all’ingresso dei locali
commessi prima ricordati: nei casi più gravi trovate un foglio scritto al computer, decorato col pennarello e plastificato a caldo; nei casi più trattabili è
scritto a mano in stampatello maiuscolo su carta quadrettata, con i puntini
sulle i e i trattini alle zeta; e dice:
È fatto divieto a tutti i dipendenti di entrare senza l’autorizzazione del responsabile.
L’espressione iniziale, dal tipico aroma borbonico, dimostra quanto
quell’aroma sia ancora penetrante, a partire dagli atti redatti da una coltissima «avvocatura centrale» fino alle lettere dei dipendenti di basso profilo.
Cercherete di capire perché si debba usare l’espressione «è fatto divieto», quando la lingua italiana offre più schiette alternative come «è vietato»
o «divieto di». Resta poi da spiegare la forma impersonale: chi vieta? E perché? E chi è il responsabile al quale dovremmo chiedere l’autorizzazione?
L’autore del cartello forse spera che la nostra perspicacia ci induca a pensare a lui? A ogni modo, quel democratico «tutti i dipendenti» ci assicura che
costui o costei non guarda in faccia nessuno e la matita, se non è giornata,
non la dà neppure all’assessore in persona.
Il vero guaio è che le parole di quel cartello in realtà ricalcano il linguaggio, i toni di comunicazione e quindi lo stile delle relazioni interpersonali
che guidano l’intera struttura burocratica. E si riflettono ovviamente nella
qualità delle relazioni con gli utenti esterni: forme verbali impersonali per
celare l’identità di chi parla e per attribuirgli un’autorità indiscutibile; forme
auliche che vorrebbero dare credibilità alle prescrizioni; generalizzazioni
dirette a livellare i destinatari in una massa indifferenziata di subalterni obbedienti. Specie nelle frasi che esprimono divieti o prescrizioni, le strutture
linguistiche di questo tipo si moltiplicano, fino a esibirsi in quelle manifestazioni involontarie di umorismo che Totò ha abbondantemente sbeffeggiato. Eppure queste strutture resistono anche agli attacchi della satira, confermando di essere, come ogni forma di linguaggio, profondamente radicate
nella mente di chi le usa.
Ancora recentemente, le «disposizioni» affisse in un ufficio della Regione Lombardia trattavano la delicata questione della «evacuazione per motivi
94
di sicurezza», ingiungendo di rispettare una precisa procedura che vietava
severamente ogni «iniziativa di evacuazione di natura personale, se non preventivamente autorizzata». Lascio alla vostra arguzia il divertimento di trovare i possibili giochi di parole sul caso.
Nel frattempo, chi tra voi vanta buone competenze enigmistiche può cimentarsi nella decifrazione dei cartelli che regolano la sosta degli autoveicoli nelle zone più desiderate e più imprendibili della città di Milano: tutti i
malcapitati hanno imparato le regole, spesso per prove ed errori, non certo
perché i cartelli fossero comprensibili.
Pare davvero che la mente umana sia posseduta da una ridicola ossessione ogni volta che tenta di definire i comportamenti da prescrivere o vietare.
Vicino a una scala mobile della metropolitana milanese ho contato una prescrizione e dieci divieti che regolano l’uso della scala stessa, espressi da altrettanti pittogrammi corredati da didascalia; di fronte a tanti divieti, ho particolarmente apprezzato quello di percorrere la scala a piedi nudi, dato che
l’esiguo numero di persone che in città usa le scarpe abitualmente se le toglie proprio davanti alle scale mobili della metropolitana, forse per riguardo
verso i gradini d’acciaio.
Il ruolo terapeutico del cittadino
Le strutture linguistiche della pubblica amministrazione (e così pure le
immagini, gli ambienti, gli arredi e naturalmente la voce e i gesti delle persone) sono insomma la manifestazione di presupposti profondi: non solo
quelli che motivano l’organizzazione, ma anche quelli che guidano il pensiero dei singoli dipendenti, ai vari livelli di responsabilità.
Se il cattivo governo dell’organizzazione nasce dal vertice, gli corrispondono le cattive abitudini contratte dalla base, sorrette nel tempo dalla geometria stessa del sistema. Non deve perciò stupire la difficoltà di riconvertire al buon governo il sistema burocratico, per guidarlo verso la trasparenza,
l’accessibilità, l’efficacia, l’efficienza e verso l’autentico spirito di servizio
nei confronti dei cittadini. Dovrebbe però insospettirci il vezzo politico di
puntare l’indice contro la pubblica amministrazione (preferibilmente verso i
generici dipendenti, non a caso), rimandando astutamente il problema ai cittadini malcontenti, alcuni dei quali si sono infine convinti che tanti servizi
pubblici siano inutili e che quelli utili si possano ottenere in altra maniera.
Nell’attesa della novità radicale, possiamo chiedere ai nostri concittadini
che lavorano all’interno della pubblica amministrazione di assecondare lo
spirito delle recenti leggi, che effettivamente esistono e mirano ben oltre la
vecchia logica della burocrazia, per instaurare finalmente il concetto di ser95
vizio a beneficio di tutti.2 Potremmo ricordare loro, per cominciare, che il
concetto stesso di servizio non ha nulla a che fare con il servilismo, ma significa piuttosto avere la capacità di guidare l’utente al raggiungimento del
suo obiettivo, o meglio di quegli obiettivi che sono riconosciuti validi e sono perciò condivisi da tutti. Occorrono infatti precise competenze e molta
responsabilità per offrire un autentico servizio, oltre a una buona dose di
creatività.
Anche il servizio, se vogliamo, è «potere», quando lo intendiamo etimologicamente come «possibilità»: la nostra personale possibilità, limitata ma
insostituibile, di contribuire al benessere degli altri; qualcuno è perfino convinto che questo sia il miglior modo di star bene.
Per quanto riguarda noi stessi, infine, potremmo semplicemente decidere
di concedere un po’ di fiducia ai nostri concittadini impiegati pubblici, perché una fiduciosa relazione fra le persone è il migliore demolitore di ogni rigida e soffocante struttura burocratica. La spinta per una vera «ristrutturazione» della burocrazia stessa.
Note
DE FELICE, EMIDIO, Le parole d’oggi. Il lessico quotidiano, religioso, intellettuale, politico,
economico, scientifico, dell’arte e dei media, Mondadori, Milano 1984, p. 123.
2
Vi propongo un promemoria. Le prime due leggi innovatrici sono del 1990: la legge
142/1990 sull’ordinamento delle autonomie locali, che prevede gli istituti di partecipazione
popolare (per intenderci, i referendum indetti dai Comuni); e la famosa legge 241/1990, comunemente detta della «trasparenza», che regola il diritto di accesso dei cittadini agli atti
amministrativi, prevede l’individuazione del responsabile di procedimento (superando dunque la consuetudine dell’anonimato, alla quale ancora corrispondono l’uso del «si» impersonale e il malvezzo di non dichiararsi al telefono) e prevede inoltre che i contenuti di una legge debbano essere attivamente comunicati ai cittadini (una vera rivoluzione rispetto al vecchio principio secondo il quale ignorantia legis non excusat). Le altre due leggi determinanti
sono del 1997, conosciute come «Bassanini»: la legge 59/1997 sulla semplificazione amministrativa e la legge 127/1997 sull’autocertificazione.
1
96
Customer care
Parole che creano fiducia
di Mafe De Baggis
L’EGOISMO virtuoso che, guidato dall’etica, dovrebbe essere alla base del capitalismo1 ha un presupposto poco indagato: se l’imprenditore, pur nel perseguimento dei propri interessi, ottiene comunque involontariamente un
vantaggio per la collettività, è anche perché ogni singolo individuo che la
compone gli dà continuamente fiducia.
La fiducia è alla base del capitalismo tanto quanto l’egoismo: ci sono
milioni di tristi eccezioni, è vero, ma normalmente ogni giorno ci fidiamo di
perfetti sconosciuti, senza pensarci neanche un attimo.
L’inizio di una relazione che dovrebbe durare nel tempo
La fiducia è un «sentimento di sicurezza che deriva dal confidare in
qualcuno o in qualcosa»:2 la fiducia è un sentimento.
Un sentimento è «uno stato emotivo relativamente stabile».3 Sarà per
questo che quando l’operatore di un call center è sgarbato con me provo un
disagio che va ben oltre il problema contingente?
Fiducia e sentimenti sono materia fragile e si prestano poco alla gestione
ingegneristica di chi ogni giorno risponde a migliaia di e-mail, telefonate e
richieste: è difficile sistematizzare o prescrivere un sentimento, soprattutto
se chi è preposto a trasmetterlo (il singolo operatore) è oberato di lavoro.
Eppure il momento in cui ci si rivolge al customer care di un’azienda è
quasi sempre il vero inizio di una relazione umana tra chi ha cercato profitto producendo un bene e chi ha cercato un vantaggio acquistandolo. Il rapporto umano tra me e il signor «Marchio in questione» di solito inizia quando io ho un problema.
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Ma quanto può, o deve, essere umano questo rapporto? Non dovremmo
accontentarci di aver soddisfatto un bisogno, senza pretendere anche di entrare in relazione con chi l’ha reso possibile?
E se non ci fosse nessun problema, ma solo il desiderio di condividere il
piacere e la soddisfazione per la qualità dell’acquisto? Quante aziende hanno
previsto un canale per i complimenti, i ringraziamenti, la soddisfazione? Un
equivalente dei fan club dei cantanti o degli attori? Eppure i prodotti più amati ricevono tantissime e-mail pensate solo per aprire un canale, un rapport.
E-mail che dicono, in sintesi, «grazie di esistere», e che di solito non ricevono
risposta. O che, nel migliore dei casi ricevono una risposta automatica.
Salve,
volevo solo ringraziarvi per l’ottimo servizio, ho ricevuto il pacchetto stamattina e mi
ha fatto piacere trovare anche tanti campioncini. Il sito è molto ben fatto e la procedura di acquisto comoda.
Poiché ve lo meritate, vi ho raccomandati sul mio blog
http://www.maestrinipercaso.it/2004/05/consigli-per-gli-acquisti.htm
buon lavoro, Mafe
Come rispondere a un’e-mail simile? La risposta che ho ricevuto era,
senza dubbio, il rifiuto di un rapport, era un «grazie e buon lavoro anche a
lei», una fredda riga con un enorme punto interrogativo aleggiante tra le righe («ma cosa vuole questa?»). Un’occasione persa: non ho cambiato fornitore (il servizio è veramente ottimo), ma potrei farlo se trovassi un sito equivalente. Diverso sarebbe stato se mi avesse risposto una persona riconoscibile come tale (sarebbe stato carino per esempio sapere il nome della titolare del negozio). È facile tradire il negozio XYZ, è difficilissimo tradire
Francesca che scherza con me sulla cellulite e mi regala una tisana.
Dalla delusione subita possiamo dedurre una prima legge del customer
care: coerenza (ricalco). Non si cambia strumento di comunicazione (non si
risponde a un’e-mail con una telefonata, e viceversa), non si cambia registro
emotivo (soprattutto, mai pretendere un rapporto emotivo da un cliente che
mantiene la relazione su un piano strettamente formale o pratico). Se è possibile, non si cambia neanche canale sensoriale.
Lo so, siete sottostaff. Lo so, c’è tanto da fare. Lo so, ricevete tante
e-mail. Il punto è proprio questo: la cura del cliente è ancora un costoso cotillon di una festa che troppo spesso si conclude con la transazione economica, abbandonando il nostro fiducioso cliente solo con il suo pacchetto di
atomi appena acquistati. Dal punto di vista delle esperienze emotive lui vi
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conosce e sa tutto di voi, voi a stento sapete che esiste: ma non dovrebbe essere il contrario? (Non certo nel senso di auspicare il Grande Fratello o invasioni indesiderate della privacy, sia chiaro.)
Il rovescio del problema non è solo la sua soluzione
Acquisto-problema-soluzione: nella maggioranza dei casi, comunque,
questa catena fila via senza intoppi e senza nessuna aspettativa di coinvolgimento emotivo né da una parte né dall’altra. Questo significa, da un lato,
un minor tempo di gestione di un caso, dall’altro, una bella occasione persa per creare questo benedetto coinvolgimento emotivo che, insieme al ricordo del marchio, è il principale obiettivo delle costosissime campagne
stampa e TV.
È in questo senso che rispondere educatamente al problema di un cliente
significa limitarsi a riportare in pari un bilancio negativo: l’assenza di dolore non equivale al piacere. Sfruttare un contatto nato male per riconoscere a
un singolo cliente la nostra gratitudine per la fiducia dimostrata: questo è
vera ristrutturazione, enormemente più produttiva di martellanti spot pubblicitari rivolti alla massa.
L’assistenza via e-mail semplifica molto le cose: rispetto al telefono o all’interazione faccia a faccia, l’e-mail permette risposte meditate e ben calibrate. Che cosa ci sta veramente chiedendo Mario Rossi? Che cosa ci sta veramente dicendo Mario Rossi? Non è che Mario Rossi ci sta suggerendo
qualcosa che potrebbe avere molto senso?
Chiedere aiuto (implicito) al cliente aiutato
Filmagenda è un sito che seleziona i migliori film trasmessi in TV: chi
vuole può recensirli.4 La redazione riceve diverse e-mail di complimenti e
ringraziamenti, e tantissime di questo tipo:
oggetto: Richiesta di nome
Desidero mi venga ricordato il nome del mediatore neuroumorale citato nel film «Risvegli»: dopamina, serotonina? grazie.
oggetto: Acquisto film
Salve il mio nome è XXX mi interessava acquistare il film «L’infiltrato» se per gentilezza mi potete aiutare.
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oggetto: Trasmissione film
Gentile redazione, sono un gran appassionato di cinema, anche di film non molto famosi.
Il mio problema è che per una volta vorrei che trasmettessero in tv, su qualsiasi rete,
«The stepfather – il patrigno» e il suo seguito del 1989, anche in videoteca e nei cataloghi sono oramai introvabili. Potete fare qualcosa?
Grazie e arrivederci
Avete presente la barzelletta dell’ubriaco che cerca le chiavi sotto il lampione, anche se le ha perse da un’altra parte, perché sotto il lampione c’è luce? Ecco perché la maggior parte delle e-mail ricevute da Filmagenda non
hanno niente a che fare con il servizio offerto dal sito, ma con servizi difficili
da ottenere, come il recupero di strane informazioni, vecchi film introvabili,
pressioni sulle reti televisive perché trasmettano una determinata pellicola. I
lettori di Filmagenda non sono affatto ubriachi e scrivono perché sanno che il
sito si impegnerà ad aiutarli. Da queste e-mail possiamo ricavare una seconda
legge del customer care: se il tuo cliente ti percepisce come (onni)potente,
non deluderlo. Oggi non puoi esaudire la sua richiesta, ma domani?
Le e-mail citate sono tre suggerimenti per servizi desiderati dai lettori:
●
●
●
un sistema di recupero informazioni sui film realizzabile in ottica
peer2peer, ossia in uno scambio alla pari, senza intermediari;
un servizio di ricerca e vendita di vecchie pellicole difficili da trovare;
una raccolta di liste dei film «che voglio in TV» da far firmare come petizione e trasmettere alle reti televisive come suggerimento per il palinsesto.
Ora, Filmagenda è una realtà minuscola. Avete idea di quanti suggerimenti affollano le caselle di posta elettronica dei grossi marchi in attesa che
qualcuno le legga?
Chiudere il cerchio: riconoscenza e rapport
Ogni tanto ricevo una e-mail da una rivista che leggo e che ha anche un
ottimo sito, Film TV.5 Nell’ultima si ringraziavano i lettori per il successo di
vendita di un DVD allegato alla rivista, chiedendo di scrivere se fosse stato
difficile trovarlo in edicola. Era il mio caso e senza troppe speranze ho scritto chiedendo aiuto. Il mio rapporto con questa rivista era abbastanza distaccato, tanto che pur ricevendo delle e-mail firmate «Luca» non avevo l’impressione di un reale rapporto umano. Sorpresa: Luca esiste e mi ha risposto
così, nel giro di pochi minuti:
100
Ciao Mafe
puoi contattare questo numero di telefono
02 123456
che è il distributore per gli arretrati... solo che il numero non è ancora un arretrato in
effetti...
Puoi anche fare così: segnalami un’edicola dove lo vorresti ricevere e te lo facciamo
arrivare...
Oppure vienilo a prendere direttamente in sede (qui sotto trovi l’indirizzo).
Ciao, a presto.
Grazie a questa risposta, la mia percezione dell’intera rivista è completamente cambiata: la redazione è un posto dove io posso entrare. Basta così
poco! Qualunque sia il canale, il rapport reale emerge: si può essere educati,
si può essere gentili, ma non si può restituire calore umano se non lo si prova davvero. Immaginate quale potrebbe essere la mia reazione se il mio passaggio in redazione (non ancora avvenuto) fosse raccontato sulla rivista, citando il mio parere su Kill Bill improvvisato alla macchinetta del caffè. Da
quel momento in poi sarei pronta a difendere Film TV a prezzo della vita.
Un’altra rivista, PC Open, ha talmente compreso il valore del feedback dei
lettori che ha creato una mailing list in cui si svolge una specie di riunione di
redazione permanente, parallela a quella dei giornalisti veri e propri: ogni numero della rivista viene attentamente vagliato, criticato, lodato se è il caso. Il
direttore ha incontrato di persona i lettori più propositivi, ragionando con loro
sul futuro della rivista, sulle loro aspettative, i suggerimenti e le critiche.
Insomma, tutto dipende dal rapporto che siamo in grado di creare con il
nostro interlocutore: un rapporto di fiducia.
Note
Ricordate la «mano invisibile» di Adam Smith? Vedi ID., Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni (1767), ISEDI, Milano 1973.
2
http://www.garzantilinguistica.it/interna_ita.html?parola=28159
3
http://www.demauroparavia.it/106260
4
http://www.filmagenda.it
5
http://www.film.tv.it
1
101
Divulgazione scientifica
Dialogo tra scienza, giornalismo
e persuasione
di Emiliano Ricci
Che cos’è la divulgazione scientifica
Entrati nel XXI secolo, si fa pressante l’esigenza di raggiungere al più
presto una condizione di sviluppo sostenibile. È infatti appurato che i modelli di sviluppo attuali amplificano il divario fra i paesi industrializzati e
quelli in via di sviluppo, in termini di ricchezza, risorse, capitale umano.
In questo contesto si inserisce anche un vasto dibattito sul futuro e sul
ruolo della scienza.
Il mondo, infatti, è il risultato dell’accelerazione subita dallo sviluppo
scientifico e tecnologico degli ultimi decenni. Da questo deriva una corresponsabilità del mondo scientifico e tecnologico nella gestione e nella risoluzione dei problemi che affliggono il pianeta: un problema specialistico, che può essere risolto solo da chi possiede competenze specialistiche.
Qual è invece il ruolo dell’uomo della strada, cioè di tutti noi? Siamo in
grado di capire il mondo che ci circonda e di essere partecipi delle scelte
che ci coinvolgeranno come membri della società? La domanda è retorica.
In un certo senso noi abbiamo l’obbligo, politico e morale, di comprendere i
termini del problema e partecipare così alla grande sfida del III millennio,
quella – come si legge nel titolo dell’Agenda 21 – di «cambiare il mondo».1
Ma come possiamo conciliare il nostro obbligo di partecipazione con la
nostra ignoranza dei problemi? È questo il nodo da sciogliere: ciò di cui
l’uomo della strada ha bisogno è informazione, nel senso più ampio possibile, e in particolare informazione sullo sviluppo tecnologico e scientifico.
Solo l’essere informati ci permetterà di acquisire la coscienza critica necessaria per partecipare alle scelte di indirizzo morale, sociale e politico. Ecco
103
dunque il ruolo della divulgazione scientifica: una trasmissione di conoscenze sistematica, critica e creativa; un servizio per l’uomo che vuole sapere e partecipare, come cittadino del «villaggio globale».
Il ruolo del divulgatore-interprete
Eppure sono poche le persone consapevoli di vivere in un mondo dominato dallo sviluppo scientifico e tecnologico, e capaci di comprenderlo.
Il principale problema nel comunicare la scienza è quello del linguaggio.
Al comunicatore si pone il problema di far corrispondere a concetti espressi
nel linguaggio scientifico, fortemente convenzionale, concetti espressi nel
linguaggio ordinario, ricco di termini che o designano più cose diverse, anche se ben definite (per esempio, la parola ospite in italiano ha addirittura
due significati opposti), o designano concetti nebulosi, mal definiti, spesso
nemmeno suscettibili di un’esatta definizione (tempo, paura, diritto ecc.).
Chi deve comunicare la scienza si trova nel ruolo di interprete, che traduce da una lingua complessa a una lingua più accessibile. È fondamentale
che questo interprete conosca sia l’una sia l’altra, e che conservi della prima
rigore e precisione, pena la perdita parziale (o addirittura completa) del contenuto del messaggio scientifico, o una sua mistificazione.
Notevoli sono le ricadute sociali di un’efficace divulgazione scientifica: i
destinatari acquisiscono consapevolezza del proprio mondo e si fanno così
partecipi delle scelte di sviluppo scientifico. Si tratta perciò di raggiungere
una democrazia dell’accesso al sapere scientifico: partecipare alle scelte,
essere responsabili delle decisioni. Basti pensare ai problemi sociali sollevati dall’uso dell’energia nucleare o dagli studi di ingegneria genetica.
Si impone quindi anche una critica a quel giornalismo scientifico che si
lascia spesso andare a facili sensazionalismi, banalizzando il contenuto della scoperta che resta oscuro ai più. Correttezza del messaggio significa anche permettere ai lettori di valutarne l’esatta portata.
La comunicazione della scienza può così veramente contribuire a superare la storica distinzione fra cultura scientifica e cultura umanistica, ancora
tanto radicata, purtroppo, nella tradizione italiana.2
Esempi celebri
Una citazione, tratta dal De rerum natura (La natura) del poeta latino
Tito Lucrezio Caro (ca 99-55 a.C.).
104
Quanto al resto, presta alla vera dottrina orecchie sgombre
(ed animo sagace), scevro d’affanni,
affinché non abbandoni con disprezzo, prima di averli intesi,
i miei doni disposti per te con cura fedele.
Ché mi accingo ad esporti la suprema dottrina
del cielo e degli dei, e ti rivelerò i primi principi delle cose,
da cui la natura produce tutte le cose, le accresce e le alimenta,
e in cui la stessa natura risolve le cose dissolte:
questi nell’esporre la dottrina noi siamo soliti chiamare
materia e corpi generatori delle cose,
e li denominiamo semi delle cose, e inoltre li designiamo
corpi primi, perché tutto da essi primamente ha esistenza.3
Il compito che Lucrezio si era dato era tutt’altro che semplice: spiegare
ai romani la filosofia epicurea. Con una questione da risolvere, squisitamente linguistica: evitare «grecismi» e termini filosofici estranei alla lingua latina, per risultare più chiaro ai suoi lettori. Un vero e proprio problema di comunicazione/divulgazione, che il poeta latino risolve usando metafore, circonlocuzioni, neologismi. Così, per esempio, riesce a spiegare cosa sono gli
atomi senza mai usare quel termine, di chiara origine greca (átomos, indivisibile), ma chiamandoli rerum primordia, «principi primi delle cose». Il De
rerum natura è quindi un vero e proprio testo di divulgazione scientificofilosofica, sia per l’argomento trattato sia per l’attenzione che Lucrezio dedica al linguaggio.
Facciamo un salto in avanti di oltre 1500 anni per arrivare a Galileo Galilei (Pisa 1564 - Firenze 1642), il fondatore del metodo scientifico moderno. Galileo era consapevole della difficoltà che avrebbe incontrato nel divulgare le sue idee: da qui l’uso della lingua italiana al posto del latino, all’epoca ancora lingua dotta, e soprattutto la scelta di uno stile letterario,
semplice e avvincente. Leggiamo uno dei suoi brani più noti, in cui introduce il concetto di relatività del moto, tratto dal Dialogo:
Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di un gran
navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran
vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che
a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia
posto in basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno
andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel
vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e
saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazi passerete verso tutte le parti. Os-
105
servate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che
mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con
quanta si voglia velocità; che (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in
là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o pure stia ferma.4
Commentando le capacità divulgative e la forza comunicativa di Galileo,
Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica, scrive:
Nel divulgare la scienza Galileo cercava di risvegliare lo spirito scientifico moderno
nelle menti del maggior numero possibile di persone. Cercò di portare la scienza
fuori dalla cerchia ristretta degli scienziati facendone un fenomeno di interesse generale che permeasse tutti i livelli della società. E mise un’energia straordinaria in questo tentativo. […] Imitiamolo in maniera più umile ma ugualmente infaticabile.5
Ancora un balzo e arriviamo ai nostri giorni. È di pochi anni fa uno dei
capolavori della divulgazione scientifica: Dal Big Bang ai buchi neri, del fisico britannico Stephen Hawking, titolare della cattedra che fu di Isaac
Newton alla Cambridge University. Pur su temi molto complessi, Hawking
riesce a mantenere la trattazione comprensibile. Come nell’introduzione al
concetto di «freccia del tempo»:
Sino all’inizio di questo secolo si credette in un tempo assoluto. […] La scoperta che
la velocità della luce appare la stessa a ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia
muovendo, condusse però alla teoria della relatività, nella quale si dovette abbandonare l’idea che esista un tempo unico assoluto. Ogni osservatore avrebbe invece la
sua propria misura del tempo quale viene misurato da un orologio che egli porta con
sé: orologi portati da differenti osservatori non concorderebbero necessariamente
fra loro. Il tempo diventò così un concetto più personale, relativo all’osservatore che
lo misurava.
Quando si tentò di unificare la gravità con la meccanica quantistica, si dovette introdurre l’idea del tempo «immaginario». […] D’altra parte, quando si considera il tempo «reale», si trova una differenza grandissima fra le direzioni in avanti e all’indietro,
come ognuno di noi sa anche troppo bene. Da dove ha avuto origine questa differenza fra il passato e il futuro? Perché ricordiamo il passato ma non il futuro?6
Pur con evidenti differenze, i tre brani qui riportati «giocano» molto con
il linguaggio, per ricondurre concetti difficili all’esperienza quotidiana: i
«semi» di Lucrezio, il «navilio» di Galileo, gli «orologi» di Hawking. Ed è
proprio questa la tecnica che deve apprendere chi voglia fare divulgazione
scientifica.
106
Dal rigore della definizione alla «leggerezza» dell’analogia
La difficoltà maggiore per il lettore è la comprensione del testo. Alcuni
ricercatori hanno infatti paragonato la lettura a un compito di problem solving: il lettore si avvale di indizi provenienti dal testo e delle proprie conoscenze per avanzare ipotesi su ciò che legge.
La comprensione nasce infatti dall’incontro tra le caratteristiche del testo
e quelle del lettore. Ecco perché soggetti diversi possono avere rappresentazioni diverse dello stesso brano.
Questo è anche il motivo per cui uno scienziato, che scriva divulgando
un tema di propria competenza, non oserà mai quanto un giornalista scientifico. Lo scienziato preferisce il rigore della definizione, non ama scendere
nel terreno delle metafore, o di altre figure retoriche, principali strumenti
del divulgatore.
Ecco cosa scrive a tal proposito il fisico Carlo Bernardini, direttore della rivista Sapere:
La divulgazione è un ibrido che richiede il possesso di molte qualità spesso incompatibili. Uno stile accattivante spesso introduce suggestioni fuorvianti, ma uno stile rigoroso annoia o richiede uno sforzo mentale eccessivo. […] Non credo che una ricetta ci sia. Conosco persone che sono favorevoli all’uso della metafora come succedaneo della comprensione specialistica; personalmente, non sono favorevole a questa pratica, che produce illusioni spesso devianti. Altro è semmai l’analogia, che
spesso ha un ruolo nella scoperta stessa.7
Non tutti la pensano così. Piero Angela, giornalista RAI, ideatore e conduttore della trasmissione televisiva Superquark, nonché autore di molti libri di divulgazione scientifica scrive:
Con le dovute cautele [la metafora] è anche un mezzo di spiegazione molto potente.
Per esempio, una di queste cautele sono i segnali di avvertimento: «per così dire», «è
un po’ come se», le virgolette, che hanno lo scopo di distanziare il lettore o lo spettatore dal piano letterale, gli insinuano il dubbio che le cose non siano poi così semplici.
La metafora e, più in generale, le figure d’analogia hanno un enorme vantaggio, quello
di dare un taglio secco, una prima approssimazione che consente di stabilire alcuni
punti di riferimento, indispensabili per chi ha poca familiarità con l’argomento.8
Esistono quindi diversi tipi di divulgazione scientifica, corrispondenti a
diversi livelli di approfondimento di un tema, ciascuno con il proprio linguaggio fatto di definizioni esatte o di metafore o di entrambe.
Per non correre rischi di fraintendimento, molti scienziati divulgatori
usano un linguaggio tecnico comprensibile a una minoranza di lettori, men107
tre i giornalisti scientifici sfruttano al massimo gli strumenti del linguaggio
comune per rendere più semplici i loro scritti, con il rischio di risultare troppo superficiali. Come sempre, forse, la verità sta nel mezzo.
Il pubblico della divulgazione scientifica
Che cosa porta la gente a interessarsi di scienza? Leggiamo ancora Piero
Angela:
La vera spinta, che porta poi il pubblico, ma anche chi fa divulgazione, a occuparsi di
scienza è la curiosità di sapere, perché la scienza risponde oggi, o cerca di rispondere, a quelle che sono state le grandi domande dei filosofi: «da dove veniamo», «chi
siamo», «dove andiamo», «come è nata la vita». Se si pensa, la paleontologia risponde
all’evoluzione della vita o all’evoluzione dell’uomo, l’astrofisica ci dice come si è formato il sistema solare o addirittura l’universo, la biochimica come è nata la vita e la
neurofisiologia come funziona il cervello, il pensiero. Domande che una volta erano
tipiche dei filosofi naturali, ovvero quelli che erano, al tempo stesso, «scienziati» pur
non avendone i mezzi.9
Curiosità, dunque, ma non solo. C’è anche, come dicevamo in principio,
la volontà di capire e di partecipare alle decisioni. Pietro Greco, giornalista
scientifico di L’Unità:
Nelle società democratiche non c’è alternativa alla soluzione dei problemi sociali generati dalla tecnoscienza che non prevedano la compartecipazione attiva anche dei
cittadini non esperti. […] I cittadini non hanno solo il diritto di accedere a un’informazione totale e trasparente, possibilmente erogata da più centri. Hanno anche il diritto
di essere ascoltati, sia dai vari soggetti istituzionali che dagli esperti. Se la disponibilità a informare e ad ascoltare è reciproca e rispettosa delle diverse competenze, al
termine del processo decisionale le scelte probabilmente saranno migliori. Senza questo dialogo incessante e paritario le scelte sono, semplicemente, impossibili.10
I grandi temi della divulgazione scientifica
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.11
Gli esseri umani hanno bisogno di conoscere. In particolare, conoscere
le questioni che li riguardano da vicino: la mucca pazza, l’AIDS, la SARS,
l’inquinamento ambientale e così via.
108
Si può vivere bene senza sapere cosa sono i quark o le galassie; meno bene ignorando gli effetti di un’alimentazione basata sui prodotti transgenici.
Anche in questi casi è necessario un enorme sforzo di comunicazione,
forse ancor maggiore di quello richiesto dai grandi temi «filosofici».
Essere chiaro e intellettualmente onesto è uno dei principali doveri di un
giornalista. A maggior ragione di un giornalista scientifico.
Scienza contro pseudoscienza (con sorpresa)
Per concludere, una riflessione e un breve confronto fra gli strumenti di
persuasione impiegati da scienziati e comunicatori di scienza e quelli impiegati dagli pseudoscienziati. È inevitabile rintracciare in un testo di scienza
una qualche attenzione alla persuasione, e il largo uso di figure retoriche come la metafora, l’analogia o il paragone deriva per gli scienziati proprio da
questa volontà di essere convincenti, seppure supportati da dati sperimentali e riscontri oggettivi derivanti dall’applicazione (sperabilmente rigorosa)
del metodo scientifico.
Ma allora che differenza c’è fra scienza e pseudoscienza, se entrambe
fanno leva sulle capacità persuasive di chi le esercita? Risponde Roberto
Vanzetto, esperto di pseudoscienze:
Una scienza si distingue da una pseudoscienza per i risultati che ottiene: anziché essere risultati attesi, presunti, promessi o raccontati da guru o da testimoni oculari, sono
risultati dimostrati, ai quali non è richiesto credere per fede. Questa differenza deriva
dal diverso criterio di indagine, di ricerca e di verifica degli esperimenti e delle teorie
che viene utilizzato: da una parte c’è il metodo scientifico, dall’altra la persuasione
pseudoscientifica. […] Nella pratica, però, la distinzione può essere molto difficile, perché le pseudoscienze hanno un collaudato sistema di manipolazione, selezione e presentazione dei risultati, fatto apposta per persuadere il pubblico sulla loro efficacia.12
Nel calderone delle pseudoscienze è finita anche la PNL, che fra l’altro
studia anche le tecniche di persuasione. Diversi gruppi di ricercatori l’hanno
messa alla prova: nessuno dei suoi assunti di base ha passato l’esame del
metodo scientifico, ovvero della verificabilità dei dati e della riproducibilità
degli esperimenti. Né le sue supposte capacità terapeutiche, né lo schema
dei sistemi rappresentazionali, né la relazione tra movimenti oculari e strategie del pensiero. La letteratura scientifica sembra non avere dubbi:
le prove empiriche a sostegno sia degli assunti sia dell’efficacia della PNL sono praticamente inesistenti.13
109
Se la PNL non è una scienza, vuol dire che non funziona? Non lo sappiamo con certezza. Ciò che sappiamo è che comunque insegna una tecnica
importante, la «lettura a freddo» (cold reading), che permette di «leggere»
una persona senza sapere nulla di lei.
Un grande cold reader era Sherlock Holmes, in grado di tratteggiare il
profilo psicologico di chi gli stava davanti solo ponendo attenzione ad alcuni dettagli importanti: tono di voce, espressione del viso, gestualità, postura,
abbigliamento.14
Tutti facciamo questa operazione quotidianamente, magari senza pensarci. Ecco, la PNL insegna a porvi maggiore attenzione: sapendo «leggere» il
nostro interlocutore, è anche più facile comunicare con lui.
Tenendo sempre presente che quella di persuadere è un’arte, non una
scienza.
Note
1
Agenda 21 è un documento di propositi e obiettivi programmatici su ambiente, economia
e società, che riunisce i progetti di sviluppo sostenibile definiti a livello internazionale.
Venne sottoscritto da oltre 170 paesi durante la conferenza mondiale su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992.
2
Fu lo scrittore e scienziato britannico Charles Percy Snow (1905-1980) a marcare l’accento
sui complessi rapporti tra scienza, etica e politica e, in generale, fra cultura scientifica e cultura umanistica. Nella sua opera più famosa e discussa, The Two Cultures, pubblicata nel
1959 (tr. it. Le due culture, Feltrinelli, Milano 1964), Snow sottolineò la pericolosità della
frattura creatasi tra scienza moderna e cultura umanistica, invitando scienziati e uomini di
lettere a maggiori scambi reciproci.
3
LUCREZIO CARO, TITO, La natura I,50-61, Garzanti, Milano 1994, pp. 4-5.
4
GALILEI, GALILEO, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632), Einaudi, Torino 1970, pp. 227-228.
5
RUBBIA, CARLO, «Galileo e la divulgazione della scienza», Galileo Journal, Giornale di
scienza e problemi globali, a. I, n. 1, maggio 1996, http://www.galileonet.it
6
HAWKING, STEPHEN W., Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano
1988, pp. 166-167.
7
BERNARDINI, CARLO, «Divulgazione in controtendenza», Sapere, n. 6, novembre-dicembre
2003, http://www.galileonet.it/Sapere/sapere.html
8
ANGELA, PIERO, Raccontare la scienza, a cura di Giuseppe Ferrari, Pratiche, Milano 1998,
p. 65.
9
ANGELA, PIERO, «La comunicazione scientifica», Il Grillo, RAI Educational, puntata del 7
110
maggio 2002 (registrazione del 7 febbraio 2002), http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.
asp?d=910
10
GRECO, PIETRO, «La lezione di Scanzano», Jekyll.comm, n. 7, dicembre 2003, http://
jekyll.comm.sissa.it/editoriale_jek7.htm
11
DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia; Inferno XXVI, 119-120.
12
VANZETTO, ROBERTO, Scienza, paranormale e pseudoscienza, Provincia di Torino, Torino
2002 (dossier aggiornato all’11 marzo 2004), http://www.torinoscienza.it/dossier/
apri?obj_id=1622
13
JONES, LEWIS, «Che cos’è la PNL? E funziona?», Scienza e paranormale, a. IX, n. 40,
novembre-dicembre 2001, http://www.cicap.org/articoli/at101621.htm
14
Sherlock Holmes è l’investigatore dalle straordinarie doti deduttive e induttive, protagonista dei romanzi dello scrittore britannico Arthur Conan Doyle (1859-1930).
111
E-mail
Scrivere o parlare?
di Alessandro Lucchini
WRITE the way you speak: scrivi come parli. Quando ho incontrato questo
motto americano, ho tirato un sospiro di sollievo. Ho pensato che mi sarei
preso una rivincita sulla maestra e sui suoi due «registri» linguistici: scritto
e parlato. Se scrivevo nel tema «Quest’estate ho fatto un bel viaggio», segnaccio rosso sotto fatto. Correzione: realizzato, svolto, effettuato: non si
scrive come si parla. Poi è arrivata l’e-mail: via ogni pudore. Uehi, gulp,
aarrgghh, sigle, gerghi. E l’Italish, quel misto di italiano e inglese:
Ti forwardo una mail con attachment sulla sharabilità degli skills. Droppalo, se non ti
serve, ma replyami asap.
Ma sì, l’e-mail è written speech, discorso scritto. Staremo mica sempre lì a
rileggere tutto prima di inviare, neanche fosse il tema di maturità. Poi ho notato che spesso, le e-mail, la gente le stampa. Le archivia. Ne fa fotocopie e le
appende. Le inoltra ad altre persone, facendo di te uno zimbello per quella
doppia zeta che ti è scappata.1 Alcuni mandano messaggi al collega della scrivania di fronte, giusto per evitare discussioni. E arrivano a mandarsi al diavolo, magari per una parola che, a voce, avrebbe avuto tutt’altro effetto: il fenomeno è noto col nome di flaming: la velocità e l’impetuosità tecnologica incoraggiano comportamenti di rottura che faccia a faccia sarebbero autocensurati.
Verbale, paraverbale, non verbale
Secondo lo psicologo Albert Merhabian, un oratore che parla in pubblico
proietta le proprie idee e i propri sentimenti:
113
●
●
●
per il 7 per cento con le parole che dice (verbale);
per il 38 per cento con il modo in cui le dice (paraverbale);
per il 55 per cento con le espressioni del viso e la gestualità (non verbale).2
Il 93 per cento di ciò che rimarrà in testa al pubblico non dipende dalle
parole. Ciò non significa che uno possa dire ogni cosa gli salti in mente. Ma
forse sarà stato ore a scrivere e a limare il suo discorso. E i fattori determinanti sono altri: voce, timbro, toni, volume, velocità, ritmo, pause; e poi
sguardi, sorrisi, smorfie, movimenti delle mani e del corpo, respiri.
Bene. Che c’entra tutto questo con le e-mail? Forse c’è voce nelle email? Volume? Velocità? Ci sono sorrisi, occhiate, gesti, respiri? No. Allora
dobbiamo accontentarci solo delle parole? Io credo di no. Ovvio, nella scrittura le parole valgono più del 7 per cento, ma non credo superino il 50.
Meno evidente, più sottile e più difficile da controllare, una componente
paraverbale c’è, eccome. Apri una e-mail: la vedi fitta, righe piene, paragrafi lunghi, poca punteggiatura. Non ti annoia ancora prima di leggerla?
Al contrario, parole brevi, periodi brevi. Soggetto-verbo-complemento.
Punto.
A capo.
Una riga di spazio.
Neanche mezzo rigo, a capo.
Sei parole e ancora a capo.
Non ti mettono fretta?
Allora esiste una «voce» della scrittura: velocità delle frasi (verbi), pause
(spazi bianchi), variazioni di ritmo (parole lunghe, parole brevi, punteggiatura) o di volume (maiuscole/minuscole).
E c’è anche un non verbale. Il carattere, anzitutto. Un Verdana o un
Times New Roman, un Arial o un Brush Script cambiano l’effetto di una
parola. Il colore: una frase in blu, o due parole rosse in un testo nero. La formattazione: titoletti, spazi bianchi, liste puntate o numerate danno vivacità e
leggerezza al messaggio. E poi gli emoticon, le faccine disegnate con i caratteri della tastiera.
Nelle e-mail viene fuori quasi sempre ciò che sentiamo mentre scriviamo. A volte lasciamo del tutto libere le emozioni, forti del non dover affrontare la presenza fisica dell’interlocutore. Scendendo più a fondo, è utile distinguere le e-mail in uscita dalle e-mail di risposta.
114
Le e-mail in uscita: sei abilità fondamentali
Per scrivere e-mail efficaci sono fondamentali sei abilità:
1. Anzitutto la chiarezza: ridurre i disturbi della comprensione, combinando
semplicità e sintesi. Il metamodello ha qui ampio terreno di applicazione.
Saper porre a noi stessi le domande che si porrà il lettore: ho cancellato parti importanti del mio ragionamento? Ho generalizzato o deformato alcuni
concetti? Il lettore sarà disposto a confrontarsi con la mia esperienza?
2. Inoltre la vaghezza, parte complementare della chiarezza. A volte bisogna
essere chiari; altre volte bisogna, o conviene, essere vaghi. È l’approccio
del Milton model: il linguaggio aperto e seduttivo ci permette di essere
«abilmente vaghi», facendo affermazioni abbastanza generiche per ricalcare la posizione del lettore, qualunque essa sia. Se voglio convincere
qualcuno, per esempio, posso cominciare con un ricalco generico: sociale,
situazionale, emotivo ecc. («L’ambiente in cui viviamo è il patrimonio più
prezioso per tutti noi»); o con un argomento in cui la maggior parte dei lettori può riconoscersi facilmente («Saper scrivere e-mail è un’esigenza che
riguarda sempre più persone…»). Posso ricalcare tutti i sistemi rappresentazionali. Oppure posso cominciare parlando di me per poi cercare di condividere la mia esperienza («Sarà successo anche a lei»).
3. C’è poi la struttura dell’e-mail (inizio-corpo-fine). Tre sigle possono
aiutarci a organizzare il testo in base all’obiettivo: BLOT (bottom line
on top), l’argomento principale all’inizio (per esempio, comunicati
stampa, memo, avvisi); BLIM (bottom line in the middle), l’argomento
principale in mezzo (cattive notizie); BLOB (bottom line on the bottom), l’argomento principale alla fine (proposte commerciali, inviti,
messaggi motivazionali).
4. Quindi l’abilità di catturare l’attenzione del lettore con una scrittura vivace e interessante. Domande, elementi di sorpresa, variazioni di ritmo,
interruzioni di schema, nonché figure retoriche, giochi con le parole e
con i numeri. Tecniche di ricalco che sanno creare sintonia e intimità con
il lettore. Metafore che sanno trasmettergli un messaggio agendo sulla
sua sfera inconscia.
5. Altra abilità è lo stile: avere un ampio repertorio di stili, per saper scegliere il più adatto a ogni pubblico, a ogni obiettivo, a ogni strumento.3 E
sviluppare uno stile personale, riconoscibile come la propria voce.
6. Infine il processo di scrittura: gestire al meglio le diverse fasi dello
scrivere, dal prewriting al freewriting al rewriting (progettazione, stesura, revisione).
115
Metodo CRG (calibrazione, ricalco, guida)
Calibrazione
Raccogliamo informazioni su chi scrive: perché scrive, che cosa vuole da noi, qual è il suo
stato d’animo? Quali scelte ce lo rivelano:
■ scelte verbali: registro lessicale, sistemi rappresentazionali, verbi, sostantivi, aggettivi, avverbi ecc.
■ scelte paraverbali: tono, stile, fluidità, ritmo, punteggiatura ecc.
■ scelte non verbali: grafica, formattazione, maiuscole ecc.
➜ Senza fretta di giudicare!
R i c a l c o ➜ rapport
Individuiamo quali parti del suo testo ci conviene ricalcare per entrare in buona relazione.
➜ Attenzione anche alle scelte che non ci conviene ricalcare.
Guida
Individuiamo l’obiettivo della relazione con il lettore e il messaggio che vogliamo trasmettere: creata la sintonia, muoviamoci con lui verso quella direzione; con questo intento, scriviamo la risposta.
Rispondere alle e-mail: il metodo CRG
Sulle e-mail di risposta ho potuto svolgere in questi anni esperimenti interessanti, sia sul campo, ossia nelle mie e-mail, sia nelle aule di formazione.
Ecco un metodo nato proprio da questi esperimenti, e riepilogato nello
schema qui sopra. Il metodo CRG (calibrazione, ricalco, guida) si ispira alle
esperienze maturate da ciascuno di noi nella comunicazione interpersonale.
Obiettivo: ampliare l’effetto delle parole, acquisendo dimestichezza con la
sfera paraverbale e non verbale, per sfruttarla anche nella scrittura.
Può essere utile concedersi qualche minuto di esercizi.
Esercizi di calibrazione
Esercizio 1. Calibrazione visiva sul non verbale
Due persone, A e B, siedono l’una di fronte all’altra. A pensa a una persona simpatica, senza parlare. B «calibra», ossia analizza ogni atteggiamento di A: movimenti degli occhi, delle mani e del corpo, ritmo del respiro, variazioni del colorito. Così per due-tre minuti.
Poi A fa lo stesso pensando a una persona antipatica. B calibra. Altri
due-tre minuti.
116
Quindi A pensa a una delle due persone, senza dichiarare quale. Calibrando le espressioni corporee, B intuirà la scelta.
Poi cambio di ruoli e scambio di commenti sull’esperienza: che cosa l’uno ha notato dell’altro, quali segnali sono più evidenti, quali meno, quando
appaiono, come sfumano.
Scopo dell’esercizio non è indovinare, bensì sviluppare sensibilità nell’osservazione. Senza fretta di giudicare: un giudizio precipitoso (per esempio, incrocia le braccia = è chiuso; sbatte le palpebre = è nervoso) può essere una barriera alla raccolta di informazioni.
Esercizio 2. Calibrazione auditiva sul paraverbale
Due persone siedono l’una di fianco all’altra. Pensando prima a una persona simpatica, e quindi a una antipatica, poi a una delle due da riconoscere,
A pronuncia una serie di numeri, da 1 a 10. Parole senza significato nel contesto: semplici suoni.
Senza guardare il compagno, solo porgendo l’orecchio, B calibra il paraverbale: intonazione, variazioni di volume, ritmo, velocità, pause.
Poi cambio di ruoli, e scambio di commenti sull’esperienza.
Tra i risultati più interessanti di questo esercizio c’è la diffusa difficoltà
nel descrivere le sensazioni auditive. Nel nostro repertorio lessicale abbiamo
pochi aggettivi adeguati. Molte persone ricorrono perciò a forzature linguistiche come sinestesie («la voce a un certo punto s’illuminava») e metafore
(«verso la fine il tono ha preso il volo»), o al linguaggio corporeo, riproducendo il ritmo con le mani, alzando le sopracciglia per evocare un tono molto acuto, o aggrottandole per uno grave.
Esercizio 3. Calibrazione verbale:
analisi dei sistemi rappresentazionali (VAK)
Passando a calibrare le parole, prendiamo questa e-mail.
Come sapete la ASL di Trento ha bloccato TUTTE le nostre fatture (per tutte le aree
applicative), anche quelle già liquidate. Il collega Rossi mi ha chiesto un intervento
per cercare di sbloccare la situazione, ormai piuttosto grave. Ho parlato con Silvia
Bianchi (referente del PCD per le nostre applicazioni) che mi conferma il blocco totale delle fatture sino a quando l’integrazione Anagrafica che aspettano ormai da anni non sarà realizzata e testata. Ciò anche a fronte della possibilità da me sottolineata di un blocco delle nostre attività sulle aree non coinvolte da questo problema (gestione del personale).
Vi chiedo pertanto di collaborare al fine di rendere disponibile nel modo più veloce
possibile la suddetta integrazione e sbloccare conseguentemente la situazione fatture.
Grazie per la collaborazione.
Saluti
117
Verbi
Sostantivi
V
Aggettivi e avverbi
a fronte
sottolineata
A
chiesto
parlato
chiedo
referente
K
bloccato
sbloccare (2)
conferma
realizzata
testata
blocco (2)
integrazione (2)
liquidata
grave
coinvolte
Individuiamo le parole sensorialmente specificate, ossia quelle che
esprimono i sistemi rappresentazionali (VAK: visivo, auditivo, cenestesico),
e collochiamole in una tabella come nell’esempio qui sopra.
Contiamo: 2 parole visive, 4 auditive, 10 cenestesiche, delle quali ben 5
sono verbi, ossia le parole più potenti e che segnano più a fondo le valenze
sensoriali. Netta prevalenza di K.4
Valore della calibrazione nell’e-mail
A che cosa ci serve la calibrazione? Vediamolo più nel dettaglio con
quest’altro esempio.
Gentile Marzia Lupi,
in merito alla sua e-mail, la informiamo che abbiamo effettuato un controllo sul suo
conto corrente. Le comunichiamo che l’estratto conto risulta corretto. Da parte nostra, desideriamo rassicurarla che non è avvenuto alcun errore di calcolo. Le ricordiamo che i «prezzi movimenti» sono i prezzi medi di carico implementati delle commissioni bancarie. La invitiamo a rivolgersi alla sua filiale di riferimento per ogni ulteriore
informazione.
Con l’occasione le porgiamo cordiali saluti.
Dall’analisi VAK questo testo risulta abbastanza neutro. Forse con lieve
prevalenza auditiva, a causa di quelle parole relazionali (informiamo, comunichiamo, informazione) e di tutte quelle rime in -iamo. Basterebbe inserire alcune espressioni V, se sapessimo che Marzia Lupi è visiva: «abbiamo controllato», «le facciamo presente», «non abbiamo riscontrato errori»,
«la invitiamo a chiarire» ecc. O espressioni K, se Marzia Lupi è cenestesi118
ca: «abbiamo preso in mano la situazione», «la invitiamo a contattare la
sua filiale» ecc.
E così si è introdotto da solo il tema del «ricalco».
Un esercizio di ricalco
Ricalcare significa andare incontro all’altra persona nel punto in cui si trova, riflettendo quello che sa o presuppone sia vero, o accordarsi ad alcune parti dell’esperienza
che sta vivendo. […] Consiste nell’essere o nel diventare come l’altra persona in modo da ottenere la sua attenzione, la sua amicizia e il suo aiuto.5
Un semplice esercizio dimostra come funziona il ricalco.
Due persone, A e B, stanno l’una di fronte all’altra, in piedi. A pronuncia
una serie di colori (parole prive di significato specifico), scegliendo il ritmo,
l’atteggiamento del corpo e ogni altra caratteristica espressiva. Così per circa
due minuti. B «ricalca»: ripete ogni parola di A, ne imita il timbro, il ritmo,
l’intonazione, le pause, i gesti, gli sguardi, le movenze. Poi cambio di ruoli e
scambio di commenti.
Quasi sempre, dopo un po’, B riesce a riprodurre ogni scelta di A in modo automatico, senza più pensarci. Diventa uno specchio. Dopo un altro
po’, B riesce quasi ad anticipare A: A dice «g» e B subito «giallo», «ve»«verde», «ro»-«rosso». Le due voci diventano una voce sola. Unisono, appunto.
Si è creato così il rapport. Spesso tra i due che hanno fatto l’esercizio in
coppia si è creato davvero qualcosa di speciale: vanno a bere il caffè insieme, si scambiano occhiate d’intesa. A volte, quando chiacchierano, tengono
perfino la stessa postura.
Il ricalco ha infatti un’onda lunga e benefica: il rapport, appunto.
Se è possibile creare quest’onda in modo artificiale, con un esercizio di
pochi minuti, quanto è efficace un ricalco profondo, frutto di reale conoscenza e sintonia?
Il ricalco nelle e-mail
Sono molti gli elementi da ricalcare in un’e-mail. Apertura e chiusura.
Lunghezza delle frasi e del testo. Struttura argomentativa (BLOT-BLIMBLOB). Sistema rappresentazionale dominante (VAK). Quantità e uso dei
verbi, modi (c’è chi ama il congiuntivo, chi l’indicativo, chi l’imperativo) e
tempi (chi parla al presente, chi al futuro). Quantità, qualità e posizione de119
gli aggettivi. Congiunzioni (e, ma, però, tuttavia, se, benché, allora, comunque ecc.). Operatori modali (posso, devo, è necessario ecc.).
A volte funziona bene un ricalco verbale completo, tipo copia-incolla.
Quando l’e-mail ricevuta contiene diverse domande o punti, è bene inserire
ogni risposta dopo la relativa domanda o punto: l’effetto botta-risposta crea
un dialogo caldo e stringente.
Facile ricalcare anche tono e stile: tecnico-specialistico o generico-familiare, allegro o serio, formale o colloquiale. A chi usa gli emoticon, per esempio, è utile rispondere con gli emoticon; rischioso farlo con chi scrive «Con
la presente sono lieto di informarLa».
Ci sono anche elementi da non ricalcare. Attenzione al carattere: chi
usa il comics forse lo fa perché vuole distinguersi; ricalcarlo sarebbe fargli
il verso. Da non ricalcare anche certi toni rigidi e freddi.
Una riflessione a parte merita l’oggetto: è la parte più importante, concentra il messaggio in pochi caratteri. Ormai siamo tutti addestrati a inserirvi esche potenti. Chi fa un reclamo, per esempio, evita le forme generiche
come «oggetto: Reclamo». Ai call center delle banche arrivano e-mail intitolate «Devo passare alla concorrenza?». A un presidente di regione, dopo il
decreto di multa per chi non mette museruola e guinzaglio al cane, è arrivata una e-mail dal titolo: «Museruola e guinzaglio se li metta lei».
In questi casi non conviene usare la funzione «Rispondi», che replica
l’oggetto dell’e-mail ricevuta. Meglio interrompere lo schema, e ristrutturare il dialogo su altri toni.
Il passaggio alla guida
Quando tieni il passo di una persona, questa è disposta a seguire il passo successivo
che farai. […] Ricalcare è fare qualcosa di simile a quello che sta facendo l’altra persona: guidare è fare qualcosa di diverso.6
Se calibrazione e ricalco hanno prodotto rapport, è il momento di passare alla guida.
Teniamo ben presente l’obiettivo della relazione con il lettore e il messaggio che vogliamo dargli, e muoviamoci con lui in quella direzione. Attenzione: «muoviamoci insieme», non «spingiamolo». Guidare significa
andare per primo: il lettore deve sentirsi accompagnato, non spinto dall’esterno.
Vediamo ora un esempio di applicazione del metodo CRG.
120
➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜
ANALISI DEL TESTO CON IL METODO CRG
di Maristella Addante
Una e-mail di protesta ricevuta dal servizio clienti di una grande azienda.
oggetto: Devo sgozzare le centraliniste?
Gentile Servizio Clienti,
sono stanco e scocciato.
Aspetto e aspetto che mi attiviate ’sta benedetta linea!
Cosa devo fare? Sgozzare quelle povere centraliniste???
Siete degli incompetenti e ladri.
Schifo!!!
Invece di pagare Del Piero, pagatevi un avvocato, che ci sono più clienti incazzati che
clienti insoddisfatti.
Bestie!
[firma]
CALIBRAZIONE
Il cliente grida il suo diritto ad avere ciò che ha richiesto. È deluso. Vuole umiliare
l’azienda, sperando di attirare l’attenzione.
■ S c e l t e v e r b a l i—Parole come incompetenti, ladri, insoddisfatti sono distribuite in tutta l’e-mail, sempre a fine frase. Gli aggettivi benedetta e povere sono carichi di ironia. Bestie! è la stoccata finale. Un verbo forte come
sgozzare (sistema rappresentazionale K), anticipato nell’oggetto con un
operatore modale di necessità (devo), a indicare la mancanza di alternative, unica risposta a una soluzione che invece dovrebbe fornire l’azienda.
Provocazione estrema. La ripetizione del verbo aspetto sottolinea l’attesa
lunga e snervante. L’apertura, formula classica, ma di tono ironico, contrasta con l’offesa in chiusura.
■ S c e l t e p a r a v e r b a l i—Tre punti interrogativi e tre esclamativi: urla nervose, con ritmo serrato.
■ S c e l t e n o n v e r b a l i—Frasi brevi e secche. Due domande retoriche, alle
quali l’autore stesso si dà risposta, non trovando un interlocutore. Molti a
capo, per scandire i concetti. Lo immaginiamo, cupo in volto, gesticolare in
modo perentorio.
RICALCO
Che cosa ci conviene ricalcare per avvicinare il lettore? Forse solo il verbo attivare: ha il suono che sta aspettando da mesi; la brevità dei periodi; la semplicità
lessicale e sintattica; gli a capo per esprimere diversi concetti. Da non ricalcare,
invece, i toni bruschi e la punteggiatura troppo marcata.
121
GUIDA
Idee per la guida: chiedere scusa; spiegare i motivi del ritardo; fornire date reali e
precise. Non raccogliere le provocazioni, quindi non rispondere alle domande
che il cliente si pone. Sottolineare il lavoro che sta svolgendo il customer care.
Proporre un dialogo migliore di quello avvenuto finora.
➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜
Il caso di Serena
Un caso personale. Una lettrice mi ha scritto l’e-mail che riporto qui sotto.
Gentile Lucchini,
ho comprato diversi anni fa il suo libro «Scrivere: una fatica nera» che ho sempre con
me sulla scrivania e che ho consigliato a diverse persone che mi chiedevano dei libri
utili sullo scrivere. Pensando di farmi un altro regalo ho comprato anche «Business
writing: scrivere nell’era di Internet» attirata soprattutto dal contributo dei «Noti professionisti» citato in copertina.
Sinceramente sono rimasta delusa: trovare tra i noti esperti professionisti del bw
persone come il dottor Bagnoli, per carità grande manager, ma che di bw non fa nulla o anche altri sconosciuti professionisti come Fulvia Fusetti (che non è mi sconosciuta soltanto perché è barese come me) mi è sembrata una presa in giro… che non
mi aspettavo da un autore che stimo molto.
Capisco che si debba a volte incensare qualcuno citandolo in un libro, ma un autore non
può perdere la fiducia del proprio lettore. Bastava dire nel libro sono presenti alcune
esperienze di persone che abitualmente scrivono su Internet per lavoro, senza dire noti
professionisti del bw… altrimenti quelli veri come li definirebbe? GURU!!!! Suvvia…
Grazie.
Serena
Lascio al lettore la libertà di esercitarsi con le fasi di calibrazione e ricalco. Tengo solo a precisare gli obiettivi della mia risposta: recuperare la stima della lettrice, magari facendole notare una svista (i nomi da lei citati non
sono in copertina, ma verso la fine del libro), e rintuzzare la critica. Con toni morbidi, senza polemica.
Ecco la mia risposta, scritta applicando il metodo CRG.
Gentile Serena,
che lei abbia apprezzato «Scrivere: una fatica nera» mi lusinga. Che lo consigli a diverse
persone mi inorgoglisce. Che continui a tenerlo sulla scrivania mi conforta dal dispiacere
per la delusione che le ha procurato «Business writing». Per un autore la stima dei lettori è
un bene preziosissimo. Le chiedo scusa se le ho dato l’impressione di volerci giocare.
Fatico a capire che cosa l’abbia tratta in inganno: non trovo la citazione dei «Noti
122
professionisti» in copertina e neanche nelle prime pagine. A pagina 3 racconto che
«ho intervistato dei businessmen, italiani e americani, manager di multinazionali…».
Poi a pagina 218, introducendo il web writing, cito «le testimonianze di alcuni sperimentatori di questa nuova frontiera della comunicazione».
Con le parole «testimonianze» e «sperimentatori» volevo esprimere un senso empirico, di transitorietà, lontano dalla logica dei «guru». Eppure, vede, predicare bene è facile, razzolare bene un po’ meno.
Quanto alle due persone che lei cita, le confesso che Fulvia, ottima scrittrice, è una
mia giovane allieva, e che con il dottor Bagnoli questa intervista è stata la prima e
unica occasione di contatto. Non avevo perciò gran bisogno di incensarle.
Chissà se in futuro vorrà ancora regalarsi un mio libro, Serena. Le chiedo solo un’altra
chance: permetta a me di farlo. Se mi scrive il suo indirizzo le invierò «Intranet: teoria
e pratica» (Apogeo), uscito da pochissimo.
Spero di riconquistare la sua stima. A presto.
Alessandro
La replica di Serena, una settimana dopo.
Gentile Alessandro,
la ringrazio per il suo cortese messaggio di risposta. Mi ha permesso di riprendere in
mano il suo libro e di risfogliarlo per trovare le frasi che mi hanno tratto in inganno
(per carità non si tratta di un inganno serio ma più che altro dell’origine di una delusione!). E allora trovo a pag 218 «Inchiesta: le opinioni di 59 autorevoli web writer…»
(all’interno sempre a pagina 218, ritrovo quanto da lei affermato: «le testimonianze di
alcuni sperimentatori di questa nuova frontiera della comunicazione»).
L’utilizzo di certi aggettivi a volte risulta fuorviante o meglio è corretto dal punto di
vista marketing ma come sempre un po’ meno dal punto di vista di chi decide in base ad alcune considerazioni indotte.
Grazie comunque ho apprezzato il gesto.
Serena
Obiettivo raggiunto: sciolta l’ironia, evitata la polemica, ricucito il dialogo. È interessante notare che il ricalco è diventato reciproco: è Serena a ripetere le mie parole. Credo che se le capiterà di leggere queste pagine, sorriderà con me.
Una sensibilità che si può acquisire:
il caso della Provincia di Milano
Un gruppo di allievi di un corso di scrittura (Roberto Castelli, Caterina
Sorrentino, Pierluigi Voi) applica il metodo CRG a questa e-mail ricevuta
dall’Ufficio relazioni con il pubblico (URP) della Provincia di Milano.
123
Sono colto da disagio e disappunto per questa decisione sconsideratamente sbagliata, penso che sia stata presa senza le dovute considerazione circa gli eventuali risvolti sulla psiche dei cittadini.
Testo paradossale: l’interlocutore manifesta disagio, ma non spiega per
che cosa. Con questi soli dati a disposizione, gli allievi si propongono di instaurare un dialogo.
Calibrazione
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Sulla forma:
messaggio di 28 parole, due proposizioni principali, di 11 e 17 parole,
divise da una virgola;
1 errore di concordanza: le dovute considerazione; può dipendere dalla
battitura, ma anche dalla modifica affrettata di una prima stesura;
ben 8 parole di uso raro (registro elevato): colto, disagio, disappunto,
sconsideratamente, considerazione, circa (nel senso di riguardo a), risvolti, psiche;
2 parole di uso comune (registro medio): sbagliata, presa;
4 associazioni di parole (endiadi) con valore ridondante o addirittura enfatico: disagio e disappunto, sconsideratamente sbagliata, dovute considerazione, eventuali risvolti;
2 locuzioni perifrastiche: sono colto da disagio (vale a dire, sono a disagio); senza […] considerazione circa (senza considerare);
ritmo concitato in crescendo: 11 parole – virgola – 17 parole – punto;
la valenza K, che sembra prevalere, è data dal ritmo della frase e dalle
parole colto, disagio, disappunto, decisione, presa, psiche;
la valenza A è data dalla ricercatezza del lessico e dalle endiadi.
Sul contenuto:
manca una formula di saluto;
manca la presentazione personale: solo il participio passato colto dichiara il genere maschile;
manca ogni riferimento al fatto che origina il disagio; un’indicazione potrebbe forse venire dalla data, confrontata con eventi concomitanti (blocco del traffico, scioperi ecc.);
il messaggio è concentrato solo sul disagio personale;
c’è un’equivalenza complessa: la decisione presa è associata agli effetti
sulla psiche;
c’è una generalizzazione: il disagio personale è equiparato a quello dei
cittadini.
124
Ricalco
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ricalcare la parola disagio e mostrare partecipazione sul K;
ricalcare le parole decisioni e cittadini;
ricalcare il periodare fluido e il tono elevato.
Guida
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rivolgersi all’interlocutore con un’espressione di cortesia;
parlare in prima persona plurale;
dichiarare l’identità dello staff URP;
accennare alla funzione comunicativa dello staff rispetto ai cittadini;
dichiarare disponibilità all’ascolto e chiedere a quale decisione si riferisca;
affermare che ogni decisione di un ente pubblico viene accuratamente
ponderata, perché risponde al principio di responsabilità verso i cittadini; ridefinire quindi le espressioni sconsideratamente e senza […] considerazione;
invitare la persona a fornire chiarimenti sulla sua esigenza.
Ecco ora un possibile testo di risposta.
Gentile signore,
grazie di averci interpellato: questo Ufficio ha infatti il compito di favorire il dialogo
fra i cittadini e la Provincia di Milano.
Comprendendo il suo disagio, le chiediamo di precisarci di quale fatto si tratta, perché lei possa ricevere informazioni sui criteri in base ai quali è stata presa la decisione di cui parla.
Un saluto cordiale
lo Staff dell’URP
L’esemplare lavoro di calibrazione ha prodotto una risposta interlocutoria, garbata, conciliante, che non si lascia imbrigliare nella polemica, e che
ripassa la palla al lettore.
Lo immagino leggere questa e-mail con un’espressione di simpatia.
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SMS: CAUSE O EFFETTI?
di Elisa Marconato
Sicuri di saper distinguere una causa da un effetto? Uno stimolo da una risposta?
In una comunicazione scritta tra due persone non è così facile stabilire «chi ha iniziato per primo». Per intenderci: quello che per A è la causa di un comportamen-
125
to, per B può essere l’effetto. Il modo di dare ordine alla sequenza di eventi è infatti alla base di molti conflitti di relazione.
Prendiamo gli SMS (diamine, a volte non sarebbe meglio parlarsi?).
Un esempio.
Chiara e Fabio stanno insieme. Una sera lui le fa una scenata di gelosia.
La mattina dopo Chiara gli invia un SMS: «Ho bisogno di parlarti di ieri sera. Ci
vediamo?».
Fabio ci pensa e dopo un po’ risponde: «Sì. Ti aspetto alle 2 davanti al bar».
Problema: Fabio sbaglia numero.
Che cosa succede?
Chiara, non vedendo risposta, pensa che il silenzio di Fabio sia uguale a «non voglio parlarti.»
Fabio, che alle 2 è davanti al bar, non vedendo arrivare Chiara, si convince ancora
di più che lei ha un altro.
Il fatto che Chiara non si sia presentata all’appuntamento può essere letto in due
chiavi diverse.
Per Chiara è un effetto. Per Fabio una causa.
Il mancato appuntamento è per Chiara l’effetto della non risposta di Fabio.
L’assenza di Chiara all’appuntamento è per Fabio la causa che conferma ulteriormente i suoi sospetti: un circolo vizioso di pensieri inutili.
CHAT: SIMMETRIA O COMPLEMENTARIETÀ?
di Elisa Marconato
Esistono due tipi di relazione nella comunicazione tra due persone: una simmetrica, basata sull’uguaglianza, l’altra complementare, basata sulla differenza.
Nella comunicazione simmetrica, i due sono sullo stesso livello.
Nella comunicazione complementare, il comportamento di uno dei due «completa» quello dell’altro, determinando posizioni diverse: one-up e one-down, come
nei rapporti gerarchici.
Entrambi i modelli di relazione possono essere sani e positivi. O, se mal gestiti,
possono limitare la relazione stessa, sfociando nell’escalation simmetrica o nella
complementarietà rigida.
L’escalation simmetrica avviene quando una relazione s’imbatte nella competitività. Il rischio è di intraprendere una «scalata» faticosa verso una lite furibonda.
È un fenomeno tipico delle chat.
Un esempio.
C:llo e Leader (nickname di Carlo e Andrea), amici dai tempi del liceo, si vedono
di rado per i rispettivi impegni di lavoro. Decidono quindi di utilizzare Messenger
come strumento di chiacchierate.
Entrambi grafici, progettano e realizzano inviti per serate a tema, per due locali di
Milano. Una sera la «conversazione» verte sul tema lavoro.
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C:LLO
LEADER
C:LLO
Ho ricevuto il tuo invito via mail. Ti è arrivato il mio per la serata al Casablanca? È uno spettacolo vero?
Sì, carino. Ma vuoi mettere con il mio? Non c’è storia, dai.
Non diciamo eresie. Il mio è di una bellezza di altri tempi. Il tuo… dai ammettilo, se ne vedono in giro tanti così.
Impegnati a vantarsi ciascuno del proprio invito, seguono la filosofia del «Io di
più» fino allo sfinimento emotivo. (Diverso, forse, se avessero messo qualche faccina sorridente, a fine frase.)
La complementarietà rigida avviene invece quando chi si trova in posizione oneup soffoca la personalità dell’altro, tenendola in dipendenza emotiva.
Altro esempio.
Beck e Scisma (nickname di Rebecca e Sofia) decidono di trasferirsi a Bologna
per studiare. Sofia è al primo anno di università. Rebecca, insegnante di canto di
Sofia, deve frequentare un master.
Decidono di andare ad abitare insieme per dividere i costi.
Sofia è pigra, cultrice dei piaceri della tavola, non ama lo sport.
Rebecca è sportiva, maniaca della linea, iperattiva.
Un giorno si danno appuntamento in rete per parlare della futura casa e dell’arredamento.
BECK
SCISMA
BECK
SCISMA
BECK
SCISMA
BECK
…poi ci vorrebbe anche uno spazio dedicato alla palestra, almeno una cyclette.
…sì, penso che avremo spazio sufficiente, vero?
Scherzi? Per la cyclette c’è sempre posto, a costo di eliminare la cassapanca
di tua nonna.
…sì, in effetti…
Hai segnato nella lista la bilancia?
…ah già… la bilancia…
Indispensabile per me.
Sofia vive con soggezione il rapporto con Rebecca e le permette di abusare della
sua posizione one-up. Se fossi in lei scapperei in Congo, piuttosto.
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Note
1
Prima che per la nostra intelligenza, i lettori ci giudicano per la nostra ortografia. Gli americani usano il termine teeth spinach effect, effetto spinacio tra i denti: se parli con una persona
che ha mangiato spinaci, e un pezzettino gli è rimasto tra i denti, tu guardi la sua bocca non
per leggere le sue parole, ma per vedere se il pezzettino è sempre lì. Disastrosi sempre, gli er-
127
rori di ortografia sono ancora più penalizzanti all’inizio o alla fine di una parola, e in generale all’inizio o alla fine di un testo. Dal paragrafo seguente si nota infatti come il nostro cervello riconosca le parole: Sneocdo uno sdtiuo iglnese, non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe, tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito, imnptortane sloo che la prmia e l’umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao
di decraifre il pzuzle, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel suo insmiee… vstio?
2
MERHABIAN, ALBERT, Silent Messages, Wadsworth, Belmont (CA) 1971, p. 56.
3
Riflessioni ed esercizi si trovano nel sito: http://www.webcontentmanagement.it/lucchini_
queneau.htm
4
È interessante notare in questo esercizio che alcune parole sono percepite pressoché da tutti nello stesso modo: bloccare, chiedere, parlare, liquidare. Sono le parole sensorialmente
specificate. Altre, sensorialmente non specificate, sono percepibili in modi diversi: sapere,
cercare, aspettare, problema, collaborare, situazione ecc.
5
RICHARDSON, JERRY, Introduzione alla PNL, Roberti, Bergamo 2002, p. 31.
6
Ibidem, p. 53.
128
Formazione
La scrittura per l’apprendere
di Pier Sergio Caltabiano e Stefania Panini
GLI studi di neurolinguistica offrono modelli molto efficaci anche nell’ambito della formazione. Conoscere i diversi modi di strutturare l’esperienza
può aiutare i discenti a orientare le modalità di apprendimento e i docenti ad
arricchire le tecniche d’insegnamento.
La realtà viene percepita attraverso filtri e letta attraverso mappe mentali, soggettive, e quindi diverse, ma dinamiche e in grado di modificarsi e
di arricchirsi con l’esperienza e il confronto con altre persone, cioè con altre
mappe. Per questo, il contributo dei modelli neurolinguistici in ambito formativo è centrato sulla valenza didattica del confronto tra esperienze: confrontare soggettività diverse genera apprendimento.
L’incontro tra persone, e l’emozione che può derivarne, è molto importante per la formazione. Se questa, però, avviene a distanza – come nell’elearning – l’incontro tra persone viene a mancare e il rischio che si corre è
quello di perdere un’importante fonte di motivazione. Sarà allora la capacità
di coinvolgere il lettore con la parola scritta a restituire quella preziosa carica emotiva e suggestiva che potrebbe andare perduta.
Vediamo per esempio il modo in cui una compagnia assicurativa ha promosso alcuni servizi.
Andrea abita a Milano, ha appena compiuto 43 anni e da venti è agente di commercio: rappresenta in proprio alcuni noti marchi di filati. Il suo lavoro gli piace, gli garantisce un buon tenore di vita, gli permette di viaggiare e di vedere posti sempre nuovi.
Al volante per lavoro, quindici mesi fa ebbe un serio incidente d’auto. Quel giovedì
sera di inizio novembre Andrea stava tornando a casa dopo aver girato in lungo e largo per quattro giorni il Veneto e il Trentino - Alto Adige visitando negozi, maglierie e
centri commerciali. Dal punto di vista professionale la trasferta era andata bene e
129
aveva fruttato un buon numero di ordini. Quanti? Andrea li ripassava con la mente facendo calcoli su calcoli e sommando provvigioni. Ormai era alla guida da più di tre
ore, due soste tecniche comprese («mai più di 90 minuti di filato alla guida» era il suo
vangelo di conducente accorto) e sentiva ormai aria di casa, di doccia e di una bella
cena in famiglia. «Forza, Andrea, ancora quest’ultimo tratto di tangenziale e sei arrivato…» Fu a quel punto che successe l’inevitabile. Uno sbadiglio, un attimo di distrazione e poi la netta percezione di non riuscire a frenare in tempo…
Il racconto prosegue con l’incidente, la convalescenza e il rientro al lavoro: un periodo difficile agevolato dalla copertura assicurativa. Diverso dal
classico elenco di pregi dei prodotti assicurativi, vero? Chi non si fa prendere dalla storia, dalla curiosità di capire come va a finire, e poi dal sollievo? E
la curiosità non è la prima molla che ci spinge verso l’apprendimento?
Scrittura multisensoriale
È di grande interesse per il formatore come il cervello interiorizza la realtà
a partire dall’esperienza soggettiva. Se il 40 per cento delle persone è maggiormente visivo, il 40 per cento cenestesico e il 20 per cento auditivo, come sostengono alcuni studi di PNL, allora è bene che il formatore sia consapevole
della multisensorialità richiesta dai suoi interlocutori: anche nella formazione,
infatti, stimolare più canali sensoriali aumenta la probabilità di coinvolgere tutti gli interlocutori a un livello più profondo, più intenso e più duraturo.
Come fare? Usando una scrittura ricca di metafore che sollecitino l’immaginazione (per i lettori visivi), ma anche di allitterazioni, onomatopee,
chiasmi (per gli auditivi) e di sinestesie (per i cenestesici). Per esempio,
l’immagine di una persona ferita o angosciata crea una reazione a livello visivo ma anche cenestesico, così come un rumore molto forte e improvviso
crea un collegamento fra l’auditivo e il cenestesico, con un coinvolgimento
a livello somatoviscerale.
Il formatore che vuole coinvolgere i suoi lettori deve quindi allenarsi a
usare il linguaggio nel modo più differenziato possibile, avvalendosi di
strumenti linguistici, metaforici o esperienziali. Un esercizio utile consiste
nel prendere un qualsiasi testo e lavorare sulla variazione di predicati verbali, sostantivi, aggettivi (di volta in volta visivi o auditivi o cenestesici). Anche al nostro lettore proponiamo questo esercizio (magari prendendo un articolo dal giornale di questa mattina).
130
Scrittura partecipata
Per quanto coinvolgente, comunque, un testo scritto non può competere
con l’esperienza reale, che ci porta al confronto diretto con altri soggetti.
Occorre quindi pensare a una forma di coinvolgimento diretto degli allievi
nella stesura dei testi: si apprende davvero solo quando si entra personalmente nel processo di produzione di conoscenza. Questo coinvolgimento può consistere in un’attività di scrittura o coscrittura, in base a un
compito più o meno dettagliato, oppure in un’attività di community, che
però dev’essere considerata da tutti importante, parte integrante del processo di apprendimento. E se si usano chat, forum o mailing list, il formatore
non è solo un facilitatore, ma soprattutto un animatore.1
Molto interessanti al riguardo sono le sperimentazioni di scrittura di singoli allievi o gruppi. In rete e in libreria si trovano testi prodotti a più mani
da allievi in collaborazione con i loro docenti, come quello realizzato dal
corso condotto da Stefania Panini alla facoltà di Ingegneria gestionale dell’Università di Pisa.2
L’esperienza ha coinvolto una quarantina di allievi, divisi in sette gruppi,
che hanno condotto ricerche e redatto tesine sulle modalità di gestione e sviluppo di risorse umane adottate da alcune imprese e pubbliche amministrazioni toscane. Sulla base di indicazioni fornite in aula e pubblicate su un sito apposito, i gruppi hanno costruito griglie di intervista, intervistato testimoni aziendali, confrontato le interviste e tratto conclusioni. I gruppi hanno
operato per lo più a distanza, con forum, chat, spazi di pubblicazione ad
hoc. Sono stati messi a loro disposizione:
●
●
●
●
una piattaforma per il lavoro collaborativo, semplice e molto flessibile,
nata dalla collaborazione tra l’Università di Augsburg (Germania) e
l’Università di Modena e Reggio Emilia;
spazi riservati al singolo gruppo (per il diario delle attività svolte, le interviste commentate e le tesine finali) e spazi pubblici (progetto, stato di
avanzamento, report conclusivo, discussioni sulle interviste);
un tutor reperibile via e-mail e telefono per tutta la durata della sperimentazione;
la possibilità di consultare la docente durante le lezioni o tramite e-mail
e telefono.
Stimolati dall’autonomia nell’organizzazione del lavoro, dalla libertà di
uso della piattaforma e dalla «licenza di copiare» dagli scritti degli altri gruppi, cioè di confrontarsi e trarre spunti per il proprio lavoro, gli studenti hanno
131
raggiunto risultati sorprendenti. Altissimi la motivazione e il livello di apprendimento. La forma scritta, inizialmente considerata uno scoglio, è stata
subito apprezzata e sfruttata appieno, con piacere e divertimento di tutti.3
Congruenza per allievi e formatori:
i livelli logici di Robert B. Dilts
Un’altra consapevolezza utile al formatore è quella relativa al proprio
ruolo, alle proprie motivazioni e alla strategia didattica messa in atto. Più
ancora che consapevolezza, si tratta di ciò che viene definito allineamento
tra livelli logici. Partendo dai livelli logici di Gregory Bateson,4 Robert B.
Dilts ne elabora una classificazione da usare come modello per studiare il
processo di apprendimento.5 Secondo questo modello, quando i livelli logici
sono allineati fra loro, l’azione – sia del docente sia del discente – acquista
congruenza e vigore.
A questo scopo possiamo rivolgerci alcune domande su:
a. il contesto:–i fattori ambientali che determinano vincoli e opportunità
delle azioni (dove e quando?);
b. il comportamento:–le azioni e le reazioni poste in atto (che cosa?);
c. la capacità di applicare una strategia (come?);
d. i valori:–il sistema di convinzioni alla base della motivazione (perché?);
e. l’identità (chi?);
f. il livello spirituale:–la visione che circonda ruoli, credenze, capacità
(chi e cos’altro?).
Più c’è coerenza tra i livelli, più il formatore ottiene risultati efficaci, e
più il discente apprende.
Un esempio. Esaminiamo la posizione di Stefania Panini nella redazione
a due mani di questo capitolo. I primi tre livelli sono evidenti:
a. dove e quando:–sono a Bologna, nell’ufficio di Piero Caltabiano;
b. che cosa:–sto scrivendo con Piero un testo sulla scrittura per la formazione. Ci siamo divisi i compiti e ci incontreremo più volte;
c. come:–sto approfondendo i concetti della PNL, abbinandoli alle competenze comuni e alle mie competenze e posizioni.
L’azione risente già dell’allineamento di questi primi tre livelli: una
mancata condivisione del contesto («sono nell’ufficio di Piero, ma vorrei
essere nel mio dove ho tutto ciò che mi serve»), dell’azione («chi me lo fa
132
fare di lavorare…») o del metodo («voglio usare solo le mie competenze»)
potrebbe far nascere delle resistenze.
Ancora più rilevante è l’allineamento tra i livelli successivi:
d. perché:–lo faccio perché mi piace, perché credo che i modelli neurolinguistici si possano applicare alla formazione; o perché penso a un ritorno
promozionale, o solo perché ho accettato la proposta di Lucchini di contribuire a questo libro;
e. chi:–«Chi sono io in questo momento?» Posso rispondere: «Sono una
mamma in attesa del secondo figlio, che vive questo stato come un momento creativo e di slancio professionale»; oppure: «Sono costretta a
star qui e fare un lavoro che non m’interessa mentre vorrei stare a casa
con mio figlio»;
f. chi e cos’altro:–è il livello che va oltre me. «Scrivere un testo a due mani
con una persona con competenze diverse dalle mie mi arricchisce».
A mano a mano che si sale di livello, le corde toccate riguardano elementi soggettivi, di cui non sempre si ha consapevolezza, ma molto rilevanti.
Tornando al contesto formativo, se il formatore in aula è congruente
riesce a creare una situazione di benessere per sé e per gli allievi; se sta
scrivendo, il suo scritto sarà più incisivo perché congruente e percepibile
come tale.
Lo stesso accade per l’allievo-lettore: se c’è congruenza tra dove sono
(in aula, al lavoro ecc.), cosa leggo (un saggio, un testo formativo), come sto
apprendendo (con piacere, con fatica), il perché leggo (perché m’interessa o
solo perché devo) e chi sono di fronte a questo testo (un apprendista, un
esperto), il coinvolgimento è più profondo e duraturo.
Il formatore può migliorare la qualità del proprio lavoro ponendosi delle
domande per verificare il proprio allineamento e apportare eventuali correzioni. In aula, può fare lo stesso verso gli allievi, raccogliendo il feedback e
interagendo con loro. Più difficile è quando scrive un testo per la formazione, ma può comunque agire su tre punti:
1. la propria congruenza di autore, percepibile se sono chiari gli obiettivi
e il percorso proposti. È infatti utile per l’allievo capire chi scrive, che
competenze ha, che cosa vuole ottenere e come. Buoni quindi il profilo
dell’autore, l’abstract dei contenuti, l’enunciazione degli obiettivi in termini di risultato («scrivo questo perché voglio che tu sia in grado di…»);
2. l’inserimento di indicatori che facilitino l’allievo a orientarsi nel percorso di lettura e a mantenere alta l’attenzione: elenchi puntati, parole
133
chiave o frasi riassuntive, box e l’apparato dei «microcontent» proposto
da Jakob Nielsen;6
3. ciò che l’autore può tentare per sollecitare l’allineamento tra livelli nel
suo lettore. Qualche forma interlocutoria, inserita tra le righe o sotto forma di questionario, spinge l’allievo a porsi di fronte al testo in modo attivo, collegando ciò che legge al proprio contesto e alle proprie esigenze.
Forma e contenuto
Oltre alla valutazione dei sistemi rappresentazionali dei lettori, e l’allineamento tra i livelli logici, c’è un altro punto da tenere presente: evitare vizi di forma che portino al rifiuto del contenuto.
Pensiamo al metamodello.
Le generalizzazioni (per esempio, estensione di un’esperienza individuale a tutti i soggetti, uso indiscriminato di sempre, mai ecc.) possono spingere l’autore a uno scontro inatteso con la mappa del lettore. Non consigliamo
di indebolire le affermazioni o nascondere il proprio punto di vista, ma di
avere sempre rispetto per il punto di vista altrui. Specie negli esempi, attenzione a mantenerne la situazionalità, invitando il lettore a cercare analogie
nella propria vita, con formule quali «vi sarà capitato qualcosa di simile».
Le cancellazioni (per esempio, giudizi su un’intera esperienza basati solo su una parte della stessa) provocano spesso fraintendimenti e rifiuti. Ma
si possono usare ad arte: lasciare un concetto sfumato o un giudizio sospeso
induce il lettore a interpretare.
Le deformazioni fanno raccontare un’esperienza in modo condizionato, deformandola con interpretazioni soggettive (per esempio, equivalenza complessa: «non avete svolto gli esercizi, quindi non amate questa materia»).
L’uso inadeguato delle forme linguistiche porta non al confronto, ma al
rifiuto, che è negazione di apprendimento. Il formatore deve invece creare
ricchezza nell’apprendere. L’apprendimento non annulla le differenze: sa
gestirle e valorizzarle.
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UN MODELLO DI APPRENDIMENTO EMOTIVO
Ecco un modello che descrive sei fasi del processo di apprendimento, inteso come percorso che coinvolge tutti i sensi dell’allievo.
1. M o t i v a z i o n e—Spesso le persone affrontano l’occasione formativa in modo
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2.
3.
4.
5.
6.
inconsapevole, magari perché non l’hanno scelta direttamente o perché non
hanno grandi aspettative. Qui il formatore può far emergere la motivazione e far
compiere all’allievo un primo passo per il richiamo delle proprie risorse interne.
I n t e n z i o n e—È la decisione dell’allievo di essere disponibile ad apprendere.
A t t e n z i o n e—Fase strettamente legata alla multisensorialità dei testi. Più
l’allievo è coinvolto sensorialmente, maggiore è il potere dell’azione formativa.
C o n f r o n t o—Quando il discente è motivato, confronta il nuovo apprendimento con la propria esperienza, e individua nelle differenze le potenziali
risorse.
R i t e n z i o n e—Gli apprendimenti giudicati utili e significativi vengono memorizzati. Il formatore deve favorire un processo orientato a includere, non a
escludere, a rispettare la funzione attiva degli allievi e i possibili punti di vista,
sfruttando ogni occasione, compresa l’inversione di ruolo che vede l’allievo
stesso come produttore di conoscenza.
E s t e n s i o n e—Ogni persona tende a esprimere ciò che ha imparato in forma
di azione, cioè come capacità. Questo crea nuovi confronti, nuove motivazioni
e bisogni: chiude il cerchio virtuoso del processo di apprendimento, riportando la persona, cambiata ed evoluta, a un nuovo punto di inizio. Raccomandiamo di facilitare questa fase inserendo in ogni testo formativo una sezione di
esercizi.
Vedi CALTABIANO, PIER SERGIO, «Lo sviluppo dell’apprendimento emotivo», Strategie, n. 2, 2003.
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L’uso della metafora nella formazione
di Consuelo Casula
Che cos’è una metafora
La metafora è una figura retorica attraverso la quale un concetto viene
espresso con altri termini che ne amplificano il significato aggiungendo sfumature diverse. La metafora mette in primo piano alcuni aspetti del concetto e ne relega altri sullo sfondo; sopperisce alla carenza lessicale; rende familiari concetti astratti; crea nuove esperienze di riferimento; stimola associazioni. Il linguaggio comune è ricco di metafore che appartengono a diversi campi quali:
135
●
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●
guerra (attaccare le truppe nemiche, armarsi di coraggio, sparare a salve);
economia (vendere un’idea, risparmiare energie, esaurire le scorte);
orientamento spaziale (sentirsi giù, buttarsi il passato dietro le spalle,
porsi al centro del mondo, sentirsi straniero in patria);
ontologia, entità cui attribuire caratteristiche particolari, intenzioni, motivazioni, finalità (strega, leone, piovra);
contenitore (gabbia dorata, sentirsi imprigionati, botte di ferro).
Che cos’è una metafora formativa
La metafora formativa è una storia creata appositamente per l’aula e raccontata con un linguaggio figurato per stimolare dubbi, emozioni e riflessioni, e provocare cambiamenti evolutivi. Questo grazie anche alle associazioni che stimola con la condensazione dei concetti selezionati e la semplificazione linguistica e concettuale.
Nella storia si inseriscono, intenzionalmente, dei messaggi per ristrutturare atteggiamenti e modificare convinzioni; per riproporzionare emozioni; per
preparare o consolidare cambiamenti di ruoli sociali; per superare crisi di
transizione; per rafforzare o sciogliere legami; per infondere gioia di vivere.
Nella forma scritta, la metafora formativa acquista pregnanza ancor
maggiore per la possibilità di essere letta, riletta, rivista e reinterpretata da
angolazioni diverse, adattata alle esigenze soggettive, e quindi fatta propria
da tutti i discenti.
Il ruolo della metafora nella formazione
La metafora in aula rappresenta un modo indiretto di esporre ciò che il formatore desidera comunicare e che ritiene di non poter esplicitare. È uno strumento che consente di inviare messaggi in modo nascosto, tra le pieghe della
storia, tra le citazioni inserite nel racconto. Tramite la metafora, il formatore
invia messaggi che possono svolgere diverse funzioni, didattiche (spiegare
meglio un concetto) o relazionali (instaurare e mantenere rapporto con l’aula).
Il ruolo della metafora nella formazione è quello di facilitare un processo
di cambiamento, allentando le difese dei partecipanti. La metafora tende a
distrarre la mente conscia dei partecipanti con la storia e ad attrarre la mente inconscia con suggestioni. Nella metafora vengono infatti inseriti messaggi e suggestioni che evocano negli ascoltatori risorse e possibilità, rafforzano l’io e aiutano a ristrutturare problemi e a suggerire soluzioni.
La metafora stimola negli ascoltatori un’identificazione con i vari perso136
naggi, crea associazioni, propone nuovi quadri di riferimento. Stimola anche
l’adozione di diversi tipi di pensiero – scientifico, magico, filosofico, mistico,
utilitaristico – e ciò conferisce maggiore flessibilità. Il formatore può così
servirsi della metafora per trasmettere i propri valori senza imporli all’aula.
La metafora, per la sua brevità può essere raccontata in diversi momenti
dell’attività formativa, come una pausa che rilassa l’emisfero sinistro ed eccita l’emisfero destro, stimolando l’immaginazione creativa. La si può raccontare o leggere nel modo e nel momento opportuni per superare resistenze e impasse, destare risorse sopite, suggerire soluzioni, disseminare idee e
fornire il permesso di essere più flessibili.
Premesse per costruire una metafora
Per costruire una metafora si parte da un problema presentatosi in aula e
dalla definizione degli obiettivi.
Identificazione del problema
Che cos’è successo in aula da meritare d’essere trattato in forma metaforica? Può essere un comportamento inappropriato di un partecipante o una
convinzione limitante di un altro. Oppure il formatore ritiene opportuno stimolare una qualche emozione o riflessione su valori fondamentali.
Definizione dell’obiettivo
Identificato il problema d’aula, il formatore ipotizza la soluzione più appropriata e la trasforma in obiettivo formativo. L’obiettivo presenta la soluzione del problema, includendo lo stato desiderato raggiungibile, la strategia per perseguirlo, le emozioni correlate, i pensieri di supporto, i cambiamenti conseguenti e i vantaggi.
Passi per costruire una metafora
Stabilite le premesse (problema da risolvere e obiettivo da raggiungere)
ecco gli elementi con cui costruire la storia.
Analogia, isomorfismo, contesto
Si parte con un’analogia appropriata a rappresentare il problema. S’inserisce l’analogia in un contesto adeguato e la si amplifica con l’isomorfismo (corrispondenza): i personaggi, le dinamiche, i processi e le relazioni proposte nella
metafora devono essere equivalenti a quelle del caso che si è presentato in aula.
137
Esperienze di apprendimento
Nel contesto scelto si propongono esperienze di riferimento utili per un
cambiamento. Si drammatizzano una serie di esperienze (almeno tre, per
evocare flessibilità) che colleghino il problema alla soluzione. Le esperienze proposte dalla storia servono principalmente a riproporzionare gli eventi,
a operare ristrutturazioni, a preparare il cambiamento e a suggerire diverse
soluzioni.
Ristrutturazioni
La storia consente di associare altri significati all’esperienza problematica, di attribuire alla situazione connotazioni positive, valore e utilità. Si possono inserire ridefinizioni e ristrutturazioni di contesto, creare sistemi di
convinzioni alternativi che risultino più funzionali. Le esperienze fornite
dalla metafora, i contesti privi dei filtri abituali e le ristrutturazioni proposte
stimolano una modifica nel sistema di convinzione, senza provocare dissonanza cognitiva.
Soluzioni evolutive
Le soluzioni proposte dalla metafora hanno il compito di sollecitare una
maggiore flessibilità percettiva, emotiva, cognitiva, comportamentale, relazionale, valoriale e immaginativa. Il soggetto viene stimolato a cambiare i
propri filtri abituali, diversificare e ampliare il punto di vista, sperimentare
varie sfumature emozionali, ridimensionare convinzioni limitanti o errori
logici, ipotizzare comportamenti più consoni alla propria identità e al proprio ruolo, sentirsi libero di utilizzare l’immaginazione creativa e instaurare
e mantenere relazioni più funzionali e sane.
Il linguaggio della metafora
Il linguaggio della metafora è ipnotico e contiene:
●
●
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termini sensorialmente specificati:–vedere, ascoltare, gustare, odorare,
toccare;
indici referenziali generici:–gruppo, persona, giovane, qualcuno, luogo,
cosa;
verbi non specificati:–andare, sentirsi, essere, dire, fare, provare;
nominalizzazioni:–sensazioni, emozioni, speranza, consapevolezza;
correlazioni di causa/effetto ed equivalenza complessa:–vede una rosa e
pensa a…; la rosa che sboccia significa che…;
138
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●
●
truismi:–ogni bambino sa che…;
ossimori:–assordante silenzio;
domande e comandi nascosti:–si chiedeva se non fosse oramai pronto
per…;
suggestioni multiple, di processo e di contenuto:–può decidere se rimanere o andare, se andare via subito o dopo che…;
ridefinizioni e ristrutturazioni:–aveva capito che la parola egoista significa rispettare se stesso;
messaggi di rinforzi dell’io, carichi di permessi evolutivi:–sapeva di avere tutte le risorse necessarie per…;
marcature per analogia:–sottolineature con il corpo e con la voce (nello
scritto, con grassetto, corsivo ecc.);
personalizzazione secondo il sistema rappresentazionale, le submodalità
e gli operatori modali privilegiati dai destinatari.
Un esempio pratico: costruiamo una metafora
IL VASO TRASPARENTE
Un professore si presenta in aula con un vaso trasparente. Lo pone sulla cattedra e
dopo averlo riempito di grosse pietre chiede agli studenti: «È pieno?». Gli studenti rispondono certi: «Sì». Allora il professore prende dei sassolini e li fa cadere nel vaso. I
sassolini riescono a trovare la strada tra una pietra e l’altra. Quando vede che non ce
ne stanno più, chiede: «È pieno?»; e gli studenti, ora consapevoli: «No». Allora il professore versa nel vaso della sabbia, e questa trova lo spazio per arrivare sino al fondo. Quando vede che non ce ne sta più, chiede: «È pieno?»; e gli studenti ancora
«No». Il professore prende dell’acqua e lentamente la versa nel vaso; quando vede
che è all’orlo, chiede: «È pieno?»; e gli studenti, a questo punto: «Sì».
Allora il professore aggiunge un profumato petalo di rosa.
Ecco una meta-metafora sulla costruzione delle metafore: gli elementi
messi dentro il vaso rappresentano i passi per costruire una metafora, dai
pezzi grossi, importanti, le pietre, al petalo estetizzante, ossia la cura della
forma.
Un’altra lettura della metafora riguarda il ruolo del formatore, che porta
in aula la sua solida conoscenza (le pietre), cui aggiunge argomenti diversi,
più leggeri (sassolini e sabbia), cambia livello (acqua), sempre curando anche gli aspetti estetici (linguaggio, voce, cortesia).
Vediamone i passi di costruzione.
139
Testo
Metafore usate
Un professore si presenta in aula con un
vaso trasparente.
professore = formatore
vaso = il contenitore/contesto: borsa
degli attrezzi
trasparente = fruibile per i partecipanti
pietre = la conoscenza che offre ai
partecipanti, e anche l’analogia,
l’isomorfismo, i personaggi
usa un metodo interattivo, scopre le
conoscenze dei partecipanti, inserendo
elementi familiari, evidenze
i partecipanti accettano l’interazione
sassolini = altri contenuti che approfondiscono il tema, altre esperienze di riferimento
continua l’interazione tra il formatore e i
partecipanti, per mantenere l’attenzione
e il coinvolgimento
i partecipanti hanno imparato ad andare
oltre l’apparenza, hanno una visione più
ampia, sono aperti all’apprendimento
sabbia = altri contenuti sempre più
raffinati, che aumentano la complessità
e l’approfondimento
ulteriore coinvolgimento dei partecipanti
e verifica della loro comprensione
Lo pone sulla cattedra e dopo averlo
riempito di grosse pietre
chiede agli studenti: «È pieno?».
Gli studenti rispondono certi: «Sì».
Allora il professore prende dei sassolini
e li fa cadere nel vaso. I sassolini riescono a
trovare la strada tra una pietra e l'altra.
Quando vede che non ce ne stanno più,
chiede: «È pieno?»;
e gli studenti, ora consapevoli: «No».
Allora il professore versa nel vaso della
sabbia, e questa trova lo spazio per
arrivare sino al fondo.
Quando vede che non ce ne sta più,
chiede: «È pieno?»; e gli studenti
ancora «No».
Il professore prende dell'acqua
e lentamente la versa nel vaso;
quando vede che è all’orlo, chiede:
«È pieno?»;
e gli studenti, a questo punto: «Sì».
Allora il professore aggiunge un profumato
petalo di rosa.
140
acqua = cambiamento di oggetto, da
solido a liquido, per rendere più fluido
il sapere (ristrutturazione)
continua il dialogo, a un livello sempre
più profondo
i partecipanti constatano la conclusione
del processo e la risoluzione del problema:
hanno compreso l’importanza della fluidità
petalo di rosa = ulteriore cambiamento
di livello con un intervento estetico;
cura dei dettagli: linguaggio,
modulazione della voce ecc.
Bibliografia
BARKER, PHILIP, L’uso della metafora in psicoterapia, Astrolabio, Roma 1985.
CASULA, CONSUELO, I porcospini di Schopenhauer. Come progettare e condurre un
gruppo di formazione di adulti, Angeli, Milano 1997.
—, Giardinieri, principesse, porcospini. Metafore per l’evoluzione personale e professionale, Angeli, Milano 2002.
ERICKSON, MILTON H., La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici, Astrolabio, Roma 1983.
FERRUCCI, PIERO, Crescere. Teoria e pratica della psicosintesi, Astrolabio, Roma 1981.
GORDON, DAVID, Metafore terapeutiche. Modelli e strategie per il cambiamento,
Astrolabio, Roma 1978.
—, Phoenix. Modelli terapeutici di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.
KOPP, SHELDON B., Se incontri il Buddha per la strada uccidilo. Il pellegrinaggio
del paziente nella psicoterapia, Astrolabio, Roma 1975.
LAKOFF, GEORGE - JOHNSON, MARK, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano
1998.
LANKTON, STEVEN R. - LANKTON, CAROL H., La risposta dall’interno. Studio clinico
della ipnoterapia ericksoniana, Astrolabio, Roma 1984.
MARCOLI, ALBA, Il bambino nascosto. Favole per capire la psicologia nostra e dei
nostri figli, Mondadori, Milano 1993.
—, Il bambino arrabbiato. Favole per cpire le rabbie infantili, Mondadori, Milano
1996.
—, Il bambino perduto e ritrovato. Favole per far la pace con il bambino che siamo
stati, Mondadori, Milano 1999.
MILLS, JOYCE C. - CROWLEY, RICHARD J., Metafore terapeutiche per i bambini,
Astrolabio, Roma 1988.
OWEN, NICK, Le parole portano lontano, Ponte alle Grazie, Milano 2004.
Note
Al riguardo raccomandiamo: TRENTIN, GUGLIELMO, Apprendimento in rete e condivisione
delle conoscenze. Ruolo, dinamiche e tecnologie delle comunità professionali online, Angeli,
Milano 2004; e ROTTA, MARIO - CALVANI, ANTONIO, Fare formazione in Internet. Manuale di
didattica on-line, Erickson, Trento 2000; e anche lo stimolante libro di DE BAGGIS, MAFE, Le
tribù di internet. Accelerare il web marketing con le community, Hops Libri, Milano 2001.
2
Alcune esperienze sono raccontate nel saggio di Alessandro Lucchini, E-learning e scrittura professionale, http://www.mestierediscrivere.com/pdf/elearning.pdf
3
Si può visitare la piattaforma e accedere alle parti pubbliche all’indirizzo internet http://
www.web-learn.de/pisa
1
141
4
Gregory Bateson nel 1973 ha preso spunto dalla teoria matematica dei tipi logici di Bertrand Russel per sviluppare una teoria applicabile ai livelli o categorie di apprendimento. Si
veda BATESON, GREGORY, Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano 1984.
5
DILTS, ROBERT B., Leadership e visione creativa. Come creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere, Guerini e Associati, Milano 1998.
6
NIELSEN, JAKOB, Web Usability, Apogeo, Milano 2000; oppure on-line all’indirizzo
http://www.useit.com/alertbox/980906.html Per un’interpretazione italiana, prezioso il contributo di Luisa Carrada: http://www.mestierediscrivere.com/testi/microcontent.htm
142
Giornalismo
Dalla notizia al film
di Mario R. Conti
SI fa presto a dire comunicare. Ho sentito spesso persone di varia formazione confondere lo scrivere con il comunicare. Avvocati, medici, insegnanti
sono in grado di scrivere splendide relazioni in un italiano corretto e forbito.
Ma questo non è comunicare. Comunicare è un’arte, che ha regole ben precise. Senza le quali un articolo è solo una brillante relazione.
Chi lavora in un quotidiano, in un settimanale o in un mensile, vive questa realtà. E deve confrontarsi ogni minuto con la propria capacità di essere
chiaro e di esigere chiarezza. Per esempio, dare per scontato il significato
di termini tecnici e di parole inglesi o francesi, o scegliere costruzioni lessicali complesse è un errore giornalistico grave quanto non verificare una
notizia.
Le obiezioni di chi non ha fatto proprie queste regole sono diverse: i più
giovani difendono la «contrazione» lessicale con l’esigenza di «usare un
linguaggio frizzante», senza poi spiegare perché mai la freschezza debba essere incomprensibile; i più maturi giustificano il lessico paludato «perché
destinato a un pubblico di cultura elevata», come se chi ha fatto l’università
non avesse diritto a leggere testi d’immediata comprensibilità. La verità è
che la chiarezza esige uno sforzo molto elevato: dobbiamo farci capire da
tutti, senza che il lettore debba leggere e rileggere il nostro pezzo.
Certo è più facile usare il gergo che appartiene al nostro retroterra culturale. Ma ciascun gergo è una lingua e la moltiplicazione delle lingue favorisce la confusione delle idee. Scendere a compromessi con le parole richiede
tre fra le maggiori virtù di un giornalista: padronanza della lingua, umiltà e
passione.
143
La forza della chiarezza
Oggi i giornali nascono da ricerche di marketing che stabiliscono i presunti bisogni di diverse fasce di lettori, ma è poi la chiarezza dei messaggi
che fa la differenza. In Italia esistono alcuni fenomeni editoriali che soddisfano perfettamente questa esigenza del lettore. Chi, per esempio, comunica
con grande efficacia attraverso le immagini; Oggi, con storie di largo interesse e opinioni scritte in modo semplice; TV Sorrisi e Canzoni fa parlare i
personaggi televisivi; Famiglia Cristiana fornisce l’interpretazione cattolica
degli avvenimenti; Donna Moderna fa luce sulla vita di tutti i giorni; Focus
rende semplici le complesse meraviglie del mondo. Un totale di quindici
milioni di copie al mese. Il lavoro svolto nelle redazioni di queste riviste
parte dall’immagine e si conclude con il linguaggio. La chiarezza del messaggio deve essere anzitutto visiva (impaginazione lineare e foto che assecondino il taglio dell’articolo), ma le parole fanno parte di questo colpo
d’occhio.
Il lavoro di un giornalista oggi, a differenza di quello di trenta o quarant’anni fa, è quello di fare di una notizia un film. Il desk redazionale si trasforma in un set, e il giornalista è il regista dell’evento.
Psicologia della chiarezza
La chiarezza è la chiave che apre le porte alla lettura. «La chiarezza arriva, fa centro», spiega in un’intervista la psicoterapeuta Fabia Schoss. «Un
articolo chiaro ti mostra qualcosa che non sospettavi esistesse, una storia
che non sapevi, un’altra faccia della realtà in cui vivi. La chiarezza arricchisce. Per i buddisti la confusione è un veleno, un inquinante mentale, fa provare una sensazione sgradevole. Proprio come un brutto film.»1
E la chiarezza si può apprendere? Sì, ma ad alcune condizioni.
Fabia Schoss: «Abbiamo spesso la sensazione di trovarci di fronte a un
esercito di persone che sono ‘nate imparate’. Qualcuno potrebbe pensare
che sia un segnale di alta consapevolezza di sé, mentre è l’opposto: è la bassa stima di sé che fa scattare la paura di imparare. Per dire a un altro ‘Insegnami!’, devi essere padrone di te stesso e non avere paura del giudizio altrui. Chi ha fiducia in se stesso dà fiducia anche all’altro. Chi ha fiducia in
se stesso ha anche l’umiltà e la pazienza necessarie per imparare in tutto il
tempo necessario».
144
Le regole della chiarezza
Paolo Occhipinti dirige giornali da quarant’anni e da oltre trent’anni è
alla guida di Oggi, primo settimanale della fascia dei familiari con oltre tre
milioni e mezzo di lettori. È uno dei pochi che ha ancora qualcosa da insegnare in fatto di giornalismo e di chiarezza linguistica. Ascoltiamolo.
Mille parole
«L’arte della divulgazione presuppone uno studio e una cultura approfonditi», dice. «Solo chi conosce bene un tema ed è padrone del vocabolario sa che differenza passa tra una parola comprensibile a tutti e una difficile. Bisogna conoscere 5000 parole per sapere quali sono le 1000 da utilizzare con maggiore frequenza. Nella consapevolezza che quelle 1000 saranno capite dalla quasi totalità dei lettori. Indro Montanelli, che ha collaborato
per anni con Oggi, usava poco più di 1000 vocaboli nei suoi articoli: li congegnava in modo tale che anche i concetti sociologici, storici e politici più
profondi fossero spiegati con queste 1000 parole.»
Termini semplici
«L’uso di parole semplici per esprimere un concetto è un dovere verso
chi ci legge. Allo stesso modo in cui se indossi un abito troppo importante
puoi mettere in imbarazzo il tuo ospite, così se usi parole troppo difficili
metti a disagio il lettore, che dovrà fare sforzi per capirti. Mentre sei tu a
dover fare sforzi per spiegarti. L’uso di un numero ristretto di parole risponde all’esigenza di mettere a proprio agio chi legge. Non è vero che
usando parole complesse si approfondisce meglio un concetto: lo si può
approfondire meglio con una somma di parole semplici che con una parola
complicata.»
Il giornalismo popolare
«C’è sempre dietro l’angolo il rischio di approfittare del proprio ruolo
di giornalista, l’ambizione di farsi ritenere colti o intelligenti. Mentre il
vero sfoggio di cultura e di intelligenza è utilizzare termini e concetti semplici. Sono le regole del giornalismo che noi erroneamente definiamo ‘popolare’, ma che dovremmo definire solamente ‘giornalismo’ perché non
esiste un giornalismo ‘impopolare’: il giornale deve essere letto da un
grande numero di persone e perciò deve essere didascalico e usare parole
semplici. Non a caso i maestri del giornalismo sono maestri di giornalismo
popolare.»
145
La frase nucleare
«L’organizzazione sintattica è cambiata negli ultimi anni e il giornalismo
somiglia sempre meno a un’espressione letteraria: una volta letteratura e
giornalismo erano parenti stretti; oggi la parentela diretta è con il linguaggio
di internet. Ed è una fortuna. Ci stiamo abituando alla frase nucleare: soggetto, predicato, complemento, punto. È un linguaggio che abbiamo appreso dagli SMS, dalla necessità di usare al massimo 80 battute per messaggio.
Gli operatori dell’informazione devono abituarsi a fare informazione succinta. Il che rappresenta, però, uno svantaggio sul versante dell’arricchimento dell’immagine, della descrizione, del trasmettere stati d’animo.»2
La magia del sogno
Il lettore ha nuove esigenze. La notizia fredda e scarna non basta più.
Occorre tradurre le emozioni in succinte espressioni verbali. E andare incontro ai bisogni di chi legge: sogno e magia. Nei giornali che rivaleggiano
con la televisione, il linguaggio deve restituire sensazioni, evocare immagini e suggestioni. Il lettore si vuole identificare in ciò che legge. Come nelle
fiction televisive, in cui trionfano storie di ordinaria quotidianità, sui giornali il lettore vuole incontrare se stesso. Se i personaggi lo ricalcano, lui li riconosce e li apprezza. Come davanti a uno specchio, vuole trovare conforto
e consolazione, condividere i propri drammi per poter credere che anche lui
può farcela, che Anche i ricchi piangono, che può ancora provare Batticuore, che la vita è Beautiful, che quel che conta è La forza del desiderio, che
tutti abbiamo diritto a Un posto al sole per Vivere e seguire i nostri Sentieri
tra Cento vetrine. È molto più di un gioco di parole con i titoli delle fiction:
è la fotografia di un trend psico-tele-letterario.
Gli strumenti della neurocomunicazione giornalistica
Un articolo è buono se ha un buon titolo. La notizia va interpretata e il titolo diventa il suo paradosso, il gioco verbale che ha il compito di sintetizzarne per eccesso il senso.
Alcuni esempi.
Da Anna: un reportage di turismo dedicato alla Turchia è intitolato con
semplice efficacia «Cose turche». E richiama il sommario: «Per fidanzarsi
basta un fazzoletto rosa. Ma se i riti orientali resistono, i desideri si aggiornano…» (n. 28, 2004).
146
Da Panorama: un pezzo dedicato a un libro con videocassetta di Franco
Battiato strilla «Mi reincarno nel mio prossimo film». Esplica il sommario:
«Dai tempi di Re Nudo alla fase mistica, all’incontro con il cinema, il musicista più eccentrico e sperimentale viene celebrato dalla Einaudi» (n. 20, 2004).
Da Vanity Fair: un articolo sul regista Antonioni è titolato «La forza di
Michelangelo». E il sommario snocciola: «I suoi novant’anni e la malattia
non gli hanno tolto la voglia di parlare d’amore…» (n. 20, 2004).
Su Oggi quasi sempre il titolo fa riferimento anche alla foto: per esempio, sul numero 20 del 2004, le foto della mostra dell’Associazione italiana
per la lotta alle leucemie, con i quadri che portano l’impronta delle mani dei
VIP, sono titolate: «Nella campagna contro le leucemie abbiamo bisogno
della mano di tutti». Già il titolo spiega tutto, non c’è neppure bisogno del
sommario. E ancora il titolo critico sul film Troy («Questi eroi di Troia non
hanno il fisico») contrasta con l’immagine a tutta pagina di uno scultoreo
Brad Pitt.
Quasi nessuno ammetterebbe di essere sedotto da un titolo. Ma se non
fosse così non si spiegherebbe il successo di alcuni libri.
Un esempio: Come smettere di farsi seghe mentali e godersi la vita del
professore genovese Giulio Cesare Giacobbe.3 Dieci parole, un concentrato
di modelli neurolinguistici: la congiunzione come, che focalizza l’attenzione sulle modalità, dando per scontato il consenso sull’asserzione principale;
una presupposizione (smettere di farsi seghe mentali) e un’equivalenza
complessa (smettere […] e godersi la vita). Anche l’impatto grafico della
copertina ci aiuta a spiegare la filosofia di un buon titolo, seppure così lungo. Seghe mentali e godersi la vita troneggiano a colori in una cover altrettanto vivace: chi non si è mai consumato in mille seghe mentali? E chi non
vorrebbe gettare dietro le spalle una vita di preoccupazioni per godersi la vita? Tutti. Il titolo così ha risposto all’esigenza primaria dell’identificazione
e del sogno, passando attraverso la magia: che la lettura di questo simpatico
libro possa, per incanto, cambiarci la vita e portarci in una sorta di eden.
La stessa cosa vale per i titoli dei settimanali, che più dei quotidiani obbediscono all’esigenza onirica del lettore.
Spiega Paolo Occhipinti: «Se l’uso di 1000 parole semplici è indispensabile negli articoli, a maggior ragione nei titoli. Qui ci vogliono concetti lapidari, ‘stressati’, che fanno capire esattamente dove si vuole andare a parare.
Una lezione di semplicità ce la danno quotidiani e settimanali popolari inglesi, che usano uno strettissimo numero di parole, agevolati anche dal fatto
che l’inglese ha parole più brevi di quelle italiane. Forse dipende da questo
se non abbiamo avuto in Italia un grande quotidiano popolare. Quando Rizzoli ci provò con L’Occhio, fu una grande difficoltà. Ricordo che commissionò una ricerca a un’agenzia internazionale che fornì circa 500 ‘parole da
147
titolo’. Peccato che fossero tutte prese dal vocabolario anglosassone e che
una volta tradotte in italiano erano talmente lunghe che non si prestavano ai
nostri titoli».4
Il fiore… all’occhiello
L’occhiello dovrebbe spiegare il motivo per cui è stato scritto il pezzo, o
la sua filosofia. Negli anni la sua funzione si è ampliata. Oggi è nella sostanza una sorta di trailer del titolo e dell’articolo, una frase che ha il compito di spiegare o di creare suspence.
Gli occhielli di Oggi sono didascalici per far comprendere subito l’argomento del pezzo:
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Ora c’è la conferma della scienza: il cane comprende almeno 200 parole.
Menu di passione: imparate con noi a preparare piatti afrodisiaci.
Coco-Arcuri: è crisi. Per la prima volta parla il calciatore.
Panorama usa efficaci occhielli di poche battute:
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Iraq in fiamme. Chi attacca la missione.
Marina militare. A bordo dei simulatori.
Cartellone. Guida ai dieci film che faranno tendenza.
Vanity Fair sfoggia occhielli minimalisti che sfiorano il subliminale:
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Paura eh? (Per un pezzo sul film vampiresco Van Helsing.)
Übermodel. (Per un servizio sull’ex top model tedesca Claudia Schiffer.)
My way. (Per un’intervista all’erede di Frank Sinatra, Michael Bublè.)
Il ritmo del sommario
Il sommario è giocato sul ritmo. Le frasi brevi, aggressive, scandite
dalla punteggiatura, quasi minispot per chi vuole sapere tutto in pochi secondi (evidentemente un’ansia: Vanity Fair ha sentito l’esigenza di porre
al termine di ogni articolo il tempo di lettura, che non supera quasi mai otto minuti).
È il ritmo dei TG: deve dare pathos, drammatizzare. I termini devono essere forti senza apparirlo, incisivi senza infastidire. Con il compito primario
di accordarsi agli umori degli ipotetici lettori: fremere, indignarsi, scandalizzarsi, stupirsi. Il giornale anticipa i sentimenti di chi legge, e vi partecipa.
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Un buon esempio da Panorama:
Rapiti, aggrediti, uccisi. Da anni i crimini contro i conducenti di auto pubbliche continuano ad aumentare. Per questo adesso, da Napoli a Milano, un’intera categoria
cerca di correre ai ripari. Con l’aiuto della tecnologia e di un Grande Fratello.5
I luoghi comuni
Chi ammetterebbe mai di usare i luoghi comuni nella propria scrittura?
Nessuno. Ma anche questo è un luogo comune. In realtà, il rischio più scontato per i giornalisti è proprio quello di usare i luoghi comuni. Un gergo che sa
di stantio e di impolverato, e toglie all’immagine la freschezza dell’emozione.
Nella redazione del Corriere della Sera gira da decenni un lungo elenco di
luoghi comuni da evitare. Il suo autore ci perdonerà se ne ruberemo alcuni.
Com’è la settimana? Decisiva. E il maltempo? Imperversa. La tragedia com’era? Annunciata. Come sono le cifre? Da capogiro. E la concorrenza? Spietata. E la soddisfazione? Legittima. E il confronto? Serrato. Com’è il gesto del suicidio? Inconsulto. E il
rinvenimento del cadavere? Macabro. Com’è l’esecuzione? Feroce. Cosa c’è nel paese dopo un attentato? Sdegno e riprovazione. Cosa mantengono gli inquirenti? Il più
stretto (o il massimo o il più rigoroso) riserbo. Com’è la smentita? Secca. E lo spettacolo che si presenta al soccorritori? Agghiacciante. Come sono le trattative? Convulse. E le strutture? Carenti (o fatiscenti). Com’è la vicenda? Squallida. E l’ottimismo? Cauto. E l’episodio? Emblematico. E l’osservatore? Attento…
Non è il lessico che siamo abituati a sentire in alcuni servizi televisivi o a
leggere in certi articoli? Forse non ce n’eravamo accorti. Forse diamo addirittura per scontato che quello è il gergo da usare. Ma proprio perché l’uso è
diventato abuso. Largo alla fantasia, allora. Non cerchiamo aggettivi alternativi, ribaltiamo la frase. Per esempio trasformiamo il cauto ottimismo in
C’è ottimismo. Ma anche prudenza; oppure la squallida vicenda potrebbe
diventare: La mancanza di valori dà squallore a questa vicenda.
Sostiene Paolo Occhipinti: «Le parole che non devono stare mai in un articolo? Per esempio, il termine terribile non dovrebbe essere mai usato: dovrebbe drammatizzare, ma ha perso di significato. Hanno perso valore gli
avverbi che non siano evocativi: la nostra incapacità di cogliere il nocciolo
del problema fa sì che usiamo d’altra parte, dal canto suo, per parte mia, o
il condizionale al posto dell’indicativo (direi, e non dico). L’abuso dei
rafforzativi fa perdere loro di significato. Succede quello che accadeva con
le grida manzoniane: la si spara sempre più grossa per farsi ascoltare dal lettore. In realtà il lettore ha perso questa tensione quantitativa dell’avverbio
149
ridondante o reboante, mentre sta attento all’aggettivo usato in modo singolare. Per esempio, se si usa ‘maestoso’, non si scade nella genericità dell’aggettivo ‘grande’. Bisognerebbe fare il minore uso possibile dell’aggettivazione perché è anche questo un modo di qualificare l’avvenimento non in
modo oggettivo, ma soggettivo».6
Dunque: usciamo dagli schemi, e cerchiamo di descrivere la realtà in
modo diverso, meno scontato. Il linguaggio ritroverà potenza, l’informazione originalità e vitalità.
Racconti «visivi»
La fotografia ha ampliato il proprio significato e la propria forza di pari
passo con la cultura dell’immagine. Fino a diventare il «marchio» di una
notizia o di un evento, come nel caso del cormorano coperto di petrolio della prima guerra del Golfo: la foto era stata scattata altrove, ma è diventata
simbolo dello scempio ambientale in quel conflitto.
Nel giornalismo oggi l’immagine è centrale. La fotografia deve essere
evocativa, raccontare una storia. La Padania, l’11 giugno 2004, ha pubblicato in prima pagina tre immagini di Umberto Bossi nel luogo in cui si stava curando senza nemmeno una didascalia o un articolo di appoggio. Quelle immagini, forti e drammatiche, e il titolo di poche sillabe, «Ciao Padania», riassumevano l’ansia di tornare alla politica, la voglia di guarire ma
anche il dolore vissuto.
Il linguaggio giornalistico precipita verso un linguaggio di immagine, di
comunicazione emozionale. Questo ha riflessi anche sotto il profilo economico: un bel giornale una volta era fatto di grandi scrittori che raccontavano
quello che andavano a vedere; oggi è fatto di grandi fotografi che vanno in
giro per il mondo e ci fanno vedere quello che accade. E il rapporto di valore
tra un bell’articolo e una bella foto è di 1 a 10. Non ci sono articoli pagati
50.000 euro, mentre ci sono foto da 50.000 euro. Un grande scoop fotografico interessa più di uno giornalistico. Anche perché lo scoop fotografico resta
tale, quello giornalistico in epoca di globalizzazione è difficile che resista.
L’articolo allora è sempre più di accompagnamento alla foto. E non viceversa. L’informazione nasce da un’immagine e l’articolo ha come compito quello di commentarla e di accompagnare il lettore nei particolari di quell’immagine. Tornano alla mente la foto di Alì Agca, una pistola che si alza sopra la
folla del Vaticano, e poi subito dopo la foto del papa che si accascia. Intorno
a quelle immagini c’era tutto. Dopo sono cominciate le parole.
150
La potenza della parola
Scriveva il poeta latino Lucrezio:
Corpoream quoque enim vocem constare fatendum est
Si deve riconoscere che anche la voce è una sostanza corporea
(De rerum natura IV,526)
Una parola non vale l’altra. La scelta di un termine, il suo ascolto come
la sua lettura, generano un’eco che raggiunge gli spazi profondi della mente. Ce lo ricordano le varie tradizioni religiose. Prendiamo la Bibbia, libro di
fede, ma anche grande opera giornalistica scritta tremila anni fa. Evocativa,
storica, rappresentativa, racconta la storia di un popolo. Nella Bibbia è centrale una parola, impronunciabile quanto sacra: JHWH. Quattro consonanti
che sono il nome di Dio. Anzi, sono Dio. La parola evoca, la parola (il Verbo) è soffio e dal soffio del creatore è nato l’universo.
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Comincia così il Vangelo secondo Giovanni. Da una parola è nato tutto.
Pensiamo alle parole di potenza della tradizione buddista: i mantra. La loro
invocazione provoca sommovimenti interiori, psichici e fisici, come ben
raccontato da lama e praticanti. Nella tradizione cristiano-orientale, la potenza della parola è continuata sul Monte Athos con l’invocazione del nome
di Gesù. Scrive il filosofo e scienziato russo Pavel A. Florenskij:
La parola è energia umana, […] è l’energia dell’umanità che si rivela attraverso la persona. […] È la massima manifestazione dell’atto vitale di ogni persona, e tutto ciò
che sappiamo della parola ci conferma […] quanto sia carica delle energie occulte
della nostra essenza.7
E nella sua visione, la parola è il seme (lo stesso della parabola evangelica del seminatore: Marco 4,14) che diventa fecondo quando trova qualcuno che ascolta. Una parola non vale l’altra. Lo dice la mistica ebraica che
vede nel linguaggio il «medium in cui si compie la vita spirituale dell’uomo» e che contiene «un lato interno, un aspetto che non si lascia ridurre alla pura comunicazione fra gli esseri».8 Qui si arriva al carattere simbolico
del linguaggio su cui concordano tutte le religioni, dal Medio Oriente al
Giappone. La comunicazione di ciò che non è comunicabile passa attraverso la parola.
151
E la sua magia
Di recente un libro suggestivo, La risposta dell’acqua, ha dato un’immagine all’energia della parola: lo studioso giapponese Masaru Emoto ha fotografato una molecola d’acqua messa a contatto con una parola scritta. «Abbiamo riempito d’acqua delle bottiglie, abbiamo scritto delle parole con il
computer e abbiamo incollato il foglietto alle bottiglie in modo da mostrare
le parole all’acqua.»9 Il risultato è da vedere: a seconda del significato di
queste parole la molecola cambiava forma e contorni, assumendo aspetti
che si rifacevano al significato evocativo del termine (amore, grazie, sciocco, angeli, diavolo, saggezza). Come sia possibile non ci riguarda qui. Quello che – in maniera empirica – dimostra questo libro è che le parole producono energia che si ripercuote negli elementi che ci circondano.
Molto più banalmente, in titoli, occhielli e sommari non vi sfuggirà l’uso
di determinati termini. Alcuni «funzionano» più di altri, proprio per il loro
carattere evocativo: le parole passione, crisi, in fiamme, tendenza non farebbero lo stesso effetto di sinonimi pur corretti come erotici, difficoltà, in
guerra, di moda.
Cambia il suono, e il messaggio non arriva più.
Note
Fabia Schoss è autrice di Imparare la salute (Mondadori, Milano 2001), e di Propagations.
30 Years of Influence From the Mental Research Institute (The Haworth Press, New York
1995).
2
Intervista dell’autore a Paolo Occhipinti.
3
GIACOBBE, GIULIO CESARE, Come smettere di farsi seghe mentali e godersi la vita, Ponte alle Grazie, Milano 2003.
4
Intervista a Paolo Occhipinti.
5
«Vita e morte dei tassisti di notte», Panorama, n. 29, 2004.
6
Intervista a Paolo Occhipinti.
7
FLORENSKIJ, PAVEL A., Il valore magico della parola, Medusa, Napoli 2003, pp. 21 e 70.
8
SCHOLEM, GERSHOM, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998, p. 12.
9
EMOTO, MASARU, La risposta dell’acqua, Edizioni mediterranee, Roma 2004, p. 31.
1
152
Human resources
Scriversi, annunciare, negoziare
di Fiorella Zaggia
«PERSONALE» o «risorse umane» (o HR, of course)? La distinzione richiama
la lunga marcia delle politiche di gestione e valorizzazione delle persone:
almeno cinquant’anni, dall’avvento delle teorie anglosassoni.
Il passaggio dalla nozione di «personale» a quella di «risorse umane»
segue il passaggio dall’era delle relazioni industriali di stampo classico
(rigidità, difesa dello status quo, peso dei sindacati e della contrattazione
collettiva ecc.) all’era degli stakeholder. Qui il numero, le tipologie e le
aspettative dei differenti «portatori di interesse» (azionisti, governo, clienti, fornitori, competitor, sindacati, lavoratori ecc.) rendono necessaria l’integrazione fra strategie in tema di risorse umane e strategie economiche
dell’impresa.1
Gli anni Novanta e la «centralità del cliente» portano anche la «centralità
delle risorse umane», sviluppando la cultura del cliente interno e il passaggio da una concezione di risorsa umana come costo da ottimizzare a una come asset portatore di professionalità e di innovazione.2
Questa centralità, però, resta oggi troppo spesso uno slogan. Nel contempo, cresce la complessità delle sfide che imporrebbero alla funzione HR
un salto di qualità: da specialista di prodotti/servizi indifferenziati a specialista di analisi e governo delle diversità, trasformazione della struttura organizzativa, adattamento del sistema di competenze e valori, promozione del
cambiamento.
Nell’area delle «risorse umane», dunque, si annidano difficoltà, malintesi, opportunità non risolte o inespresse, ma anche conoscenza, sviluppo,
know-how.
Qui la scrittura ha una funzione assai critica: risolve malintesi e conflitti
o, al contrario, li acuisce sino a farli esplodere.
153
In questo capitolo analizziamo alcune tra le applicazioni più importanti
della scrittura nell’area delle risorse umane:
➜ lo scriversi, ossia sfruttare al meglio il curriculum vitae;
➜ l’annunciare, ossia divulgare informazioni attraverso la bacheca;
➜ il negoziare, ossia gestire l’impegno di tutte le parti nel raggiungere un
accordo.
«Curriculum vitae»: non una lapide, please!
Il curriculum vitae è uno degli scritti di maggior importanza nell’ambito
delle relazioni umane: parla di noi, racconta i nostri percorsi, le mete raggiunte, chi siamo e cosa sappiamo fare.
C’è un aspetto quasi sacrale, da trattare con cura, perché i talenti siano
messi in luce, e non nascosti da armature medievali che trasformano il nostro primo approccio con il lavoro in un’opera piatta, una bara di carta con
parole epitaffio.
La parola latina curriculum è costruita sulla radice di currere, correre. È
una corsa attraverso le tappe di una vita, in un’esposizione che chiede d’essere plastica, dinamica, da reinventare ogni volta. Rifuggire dunque dalla
clonazione dei dati, degli hobby, dei percorsi: meglio correre con loro verso
mete e incontri diversi. Il segreto sta nella sensibilità che possiamo sviluppare per raccontarci in modo accattivante.
I modelli neurolinguistici possono esserci utili. A partire dalla calibrazione
del selezionatore. Conosci chi ti sta leggendo, il suo mondo, i valori che motivano le sue azioni? Le tue scelte lessicali tengano sempre conto del lettore,
per offrirgli scritti da divorare con gli occhi, da gustare, da ascoltare. Se sai
che il selezionatore è visivo, illumina la tua immagine con luci discrete, ma significative; se è auditivo, cura l’armonia dei ritmi e delle pause; se è cenestesico, fa’ in modo che possa percepire in modo concreto la tua esperienza.
E poi, spazio alla fantasia con i verbi – parole magiche, così ricche di
movimento – per riempire le tue descrizioni di suoni e colori del tutto personali: per il visivo, per esempio, vedere, illustrare, segnare, puntualizzare,
sottolineare ecc. Vedrà le tue opere, il tuo volto, le mappe che hai disegnato,
le cattedrali che hai progettato e costruito.
E se non lo conosci? Via, una raccolta di informazioni non è tanto difficile: una telefonata e qualche minuto di dialogo potranno rivelare molto. Altrimenti un buon rifugio è la sinestesia: un equilibrio di espressioni che offrano al selezionatore la tua immagine, la tua voce, la sensazione della tua
adeguatezza.
154
È questo che i selezionatori più attenti desiderano leggere: la vera storia
del candidato, la sua immagine, la sua personalità, raccontate con attenzione e cura particolari.
Un aiuto per la stesura del curriculum vitae è fornito dal modello europeo, European CV Format.3 Scorriamolo.
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Informazioni personali—Cognome e nome, indirizzo, telefono, fax, email, nazionalità, data di nascita. Perché non aggiungere il luogo? Sono
le nostre radici, parlano al lettore per noi.
Esperienza lavorativa—Iniziando con le informazioni più recenti ed
elencando separatamente ciascun impiego. Attenti: le indicazioni su
mansione e responsabilità sono molto importanti per il lettore. La terminologia sia specifica. Scriversi per descriversi.
Istruzione e formazione—Citare ogni corso pertinente frequentato, evitando però i pedanti elenchi. L’amor di dettaglio è invece vincente nelle
«principali materie/abilità professionali oggetto dello studio»: lì bisogna
visualizzare e rendere tangibile ciò che altrimenti sarebbe generico.
Capacità e competenze personali—Quelle «acquisite nel corso della vita
e della carriera, ma non necessariamente riconosciute da certificati e diplomi ufficiali»: madrelingua, capacità e competenze relazionali, organizzative, tecniche e artistiche. Questa parte va arricchita di espressioni
che sollecitino il canale visivo del destinatario: ciò rende immaginabile,
percorribile e memorizzabile il profilo.
Un paradosso: sembra che i curriculum redatti seguendo il modello europeo si uniformeranno del tutto, a svantaggio della personalizzazione auspicata.
Sarà però la lettera di accompagnamento a contenere la personalizzazione. Il segreto, qui, è tutto nelle parole. È «la mia lettera proprio per te».
Ecco alcune frasi impolverate, che fiaccano l’attenzione: da buttare per
sempre nel cestino.
Vi invio questa lettera per allegare il mio curriculum.
Il sottoscritto XYZ nato a […] il […] e ivi residente in via […] nel presentare a codesto ufficio debita domanda d’assunzione dichiara che ha frequentato l’Istituto
[…] per anni 5, conseguendo regolare diploma di […] con la seguente votazione
[…], di essere milite esente e di aver effettuato uno stage presso […]. All’uopo, allega dichiarazione di […].
Fiducioso in una vostra risposta in merito, colgo l’occasione per porgere distinti
saluti.
In fede
155
Di contro, un esempio brillante.
Alla c.a. […]
Ricerca e Selezione del Personale
[azienda]
[indirizzo]
oggetto: Autocandidatura per la posizione di
«responsabile progettista di formazione»
Ho seguito il 15 giugno al convegno […] la presentazione della vostra società e delle posizioni che state ricercando.
Ho raccolto la vostra brochure, e ho poi consultato il vostro sito: credo di essere allineato con il profilo di responsabile progettista di formazione per la vostra società.
Vi descrivo perché.
Come mi sono formato. Durante il corso di laurea in Filosofia ho maturato interessi
spiccati relativamente alla dinamica organizzativa, alle relazioni interpersonali, all’individuo. Ho scelto una tesi di laurea sperimentale e la ricerca è stata condotta sul tema
«Motivazione al cambiamento», anche attraverso focus group e interviste personalizzate in alcune realtà aziendali nazionali ed estere, quali le società X, Y e Z.
Quali esperienze ho maturato. Da tre anni sono nell’azienda […] e il mio ruolo è di
formatore junior (analisi dei bisogni formativi, progettazione degli interventi, gestione
dell’attività didattica come docente su temi comportamentali). Affianco un consulente
senior da 6 mesi per lo sviluppo di interventi di consulenza.
Grazie per l’attenzione. In attesa di incontrarvi presto, cordiali saluti.
Il lettore «vede» il momento dell’incontro con il candidato. Gli viene
contestualizzato il convegno, sottolineato l’atteggiamento di ricerca, reso
tangibile il nesso tra le informazioni acquisite e l’autocandidatura. Vi è un
impiego accorto delle parole (allineato, maturato, interessi, sperimentale,
focus group, personalizzate ecc.), senza banalizzazioni, nè eccesso di autostima o di dettagli.
Non mancano termini specifici e coerenti con la posizione: analisi dei bisogni formativi, progettazione, gestione, docente, interventi di consulenza.
Il ruolo in evoluzione è accennato da un delicatissimo affianco […] da 6
mesi.
Che cosa manca? La motivazione al cambiamento. Abilmente cancellata: potrebbe essere un autogol aggiungerla in questo momento. Va presentata a piccole dosi, vis-à-vis con l’intervistatore, facendogli compiere un certo
lavoro per scoprirla: in fondo, è il suo mestiere.
Com’è andata? L’avrete intuito: i presupposti per l’incontro c’erano tutti.
156
In bacheca cosa c’è?
Nell’era tecnologica, la bacheca è uno strumento ancora molto importante. Discreta e fedele, ci accompagna dalla scuola all’azienda.
Nell’evoluzione storica della bacheca ci sono degli elementi costanti:
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facilità d’accesso alle informazioni
potenza di sintesi
predominanza dell’elemento visivo (colori, evidenze, immagini ecc.)
linguaggio semplice e diretto
grande diffusione del messaggio
delimitazione dello spazio comunicativo (cornice), che non concede distrazioni.
Ed è proprio la fisicità della bacheca che le conferisce quell’ufficialità.
Mentre le e-mail vengono inviate a moltitudini di utenti nell’unico istante di
un clic, la bacheca, immobile, aspetta. E sempre nelle aree di aggregazione:
coffee corner, corridoi, ingressi. Incrocia sempre parole con fatti, volontà
con occhi che la scorrono, diritti con doveri.
Negli anni Settanta era un punto d’orgoglio sia per la direzione sia per i
sindacati. Oggi vi si possono trovare:
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cambiamenti organizzativi e ordini di servizio
job posting: il linguaggio è snello, descrittivo, visivo
celebrazioni di risultati raggiunti
programmi di formazione
contratto, organigramma, procedure, regolamenti, orario di lavoro
norme di sicurezza e relativi preposti
annunci di eventi personali
notizie e cronache interne: evento nell’evento, linguaggi a effetto, grafiche impazzite.
Ma il lettore chi è e che cosa si aspetta?
Sondaggi e questionari interni fanno svettare ancora la bacheca nella top
ten degli strumenti di comunicazione: segnale forte e chiaro di attese insoddisfatte e aspettative inascoltate.
In produzione, poi, nelle linee e nei reparti operativi, la bacheca è difesa
e voluta. È lì che lo strumento comunica, davvero, con una forza evocativa
antica, come gli editti affissi nel foro.
157
Cosa c’è, in bacheca, che influisce sulla relazione con i lettori? C’è ricalco?
Rapport? Guida?
Guida, sì. È qui che si inseriscono i comandi per ottenere una modifica
di comportamento nei lettori. E prima ancora c’è ricalco: impiego del linguaggio del lettore. Più lontano è il rapport, perché manca reciprocità, a livello sia verbale sia non verbale.
Ed è proprio qui un’evoluzione possibile: rafforzato da immagini, il
messaggio in bacheca diventa più suggestivo.
Comunicazione dal
«Pianeta Amministrazione»
Cosa succede dopo l’acquisto diretto dei prodotti…?
Riceviamo la fattura a casa e la facciamo girare un po’ per
casa, fino a quando non si decide che è tempo che finisca
nella raccolta differenziata.
La fattura però la dobbiamo pagare!!!
Riceviamo il primo estratto conto da parte dell’amministrazione e lo
sistemiamo momentaneamente in un cassetto.
Dopo un mese ne riceviamo un altro e quasi sottovoce per non farci sentire diciamo
«…è vero mi sono dimenticato di pagare!!!»
e quasi come promemoria lasciamo l’estratto conto in bella vista sulla scrivania.
Due ore dopo il promemoria è scomparso sotto una marea di documenti.
Intanto in amministrazione la tensione sale e ci si domanda:
«Possibile che tutti i nostri sforzi rimangano senza risposta?!?
sigh sigh.»
Non è bello chiedere il denaro, soprattutto ai colleghi, è tempo di risolvere l’annosa
questione! Dopo una breve riflessione
, la soluzione salta fuori!
«Eh… Eh… L’importo della fattura lo detrarremo dallo stipendio, nessuno spreco di
carta, di tempo e di energia.»
Ovviamente abbiamo voluto un po’ scherzare sull’argomento!!!
Qual è lo scopo finale di questo messaggio?
A partire dal mese di agosto, gli importi a nostro debito per l’acquisto di
prodotti saranno detratti dallo stipendio dopo 60 giorni.
Per ora dal Pianeta Amministrazione è tutto!!! Buone vacanze e nell’immediato buona
giornata.
158
Ho trovato questa perla in una bacheca aziendale, esempio di comunicazione scritta che applica in pieno i modelli neurolinguistici. La riporto conservandone la grafica.
Testo brioso e gentile, anche se si tratta di una nuova prassi per riscuotere
dei pagamenti. Crea un ponte tra una parte dell’azienda e il resto del gruppo.
Prende per mano il lettore e lo porta dietro le quinte. Umanizza gli atteggiamenti di chi legge e di chi scrive, riporta i loro linguaggi e i loro pensieri, e
infine guida verso la modifica dei comportamenti proponendo una soluzione,
che così appare logica, legittima, utile.
Niente a che vedere con le pagine di contratti o di accordi interni, né con
le comunicazioni di servizio dal gergo algido e omogeneizzato, che sembrano redatte tutte dalla stessa mano diafana, immacolata, senz’anima.
Annunci ancora migliori si possono trovare in un’altra bacheca che si insinua tra quelle ufficiali. Informale e ufficiosa, somiglia a quella che si trova
in certi androni bui delle università, avvolta nella nebbia e accarezzata dalla
luce fioca di lampioni posti sempre troppo in alto, fitta di annunci pratici e
quasi indecenti.
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Vendesi tavolo da disegno come nuovo
Vuoi dividere la stanza con me? Telefona al…
Doposci seminuovi e semipuliti, n. 46
Nelle bacheche in azienda si trovano messaggi tangibili, concreti, visivi
e personali.
■
■
■
Appartamenti e auto
Vespe e lambrette usate
Diete e foto di bambini
Qui, più che su quelle ufficiali, si appunta l’interesse del general manager, dei contabili o dei venditori che ogni tanto passano in azienda per sentire che aria tira. Intorno a questo angolo, tutti sorridono, parlano, si aprono.
Cui prodest? La negoziazione tangibile
Le persone agiscono secondo le proprie esigenze e non secondo le nostre. Quando due parti si mettono a confronto, l’importante è che interessi e
posizioni contrastanti si avvicinino fino a raggiungere un accordo.
Negoziare, del resto, deriva dal latino negotium, affare. La negoziazione
è un’interazione tra due o più parti in cui si cerca di stabilire cosa ognuna
159
dovrebbe dare e ricevere con reciproco vantaggio. Un meccanismo in grado
di risolvere i conflitti creando valore.4
Ma come si declinano i conflitti per condurre alla negoziazione? Con il
passaggio dalla «contesa», concentrata su obiezioni e riserve, a un gioco «a
somma positiva», in cui tutti i partecipanti possono tendere a qualche vantaggio. Un gioco regolato dai principi di relazione, ascolto, reciprocità,
creatività e sviluppo, in cui le modalità espressive delle parti si adattano e
danzano insieme.
È questo lo scopo della «negoziazione integrata»: concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni. Le parti scivolano così dalla contrapposizione
alla reciprocità: se le posizioni sono contrapposte, non sempre lo sono anche gli interessi.
Gli studiosi americani Roger Fisher e William Ury usano come esempio
una storiella. I personaggi: due sorelline e la loro mamma. L’oggetto conteso: un frutto.
Siamo nella loro casa e… «Voglio l’arancia», dice una bambina.
«Anch’io la voglio», replica l’altra.
A entrambe la mamma domanda: «Perché la volete?».
La prima risponde: «Per mangiarla».
La seconda: «Voglio grattugiare la buccia per la mia torta».
La mamma sbuccia il frutto, offre a una la polpa e all’altra la buccia.5
Ottima negoziazione integrativa: la mamma non si concentra sulle posizioni delle figlie, ma sui loro interessi, e così fa scivolare la contesa da contrapposizione a reciprocità, ottimizzando con una sola scelta i vantaggi per
entrambe. Se avesse deciso di dividere in due parti uguali il frutto, avrebbe
commesso un errore. Chiedendo «Perché la volete?», ha fatto emergere interessi differenti ma compatibili. E facilmente realizzabili.
Non avremo spesso frutti succosi da dividere, ma se saremo sorretti da
questo spirito potremo trovare soluzioni soddisfacenti.
Ambiguità fatali
di Giampaolo Pecorari
Chi opera nell’area delle human resources (HR) deve usare gli strumenti
e i modi più efficaci nel comunicare con i propri clienti: i dipendenti.
Le HR, solitamente, non comunicano: informano.
160
Assumono, licenziano, pagano. Incutono rispetto, ma poca fiducia.
La comunicazione tra le HR e i propri clienti è spesso filtrata da una patina di diffidenza. Volevo migliorare il mio rapporto con i clienti. Decisi di
partire dall’approccio con i partecipanti ai corsi di formazione. Era mia intenzione essere più comunicativo, più innovativo e diretto.
Inserii quindi molte novità, in termini di grafica, funzionalità, completezza e accessibilità alle informazioni. Ma ecco l’imprevisto: un errore e il
conseguente equivoco. Risolto con la potenza della scrittura.
L’e-mail di invito
In seguito alla vostra iscrizione al corso XYZ, siete invitati a partecipare alla 4a edizione del corso.
Vi prego di comunicarmi al più presto possibile le vostre decisioni:
❏ Partecipo
❏ Parteciperò a una prossima edizione ❏ Non sono più interessato
-------------------------------------------------------
Corso: XYZ - 4a edizione
Data: 7-8 giugno 2004
Sede: Centro di Formazione - piano terra - edificio B
Orario: 9:00 - 17:45
Ulteriori informazioni nelle pagine di Employee Portal: http://…
La prossima edizione del corso è pianificata per il 17 e 18 luglio.
Uno dei lettori mi fa notare che 17 e 18 luglio sono sabato e domenica.
Cerco di rimediare, scrivendo immediatamente una e-mail correttiva agli
stessi destinatari.
La correzione e il «chiarimento»
Vi segnalo che la successiva edizione del corso è pianificata in data 1 7 e 1 8 g i u g n o
e non come erroneamente indicato 1 7 e 1 8 l u g l i o.
Uno dei possibili partecipanti scrive dichiarandosi interessato, sia pure
in ritardo.
Ma lo fa utilizzando «rispondi» alla seconda e-mail, quella cioè che
corregge la data della quinta edizione, non a quella che conteneva l’invito.
Per scrupolo, mi chiama anche al telefono. Purtroppo, anche al telefono
l’equivoco continua: io continuo a pensare alla quarta edizione, quella del
7-8 giugno, lui invece alla quinta, del 17-18. Non bastasse, mi scrive
un’ulteriore e-mail:
161
Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto solo oggi la conferma di poter partecipare.
Grazie per la pazienza.
L’assenza e la rappresaglia
Ovviamente il 7 e 8 giugno non si presenta in aula. Scatta, implacabile,
la sanzione prevista per gli assenti ingiustificati.
La informo che il costo previsto sarà comunque addebitato al suo reparto.
Non partecipare a un corso senza preavviso impedisce ogni sostituzione.
Avrà comunque la possibilità di partecipare a una prossima edizione senza ulteriore
addebito di costi.
Future edizioni sono programmate per il 17 e 18 giugno, e 1° e 2 settembre.
La risposta è irritata: si sente vittima di un sopruso.
L’irritazione
Non comprendo questa sua e-mail.
Ci siamo già sentiti t e l e f o n i c a m e n t e e ho già detto che avrei partecipato all’edizione del 17-18 giugno, nella e-mail mi scusavo solo del ritardo nell’aver risposto s ì.
Se non mi avete incluso nell’elenco, me ne stupisco, dal momento che durante la telefonata mi aveva detto che la mia partecipazione era solo da confermare.
Rimango in attesa di ulteriori riscontri.
Buon pomeriggio.
Cambio decisamente tono, consapevole di aver contribuito al malinteso.
Propongo una resa e offro l’OK a partecipare alla prossima edizione.
Il dubbio e la fiducia
Non ricordo con precisione la telefonata.
È possibile che abbia frainteso 7 e 8 giugno con 17 e 18 giugno: entrambe edizioni
dello stesso corso.
Come «scusa» aggiuntiva, sottolineo che l’invito che le avevo trasmesso era per la 4a
edizione, del 7 e 8.
A prescindere da tutto ciò, se è disponibile, rimane valida l’opportunità di partecipare alla 5a edizione: quella di giovedì 17 e venerdì 18.
Mi spiace per l’equivoco.
A presto.
Il lieto fine
La risposta è conciliante.
La ringrazio per l’opportunità. Sono molto interessata al corso: parteciperò all’edizione del 17 e 18 giugno.
162
Rileggendo con attenzione la nostra precedente corrispondenza devo ammettere
che l’equivoco è probabilmente nato anche per causa mia.
Grazie per l’attenzione.
Come sempre, una parola sottintesa può causare interpretazioni tra loro
diverse.
Nel caso dell’equivoco è stata l’ambiguità sulla data. Nel caso dell’armistizio, quella sul soggetto del verbo «abbia». Cancellando l’indice referenziale, io volevo dire «che lei abbia frainteso»; è stato invece letto come «che
io abbia frainteso».
Una volta tanto, l’opposta interpretazione di una frase ha contribuito a risolvere la controversia. Potere delle ambiguità.
Valutazione della prestazione
Strutture superficiali e strutture profonde
a confronto
di Carlo Bosso
Valutare la prestazione è un momento significativo della scrittura professionale. Confrontiamo le strutture superficiali con le rispettive strutture
profonde: possiamo trarne spunti interessanti. Vediamo un caso.
Il valutatore è un direttore del personale, il valutato è un «quadro», suo
collaboratore. Due buoni conoscitori delle regole del gioco. L’azienda è una
multinazionale. Dopo la compilazione della scheda, la prassi contempla
sempre un confronto tra i protagonisti, capo e collaboratore.
Riproduco nella pagina successiva la parte della scheda in cui il quadro
esprime un’autovalutazione su tre aspetti predefiniti, che poi il capo legge
ed eventualmente commenta per iscritto prima di procedere.
Il valutato pare avere le idee chiare, e preme per ottenere una promozione. Cerca di far risaltare i propri punti forti (esperienza, conoscenza, capacità le parole chiave), desidera rafforzare il proprio ruolo (completare, finalizzare, consolidare, rafforzare i verbi usati), dichiara e motiva il proprio
obiettivo: la dirigenza. Si esprime per punti, evidenziando gli aspetti che ritiene fondamentali. Attenzione al verbo formalizzare. Sta dicendo che lui
163
Parte prima
Autovalutazione delle capacità: a cura del valutato
PUNTI DI FORZA
1. Elevata esperienza e autonomia nel proprio campo di attività.
2. Buone relazioni interne sia nell’area delle risorse umane sia con i responsabili
di altri enti.
3. Buona conoscenza della lingua inglese.
4. Notevole conoscenza dell’azienda e molteplici contatti con le risorse umane
internazionali.
5. Capacità di organizzare e gestire meeting e corsi (anche in qualità di docente).
6. Varie esperienze nell’area della comunicazione (sia interna all’azienda sia esterna).
7. Conoscenza di norme e procedure delle ISO/TS (sistema qualità).
OPPORTUNITÀ DI MIGLIORAMENTO
1. Completare le competenze in ambito relazioni industriali.
2. Dedicare maggiore attenzione ai programmi di sviluppo individuali
e ai conseguenti piani di azione.
3. Finalizzare meglio le competenze professionali anche progettando
e gestendo corsi interni.
4. Consolidare il ruolo di coordinamento, a livello Italia, delle attività/responsabilità
a me assegnate.
A quali ulteriori esperienze professionali è interessato:
Maggiore impegno sulle principali attività gestite coerentemente con le linee guida
europee, e maggiore coinvolgimento nelle relative iniziative a livello europeo.
Rafforzare e formalizzare la posizione di coordinamento delle attività a me affidate
a livello Italia in modo da raggiungere in tempi rapidi i requisiti per ottenere
la promozione a dirigente.
Parte seconda
Valutazione della presentazione: a cura del valutatore
Attività svolte e loro risultati:
Buono. Il risultato del team nel 2004 può comunque migliorare.
Soddisfazione del cliente:
Buona predisposizione, deve curare i «clienti difficili» con il suo team.
Lavoro in team:
In genere buono.
Miglioramento continuo:
Buono.
Conoscenze tecnico-professionali:
Adeguate.
Leadership:
Buoni risultati con il suo piccolo team.
164
già svolge questo ruolo, ma non gli è ancora stato riconosciuto. Niente alibi
per il capo: non potrà far finta di non avere capito.
Vediamo come reagisce il capo, che deve valutare il collaboratore su alcuni parametri definiti.
Balza all’occhio la sinteticità della valutazione: poche e generiche parole; il termine più ricorrente è buono (5 volte). Dire il meno possibile e non
lasciare appigli, sembra l’intenzione.
Che cosa avrà voluto esprimere?
1. È spaventato («Questo sfrontato vuole la dirigenza!»), ma nel contempo
soddisfatto.
2. Soddisfatto sì, ma fino a un certo punto. In un paio di occasioni c’è un
«però»: il valutato è bravo, ma qui è in ballo una promozione che va come minimo rimandata. «Limitiamoci a dirgli che il suo team è piccolo e
che ha dei clienti interni difficili: lui capirà, io non mi espongo e posso
sempre dire che ha equivocato. Non posso (non voglio) accontentarlo,
ma neppure demotivarlo, altrimenti chi mi cura tutto quel lavoro?»
3. Si mantiene sul generico, meglio non entrare nel dettaglio. Perché? Ha
poco tempo (è un direttore, no?) oppure non desidera fornire spunti di
discussione al valutato, né elementi che potrebbero richiedere spiegazioni.
Ma il punto è: il giovanotto merita o no la promozione? Non si capisce
l’opinione del capo.
Entriamo ora nell’abito del valutato: che cosa può avere recepito? Azzardiamo.
1. Il capo è soddisfatto, ma non del tutto: desidera genericamente qualcosa
di più.
2. Dovrebbe migliorare ancora la prestazione, ma deve capire da solo come
e dove (vero o pretesto?) oppure gli sarà detto poi a voce (verba volant)?
3. Il suo team è piccolo (due collaboratori), d’accordo, ma che significa?
Forse che un ufficiale si giudica solo in base al numero di soldati che comanda?
4. Il direttore è sfuggente, evasivo, laconico. Risultato: la promozione svanisce.
«Mi vuole fregare, non ha il coraggio di dirmelo e si aggrappa a pretesti», pensa.
Risultano ben chiari i due opposti comportamenti, ovviamente determinati anche dagli opposti obiettivi. Il temerario manager si esprime con fra165
si compiute, va al concreto, evidenzia, motiva, enumera, propone, adduce
fatti e competenze. Aggredisce razionalmente. Il pilatesco direttore cerca
un profilo basso, parole e non frasi, minimizza, conviene ma distingue, instilla il dubbio, utilizza la gesuitica tecnica del «sì, ma…». Sfugge consapevolmente.
Siamo ai colpi di fioretto: che cosa si saranno poi detti al colloquio? Le
cronache narrano che il fioretto non ha ceduto il posto alla spada, ma l’incontro è proseguito a lungo.
Note
COLE, GERALD, Personnel and Human Resources Management, Continuum, London 2002.
BOLDIZZONI, DANIELE (a cura di), Management delle risorse umane. Dalla gestione del lavoratore dipendente alla valorizzazione del capitale umano, Il Sole-24 Ore - ISTUD, Milano
2003.
3
http://www.cedefop.eu.int/
4
Due testi fondamentali sul tema: RUBIN, J.Z. - BROWN, B., The Social Psychology of Bargaining and Negotiations, Accademy Press, New York 1975; e RUMIATI, RINO - PIETRONI,
DAVIDE, La negoziazione. Psicologia della trattativa, Cortina, Milano 2001.
5
Fra gli studi sulle risorse umane si segnalano i contributi dell’Harvard Negotiation Project e
le sintesi compiute da Roger Fisher e William Ury nel loro L’arte del negoziato. Come difendere i propri interessi in ogni sorta di trattative, Mondadori, Milano 1995.
1
2
166
Internet
La magia della rete
di Silvia Frattini
Dottor Jekyll o Mister Hide?
Fin dai primi anni di vita, la rete ha sofferto di crisi d’identità: tubo
senz’anima? Paradigma della libertà? Macchina per far soldi? Tutto, e il
contrario di tutto.
Nemmeno invecchiando le cose sono cambiate e, da qualche tempo, questo Amleto digitale ha cominciato anche a far paura. Alle roccaforti culturali, perché ridisegna i confini tra autore e lettore. Al potere economico, perché invade i vecchi mercati e ne crea di nuovi senza chiedere permesso.1 All’establishment politico, perché non accetta gerarchie, ma si nutre di idee
condivise.
A noi invece questa internet un po’ schizofrenica continua a piacere. Ci
piace perché è complessità, divenire, è «connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo».2 Ci piace perché qui la scrittura è, più che mai,
comunicazione, azione, relazione.
Quando il rapport è a distanza
L’esattezza delle parole è fondamentale, tanto più sul web, dove la scrittura è insieme specchio e carta d’identità. I modelli neurolinguistici ci aiutano a comunicare, anche senza il potere della voce e dello sguardo.
Ma come creare rapport con un lettore incollato al monitor?
Anzitutto definiamo l’obiettivo del nostro scrivere. Tutto sta in «cosa»
vogliamo dire: il «come» viene di conseguenza.
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Usiamo il metamodello per essere chiari e per verificare la comprensione del messaggio.
■
■
Chi può firmare? Coloro che hanno percepito solo redditi di pensione, di
lavoro dipendente…
Quando e dove consegnare? Consegnare il modello CUD entro il 31 Luglio
secondo una delle seguenti modalità…3
Meglio invece l’aura evocativa del Milton model quando vogliamo inserire suggerimenti e inviti all’azione.
■
■
Siate ragionevoli: lasciatevi guidare dall’istinto.
Se vi piace Classe E, non compratela.4
Presupposizione e lettura del pensiero facilitano l’empatia con il lettore.
■
■
Qui trovate i link con alcuni siti internet che pensiamo possiate trovare interessanti.5
Anche tu non fumi? Oppure fumi e vuoi smettere? Non sei da solo!6
La nominalizzazione fa sentire unico il destinatario del messaggio.
■
Fate diventare ogni attimo del vostro tempo un continuo momento di grandezza, di felicità, gioia, esaltazione per se stessi.7
L’indice referenziale «noi», sinonimo di gruppo, di esperienza condivisa, sottolinea ciò che ci unisce (l’essere «verso»), anziché ciò che ci separa
(l’essere «via da»).
■
Lo spirito che anima MyNutella è lo stesso che spinge tutti noi ad affondare il cucchiaio nella crema più buona del mondo, perché mette allegria, fa
star bene ed unisce. In fondo, che web sarebbe senza Nutella?8
Anche il gergo può essere un forte veicolo di rapport: condividere gli hot
buttons,9 parole o espressioni gergali tipiche di un certo settore, è un’àncora
semantica, psicologico-relazionale, mnemonica e quindi economica.
Cervello, cuore, pancia
Altro aspetto strategico, i sistemi rappresentazionali. Dosiamoli con
cura: accontentiamo il visivo con una font gradevole e una bella impagi168
nazione, ma non cerchiamo a tutti i costi l’attenzione dell’uditivo con inserti audio (che dire dell’irriverente benvenuto di www.ragoo.it, spazio
on-line di un locale milanese?). Meglio la voce surreale che anima il menu
di www.alessiobertallot.it.10
Il cenestesico troverà pane per i propri denti su www.randomsummer.com,
del gruppo islandese Múm. Mani immaginarie accartocciano le pagine a ogni
cambio scena. Il forum è una distesa di alberelli. Persino il form di registrazione riesce a incantare, quando la password diventa Open Sesame e Connecting to the lighthouse… sostituisce il più classico Loading…
www.molleindustria.it è un serbatoio di videogiochi alternativi. Ce n’è
per tutti i gusti: dalla religione al lavoro, passando per il sesso. Con Papa
parolibero, ovvero Parole sante in libertà, puoi comporre i messaggi del
pontefice per la comunità cristiana, «e non preoccuparti, finché sei papa sei
infallibile!». TamAtipico è un lavoratore precario virtuale: «se ti stufi di giocare, non farti troppi scrupoli. Licenzialo senza giustificato motivo». Per il
Simulatore di Orgasmi basta il sottotitolo: «Simulare fa rima con amare».
Finita l’era del «Poco testo, please?»
Tutti gli studi lo dicono: sul web, contrariamente alla carta, gli utenti
prestano più attenzione ai testi che alle immagini. E la banner blindness ci
rende ciechi alle sollecitazioni visive. Le prime tre fissazioni oculari portano alle immagini solo nel 22 per cento dei casi, contro il 78 per cento per titoli, sottotitoli e sommari.11
Suggerisce allora Marion Lewenstein dell’Università di Stanford: «Scrivete meglio che potete i titoli, perché facciano quello che devono fare: portare il lettore nella storia. Titoli e didascalie che balzano agli occhi possono
essere la prima e unica opportunità di catturare il lettore on-line».12
Ciò non significa che una buona struttura della pagina debba escludere
inserti iconografici: viva le immagini utili e significative. Ricordiamo poi
che i colori caldi attirano più di quelli freddi, i pulsanti in rilievo più di quelli a due dimensioni, i visi più degli oggetti.
Tanti modi di leggere
Un testo on-line cambia secondo il contesto e le esigenze del lettore. L’ipertesto prevede infatti una lettura «connessionista», in cui ciascuna parola
innesca un «nodo» della nostra rete mentale.
Quali sono allora le possibili declinazioni della lettura on-line?
169
Nello scanning considero il testo dall’inizio alla fine e senza soste, alla
ricerca di parole chiave con cui, se è il caso, andare in profondità.
Il tunnel reading comincia con uno scanning ma poi, appena cattura uno
spunto d’interesse, scende in profondità senza badare ad altro.13
Il search reading è una lettura di ricerca, un’ispezione rapida e al tempo
stesso accurata in cui privilegio la globalità più che la linearità.
Con lo zigzag tipico dello skimming mi creo una mappa concettuale della pagina in base alle informazioni che sto cercando.
Se scelgo il resumptive reading (lettura riassuntiva) assimilerò meglio i
dati contenuti all’inizio e alla fine delle righe di testo.
Frequente tra gli internauti è anche la lettura libera o sensuale, una sorta
di serendipity 1 4 in cui, lasciandomi permeare dalla scrittura, ancoro al testo
esperienze già vissute.15
«Effective reading»: strategie di lettura
In internet siamo spesso vittime di una lettura non controllata, il cosiddetto compulsive reading. Lavoriamo allora sugli aspetti fisiologici: velocizzare la lettura non vuol dire solo accelerare i movimenti oculari, ma soprattutto allenare il percorso dell’occhio riducendo i punti di fissazione e i
frequenti ritorni indietro. Evitiamo quindi di considerare in maniera troppo
statica il testo, lasciando le pupille rigide e immobili. Il photo reading (lettura fotografica) aiuta a raggiungere uno «sguardo sfumato» che non mette
a fuoco gruppi di parole ma allarga il campo visivo all’intera pagina.16
Obiettivo: introdurre i dati nella mente inconscia.
Il metodo SQ3R (survey, question, read, recite, revise) addestra a una
lettura libera e attiva: scorrere il testo, chiedersi dove sta l’essenziale, leggere globalmente, riformulare quello che si è afferrato tornando ai passaggi
chiave o a quanto è sfuggito alla comprensione.17
«Effective writing»: strategie di scrittura
Stabilire criteri di leggibilità del testo significa tutelare la comunicazione
tra chi produce e chi riceve l’informazione. L’autore dev’essere coerente,
confermando le aspettative del lettore, ma deve anche stimolare una lettura
critica ed espansiva con opportune interruzioni di schema.
Un buon testo sarà legible e readable. Nel primo caso badiamo alla leggibilità materiale (spaziatura, contrasto, font); nel secondo tocchiamo la dimensione intellettuale e psicologica (vocabolario, logica, contesto). E allora:
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adottiamo uno stile coerente con l’oggetto e l’obiettivo della comunicazione (informare, descrivere, convincere ecc.);
curiamo l’inizio e la fine di una pagina e le prime e ultime righe di un paragrafo: è qui che va e torna l’attenzione del lettore;
costruiamo periodi brevi, con colonne di testo strette e spazi bianchi tra i
paragrafi;
movimentiamo il testo: meglio il grassetto del tutto maiuscolo per le parole chiave, attenzione al corsivo (poco leggibile), no alla sottolineatura
perché si confonde con i link;
privilegiamo titoli e sottotitoli per ricreare in poche righe l’intero messaggio e offrire un supporto all’interpretazione;
usiamo i punti elenco: razionalizzano l’esposizione ed esplicitano i rapporti gerarchici, di priorità o di comunanza tra gli elementi;
giochiamo con le «parole grilletto», termini molto visibili e ripetuti, che
balzano fuori dalla pagina;18
rendiamo le note un’espansione del testo, in cui offrire al lettore idee e
suggerimenti;
usiamo riquadri ed evidenziature: nella seconda lettura, risparmieremo al
lettore tempo ed energie;
potenziamo anche graficamente le conclusioni;
facciamo ampio uso di esempi e similitudini;
citiamo testimonianze che facciano sentire partecipe chi legge.
Punteggiare con cura
Il punto, soprattutto il punto a capo, impone pause salutari agli occhi e ai
pensieri. Una frase, breve e tra due punti, acquista spessore. Parentesi e trattini ci aiutano a delimitare incisi, citazioni, riflessioni, appelli al lettore. Se invece usiamo troppe virgole, fermiamoci a riflettere: periodi lunghi? Subordinate insidiose?
I due punti «promettono, aprono, annunciano, spiegano, risolvono, creano aspettative e attese, contribuendo non poco a quella scrittura breve, interattiva, ariosa e leggera che il web richiede».19
Ben dosato, il punto interrogativo stuzzica la curiosità del navigatore, lo
rassicura con domande retoriche, scandisce le fasi cruciali e introduce i
cambi di scena.
Infine, i segni meno convenzionali, che in internet funzionano alla grande. Non solo emoticon :-) ma anche freccine >>> barrette | | | e grappoli di
due punti .: :: :.
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In principio, c’è il nome
URLability è un neologismo che sta per «usabilità» degli URL, gli indirizzi dei siti.
Un sito ben progettato avrà un nome di dominio breve, coerente con quel
che contiene, facile da digitare e da ricordare.
Il nome di un sito può anche funzionare da richiamo per l’attenzione del
navigatore.
Autoironici quelli tutti femminili di www.wow-womenonwork.it, organizzazione non profit specializzata nella comunicazione multimediale, e di
www.dols.it, non certo bamboline, ma esperte delle nuove tecnologie.
Giocati sull’ambiguità fonetica froogle.google.com (froo·gle > fru’gal),
variante del famoso motore di ricerca per lo shopping frugale, e www.oogo.com, sito del designer Ugo Guidolin che per parlare con il computer si è
ribattezzato Oogo Gweedawlean.
Provocatori www.dammela.it e www.abbordescion.it. Rétro www.
cuboliquido.com e www.chiediallapolvere.it, un tesoro per i nostalgici dell’oggettistica anni Cinquanta.
Contestualizzazione
Nella giungla mediatica attuale non è tanto preziosa l’informazione in sé
quanto la maniera in cui è presentata, commentata, integrata.
Progettiamo allora pagine «autoconsistenti», sia per contenuti (terminologia standard ed esplicita, argomenti conclusi) sia per funzionalità (posizione rispetto alla globalità del sito, presenza dei link principali).
Badiamo a elementi semplici ma non scontati, come il testo di benvenuto
in home page, la data dell’ultimo aggiornamento, il copyright. Prevediamo sezioni esplicative («Chi siamo», «Cosa trovi in questo sito») e usiamo le mappe
di navigazione per tracciare il processo di conoscenza del nostro lettore.
Metadata ben scritti favoriscono insieme l’autore e il lettore, il proprietario del sito e il potenziale cliente: scegliere quelli giusti richiede abilità, tenacia e conoscenza dei comportamenti del navigatore.20 La dimestichezza
con i modelli neurolinguistici, poi, aiuta molto.
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Last Minute su Yahoo! Viaggi, vacanze e voli last minute: viaggiare bene,
spendere poco!
Ryanair.com. La compagnia aerea a basso costo. 50% meno cara di easyJet.
Conto Arancio al 2,70%. Zero spese, zero importo minimo. Aprilo ora, ti
bastano 5 minuti!
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ANTIJUVE. Il sito per chi ama il calcio e odia la Juventus.
NIKEFOOTBALL. Chatta con i campioni, sfida un amico e vinci, scopri il
meglio dell’abbigliamento sportivo.
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EYE-TRACKING: PENSARE CON GLI OCCHI
Intervista a Leandro Agrò
di Silvia Frattini
Eye-tracking è l’analisi dei movimenti oculari durante la lettura. Fornisce informazioni preziose sui processi cognitivi dell’osservatore, su come elabora gli input visivi e li deposita nella memoria. Offre più che un’ipotesi su come il lettore «pensa»
con gli occhi.
Interaction designer, esperto di eye-tracking e di usability, dal 1997 Leandro
Agrò ha creato e gestito aree di design e innovazione in aziende legate a internet
e alle nuove tecnologie. È oggi impegnato nella progettazione di nuove interfacce
uomo-macchina. Il suo sito è www.leeander.com
Come viene condotto uno studio di impatto visivo?
Prima di tutto definiamo cosa si intende testare e quali sono gli obiettivi del committente. Otteniamo così una prima lista dei «compiti di osservazione». Poi componiamo il gruppo di utenti campione. Durante la misurazione possiamo raccogliere
da 30 a 100 campioni al secondo della posizione dell’occhio dell’utente, discernere il movimento di saccade (quello con cui gli occhi spostano la fòvea, punto della
retina ad altissima sensibilità, verso una nuova regione dell’immagine) dalle fissazioni (le «soste» dello sguardo su una particolare regione dell’immagine), e calcolare la durata di ogni singola fissazione. Possiamo far rivedere allo sperimentatore
l’intero filmato dei movimenti oculari del soggetto (ralenti, step-by-step ecc.) e
rappresentare con grafici la distribuzione dell’attenzione.
Tutto questo senza caschi, sperimentatori in camice bianco o gente nascosta
dietro gli specchi! Gli eye-tracker più moderni sono molto simili a un normale
monitor LCD.
In che cosa l’eye-tracking aiuta chi produce e struttura l’informazione?
Possiamo sapere se il «modello mentale» di un sito è efficace e come l’utente
esplora il rapporto funzione-comando. Possiamo testare se la grafica crea disturbi o facilita l’accesso alle diverse funzionalità. Possiamo soffermarci sulla singola
etichetta (label ) e scoprire se gli utenti hanno difficoltà a riconoscerla e a comprenderla. Possiamo individuare gli elementi della formattazione che rallentano
la lettura, le parole o le frasi su cui l’utente ha avuto maggiori difficoltà.
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Lo studio dei movimenti oculari può aiutare anche la comprensione
e la memorizzazione dei messaggi?
Sì. Sapendo quali parole l’occhio ha fissato e quali no, possiamo determinare le
parti del messaggio effettivamente viste ed elaborate. Il numero di ri-fissazioni
sulla stessa parola fornisce poi un «indice di comprensione»: fissiamo più volte
solo le parole che ci appaiono complesse. L’eye-tracking è usato anche negli studi sulla dislessia e nel recupero della maculopatia degenerativa, patologia che riduce la capacità di lettura degli anziani.
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Case study: tre siti «neurolinguistici»
di Alessio Albano, Monia Brizi,
Sabina Del Monego, Remigio Guadagnini,
Marco Lucchetta, Ezio Maisto, Florio Panaiotti,
Simone Ramaccini e Roberto Sanna
Analizziamo ora tre siti, di argomenti molto diversi tra loro, dal punto di vista dei modelli neurolinguistici impiegati.
Junior
Indirizzo internet—http://www.junior.rai.it
Di cosa parla—Cartoni animati, vignette, personaggi e giochi per far divertire i bambini (è creato da RAI Webfarm).
A chi si rivolge—Ai ragazzini che hanno bisogno di continui stimoli sensoriali. E che vogliono scoprire e scegliere fra tante proposte.
Sistemi rappresentazionali
In home page visivo e cenestesico, nelle pagine interne anche auditivo.
Visivo:
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oltre 30 immagini cliccabili in home page;
colori stile fumetto, piatti e vividi;
libertà di scegliere il colore dello sfondo.
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Cenestesico:
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le label: gioca-colora-costruisci-scrivici-partecipa-combina;
le immagini: come la leva per l’esplosione TNT o il razzo;
l’accesso a «Junior nello spazio» è la plancia di comando di un’astronave;
una fila di macchinine strombazzanti domina in «Junior strade sicure».
Modelli linguistici
Prevale il Milton model per indurre comportamenti e sensazioni.
Generalizzazioni e ambiguità nelle label:
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Comunicare è bello.
No al fumo.
Giochi di segni.
Carta d’inventità.
Truismi che utilizzano il tempo per indurre la scelta:
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Benvenuti! Prima che il formichiere risucchi tutti i nostri giochi, sceglietene
uno, e poi un altro e poi ancora un altro…
Pause per accrescere le aspettative:
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Stampa, costruisci e…
Doppi legami di causa/effetto (doppi ordini):
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Clicca sulla leva e fai esplodere tutto, scoprirai il fantastico sottosuolo di
Junior!
Entra in cucina e scopri cosa c’è in tavola.
Combatti il fumo: entra nel sito.
Presupposizioni:
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Tutti pronti, ragazzi? Bene, ascoltate…
Anche tu non fumi? Oppure fumi e vuoi smettere? Non sei da solo!
Indice referenziale generico o non specificato:
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Pronti a partire alla scoperta dello spazio.
Hey, è qui che sono nascosti i tesori di Junior.
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Metamodello a piene mani nelle sezioni didattiche come «Il Parlamento
parla ai bambini»:
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Maria Burani Procaccini è una signora (però siccome è un deputato si chiama «onorevole») che ha voluto far scrivere e disegnare un libriccino per far
capire ai bambini quanto sia importante la comunicazione.
È interessante perché
È ben fatto sia dal punto di vista dell’intrattenimento sia della didattica.
Unisce con armonia immagini, suoni, effetti speciali, cose serie ecc.
Bambini di Satana
Indirizzo internet—http://www.bambinidisatana.com
Di cosa parla—Della filosofia e del credo della setta Bambini di Satana.
A chi si rivolge—A chi vuole conoscere i valori e l’ideologia di questa setta tanto controversa.
Sistemi rappresentazionali
Prevale il visivo: immagini come sfondo alle pagine (soprattutto la stella,
simbolo satanico), predominanza del nero, gallerie di immagini del fondatore della setta, contributi video.
Visivo (visionario), cenestesico e auditivo nel linguaggio:
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Siamo qua per riaccendere la scintilla divina.
Una passione che scuote i sentimenti, traversa le carni, spinge a non strisciare davanti…
È la sola voce che inciti a adorare nessuno.
Il nostro universo deve danzare al ritmo della nostra musica.
Modelli linguistici
Marco Dimitri, fondatore del gruppo, presenta la propria filosofia usando
il linguaggio della generalità. Un esempio:
■
Essere se stessi sempre e ovunque.
Usa suggerimenti nascosti con nominalizzazioni:
■
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Sognate grandi maghi, rendete meravigliosa la vostra vita!
Quello che cercate in realtà non è una vita nuova, è solamente arte.
Operatori modali:
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Bisogna avere la volontà di essere noi stessi la divinità.
La volontà del mago deve essere un impulso.
Performativa persa:
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È essenziale passare attraverso queste due fasi…
Ciò che manca è il rispetto dell’individualità.
Generalizzazioni:
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Il fatto scomodo è che tutti credono alle brave persone.
Tutto quello che è partorito dalla mente umana è diabolico.
È interessante perché
È un buon esempio di applicazione del linguaggio ipnotico.
Nuova Accademia di Belle Arti
Indirizzo internet—http://www.naba.it
Di cosa parla—Dell’offerta didattica della Nuova Accademia di Belle Arti
(NABA) di Milano, dei lavori realizzati dagli studenti, delle attività culturali e di ricerca che ruotano attorno a un luogo di innovazione.
A chi si rivolge—A studenti che vogliano sperimentare uno spirito didattico innovativo. Alle aziende che vogliano conoscere nuovi talenti.
Sistemi rappresentazionali
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Visivo—L’interfaccia realizzata in Flash è in continuo movimento e trasmette vitalità, creatività, energia.
Auditivo—In home page un effetto sonoro evidenzia la scelta del primo
menu. Poi si trovano animazioni con l’audio.
Cenestesico—La «Art Gallery» è fluttuante e reagisce ai movimenti del
mouse. Ogni sezione è una cartellina che aspetta di essere aperta per mostrare il contenuto, a sua volta «manipolabile».
Nei testi prevale l’attenzione per visivi e cenestesici:
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vertiginosa accelerazione
elaborare punti di vista
delimitare i confini
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abilità manuale
rapidità e flessibilità d’uso del calcolatore
contatto diretto e personalizzato con i docenti
Modelli linguistici
Predomina il Milton model, a sostegno dello slogan «We are different».
Metafore per definire il media design:
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Umanesimo tecnologico.
Technè poetica.
Generalizzazioni per rafforzare i concetti:
■
■
L’approccio della comunicazione è globale.
In un’epoca di ipercomunicazione, è indispensabile destreggiarsi tra le insidie e le lusinghe della massificazione digitale.
Performativa persa:
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■
Lo sviluppo e la diffusione dei media elettronici ha prodotto nuovi modelli
culturali.
Oggi siamo On the Edge.
È interessante perché
È una vetrina interattiva. I ganci sensoriali sono un punto di forza perché
evidenziano l’orientamento multidisciplinare e di ricerca dell’Accademia.
La vaghezza linguistica apre squarci evocativi sul mondo della comunicazione e dell’arte, a vantaggio dell’immagine della NABA come centro di ricerca e di intuizioni.
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BUONA LOMBARDIA:
PAROLE DA VEDERE, DA ASCOLTARE, DA GUSTARE
di Rosella Gaudiuso
«E se fosse tutto più gustoso?» È una delle domande che accoglie in home page il
visitatore di Buona Lombardia, seducendolo subito con un linguaggio evocativo e
sensoriale.
Nato da un progetto congiunto di Unioncamere Lombardia e della Regione Lombardia - Direzione Generale Agricoltura, www.buonalombardia.it si occupa di
enogastronomia e di educazione alimentare.
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È un sito istituzionale che, lontano da formalismi, norme e gerghi di settore, emana il profumo, il colore e i sapori della terra che rappresenta.
Rivolto a ragazzi, insegnanti, genitori e amanti della buona cucina, il sito si articola in tre sezioni: Itinerari tematici, Enogastronomia lombarda, Educazione alimentare. Il linguaggio è semplice e diretto, la struttura lineare e di facile navigabilità, la grafica colorata e invitante.
Il sito vuole comunicare in modo coinvolgente l’identità di una terra più nota per
l’industria e il terziario avanzato, che per la tradizione contadina. Vuole educare i
più giovani verso sane abitudini alimentari, e indurre a stili di vita e di consumo
rispettosi dell’ambiente.
Quando si parla di educazione alimentare spesso la nostra mente vola a regimi
restrittivi: salute e benessere, ma a costo di enormi sacrifici. Non è così. Il cibo ha
una profonda valenza psicologica, emotiva e culturale, specie quando svela antiche tradizioni territoriali. Gli alimenti danno energia e allo stesso tempo ci coccolano, richiamando in un solo gesto la vista, il gusto, l’olfatto, il tatto e anche
l’udito.
I ricordi più saldi nella memoria di ognuno di noi sono legati alle giornate di festa
e ai profumi, agli odori, ai rumori di una cucina animata da mani sapienti e premurose.
Le parole danno forma a ciò che è descritto e permettono davvero di vivere un’esperienza multisensoriale, in particolare nelle schede dei prodotti tradizionali:
«gusti dolci e delicati, dall’intenso profumo di muschio e fungo» accanto a «sapori più amari, di cioccolato e mosto d’uva dal delicato sentore di viola».
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Note
1
CARLINI, FRANCO, Divergenze digitali. Conflitti, soggetti e tecnologie della Terza Internet,
Manifestolibri, Roma 2002, p. 44.
2
CALVINO, ITALO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, p. 116.
3
Dal sito http://www.sovvenire.it
4
Dal sito http://www.daimlerchrysler.it
5
Dal sito http://www.dugan.it
6
Dal sito http://www.junior.rai.it
7
Dal sito http://www.bambinidisatana.com
8
Dal sito http://www.mynutella.it
179
9
HICKMAN, DIXIE ELISE - JACOBSON, SID, The Power Process. An NLP Approach To Writing,
Crown House, Williston (VT) 1997, p. 147.
10
Sito del dj Alessio Bertallot.
11
http://www.internettg.org/newsletter/dec98/banner_blindness.html
12
http://www.poynterextra.org/et/i.htm
13
MCGOVERN, GERRY, «How to Design for the Tunnel Reader», New Thinking, marzo 2004,
http://www.gerrymcgovern.com/nt/2004/nt_2004_03_15_tunnel.htm
14
Termine coniato nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole che indica la capacità o la
fortuna di fare inattese e felici scoperte, mentre si sta cercando altro.
15
Graziella Tonfoni analizza dinamiche e approcci alla lettura in La lettura strategica. Per
leggere di più e meglio, Calderini, Bologna 2000.
16
SCHEELE, PAUL R., PhotoReading. Lettura fotografica, Roberti, Bergamo 2002.
17
http://www.ucc.vt.edu/lynch/TextbookReading.htm
18
SCHEELE, op. cit., p. 43.
19
Nel suo sito Mestiere di scrivere, Luisa Carrada parla di «punteggiatura nella rete»:
http://www.mestierediscrivere.com/testi/punteggiatura.htm
20
I «metadata» sono i microcontent nascosti nel codice HTML: title, keyword e description.
180
Je t’aime
Le lettere d’amore
di Mariella Minna
NULLA più di una lettera d’amore rimanda all’amore romantico che, in opposizione a quello coniugale, nasce e si alimenta proprio nella distanza e
nell’impossibilità di essere vissuto. Perché scrivere una lettera d’amore, infatti, se l’amato è a portata di mano? Piuttosto una telefonata, per fissare un
appuntamento o scambiare due parole. La lettera, anche quando diventa email, è sempre la spia di un ostacolo alla vita in comune. E l’ostacolo alla
passione può diventare l’oggetto della passione stessa.
L’ostacolo di cui spesso abbiamo parlato, e la creazione dell’ostacolo della passione
da parte dei due eroi (che qui confonde i suoi effetti con quelli dell’esigenza romanzesca e dell’attesa del lettore) è soltanto un pretesto, necessario al procedere della
passione, o non è invece legato alla passione in un modo molto più profondo? Non
è, per chi scruti il mito in tutta la sua profondità, l’oggetto stesso della passione?1
La passione d’amore è un incendio che si alimenta nell’assenza, nell’incomunicabilità, nel distacco, nell’abbandono, nel tradimento. La passione ci sovrasta, ci trascina in un baratro che può comportare l’annullamento del sé.
Che l’accordo d’amore e di morte sia quello che risveglia in noi le risonanze più
profonde, è una verità che sancisce a prima vista il prodigioso successo del romanzo. […] L’amore felice non ha storia. Romanzi ne ha dati solo l’amore mortale, cioè
l’amore minacciato e condannato dalla vita stessa. Ciò che esalta il lirismo occidentale non è il piacere dei sensi, né la pace feconda della coppia. È meno l’amare soddisfatto che la passione d’amore. E passione significa sofferenza. Ecco il fatto fondamentale.2
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Non cadiamo nella trappola dell’autore, secondo cui il mito di Tristano o
dell’amore romantico avrebbe messo in scacco solo l’Occidente, e volgiamo lo sguardo a lidi più estremi.
Vi è posto per l’amore in questo mondo? Ahimè, no! […] Questo patetico pessimismo sembra riecheggiare, da lontano, la leggenda di Tristano e Isotta. Vivere il proprio amore significa chiedere troppo, ma a una vita senza amore è meglio rinunziare.
Un cuore sensibile giunge presto a questa conclusione, e bisogna essere davvero severi per biasimarlo per questo: non si può che tacere e compiangerlo.3
Nella tradizione giapponese l’amore non è compiutamente esprimibile
con le parole. Un brano dello Hagakure, il manuale del samurai, recita:
l’amore supremo è, secondo me, l’amore segreto. Una volta esternato e condiviso,
l’amore sminuisce. Languire tutta la vita per amore, e morire d’amore senza mai invocare il nome dell’amato, o dell’amata, ecco qual è il vero significato dell’amore.4
Se le parole non esprimono adeguatamente il sentimento d’amore, l’estremo gesto del suicidio per amore ne è invece la prova inconfutabile.
Il termine che, a partire dal XVII secolo, designa il suicidio amoroso, shinju, significa
inizialmente il fondo del cuore, e proprio perché il pegno che garantisce la verità di
un sentimento che il linguaggio non può cogliere, la prova in atto dell’amore: se occorre, sino alla morte. Ciò che si crede di provare verrà testimoniato, anche se volere
la verità deve significare scomparire.5
All’inizio di una storia d’amore, gli amanti riamati hanno la sensazione
che l’oggetto d’amore sia la causa degli stati emotivi così intensi e poco ordinari che trasformano la loro vita, percepita fino a quel momento come
monotona e priva di senso. Il rapporto di causa/effetto trapela con efficacia
nelle parole di Henry Miller alla sua Anaïs:
Anaïs, sei diventata una parte così vitale di me, che sono completamente sottosopra,
posto che questo significhi qualcosa. Non so che cosa scrivo – so solo che ti amo,
che ti devo avere esclusivamente, furiosamente, possessivamente. Non so che cosa
voglio. Continuo a chiederti cose sempre più difficili. Mi aspetto che tu compia miracoli. Non sai quanto mi mancano le notti che abbiamo trascorso assieme e quanto
hanno significato per me. Altre volte sei solo un fantasma, uno spettro. Vieni e mi fai
ammalare di desiderio, brama di possederti, di averti sempre vicina, a parlarmi con
naturalezza, a muoverti come se tu fossi una parte di me.6
Di rimando:
182
Oh, Henry, non so cosa mi stia succedendo. Sono così piena di esultanza. Sono quasi folle, lavoro, ti amo, scrivo, penso a te, suono i tuoi dischi, danzo per la stanza
quando ho gli occhi stanchi. Mi hai dato gioie tali che non mi importa quello che accadrà adesso – sono pronta a morire, e pronta ad amarti per tutta la vita!7
Durante il primo anno della loro conoscenza, Henry Miller spedì ad
Anaïs Nin oltre novecento pagine. Nei primi anni della loro frequentazione,
la media rimase invariata. Il rapporto tra i due scrittori, che si erano incontrati a fine 1931, attraversò nel tempo diverse fasi: l’amicizia intellettuale, la
passione degli amanti, l’affettuoso legame che li tenne legati fino alla morte.
Le lettere, intrise di arte e letteratura, non sono scevre dei tratti sensuali
ed erotici che contraddistinsero le loro personalità:
Sì, Anaïs, pensavo come fare a tradirti, ma non ci riesco. Voglio te. Voglio spogliarti,
involgarirti un tantino, ah, non so quel che dico. Sono ubriaco perché tu non sei qui.
Vorrei battere le mani e, voilà, ecco Anaïs! Voglio possederti, usarti. Voglio chiavarti,
voglio insegnarti cose. No, non ti apprezzo, Dio me ne guardi! Forse voglio umiliarti
un tantino – ma perché, perché? Perché non mi getto in ginocchio e non mi limito ad
adorarti? Non posso. Ti amo in allegria.8
Le parole d’amore possono trasformarsi in accuse aspre e crudeli, che
sembrano non lasciare spazio ad alcuna replica:
Henry,
quando June ha detto che tu sei assolutamente egoista, mai l’ho creduto. Ma oggi mi
hai profondamente turbata. Ho sempre saputo che tu mi hai amato e mi ami soltanto
per ciò che ho potuto darti, ed ero disposta a comprenderlo e ad accettarlo perché
sei un artista, cosa questa che ti giustificava a sufficienza. […] Dopo che quel lunedì
mi hai lasciata e Hugh è tornato, mi sono resa conto che non ti importava un fico
secco di quello che era accaduto. Hai fatto in modo di dimenticarlo subito. Mi hai
scritto: mi sento molto spensierato. Come dire: non me ne importa niente.9
Gli amanti hanno l’impressione di poter modificare lo stato emotivo
l’uno dell’altro, di potere evocare – con un gesto o una metafora – una sensazione o un’emozione:
Perché tanta distanza tra noi? Perché non siamo sintonizzati? Perché affermi di non
capire quello che scrivo? E soprattutto, perché ti sforzi di scrivermi? Lettere forzate
del genere non mi rendono felice. Non sono una donna alla quale dovresti sforzarti
di scrivere. Preferirei che te ne stessi a dormire. Sei irritato con tutto, irritato con te
stesso per mancanza di sonno. Io ti sto preparando un barile pieno di gioia, di ebbrezza per te, di pittura turchese. Te lo verserò addosso lunedì sera.10
183
L’amante presuppone di saper leggere nel pensiero dell’amato:
I miei non sono dubbi – è un’intuizione. Credo che tu abbia parlato di affrancamento da Hugo semplicemente perché hai frainteso le ragioni della mia tristezza. Credo
che tu abbia superato il bisogno di me da ogni punto di vista, che tu possa vivere solo – e credo che sia accaduto quando sei partito per la Grecia. Da solo eri contento
e completo. È il tuo nuovo ciclo. […] Il tuo ritorno a New York dopo tanta tua resistenza non potrà avere per me alcun significato. Tu permetti a due cose di minor
conto – il libro, tua madre – di frapporsi al tuo ritorno a me.
Se fossi ricorsa io a pretesti del genere per non raggiungerti, anche tu saresti stato
facilmente persuaso che è giunto il momento di lasciarci.11
Un altro epistolario d’amore, questa volta fittizio, diventa lo spunto di un
gioco intellettuale nel raffinato romanzo Possessione di Antonia S. Byatt.
Un giovane studioso di letteratura, Roland Michell, ritrova inaspettatamente
due lettere scritte da un celebre poeta vittoriano, Randolph Henry Ash, a
una donna. L’incipit della prima è:
Gentile signora,
dal momento della nostra straordinaria conversazione, non ho pensato a null’altro.
Non mi è stato dato di frequente come poeta, né è forse dato di frequente a esseri
umani, di incontrare un’affinità così immediata unita a un’intelligenza tanto arguta.
Scrivo col senso dell’impellente necessità di continuare la nostra conversazione, e
d’impulso, per domandarvi se mi sia lecito farvi visita, magari un giorno della settimana prossima. Io sento, so con una certezza che non può essere frutto di follia o illusione, che voi e io dobbiamo parlare ancora.12
Sulla scia dell’entusiasmo indotto dalla scoperta degli inediti, Roland
coinvolge nella ricerca una giovane collega, Maud Bailey. Il romanzo si dipana come un thriller, sulle tracce di un indizio che riveli l’identità della
donna e i dettagli della relazione amorosa. In un gioco di specchi, i due giovani finiranno per ripercorrere i luoghi del cuore e i passaggi emotivi e affettivi dell’antica coppia. L’identificazione è totale, il ricalco di coppia perfetto. La Byatt dà prova di grande maestria nel riprodurre gli stili letterari
più diversi, assumendo la voce dei vari protagonisti, e poco importa al lettore che tutto sia frutto di fantasia.
Se le parole d’amore comunicano la profondità di un sentimento, intendono sedurre e conquistare, promettono fedeltà eterna e conducono al limite
della follia, è anche vero che possono guarire. Un amore che sarebbe dovuto rimanere platonico, e che si trasformò invece in una passione sconvolgente fu quello che nacque fra il giovane Karl Gustav Jung e Sabine Spielrein,
protagonisti del film di Roberto Faenza Prendimi l’anima.
184
Sabine Spielrein nacque a Rostov sul Don nel 1885, figlia primogenita di genitori
ebrei intelligenti, colti e benestanti; il nonno e il bisnonno erano stati rabbini profondamente rispettati. Durante l’adolescenza la Spielrein soffrì di un disturbo considerato da alcuni di tipo schizofrenico, da altri come una grave forma di isteria con tratti
schizoidi. Nell’agosto del 1904, i genitori, seriamente preoccupati, la condussero a
Zurigo, perché venisse curata al Burghölzli, ospedale psichiatrico di fama internazionale. Jung lavorava presso questo ospedale sin dal 1900 ed era diventato aiuto nel
1905. La Spielrein fu probabilmente la prima o almeno tra i primissimi pazienti che
Jung tentò di curare con la tecnica psicoanalitica.13
Al suo arrivo in ospedale, Sabine è poco più che un animaletto bizzoso. È
brutta e sporca, piena di tic, si accuccia per terra, straparla, si masturba ossessivamente, ha esplosioni di rabbia incontenibili in cui pronuncia parole che
male si addicono alla sua età e al suo aspetto candido. Il giovane Jung, forse
la prima persona in grado di darle amore, si dedica a lei totalmente, restituendole dignità. Grazie alla terapia psicoanalitica, fatta essenzialmente di parole,
Sabine rinasce a nuova vita. I progressi hanno un che di miracoloso: nel 1905
si iscrive all’Università di Zurigo e si laurea nel 1911 con una tesi sulla schizofrenia, diventa analista, partecipa ai simposi insieme ai colleghi, e il suo
contributo alla nascente psicoanalisi è universalmente riconosciuto.
Ma c’è un ma, che il film di Faenza bene evidenzia, gettando luce sul
tabù del corpo e sui rischi del transfert e del controtransfert nella cura psicoanalitica. Jung divenne l’amante di Sabine quando era ancora il suo analista, cosa che rischiò di far deragliare la sua comoda vita borghese al fianco
della moglie, di mettere a repentaglio la sua immagine pubblica, oltre che di
interrompere bruscamente il rapporto già incrinato con il maestro Freud.
Jung deciderà, suo malgrado, di porre fine alla relazione. Sabine si sposerà e avrà dei figli, in Russia fonderà e dirigerà per molti anni l’Asilo bianco, un istituto sperimentale per bambini. E continuerà a scrivere a Jung fino
alla morte, avvenuta per mano dei nazisti nel 1942.
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SCRIVIMI, AMORE!
Intervista a Marina Modiano, autrice del sito www.scrivimiamore.it
di Mariella Minna
Oggi si scrive ancora d’amore?
Certo che si scrive d’amore, almeno scrivono d’amore le mille e più persone che
ogni giorno vengono a cercare parole d’amore nel mio sito. Cercano parole che
possano esprimere sentimenti di cui forse non sanno più parlare, cercano parole
185
per entrare nel cuore della persona amata. Si scrive per essere ascoltati. Si scrive
perché chi leggerà quella lettera sarà da solo con quelle parole, senza distrazioni,
e potrà finalmente sentirle.
Quali sono i tratti più comuni nelle lettere che ricevi e pubblichi?
Lettere per riconquistare l’amore perduto, lettere di ricordi, di abbandono o per
dichiarare il proprio d’amore. Arrivano molte lettere tristi, piene di rimpianti e di
lacrime. Forse quando si è felici non si ha tempo di scrivere? Ma ci sono anche molte lettere d’amore puro, angelico, quasi una beatificazione della persona amata.
Hai riscontrato differenze se è una donna o un uomo a scrivere?
In genere le donne sono più rancorose e più «scrutatrici di anime». Vogliono sapere il perché di un abbandono, vogliono andare a fondo. Le parole delle donne
sono spesso grida d’amore. Gli uomini sono più rassegnati in caso di abbandono,
usano la parola scritta per ricordare un amore, sono magari malinconici, ma meno lamentosi. Per la maggior parte scrivono lettere solo per confermare il loro
amore e non per chiederne di più.
C’è uno stile giusto della lettera d’amore?
Una lettera può essere scritta bene o male, può essere emozionante o no, ma non
credo che ciò dipenda dall’impiego di un determinato stile. Non penso che si possa stabilire uno stile giusto per scrivere d’amore. Lo stile dipende dal carattere di
ognuno, dalla sensibilità, dalla situazione. E non è solo questione di cultura: lettere scritte in modo molto semplice possono essere molto intense e appassionate.
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Note
ROUGEMONT, DENIS DE, L’amore e l’Occidente, Rizzoli, Milano 2001, p. 87.
Ibidem, p. 59.
3
PINGUET, MAURICE, La morte volontaria in Giappone, Garzanti, Milano 1985, p. 209.
4
MISHIMA, YUKIO, La via del samurai, Bompiani, Milano 1996, p. 174.
5
PINGUET, op. cit., p. 221.
6
NIN, ANAÏS - MILLER, HENRY, Storia di una passione, Bompiani, Milano 2003, p. 88.
7
Ibidem, p. 132.
8
Ibidem, p. 59.
9
Ibidem, pp. 183 e 184.
10
Ibidem, p. 215.
11
Ibidem, p. 367.
12
BYATT, ANTONIA S., Possessione. Una storia romantica, Einaudi, Torino 1994, p. 9.
13
CAROTENUTO, ALDO, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud,
Astrolabio, Roma 1999, p. 8.
1
2
186
Kinema
Neurolinguistica sul grande schermo:
il caso di «Il negoziatore»
di Francesca Gagliardi
PERCHÉ kinema, con la K? Forse perché bisognava chiudere l’alfabeto, e le
parole con la K non danno tanti spunti, al di là di karate, ketchup, knowhow ed esotismi del genere?
Via, non proprio.
Kinema, con la K, per ricordare l’origine della parola, il verbo greco kineìn, muovere, e i sostantivi kín‰ma e kín‰sis, movimento: un concetto centrale nell’arte del cinema.
Se poi pensiamo all’altra parola greca cui «cinema» fu associata, nel
neologismo francese di fine Ottocento, «cinematografo», per descrivere
l’invenzione dei fratelli Lumière, ossia gráphein, scrivere, eccoci nel tema:
la scrittura del cinema, la scrittura che crea movimento, il linguaggio che va
da un personaggio all’altro, tessendo relazioni tenere o violente, tragiche o
malinconiche. Nei casi migliori, appassionanti.
I modelli neurolinguistici, molto usati nel cinema, offrono un supporto
ad attori e sceneggiatori. Ai primi, per gli aspetti paraverbali e non verbali
del linguaggio che contribuiscono alla recitazione: tono e volume di voce,
postura, mimica facciale, gestualità. Agli altri, per la costruzione dei dialoghi: scelte lessicali e costruzione dei rapporti fra i personaggi.
Per la vastità dell’argomento, è su questo secondo aspetto che propongo
una riflessione, attraverso i dialoghi iniziali del film Il negoziatore, di F.
Gary Gray (USA, 1998). Per due ragioni: restare ancorati all’ambito della
scrittura, e, soprattutto, perché per scrivere i dialoghi del film sono stati
coinvolti alcuni investigatori del FBI, esperti di PNL nelle negoziazioni.1
187
Negoziare con Omar
Un uomo tiene in ostaggio la propria figlia: le sparerà se non arriva la
moglie. L’uomo vuole che la donna assista al suo suicidio: vuole farla finita
da quando ha scoperto che lei lo tradisce.
Entra in gioco un negoziatore, Danny. Unica arma a disposizione: la comunicazione.
Danny parla con Omar, che tiene puntato un fucile contro sua figlia, stesa a terra.
Il negoziatore cerca di costruire la relazione con Omar, il quale sa che
Danny è un poliziotto.
DANNY
Sì, amo più gli animali che le persone, qualche volta. Specie i cani. I cani sono
i migliori.
Già nella battuta d’attacco sono presenti tre ricalchi e una guida.
Primo ricalco: «Sì». Dire di sì avvicina due interlocutori.
Secondo: «Amo più gli animali che le persone». È un ricalco emozionale. Omar è furioso con la moglie e intende sparare alla figlia; evidentemente, la vita delle persone non conta molto per lui. Nella stanza c’è un cane, e
spesso chi possiede un cane si rifugia in questo affetto, in contrasto con la
disaffezione per gli esseri umani.
Terzo ricalco: «Specialmente i cani. I cani sono i migliori».
Guida: «Qualche volta». Il quantificatore sottintende che sì, qualche volta amo più gli animali, ma a volte no: amo di più gli esseri umani. Il negoziatore sta guidando verso sentimenti positivi.
DANNY
Ogni volta che apri la porta di casa, ti accolgono come se non ti vedessero da
un anno.
Ricalco sociale: riferimento a un modo di dire inglese. Gli animali sembrano molto contenti quando il padrone riappare, anche se la sua assenza è
stata breve. C’è anche un comando nascosto: apri la porta di casa, per evocare immagini di apertura.
DANNY
188
E la cosa bella dei cani è che ci sono diversi tipi di cani per diversi tipi di persone. Come… i pit bull. Il cane di tutti i cani. Il pit bull può essere il miglior
amico dell’uomo giusto, e il peggior nemico di quello sbagliato. Sì, se proprio
mi vuoi regalare un cane, regalami un pit bull, dammi… Raul, giusto Omar?
Dammi Raul.
Danny comincia questa frase con la congiunzione e. Non usa ma oppure
no. Il negoziatore deve unire, non disgiungere.
Ha letto il nome del cane in una lista di informazioni che gli hanno fornito. Così, quando il cane abbaia, sceglie di parlare del cane, che chiama per
nome, Raul. Il nome proprio è una parola magica quando è rivolto a noi o a
qualcuno che amiamo, perché evoca – in un certo senso – la sua essenza.
Attenzione a come fa: la domanda si apre ancora con «Sì» e chiude con
«Giusto Omar?». Danny cerca di indurre Omar a ridurre la resistenza. Ma
qualcosa va storto: Omar, infatti, risponde:
OMAR
Io lo odio Raul. (A Raul ) Chiudi quella boccaccia, stronzo. (A Danny) Quel
figlio di puttana non è capace di stare zitto.
Il dialogo entra in un ambito semantico negativo: l’odio. In una situazione così tesa, l’odio può far prendere alla trattativa una pessima piega. Allora
Danny compie la virata: usa la frase più bella del mondo e da lì comincia a
ribaltare la situazione:
DANNY
Io ti capisco, Omar…
È un tentativo per far cambiare stato d’animo a Omar: «io ti capisco perché è successo anche a me. Perché, in fondo, sono come te»:
DANNY
Io ti capisco, Omar: l’ho avuto un cane così. Una barboncina. Lei non abbaiava, però faceva pipì ovunque. La odiavo quella cagna. Ma se ero un po’ depresso si appoggiava sulle ginocchia, mi guardava con quei suoi begli occhioni, e anche se ero convinto di odiarla quella cagna, io le volevo bene. Funziona così, Omar: è una storia di odio-amore.
Danny opera un ricalco che prepara una guida. Costruisce il racconto, attenuando l’aggressività del pit bull con la dolcezza della barboncina, ricalca
il verbo (la odiavo) e, infine, squarcia l’orizzonte con un ma: la sua guida
verso sentimenti positivi, d’amore.
OMAR
(Urlando) Adesso basta, niente più c h i a c c h i e r e. Io non posso più aspettare.
Mi s e n t i? Io voglio mia moglie. […] Se no faccio fuori nostra figlia.
Omar si oppone alla guida. Avverte il calo di tensione, interrompe bruscamente, alza la voce e intima al negoziatore di smetterla. Tutto attraverso
il sistema rappresentazionale auditivo.
Danny riconosce il sistema di Omar, e subito lo ricalca:
189
DANNY
OMAR
(A voce alta) Omar! A s c o l t a m i.
Ho detto basta con le c h i a c c h i e r e. Portami quella puttana, o ammazzo mia
figlia.
Nella frase di Omar c’è molta violenza, amplificata dai gesti (tiene puntato un fucile su sua figlia!). A questo Danny non si oppone, anzi segue Omar e
gli risponde coerentemente:
DANNY
Omar, io faccio del mio meglio, te lo garantisco!
L’inquadratura cambia: la polizia, in collegamento radio, ritiene fallita la
trattativa; è il momento di entrare. Frost, il poliziotto che coordina l’operazione, dà l’OK ai colleghi pronti per l’irruzione. Ma Danny rifiuta e rilancia: entra lui. Disarmato.
FROST
DANNY
FROST
(Via radio) Unità 1 pronti a sfondare. Tutte le unità pronte all’irruzione. Lo
avete perso, entrate. […]
(A Nate, il collega che riceve il comando) ’Fanculo, allora entro io.
(A Nate) No, glielo devi impedire. I nostri sono in difficoltà se c’è lui dentro.
(A Danny) Danny, qui è Frost, non entrare.2
Danny non prende in considerazione il comando e prosegue:
DANNY
NATE
DANNY
NATE
DANNY
NATE
DANNY
TUTTI
(A Nate) Omar era nei marines, vero?
Sì.
È possibile colpirlo?
In camera da letto, ma lui è lontano.
Ci si troverà. Che Igor e Palermo inquadrino quella finestra, aspettino il mio
segnale e poi stendano quel figlio di puttana.
Igor, Palermo! In posizione.
Helman, Allen, Argento: quando io entro, seguitemi e prendete la bambina.
OK, va bene.
Danny dimostra la sua motivazione, collegando perfettamente parola, tono di voce e messaggio non verbale, e trasferisce la sua sicurezza agli altri:
è lui che dirige la situazione. Disobbedisce e impartisce ordini. I colleghi ne
percepiscono il carisma.
DANNY
Ehi, Omar! Mi dicono che tua moglie è qui!
«Mi dicono» è una citazione, tecnica tipica del Milton model. Come dire: io tua moglie non l’ho vista, ma mi hanno detto che è qui. Se poi non è
vero, non è colpa mia: io sono fra te e loro, imparziale.
190
DANNY
Sono stato autorizzato a effettuare lo scambio. Però devo entrare, g u a r d a r e in
giro, assicurarmi che non ci siano altri ostaggi e nessuna trappola. D’accordo?
Danny usa correttamente il però: introduce una condizione e il sistema
rappresentazionale cambia da auditivo a visivo. Omar risponde in accordo:
OMAR
’Fanculo. La voglio v e d e r e, prima.
Quando Omar accetta la condizione e apre la porta, il regista effettua un
primo piano del negoziatore. Ecco cosa vediamo:
Omar
❍
❍
❍
bianco caucasico
è armato: imbraccia un fucile
è vestito in modo trasandato,
spettinato e scomposto
Danny
❍
❍
❍
nero
è disarmato e con le braccia alzate
indossa un giubbino antiproiettile
del corpo di polizia. Ha il volto
curato e pulito; la pelle liscia
Ci sono differenze di ogni genere, ma il messaggio paraverbale di Danny
è di cordialità: nonostante Danny sappia che la moglie non c’è e che appena
potrà farà colpire Omar, lo guarda con un sorriso del tipo «Ehi-è-da-unanno-che-non-ci-vediamo!».
Appena entrato, Danny si guarda intorno, alla ricerca di qualche elemento da ricalcare. In rassegna, il regista ci mostra il cane (l’ha già usato prima),
la casa (una schifezza, soprassedere), la bambina (piena di lividi, meglio lasciar stare). Danny, allora, parla:
DANNY
Fuori c’è il sole.
Ricalco situazionale. Danny usa questa frase così banalmente vera, per
ridurre la resistenza. Applicando un principio della tecnica ipnotica di
Milton H. Erickson, il negoziatore cerca di entrare in accordo con Omar su
almeno un argomento: se le sue barriere si allenteranno, l’uomo si sposterà
verso la finestra e sarà colpito.
DANNY
È una bella giornata per fare due passi. Non fa freddo, c’è un’aria frizzante…
peccato che siamo incastrati qui, eh?
Ma Omar vuole chiudere e, coerente con l’azione di Danny, dice:
OMAR
Hai v i s t o tutto, non ci sono trappole qui da me, su, muoviti.
191
DANNY
Devo v e d e r e anche in quella stanza in fondo, Omar: ci potrebbe essere
qualcuno lì dentro.
Ricalco. Danny non dice: «No, non ho finito», «Sbagliato, mi manca
quella stanza là…».
Passando davanti alla TV accesa nota la partita di football, e fa un altro
ricalco situazionale:
DANNY
Partita, eh? È perfetta la giornata.
Certo, viene da aggiungere: ho solo un pazzo che mi punta un fucile alla testa!
DANNY
OMAR
DANNY
Non mi sono perso una partita dei Bears da quando ho lasciato i marines. Al
corpo è sempre stata una squadra vincente, no?
Ah, sì? Tu c’eri?
Sì, ho fatto una ferma di un anno nel ’73.
Con il football e i marines, Danny aggancia Omar, che infatti evoca un
contesto comune:
OMAR
DANNY
Andavamo forte, porca puttana. Io ne ho fatte due: ’68 e ’69.
Ah, ah, allora un urrà per i marines, Omar. Urrà!
Danny ricalca l’orgoglio di marine. E Omar afferma sprezzante:
OMAR
Non s’incontrano molti ex marines di questi tempi. Si arruolano tutti in marina.
Poi stacca e ritorna alla realtà del momento:
OMAR
DANNY
Visto? Qui dentro non c’è nessuno, tenente, adesso facciamo lo scambio.
No. Sta’ calmo. Te l’ho d e t t o. Devo controllare tutto.
Qui Danny non vuole ricalcare: per questo usa il no e il sistema rappresentazionale auditivo. Non vuole stimolare l’elemento visivo di Omar: potrebbe notare i tiratori o i cenni che il negoziatore fa loro. Allora comincia a
raccontare una barzelletta, per tenergli occupata la mente. E non una barzelletta qualsiasi:
DANNY
192
Omar: un marine e un marinaio stanno pisciando in una latrina. Il marine sta
per uscire senza lavarsi le mani. Il marinaio dice: «A noi altri ci insegnano a lavarci le mani». Il marine si volta e risponde: «Nei marines ci insegnano a non
pisciarci sulle mani».
Sparo.
La scena si chiude in un tripudio di comunicazione paraverbale e non
verbale.
Danny punta il fucile su Omar, che si trova per terra ferito. Le sue narici
sono dilatate, la mascella rigida: sta digrignando i denti. Nate arriva, si inginocchia. Deve evitare che Danny spari. Con la mano sinistra, cerca di prendere il fucile, ma ci ripensa: non è ancora in rapport con Danny. Con il braccio destro gli tocca la schiena, si china verso di lui, entra nel suo campo visivo e solo allora allunga la mano sul fucile per farlo abbassare.
NATE
DANNY
Tutto a posto, eh? Eh? Tutto OK?
Sì. Grazie.
Note
The FBI Law Enforcement Bulletin, agosto 2001, http://www.fbi.gov
La traduzione italiana fa qui un piccolo errore neurolinguistico, usando la negazione «non
entrare». Frost in inglese dice: «This is Frost. Stand down».
1
2
193
Letteratura
Corpo, mente e linguaggio
nel mestiere dello scrittore
di Stefania Zenato
QUALI sono i meccanismi che lo scrittore sa innescare affinché il lettore resti
incollato alla pagina e il libro diventi un bestseller? Quale parte hanno le
scelte linguistiche nella seduzione narrativa?
L’obiettivo dello scrittore è creare un percorso che il lettore abbia piacere di seguire per ampliare la propria conoscenza del mondo. Per far questo
egli procede in diverse direzioni, a seconda di dove si trova quella parte dell’esperienza che gli interessa fermare su carta. Possiamo individuare tre
possibili modalità di osservazione:
●
●
●
1a posizione:–lo scrittore vede e parla per quello che vede;
2a posizione:–parla per quello che può vedere il lettore;
3a posizione:–è fuori dall’interazione e osserva.
Nel caso della 2a e 3a posizione, lo scrittore si lascia sedurre da una realtà
che non gli appartiene e ne trae modi diversi di pensare, sentire, agire. La
sua abilità sta nel riprodurre con congruenza ciò che legge intorno a sé e
questo si traduce nella scelta delle parole e dei modelli linguistici appropriati all’effetto che vuole ottenere.
Chiediamoci: quali sono i personaggi cui ci leghiamo di più? Sono quelli che acquisiscono la legittimità di esseri esistenti anche se frutto di un
esercizio creativo. Sono quelli che, anche se lontani dai nostri valori, riconosciamo come veri, talvolta più di quelli reali intorno a noi.
Dov’è la differenza tra questi personaggi e quelli che scivolano nel nostro dimenticatoio di lettori? La differenza è nella capacità dello scrittore di
calarsi nel personaggio di cui ci sta parlando:
●
ragionare come il personaggio, dirsi le cose che si direbbe lui;
195
●
●
acquisire i suoi aspetti non verbali: postura, gestualità, modo di osservare ecc.;
acquisire i suoi aspetti paraverbali: ritmo, tono di voce, pause.
Non solo la mente, anche il corpo dello scrittore interviene nella scrittura: Virginia Satir riproduceva la condizione della donna nell’Ottocento identificando una postura, e sosteneva che si potesse comprendere la condizione
femminile a quei tempi assumendo quella postura.1
Corpo e mente influenzano la nostra percezione della realtà e anche la
scelta delle parole con cui la rappresentiamo: lo stato in cui si mette lo scrittore influenza le sue scelte linguistiche.
L’efficacia della scrittura passa anche attraverso un’altra abilità: il modo
in cui lo scrittore coinvolge i sensi nel condurci lungo il sentiero narrativo.
Il mestiere dello scrittore è quello di entrare in contatto con ogni lettore
attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi e la capacità di scegliere gli aspetti sensoriali (colori, suoni, odori, sapori, sensazioni fisiche ecc.), trovando il
punto d’incontro tra il dire e il non dire.
Saper descrivere scenari che diano un effetto di realtà e che lascino al
lettore l’agio di poter usare la sua immaginazione.
La PNL può aiutarci a riconoscere alcuni meccanismi che intervengono
durante la lettura:
●
●
●
●
●
interruzione di schema: la lettura può modificare il flusso abituale di
pensiero e di percezione della realtà;
nuove neuroassociazioni: un modo diverso di associare i riferimenti della realtà;
accesso a stati diversi: attraverso i personaggi entriamo in nuovi modi di
leggere l’esperienza e proviamo le relative sensazioni;
percezione di submodalità diverse e generazione di nuove sensazioni;
ampliamento della «mappa mentale».
Vediamo in che modo possono agire questi meccanismi, prendendo come esempi due recenti successi letterari.
«Non ti muovere»
Nel romanzo Non ti muovere di Margaret Mazzantini, l’autrice entra in
contatto con ogni potenziale lettore, chiamando in causa tutte le dimensioni
sensoriali, grazie a vocaboli appartenenti a tutti i sistemi rappresentazionali;
è una posizione ideale per ricalcare e poi guidare il lettore nella storia.
196
Il tergicristalli è spento. Sul vetro c’è una cortina di sporcizia, un velo torbido che ci
separa dal mondo. Nella macchina c’è l’odore della macchina, dei tappetini, della
pelle dei sedili che stamattina è più tesa e scricchiola a ogni movimento, il retrogusto
del vecchio arbre magique scolorito dal sole, c’è un po’ del mio odore, del mio dopobarba, dell’impermeabile che è rimasto appeso all’ingresso tutta l’estate e che ora
è di nuovo con me, arrotolato sul sedile posteriore come un vecchio gatto. E soprattutto, dentro tutto, c’è l’odore di Italia, delle orecchie, dei capelli, dei vestiti che indossa. Oggi ha la gonna a fiori che culmina in vita con una grossa banda di elastico
nero, e un cardigan di cotone indurito. Ha una croce sul petto, una croce argentata
appesa a una catena dalle maglie sottilissime. Se la porta in bocca mentre guarda il
mondo sfuocato oltre il parabrezza che sembra così distante. Poco fa le ho chiesto se
non aveva freddo senza le calze, mi ha detto di no, che non ha mai freddo.
Ha i capelli trattenuti da un’infinità di mollette di metallo smaltate, molte delle quali
screpolate. È una piccola cafona che si veste sulle bancarelle, o in quei negozi senza
porte con le commesse intirizzite che masticano gomma americana. È il primo sabato
di ottobre, la sto portando ad abortire.2
Con le prime due frasi l’autrice si rivolge ai visivi per appannare la visione di ciò che avvolge i personaggi (cortina di sporcizia, velo torbido), poi
orienta il fuoco sulla cenestesia (odore, macchina, tappetini, pelle, sedili).
Prende elementi di esperienze verificabili e li associa, creando un percorso
senza scossoni che cala il lettore in una scena facile da riconoscere.3 Poi
parla agli auditivi (pelle dei sedili che scricchiola a ogni movimento).
Il lettore accumula le percezioni, sprofondando nella scena. L’umido
squallore filtra attraverso le sue sensazioni e solo all’ultimo arriva l’ancoraggio con l’azione (la sto portando ad abortire).
Questo è il percorso che ogni lettore compie leggendo: entra in un altro
stato di coscienza, abbandonando quello presente; possiamo dunque vedere
la scrittura come una forma di ipnosi. Poiché il termine ipnosi genera pensieri sia positivi sia negativi, cito parte della prefazione di uno dei libri più
famosi di PNL, Ipnosi e trasformazione, perché sia chiaro cosa intendo con
questo termine.
Quando John Grinder e Richard Bandler tengono congiuntamente un seminario sull’ipnosi, di solito uno di loro dice: «Tutta la comunicazione è ipnosi», mentre l’altro afferma: «Non sono d’accordo, niente è ipnosi: l’ipnosi non esiste». In un certo senso hanno
entrambi ragione, dicono entrambi la stessa cosa. Se mi metto a raccontarvi della pesca
subacquea che ho praticato durante il mio recente viaggio di nozze nello Yucatán, a
descrivervi i rapidi movimenti dei pesci tropicali dai colori vivaci, il ritmico scrosciare
della risacca, la sensazione di sollevarsi e ridiscendere insieme alle tiepide onde mentre
esploravo lo scenario subacqueo, io altero il vostro stato di coscienza, affinché voi
creiate un’immagine di queste sensazioni da me vissute. Se anche a voi viene una gran
voglia di andare laggiù, vorrà dire che avrò utilizzato gli stessi modelli di comunicazione
197
di cui si servono gli ipnotizzatori di successo… ma anche i poeti, i venditori, i genitori,
i politici, i capi religiosi di successo. Se l’ipnosi viene intesa come alterazione dello stato di coscienza di una persona, allora qualsiasi comunicazione efficace è ipnosi.4
Se analizziamo il brano di Non ti muovere dal punto di vista della struttura ipnotica, emerge che l’autrice usa la «transizione naturale» per tenere
incollato il lettore alla pagina. Perdonate la seconda citazione in poche righe: lascio a Richard Bandler il compito di definire cosa intendo.
Tu stai provando questa esperienza, e ciò conduce a quest’altra esperienza, e ciò
conduce a quest’altra ancora e tutte e tre sono verificabili. […] A livello conscio voi
non sapete che tutte queste cose sono parte naturale dell’esperienza, ma mentre io
le descrivo, l’una conduce naturalmente alla successiva. Quando poi io aggiungo
qualche cosa che non è parte naturale della vostra esperienza, voi state già seguendomi passo per passo, e così passate semplicemente al successivo. Non è questione
di essere più o meno convinti. Non vi siete nemmeno chiesti se quello che dicevo era
vero o falso. Stavate semplicemente andando dietro a me. Questo tipo di uso della
transizione vi permette di seguirmi con maggiore facilità.5
Rileggiamo questo passaggio del brano sopra citato di Non ti muovere:
Ha i capelli trattenuti da un’infinità di mollette di metallo smaltate, molte delle quali
screpolate. È una piccola cafona che si veste sulle bancarelle, o in quei negozi senza
porte con le commesse intirizzite che masticano gomma americana.
Analizziamo come si fanno scivolare dei giudizi nella descrizione: «Ha i
capelli trattenuti da un’infinità di mollette di metallo smaltate, molte delle
quali screpolate», questa è una descrizione; «È una piccola cafona che si veste sulle bancarelle, o in quei negozi senza porte con le commesse intirizzite
che masticano gomma americana», questo è invece un punto di vista del
personaggio (equivalenza complessa: se una persona si veste sulle bancarelle è una cafona) e noi lo seguiamo con facilità anche se non si tratta di una
descrizione ma di una convinzione personale.
Vediamo anche come la scrittrice orienta la nostra attenzione su quella
parte di mappa mentale che vuole farci esplorare.
Sappiamo che ci sono due personaggi su un’auto che sta viaggiando verso il luogo dove Italia abortirà, ma di quel viaggio non vediamo nulla. Restiamo dentro l’auto perché la scrittrice cancella tutto ciò che sta fuori (velo
torbido, mondo sfuocato oltre il parabrezza). Ciò che resta nell’automobile
si dilata nella percezione di ogni particolare.
Poiché il nostro cervello è in grado di processare contemporaneamente
non più di sette pezzi di informazione, e quindi cancella le parti di informa198
zioni che non gli sono necessari in questo momento, l’autrice cancella da un
lato e accumula dall’altro: descrive undici odori dell’abitacolo e li collega
ad altrettante immagini.6 Questo sovraccarico di informazioni è un altro
modo per condurre il lettore in uno stato alterato.
«Io uccido»
Osserviamo ora l’uso dei modelli linguistici nello stile di Giorgio Faletti.
Il suo romanzo, Io uccido, inizia con un ricalco sensoriale:
L’uomo è uno e nessuno. Porta da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua
ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale delle due pesa di più.
Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo e
restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una mano pietosa ha tagliato i
fili. A volte la fatica cancella tutto e non concede la possibilità di capire che l’unico
modo valido di seguire la ragione è abbandonarsi a una corsa sfrenata sul cammino
della follia.7
Il libro comincia con una sensazione fisica: uno stato appesantito che
l’autore trascina e intensifica. Poi va a prendere il lettore visivo e quello
auditivo.
Tutto intorno è un continuo inseguirsi di facce e ombre e voci, persone che non si
pongono nemmeno la domanda e accettano passivamente una vita senza risposte
per la noia o il dolore del viaggio, accontentandosi di spedire qualche stupida cartolina ogni tanto. C’è musica dove si trova, ci sono corpi che si muovono, bocche che
sorridono, parole che si scambiano e lui sta fra di loro, uno in più per la curiosità di
chi vedrà sbiadire giorno per giorno anche questa fotografia.8
Affascinante l’uso della presupposizione non si pongono nemmeno la
domanda.
L’autore crea una complicità immediata con il lettore, attribuendogli la
consapevolezza di sapere che una domanda esiste, e di sapere quale.
Così l’autore separa il lettore dalla massa incolore che descrive, lo iscrive tra chi sa e con due parole lo ha già messo «in squadra» con il personaggio. Più o meno consciamente, così, il lettore pensa a una domanda, prova a
farsene un’idea (ricerca transderivazionale) e qualsiasi idea trovi è quella
giusta per farlo procedere nella narrazione, sentendosi più vicino al personaggio.
L’uso delle presupposizioni e della ricerca transderivazionale fa parte
degli schemi ipnotici: per indurre il lettore nello stato di massimo gradimen199
to della lettura dovremo lasciargli la possibilità di scegliere nella sua esperienza le risposte.
L’ipnosi e la letteratura hanno evidenti punti di contatto. Pensiamo a
Milton H. Erickson: il famoso medico ipnotista narrava delle storie per
consentire alle persone di dissociarsi dalle emozioni più forti e associarsi
alle idee che lui proponeva, per poi guidare la loro rappresentazione della
realtà in direzioni nuove e potenzianti. È quello che succede quando leggiamo un libro.
Chi legge si dà l’opportunità di seguire nuove vie (neuroassociazioni)
nel pensare al mondo e di mettere in discussione la propria mappa, come è
intenzione di chiunque voglia evolvere.
Modelli ipnotici nella Bibbia
Un grande esempio di letteratura ipnotica è la Bibbia. Leggiamo l’inizio
del libro della Genesi seguendo lo schema nella pagina accanto.
Il «Primo racconto della creazione» ci conduce lungo un percorso senza
interruzioni. Nei soli primi 20 versetti ci sono 37 congiunzioni «e». In tutto
il racconto sono 64. Neanche un «ma». Le immagini create vengono così
sempre accostate, mai sovrapposte, creando uno scenario in cui nulla viene
cancellato. Il primo «ma» arriva nel capitolo secondo, nel punto in cui interviene la prima regola imposta all’uomo.
Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.9
Ancora: in tutto il testo (685 parole) non c’è alcuna negazione. La prima
negazione interviene nel versetto sopra riportato «non devi mangiare». Le
performative perse lavorano sul nostro stato: «E Dio vide che era cosa buona» è ripetuto 7 volte.
Seguire questo percorso diventa semplice e naturale.
Il «Primo racconto» è un esempio sorprendente di come i modelli linguistici si prestino alla creazione di uno stato durante la lettura: una sequenza di immagini compare nella nostra mente senza sosta, in modo semplice e lineare. E noi siamo spinti in avanti nella lettura senza percepire le
incongruenze.
E il fatto che, essendo testo di culto, esso non sia oggetto di revisioni invasive, renderà imperitura l’efficacia ipnotica della Bibbia.
200
Testo
Modelli linguistici usati
Genesi 1,1-20
1 In principio Dio creò il cielo e la terra.
2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di
Dio aleggiava sulle acque.
3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
4 Dio vide che la luce era cosa buona e
separò la luce dalle tenebre
5 e chiamò la luce giorno e le tenebre
notte. E fu sera e fu mattina: primo
giorno.
6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo
alle acque per separare le acque dalle
acque».
7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle
acque, che sono sopra il firmamento. E
così avvenne.
Presupposizione semplice: Dio esiste.
Presupposizione complessa: la connotazione temporale «In principio» lascia intendere
che qualcosa verrà creato dopo.
Submodalità visive: luminosità (tenebre),
dimensione (abisso).
Presupposizioni semplici: «tenebre», «abisso», «spirito», «acque». Presupponiamo che
queste cose esistano benché non siano state menzionate.
Ricerca transderivazionale: dobbiamo fare
riferimento alla nostra esperienza per immaginare lo scenario (terra «informe e deserta», «abisso», «spirito di Dio»).
Presupposizione semplice: «luce».
Verbo non specificato: «fu». Si potrebbe chiedere: «In che modo?». Anche questo dà massima libertà nella creazione dello scenario.
Performativa persa: «buona» rispetto a che
cosa?
Presupposizioni semplici: «sera» e «mattina».
Uso delle congiunzioni: in tutto il testo ci
sono solo «e»; le immagini vengono sempre
affiancate, mai sovrapposte.
Presupposizione semplice: «firmamento».
Un firmamento che si pone in mezzo alle
acque?
Mancanza di indice referenziale: separare
quali acque da quali acque?
Causa/effetto: «E così avvenne». Si presuppone che qualcosa causi qualcos’altro, anche se non sappiamo in che modo si generi
questa relazione.
Ripetizione: semplicità del linguaggio, i termini vengono ripetuti senza la ricerca di sinonimi mentre la descrizione lascia ampi
margini di ambiguità che riportano ancora
una volta alla ricerca transderivazionale.
201
Testo
Modelli linguistici usati
8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
A questo punto il lettore deve riunire due
immagini che aveva cercato nella sua mente,
andando a conciliare l’immagine del firmamento con quella del cielo (che, tra l’altro,
era già stato creato nel versetto 1).
9 Dio disse: «Le acque che sono sotto il
cielo si raccolgano in un solo luogo e
appaia l’asciutto». E così avvenne.
10 Dio chiamò l’asciutto terra e la massa
delle acque mare. E Dio vide che era
cosa buona.
Avviene la stessa sovrapposizione di immagini descritta per il versetto 8.
11 E Dio disse: «La terra produca germogli,
erbe che producono seme e alberi da
frutto, che facciano sulla terra frutto
con il seme, ciascuno secondo la sua
specie». E così avvenne:
12 la terra produsse germogli, erbe che
producono seme, ciascuna secondo la
propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la
propria specie. Dio vide che era cosa
buona.
13 E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
14 Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento
del cielo, per distinguere il giorno dalla
notte; servano da segni per le stagioni,
per i giorni e per gli anni
15 e servano da luci nel firmamento del
cielo per illuminare la terra». E così avvenne:
16 Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle.
17 Dio le pose nel firmamento del cielo
per illuminare la terra
18 e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide
che era cosa buona.
19 E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
20 Dio disse: «Le acque brulichino di esseri
viventi e uccelli volino sopra la terra,
davanti al firmamento del cielo».
202
Submodalità: la terra viene individuata attraverso la submodalità «asciutto» per
quanto conoscessimo già che la terra era
deserta.
Mancanza di indice referenziale: sia nel versetto 11 sia nel versetto 12: quale specie?
Presupposizione complessa: «stagioni», «anni».
Performativa persa: grandi rispetto a che cosa?
Verbi non specificati: «esseri viventi». Viventi come?
Submodalità visive: un altro sforzo per il
lettore nel posizionare gli uccelli (sopra la
terra e davanti al firmamento).
Sole, cuore, amore
Il linguaggio degli affetti nei poeti dilettanti
di Lorenzo Carpanè
Italia, terra di poeti. Alzi la mano chi non ha mai scritto una poesia, d’amore dico. Vedo poche mani. Ogni anno si tiene nel nostro paese qualche centinaio di concorsi di poesia; dunque viene scritto mensilmente qualche migliaio di testi in versi. Ce n’è in abbondanza per andare a vedere non cosa,
non perché, ma come si scrive, naturalmente per campione.
Prenderò in considerazione alcune poesie che ho letto in qualità di giurato
di uno fra questi concorsi, quello in cui il livello è risultato più basso. Ciò, non
per il gusto di infierire. Anzi, lodi a chi invece di guardare il Grande Fratello
scrive, e quindi pensa, riflette, indaga su sé e il mondo. La ragione è un’altra: la
mediocrità di questi testi ci fa cogliere alcuni aspetti della lingua proprio perché il dilettantismo lascia vedere ciò che altrimenti assumerebbe altro valore.
Concentriamoci su tre problemi: la grafica, la lingua e la prospettiva.
Della grafica
In assenza di norme, ognuno scrive come vuole. C’è chi usa ancora la
macchina per scrivere, chi, utilizzando il computer, si sbizzarrisce con i caratteri più strani e chi fa anche ricorso a stampe a colori. Il fatto è che chi
usa i caratteri meno consueti, magari utilizzando più font, di norma produce
testi più banali, rime più facili, strutture più ripetitive, punteggiatura casuale. Si legga la conclusione di questa poesia dedicata a Karol Wojtyla.
AL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
C o m m o s s i,
pensiamo a Lei, Santità,
invocando lo Spirito Santo
e la Vergine Maria
perché riceva sempre
grazie e serenità!!
Doppio punto esclamativo, tono e caratteri convergono verso un impiego
emotivo (non emozionante!) cioè non meditato della scrittura. Forse chi
203
scriveva aveva bisogno di esprimere delle emozioni per sé e non ha pensato
a un lettore. Allo stesso bisogno risponde l’uso delle iniziali maiuscole, tipico delle poesie di tema religioso. Passi per il pronome di cortesia o per gli
epiteti del papa e della Vergine, ma si ha invece un uso del tutto privo di un
senso linguistico:
AVE VERUM. INNO AL CROCIFISSO
Specchio tersissimo
il Volto tuo trasfigurato
che occhi inebriati
hanno cercato
nella Nube luminosa;
Anelito infinito…
insonne Desiderio…
Sospiro inappagato…
Chi mai si sazierà
dell’immensa tua Beatitudine!
Perché la maiuscola non è riservata a ciò che rinvia a Dio, ma coinvolge
il soggetto poetante? Si veda anche l’uso del punto esclamativo in una proposizione potenziale (che richiederebbe semmai l’interrogativo).
Di nuovo, a livello non verbale, agisce una involontaria emotività, che
non sa controllare il mezzo espressivo.
Della lingua
Colpisce la dissonanza tra ciò che è scritto e come è scritto. In una
poesia intitolata 11 marzo 2004, sugli attentati di Madrid, la seconda
strofa dice:
L’ARIA MATTUTINA ERA FRESCA
SFILAVANO VELOCI ALBERI CASETTE E CAMPI
DI GINESTRE
Oltre al maiuscolo integrale, l’occhio cade sul diminutivo «casette»:
non ha giustificazione metrica (non pretendiamo troppo), non realistica
(non risulta che a Madrid ci siano «casette» e non «case»), non stilistica (è
l’unico diminutivo nel testo). Non rimane che una possibile spiegazione:
di nuovo, il sovrapporsi emozionale, non controllato, dell’autore.
204
Questo affioramento involontario emerge con frequenza e assume significati ulteriori. Prendiamo quest’altro testo:
Rondine di pace
Lui trovò la pace
del cuore, ma non
benedisse
la rondine che
aveva nel becco
un ramoscello.
E quella rondinina
tornò per portarglielo ancora
CON UN VOLO ALTO COME
quando il cielo
è chiaro.
Lui dimenticò
la messaggera d’Amore
e la rondine con
il ramoscello costruì un nidino
e vi volò
intorno, svolazzò,
ritornò e squittì.
Il suo dono era la serenità
del cuore.
Concediamo maiuscole, ricorrenza dei sostantivi «poetici» (cuore, amore), licenze poetiche (ahi, Palazzeschi!) per la rondine che «squittisce» e
fermiamoci sulla serie di diminutivi. Qui è l’abbondanza che si nota: perché
tutto è piccolo? Lo giustifica il tema (la pace)? Non sembrerebbe… E allora? Mettiamo tutto insieme: le parole della poesia (amore…), cioè del sentimento; la prospettiva fanciullesca (Pascoli, non si rivolti, please) che esce
dai diminutivi, l’uso del passato remoto. C’è da pensare al sentimento come
regressione infantile, alla poesia come manifestazione del «fanciullino»
presente in chi scrive, ma che esce così, sine arte et studio.
Della prospettiva
Dove guardano i poeti? Dentro di sé? Certo, in fondo dovrebbe essere
quello lo scopo. Si può però fare una prova doppia: in concomitanza con i
verbi visivi e auditivi (quelli più «direzionali«), dove si rivolgono le loro attenzioni?
205
I verbi guardare, osservare vanno quasi sempre verso cielo, stelle, sole
(al tramonto, quasi mai all’alba, talvolta nel meriggio), monti, colli. Mai o
quasi mai si guarda giù da un balcone, da un colle. Tutt’al più è l’infinito a
sostituirsi. Mai si scava (anche metaforicamente). Se si ascolta qualche voce, è quella del vento, vera rivelazione di questa indagine (compare in novanta poesie su centocinquanta). E anche se ci si muove, è per andare in su:
«voglio alzarmi nel vento», «restiamo ad innalzarci sotto filigrane di luna»,
e così via.
E cosa guardano i poeti? La realtà descritta è quella di campagna. Rarissima quella urbana. Boschi e fiumi e selve, molti uccelli, molti fiori, oltre all’apparato celeste, nei due tempi del passato (individuale e collettivo, memoria dell’io e della gens), e nel presente quale luogo d’incanto, di riflessione,
di serenità (sempre, senza eccezion alcuna). Tutti contadini i nostri poeti?
Proviamo a trarre alcune conclusioni. La poesia è emozione (nuova, questa!), vissuta come sfogo, anche e soprattutto nei movimenti non verbali e
paraverbali che intuiamo tra i caratteri del messaggio verbale. La poesia è
fuga dalla vita quotidiana, è rifugio in un mondo di natura benigna, è proiezione verso l’alto dei cieli, è bisogno di leggerezza (ci mancava Calvino…).
Nessuno dei centocinquanta l’ha detto. Tutti, ciascuno a suo modo,
l’hanno scritto.
Note
Psicologa americana, esperta di terapia familiare, negli anni Settanta Virginia Satir fornì i
primi spunti di studio a John Grinder e Richard Bandler per lo sviluppo della PNL.
2
MAZZANTINI, MARGARET, Non ti muovere, Mondadori, Milano 2001, p. 148.
3
Questa danza dell’immaginazione tra ciò che lo scrittore induce a immaginare e ciò che il
lettore prende come riferimento della sua realtà spiega in parte l’eterna insoddisfazione verso
i film tratti dai i libri: la mappa del regista non sarà mai quella del lettore.
4
BANDLER, RICHARD - GRINDER, JOHN, Ipnosi e trasformazione. La programmazione neurolinguistica e la struttura dell’ipnosi, Astrolabio, Roma 1983.
5
Ibidem, p. 37.
6
Antichi sono gli studi sulla magia del numero sette: MILLER, GEORGE, «The Magical Number Seven, Plus or Minus Two. Some Limits on Our Capacity for Processing Information»,
Psychological Review, a. LXIII, n. 2, 1956.
7
FALETTI, GIORGIO, Io uccido, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 9.
8
Ibidem.
9
Genesi 2,16-17.
1
206
Marketing
Quante storie!
di Luisa Carrada
MARCOM, ovvero marketing communication: anche qui l’inglese impera.
Del resto, si tratta di una disciplina anglosassone.
La comunicazione di marketing è il cuore della comunicazione di tutte le
nostre organizzazioni, la usiamo ogni i giorno per spiegare, informare, convincere, vendere. Spesso la usiamo in modo forse ormai troppo abitudinario e
scontato. Mettere alcuni dei suoi strumenti sotto la lente dei modelli neurolinguistici ci aiuta a vederli in una nuova prospettiva, a migliorarne l’impiego, e
quindi a migliorare anche un po’ noi stessi e le nostre capacità di comunicatori.
Bene, quali sono questi strumenti? A rigore: tutti. Tutti gli strumenti di
comunicazione di cui un’organizzazione si serve per esprimersi, dal sito
web alla pubblicità, dalle brochure agli spot. Tra questi ce ne sono però alcuni costantemente oggetto di ricerche, altri meno conosciuti e studiati, più
nascosti ma essenziali.
Nel corso della mia esperienza di business writer in un’azienda di
information technology mi sono occupata soprattutto degli strumenti rivolti
alla comunicazione tra aziende e tra l’azienda e i clienti della pubblica amministrazione. Strumenti che si collocano in quella «linea d’ombra» che sta
tra la pubblicità e la comunicazione tecnica.
Abbiamo così tanti strumenti a disposizione che qualche volta non sappiamo come usarli e confondiamo il medium con il messaggio.
Con internet, comunicare è diventato apparentemente facilissimo: «Preparami una presentazione», «Apriamo un minisito», «Ci serve una brochure
per la prossima convention» ecc. Prima si prepara il canale e solo dopo si
decide cosa farci passare dentro. Raramente si parte dall’esigenza e dall’obiettivo per scegliere il canale e lo strumento più adatti.
E una volta che lo strumento è pronto, si cercano e si riciclano testi esi207
stenti. Eppure gli autori del Cluetrain Manifesto lo avevano capito già nel
1999, quando internet muoveva i primi passi tra il grande pubblico:
Tesi n. 1: I nuovi mercati sono conversazioni. 1
Internet ci ha abituati a conversare: tra persone, tra aziende, tra persone e
aziende. «L’omogeneizzata voce del business», per dirla col Cluetrain Manifesto, non funziona più, ci scivola addosso.
Anche nel marketing, per farci ascoltare, dobbiamo metterci in gioco come persone, con tutti i nostri sensi e le nostre conoscenze, facendo appello ai
sensi e alle conoscenze dell’altro. Non solo quando si tratta di persone, ma
anche di aziende e di amministrazioni. Dietro un nome, una funzione, un
brand, c’è sempre qualcuno che legge, che ascolta, che valuta, che decide.
Tra gli strumenti del marketing da analizzare qui ne ho scelti due, molto
diversi, e per motivi diversi:
➜ uno diffusissimo: la presentazione in Powerpoint, ormai completamente
stravolta nella sua vera funzione, che è quella di mettere la persona al
centro della comunicazione;
➜ uno poco usato: il case study, che meriterebbe invece più attenzione per
la sua capacità di raccontare una storia unica in un mondo omologato.
L’equilibrio sensoriale di Powerpoint
«Presentazione», ovvero un momento di comunicazione in cui una persona «racconta» l’azienda, un’offerta, una soluzione con il supporto di slide.
La definizione, corretta, è sempre più spesso pura teoria. Provate a pensare a cosa realmente intendete quando dite «presentazione»: scommetto
che vi viene in mente solo una lunga sequela di slide tutte uguali, fitte di testo, una stanza buia, un oratore che volta le spalle al pubblico, una lettura
sequenziale dei punti elenco e magari anche un «non abbiamo più tempo,
saltiamo all’ultima slide, tanto poi le potete leggere con calma». Certo che
possiamo leggerle, ma allora perché siamo riuniti qui, in carne e ossa?
Delusione al posto del rapport. Passività al posto del confronto.
Delusione e passività dilagano, eppure la presentazione in Powerpoint
dilaga anch’essa come mero sostituto di documenti scritti, tanto da essere
ormai il secondo strumento di comunicazione interna dopo l’e-mail.
Strano effetto: più Powerpoint si arricchisce di funzionalità, più si restringe la nostra capacità di inventare, scrivere, argomentare, convincere.
Per la mancanza di tempo, di idee, di immaginazione, di linguaggi c’è
208
sempre una salvezza: il template. Il testo viene ridotto a una lista di punti,
tanto che Powerpoint viene ormai quasi identificato con la famosa bulleted
list. Bullet, ovvero proiettili, che però restano sulla pagina e raramente partono per colpire la mente del pubblico.
Proiettili, per colpire al cuore
Beyond bullet («oltre gli elenchi puntati») è il titolo di un blog che si occupa dell’ecologia di Powerpoint, proponendone un modello più ricco, che coinvolga tutta la persona e i suoi sensi. La persona che parla e quella che ascolta. 2
Il suo curatore, Cliff Atkinson, si rifà agli studi condotti negli anni Novanta da Richard Mayer e dai suoi colleghi dell’Università di California,
che hanno analizzato le modalità di apprendimento e l’uso integrato di parole e immagini secondo tre concetti chiave:
1. Doppio canale—La mente ha due canali di apprendimento, quello visuale, che elabora tutte le informazioni che si presentano agli occhi (illustrazioni, animazioni, video, testo scritto) e quello verbale, che elabora le
informazioni che arrivano alle orecchie: riempire le slide di solo testo
equivale a intasare un canale, quindi a bloccare la comunicazione.
2. Capacità limitata—In ogni canale riusciamo a far passare poche informazioni alla volta. Di un video ci restano poche immagini, di un lungo discorso poche parole: le parole sulle slide vanno scelte e distillate con cura.
3. Elaborazione attiva—Chi ascolta non ricorda tutto quello che gli viene
proposto, ma solo quello che gli serve: bisogna mettersi dalla parte di chi
ascolta e non solo selezionare le informazioni che gli servono, ma anche
organizzarle in modo da aiutarlo a sceglierle e assimilarle.
Su questa base, Atkinson suggerisce di scrivere le presentazioni Powerpoint tenendo conto dei quattro principi seguenti:
Principio di segnalazione
Scrivere un titolo chiaro che sintetizzi il contenuto della pagina. Non
«Obiettivi di marketing», ma «Obiettivo 2005: quota 20 per cento del mercato». Non «Risultati 2004», ma «2004: un anno in crescita». Non «L’offerta»,
ma «I grandi sistemi IT per la competitività del paese». Non «Sistemi di
knowledge management», ma «Il vero elemento competitivo: la conoscenza».
I titoli delle singole slide, letti da soli, dovrebbero costituire il «soggetto» della «rappresentazione». Dimenticate i titoli delle brochure e pensate
piuttosto ai titoli dei giornali, non disdegnate verbi, forme forti e attive.
209
Principio di segmentazione
Se si assimila meglio un concetto alla volta, ogni slide deve essere dedicata a un solo tema, a una sola idea: meglio molte slide rarefatte che poche
slide illeggibili. E tagliate tutto quello di cui non parlerete a voce, compresi
gli onnipresenti loghi aziendali e i pattern di sfondo.
Principio di modulazione
Una slide non è una pagina formato A4: una slide piena di testo «chiude» il canale visivo e chi ascolta rinuncia a seguire.
Gli studi sui processi cognitivi rivelano che le persone assimilano meglio
una presentazione multimediale se le parole sono presentate come una narrazione, piuttosto che come testo sulla slide. Usate quindi la slide per «ancorare» l’attenzione con un breve testo o un’immagine, ma spostate il racconto fuori schermo e usate il canale auditivo.
Raccontate storie o una breve favola, eventi successi a voi o ad altri colleghi, servitevi di metafore. Per esempio, state illustrando la vostra offerta
di siti usabili e accessibili per le amministrazioni pubbliche: accanto all’immagine del portale di una cattedrale gotica, scrivete il testo «sul portale il
contenuto del vostro sito sarà annunciato, promesso, rappresentato», oppure
titolate con una citazione di Tim Berners-Lee (l’inventore del world wide
web), o ancora titolate la slide dedicata all’usabilità dell’home page con
«home sweet home» ed evocherete all’istante un senso di agio e benessere,
predisponendo il pubblico ad aprirvi la mente e il cuore.
Non abbiate paura di mescolare stili e generi diversi, il formale con
l’informale, il serio e il faceto, i numeri e le storie. Pensate al metodo di
Milton H. Erickson e al potere delle storie e delle parole per ognuno di
noi… ogni tanto una piccola trance apre alla ricettività.
Principio di multimedialità
Usate la grafica per tradurre i concetti in immagini e le immagini per fornire suggestioni. E non limitatevi al consueto repertorio di clip art: potete
usare fotografie, simboli, testimonial famosi, animali, fumetti, vignette, oggetti misteriosi ecc.
Nella presentazione le parole scritte non sono le protagoniste, ma sono
essenziali per incorniciare e sottolineare quelle pronunciate dall’oratore. È
lui l’attore-regista.
Lo schermo costituisce la scenografia, l’ambiente e l’atmosfera della relazione. Le parole sono i punti fermi, i dati di riferimento, lo scheletro argomentativo, gli interrogativi, le conclusioni.
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Questa sera si recita a soggetto
Come ogni recita a teatro, ogni presentazione dovrebbe essere diversa
dall’altra, mentre oggi le presentazioni sono addirittura «standard», buone
per tutti e per ogni occasione, scaricabili dal sito intranet. Se volete creare
rapport e portare l’interlocutore dalla vostra parte, dovete conoscerlo e scrivere la presentazione apposta per lui.
Lo prova una ricerca condotta nell’arco di due anni su 1684 alti dirigenti: il
50 per cento delle presentazioni di progetti non convincono non per il loro contenuto, ma per la modalità di presentazione. Lo studio individua cinque stili di
management, per i quali sono necessarie modalità di presentazione diverse:
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carismatico:–è facile da persuadere se mettete al primo posto le idee innovative, espresse con fantasia ed entusiasmo: partite con l’obiettivo, con lo
scenario futuro «come se», con una metafora, una citazione, un testimonial «visionario»; solo dopo passate ai dettagli, ai dati, alle informazioni;
pensatore:–è attento al dettaglio e ai molteplici punti di vista, con lui è
meglio non barare: tabelle pro e contro, andamento del progetto nel tempo con vantaggi e possibili svantaggi;
scettico:–ama anticipare le obiezioni: fate voi l’avvocato del diavolo e
organizzate la presentazione in modo da anticipare e documentare le
obiezioni;
gregario:–vuole percorrere un cammino già battuto da altri: risultati, dati, fatti, indagini di mercato e soprattutto case study;
controllore:–esige precisione: il cuore della presentazione dev’essere un
business plan accurato e ben documentato, che non lasci aspetti scoperti
e domande senza risposta.3
Consigli pratici
Non partite scrivendo le slide: gli elenchi puntati stimolano la parte razionale del cervello; partite piuttosto con un brainstorming: come in ogni
lavoro di scrittura, la stesura è solo una parte del processo.
A partire dal vostro obiettivo, immaginate prima il «soggetto» della presentazione e scrivete non il testo, ma i titoli delle slide: scorreteli tutti di seguito e verificate se hanno un senso e un contenuto in sé.
Per titolare, pensate di essere il caporedattore di un giornale: «La lavorazione delle mozzarelle ieri, oggi e domani» (andamento del mercato); «Ritorno al futuro: l’azienda nel 2006» (scenario e previsioni).
211
Una presentazione può essere una storia, e una slide può suggerirla: preparate la vostra storia o siate pronti ad attingerla dalla vostra esperienza di vita
e di lavoro. L’importante è che non la annunciate pomposamente con «ora vi
racconterò un’istruttiva storiella che vi aiuterà a capire meglio quanto sto dicendo, e magari vi farà anche divertire», ma cominciate direttamente la presentazione con la storia, lasciatela scivolare nel discorso o usatela per concludere.
Utilizzate ogni tanto lo swish, soprattutto quando dovete fare dei confronti tra scenari, prodotti, alternative: presentate prima quello negativo e
poi dissolvete verso quello positivo.
Anche in Powerpoint sono importanti soprattutto l’inizio e la fine: anticipate il problema, ponete una domanda. Per esempio: utilizzate la prima e
la seconda slide per annunciare ciò di cui parlerete. Non «Strategie di e-business», ma «L’e-business + i sistemi legacy: la scelta vincente per il nostro
mercato», così chi vi ascolta ha già una piccola anticipazione. E infine, perché no?, anche una domanda – sola, nel mezzo della terza slide –, quella cui
darete risposta: «Come offrire i nostri prodotti attraverso internet?».
Oppure tirate le fila e riassumete in una sola slide, in uno slogan finale, il
«succo» del discorso e il perché della validità della proposta.
Andate all’essenziale, eliminate avverbi e aggettivi: affidate le sfumature alle vostre parole e al tono di voce.
Dosate e modulate i canali sensoriali: fate apparire la slide con il testo,
voltatevi verso il pubblico, parlate, poi eventualmente fate entrare altro testo
con la funzione Animazione, non voltate mai le spalle al pubblico e non
guardatevi le scarpe.
Preparate la presentazione scrivendo liberamente le note: una volta fatto
un buon editing, potete lasciarle alla fine della presentazione come hand-out.
Personalizzare le presentazioni è molto oneroso in termini di tempo.
Per questo usiamo tutti quelle standard. Una buona soluzione è un onorevole compromesso. Preparate un certo numero di slide standard, ma siate
pronti a personalizzarne un buon numero a seconda delle occasioni e usatele soprattutto all’inizio e alla fine. Il tempo in più viene ripagato dai risultati e anche dal vostro maggiore divertimento.
Case study: una storia unica da proporre a tanti
La spinta a studiare lo strumento del case study mi è venuta dalla ricerca
di una via d’uscita al linguaggio omogeneizzato del business. Avete mai
provato a descrivere in maniera «unica» e accattivante le attività e le competenze di un’azienda di information technology? A usare il linguaggio in modo originale per tenere il lettore con voi?
212
È impresa quasi disperata, perché non c’è alcuna differenza tra quanto le
aziende (a parole) offrono. La differenza sta altrove: nel modo in cui le tecnologie vengono applicate per risolvere problemi specifici e poi nei risultati
concreti che i clienti riescono a conseguire con i nostri servizi e la nostra
consulenza.
Quando ho capito questo, mi sono spostata dall’azienda al cliente e da lì
sono ripartita.
La soluzione al mio problema si chiamava «case study» ed era il racconto di un caso di successo da proporre ad altri clienti.
Si trattava di fare un’operazione di modeling delicata, poiché chi scriveva faceva parte dell’organizzazione parte in causa, non era un’osservatrice
neutra, nella terza posizione ideale per modellare un comportamento.4
Il segreto è non scegliere voi, ma lasciar scegliere il mercato: chi sono i
clienti più soddisfatti? Quelli che vi hanno espresso esplicitamente il loro
apprezzamento per una soluzione innovativa, un servizio di assistenza impeccabile, un’idea che vi ha staccato dai concorrenti.
Cominciate da loro e trattate il «caso» come un giornalista di inchiesta,
con ricognizioni sul campo, interviste, analisi dei pro e dei contro.
Il mercato non siamo noi
Siamo convinti di conoscere molto bene il mercato, e qualche volta è vero, ma spesso le indagini di mercato e sulla soddisfazione dei clienti non sono sufficienti. Non è detto che la nostra mappa coincida con il territorio del
mercato e dei clienti.
Lo prova uno dei problemi più seri della «letteratura di marketing»: l’autoreferenzialità, l’erronea convinzione di conoscere i problemi del nostro
cliente e anche la soluzione che fa per lui.
Una convinzione rispecchiata dal linguaggio: «Grazie alle nostre specifiche competenze siamo perfettamente in grado di risolvere ogni problema di
business continuity delle aziende clienti». Oppure: «Con i nostri metodi certificati di imballaggio e trasporto le vostre merci arriveranno a destinazione
in modo puntuale e sicuro».
Noi, noi, nostri…
Andate sul campo a esplorare e conoscere meglio il territorio: studiate il
mercato e i potenziali clienti, visitate i loro siti internet, leggete le loro brochure, cercate di capire i loro problemi, date un’occhiata alle community di
clienti nel caso di beni di consumo, ma soprattutto andate dal famoso cliente soddisfatto e parlate con lui. Di esigenze reali, di problemi riscontrati, di
soluzioni efficaci, di risultati ottenuti.
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Interviste faccia a faccia
Mettetevi nei panni del giornalista di inchiesta: intervistate sia il cliente
sia i colleghi che hanno realizzato il prodotto o la soluzione di successo.
Nella conversazione il cliente userà il «suo linguaggio», si lascerà andare e
voi potrete scavare, fare domande, sapere tutto quello che non riuscirete a
leggere da nessuna parte.
Potrete anche indagare sui motivi più sottili della sua soddisfazione, farvi fornire dati e numeri che potranno convincere altri clienti della vostra affidabilità e competenza.
Non prendete appunti di tutto, lasciate correre il registratore e concentratevi sul vostro interlocutore, il suo entusiasmo, i suoi gesti, le sue espressioni.
Annotatevi piuttosto le parole chiave che il cliente ripete spesso, quelle
cui evidentemente attribuisce più importanza, ciò che nomina prima, ciò che
cita dopo, ciò che avete dovuto tirargli fuori voi.
Una storia, ma rigorosamente scandita
Un case study è una storia: problema, difficoltà, idea brillante, soluzione, lieto fine, prospettive per il futuro.
Ma una storia rigorosamente scandita e documentata, che ricalca i problemi dei clienti per poi guidarli offrendo loro la soluzione migliore.
Esporre anzitutto il problema, la situazione del mercato, una nuova legge
che richiede di cambiare processi e procedure, oppure una nuova tecnologia
da applicare per la prima volta in un nuovo contesto equivale a dire «Conosco la tua situazione, so di cosa parli, perché questi problemi li ho già studiati e affrontati anch’io».
Solo dopo esporrete la soluzione guidando il potenziale cliente attraverso dati e numeri di una situazione che qualcun altro ha già risolto brillantemente prima di lui.
Raccontare «come» equivale a creare in chi legge la rappresentazione
della soluzione, fargli «vedere» cosa acquisterà.
Questa è una possibile scansione per il vostro case study:
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titolo;
sottotitolo—riassume in una frase il principale vantaggio per il cliente;
cliente—concreto e preciso (non «un primario gruppo assicurativo nazionale», oppure «un’azienda leader nel settore delle telecomunicazioni»);
problema—la situazione prima dell’entrata in scena della vostra azienda
o quello che sarebbe successo se non fosse entrata in scena;
soluzione—perché è stata scelta proprio la vostra azienda e come avete applicato i vostri prodotti, le vostre competenze nella soluzione del problema;
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vantaggi—ciò che il cliente ha ottenuto concretamente (di quanto ha ridotto i costi, come ha migliorato la propria organizzazione, i tempi di produzione e di consegna ecc.), con dati, fatti concreti e possibilmente numeri;
sviluppi futuri—cosa sta crescendo di nuovo sulla soluzione;
contatti—per saperne di più (e-mail, sito internet, telefono della vostra
azienda).
Dal generale al particolare: metamodello
La tentazione di non esporsi e di restare sulle generali è sempre forte, ma
nel case study dovete fare esattamente il contrario: essere precisi, circostanziati e documentati. Il vostro potere persuasivo si basa esattamente su questo.
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Non cancellate mai il soggetto: non «è stato realizzato», ma «l’azienda
Multiservice ha realizzato»; meglio ancora «abbiamo realizzato»,« abbiamo creato», «abbiamo avuto l’idea».
Non nominalizzate mai i verbi e usate l’infinito ovunque possibile: l’effetto dinamico e trascinante si ripercuoterà sulla mente del lettore; non
«l’obiettivo primario era la realizzazione di un sistema documentale per
l’informatizzazione del protocollo», ma «l’obiettivo era realizzare un sistema documentale per informatizzare il protocollo»; meglio ancora
«Obiettivo: realizzare un sistema documentale per informatizzare il protocollo» (ogni riferimento al passato sparisce, il racconto diventa contemporaneo).
Non cancellate i problemi incontrati: esponeteli e raccontate come li
avete risolti.
Contestualizzate i paragoni: «risolvere al meglio» (al meglio di chi? di
cosa?); «La migliore soluzione sul mercato» (citate l’indagine di un famoso istituto di analisi).
Evitate le generalizzazioni: sono i «tutti», i «sempre», i «ciascuno» che
così facilmente ci sfuggono e danno ritmo alla nostra prosa; citate piuttosto eventi, date, luoghi, persone.
Lo stesso vale per i «in questo quadro», «in questo contesto», «in quest’ottica»: aiutano noi, non il lettore. I testi si incorniciano in altro modo: per esempio raccontando prima cosa sarebbe successo se il cliente
non avesse effettuato quelle scelte e operato quelle decisioni.
Condimenti emotivi e sensoriali
Anche quando dovete scrivere un testo molto documentato, non rinunciate a ricalcare e guidare il vostro cliente con sottolineature e suggestioni,
verbali e paraverbali.
Se nella comunicazione scritta è impossibile ricalcare il linguaggio cor215
poreo, come pure i ritmi e i toni della lingua parlata, è però possibile ricalcare le idee, le convinzioni, le aspettative e il lessico. Per esempio:
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sottolineate ciò cui date più importanza con il grassetto o il colore;
anticipate le informazioni più importanti nell’executive summary: più le
informazioni sono integrate e sintetiche, meglio sono assimilabili; lo
stesso vale per i titoli: affidate loro contenuti importanti e significativi,
anche cambiando registro linguistico (titoli più «caldi» per un case study
tutto numeri e tecnologia);
delegate informazioni anche alle immagini: tabelle, grafici, foto, box;
ricorrete a qualche metafora per spiegare meglio dei concetti astratti;
fate ricorso alle parole che avete sentito pronunciare al vostro cliente durante l’intervista e che vi hanno colpito;
date qualche «sostegno sensoriale» al lettore: invece di «essendosi affermato anche in ambito pubblico il protocollo TCP/IP…» potete anche
concedervi di iniziare con «il vento di internet ha soffiato potente anche
sulla pubblica amministrazione…», e così trascinate anche il vostro
cliente nel vortice della lettura.
Rapport
State esponendo una realizzazione di successo, che può essere un modello per il futuro.
Non fatevi tentare dai tentennamenti lessicali e dai toni incerti. Il rapport
non si costruisce così. Anziché «Visti i risultati conseguiti, riteniamo di poterci proporre come partner in grado di risolvere gli stessi problemi anche per altri eventuali Clienti»; meglio «Siamo convinti che l’approccio seguito e le tecnologie utilizzate possono costituire un modello per altre aziende che si trovino ad affrontare gli stessi problemi. Con il vantaggio di una soluzione collaudata, che ha già prodotto ottimi risultati, documentati e misurabili».
Il kit della documentazione di marketing
Presentazioni e case study sono casi un po’ estremi, ma utili perché vi si
ritrovano tutti i problemi che bisogna affrontare quando si scrive documentazione di marketing.
Ogni strumento serve a un obiettivo preciso e, prima ancora di progettare e di scrivere, dovremo decidere di volta in volta a quale strumento o mix
di strumenti affidarci.
L’ideale è mettere a punto un intero kit di documentazione costituito da:
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presentazioni:–da personalizzare ogni volta che è necessario il coinvolgimento sensoriale di chi parla e chi ascolta, con un massimo livello di
rapport;
brochure:–per un’informazione di primo livello su un tema abbastanza
ampio, dove parole e immagini si integrino al meglio;
schede prodotto:–dati e informazioni sintetiche e precise: date fondo al
metamodello finché non arrivate all’essenza delle informazioni;
case study:–rapport mediato dalle parole, ma profondo perché studiato,
calibrato e documentato: con l’esposizione dei problemi ricalcate, con la
soluzione guidate e portate il cliente dalla vostra parte;
white paper:–applicate il metodo del case study per «raccontare» e documentare un tema trasversale, portando l’attenzione del cliente su quanto
ancora non sa, ma magari dovrebbe conoscere meglio.
Per approfondire
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Comunicobene.com, di Linda Scotti: http://www.comunicobene.com
Gordon & Gordon: http://www.gordonandgordon.com
Klariti: http://www.klariti.com
Sociable Media: http://www.sociablemedia.com
Beyond Bullets: http://www.beyondbullets.com
The Real Role of Powerpoint, di David Weinberger: http://www.worthwhilemag.
com/entry/2004/04/09/the_real_role_of_powerpoint.php
More Power, More To The Point, di Susan Salomon: http://www.clickz.com/
experts/design/cont_dev/article.php/3317221
Powerpoint Presentations On-line: No! Stop!! Don’t!!!, di Amy Gahran: http://
blog.contentious.com/archives/000071.html
Il morbo di Powerpoint, di Giancarlo Livraghi: http://www.gandalf.it/offline/
off69.htm
Powerpoint Is Evil, di Edward Tufte: http://www.wired.com/wired/archive/
11.09/ppt2.html
La powerpointosi esiste: http://www.webmasterpoint.org/speciale/2003dic19.asp
Powerpoint su Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/PowerPoint
217
Note
1
http://www.cluetrain.com
http://www.beyondbullets.com
3
http://www.millerheiman.com
4
Il modeling (modellamento) è uno dei processi fondanti della PNL, attraverso il quale le
strategie comportamentali di persone eccellenti nel proprio campo possono essere individuate, sistematizzate e insegnate ad altre persone. Va precisato che nel modeling ci si concentra
sempre sulla struttura dei comportamenti, non sui contenuti.
2
218
Newsgroup & Co.
Parole che creano luoghi
di Mafe De Baggis
AVETE presente The Matrix? Un esempio di come si possano rappresentare
con un linguaggio nuovo alcuni temi classici della filosofia, narrando la complessità del conoscere e visualizzando in modo realistico il «cyberspazio».
Che la rete crei la sensazione di ambienti veri e propri, a tre dimensioni,
è noto. Quella strana sensazione di muoversi, parlare, ascoltare, toccare e
sentirsi toccati: esperienze cenestesiche che avvengono in uno spazio cognitivo personale, mentre il nostro corpo rimane seduto a una scrivania, gli occhi aperti, le dita che corrono sulla tastiera, nel silenzio, nessuna sostanza o
attrezzatura a catalizzare questa creazione tutta cerebrale, ma dai connotati
emotivi.
Non andiamo da nessuna parte, in rete, ma sentiamo di spostarci: gli spazi in rete sono luoghi come il mondo creato da Matrix, ipnotico scorrere di
caratteri in verticale su uno schermo, decodificato da un programmatore che
trasforma il codice in persone, situazioni, ambienti. Il codice scorre sullo
schermo: non ha il flusso della lettura cui siamo abituati, da sinistra verso
destra, i caratteri non appartengono a un alfabeto noto. È l’alfabeto della
Matrice, così come ogni ambiente di rete ha il suo. In un ambiente digitale,
che sia un newsgroup o una chat, un blog o una rete sociale, che ci siano segnali iconici, in movimento o sonori, le mura, l’arredo, gli oggetti, la percezione del luogo insomma, non è data tanto dalle persone: sono le parole a
creare mondi ed esperienze.
In rete sono le parole che creano i luoghi, diversi a seconda del registro
emotivo, del significante e di come viene usato, del significato e della semiosfera1 che ne emerge. Parole che possono respingere come porte chiuse
o attrarre come abbracci.
Ogni ambiente di rete ha una sua identità: è emergente, perché nasce dal219
l’interazione di più individui e non può essere diretto dall’alto; è dinamico,
perché le persone cambiano, crescono, girano, hanno umori diversi; è storico, perché può essere ripercorso nel tempo, oltre che vissuto nello spazio,
grazie alla permanenza della maggior parte degli ambienti di rete. È un’identità senza altro fine che la soddisfazione del piacere di esserci, in quel
momento, di comunicare con altri esseri umani, con altri «corpi angelici».2
Per questo è affascinante da indagare quando usa le tecniche linguistiche
del Milton model e la calibrazione dei canali sensoriali. Un certo «non so
che» che ci fa desiderare di restare lì: e non è solo il tema, e non sono solo
gli amici, ma sono le modalità di relazione, è il rapport che noi esseri umani
percepiamo senza vederli o conoscerli.
Mappa del territorio 1:1
Una mappa del territorio in scala 1:1, come insegnano Borges ed Eco,
non è possibile, anzi, è grottesca. Ma se fosse una mappa digitale? Certo
non parliamo di una mappa cartografica, ma di un mondo parallelo dove ritroviamo dinamiche, emozioni e logiche della realtà fisica (il meatspace).3
La rete è una mappa 1:1 del territorio delle relazioni umane, nel bene e
nel male: se sappiamo entrare in relazione con gli altri in bar, ambienti di lavoro e discoteche, sapremo farlo anche in blog, chat e newsgroup.
Qual è la principale differenza, il confine che spinge molti a non fermarsi, il passaporto da presentare all’ingresso, in questi ambienti di rete? La padronanza della parola scritta. Il rapport, on-line, scorre tra letture e scritture,
chiose e citazioni, finché non si ha più voglia di sapere chi è l’autore e chi è
il lettore, chi parla e chi ascolta, chi insegna e chi impara. In rete, il pensiero
e la relazione emergono sovrani (anche quando il risultato è povero: internet
non è solo il bengodi dell’intelligenza e della cultura, purtroppo), il singolo
ha senso solo se esiste una comunità a darglielo. Una volta varcata la linea
di confine tra oralità e parola scritta, scopriremo presto, come nel meatspace, che ci sono ambienti che ci piacciono e ambienti che ci respingono. È
sulla soglia che si arresterà il nostro rapido viaggio in rete, non per non andare più a fondo, ma per capire insieme come il linguaggio ci guida inconsciamente al nostro «posto caldo, illuminato bene» preferito.
Ci piace riflettere, scrivere con calma, essere letti e chiosati, ma rimanere in un nostro spazio rassicurante, creato a nostra immagine e somiglianza?
Se entriamo nella blogosfera (l’insieme dei blog e dei blogger), non ne usciremo volentieri.
Ci piace costruire un discorso o un ragionamento a più voci, senza voci
umane che si accavallano, ma scorrendo parole scritte con i propri tempi e i
220
propri ritmi? Usenet, le mailing list e i forum di discussione, ecco dove sosteremo più a lungo.
Amiamo il puro piacere della chiacchiera, la scoperta di altri esseri umani, il ridere insieme e flirtare senza impegno, sospesi nella leggerezza di veloci scambi di battute? Tutti in chat, senza dubbio.
I blog: il salotto letterario
Dei blog si parla tanto, troppo: in questa sede definirli è inutile, perché
gli elementi comuni (di carattere più che altro tecnologico) risultano talmente diversi da essere insignificanti per un’analisi linguistica. Quello che è
certo è che i blog sono una mimesi perfetta del mondo della scrittura, letteraria o non: troverete diverse tipologie narrative, dal diario al pamphlet al
racconto fino alla rassegna stampa, in una piacevole – ma all’inizio spiazzante – cacofonia di voci che si incrociano e si rimandano, come in un salotto letterario che ospita migliaia di autori contemporaneamente.4
Se vi piace leggere e comunicare con l’autore, la blogosfera potrebbe rivelarsi uno dei vostri spazi on-line preferiti, a patto che troviate dei blog a
voi affini per contenuti e relazioni.
Una delle domande tipiche di chi cerca di capire meglio questo fenomeno di «scrilettura» è proprio «ma come faccio a trovare dei blog adatti a
me?». Ecco, basta trovarne uno e seguire i link nel suo blogroll (l’elenco dei
blog che legge): navigando tra le affinità di una persona che ritenete simile a
voi non rischiate di sbagliare. Ma come si trova quel primo blog, se non
avete un amico che ne tiene uno? E soprattutto, come si fa a colpo d’occhio
a entrare nel mondo delle fantasie e degli interessi di un’altra persona e a
capire se vale la pena seguirlo?
Due chiavi: la grafica (spesso minimale) e il nome con la breve descrizione del blog.
La grafica, di forte impatto sul canale visivo ma anche cenestesico, può
respingere senza scampo. Faccio fatica a leggere? Ci sono troppi elementi?
La pagina è troppo lunga, o troppo breve? Ci sono elementi che non capisco? Colori che non apprezzo? Caratteri troppo piccoli o paragrafi troppo
lunghi? Un blog è un sito: è vero che non si sceglie un libro dalla copertina,
ma è anche vero che un’edizione curata e gradevole invita alla lettura.
Il nome, e soprattutto il blurb, ossia quella riga o brevissimo paragrafo
(20-50 parole) che accompagna il nome, sintetizza il contenuto della pagina
o del sito. Le parole scritte, in rete, viaggiano sulle ali dei filtri auditivi? Secondo me sì. Il registro, i toni, le parole e il loro accostamento possono accarezzare o violare il mio udito mentale esattamente come se qualcuno mi par221
lasse. Più che giudicati dal punto di vista qualitativo (belli/brutti, giusti/sbagliati) i blurb vanno valutati in relazione al lettore: sono un esempio di definizione di una semiosfera, di una mappa mentale che, se condivise, creano
istantaneamente simpatia, attrazione, repulsione, amore, disinteresse.
Giorgia di «C’è dell’altro: notizie di umanità sostenibile» comunica in
pochissime parole un’identità femminile (Giorgia potrebbe chiamarsi in
realtà Francesca, o Francesco: ciò che conta è l’identità con cui sceglie di
entrare in relazione con noi), si presenta come una persona che si rifiuta di
cascare nella generalizzazione del «fa tutto schifo» e promette ogni giorno
di andare alla ricerca di quei piccoli segnali di sostenibilità umana. Non è
un blog per cinici, nichilisti, entusiasti del pensiero negativo: inutile fermarsi qui se non si è disposti a sperare.5
Mucho Maas di «Il blog del lotto 49» propone «un contributo (non necessario e insufficiente) al disordine e al calore scambiato, per abbassare
l’energia libera e raggiungere l’equilibrio».6 Registro linguistico alto, utilizzo del vocabolario di una scienza esatta con riferimenti letterari (un libro di
Thomas Pynchon) non alla portata di tutti, ma con un obiettivo ambizioso:
contrasti sul filo dell’ironia in una grafica all’ombra del testo chiaro su
sfondo scuro, ma con frequenti foto di un bimbo, a intenerire il tutto modulando la chiave di lettura. E il blogger, di che sesso è? Chi è alla ricerca di
certezze scapperà più veloce della luce; chi sa apprezzare il gusto di farsi
delle domande e di dubitare di tutto sicuramente no.
Se nelle mie passeggiate in rete incontro Marquant di «Zitti al cinema», che
si descrive come «uno che di solito se ne sta a guardare»,7 e Pulsatilla, che si
dichiara «velenosa allo stato fresco»,8 avrò sicuramente le informazioni emotive per pianificare le mie prossime visite a questi blog. Magari Marquand la domenica pomeriggio, dopo una passeggiata al parco, e Pulsatilla il lunedì prima
della pausa pranzo, per ricaricarsi con un po’ di verve; e dopo pranzo, c’è
«Burp!» che ci promette una «Libera digestione di parole, stimoli, pensieri».9
Nella maggior parte dei casi avremo già definito una relazione con il
blogger sulla base di queste poche parole, frettolosamente scritte registrandosi sulla piattaforma di pubblicazione, insieme a un nome e a un indirizzo.
Comunicazione diretta tra inconsci, mediati da una mappa del mondo
espressa per iscritto che crea immagini, legami.
I newsgroup: un bar dalla conversazione colta e accesa
Ambiente misterioso per la maggior parte dei navigatori, i newsgroup sono il reame del solo testo.10 Anche quando vengono frequentati attraverso le
pagine di un sito (e non usando un newsreader),11 è la parola scritta a cancel222
lare i template che le si affollano intorno, catturando la nostra attenzione cognitiva ed emotiva.12
Qui la parola scritta viene usata e stiracchiata, integrata com’è da una serie di convenzioni e di codici – il quoting, gli emoticon, gli acronimi, le tag,
le FAQ, i crosspost – che sostituiscono egregiamente il registro paraverbale
altrimenti assente, modificando la lingua in un insieme di registri che vanno
dal tecnico al colto o al parlato o al gergale. Questo, unito al fitto intrecciarsi delle discussioni e delle risposte, rende i newsgroup un ambiente difficile
da avvicinare, a prescindere dalla conoscenza delle persone che li frequentano e del contenuto trattato. A differenza di un blog, un newsgroup non ha
un proprietario, è un bar senza gestore: l’anima e lo spirito di ogni newsgroup emergono dall’interazione di tutti i partecipanti, condizionando non
solo i temi della conversazione, ma il vocabolario, la struttura del linguaggio e dei riferimenti.
Il fatto che la conversazione sia più o meno tematica non aiuta affatto:
certo, ci sono argomenti che per essere affrontati implicano la condivisione
di un linguaggio e di una base di conoscenze, come i data base o il sistema
operativo Amiga; per tutti gli altri (il cinema, l’alimentazione, l’appartenenza politica, la passione per Friends o per ER, i viaggi, lo sci) ci si rende conto di come la condivisione di un interesse non implichi l’utilizzo e la padronanza della stessa semiosfera.
E allora, siamo al punto di partenza: qual è l’equivalente, in un newsgroup, del mettere la punta del piede in acqua per saggiarne la temperatura?
La spiaggia l’ho già scelta, ed è l’argomento: scarico centinaia di messaggi,
e per capire se e quali leggere ho solo due informazioni (a prescindere dallo
strumento usato), il mittente e il titolo.13
Ah, l’arte del titolo, della sua composizione e della sua decodifica. Con
tag (etichetta) o senza? E già qui, sarà un’etichetta ufficiale codificata dalla
netiquette, o propria del gruppo? Avrà sicuramente questa forma:
[RFD]
[MANIFESTO]
[UFV]
[X-View]
Un testo tra parentesi quadre, spesso in maiuscolo, usato per categorizzare il contenuto del post (messaggio o articolo). La prima, [RFD], sta per
«request for discussion» (proposta di discussione) e si può abitare Usenet
per anni senza sapere cosa significa: è una tag che avvia la procedura di
apertura di un nuovo gruppo e la si trova solo nei gruppi dedicati a questo
scopo. La seconda, [MANIFESTO], è ugualmente ufficiale, ma la troviamo
223
in tutti i gruppi: è un invio periodico del manifesto del gruppo che la riceve,
utile per i nuovi arrivati. [UFV] sta per «ultimi film visti» ed è un’etichetta
molto usata nel newsgroup it.arti.cinema: indica che in quel messaggio troverete più recensioni, mentre [REVIEW] o [RECE] annunciano una recensione sola. [X-View], infine, è un’etichetta che uso solo io, sempre su
it.arti.cinema: sta per CrossView, ma anche per una X-vista, cioè un modo
di «vedere» un film che non segue affatto le regole classiche della recensione, dove a X sta qualunque cosa tu voglia. A cosa serve? A indicare al lettore che una recensione scritta da me non gli servirà a capire se vale la pena di
vedere o no il film, per esempio. Tutti possiamo inventare delle etichette e
scriverle tra parentesi quadre, ma chiaramente la loro utilità cresce all’aumentare delle persone che ne comprendono il significato (e magari fanno un
filtro apposta per evitare o per «taggare» quei messaggi).
Tutto dannatamente complicato? Per nulla, invece. A ogni tag viene associato un titolo che ci aiuta a capire di cosa si tratta, così:
[RECE] La mala educación (di Pedro Almodovar)
[RECE] L’ultimo di Almodovar
[RECE] L’ennesimo capolavoro di Pedro
Se in questo elenco di titoli (vedi figura nella pagina accanto) trovo qualcosa che mi interessa, mi tuffo e leggo il messaggio (e dal suo contenuto e
dalle risposte deciderò se andare ancora più in profondità o no).
Certo, posso anche fare una ricerca, invece di limitarmi a scorrere gli ultimi
titoli, ma a parte il fatto che mi troverò comunque ancora di fronte a una lista di
titoli, non dimentichiamo che i newsgroup sono conversazioni, non fonti di
informazione precise e ordinate, e che sotto il titolo «La politica di Bush» posso trovare un’accesa boutade sull’ultimo film di Pedro Almodóvar, e viceversa.
E i nomi dei mittenti, mi aiutano ad annusare l’ambiente? Decisamente
sì, ma ne parliamo in chat.
Le chat: una discoteca pubblica e privata
Il primo segnale dell’ambiente che troviamo in una stanza di chat, ambiente velocissimo e sincrono, è l’elenco di chi è collegato in quel momento. L’elenco dei nickname (pseudonimi), che possono essere considerati l’equivalente on-line di abito-capelli-espressione. Anzi, ancora di più: se nel
mondo fisico possiamo anche innamorarci di un ometto stropicciato e malvestito, è un po’ difficile prendere sul serio qualcuno con un nickname
vorrei-ma-non-posso quali Ridge o Principessa. Ambire a personaggi dalla
224
popolarità massificata è un chiaro segnale di scarso appeal, mentre il
nickname poco simpatico è tipico dell’impacciato newbie (pivellino) che
non ha ancora ben capito perché inventarsi un nome nuovo. Entrare in una
chat popolata da Paolorossi, Mariog, Cleopatra, Totti e Salamino è segnale
di un ambiente poco creativo. In alcuni casi, l’elenco dei nickname dà anche
informazioni dirette sull’ambiente: una chat frequentata da Labbradifuoco,
Tileccotutto e Celhoenorme proporrà esperienze diverse da una dove predominano Bambi, Frodo e Fonzie. Pensate a una stanza di chat dove le conversazioni sono soprattutto private (ne esistono parecchie): come fate a scegliere con chi fare la prima mossa?
Un nickname si indossa come una seconda pelle: deve starci bene addosso. In una chat ho usato due nickname distinti, Deirdre (decisamente un nome «takete») e Aenea (decisamente «maluma»):14 per settimane nessuno ha
capito che ero la stessa persona, per quanto io mi comportassi esattamente
nello stesso modo. Il mittente influenza il modo in cui i destinatari analizzano e traducono il messaggio: la stessa frase detta da Deirdre e da Aenea suonava diversa. O magari Aenea e Deirdre si comportavano davvero in modo
diverso e io non me ne rendevo conto: l’esperimento non è affatto scientifico. Certo, i riferimenti culturali condivisi sono elementi capaci di creare un
forte rapport – negativo o positivo – ancora prima di aver scambiato una sola parola.
225
L’e-mail: il cielo in una stanza
E in ciascuno di questi ambienti – che ovviamente mantengono al loro
interno una varietà infinita, pari almeno a quanto sono varie le persone –
può nascere l’inatteso, l’innamoramento carnale, che vivrà, magari solo per
qualche ora, ancora solo di parole, che tenderanno a infilarsi eccitanti in
un’e-mail.
e la riprendo, questa mail.
la riprendo, giusto perché ho voglia di una scusa per scriverti, o perché a ciascuna
mail puoi rispondere ogni giorno in un modo diverso, spesso contraddicendoti, o
perché forse c’è qualcosa da dire che ieri non avevo detto.
Ci si può innamorare via posta elettronica, di qualcuno che non conosci
di persona o di qualcuno che hai già guardato, ma non ancora visto. La prima telefonata di mio marito è stata un’e-mail: era il 1996 e senza Eudora (il
noto programma di posta elettronica) sarebbe stato tutto diverso. Incontrarsi
e conoscersi attraverso un velo solo apparente, quale è la parola scritta, significa calibrarsi, ricalcarsi e guidarsi senza rendersene conto: gli odori e i
movimenti che di persona scatenano l’attrazione in un’e-mail trovano un
formidabile corrispettivo nella scelta delle parole, nell’uso dei filtri sensoriali, nella condivisione di ricordi e di riferimenti che possono essere letti e
riletti e riletti ancora, diventando l’intelaiatura di una relazione costruita su
una rete di parole permanenti, a segnare le tappe di una storia.
Ci sono parole che attraversano lo schermo e ci rimangono tutta una vita,
in carne e ossa ma anche no, perché, come ricorda Giorgia:
non è il blog che rimorchia, come sempre è la scrittura. Dalla missiva alla poesia d’amore,
dall’e-mail al blog. Una storia che continua…15
226
Note
1
La semiosfera è l’insieme dei segni e dei significati condivisi da gruppi di persone. La nozione è stata introdotta dal semiologo Jurij Lotman (La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo
nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia 1985).
2
LÉVY, PIERRE, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli,
Milano 1996, p. 107.
3
Meatspace è, letteralmente, il mondo della carne: è un termine che viene usato in contrapposizione a cyberspace (ciberspazio) per indicare il contesto in cui ci si incontra fisicamente.
Il cyberspace è il mondo digitale, il meatspace il mondo fisico.
4
Per un’ottima introduzione ai blog: http://www.internetnews.it/interna.asp?ln=0&sez=
49&info=579
5
http://cedellaltro.clarence.com
6
http://cryinglot.blogspot.com
7
http://zittialcinema.splinder.com
8
http://pulsatilla.splinder.com
9
http://burp.splinder.com
10
Cosa significano «news» e «Usenet»? Le news sono un sistema pubblico di scambio di
informazioni, messaggi e dati in forma elettronica tra calcolatori in rete. Nate negli Stati Uniti a fine 1979, sono oggi diffuse in tutto il mondo. La struttura delle news consiste nell’avere
moltissimi gruppi specifici di discussione. Ogni gruppo è identificato da un nome, che serve
a riconoscere l’argomento dedicato: per esempio, il gruppo di discussione sui Beatles è
http://rec.music.beatles, mentre quello che contiene i messaggi sulle novità nell’ambiente Linux è http://comp.os.linux.announce. Vedi http://www.news.nic.it/news-it/faq.html#s101
11
Per iniziare, l’accesso via web migliore è http://groups.google.com/
12
Un fenomeno simile avviene con i banner: la mente elimina ciò che non interessa o che disturba: http://www.internettg.org/newsletter/dec98/banner_blindness.html
13
http://www.news.nic.it/gruppi-it.html
14
Su «maluma» e «takete» vedi pagina 46.
15
http://cedellaltro.clarence.com/
227
Organizzazione
L’idea con le persone intorno
di Paolo Carmassi
L’onda sonora, generata dal violento impatto, è stata udita nella sede centrale
del comando […] oltre che dal distaccamento della stazione centrale […],
tanto che tutto il personale in servizio, allarmato, si è preparato per l’uscita
con gli automezzi.
Poco prima dell’impatto, uno dei vigili in servizio presso il distaccamento […],
attirato dal rumore, notava un aeromobile che sorvolava a bassa quota il distaccamento […].
Qualche istante dopo, udendo il forte rumore e intuendo che si fosse verificato un incidente, una squadra usciva dal distaccamento con il carro-soccorso
dopo averlo comunicato alla sala operativa del comando.
Seguendo la direzione della folla, l’automezzo, con i dispositivi ottici e luminosi funzionanti giungeva […] dopo appena una quarantina di secondi dall’impatto.1
NON c’è scritto cos’è successo, né dove e quando, né chi è l’autore del rapporto cui appartiene questo brano. Ma in poche righe l’autore ci ha permesso di
vivere gli aspetti auditivi, cenestesici e visivi di un’esperienza non nostra. Ha
realizzato una sinestesia. Ha presentato l’evento sovrapponendo tutti i canali
sensoriali. Il fumo nasconde la vista di parte dell’edificio, le sirene rendono
afono ogni altro suono, le vibrazioni dell’impatto scuotono l’anima.
È il rapporto dei vigili del fuoco di Milano sull’intervento al grattacielo
Pirelli, sede della Regione Lombardia, il 18 aprile 2002, quando un aereo
sventrò il palazzo provocando vittime e panico. Si tratta di un documento
tecnico di 10 pagine. Chiaro, sintetico e umano. Con i fatti descrive l’organizzazione e come essa si relazioni con l’esterno.
Le mappe di un’organizzazione
La mappa non è il territorio che essa rappresenta, ma, se è esatta, ha una struttura simile a quella del territorio, che ne spiega l’utilità.
Alfred Korzybski 2
Una definizione che spiega perché organigrammi, job description e procedure sono così importanti per un’organizzazione. Che cos’è, dopo tutto, un’or229
ganizzazione? È un’entità sociale guidata da obiettivi, progettata come sistema
di attività strutturate e coordinate, in relazione con l’ambiente esterno.3
E per l’osservatore esterno? È un’idea con le persone intorno. Progetto,
ruoli, competenze. E ciò che rimane di un’organizzazione sono le sue azioni,
raccontate dai documenti.
Per riflettere sulla comunicazione scritta delle organizzazioni, partendo
dal caso del grattacielo Pirelli, ho scelto di analizzare tre documenti: un rapporto, un verbale, una relazione.
Il rapporto è un documento analitico che fa il punto su una situazione. Il
verbale è un documento sintetico e steso a conclusione di un processo; è
sottoscritto dai protagonisti e rende note decisioni anche di carattere contrattuale. La relazione dà vita in modo ordinato e creativo a un’attività.
Dopo aver visto il rapporto dei vigili del fuoco di Milano, esaminiamo
altri due documenti del caso Pirelli: il verbale della commissione tecnicoscientifica che ha indirizzato la Regione Lombardia verso il restauro, e alcuni passi della relazione che ha motivato le ragioni del restauro stesso.
Il verbale: le linee guida del restauro
Dopo il tragico evento, garantita la solidità dell’edificio, la Regione Lombardia doveva scegliere se ricostruire oppure restaurare l’intera facciata del
grattacielo: 9500 mq di superficie. In poco più di 2000 battute, la commissione tecnico-scientifica suggerisce la via del restauro, confermando:
1. l’esigenza che il complesso di interventi sul grattacielo Pirelli sia caratterizzato da
forte organicità di approccio per tutte le componenti dell’edificio e sia gestito
con project management capace di assicurare il perseguimento degli obiettivi nei
tempi e con i costi preventivati;
2. l’esigenza di indirizzare l’intervento sia sulle strutture e spazi interni nonché sulle
facciate continue a obiettivi di conservazione e restauro che valorizzino al meglio
la qualità progettuale originaria e i materiali in opera, al fine di garantire la salvaguardia dell’alto valore artistico e culturale della sede della Regione Lombardia;
3. l’esigenza che le prestazioni e la funzionalità dell’edificio siano perfettamente
adeguati ai requisiti di sicurezza, di comfort e risparmio energetico.
Impatto cenestesico: forte organicità, approccio, strutture, materiali in
opera, comfort. Parole che esprimono concretezza in un documento che lancia una sfida: per la prima volta al mondo si potrebbe indire una gara per il
restauro conservativo di un’opera di architettura contemporanea, di questo
livello e valore. La commissione chiude con il verbale il proprio lavoro.
230
Suggerisce i modi, l’indirizzo e i contenuti nominalizzando tre volte il verbo
«esigere»: un comando nascosto, più che un suggerimento.
Relazioni e presentazioni: da Cicerone a Le Roux
Exordium, narratio e argumentatio, peroratio: è il modello retorico di
Cicerone, che testimonia quanto sia antica l’esigenza di dare una struttura
all’argomentazione. Con un salto di duemila anni passiamo al francese Paul
Le Roux, cui dobbiamo un modello di presentazione in sette fasi:4
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
visione d’insieme
problema/bisogno
idea/soluzione
evidenze
vantaggi
riepilogo
azione.5
Il modello di Le Roux è potente. Ricalca e guida, lavora prima sulla relazione poi sul contenuto, adottando il ritmo più favorevole.6 Seguire il racconto diventa logico, semplice, interessante, a volte divertente.
Prima di esaminare la relazione della commissione restauro, costruita
proprio con il modello di Le Roux, vediamo alcuni alleati del modello stesso.
Il problema produttivo
Un problema comunica quasi sempre fastidio. Se possibile, lo schiviamo. Forse per questo dedichiamo molta attenzione alla soluzione e poca al
problema. Opinioni illustri in proposito:
La formulazione di un problema è spesso più essenziale della sua soluzione, la quale
può essere esclusivamente una questione di abilità matematica o empirica.
Albert Einstein e Leopold Infeld
L’immaginare e formulare un problema produttivo rappresenta spesso una conquista
più grande e importante della soluzione di un problema già posto.
Max Wertheimer
Formulazione del problema, immaginazione. Creatività, dunque.
231
Il processo creativo
Alcuni studiosi hanno individuato tre fasi del processo creativo:
1. saturazione:–è la ricerca: osservare, analizzare, raccogliere (non è poi la
calibrazione?);
2. incubazione:–è la riflessione: selezionare e classificare ciò che si è trovato;
3. illuminazione:–è un attimo: presenta all’improvviso la soluzione.
L’obiettivo di questa teoria è smontare il pregiudizio che la creatività sia
un «talento», per dimostrare che è una questione di metodo.7
Ma un punto debole del processo creativo è il tempo: come accelerare le
fasi? Tramite ascolto attivo e cluster.
L’ascolto attivo
Nelle relazioni interpersonali la vera comunicazione avviene quando si
ascolta. È così che possiamo capire l’altro: vedere l’idea dal suo punto di vista, percepire e comprendere la sua esperienza.
Nella fase di saturazione l’ascolto attivo è centrale. Il rischio è di cadere
nella tentazione di completare la scarsità di dati oggettivi con la deduzione,
e quindi valutare un fatto da un punto di partenza errato, o parziale. Meglio
sospendere il giudizio e limitarsi, appunto, ad ascoltare.
Il cluster
Il cluster, o grappolo, è un metodo che stimola le associazioni del pensiero, esplora le idee che emergono dalla mente e le dispone in una mappa.
Aiuta a selezionare e ordinare le informazioni provenienti dalla saturazione
e ad accelerare il processo d’incubazione. Permette di cogliere particolari
utili per ricalcare chi leggerà o ascolterà la nostra presentazione.8
La relazione della commissione restauro
La relazione della commissione restauro (circa un’ora, 45 slide e 14 filmati) è presentata il 5 novembre 2002 al Collegio degli ingegneri e architetti di Milano. Un luogo simbolico per ricalco e rapport. Relatore Pietro Petraroia, direttore generale Culture, identità e autonomie della Regione Lombardia, con accanto un relatore ideale: l’architetto Gio Ponti, progettista del
grattacielo Pirelli (da un’intervista RAI del 1974).
All’inizio l’obiettivo è stabilire rapport con il pubblico: addetti ai lavori
del mondo accademico, giornalistico, industriale, istituzionale, di governo.
L’azione di ricalco inizia ancor prima della relazione. Mentre il presidente
232
Il cluster da cui è nato questo capitolo.
della Regione introduce i lavori, alle sue spalle scorrono foto artistiche che
raccontano la costruzione del grattacielo.
1. Visione d’insieme: ricalco e rapport—Nel silenzio della sala semioscura,
sul grande schermo appare un’immagine sbiadita. Campo stretto. La mano di un uomo sta scrivendo: «Cos’è l’architettura? Naturalmente quella
moderna». Campo lungo e appare Gio Ponti che dice: «L’edificio che mi
piace di più è quello che gli architetti realizzeranno nel futuro». A questo
punto, Petraroia: «È lui, l’architetto, il protagonista di questo incontro,
insieme a tutti gli altri che nel gruppo progettuale così affiatato e così
ricco di produzione creativa, di capacità, di razionalità».
Un ricalco che stabilisce fiducia e credibilità, riduce le resistenze, avvicina le identità senza violare le convinzioni. Favorisce il rapport.
2. Problema/bisogno: il problema produttivo—Terminata l’opera di messa
in sicurezza, bisognava ripristinare l’operatività degli uffici. Qual è stata
l’intuizione che ha trasformato il problema in problema produttivo? Una
citazione del 1959 di Cesare Brandi, critico e storico dell’arte, aiuta a ridefinire la questione:
Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista
della sua trasmissione al futuro.
233
A questo punto Petraroia prosegue:
Si è sviluppato quel processo di riconoscimento che è proprio del rapporto che si instaura con l’opera d’arte al momento in cui se ne colgono i valori. […] Capita oggi al
grattacielo Pirelli quello che è capitato nel 1977 al Cenacolo o più recentemente alla
Cappella Sistina: a seguito di un evento accidentale inizia un’azione di ricerca e un
processo di riconoscimento dei valori che poi conduce a strutturare un adeguato intervento di restauro.9
Dunque è vero che la formulazione di un problema è spesso più essenziale della sua soluzione.
3. Idea/soluzione: il processo creativo—Appare chiaro l’indirizzo che il relatore vuol dare: «Dall’emergenza al riconoscimento di un’opera d’arte». È la nuova prospettiva, la soluzione al problema. È il risultato del lavoro di saturazione, incubazione e illuminazione.
4. e 5.–Evidenze e vantaggi—Evidenze e vantaggi possono fondersi, argomentando del Pirelli: il valore estetico, il valore storico, il valore del processo formativo e di pensiero, il ruolo dell’Italia (arte, industria, artigianato, design), il ruolo del committente, i modelli e le prove di cantiere, la
concezione organica dell’edificio Pirelli, la squadra, le linee guida del
progetto di restauro. Le evidenze rendono oggettiva l’idea, i vantaggi la
proiettano nel futuro di chi ascolta.
6. e 7.–Riepilogo e azione: la guida e l’àncora—È da quando ha iniziato a
illustrare la propria idea che il relatore sta ricalcando e guidando: ora
raccoglie i frutti del suo lavoro. Ripercorre i momenti principali della
presentazione (riepilogo) e chiude (azione) parlando del concetto di restauro nell’architettura contemporanea:
A conclusione, una riflessione sui tre tempi dell’opera d’arte: il tempo della creazione, il tempo della vita con l’epoca Pirelli e con l’epoca della Regione Lombardia, il
tempo attuale nel quale sentiamo il bisogno di recuperare. A Stoccolma [Istituto di
cultura italiano, progetto di Ponti e coevo del Pirelli, n.d.r.] il caso ha fatto sì che non
ci fossero più risorse per sostituire l’arredo originario con un arredo nuovo come mi
ha raccontato a suo tempo il direttore dell’istituto. Oggi, andando a guardare questo
auditorium, questi spazi, abbiamo davvero la percezione di quanto poteva essere
bello conservare ovunque un insieme così suggestivo.
«Quanto poteva essere bello conservare»: suggerimento neanche troppo
nascosto. Il racconto è sostenuto con forza da una sequenza di foto. Anche l’Istituto di cultura italiano di Stoccolma è un piccolo compendio
dell’opera di Ponti: architettura, materiali, arredi. Inevitabile la comparazione con il Pirelli.
234
Nel silenzio assoluto, parte l’ultimo intervento di Gio Ponti. Campo lungo, l’architetto è di fronte al grattacielo:
Picasso diceva: «chi è giovane è giovane sempre». Questo edificio è nato giovane e
adesso è come se fosse fatto oggi. Cioè non è invecchiato e non invecchierà mai perché è un edificio essenziale e l’essenzialità è una virtù che non si può superare. Venivo da un pensiero che non è mai cambiato. Mi piace poter costruire secondo un’essenzialità di pensieri. Potremmo anche essere nel 2004.
Con tutti gli anni che avrebbe potuto scegliere (l’intervista è del 1974),
Ponti sceglie il 2004, proprio quello in cui il grattacielo avrebbe riaperto le
porte. Incredibile. Un’àncora potentissima colta da Petraroia, cui fa seguire
una guida altrettanto potente:
«Potremmo essere anche nel 2004.» Questa è la sfida che Gio Ponti ci ha lanciato in
questo filmato che la Rai ha mandato in onda nel 1975 e che ha costituito anche per
noi l’occasione di un dialogo con il progettista. Grazie.
I due maestri
Potessimo tornare indietro e modificare ciò che è stato. Trasformare un
dato di fatto in un problema e cercarne la soluzione. Un CTRL+Z, come nel
computer, per rimettere indietro l’orologio alle 17:46 del 18 aprile 2002, e
togliere tutto il dolore.
Parlare del Pirelli per commentare un rapporto, un verbale, una relazione
è stato solo un pretesto: l’edificio come metafora dell’organizzazione, il restauro come metafora del valore delle relazioni umane.
Il sistema di convinzioni contenuto nella frase che chiude questo capitolo abbraccia tutto ciò di cui abbiamo trattato e più ancora. E appartiene a un
uomo che Gio Ponti chiamava amico e maestro:
Se la società umana raggiungesse una solidarietà, e una distribuzione delle funzioni
in relazione alle effettive capacità dei singoli, paragonabile a quella che si realizza in
una complessa struttura cementizia, molti dei problemi materiali e morali che ci affannano troverebbero completa soluzione.10
Era il cenestesico, architetto e ingegnere, Pier Luigi Nervi.
235
Note
1
http://www.restauropalazzopirelli.org/18aprile/index.htm
KORZYBSKI, ALFRED, Science and Sanity, The International Non-Aristotelian Library Publishing, Lakeville (CT) 1933.
3
La definizione è di Enrica Baccini, ricercatrice e docente universitaria che ringrazio per
l’aiuto fornitomi nella stesura di questo contributo.
4
Il numero 7 non è casuale: la mente sarebbe in grado di visualizzare e comprendere sette differenti categorie logiche con uno scostamento pari a più o meno due. Vedi MILLER, GEORGE,
«The Magical Number Seven, Plus or Minus Two. Some Limits on Our Capacity for Processing Information», Psychological Review, a. LXIII, n. 2, 1956.
5
LE ROUX, PAUL, Presentare per convincere. Strategie di presentazione, 2ª ed., Lupetti, Milano 1995.
6
In ogni comunicazione umana possiamo osservare un aspetto collegato al contenuto e uno
alla relazione. Si veda: WATZLAWICK, PAUL - HELMICK BEAVIN, JANET - JACKSON, DON D.,
Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971, pp. 43-46.
7
EDWARDS, BETTY, Disegnare ascoltando l’artista che è in noi. Guida all’invenzione, all’immaginazione, alla creatività, Longanesi, Milano 1987, pp. 12-19.
8
Due ottime risorse web: il «quaderno» di Umberto Santucci nel sito di Luisa Carrada,
http://www.mestierediscrivere.com/pdf/mappementali.pdf, e il sito http://www.gabrielerico.
com
9
Pietro Petraroia ha diretto i lavori di restauro dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, nella
chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, dal 1991 fino alla conclusione, nel 1999.
10
NERVI, PIER LUIGI, «L’ossatura», in «Il centro Pirelli», Edilizia moderna, n. 71, Milano
1960, p. 38.
2
236
Politica
Europee 2004:
un esempio di scomunicazione
di Claudio Maffei
SABATO 26 giugno 2004 si sono aperte le urne per i ballottaggi delle amministrative e, contemporaneamente, si è chiusa la più brutta e povera campagna elettorale degli ultimi trent’anni.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso? Il SMS di Ombretta Colli sui
cellulari degli elettori della Provincia di Milano: «Vota cinque anni di buon
lavoro».
Sono trent’anni che mi occupo di campagne elettorali. Mi piace considerarmi un artigiano della comunicazione politica. Non ho mai pensato che il
comunicatore possa definirsi un «tecnico», e mi piace citare ciò che diceva un
grande come Gregory Bateson: «Coloro ai quali sfugge completamente l’idea
che è possibile avere torto, non possono imparare nulla se non la tecnica».1
Comunicazione = ascolto
La comunicazione è essenzialmente ascolto. Produce cultura, permea i
valori e i comportamenti di tutti noi. Valori e comportamenti che cambiano
continuamente. Per comunicare bisogna essere creativi, avere competenze,
capacità d’innovazione e, soprattutto, cogliere i segnali deboli della società.
Se tutto ciò è valido per vendere un sugo o un detersivo, pensate quanto
può essere importante per avere la fiducia degli elettori.
Mai come ora, il tentativo di studiare i fenomeni senza giudicarli mi riesce difficile. L’impressione è che i politici italiani abbiano completamente
dimenticato le regole della comunicazione.
La totale personalizzazione dei messaggi fa appiattire anche i creativi
più raffinati.
237
Quali sono gli argomenti? Qual è la scelta dei media? La maggior parte
delle campagne si sono avvalse della sola affissione con il solito faccione in
primo piano, sia da parte dei big nazionali sia da parte degli sconosciuti
peones.
Non si può non citare Silvio Berlusconi. Tutti gli addetti ai lavori sono
rimasti sorpresi nel vederlo ritratto in una foto in cui non guardava in faccia
l’elettore, con uno sguardo obliquo che gli conferiva un’aria elusiva. E i testi? A dir poco, scontati.
Il tempo pieno a scuola: più scelta e più qualità per le famiglie.
Grandi opere attivate per 93.000 miliardi di lire (lire? ).
Immigrati clandestini –40%.
Ridotta al 33% l’imposta sulle imprese.
1.558.000 pensioni aumentate ai pensionati più poveri.
Per essere protagonisti in Europa e nel mondo.
Al di là della scarsa carica emotiva dei numeri, ci sarà ancora qualcuno
che crede a frasi che iniziano con Per essere protagonisti…?
E l’opposizione?
Dal demagogico
Scuole, pensioni, ospedali. Non bugie.
al terroristico
Arrivi a fine mese?
Sembra, come al solito, appiattirsi sulla critica invece che sulla proposta
alternativa.
Forse la scelta migliore, in senso tecnico, l’ha fatta l’UDC col suo:
Io c’entro.
È un messaggio estremamente sintetico che può essere letto in almeno
tre modi:
1. letterale:–sono cose che mi riguardano;
2. induttivo:–io ci entro, partecipo;
3. subliminale:–si ottiene togliendo l’apostrofo e facendo apparire la parola
centro che da sempre seduce gran parte degli elettori del nostro paese.
238
Chi temeva persuasori occulti e un uso spregiudicato di internet scopre
di aver sbagliato tutto. Dire che siamo fermi agli anni Sessanta è ottimistico.
Oliviero Toscani ha definito questa campagna «sovietica», e il sociologo
Vanni Codeluppi «elementare, arretrata, poco inventiva».
Nel mio archivio ho ritrovato i manifesti del Partito comunista, della Democrazia cristiana, del Partito liberale, del Partito repubblicano e del Partito
socialista per le elezioni europee del 1984.
È evidente l’uso di agenzie, creativi e copywriter che sapevano coinvolgere e intrigare l’elettore come ancor oggi vediamo fare per gli spot dei prodotti di largo consumo.
Invece nella politica si è persa la creatività, dimenticando di costruire
un’identità di marca: i manifesti di Berlusconi non recavano neppure il simbolo di Forza Italia.
Parole senza emozioni
Le parole senza emozioni colpiscono le orecchie, ma non il cuore.
Quello che la politica oggi non ha il coraggio di fare è esplorare le possibilità di linguaggio, ricordando che parlare «con la gente» è diverso dal parlare «alla gente».
La politica dovrebbe lasciare il proprio linguaggio per adottare quello
della gente, per riuscire così a portare il proprio target all’azione, alla partecipazione. Dovrebbe anche saper integrare la serietà dei fini con la mondanità dei mezzi, puntare cioè su aspetti ludici, sperimentare forme nuove di
linguaggio.
Non si può certo scrivere un SMS come un volantino elettorale.
Noto molta paura, molta difficoltà a leggere il nostro tempo. Il risultato
sono tutte queste facce sparse sui muri che non hanno altro da dire che il
proprio nome, ripetuto ossessivamente sperando di entrare nella testa della
gente (ricordate Votantonio?).
Ma arriva il momento in cui la gente non ascolta più.
L’aspetto neurolinguistico
Il nostro cervello è, come tutti sappiamo, composto da due emisferi. L’emisfero sinistro presiede a razionalità, realtà, tecnica, descrizione, ragione,
linguaggio, scrittura, calcolo. L’emisfero destro presiede a intuito, sogno,
arte, creatività, sentimento, pensiero non verbale, organizzazione spaziale.
Paul Watzlawick, lo psicoanalista statunitense di origine austriaca, parla ad239
dirittura di cervello uno e bino. Di cervello digitale e cervello analogico.
Prendiamo questi due testi:
I conduttori non potranno vantare alcuna pretesa né richiedere compenso o indennità alcuna dall’istituto per eventuali miglioramenti e addizioni apportati alla cosa locata anche se col consenso dell’istituto stesso, né il valore di detti miglioramenti e
addizioni potrà compensare agli eventuali deterioramenti della cosa locata anche se
verificatisi senza colpa grave dei conduttori.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
(Dante Alighieri, Vita Nuova)
Il primo è una clausola di un contratto d’affitto (pardon, locazione). Il
secondo è l’inizio di una poesia di Dante.
Che cos’hanno in comune? Solo che sono scritti in italiano, nel rispetto
delle regole della grammatica e della sintassi.
Ma il primo testo è stato scritto con un linguaggio amministrativo, privo
di emozioni, tipico della comunicazione digitale, inviata e recepita dall’emisfero sinistro. Il secondo testo è un modello tipico della comunicazione analogica, inviato e recepito con l’emisfero destro. I due stili non sono intercambiabili: non è possibile raccontare sentimenti con linguaggio tecnico né
mettere in rima le istruzioni per un elettrodomestico.
Potenza del ricalco emotivo
Tutto ciò è ben chiaro ai guru della pubblicità. Infatti, chi deve vendere
prodotti di largo consumo in 15-30 secondi di spot sa benissimo che deve
colpire l’emisfero destro del cervello.
Tutti noi lo facciamo quando parliamo con una sola persona: automaticamente, a livello inconscio, mettiamo in atto il ricalco. Per essergli familiare,
per attivare il suo sistema parasimpatico, per predisporlo all’ascolto, all’accettazione, alle nuove possibilità.
Oltre al ricalco non verbale (postura e gestualità) e a quello paraverbale
(toni, ritmi, velocità), molto efficace è il ricalco verbale, che significa usare
lo stesso regime linguistico, e il ricalco emotivo, che consiste nel vivere le
stesse emozioni dell’altro.
Nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro sono registrate più di 400.000 parole.2 Sono le parole usate nella lingua italiana da
240
Dante Alighieri ai giorni nostri, compresi i termini scientifici o tecnici. Ma
la maggior parte di noi ne usa comunemente 2500.3
Di queste, 200-250 sono quelle che gli americani chiamano le hot-word
di ogni persona, cioè le parole calde. Quelle che ci fanno capire qual è il filtro sensoriale preferito dal nostro interlocutore: visivo, auditivo, cenestesico. E non è finita qui: ogni persona ha circa 50 key-word, le parole chiave
con un significato particolare a livello emotivo, valoriale, sensoriale.
Le key-word vengono pronunciate più volte e con trasporto, da ciascuno
di noi, durante un discorso, e inserite nei nostri testi: sono dei veri e propri
segnali d’accesso emotivi, che chiunque può abituarsi a leggere.
Le parole che scegliamo abitualmente influiscono anche sul modo di comunicare con noi stessi e, quindi, su quello che proviamo. Le parole possono ferire il nostro ego o infiammare il nostro cuore. Possiamo cambiare
qualsiasi esperienza emozionale anche solo scegliendo parole diverse per
descrivere a noi stessi ciò che proviamo. Se prendiamo l’abitudine di dire
che odiamo certe cose, ciò aumenterà l’intensità del nostro stato negativo.
Se invece usiamo un’espressione tipo preferirei fare qualcos’altro, il nostro
stato emozionale sarà del tutto diverso.
La neurolinguistica ha dimostrato che siamo plasmati dal nostro linguaggio. E io sono certo che una delle ragioni per cui assomigliamo alle persone
della nostra famiglia è che riceviamo fin da bambini alcuni dei loro moduli
emozionali adottando il loro vocabolario.
Se tutto ciò è valido per il linguaggio uno a uno, come facciamo a trasporlo a livello di comunicazione di massa?
Torniamo all’esempio della pubblicità commerciale. Qui si parla di posizionamento: significa individuare il gruppo a cui parlare, il suo sistema di
valori (miti, riti, credenze omogenee). In altre parole, si cerca di conoscere
il DNA per parlare non più il linguaggio di un singolo bensì il linguaggio
del gruppo.
Si stima che oggi in Italia vengano trasmessi alla TV oltre 3000 messaggi pubblicitari al giorno. È chiaro che la mente del consumatore tende a selezionare ciò che più gli interessa, cancellando la stragrande maggioranza
delle informazioni proposte.
Un prodotto sarà efficacemente posizionato solo se riuscirà a conquistarsi il proprio posto nella graduatoria delle preferenze dei consumatori.
Il posizionamento non è un intervento sul prodotto, ma un intervento sui
valori. I miti, i riti, le credenze del consumatore.
241
La finestra sul futuro
Già il presidente statunitense Roosevelt aveva capito l’importanza di pianificare la sua offerta politica attraverso una strategia di marketing e di comunicazione. La sua vittoria fu facilitata dall’aver individuato con precisione il suo elettorato e avergli indirizzato il giusto messaggio. Nel 1975 Margaret Thatcher si affidò a una sconosciuta agenzia di pubblicità, la Saatchi
& Saatchi, centrando l’obiettivo. Nel 1981 il candidato alla presidenza della
repubblica francese François Mitterrand, aiutato dal grande copywriter Jacques Séguéla, decise di stravolgere il tradizionale messaggio del Partito socialista francese per andare incontro all’elettorato moderato. Séguéla imbandierò Parigi di manifesti, coniando per il leader socialista uno slogan geniale, La force tranquille (La forza tranquilla).
Il focus del politico si sposta in questi anni dal candidato all’elettore.
Anche Silvio Berlusconi nel 2001 imbandierò le città italiane con scritte
brevi e lapidarie. «Meno tasse per tutti», «Pensioni più dignitose», «Città
più sicure», «Adozioni più facili».
Il comune denominatore di questi slogan è la finestra sul futuro.
Quello che un politico deve sempre fare è dare speranze, così come un
prodotto non si vende perché è una polvere da bucato, ma perché lava più
bianco, non perché è una pasta ma perché dove c’è Barilla c’è casa.
Un premier che guarda in basso e snocciola le fredde cifre dei (presunti)
risultati ottenuti dal suo governo non guarda al futuro, ma al passato; in questa campagna elettorale pochi altri hanno saputo fare di meglio.
Un grande esempio di sognatore è stato invece John Kennedy. Nel discorso di accettazione della candidatura alla convention democratica nel
1960, disse:
È il momento per una nuova generazione di leadership: uomini nuovi per affrontare
nuovi problemi e nuove opportunità. Stasera guardo verso ovest, che era una volta la
nostra ultima frontiera. Noi oggi siamo davanti a una Nuova Frontiera, la frontiera degli anni Sessanta, la frontiera delle opportunità e dei pericoli sconosciuti, la frontiera
delle speranze insoddisfatte. Io credo che i tempi richiedano nuove invenzioni, innovazione, immaginazione, decisione. Chiedo a ciascuno di voi di essere pioniere di questa
nuova frontiera. Perché del coraggio, non del compiacimento, abbiamo bisogno oggi;
di una guida, non di un venditore. E l’unica prova valida della leadership è la capacità
di guidare, e di guidare con vigore.
242
Note
1
Antropologo, sociologo, cibernetico, Gregory Batenson è uno dei più importanti studiosi dell’organizzazione sociale del XX secolo. Ispiratore del lavoro iniziale di Richard Bandler e John
Grinder, Batenson ha firmato la prefazione al loro La struttura della magia (Astrolabio, Roma
1981); http://www.oikos.org/batit.htm, http://www.global-vsion.org/bateson.html
2
Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, UTET, Torino
1999-2000.
3
È interessante visitare il sito internet http://www.dueparole.it, creato proprio da Tullio De
Mauro per dimostrare come si potrebbe scrivere un giornale usando solo le parole del «dizionario di base».
243
Quotidie
Il diario:
come la scrittura crea il mondo
di Nilda Tempini
Ormai so che queste note di diario non contano per la loro scoperta esplicita,
ma per lo spiraglio che aprono sul modo che inconsciamente ho di essere. Quello che dico non è vero, ma tradisce – per il fatto solo che lo dico – il mio essere.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 27 ottobre 1946
SE la scrittura è un mezzo per comunicare con altri, allora non esiste paradosso più evidente del diario, scrittura nella quale per definizione l’Altro
non esiste e quindi, a rigore, non esiste neppure comunicazione. Eppure,
non vi è esperienza di scrittura più comune e diffusa.
Prolungamento di quel soliloquio silenzioso che siamo abituati a definire
«monologo interiore» o «flusso di coscienza», il diario sembrerebbe non
differenziarsene: libero da qualsiasi vincolo comunicativo, raccoglie pensieri spesso frammentari e ripetitivi, procede per associazioni talora incomprensibili se non per lo scrivente, sottintende e sottace molti contenuti che
sarebbe superfluo esplicitare perché ben noti all’autore.
A rifletterci, però, la differenza c’è, eccome: il diario cristallizza in forma scritta l’elusivo e informe pensiero solo pensato, cioè consente di esteriorizzare il linguaggio interno dello scrivente, dandogli quella forma che lo
rende comunicabile. Così, spezzando il circolo vizioso creato dal fatto che
autore e destinatario coincidono, il diario offre la possibilità di guardare al
proprio pensiero come fosse altro da sé.
Proviamo allora a immaginare la scrittura diaristica come una finestra,
aperta sulla nostra mente e sul modo nel quale essa struttura linguisticamente
la nostra percezione della realtà. Potremo così sfuggire al limite insito nella
metafora del diario come specchio, con i suoi ingannevoli e vischiosi giochi di
riflessione (la psicanalisi sostiene l’impossibilità dell’autoanalisi). In questo
modo lo scrivere per sé potrà diventare un utile strumento per capire come funziona il nostro pensiero, con i suoi limiti, i suoi tic, le sue cecità e le sue manie.
Insomma, come intuiva Pavese, «scoprire il modo che inconsciamente
abbiamo di essere», che però è appunto il modo, la forma che «per il solo
245
fatto di dirla» imponiamo al nostro essere, ma non è il nostro essere, né tanto meno è l’essere del mondo.1
Infatti, a partire dagli studi effettuati a partire da fine anni Venti del secolo scorso dallo psicologo russo Lëv Vygotskij, è opinione diffusa che il pensiero non sia un puro atto spirituale innato, un’ideazione primitiva e astratta,
completa in sé, dalla quale è nato il linguaggio.
Al contrario, sarebbe invece il pensiero a essere derivato dal linguaggio,
come esito finale di un processo di progressiva interiorizzazione legato alla
storia – cognitiva e sociale – dell’umanità. Ovvero, sarebbe proprio l’attitudine biologica al linguaggio, che l’uomo porta inscritta nel proprio codice
genetico, l’origine non solo della storia di relazioni interpersonali che hanno generato la società umana, ma anche l’origine di ogni elaborazione intellettuale. Il pensiero quindi non si incarna nella parola, secondo Vygotskij,
anche se nella parola si conclude. Proprio per questo è la parola, o meglio la
struttura che scegliamo per organizzare le nostre parole, che ci consente di
comprendere profondamente il nostro pensiero.
E quanto più chiaramente, quanto più correttamente e consapevolmente
impareremo a pensare, tanto meglio scriveremo: per noi e, soprattutto, per
gli altri (da qui il motto clear writer, clear thinker).
Torniamo alla pagina citata del diario di Pavese: si apre con tre brevi frasi, così secche e perentorie da non ammettere (apparentemente) dubbi o
smentite, e prosegue con tre righe racchiuse in una parentesi:
Quel che accade una volta, accade sempre. Salvo interventi esterni. Ma allora sarà un
fatto negativo.
(Un tale si comporterà sempre in un modo.
Diverrà paralitico e non potrà più.
Non farà in un altro modo, farà niente.)2
Ne riceviamo la stessa sensazione di fatalismo tragico che riecheggia
nelle ultime parole del diario del 18 agosto 1950.
La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio.
[…]
Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.3
Di nuovo troviamo l’espressione di leggi assolute e universali che reggono il mondo, spietatamente, ineluttabilmente: non il nostro mondo, forse, ma
246
quello che intrappolava lo scrittore, e al quale egli avrebbe ceduto poco più
tardi, nella solitudine di una camera d’albergo, la notte fra 26 e 27 agosto.
Naturalmente c’è in noi lettori una capacità empatica, emotiva, di comprendere il senso soggettivo di questi pensieri che Pavese annotava nei suoi
diari. Chi non ha mai pensato almeno una volta nella propria vita: tutto questo fa schifo? Quale adolescente non ha mai scritto nel proprio diario: nessuno mi capisce?
Tuttavia noi non siamo prigionieri del senso particolare – uno solo fra i
molti significati oggettivi possibili – che Pavese attribuiva alla propria esperienza della realtà. Noi sappiamo che non è vero che ciò che accade una volta dovrà sempre e necessariamente ripetersi e accadere ancora e ancora e
ancora; sappiamo che non solo i fattori esterni a noi, ma anche noi stessi abbiamo un potere su quelle circostanze e che quindi, il cambiamento delle
circostanze non è sempre negativo. Sappiamo che nessun essere vivente ha
un solo modo possibile di comportarsi, e che a fare schifo non è tutto, cioè
ogni singolo aspetto di ogni singolo momento della nostra vita, bensì solo
un determinato aspetto in un determinato momento.
Sappiamo insomma che la realtà modellata dalle parole di Pavese è cancellata, generalizzata e deformata come un paesaggio guardato attraverso il
fondo di un bicchiere.
Fra le tacite regole che impariamo fin da bambini sulla struttura della nostra lingua, infatti, vi è anche quella che ci consente di capire che le espressioni sopra citate (accade sempre; tutto questa fa schifo; non potrà più; non
farà in altro modo; si comporterà sempre ecc.) sono il risultato di mutilazioni arbitrarie operate su singole esperienze della realtà e quindi non rappresentano il mondo, ma solo una sua mappa rozza e approssimativa. Con
l’aiuto del metamodello, in questa mappa possiamo intuire l’esistenza dei
vasti territori nei quali Pavese ha smarrito il significato della realtà.
In altre parole, potremmo dire che ciascuno di noi crea da sé i confini
del proprio mondo e, purtroppo, talvolta anche le mura della propria prigione.
C’è infatti una contraddizione insita nei tre meccanismi universali – generalizzazione, cancellazione e deformazione – con i quali gli esseri umani
modellano la realtà attraverso il linguaggio: che tali meccanismi possono
sia consentirci di muoverci efficacemente in un mondo tanto più grande di
noi e della nostra capacità di comprensione, sia intrappolarci dolorosamente
in un cantuccio limitato e soffocante di quello stesso mondo.
Se infatti quella mappa, pur rozza e approssimativa, fosse la sola a nostra
disposizione per orizzontarci, come stupirci se a un viaggiatore più esperto
il nostro percorso apparisse illogico? Tuttavia esso sarebbe pur sempre per
noi il miglior percorso possibile, il solo percorribile. Perché:
247
ci vuole un nuovo punto di partenza. Essendosi la mente abituata a un certo meccanismo di creazione, è necessario uno sforzo altrettanto meccanico per uscirne e sostituire ai monotoni frutti spirituali, che si riproducono, un nuovo frutto che sappia di
ignoto, di innesto inaudito. […] Senza questo scatto materiale, non posso uscire
dalla pigra e anch’essa quindi materiale riduzione abitudinaria di ogni situazione in
schema.4
Così, nel leggere le note del diario di Pavese, possiamo cercare di comprendere (comprendere, anziché giudicare, come invece spesso preferiamo
fare) il dramma racchiuso nella sua incapacità di superare quella mappa, pur
intuendone non solo i limiti ma anche la natura.
Una comprensione che potrebbe (dovrebbe?) aiutarci ad affrontare le altre simili impasse esistenziali nelle quali quotidianamente ci imbattiamo: da
quelle di un figlio, un amore, un amico, un collega sino, forse, alle nostre.
Nella scrittura sembra possibile separare il pensiero da colui che lo pensa, oggettivandolo, per permettere anche a colui che pensa, di «ascoltarsi».
Lo studio dei modelli neurolinguistici ci insegna a riconoscere i meccanismi
linguistici attraverso i quali alteriamo e impoveriamo la realtà sino a
confondere la mappa con il territorio. Così ci permette una nuova lettura
delle nostre strutture comunicative.
Note
1
Pavese, dunque, come Alfred Korzybski: «la mappa non è il territorio», una delle affermazioni fondanti della PNL.
2
PAVESE, CESARE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2001, p. 322.
3
Ibidem, p. 400.
4
Ibidem, p. 12.
248
Radio e TV
Informazione e linguaggi dell’etere
di Tiziana Valtolina
Sistemi rappresentazionali
Per farsi capire da un’altra persona è necessario condividere una serie
di regole sul modo di parlare e interpretare suoni e immagini. Un po’ come
accade all’antropologo in una tribù: se tra lui e gli indigeni non si trova un
accordo per interpretare la realtà e tradurla in parole, la comprensione è impossibile.
Pensiamo a due persone che parlano e una delle due storpia le parole
(per esempio, amore/amaro, antilopi/antipodi). Perché si capiscano, chi
ascolta deve saper distinguere il significato letterale delle parole dalle reali
intenzioni del parlante.
I modelli di comunicazione esistono solo in questo senso: non un modello valido per tutti, ma certi modelli che funzionano in certi contesti. Non è
importante condividere un linguaggio per capirsi. Basta avere uno stesso
modo di interpretare l’interlocutore. È quello che la neurolinguistica definisce ricalco, che avviene attraverso i tre canali d’ingresso sensoriali: vista,
udito e cenestesia.
«Il ricalco», spiega Luciana Brandi, docente di Psicolinguistica a Firenze, «è imitazione. È una parte fondamentale del comportamento anche linguistico. L’imitazione però è solo la base su cui innestare un linguaggio
creativo; è un prerequisito che va superato se la comunicazione deve tener
conto dell’altro, garantendo le rispettive identità e un rispettivo riconoscimento. Io ti riconosco se riconosco le tue diversità.»1
249
Capirsi con la radio e la TV
Già è difficile capirsi faccia a faccia, figurarsi quando ci sono di mezzo
radio e TV. La radio non ha immagini, ma può ricorrere a parole e suoni che
fanno «vedere» la realtà.
Un esempio di immagini evocate da suoni è il famoso radiocomunicato
di Stan Freberg:
Bene, quando darò il via, una montagna di panna montata alta trecento metri rotolerà nel lago Michigan, che in precedenza è stato prosciugato e riempito di cioccolata fumante. Poi comparirà un aereo con una ciliegia candita da dieci tonnellate, che
lascerà cadere sulla panna montata, davanti a una folla plaudente.2
Seguono suoni che illustrano le parole. Senti e vedi la ciliegia cadere nel
lago di cioccolata.
Anche le radiocronache di Sandro Ciotti creavano una partecipazione all’evento tale da «guardare» la radio come se si fosse davanti alla TV, perché
nelle radiocronache non hai un attimo di respiro: devi centrare sempre al primo colpo
quello che tenti di descrivere […]. Quando la radiocronaca si concede i lussi consentiti dalla telecronaca perde la sua tensione verso la ricerca del linguaggio preciso
e insieme colorito, fantasioso e non ripetitivo. E allora si cade nella ridondanza di immagini stantie, trite e ritrite.3
In TV le immagini sovrastano le parole. Roberto Francini, speaker e
giornalista: «La televisione ha un linguaggio completamente diverso dalla
radio. Il più grosso equivoco è quello di dire che la televisione locale è una
radio con il video. Ci sono regole molto diverse. La TV è mostrare immagini, utilizzando magari la potenza del montaggio; non certo avere due persone fisse con un microfono che passa dall’uno all’altro».4
Dall’inquadratura e dall’angolazione scelte dipende l’interpretazione
delle immagini. Cruciale allora avere una comune chiave di lettura. Anche il
montaggio, la sintassi del linguaggio video,
deve tener conto dei meccanismi cognitivi e psicologici che si mettono in moto
quando i nostri occhi e le nostre orecchie vengono raggiunti da suoni e immagini. La
nostra mente crea associazioni, interpretazioni, proiezioni, stimolata dal modo di fluire delle immagini. Montare senza criteri logici, temporali, espositivi non ha senso. E
bisogna ricordare che non sempre il senso che noi vogliamo dare a una serie di immagini montate corrisponde a quello che viene percepito.5
250
Il «modello del mondo» nelle trasmissioni radio e TV
Il nostro orizzonte dipende dai nostri modi di descriverlo. I processi per
fabbricare i mondi (generalizzazione, cancellazione e deformazione) non
partono dal nulla, ma da mondi già a disposizione. Accade così anche nei
radiogiornali e telegiornali?
«Dipende da chi fa la composizione del giornale», sostiene Roberto Francini; «a volte c’è solo uno sfrondare notizie già preconfezionate; altre volte
c’è il comporre il fatto con notizie di prima mano, agenzia, intervista, testimoni; altre ancora c’è la lettura del comunicato ricevuto. Le notizie migliori
sono quelle che hanno più fonti. Le immagini poi sono fondamentali.»
Compito del giornalista è osservare quanto avviene nel mondo, comprenderlo e riferirlo. Egli si serve di schemi interpretativi e narrativi dati
dalla cultura professionale, dal suo modo di vedere le cose e dalla linea editoriale della sua testata.
Chi ascolta una notizia alla TV o alla radio sa che è inserita in uno specifico mezzo (TV, radio) e in un contenitore (programma, telegiornale o radiogiornale). Con la «realtà di seconda mano» offerta dai media egli costruisce e modifica le sue immagini del mondo.
Un GR o TG prima seleziona le notizie, quindi dà all’ascoltatore un
quadro degli elementi per comprendere ed esaminare un fatto (generalizzazione). Sfronda la notizia da particolari irrilevanti e concentra l’esposizione su ciò che aiuta a farsi una opinione (cancellazione). A volte, poi, modifica certi particolari nell’esposizione, in buona o in cattiva fede (deformazione).
Il conduttore, in questo meccanismo, deve essere in grado di ancorare
(non a caso è definito anchorman) con la sua voce l’ascoltatore alla notizia.
Prestigiatori antichi e moderni
Vi ricordate l’arrivo dei marziani sulla terra annunciato alla radio da Orson Wells? Anche a voi è capitato di prendere per vera una notizia narrata
con linguaggio e suoni coinvolgenti, per poi scoprire che era fasulla? Tranquilli: non siete stati i primi a essere «ipnotizzati».
Le audaci idee di Galileo Galilei implicavano un tremendo salto dell’immaginazione, perché contro il senso comune dell’epoca. Nel Cinquecento si
credeva che ciò che si vedeva fosse la realtà, per esempio che la Terra fosse
ferma: i corpi cadono in linea retta e perpendicolare alla Terra, dunque è impossibile che la Terra si muova. Galileo riuscì a disinnescare questa creden251
za mostrando che alcune cose viste sono illusioni, come camminare di notte
e vedere la luna che ti segue. L’apparenza viene spiegata mostrando come le
cose non solo accadono, ma vengono lette in modi diversi.
Galileo comprese anche che, per riuscire a portare avanti le proprie idee,
doveva adottare lo stesso linguaggio di chi doveva convincere. Tra le strategie impiegate vi fu il ricalco verbale. A favore di Galileo giocò l’uso della
lingua italiana, preferita al latino, lingua della Chiesa:
la vivacità della lingua gli permetteva di usare le frasi come fossero immagini facendo così appello all’immaginazione dei lettori. Inoltre Galileo voleva diffondere la scienza tra il
popolo così da approfittare dell’intelligenza non ancora corrotta dell’uomo comune.6
Alla fine molti lettori si dissero convinti, mentre al principio avevano giudicato paradossali le opinioni di Galileo; tanto interesse fu reso possibile anche dal numero, dalla varietà e dall’attrattiva dei suoi esperimenti. Furono
anche i suoi abili giochi di prestigio che permisero alla scienza di progredire.
Oggi i prestigiatori sono i giornalisti.
Esistono anche specchi deformanti e specchietti per le allodole che fanno apparire la
realtà ben diversa da quello che realmente è […], e lenti invece che consentono di far
vedere quella che è davvero la realtà a chi non è in grado di farlo con i propri mezzi.7
Il giornalista ci fornisce non la realtà, ma una mappa della realtà filtrata dalle sue percezioni sensoriali, dal suo linguaggio e dalle sue credenze.
Cancellare pezzi di realtà è scelta obbligata. Ma nel dare le notizie non si
deve decontestualizzare il fatto privilegiando i dettagli, né minimizzare i
fatti che disturbano, coprendoli di ridicolo o insinuandone l’infondatezza.
Altrimenti non ci sarà più la notizia, ma solo il suo commento.
Inevitabile fare giochi di prestigio, quindi, purché la notizia sia data nel
modo più obiettivo possibile.
La grammatica di giornali radio e telegiornali
Parlare alla radio
Mezzo flessibile e discreto, la radio si presta meglio a informare perché
meno condizionata dalla spettacolarizzazione della notizia, propria della
TV. Le caratteristiche del mezzo dovrebbero servire a far presa sul pubblico, diffondere notizie e migliorare il prodotto giornalistico, non a condizionare il giornalista mettendo in secondo piano il contenuto (qualcuno ha
proposto di usare il termine giornale-tele, come si fa con giornale-radio,
252
per sottolineare che in primo piano stanno le notizie, e il mezzo si limita a
veicolarle).
Appena misi piede in una radio, mi fu detto che avrei dovuto esprimermi
in modo simile (non uguale) al parlato, per fare presa sugli ascoltatori. Chi
ascolta la radio non può tornare indietro e risentire quello che è stato detto.
Per questo «le notizie del giornale radio sono dette. Bisogna non stamparle,
ma parlarle. L’impostazione, la sintassi, il ritmo e la durata del periodo, la
scelta delle parole si ispirano a questa esigenza».8 La cosa non mi fu subito
chiara. Dovevo parlare a braccio o prepararmi un testo? In questo caso lo
avrei letto, invece mi dicevano di «parlarlo».
Avrei dovuto adottare un italiano serio, ma semplice, che obbedisse a
criteri pratici di evidenza e di chiarezza. Non l’italiano del parlato spontaneo: niente costruzioni a senso, temi sospesi, incisi, parentesi. Stile della
conversazione colta; formule introduttive, linearità e brevità.
Per parlare al microfono non bastava saper scrivere le notizie, bisognava
anche conoscere le regole del ritmo e dello stile. Questo modo di comunicare
in radio è definito il «trasmesso radiofonico», varietà intermedia tra scritto e
parlato. È un linguaggio multiforme: c’è il «parlato letto» dei notiziari flash
(3-6 minuti, testi letti dal conduttore, niente improvvisazione, intonazione regolare, semplicità sintattica), il «parlato recitato» dei radiodrammi, il «parlato difficile» dei programmi culturali e il «parlato improvvisato» delle radiocronache sportive. Come il parlato spontaneo, il parlato radiofonico deve saper usare la voce con tutti i suoi effetti per creare intensità emotiva, modulando respirazione, articolazione, pronuncia, dizione ed espressione.9
Discorso a parte per le interiezioni e i segnali discorsivi che danno valore espressivo a quanto detto dal conduttore. In apertura e chiusura dei giornali radio questi segnali ricorrono nelle formule di cortesia (buongiorno,
grazie). Bandite le interiezioni che indicano dubbio o esitazione (be’, mah,
ehm), o i riempitivi (ecco, allora, diciamo, come dire, insomma). A volte sono usate come richiesta di attenzione alcune espressioni proprie dei sistemi
rappresentazionali (veda, guardi, senta).
I passaggi (da un giornale radio a una rubrica, dal bollettino sul traffico
al segnale orario) prevedono una sigla musicale di apertura e una di chiusura: richiamano l’attenzione dell’ascoltatore con suoni caratteristici. I suoni
servono anche per sottolineare i significati delle parole: un boato per un servizio da una zona di guerra, voci per un corteo, schiamazzi per una folla festante. Gli stessi effetti creati in TV dalle immagini.
Dopo tutte queste regole sono diventata speaker radiofonico? Il mio accento tra il toscano e il milanese mi ha bloccato, e credo che per voi sia una
vera fortuna.
253
Parlare alla TV… non solo con la parola
I telespettatori che si accorgono di alcuni segnali verbali e non verbali del
conduttore possono leggere tra le righe di una notizia. Del conduttore radiofonico si può studiare il ritmo della voce, l’articolazione e la respirazione,
il tono di lettura, l’interpretazione, le interiezioni. Del conduttore televisivo
anche piccoli gesti, tic, indecisioni, rossori, contrazioni muscolari.
Chi fa radio e TV non solo usa frasi semplici, tono di voce corretto e va subito al dunque, ma conosce le regole di mimica, gestualità e presenza scenica.
Un buon conduttore è un buon attore e con un’alzata di sopracciglio o con una studiata
espressione di serietà nel viso riesce a convincervi che state vedendo una cosa reale.10
Tuttavia il telegiornalista non è un vero attore, perché alla lunga il pubblico avvertirebbe le sue mosse come artificiali e potrebbe pensare che lo
siano anche le notizie che dà. Dev’essere però un «faro di serenità», che non
fa trapelare né lo stress dovuto agli errori altrui, né la disapprovazione per
quello che sta succedendo dietro le telecamere.
Immagini e telegiornali
Un TG è visto e ascoltato. Ci sono notizie solo parlate, le cosiddette «vive», molto vicine al modello radiofonico: il conduttore legge un testo, breve, con grande capacità recitativa; lettura attenta, ritmata, espressioni del viso, tono della voce, pause fanno da sfondo e commento alle parole, perché
non ci sono immagini; tecnica usata per notizie arrivate all’ultimo momento, o per staccare rispetto al resto del TG. E poi ci sono servizi di inviati corredati da immagini ed effetti sonori.
Nei TG vista e udito seguono strade parallele, ognuna con un proprio stile. In un servizio l’obiettivo è catturare l’attenzione. Una breve frase a effetto, che spiega il nocciolo del servizio, è un buon inizio. Ma un’immagine efficace che incolli al video ha più effetto: gli occhi colgono un significato
prima delle orecchie.
La prima selezione della realtà è data dall’inquadratura, sia per le immagini di repertorio sia per quelle generiche o quelle di forte impatto. La telecamera, come il giornalista che scrive un pezzo, deve scegliere un punto
di vista da cui narrare i fatti: oggettivo, soggettivo o di cronaca.
Nel primo caso (fatti di cronaca, eventi sportivi o politici) la telecamera
guarda la realtà con gli occhi dei telespettatori. La ripresa soggettiva invece
è usata per mostrare la realtà vista da qualcuno presente (il giornalista che
partecipa all’evento, la telecamera posta sull’auto di formula uno). La prospettiva di cronaca è quella del cronista che, inquadrato in primo piano, racconta i fatti rivolgendosi ai telespettatori.
254
L’insieme delle inquadrature è la sequenza, discorso per immagini montate
che fa emergere il fatto. Mentre l’inquadratura è parola, la sequenza è frase. Il
montaggio crea il prodotto finale visto dai telespettatori. Serve per rende continua una serie di immagini spezzate e per armonizzare immagini, testo e suoni.
Realtà e interpretazione
Suoni e voci, immagini e gesti che sentiamo in radio e vediamo in televisione nascondono una realtà che va interpretata. Immersi in ciò che ci è familiare, non sempre però ce ne accorgiamo.
L’antropologo rende familiare ciò che è estraneo: qui invece abbiamo
tentato di rendere estraneo ciò che ci è familiare per meglio comprenderlo.
Adesso professionisti di radio e TV diventano come «primitivi» impegnati
in rituali sotto forma di radio comunicati e telegiornali.
Osserviamo la vita degli altri attraverso le nostre lenti, e gli altri rispondono al nostro sguardo attraverso le loro. Non ci sono fatti che sono in un
certo modo e un modo oggettivo di parlarne: se volevamo verità domestiche
– dicono gli antropologi – avremmo dovuto starcene a casa. Aggiungiamo:
con radio e TV spente!
Note
1
Intervista dell’autrice a Luciana Brandi.
JANNACONE, COSTANTINO, La radio. Un medium vincente, Lupetti, Milano 1996, p. 87.
3
Intervista di Giuseppe Mazzei a Sandro Ciotti (in MAZZEI, GIUSEPPE, Notizie radio@ttive.
Manuale di giornalismo radiofonico, RAI-ERI, Roma 2001, p. 184).
4
Intervista dell’autrice a Roberto Francini.
5
MAZZEI, GIUSEPPE, Verso il Digitale. Giornalismo TV, RAI-ERI, Roma 2002, p. 191.
6
FEYERABEND, PAUL K., I problemi dell’empirismo, Lampugnani Nigri, Milano 1971, p. 186,
nota 151. Sullo stesso tema vedi anche GEYMONAT, LUDOVICO, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957, 1984; e DRAKE, STILLMAN, Galileo, Dall’Oglio, Milano 1981.
7
CORASANITI, GIUSEPPE, «Il cittadino e l’informazione», in JACOBELLI, JADER (a cura di), Lo
specchio e la lente. Crisi e informazione, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 51.
8
La citazione è tratta dalla guida Il Giornale Radio scritta nel 1948 per i redattori radiofonici da Antonio Piccone Stella, allora direttore del giornale radio; in ATZORI, ENRICA, La parola alla radio. Il linguaggio dell’informazione radiofonica, Cesati, Firenze 2002.
9
LORI, ALBERTO, Speaker. La comunicazione verbale, RAI-ERI, Roma 2000.
10
MAZZEI, op. cit., p. 223.
2
255
Speech writing
Quando la scrittura prende anima e corpo
di Paola Perna
Vedo un clima nuovo nel paese. Vedo segnali importanti di volontà di cambiamento, di riflessione, di dialogo, di convergenza per individuare priorità comuni e un comune metodo per arrivarci. […]
Usciamo da queste tristezze, guardiamo avanti, reagiamo al declino. Pensiamo insieme a come costruire il futuro. Poi qualcuno sarà d’accordo, qualcun
altro no.
Sorriso complice – Ci vuole una grande pazienza. – Applauso. Pausa.
Ma noi ce l’abbiamo. – Platea conquistata.1
PER Luca di Montezemolo la fine di maggio 2004 è stata densa di cambiamenti e impegni pubblici, con una consacrazione nell’economia italiana.
Già da queste poche battute del suo discorso ai giovani imprenditori, si intuisce lo stile che il neopresidente di Confindustria ha scelto. Parla alle forze giovani del paese, che si identificano con lui – simbolo di dinamismo, velocità e vittoria – ogni volta che la Ferrari raccoglie successi nel mondo.
Deve costruire solide fondamenta per chi lo ascolta, creare fiducia, ringraziare chi lo ha sostenuto e conquistare chi lo osserva scettico. Deve anche mettere insieme una grande squadra, che gli offra un’ampia base di consenso e di tranquillità. Tutto ciò in una ventina di minuti.
Si alza, sorride. Si avvicina al podio, con un cenno del viso ringrazia, si
ferma, abbassa lo sguardo, si concentra. Nella sala si fa il silenzio. La curiosità vibra, la supponenza di chi crede già di sapere tutto, anche. E la magia
della parola fa il resto.
Prima di alzare la penna
Non siamo mai soli quando scriviamo. Tanto meno quando dobbiamo
preparare un discorso, una presentazione, una lezione. Siamo in compagnia
di noi stessi, e del nostro pubblico. Anche i più esperti devono dedicare un
momento a immaginare la sala, i volti, i pregiudizi e le attese delle persone,
i punti da toccare e gli obiettivi da raggiungere. È un esercizio di prepara257
zione per evitare il primo grande errore di chi parla in pubblico: quello di tenere un monologo, anziché un dialogo con la platea. Una presentazione ha
sempre uno scopo: convincere, motivare una scelta, vendere, presentare un
punto di vista, accusare, ottenere favore e consenso, farsi ricordare. Uno
scopo che non si può raggiungere se non si tiene conto in ogni momento del
pubblico.
Lo speech writing, lo scrivere discorsi, è uno scrivere particolare, che acquista valore quando diventa corpo ambiente interazione gesti sguardi voce
ritmo pause silenzi.
Perché rischiamo di scrivere un monologo?
Per paura. Si dice «una paura cieca», e lo è veramente, perché ci porta a
non vedere l’ostacolo.
Parlare in pubblico è difficile. Ci si mette in gioco sotto molti aspetti,
che riguardano sia la persona sia la professione. La prima a manifestarsi è
l’ansia da performance. E se faccio scena muta? Chi di noi non ha mai temuto di non spiccicare parola, oppure di essere contestato o zittito in pubblico? Di vedere una mano alzarsi e capire che tutto il nostro castello di certezze sta per crollare? Paura di essere giudicati.
Ogni elemento di una presentazione pubblica ha il potere di influenzare
le persone che ascoltano, a prescindere dal contenuto. Qualunque elemento,
anche la paura: se ne siamo consapevoli, possiamo imparare a utilizzarla per
essere più vibranti e coinvolgenti.
Alla ricerca di un’anima
La scrittura professionale richiede preparazione: organizzare i contenuti,
definire gli obiettivi, essere esaustivi, anticipare le obiezioni, adattare il linguaggio al pubblico. Lo speech writing ha un elemento in più: la sottigliezza del dialogo, cioè l’abilità di utilizzare, oltre alla parola scritta, bidimensionale, tutti gli altri strumenti del corpo tridimensionale, ovvero voce, tono,
ritmo, sguardo, gestualità e mimica. E poi la prossemica, la velocità del respiro, lo stato dell’oratore e l’opinione che ha di sé, lo stile personale, la sua
motivazione, la sua convinzione, o la sincerità.
Da alcuni anni è possibile apprendere le tecniche per parlare in pubblico e
i metodi per influenzare le platee. Ma le tecniche, da sole, non bastano: bisogna trovare lo stato migliore per scrivere una presentazione, trasmetterlo,
mantenerlo o potenziarlo nel rapporto con il pubblico. La nostra condizione
258
emotiva e fisica pesa sulla presentazione sin dalla scrittura. Dev’essere lo stato più vicino a quello in cui vorremmo fosse il pubblico dopo averci ascoltato.
La consapevolezza di sé, del proprio fisico, del proprio respiro vanno
trasmesse al testo. La scrittura diventa così un’armonia con la dimensione
fisica e comincia a fluire. È una scrittura diversa da quella destinata a restare solo sulla carta. Spicca il volo, prende i ritmi e le pause, gioca con la punteggiatura a ricercare silenzi e applausi. Le parole sono più scandite, celebrative o leggere, secondo la situazione. Sono parole fisiche, belle, sono
donna e uomo, sono ricordi ed emozioni o dati di bilancio, fatturati, proposte commerciali. Sono corpo e anima, sono amanti. E quando sono insieme,
si muovono come una cosa sola.
Cinque «stati» per cambiare la scrittura
Quando uno stato è giusto? Quando il nostro comportamento, l’emotività e la razionalità sono sintonizzati nel cercare la condizione migliore per
fare qualcosa. Questo implica anche la capacità di cambiare il nostro stato
d’animo quando ne abbiamo bisogno, magari in situazioni negative. Concentrarsi e cercare dentro di sé il ricordo di un’esperienza gradevole dal
punto di vista fisico ed emotivo ci può dare energia positiva per affrontare il
pubblico.
Mentre scriviamo è lo stesso. C’è bisogno dello stato «da palcoscenico».
L’architettura nasce spesso da pochi appunti che fissano i concetti su un foglio, che poi diventano una mappa concettuale e infine testo. Ci sono stati
per scrivere, dunque, e stati per parlare. Stati per apprendere e stati per insegnare. Stati che ci portano a raggiungere obiettivi, che favoriscono la mediazione, per spaventare o per emozionare. La PNL identifica cinque stati
per il nostro tema:
●
●
appianatore:–lo stato della calma e dell’autorità, di chi vuole dare informazioni fattuali, concrete, vere. Dal punto di vista dell’atteggiamento, il fisico si muove in modo simmetrico, la posizione è eretta e direttiva, le mani si muovono verso il basso, palmi all’ingiù, dal petto verso l’esterno. A
dire: «I problemi che avete nel cuore saranno resi semplici, piani»;
compiacente:–lo stato dell’accordo, dell’apertura e anche della vulnerabilità. Quasi in un gesto di supplica, il compiacente può risultare troppo
aperto e quindi arrendevole. Più spesso invece l’atteggiamento di apertura aiuta a spegnere l’aggressività, chiedendo la collaborazione di tutti.
Le mani si muovono con i palmi verso l’alto, le braccia aperte. Dice:
«Ho bisogno del vostro aiuto»;
259
●
●
●
accusatore:–il dito puntato verso l’alto, la posizione asimmetrica protesa
in avanti, una mano alzata a indicare una direzione. Linguaggio retorico,
concitato, ricco di domande. Rischia di essere aggressivo. Modello poco
consigliato nelle professioni, più adatto alla politica;
computer:–la posizione del pensatore, dello studioso. Postura accademica, una mano alla fronte e l’altra appoggiata, è chiuso nei suoi pensieri
ed esprime il sapere razionale, teorico. L’atteggiamento di chiusura si riflette anche sullo stato fisico generale, dà l’idea di avere un continuo dialogo interiore. È «l’esperto» di qualcosa. Usa sequenze logiche, strutture
ordinate, è schematico;
confusionario:–movimenti sconnessi, voce bassa poi alta, lenta poi veloce. Uso dello spazio inconsapevole, ha tratti affascinanti e giocosi, infantili. Affastella parole su parole, può suscitare bonomia in chi ascolta e
guarda. Oppure confusione e irritazione. Spesso è un atteggiamento inconsapevole, di chi si trova a parlare di qualcosa di cui non è convinto.
Qualche esempio, ancora dalle parole di Montezemolo. Vedremo che tutti gli stati sopra descritti possono convivere in un discorso.
Esiste un momento, nella vita di ciascuno di noi, nell’evolversi delle classi sociali, nell’operare delle categorie, nella dinamica della società, in cui occorre restituire qualche cosa di quello che abbiamo avuto. E noi, come imprenditori e come cittadini di
questo paese, abbiamo avuto molto. Essere classe dirigente significa anche questo:
restituire al paese parte di ciò che si è ricevuto. […] La verità è che siamo meno
competitivi, come tipo di prodotto, come mercati di sbocco, come sistemi di produzione, come costo ed efficienza della pubblica amministrazione.
L’appianatore: usa parole astratte o evocative come esiste un momento
nella vita, essere classe dirigente significa. I verbi sono lontani dal parlato, le
formule impersonali: occorre, ciò che si è ricevuto. Le frasi brevi, pesanti,
assertive. Il testo ha già la fisicità di chi lo andrà a recitare. Sentite il ritmo,
provate a leggerlo ad alta voce, a cogliere le ridondanze. Se poi vi calate nel
personaggio e recitate, vi accorgerete di ciò che il testo può trasmettere.
Noi, tutti assieme, possiamo condividere un progetto per il paese. È in questo modo
che possiamo contribuire anche noi a creare fiducia. […] Vogliamo, credo tutti assieme, chiudere la stagione dei dissidi e delle incomprensioni. Una stagione che non
ci appartiene. Così facendo, non solo daremo un contributo a risolvere i nostri problemi. Ma potremo anche dare un segnale al paese che è tuttora scosso da troppe
divisioni, con un ormai insopportabile tasso di litigiosità. Un paese, invece, che ha
bisogno di fattori di convergenza. Un paese dove vedo un pericoloso ridursi dell’autorevolezza delle nostre istituzioni.
260
Compiacente come colui che cerca alleanze, e che chiama a raccolta il
proprio esercito prima della battaglia. Le parole sono di due tipi: da un lato quelle che costruiscono il team, tutti assieme, condividere, contribuire,
fiducia; la persona usata è il «noi», a farsi interprete e a raccogliere a sé le
alleanze; dall’altro, le parole negative, per contrapposizione al gruppo non
allineato. I buoni e i cattivi: fuori dalla nostra alleanza vi sono la stagione
dei dissidi e delle incomprensioni, problemi, divisioni, litigiosità. L’apertura del compiacente qui è usata come forza coesiva. Pensate a quanta
energia può dare, a questo passo del discorso, il parlare a braccia aperte e
palmi all’insù.
Spetta a noi rifiutare la logica del declino. E noi la rifiutiamo guardando a noi stessi e a
ciò che possiamo migliorare nelle nostre aziende. Alle istituzioni e alla politica spetta
invece il compito di predisporre il miglior ambiente per il progresso. […] Dobbiamo
rimboccarci le maniche! Affrontando la concorrenza che c’è […] nessuno di noi può
dirsi appagato. Ogni calo di tensione danneggia il nostro paese e impoverisce i nostri
figli. Quello che abbiamo, recita un antico detto, lo abbiamo in prestito da loro.
Accusatore, ricorda a ciascuno il proprio dovere. Si permette le ripetizioni (due volte rifiutare nella prima riga) e un tono diretto. Il detto finale
(citazione) fa dire a qualcun altro ciò che potrebbe suonare aggressivo o
troppo didattico. Sgrida con delicatezza. E assolutizza: tutti, nessuno, noi
stessi.
L’innovazione tecnologica ha abbattuto molte barriere e ha messo in competizione
paesi distanti tra di loro con capacità competitive, culture e tradizioni completamente diverse. Basti pensare alla Cina: ieri continente chiuso in una sorta di Medioevo
perpetuato dalla divisione del mondo nei due blocchi; oggi paese nuovo che si apre
al mercato, pur conservando forme di dirigismo che gli consentono di competere
con costi e innovazioni che i paesi industriali penano a sopportare.
Computer, pensatore. Braccia conserte, schiena appoggiata: «Prendiamoci un attimo di tempo per riflettere». La scrittura fa lo stesso movimento,
dice basti pensare alla Cina: si appoggia alla carta e si sostiene sui due punti. Ha la fisicità dello studioso. E usa formule schematiche: ieri…, oggi…,
un ordine cronologico che scandisce il discorso in due blocchi. Entra nel
problema, vive la fatica della competizione e la esprime: i paesi industriali
penano a sopportare. La scrittura umanizza i termini, spinge a riflettere.
La mia proposta è semplice. Sull’istruzione e sulla ricerca si gioca il destino del paese. Bisogna che su un disegno pluriennale di riforma e di obiettivi si impegnino maggioranza e opposizione affinché, pur nell’alternanza possibile della democrazia, si se-
261
gua con continuità il progetto di modernizzazione del sistema educativo e della ricerca italiano. In altre parole, si tratta di applicare alla politica un po’ della logica della concertazione.
Possibile traduzione: «Non so bene come, ma per favore chi ne ha responsabilità faccia qualcosa per risolvere il problema». Che cosa vuol dire?
Non è una proposta, è solo una richiesta. E non è semplice, soprattutto se ha
bisogno di essere riformulata: In altre parole… La formula impersonale
mostra che il pezzo non appartiene davvero a chi scrive né a chi deve leggerlo, ammesso che siano la stessa persona. Le parole sono tipiche di quando non si riesce a uscire da una frase: si segua con continuità… Nel verbo
seguire c’è già il senso della continuità: è solo un esempio delle molte parole vuote e ridondanti che spesso s’incagliano nei discorsi. Ecco perché si
percepisce lo stato come confusionario: la non chiarezza degli obiettivi salta all’occhio.
Da appunti a discorso
Clustering, mind mapping, radiant thinking, mappa mentale: l’esercizio
ha molti nomi. È un metodo che stimola la creatività.
Si comincia con un foglio. Al centro scriviamo l’argomento, o l’obiettivo
da raggiungere. Intorno, per associazioni libere e casuali, tutte le idee che la
mente ci propone. I concetti seri e quelli stravaganti: se ci sono venuti in
mente ci sarà un motivo. Alla fine avremo una mappa sviluppata in tanti rami, che raccolgono concetti indispensabili, altri meno rilevanti, altri da scartare o tenere in attesa.
Senza un ordine prestabilito, la mappa mentale aiuta a sollecitare, oltre
al lato razionale, anche il lato visivo dell’autore, e quello cenestesico. Dà
una rappresentazione grafica destrutturata del processo associativo che governa il pensiero. E «risveglia» la capacità di rappresentare i pensieri, visualizzandoli in un modo differente rispetto al testo scritto, o alla tradizionale
scaletta.
Nella mappa ora dobbiamo individuare i concetti primari, di cui non possiamo fare a meno. Poi i concetti secondari, che possono esserci utili nella fase dell’argomentazione, e le loro connessioni. Poi il resto: ciò che non sappiamo come e se utilizzare. Infine individuare l’ordine del discorso: voglio iniziare dall’argomento più importante e poi scendere a poco a poco, o meglio
fare una breve introduzione e tenermi il clou per la fine? Vado in ordine cronologico partendo dal passato, o faccio intravedere subito il futuro? Le possibilità sono molte: scegliamo quella più efficace per l’obiettivo.
262
A questo punto il testo è quasi pronto: ha un’ossatura, un ordine logico,
una gerarchia di argomenti – importanti o meno – e anche osservazioni «minori» che possono alleggerire il testo o precisare concetti rilevanti. Si può
cominciare a scrivere seguendo l’ordine stabilito dalla mappa o modificandola ancora. La scrittura sarà più veloce, il testo più chiaro e il lavoro più efficace: la fatica più grande, l’organizzazione del contenuto, è già stata sbrigata nella mappa.
Quando il testo è finito, attenzione all’attacco e alla chiusura: se alcune
parole usate all’inizio sono evidenziate anche nella chiusura, diventano ancore: pronunciate nello stesso modo, con la stessa sottolineatura dei gesti e
della voce, si associano alla persona che parla. Saranno ricordate come parole chiave.
Leggere o raccontare?
Leggo? Imparo a memoria? Mi faccio una scaletta? Con il lavoro sulla
mappa, il discorso è già memorizzato. Però si fatica ad abbandonare la sicurezza di un foglio tra le mani. Scegliamo: trasformiamo in punti sintetici il
testo scritto in versione integrale, oppure lo teniamo così, segnalando i punti dove fare pause o le parole da marcare con la voce e i gesti.
A volte, però, è meglio leggere. Nelle occasioni ufficiali, dove non si può
omettere alcun particolare. Nelle relazioni tecniche, ricche di dati. Quando i
temi non ci sono così familiari, e preferiamo essere precisi. Ma per leggere
bisogna essere bravi, sapersi interrompere, interpretare, non perdere il contatto col pubblico. Bisogna usare le pause, gli sguardi di assenso, una pennellata della voce, un gesto della mano.
Provare, provare, provare
Un testo scritto per essere raccontato deve passare al vaglio di molte letture. Non solo tra sé e sé: ad alta voce. Per trovare rime involontarie, dissonanze, parole troppo lunghe o con troppe S e troppe Z. A ogni lettura scopriamo quale punto scorre più fluido e quale meno. A certe parole associamo certi movimenti, a certe frasi certe intonazioni, che via via diventano più
decise e naturali. Può essere noioso, ma è un lavoro che premia.
Una curiosità: generalmente l’ultima prova, poco prima dell’evento, risulta sempre più difficile, quasi stentata. Buon segno: siamo arrivati al dunque, e stiamo accumulando energia per ciò che ci aspetta.
263
«Ghost writing»: scrittura in prestito
I fantasmi esistono. Ma si sono adeguati ai tempi che corrono. Basta catene e lenzuoli bianchi; oggi passano il loro tempo a studiare e a scrivere. Il
ghost writer è lo scrittore di discorsi: un professionista che mette la propria
creatività al servizio di qualcun altro che quei discorsi dovrà pronunciare.
Al ghost writer viene affidato un tema, spiegati gli obiettivi, e lui produce
un testo che poi viene discusso e tagliato in modo che chi dovrà pronunciarlo lo percepisca come proprio.
Qui è la prima difficoltà: nella relazione che deve innescarsi tra le persone. A volte è immediato trovarsi sulla stessa frequenza, a volte difficile. Il
rapport funziona meglio quando nasce spontaneamente e al di fuori della
sfera cosciente: le persone si devono piacere. Naturalmente spetta a chi scrive avvicinarsi il più possibile al committente, imparare il suo stile, quando è
formale e quando informale, le sottigliezze, le parole che usa e quelle che
non direbbe mai; deve osservare il suo modo di essere polemico o compiacente, capire quanto apprezzi l’ironia.
La seconda difficoltà sta nel contenuto: ogni argomento può essere trattato con mille sfumature. Ma una sola formula è quella giusta: quella che
riesce a entrare davvero nelle intenzioni di chi commissiona il discorso.
Cosa pensa, invece, chi riceve un testo scritto per sé e vede se stesso
proiettato nelle parole di qualcun altro? Chissà se il tuning è reciproco, e se
l’allineamento delle frequenze avviene da entrambe le parti? La condivisione delle «mappe del mondo» porta influenze reciproche. Il pericolo, per il
ghost writer, è di indulgere a un ricalco eccessivo, un processo inconscio di
imitazione che indebolisce lo spirito critico, anziché portare al miglioramento costante.
Una bellissima avventura
La scrittura è un dominio senza regole: vi regnano i casi soggettivi, i
contesti diversi, le sintonie improbabili tra le persone. Non esistono indicazioni da seguire in modo assoluto, anche perché le medesime azioni possono portare a risultati opposti. È come l’opera di un artigiano che mette insieme ogni volta la combinazione giusta per risolvere un problema.
In gioco, poi, ci sono tre attori: chi scrive, chi parla, chi ascolta. Ci sono
contenuti che devono essere trasferiti con chiarezza, per evitare che vengano
male interpretati. E c’è lo spirito di chi racconta, di chi usa le parole create apposta per l’evento. È solo chi parla che ha il potere di farle vivere o morire.
264
Allo stesso tempo, scrivere è una bellissima avventura. Sia scrivere per
sé sia per qualcun altro. Così tante cose stanno dietro alle parole, tanti modi
per far risaltare un aspetto o un altro, secondo l’obiettivo o il risultato da
raggiungere. È per questo che amo il mestiere della scrittura: perché nasce
dentro un corpo. E perché riflette un’anima. La mia.
Note
1
POLATO, RAFFAELLA, «Montezemolo: torni la concertazione. Meno litigi in politica. Semplificare il paese, puntiamo su Sud e ricerca», Corriere della Sera, 28 maggio 2004.
265
Technical writing
Istruzioni per l’uso
di Fabrizio Comolli
IL technical writing (TW), la scrittura di manuali e testi di istruzioni, dal libretto della lavatrice fino ai volumi su complesse procedure industriali, non si
può considerare solo una speciale tecnica di scrittura: è qualcosa di più. Non
a caso l’associazione internazionale di riferimento si chiama Society for
Technical Communication. È una scrittura complessa e ibrida. Il rapporto tra
testo, immagini (schemi e figure) e gabbia di impaginazione è spesso vincolante. Vi si mescolano componenti e competenze variegate: tecnologiche, psicologiche, linguistiche, editoriali. È una forma di comunicazione ricca di implicazioni e sfumature, proprio come altre scritture considerate più creative.
Tutti noi siamo lettori di manuali di istruzioni. Alcuni di noi i manuali li
scrivono. Pagine in cui un essere umano illustra a un altro essere umano come usare una macchina. Pagine tutt’altro che aride. Il fattore umano ci gioca, eccome. Mente, linguaggio e corpo sono lì sullo sfondo.
C’è manuale e manuale
In senso ampio, nel TW può rientrare ogni documento scritto che spiega
il funzionamento di un prodotto o di una procedura, fino a includere i libri
di informatica.
In senso stretto e specifico, il TW identifica l’area di progettazione e
produzione della documentazione tecnica: non libri, ma manuali destinati a
un uso interno all’azienda o allegati alle confezioni dei prodotti.
Dal canto loro, i testi di istruzioni (in gergo, i testi istruzionali) possono
essere classificati in base ad alcune tipologie.
Riguardo all’approccio si distinguono un modello tutorial e un modello
267
reference. Un manuale tutorial è semplificato, rivolto all’utente finale, di solito principiante: le istruzioni sono costruite su esempi pratici illustrati passo
per passo, limitando gli approfondimenti e le specifiche tecniche; asseconda
il processo di apprendimento ed esecuzione dei compiti tipico dell’utente. Un
manuale reference è invece una guida per lo specialista o l’utente esperto: in
genere volume corposo, passa in rassegna le funzioni della macchina, ordinandole in base a una gerarchia logica o al comportamento dell’utente; un testo destinato alla consultazione, come un’enciclopedia o un dizionario.
I guai si verificano quando i due modelli sono applicati nel contesto sbagliato. Pensiamo a un libretto di istruzioni di un prodotto di massa, un telefono cellulare o un lettore DVD. Se i paragrafi seguono l’ordine in cui i
comandi appaiono nel menu dell’apparecchio, e non l’ordine logico delle
operazioni che io utente vorrei effettuare, siamo in un approccio reference,
scomodo e inappropriato: devo scorrere tutto il manuale per trovare quel
paio di procedure che m’interessano; trovo magari ripetute in parti diverse
due procedure con un nome identico e fatico a raccapezzarmi.
Un’altra classificazione può essere dettata dal tipo di utilizzo e di destinatari: si possono distinguere manuali d’uso per l’utente finale, manuali di
installazione e manuali di manutenzione o di servizio per il personale tecnico e il customer care. A volte queste tipologie sono aggregate e condensate: è il caso del libretto di uso e manutenzione dell’automobile. Per i prodotti digitali e l’elettronica di consumo è frequente trovare nella confezione sia
un manuale di discrete dimensioni sia un documento più breve, che spiega
in un batter d’occhio come essere subito operativi.
Ulteriore distinzione: la documentazione può essere fornita in formato
cartaceo o in digitale (di solito PDF): differenza non da poco, perché cambiano la facilità di lettura, la ricerca degli argomenti, lo stile di apprendimento e memorizzazione; la scrittura dovrebbe funzionare in entrambi i casi.
Idee per un modello di analisi del technical writing
I manuali di istruzioni sono atti comunicativi, animati da regole e immersi in un contesto. Possiamo adottare anche qui il modello sempreverde
EMR: emittente, messaggio, ricevente. Ogni testo, quindi anche un manuale, è un messaggio che un emittente trasmette a un ricevente. Poniamoci alcune domande:
●
Chi è E?—Chi è il technical writer? Quali sono le sue competenze? Qual
è il suo metodo? Con chi interagisce? Quanto e come ciò incide sulla sua
scrittura?
268
●
●
Cos’è M?—Come devono essere fatti i manuali? Si possono formalizzare regole o linee guida? Quali sono le caratteristiche linguistiche e percettive di un buon testo di istruzioni?
Chi è R?—Chi è il destinatario delle istruzioni? Qual è il suo ruolo?
Quali le sue esigenze? Quali vincoli e indicazioni ne derivano per il
technical writer?
Non basta: cosa accade tra E, M e R? Sono tre poli di una relazione, non
tre atomi sospesi nel vuoto. Negli spazi interstiziali c’è un fermento di interazioni, interferenze, rumori di fondo. Il technical writer (E) mentre scrive il
manuale (M) ha in mente un modello di utente (R). Per certi versi, anche R
quando legge M pensa a E (spesso con scarsa benevolenza).
Oltre al contenuto (semantica), oltre alla forma (sintassi), bisogna tenere
conto della terza dimensione, quella pragmatica, cioè il tipo di relazione tra
un autore e un destinatario.
Sullo sfondo c’è anche un quarto elemento: l’argomento del manuale.
Che sembrerebbe un elemento oggettivo, fisso, chiaro: eppure, si sa, la mappa non è il territorio. L’immagine del prodotto che il technical writer ha in
mente può essere diversa da quella che si forma nella mente dell’utente. Il
modo di descriverla nel manuale risente di questi differenti modelli: terminologia e stili linguistici, presupposizioni, nozioni date per scontate o sviscerate a fondo.
Lo scrittore del manuale
Il TW è una professione. Ci sono technical writer specialisti e agenzie
che offrono servizi di TW alle aziende. Ma il TW è anche una prassi, svolta
da persone con le qualifiche più svariate. Spesso sono i tecnici (ingegneri) a
scrivere i manuali delle macchine o dei software. Il che rassicura sulla competenza tecnica dei contenuti, non sulla qualità dei testi.
Chi progetta una macchina o sviluppa un programma in genere non è la
persona più adatta a spiegarne il funzionamento a un principiante. Gli riesce
più difficile immedesimarsi nel principiante e comprenderne le difficoltà di
apprendimento. Uno specialista cancella, generalizza, deforma. Dà molte
cose per scontate (deve). La vera expertise si consolida quando le nozioni
vengono interiorizzate, dimenticate e automatizzate. Difficile il percorso inverso: rendere esplicite le nozioni che ormai si padroneggiano, per trasformarle in istruzioni a un principiante.
Un ottimo manuale nasce dall’interazione tra il progettista e il technical
writer. Lo scrittore ha un approccio maieutico, ossia ispirato al metodo so269
cratico di insegnare facendo emergere ciò che l’allievo inconsciamente sa
già: affianca il tecnico, lo osserva, lo intervista. Questo lavoro ha nomi specifici: elicitazione delle competenze, analisi dell’expertise, knowledge acquisition. Ma niente di formalizzato, caso mai una prassi, irrituale, empirica: passaggi di documentazione e specifiche tecniche, riunioni, prove e revisioni reciproche.
Il lettore del manuale
Il technical writer ha in mente non solo l’oggetto delle istruzioni, la macchina o la procedura: scrive sempre «per qualcuno».
Ogni testo è condizionato a monte da stile, aspettative, intenzioni dell’autore, e a valle da una proiezione sull’ipotetico utente.
La progettazione di un manuale dev’essere centrata su un modello di
lettore preciso. Un manuale di informatica destinato all’utente finale sarà
diverso da uno destinato al programmatore o all’amministratore di una rete
aziendale. Un manuale destinato a un utente europeo sarà diverso da uno
destinato a un utente giapponese o africano: diverse le formulazioni linguistiche (in tutti i paesi del mondo sarà accettabile il termine «abortire» usato
nelle interfacce software?), diversi i simboli e le icone, diverse persino le illustrazioni.
Dal punto di vista cognitivo, costruire un manuale user-centered significa tenere come riferimento il piano d’uso dell’utente nei confronti del prodotto: una gerarchia di azioni e sottoazioni finalizzate al conseguimento di
un certo obiettivo.
Nell’attuare il proprio piano d’uso, l’utente segue un circuito a feedback:
il cosiddetto ciclo TOTE (test, operate, test, exit). L’utente si prefigge una
meta, effettua una serie di operazioni, verifica il risultato e, se non soddisfatto, riprende a operare. Quando il controllo dei risultati restituisce un
feedback positivo, l’obiettivo è raggiunto e il ciclo si interrompe.
Come technical writer, dunque, cosa devo spiegare, e cosa posso trascurare? Quali sono le priorità? Da cosa comincio? Come articolo il testo, come calibro il peso degli argomenti? Dove posso generalizzare, e dove devo
formulare esempi concreti?
In genere, costruire un buon manuale che rispecchi e assecondi il piano
d’uso dell’utente non è altro che applicare il modello tutorial:
●
organizzare la sequenza delle istruzioni in una gerarchia di capitoli e paragrafi che corrispondano a quella delle operazioni che l’utente intende
compiere;
270
T E S T : regolare il volume]
[T
TEST
[Controllo: il volume è al livello desiderato?]
sì
no
OPERATE
[Operazione: ruotare la manopola]
TEST
[Controllo: il volume è al livello desiderato?]
sì
no
EXIT
[Fine della procedura: azione conclusa]
Il ciclo TOTE.
●
●
●
accorpare le istruzioni in modo sensato per l’utente (ogni azione include
una serie di operazioni; per esempio, stampare un file: selezionare una
stampante, impostare alcune opzioni, controllare l’anteprima e infine avviare la stampa);
dove opportuno, indicare i feedback che la macchina può fornire (messaggi visivi o acustici) oppure gli eventi imprevisti che si possono verificare;
distinguere (linguisticamente e/o graficamente) le istruzioni relative alle
procedure da quelle relative alle opzioni e ai feedback.
Inoltre ogni utente, o categoria di utenti, ha un certo stile di apprendimento. Qui entrano in gioco vari fattori:
●
●
●
●
le prerogative e i limiti della percezione (leggibilità dei testi e delle illustrazioni);
le prerogative e i limiti della memoria (quanti passaggi di un’operazione
può tenere a mente con facilità un utente? Di norma, sette);
le prerogative e i limiti del linguaggio (chiarezza, rischio di equivoci,
gergo tecnico, preferenze per i messaggi visivi o auditivi o cenestesici);
le competenze pregresse dell’utente: quanto è già esperto? Quali analogie e metafore si possono sfruttare? E così via.
271
C’è poi il livello pragmatico della «conversazione» fra technical writer
e lettore svolta attraverso il testo del manuale. Il rapporto tra chi scrive e
chi legge un manuale è di tipo cooperativo: il lettore è lì per imparare e lo
scrittore per spiegare. Il lettore è motivato ad apprendere: va assecondato
e facilitato, non forzato o estenuato. Non è né un automa, né un allievo
riottoso.
Non sempre c’è il tempo per riflettere in modo tanto sistematico. A volte
si procede per approssimazione.
Di sicuro, comunque, chi scrive istruzioni si prefigura un certo interlocutore, che ne sia consapevole o no. Se non ne è consapevole, rischia di lasciare troppi presupposti non discussi, che possono piegare la sua scrittura in direzioni lontane dalle esigenze del lettore. Se ne è consapevole, può calarsi
nei panni del suo lettore, proiettarne caratteristiche, difficoltà e aspettative,
e scrivere in modo più attento e mirato.
La «buona forma» delle istruzioni
Si può descrivere una «buona forma» del testo istruzionale in quanto tale, prescindendo dallo scrittore e dal lettore? Entro certi limiti, sì.
Dal punto di vista linguistico, gli studiosi considerano le «istruzioni» come microtesti che si possono classificare anzitutto in base al contenuto. Si
può parlare di:
●
●
●
operazioni:–sono gli atti che l’utente compie sulla macchina; si caratterizzano in base alla frequenza (una tantum, periodiche, ricorsive ecc.),
alla funzione (installazione, avvio/spegnimento, funzionamento, impostazione/manutenzione ecc.), alla forza vincolante (obbligatorie, facoltative ecc.);
eventi:–sono i «cambiamenti di stato» o i «comportamenti» della macchina, divisi in segnali (messaggi trasmessi all’utente in varie forme e
modalità) e risultati (eventi provocati dalle operazioni dell’utente, come
parte integrante del funzionamento della macchina);
sequenze:–operazioni ed eventi si combinano appunto in sequenze, che
possono essere lineari o parallele (ossia diramazioni alternative del ciclo TOTE: «Se azionate l’opzione A accadrà X. Se attivate l’opzione B
accadrà Y»). Le sequenze sono imperniate su scopi e controscopi («Se
volete interrompere l’esecuzione»). Ogni sequenza rappresenta una
procedura completa e corrisponde a un’azione in rapporto al piano d’uso globale.
272
Le istruzioni possono anche essere classificate in base allo stile linguistico:
●
●
●
direttivo:–informazioni procedurali circa attività che l’utente può (consigli, opzioni) o deve (ordini, avvertenze) compiere; si esprimono in vari
modi dei verbi (infinito, indicativo, imperativo, gerundio);
elencativo:–liste di caratteristiche, comandi, opzioni o parti della macchina, spesso in forme ellittiche (senza verbi);
descrittivo:–commenti e altre informazioni non direttamente legate all’azionamento della macchina (testi di carattere motivazionale, gratificante,
pubblicitario, che sottolineano i pregi della macchina); hanno toni più
discorsivi.
Un altro elemento importante è il lessico tecnico, cioè l’insieme di termini chiave legati alla macchina e al suo funzionamento. Se e con quale
profondità descriverlo, dipende dal tipo di destinatario, esplicito o implicito.
Se si decide di descriverlo, le definizioni possono essere espresse secondo
varie modalità linguistiche: sinonimica («La RAM, Random Access Memory, è la memoria ad accesso casuale»), analitica («La RAM è la memoria
di lavoro in cui sono contenuti dati e programmi durante l’esecuzione»),
sintetico («Il tasto F1 è il primo e il più utile dei tasti funzione»), implicito o
implicativo («La stampante si collega al computer mediante un cavo USB»:
non si spiega cos’è il cavo USB ma si fa capire a cosa serve), denotativo o
esemplificativo («Per pulire il display non usare sostanze aggressive – alcol,
detergenti per vetri ecc. –»), ostensivo (si spiega un termine con una figura
anziché un testo).
Un breviario per il technical writer
●
●
●
Rispettare e rispecchiare le gerarchie—Il testo dev’essere segmentato in
modo sensato e coerente; le sequenze di operazioni ed eventi vanno accorpate secondo raggruppamenti logici ed espresse in modo opportuno
(sui piani linguistico e grafico).
Bilanciare il detto e il non detto—Decidere quali e quanti elementi di
ogni sequenza vanno esplicitati, quali e quanti possono invece essere saltati o lasciati impliciti.
Adottare un tono adeguato—La «tonalità» del testo è importante in particolare per descrivere gli eventi, che hanno una loro specifica «sensorialità»; le macchine infatti forniscono feedback e segnali in varie forme
(testi visualizzati sullo schermo, spie luminose e colorate, messaggi verbali, suoni come bip o squilli, vibrazioni, scatti ecc.). Pensate alla diffe273
renza di forza espressiva tra queste tre formulazioni di un identico evento-macchina:
a. Al termine dell’esecuzione, la macchina avverte che la procedura è andata a buon
fine.
b. Al termine dell’esecuzione, la macchina genera un segnale acustico di conferma.
c. Al termine dell’esecuzione, la macchina emette tre brevi e acuti bip per confermare il risultato.
●
Non mescolare gli stili—Capita ogni tanto di leggere un’istruzione senza
capire se indica una procedura obbligatoria o opzionale, se è un’avvertenza o un consiglio, se è un’operazione a sé stante o richiede prima l’esecuzione di determinate procedure. È un errore che si può evitare se la
scrittura delle istruzioni rispetta gli opportuni stili linguistici.
A proposito di tono e stile, che dire della tipica asetticità dei manuali di
istruzioni? Viene largamente adottato un approccio impersonale («Si faccia attenzione…», «Si deve fare clic…», «Si osservi…»), o con i verbi all’infinito («Premere… Ruotare… Selezionare…»). Forma fredda e stilizzata. Dev’essere sempre così? La piacevolezza, la sensorialità, la gradevolezza
al tatto di un oggetto sono aspetti non slegati da quelli tecnici. Fanno parte
integrante della progettazione, prima ancora che del marketing. Lo stesso
concetto di usabilità include anche aspetti di gradimento e gratificazione.
La dimensione emozionale e sensoriale non è estranea all’utilizzo di
una macchina. Un manuale per l’utente finale può legittimamente includere
questa coloritura, mediante vari accorgimenti stilistici:
●
●
●
●
uso di una forma linguistica personale, a discorso diretto, con il voi o il tu;
sottolineatura delle componenti sensoriali nell’interazione con la macchina;
integrazione delle mere istruzioni con testi di carattere motivazionale
(per esempio, ricette di cucina nel manuale di una gelatiera o di un forno
a microonde; nozioni di musica o indicazione di siti web interessanti per
un lettore di CD o di MP3);
cura dell’estetica per una complessiva gradevolezza (illustrazioni, impaginazione, tipo di stampa e legatura).
Un manuale piacevole da leggere per un oggetto piacevole da usare.
274
Istruzioni per scrivere istruzioni?
Certo, tutte le classificazioni abbozzate in questo capitolo riescono facili
a posteriori. Sono il frutto di analisi di manuali già scritti. Ma cosa accade
quando si deve scrivere un manuale? «Come si fa?» Il TW non sfugge all’indefinibile impasto tra «tecnicalità» e creatività. Ci sono metodi, non ricette. Paradossalmente, la trappola più banale è proprio quella di voler inquadrare il TW come una disciplina ingegneristica, esatta, algoritmica. Dimenticando che il mestiere è sempre quello: scrivere.
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DA TECHNICAL WRITING
A TECHNICAL COMMUNICATION
di Vilma Zamboli
La Society for Technical Communication nasce nel 1957 e conta oggi 25.000
aderenti in tutto il mondo. Finanzia progetti di ricerca, contribuisce alla nascita
di corsi universitari, promuove competizioni, riconoscimenti, conferenze e seminari web.
In Europa è attivo il TransAlpine Chapter (www.stc-transalpine.org) che include
Italia, Austria, Germania, Slovenia e Svizzera.
Anche l’Italia si sta risvegliando in quest’ultimo quinquennio. Stanno comparendo piccole aziende e liberi professionisti che offrono servizi legati alla comunicazione tecnica, alcuni in ambito normativo, altri in ambito più vasto. Stanno emergendo i web writer, grazie all’avvento dei portali e dei sistemi di content management. Nello stesso tempo, gran parte degli operatori del settore sonnecchia. Ci
sono migliaia di professionisti che curano la comunicazione tecnica per grandi o
medie aziende, ricoprendo incarichi tra i più disparati (public relation, marketing,
training, documentazione), e non hanno coscienza della loro professione, a volte
a scapito della qualità dei risultati e del riconoscimento in azienda. In ambito ICT
vedo affidare a sviluppatori software compiti destinati a un information designer:
risultati disastrosi. Resta parecchia strada da percorrere, ma soprattutto occorre
conoscersi meglio, e riconoscersi in un profilo professionale dal valore crescente.
La tecnologia stessa, ma soprattutto i risultati di ricerche e studi ci stanno portando verso ambiti più legati agli aspetti cognitivi e manageriali della comunicazione: ecco da un lato l’usabilità delle interfacce e delle informazioni, la progettazione visuale dei contenuti, dall’altro l’applicazione di modelli per l’ottimizzazione dei progetti documentali.
A maggior ragione oggi è necessario formarsi, per offrire soluzioni all’altezza della tecnologia e delle attese dell’utente.
275
IL TECHNICAL WRITER IN AZIENDA
di Giovanna Chiozzi
Assumere un technical writer qualificato è sempre un problema per le aziende
italiane. Non esiste in Italia una formazione specifica, trattandosi di un profilo
che accorpa diverse forme di scrittura professionale. Un technical writer si forma
all’interno dell’azienda, attraverso anni di esperienza, con predisposizione, elasticità e velocità di apprendimento. Così nascono figure che si «specializzano», per
esempio, nella descrizione del prodotto, magari partecipando alla definizione dei
requisiti, dell’interfaccia del prodotto stesso o al suo collaudo, e divenendone i
primi veri utilizzatori.
La risoluzione dei piccoli problemi di utilizzo ha inizialmente creato uno spazio
aziendale al technical writer, connotato come colui che sta «dalla parte dell’utilizzatore». È bello ricevere la visita di un tecnico che chiede: «Prova questo: cosa ne
pensi? È facile da usare? Ti sembra chiaro?». Ho visto technical writer diventare i
«consulenti interni» del team tecnico, con l’obiettivo di semplificare l’approccio
tecnologico al prodotto o «tradurre» un linguaggio settoriale in istruzioni chiare.
Esperto nelle problematiche di utilizzo, il technical writer viene coinvolto nelle
varie fasi del processo produttivo: da quelle iniziali di definizione dei requisiti,
delle funzionalità e dell’interfaccia, alle fasi finali di test di usabilità. La sua collocazione trasversale innesca così un ciclo virtuoso di miglioramento delle varie fasi produttive.
L’utilizzo strategico di un technical writer è riservato ad aziende che hanno la lungimiranza di far crescere figure specializzate. L’azienda che relega il lavoro del
technical writer alla mera stesura del manuale perderà una grande occasione: aggiungere al proprio prodotto il quid qualitativo che può determinare il suo vantaggio competitivo.
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276
Università
Alma mater!
La scrittura fra toghe e matricole
di Elena Caldirola
FREQUENTANDO un corso di giapponese mi colpì l’espressione che rappresenta il concetto di università: dai gaku, che letteralmente significa «grande
studio». Cosa rende meglio la grandezza, la complessità e la profondità del
mondo universitario?
Nel mondo universitario si intrecciano stili e approcci fra i più diversi, in
continua comunicazione fra loro, anzi, in continua «contaminazione».
Nell’università - grande studio si incontrano tutte le forme dello scibile
umano, che nei millenni hanno sviluppato forme espressive funzionali alla
comunicazione tra specialisti, ma anche alla trasmissione del sapere tra le
vecchie e le nuove generazioni. Per questo ho cercato di rappresentare il fenomeno a 360 gradi, in modo da coinvolgere tutti gli aspetti:
a. lo scambio di saperi e il confronto scientifico in seno alla comunità accademica;
b. la trasmissione del sapere, ovvero l’oralità del docente che diventa parola scritta (dispense didattiche);
c. le forme di comunicazione interna alle istituzioni universitarie;
d. la comunicazione degli studenti: i loro scritti (tesi e tesine);
e. la reazione degli studenti: le loro libere espressioni.
La parola è «chiarissima»
Nelle comunicazioni ufficiali ci si rivolge ai docenti universitari con
«chiarissimo/a»: si ha a che fare con menti lucide, selezionate, profonde.
Il linguaggio e la struttura negli scritti scientifici sono di registro alto e
277
variano moltissimo da disciplina a disciplina. Diversi fattori ce ne consentono una categorizzazione.
1. Il lessico è un collante fortissimo per ogni disciplina e, all’interno della
disciplina, per settore di specialità. Ci sono espressioni scientifiche proprie di ogni disciplina, che gli studiosi ricalcano con grande cura nei loro
scritti. Il senso di appartenenza e la necessità di essere ricompresi nel
gruppo dei pari mette in moto questo meccanismo.
2. La struttura superficiale dell’esposizione cambia in funzione delle argomentazioni. Un conto è lo scritto che si vuole rifare a teorie già consolidate
per aggiungere un’ulteriore parte di conoscenza, un conto è lo scritto che
contesta quanto asserito da altri studiosi e propone una teoria diversa.
Il primo sarà attento a calibrare e ricalcare, agganciandosi punto per
punto alle teorie precedenti per sfruttare i punti di appoggio su cui costruire ulteriori sviluppi. Non compariranno congiunzioni disgiuntive (o,
oppure), quanto invece copulative e aggiuntive (e, inoltre, infatti, anche).
Il secondo potrà seguire uno schema di calibrazione-ricalco-guida se intende instaurare un dialogo con i sostenitori di una teoria opposta; viceversa, di proposito, assumerà uno schema di rottura per suscitare la battaglia delle idee. In questo caso userà negazioni, congiunzioni disgiuntive e avversative (ma, tuttavia).
In modo particolare saranno presenti le nominalizzazioni, che bloccano
un processo in un evento per poterlo analizzare meglio.
3. I testi scientifici superano un esame severo: quello dei pari. Sono gli
stessi colleghi dello studioso a valutare la bontà e la qualità dei contenuti. Pertanto gli errori tipici della struttura superficiale dell’espressione
sono tenuti sotto controllo: uno scritto di questo tipo deve evitare le generalizzazioni, perché le argomentazioni prive di sostegno verranno confutate. Pericolose anche le cancellazioni: lo scritto scientifico è articolato e autoesplicativo in ogni sua parte, pena la mancata approvazione. Sono assolutamente da evitare le deformazioni: lo scritto scientifico spiega,
contesta, dimostra. Non travisa le idee.
La parola spiega
Se lo stile delle pubblicazioni scientifiche è ben calibrato e attento, lo stesso non si può dire per il materiale didattico che circola fra gli studenti.
Il molto casi è il trionfo dello stile visivo. I concetti sono esposti per punti, messi in evidenza con frecce o puntatori grafici. Le slide fanno la parte del
leone, privilegiando il colpo d’occhio sulle cose importanti, la schematizza278
OLTRE L’EMANCIPATIO
Il fiduciario riceve il figlio in
condizione di mancipium
•
Il padre compie la mancipatio del figlio
•
Il figlio torna in potestà del padre
•
Il padre copie una seconda mancipatio
del figlio
•
Il figlio torna in potestà del padre
•
Il padre copie una terza mancipatio del
figlio e perde così la potestà su di lui
•
Il padre riceve il figlio in condizione
di mancipium
Il fiduciario compie la mancipatio
del figlio al padre
•
Il padre manomette vindicta il figlio che
diventa così persona sui iuris
1
Il fiduciario manomette vindicta
il figlio
2
Il fiduciario riceve il figlio in
condizione di mancipium
Il fiduciario manomette vindicta
il figlio
3
Il fiduciario riceve il figlio in
condizione di mancipium
zione degli argomenti e la loro sequenza. Lo studente segue non solo la sequenza delle slide, ma, all’interno di ciascuna, la sequenza delle animazioni
che puntano l’attenzione sulla gerarchia degli eventi. Ecco una slide su un
istituto giuridico. Il docente pone in essere accorgimenti di tipo visivo per
guidare lo studente alla comprensione di una complessa istituzione di diritto
romano costituita di un flusso di atti giuridici nella loro necessaria successione. I numeri inseriti nelle frecce sottolineano la ripetizione di una azione
(compiuta tre volte), coadiuvati dalla sottolineatura delle parole.
Nelle facoltà di Ingegneria e Matematica le dispense sono lunghe teorie di
grafici, immagini e funzioni commentate sinteticamente dal docente (vedi figura a pagina 280). Anche a Medicina si usa molto lo strumento immaginegrafico-commento, compattato in un’unica slide. Il tutto prelevabile da internet. E anche nelle facoltà umanistiche le slide godono di una buona diffusione,
ma si fanno più articolate e più dense di parole, più «Word in pillole». Spesso
servono come compendio che aiuti lo studente a ricordare la spiegazione.
In altri casi c’è maggiore ibridazione tra testo e schema, o addirittura si ricorre al supporto elettronico per ribadire gli schemi della tradizionale lavagna.
In alcune dispense elettroniche in aggiunta al testo introducono anche inserti sonori, semplici suoni o veri e propri commenti del docente: così viene
maggiormente coinvolto anche lo studente auditivo.
Non mancano le classiche dispense di solo testo. In genere ricalcano lo
stile degli scritti scientifici.
279
La parola è «egregia», a volte anche «gentile»
In università coesistono diversi flussi comunicativi: esaminiamo qualche
testo. L’organigramma di un ateneo è composto da realtà molto diverse nei
loro fini: le facoltà sviluppano la didattica, i dipartimenti la ricerca, il settore tecnico-amministrativo, i servizi. Ecco un testo che è possibile trovare in
un’area dedicata a un servizio, la mensa:
Si invitano gli studenti e i frequentatori della mensa a NON OCCUPARE PREVENTIVAMENTE i tavoli e le sedie delle sale di refezione e A NON PROLUNGARE LA PERMANENZA dopo aver consumato il pasto nelle occasioni di forte affluenza di colleghi a cui occorre riconoscere il medesimo diritto di rifocillarsi.
L’invito è rivolto ALLA INTELLIGENZA E ALLA BUONA EDUCAZIONE DI TUTTI.
Grazie
Il testo è paradigmatico e offre molti spunti di riflessione. Vi si intuisce
la mappa rappresentazionale della direzione, secondo la quale i locali della
mensa:
●
sono un luogo dove gli studenti fruiscono di un servizio;
280
●
●
devono mantenere uno standard di efficienza, ordine e sicurezza;
devono assicurare un certo numero di pasti erogati al giorno.
L’atteggiamento nei confronti degli studenti è esplicito: avvertire per
vietare (scarsa fiducia o esperienza?). La comunicazione avviene per lo più
in forma negativa. Applicando il metamodello, una struttura superficiale
«occorre che» induce a domandarsi «Altrimenti, che cosa succede?». Nei ricordi del direttore di mensa devono esserci vivaci discussioni fra tavoli,
scambi di invettive, lanci di zaini. E in «refezione» e «rifocillarsi»: che distanza dal linguaggio dello studente e anche dal vocabolario comune.
Ipotizziamo ora il punto di vista dello studente:
●
●
in mensa ci si ritrova dopo le lezioni o l’esame;
mangiare è solo uno dei motivi: incontrare gli amici, scambiarsi informazioni, raccontare la giornata, dare e ricevere consigli, trovare un fidanzato o una fidanzata; passare un po’ di tempo al caldo o al fresco,
spendendo poco.
Come trovare un compromesso? Come creare un rapport, evitando il
muro contro muro? Le parole magiche sono sempre le solite: calibrare, ricalcare e guidare.
L’alter ego del cartello citato potrebbe essere:
Benvenuto alla mensa! Qui puoi mangiare a prezzo contenuto, ecco perché ogni
giorno serviamo in 2 ore ben 1000 pasti. Tanti, vero? Per farcela abbiamo bisogno
del tuo aiuto: solo così verrà rispettato per tutti il diritto di venire in mensa. Come fare? Semplice: appena finito il pasto, lascia libero il tuo posto, vai alla caffetteria, o al
Shop UP proprio di fronte. Per i compagni in fila sarai un mito!
Grazie, lo staff
Entriamo ora nel corridoio di un dipartimento e leggiamo sui muri:
CHI SOSTA NEL CORRIDOIO
È PREGATO DI OSSERVARE
UN CORTESE
SILENZIO
281
Chi ha scritto il cartello ha usato un verbo visivo (osservare) e un sostantivo auditivo (silenzio). È stato impersonale (chi… è pregato di) di registro
elevato (sosta) e ha cercato di ingentilire il rigore (cortese).
Un «graffitaro» (forse uno studente in attesa) ha voluto lasciare un
commento: una sola parola, che esprime la sua rappresentazione di quel
mondo sottintendendo una garbata, ironica, cenestesica protesta (quanto
ve la tirate…).
Insomma, «una risposta» potente, sintetica: anche simpatica, dal momento che il cartello in oggetto è esposto da mesi e nessuno si sogna di sostituirlo con un altro «pulito».
Nessuno si sente offeso: magia del rapport, anche se un po’ particolare?
Scaviamo ora nei rapporti tra istituzioni interne all’università. Vediamo
questa lettera:
oggetto: Aula informatizzata
Gentili Professori,
il Dipartimento di *** e la Facoltà di *** avevano intrapreso un progetto in comune:
allestire insieme un’aula informatizzata utile alle finalità di entrambi gli istituti.
Era stata individuata allo scopo una sala presso la vostra Facoltà di ***, nella quale
erano stati installati, a spese del ***, complessi impianti audiovisivi, e, con altri fondi,
acquistati mobili vari e sedie.
Purtroppo a tutt’oggi, a causa della attuale destinazione di uso dell’aula (in parte
punto di riferimento della †††) nessuno dei materiali sopra citati è mai stato utilizzato; addirittura i mobili sono ancora chiusi negli imballi di consegna.
Il Direttore del ***, di concerto con i Professori ***, ha svolto un sopralluogo atto a
verificare la situazione e mi ha riferito che difficilmente l’aula potrà entrare in funzione a breve termine.
Considerando l’incertezza (condivisa anche dai Professori ***) su come e quando la
nostra volontà di cooperazione possa finalmente trovare compimento, ritengo sia
dannoso per tutti lasciare esposti alla polvere e all’incuria decine di migliaia di euro
di sistemi audiovisivi [segue dettaglio], mentre presso *** abbiamo la necessità, a
beneficio di centinaia di studenti, anche quelli della Facoltà di ***, di allestire un’aula
con tali caratteristiche.
Pertanto, ferma restando l’intenzione di ricostituire il progetto in ogni dettaglio non
appena se ne creeranno i presupposti, darei disposizioni affinché i dispositivi sopra
citati siano prelevati dalla sede dove attualmente si trovano e portati presso il nostro
laboratorio ***.
Restando in attesa di un vostro cortese riscontro, vi saluto cordialmente
Professore
***
A fronte di un problema spinoso l’autore ha compiuto un ottimo lavoro.
282
1. Calibrazione—Lo scrivente chiede di poter rientrare in possesso di un
materiale di grosso valore economico (già installato e posto in opera),
dal momento che è fallito il progetto cui era destinato. Chiunque lavori
nelle istituzioni sa quanto questo sia difficile.
Tra lo scrivente e il destinatario si è interposto un terzo attore (†††).
Quest’ultimo è potente e intoccabile. Lo si capisce dal fatto che viene citato solo una volta, incidentalmente, e lasciato fuori dal discorso.
2. Ricalco—Non vuole mancare di rispetto al destinatario (al quale si rivolge con prudenza e gentilezza), anzi: gli inviti alla collaborazione sono
reiterati, il capo interpone un collaboratore per dare un senso meno personale, più prospettico alla vicenda, e sempre nel segno del «fare insieme» (un progetto in comune, nostra volontà di cooperazione, di concerto con i Professori, ricostituire il progetto ecc.). Come si può sparare addosso a chi è dalla tua stessa parte?
3. Guida—La guida verso la soluzione è dolce e propositiva: lo testimoniano l’uso del condizionale e di verbi di opinione (ritengo che, darei disposizioni, restando in attesa). Si sottolinea inoltre che il beneficio per la
Facoltà di *** ci sarà comunque, anche se in misura ridotta.
La parola ci prova
Ora tocca allo studente: protagonista e autore di testi, si sforza di scrivere con un registro comunicativo in sintonia con quello del docente.1
In alcune università sono stati attivati pre-corsi di lingua italiana dedicati
alla corretta lettura di testi. Soprattutto negli esami scritti, una parte consistente degli aspiranti studenti ha difficoltà a interpretare il testo. Le risposte
sbagliate sono spesso dovute non a impreparazione, ma all’errata comprensione della domanda.
La tecnica di lettura dei ragazzi di oggi, inoltre, è diversa da quella delle
precedenti generazioni e risente dell’impatto con le nuove tecnologie. Prende piede la «scansione», al posto della lettura: l’occhio «passa» sul testo
cartaceo cercando di raccogliere le notizie più significative, senza più leggere per intero. Proprio come avviene sul web.
Questo sistema non può funzionare in ambito universitario, dove si richiede precisione sui termini e sul significato. Insomma il problema della
generalizzazione fa capolino già dal primo momento, nella lettura. Nella
scrittura, poi dilaga.
I docenti si trovano spesso a correggere testi pieni di errori di ortografia,
senza punteggiatura, con una difficile articolazione del pensiero, sempre più
assimilabili al parlato.
283
Internet entra profondamente anche nei contenuti degli scritti degli studenti, a causa del grande uso del copia-incolla di interi brani trovati in rete,
più o meno attinenti l’argomento.
Un aspetto preoccupante è quello dell’uso dei concetti per assonanza o per
similitudine: per esempio Karl Polanyi (economista e antropologo) diventa
Polanski (il regista), l’espressione «viene concessa l’assicurazione sull’infortunio per lavoro» diventa «viene concesso l’infortunio sul lavoro» (sic), e «accumulo di capitale» è impiegato come sinonimo di «capitalizzazione».
Insomma, un più o meno che aggiunge a un processo di generalizzazione
anche quello della deformazione.
Gli studenti, poi, spesso non si prendono il tempo necessario per scrivere: consegnano con rapidità i compiti per poi accorgersi che sono scritti in
fretta e disorganizzati. In molti elaborati si nota la mancanza di strutturazione, la vecchia «traccia». Anche nelle tesi di laurea, soprattutto in quelle brevi del nuovo ordinamento.
E, per concludere, i vizi di cancellazione: spesso la prospettiva del prima e del dopo storico è del tutto assente. La tendenza è rendere tutto al presente.
Tutto negativo? Certamente no. Del resto i docenti sono stati prima studenti, e avranno trovato maestri che hanno mostrato loro gli errori e la strada per porvi rimedio.
La parola sgomma, sfida, batte i tasti
Le parole corrono a briglia sciolta nel passaparola studentesco. Gli strumenti principali del tam-tam universitario sono il forum e la chat. Anche in
atenei dove molti studenti sono ospitati nei collegi questo fenomeno va fortissimo. Dal punto di vista dei contenuti gli argomenti sono sempre i soliti:
richiesta di informazioni, vendo/compro, segnalazioni di disservizi: prontuari del «sopravvivi in questa giungla».
Netta inversione rispetto al linguaggio scientifico dei docenti. Le generalizzazioni sono all’ordine del giorno. Forte la contrapposizione per appartenenza: «noi» e «loro». Del resto anche gli studenti hanno la necessità di essere accettati nel gruppo dei pari.
A Ingegneria, Economia e Medicina, discipline fortemente professionalizzanti, c’è più decisione e spirito battagliero. In altre facoltà (per esempio
Lettere e Lingue) i messaggi sono meno taglienti, più «di servizio», tesi a
oltrepassare «quel» particolare ostacolo. In genere le ragazze sono più attente alle relazioni: i messaggi sono più completi e gentili.
Non si ha paura di essere chiari, al limite dell’offensivo. La persona cui
284
vuoi dire «delle cose» non è davanti a te, così diventa più facile lasciarsi andare. Non è qui di casa il concetto di rapport.
Un esempio: un botta e risposta tratto da un forum cui ha partecipato anche un docente (o qualcuno che ha simulato, con successo, di esserlo):
Regalo libro del mitico *** causa INUTILIZZO...
chiunque fosse interessato mi telefoni
cell. 000-0000000
.......................................................................
Regalo libro del mitico ***???
Mitico in che senso? abbiamo mai cenato insieme? sarebbe meglio mantenere un
certo rispetto nel rivolgersi a un docente universitario. Come si permette di parlare di
inutilizzo e così facendo di criticare lo svolgimento del corso? E poi... vorrei proprio
sapere in che modo è riuscito a superare il mio esame non avendo neanche aperto il
libro di testo. Comunque ho già contattato la [azienda di telefonia] per risalire al suo
numero di telefono e di conseguenza annullarle l’esame, nonché portarla in commissione disciplinare. Buona giornata.
Vero e proprio fenomeno di contaminazione. Gli stili si mischiano e interagiscono, quando gli studenti si rivolgono ai docenti cercano di alzare il registro comunicativo; al contrario quello dei docenti (o supposti tali) si fa più
contratto e sbrigativo.
Per concludere, una breve indagine nella scrittura «pura» degli studenti,
dedicata a fissare sulla carta le emozioni.
Recentemente è stata condotta una ricerca da parte del dipartimento di
Studi politici e sociali dell’Università di Pavia, coordinata dal professor Celestino Colucci, sui diari di alcuni studenti della scuola secondaria superiore. Anche se non si tratta ancora di studenti universitari, presto lo diventeranno.
Dall’esito dell’analisi sui diari, quello che colpisce, oltre i contenuti, è la
comunicativa di quegli scritti. Sono usati tutti i registri possibili, come si vede dalle figure di pagina 286: anche quello scultoreo, alla Alberto Burri, che
«scolpisce» il diario con l’accendino.
285
Che potevano
valersi, oltre che
delle parole, di
decorazioni,
disegni... ma
anche della
musica...
sino a
sperimentare
tentativi di
espressione che
combinavano con
grande efficacia
grafica e
scultura.
Note
1
Ringrazio Marita Rampazi, docente alla facoltà di Economia dell’Università degli studi di
Pavia, per l’utile conversazione su questo tema, da cui ho tratto numerosi spunti.
286
Vendere
Come creare il momento magico
di Claudio Maffei
UN imprenditore del settore calzaturiero è prossimo a cedere il timone dell’azienda. Per operare la scelta migliore decide di inviare i due figli in due
diversi paesi dell’Africa, promettendo loro che chi avrebbe venduto più
scarpe in un mese sarebbe diventato il suo successore.
Il primo figlio, appena arrivato, nota con disappunto che tutti gli abitanti
sono senza scarpe. Telefona subito al padre dicendo: «Qui tutti gli abitanti del
paese sono scalzi, non abbiamo alcuna possibilità di vendere scarpe, domani
ritorno in Italia».
Anche il secondo figlio nota che tutti gli abitanti sono senza scarpe. Telefona al padre dicendo: «Papà, qui tutti gli abitanti fortunatamente sono
senza scarpe: mandamene subito un ingente quantitativo perché prevedo di
realizzare un grosso volume di vendite».
Mappa e territorio, intenzione e risposta
Uno dei più efficaci condizionamenti neuroassociativi è la ristrutturazione: parte dal presupposto che nessuna esperienza che ci accade è positiva
o negativa in sé; ciò che la rende tale è il modo in cui la rappresentiamo a
noi stessi.
Una delle affermazioni fondanti della programmazione neurolinguistica
è infatti questa: la mappa non è il territorio. Il menu che sfogliate al ristorante è una descrizione del cibo, non il cibo.
Se trasferiamo questo principio nell’ambito della vendita, capiamo che
uno degli errori di molti venditori è pensare che il cliente percepisca il prodotto o servizio esattamente come essi stessi lo percepiscono. Il venditore che
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conosce i condizionamenti neuroassociativi, invece, dimentica momentaneamente la propria mappa del mondo per comprendere quella del cliente.
Il risultato di ogni comunicazione non sta nelle intenzioni di chi comunica, ma nella risposta che si ottiene. Questo principio discende dall’enunciato «la mappa non è il territorio».
Ogni persona possiede una propria mappa. Se rivolgete un complimento
a qualcuno (intenzione), e ricevete un insulto (risposta), non è l’altro che
non ha capito: siete voi che dovete modificare la vostra strategia.
Quando parlo di vendita, lo faccio nel senso più ampio del termine. Infatti
ognuno di noi, in ogni momento, vende qualcosa a qualcuno: la propria immagine, le proprie idee, i propri sentimenti. Vendere significa soprattutto comunicare. Infatti, il marketing esiste da cinquant’anni perché esistono le imprese; la comunicazione esiste da un milione di anni perché esistono le persone. Le relazioni sentimentali, l’amicizia, qualsiasi lavoro, tutti gli ambienti in
cui ci troviamo a vivere hanno profonde analogie con la vendita.
Un buon venditore è soprattutto una persona di buone capacità relazionali. L’ascolto attivo, la flessibilità, la creatività e la disponibilità sono i pilastri delle sue buone relazioni.
Quattro pilastri per costruire buone relazioni
Ascolto attivo
Quante persone avete trovato che, senza nemmeno farvi finire la domanda, vi dicono «certo, certo», e subito illustrano la loro idea?
Credo che la peggiore carenza, nell’epoca della comunicazione, sia proprio l’ascolto. Intendo ascolto attivo: chi ode qualcosa è passivo; invece chi
ascolta si concentra, ha contatti oculari con l’interlocutore, sospende ogni
altra attività e, soprattutto, sospende il giudizio.
Questo è un altro aspetto bellissimo della neurolinguistica: gli studiosi di
questa materia ci dicono «studia l’altro, non giudicarlo».
Flessibilità
Le persone meno adatte a fare il venditore sono quelle che si esprimono
con frasi tipo «Io sono fatto così», «È una questione di principio».
L’obiezione che a volte mi fanno in aula quando parlo di flessibilità è: «Ma
se mi adatto troppo all’altro, poi non sono più me stesso». Chi l’ha detto? Non
è che assaggiando un cibo che non vi piace, o andando una settimana in montagna al posto del consueto e adorato mare, cambierà qualcosa dentro di voi.
Cambia l’apertura mentale che, con le nuove esperienze, ci guadagna! State
certi, potrete cambiare opinione su alcuni fatti della vita, rimanendo voi stessi.
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Creatività
Oggi se ne parla molto. Forse è più una moda che una vera convinzione.
Insegnando all’università e facendo il consulente per Confindustria, sono un
buon «ufficio di collocamento». Ogni tanto qualche imprenditore mi chiede
un giovane creativo, intelligente, portato all’innovazione. Glielo trovo. Dopo un po’ di mesi il giovane viene da me a lamentarsi, dicendomi che nell’azienda gli hanno detto: «Da domani fai questo, questo e quest’altro».
Ma non lo volevano creativo? Credo che molti imprenditori preferiscano
avere dipendenti che «eseguono» anziché dipendenti che pensano.
Al di là delle mode, poi, nella vendita le cose difficilmente vanno come
sono prospettate nei manuali. La creatività servirà dunque per tirar fuori al
momento giusto qualche coniglio bianco dal cilindro.
Disponibilità
Fondamentale nei rapporti interpersonali, nella vendita è l’ingrediente
primario. È proprio vero che il cliente ha sempre ragione? Assolutamente sì.
Quando qualcuno, acquistando un corso, mi chiede: «Mi tratterai da amico?», normalmente rispondo: «Ti tratterò molto meglio: ti tratterò come un
mio cliente».
L’empatia
Il fondatore del Mental Research Institute di Palo Alto in California, Paul
Watzlawick, ha dimostrato che non si può non comunicare. Nessuno di noi
può avere un «non comportamento». Il nostro corpo comunica sempre, e dall’esterno è visibile ciò che accade all’interno del nostro cervello.
Se per strada fermate un passante per chiedere un’indicazione e quello
ve la dà in modo seccato e sbrigativo, sarete soddisfatti? Credo di no, perché
in ogni comportamento esiste un aspetto di contenuto e uno di relazione.
Non ci basta ciò che ci viene detto, ci interessa come ci viene detto. È su
questo aspetto che, di solito, giudichiamo le persone.
Troppo spesso nel lavoro ci si concentra sulle parole e non sul modo di
dirle. Molti di voi conosceranno le percentuali della comunicazione verbale,
paraverbale e non verbale: i famosi 7, 38, 55 per cento. Valgono per la comunicazione empatica, quella che oltre a trasferire un contenuto serve a instaurare una relazione. Un tipo di comunicazione empatica è il teatro.
L’Amleto di Shakespeare può essere la cosa più coinvolgente del mondo o
una boiata pazzesca. Dipende dalla compagnia, dalla regia, e anche un po’
dal vostro umore.
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L’intelligenza emotiva
Lo psicologo americano Daniel Goleman ha scritto un best-seller che
consiglio a chi, soprattutto se giovane, voglia fare il venditore: Intelligenza
emotiva.1 Di che si tratta? Dovremmo partire da cosa intendiamo per intelligenza. Ho trovato questa definizione: «è la facoltà di far fronte a tutte le richieste che il mondo ci pone».
Alcune scuole americane per decenni hanno eseguito dei test per valutare il QI (quoziente d’intelligenza), e hanno tentato di comporre classi di ragazzi con «intelligenza superiore».
Ma quanti dei nostri compagni secchioni sono diventati persone di successo? La scuola non è la vita. Goleman ribalta quest’idea con il concetto
di intelligenza emotiva, scoperto grazie ai progressi recenti in campo neurologico.
Pensiamo all’intelligenza scolastica: ci vengono in mente parole come
riflettere, ponderare, esaminare, decidere secondo logica. L’impiego di quel
tipo di intelligenza necessita di tempo e calma. L’uomo delle caverne, invece, se percepiva un’ombra con la coda dell’occhio, doveva decidere in un
millesimo di secondo se apparteneva a una preda o a un predatore. Questo
tipo di intelligenza è quella che Goleman definisce intelligenza emotiva: è
connotata da decisioni fulminee e perciò anche imprecise. La differenza fra
intelligenza scolastica ed emotiva sta nel passare dal pensiero all’azione. La
parola emozione deriva dal latino ex-movere, «muoversi fuori da».
Un tipico frutto dell’intelligenza emotiva è la capacità di entrare in empatia con l’interlocutore, entrare nel suo stato d’animo. L’economia e la società hanno bisogno di uomini che capiscano gli altri e si facciano capire.
Per questo occorre sviluppare l’intelligenza emotiva.
Vendere è stata ritenuta, in passato, un’attività di secondo piano, a volte
perfino equivoca; oggi l’economia è affidata prevalentemente a questo talento.
Infatti è meglio una Volkswagen o una Opel? Un profumo di Cartier o
uno di Hermès? Un frigorifero Rex o uno Ignis? Chi può dirlo? Non esiste
la soluzione ideale: esiste l’abilità di comprendere le necessità del cliente,
di non farsi scoraggiare dal rifiuto, di essere gentili ed equilibrati.
Un grande formatore della vendita, che ho avuto la fortuna di avere per
maestro, è Mario Silvano. Continua a risuonarmi nelle orecchie questa sua
frase: «Le statistiche dicono che su dieci visite fai tre ordini. Perché te ne
torni a casa dopo il settimo ‘no’? Le prossime tre visite saranno quelle
buone!».
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Conoscere l’interlocutore
Uno dei modi migliori per vendere è capire la mappa dell’interlocutore.
Comprendere le sue regole e i suoi valori. Tutto questo non è magia. La comunicazione è una scienza, governata da leggi e da schemi di azione-reazione.
Per esempio, ognuno parla così come vorrebbe ascoltare. Vi è capitato di
essere perfettamente a vostro agio con alcuni clienti, e con altri avvertire
noia, distacco, irritazione? I clienti più piacevoli sono spesso quelli che più
ci assomigliano. Con loro condividiamo punti di vista, modi di comunicare,
a volte interessi personali o esperienze. E se il cliente è una persona che non
conosciamo? Anche in questo caso, la soluzione è il ricalco: comprendere le
sue parole chiave e ripeterle.
Vi è capitato di vedere persone che hanno rapporti intimi assomigliarsi
nei gesti e nei modi di dire? Basta andare al ristorante a San Valentino: gli
innamorati leggono insieme lo stesso menu, avvicinano le loro teste, si
prendono per mano. Sembra di vedere due provetti ballerini durante una
danza: i loro corpi procedono all’unisono, adeguandosi l’uno all’altro. È il
rapport, la buona relazione.
Scrivere per vendere
Nella comunicazione scritta, la condivisione dei codici verbali è un fattore essenziale. È chiaro che la conoscenza dell’interlocutore è la base per effettuare un buon ricalco. Sarà pertanto diverso rispondere a una richiesta inviata via e-mail da un cliente o scrivere per vendere sul nostro sito internet.
L’e-mail rappresenta oggi il più importante canale per la comunicazione
di business. Il tono della comunicazione tende a essere informale, e spesso
provoca quello che gli americani chiamano flaming, cioè arrabbiature. Ricordo un episodio capitato al mio amico Alessandro Lucchini, curatore di
questo libro: scrivendo a un noto luminare, si era permesso di dargli del tu,
come era già capitato in un incontro di persona. Apriti cielo! La segretaria
del luminare fece notare a uno stupitissimo Alessandro che, anche se i due
al bar, bevendo il caffè, si davano del tu, in un testo scritto, quindi «ufficiale», questo non era conveniente.
Perciò, prima di ricalcare, facciamo un’attenta calibrazione: identifichiamo l’insieme dei segnali che caratterizzano la mappa dell’interlocutore.
Nella scrittura non abbiamo il paraverbale e il non verbale, se non in forme
molto più sottili e difficili da cogliere: dobbiamo quindi concentrarci sulle
parole, e non è facilissimo.
Chi può sentirsi autorizzato a interpretare il significato di una parola
291
scritta da un nostro cliente? Come possiamo sapere che cosa significa per
lui «ansia»? Che cosa significa per lui «essere in ansia»? Che cosa significa
«ritardo»? Che cosa significa «correttezza»?
Per il nostro interlocutore, ogni parola è un’àncora. Le parole ci ancorano a concetti profondi, recuperabili sempre con il metamodello e la ricerca sui processi di cancellazione, generalizzazione e deformazione.
Visto che sto facendo un discorso piuttosto impegnativo, permettetemi
un esempio leggero. Se qualcuno vi dice: «Marco si fa la doccia al piano di
sopra, Carla si fa la doccia al piano di sotto», tutto vi è assolutamente chiaro; ma se quel qualcuno vi dice: «Marco si fa la doccia al piano di sopra e
Carla se la fa sotto», cosa capite?
E quando noi diciamo: «Il fatto che tu mi abbia scritto quelle parole significa che vuoi interrompere il nostro rapporto?», quante cancellazioni, generalizzazioni e deformazioni abbiamo fatto?
Una volta calibrato il linguaggio del cliente, riusciremo a guardare le cose dal suo punto di vista e avremo acquisito importanti informazioni sulla
sua mappa. Far uscire la struttura profonda dei propri clienti è la tecnica più
raffinata che un venditore possa usare per sfruttare le neuroassociazioni, a
tutto vantaggio del proprio lavoro.
Ricordiamo poi il ricalco dei sistemi rappresentazionali: se un cliente afferma di non «vedere via d’uscita» nella trattativa, e noi gli domandiamo a
quale «sensazione» si riferisca, facilmente il cliente si blocca, non riesce a
rispondere, perde il collegamento con la propria rappresentazione interna.
Questo blocco è dovuto alla distonia tra i predicati: lui ha usato il sistema
visivo e noi gli abbiamo risposto con il sistema cenestesico.
Giochi di prestigio verbali
Nel bel libro che il mio amico Fabrizio Pirovano ha scritto con Guido
Granchi ci sono 14 esempi che vorrei qui riassumere.2 Pirovano chiama questi metodi «giochi di prestigio verbali»: credo sia una buona dimostrazione
di quanto la parola – anche scritta – può essere magica nell’attività del venditore. All’affermazione di un cliente «Questa casa è troppo cara, non possiamo permettercela!», il venditore di immobili può rispondere in questi modi:
1. Intenzione—Spostare l’attenzione del cliente sull’intenzione positiva
che sta dietro l’obiezione: «Apprezzo il suo desiderio di spendere meglio il suo denaro. Vediamo insieme come i vantaggi di questa casa siano per lei e sua moglie il miglior investimento».
2. Ridefinizione—Spostare l’attenzione del cliente ridefinendo il significa292
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to: «Sì, è vero, è una casa di eccezionale valore. Vediamo insieme come
sia possibile trovare le risorse per quest’ottimo investimento».
Conseguenze—Dirigere l’attenzione su un effetto diverso e positivo
dell’obiezione: «Se non cogliete ora questa opportunità, in futuro potrebbe non essercene un’altra».
Dal generale al particolare—Limitare l’obiezione a un ambito specifico: «Quale aspetto specifico dell’investimento ritenete di non potervi
permettere?».
Dal particolare al generale—Ridimensionare l’efficacia dell’obiezione: «Tutti gli acquisti importanti della nostra vita ci fanno riflettere.
Una volta presa la decisione, però, si inizia subito a goderne i benefici».
Analogia—Spostarsi verso qualcosa di analogo all’obiezione: «La casa
dei propri sogni è come un porto per il marinaio: per quanto terribili
siano le tempeste da affrontare, avrà sempre un posto sicuro dove tornare. Quanto vale per voi questa sicurezza?».
Cambiamento di cornice—Inserire l’obiezione in un sistema più ampio:
«Ora vi sembra un investimento oneroso, ma tra qualche anno vi sembrerà tra i migliori che abbiate fatto. Tutte le case di questa zona hanno
aumentato il loro valore del 50 per cento negli ultimi dieci anni».
Altro risultato—Concentrare l’attenzione su un obiettivo differente:
«La questione non è tanto se la casa sia o non sia troppo cara, quanto se
rappresenti il posto migliore per far crescere felice la vostra famiglia».
Modello del mondo—La mappa del mondo non è il territorio: «Sin dall’antichità, l’uomo è stato disposto a compiere grossi sacrifici pur di
trovare per la propria famiglia la miglior abitazione».
Strategia di realtà—Cambiare la realtà dell’interlocutore. Cosa è conveniente e cosa rappresenta uno svantaggio: «Come siete giunti alla
conclusione che questa casa per voi è troppo cara? Come fate a sapere
di non potervela ancora permettere?».
Controesempio—Ci sono sempre eccezioni alle regole: «Ho conosciuto
molte coppie che ritenevano di non potersi permettere l’investimento.
Poi, riflettendo su come eliminare le spese superflue, hanno trovato le
risorse per concludere l’affare».
Gerarchia di valori—Cambiare la gerarchia dei valori del cliente: «Non
crede che sia più importante garantire il benessere e la sicurezza alle persone cui vogliamo bene, piuttosto che risparmiare qualche soldo?».
Boomerang—Evidenziare il paradosso: «Quanto vi costerà pensare che
la casa è troppo cara? Potete permettervi di pensare di non potervela
permettere?».
Obiezione sull’obiezione—Far acquisire al cliente nuove risorse che riducono l’efficacia dell’obiezione stessa: «Potrebbe essere che l’unico
293
motivo per cui pensate di non potervi permettere questa casa è che non
avete fiducia nella vostra capacità di concludere buoni affari».
Credete ancora che nella comunicazione le parole contino solo il 7 per
cento? Io sì. Ma certamente nella vendita la forma vale quanto e forse più
del contenuto. Inoltre la fiducia in noi stessi, la passione, la determinazione
e soprattutto la curiosità sono fondamentali. Se veramente volete crescere
nel vostro lavoro, imparate a essere curiosi come bambini. Rivolgetevi agli
altri cercando di capire, non di giudicare. Se sarete curiosi niente sarà più
routine, nessuna visita, telefonata, e-mail, lettera, offerta sarà più un compito ingrato. Al contrario, vi divertirete e avrete ogni giorno la gioia di apprendere dalle persone che incontrate.
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BUON COMPLEANNO!
di Maria Vittoria Re
Ho compiuto gli anni lo scorso giugno. Quest’anno è stato un po’ speciale: 35,
numero pieno di simboli, rimandi e banalità sul tempo che scorre e le rughe che
aumentano.
Chi decide di sfruttare un compleanno per una politica di vendita sa come ci si
sente il giorno del proprio compleanno!
Ricevo fiori, auguri e regali dalle persone più care; in fondo, da loro me lo aspetto. Questa volta c’è dell’altro.
Torno dall’ufficio, prelevo la posta, in ascensore comincio a smistarla e appena in
casa la apro. Pubblicità, pubblicità, bolletta, pubblicità. Busta bianca con logo
Coop. Uff, sarà ancora pubblicità! Apro svogliatamente.
Tu te ne ricordi sicuramente…
Tanti auguri!
Bel ricalco situazionale ed emotivo. Carini. Curiosa, guardo dentro:
Anche noi!
Contando sul rapport, subito da ricalco a guida. E già provo simpatia per questi
che come me e i miei amici si ricordano del mio compleanno. È festa anche per gli
occhi: caratteri un po’ infantili, grandi, colorati, e, sulle due pagine interne, una
torta come quella dei miei primi 10 compleanni: panna, cioccolato, ciliegine, candele. E una scritta, lì a fianco:
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…e per il tuo compleanno quest’anno ti regaliamo una torta di 600 gr!
Presupposizione: quest’anno. Come dire: il prossimo, se sarai ancora nostro socio, magari un diamante. Mi lascio guidare:
Leggi dietro!
Obbedisco.
Gentile socio Maria Vittoria Re,
il 10 giugno è il tuo compleanno, e l’Ipercoop di viale Umbria vuole festeggiarlo con
te regalandoti una squisita torta a scelta tra quelle che ti proporrà il pasticcere.
Presenta questo biglietto all’ufficio soci, per ottenere il buono omaggio. Con tanti
auguri da Ipercoop.
Tripudio di modelli linguistici. Intanto, mi chiamano: nome e cognome. E né Signora, né Cliente: socio. Poi, sanno quand’è il mio compleanno e non inganniamoci: fa sempre piacere che qualcuno si ricordi di farci gli auguri. Figuriamoci se
inaspettati.
L’ambito semantico dei verbi è quello della festa: festeggiare, regalare, proporre,
presentare, ottenere. Che cosa? Una torta, che per una golosa cenestesica (sanno anche questo?) non poteva essere che squisita. E un operatore modale, vuole,
che esprime l’energia della scelta.
Ho due settimane per ritirare la torta. Senza fretta: mica che un pensiero gentile
si trasformi in uno stress; insomma, «la prossima volta che fai la spesa da noi,
passa di qua». E io sicuro che passo a ritirare la torta: crostata di cioccolato e pere, una leccornia.
Una volta lì, con il buono omaggio, la signora mi consegna anche un dépliant che
mi informa dei servizi per i soci: carta-socio e due diverse carte di credito Coop,
con costi e vantaggi. Va bene, leggo, leggo.
Nella loro campagna nazionale, dicono: «Ogni storia ha il suo protagonista. La nostra
ne ha oltre 5 milioni». Ci sono anch’io, lì, con la mia torta di cioccolato e pere.
Hanno già toccato tutte le mie corde: i disegni dell’infanzia, la sorpresa, il regalo,
l’acquolina in bocca, l’appartenenza, i vantaggi, tutto. Sono aperta e ricettiva. E
compro.
EVASIONE CON ALIBI
di Maria Vittoria Re
Con la pressione e lo stress della vita moderna, abbiamo tutti comportamenti, abitudini o voglie a volte difficili da rivelare al nostro entourage: chi intrattiene una relazione extraconiugale, senza voler rompere il matrimonio; chi sottostà a una pressione
famigliare che impedisce qualsiasi momento di relax o di divertimento.
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Mariti infedeli e impenitenti, mogli trascurate e figli in fuga da genitori severi: ora
un alleato c’è! È Mister Alibi, l’agenzia on-line che vende scuse inattaccabili per
inconfessabili scappatelle, nell’era in cui cellulari e videofonini rendono così rischiosa la storia trita del: «Cara, niente cena: una riunione col capo, sai…».3
Comincia con un ricalco situazionale la presentazione del sito, che fa di calibrazione e ricalco del cliente le proprie colonne portanti. E con un quantificatore
universale, tutti, che con discrezione ci prende per mano, ci solleva dal senso di
colpa e ci rassicura: anche i più fedeli, in fondo, qualche volta avranno pensato di
meritare un momento di evasione, no?
Il clima è discreto: la grafica, essenziale e pulita, pone sullo sfondo di ogni pagina
la sagoma stilizzata di un essere umano, a sottolineare la centralità dell’individuo.
Ricalco anche di valori, dunque.
Allora, come possiamo esercitare le nostre attività senza rivelarle a chi ci sta intorno?
Semplice: con Mister Alibi!
Ancora ricalco: come possiamo noi far ciò che desideriamo?
Guida: con Mister Alibi, che un alibi giusto lo trova sempre. Telefonata per un’urgenza al lavoro o invito a un seminario, con tanto, poi, di atti del convegno,
block-notes e penne ricordo.
Tutto è possibile! La vostra fantasia è il nostro solo limite!
Altro quantificatore universale, tutto, e un operatore modale, è possibile, che
esprime la vastità della scelta. E altro ricalco negli aggettivi: vostra-nostro.
Basta solo scegliere un appuntamento che corrisponde al vostro stile di vita.
Il primo contatto è affidato alla e-mail: il cliente, così, può fornire in tutta calma
le informazioni sul proprio stile di vita e sul tipo di alibi che desidera. Con quelle,
l’agenzia organizza la scusa inattaccabile a mogli stanche dei mariti, a mariti stanchi dei pranzi domenicali dalla suocera, a chi semplicemente desidera una pausa
da lavoro, impegni, figli.
Le tariffe variano da 50 euro per l’alibi standard a soluzioni più costose e personalizzate, con servizi extra: prenotazioni aeree e ristoranti; acquisti di fiori, gioielli, profumi e vestiti. Il galateo del perfetto fedifrago, insomma.
Naturalmente, nessun riferimento alla sfera morale: del resto, a Mister Alibi il
compito di fornire buone scuse; a ciascuno, quello di fare i conti con il proprio
grillo parlante.
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METTETEVELO NELLA ZUCCA!
di Chiara Zuccalà
Così esordisce nel 2001 la campagna pubblicitaria per il lancio del nuovo prodotto Conto Arancio, il conto on-line di ING Direct. E così continua ancora oggi.
Un tormentone. Un claim4 decisamente forte e inusuale per il mondo finanziario:
parto creativo di un cervello troppo esuberante, o studio approfondito? Più probabile la seconda ipotesi. Vediamo perché.
Da una ricerca psicolinguistica5 emerge che alla parola banca sono sì associati
concetti di serietà, autorevolezza, sicurezza, ma anche l’immagine di un mondo
freddo, serioso, distante.
Ed ecco come si è presentata ING Direct: colore arancione, comunicazione scherzosa, immagine solare, veloce e moderna, solo telefono e internet. A pensarci, il
prodotto proposto non è una novità: ricorda tanto il vecchio libretto di risparmio. Ma la pubblicità è martellante, c’è poco tempo per pensare: emisfero destro
al 93 per cento. Per colpire anche il sinistro c’è tempo.
Passiamo alla zucca: le banche non usano di solito aquile, leoni e altri simboli di
potenza? Questa volta no.
Questa volta c’è una zucca che, sempre secondo la psicolinguistica, è simpatica,
genuina, innocua. Fa pensare alla campagna e alle cose semplici, vere. È solare,
familiare, legata alle favole. E il claim con quell’ambiguità semantica testa-vegetale (che poi diventa un salvadanaio) è divertente. E pazienza se lo slogan suona
aggressivo. Certo, a qualcuno può dar fastidio. Ma colpisce. È vero, ci danno degli zucconi, ma se se ci siamo convinti di poter «fare l’amore con il sapore» di uno
yogurt, metterselo nella zucca non è poi un dramma. Se la pubblicità ha fatto il
suo dovere, è ora di chiamare il numero arancio (non erano verdi, i numeri?).
Fatto? Ecco cosa succede: a chi ha chiesto informazioni, in un paio di giorni arriva
a casa il mailing. Obiettivo: vendere. La busta è ovviamente arancione, con una
zucca sul retro. Studiamone il testo:
Gentile Chiara,
per aprire usano il nome di battesimo, che per chiunque (auditivi in primis) suona meglio di un anonimo «Gent. sig.ra». Inizio personale dunque, crea subito calore… Da una banca, inaspettato.
Hai già scoperto i vantaggi di Conto Arancio… che ha già conquistato la fiducia di
oltre 400.000 italiani.
Giocando a rafforzare l’autostima, il predicato di consapevolezza «hai già scoperto» ci spinge ad accettare il messaggio e, insieme al ricalco sociale con altri
400.000 italiani (indice referenziale solo apparentemente specificato), aiuta a
stabilire il rapport.
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Abbiamo riservato per te un numero di Conto Arancio…
Per cominciare a far crescere i tuoi interessi ti rimane da fare l’ultima, semplicissima
operazione: attivare il tuo Conto Arancio con il primo bonifico.
Raggiunto il rapport, ecco la guida: «cominciare a» (verbo pragmatico di cambiamento), e poi un esplicito «attivare il primo bonifico», con un altro bel ricalco sul
futuro che illustra il beneficio percepibile: «far crescere i tuoi interessi».
Sul retro di questa lettera puoi verificare le condizioni economiche.
L’operatore modale «puoi» invita gentilmente a leggere le condizioni economiche,
rafforzando la percezione di trasparenza e disponibilità. Questo punto di forza
dell’offerta colpirà anche la parte razionale per determinare la decisione di attivare il conto.
Il resto del materiale è gradevole ed essenziale. Soprattutto la brochure, che all’ultima pagina colpisce:
ING DIRECT: trasparenza che si vede.
CONTO ARANCIO: solidità che si sente.
Scelta di sostantivi e verbi visivo-cenestesici, e simmetria sintattico-metrica (nome + nominalizzazione + «che si» + verbo con indice referenziale non specificato): musica per gli auditivi.
Per chi poi avesse gli ultimi dubbi su una banca on-line, dove manca il rapporto faccia a faccia, sia su internet sia sulla brochure, quelli di ING Direct sono a disposizione: ci sono anche le loro foto. Così, in fondo, è come averli davvero incontrati.
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Note
1
GOLEMAN, DANIEL, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996.
PIROVANO, FABRIZIO - GRANCHI, GUIDO, PNL: comunicare per vendere, De Vecchi, Milano
2002.
3
http://www.misteralibi.be
4
Nel linguaggio pubblicitario il claim è la promessa fatta al consumatore che acquista un
prodotto o servizio. Sta alla base della campagna di comunicazione.
5
La psicolinguistica è un ramo della linguistica che studia i meccanismi psicologici alla base
dell’acquisizione, dell’elaborazione e dell’uso del linguaggio. Parte dalla constatazione che
l’efficacia emotiva di un messaggio è correlata a riflessi condizionati che, su base statistica,
associano determinati segni comunicazionali a determinati concetti. Applicata alla pubblicità, la psicolinguistica studia i meccanismi psicologici collettivi della percezione, individuando le somiglianze nel comportamento percettivo degli individui e rappresentandole come elementi che aggregano la domanda. La metodologia psicolinguistica è sostenuta da
software che determinano con rigore matematico: il posizionamento emotivo collettivo di
qualsiasi concept-bersaglio («dove»); l’efficacia emotiva del concept creativo («cosa»); i segni più efficaci per comunicare il concept stesso («come»). Tali sistemi sono in grado di misurare e di incrementare l’efficacia emotiva del messaggio.
2
299
World wide writing
Quando la scrittura è globale
di Davide Alemani
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il
Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo
è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi
cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore
confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
(Genesi 11,5-9)
QUANTE volte ti sei intristito per non poter leggere un bel libro scritto in urdu? O hai perso l’occasione della tua vita con una splendida bionda/Gucci o
con quel fantastico moro/Armani solo perché non hai mai imparato quelle
poche essenziali parole in xosa. Certo, è bella la ginnastica mentale del conoscere molte lingue, ma ci servirà a ben poco la conoscenza del bahasa o
del marathi.
Non a me, e forse neanche a te che stai leggendo. A meno che tu non sia
il proprietario di una megamultinazionale con filiali in tutto il mondo che
vende i propri prodotti in ogni angolo del globo. In questo caso, saresti così
gentile da dirmi dove posso mandarti il mio curriculum vitae?
Se, per esempio, tu fossi il deus ex machina della principale azienda produttrice di software al mondo e la quasi totalità dei PC sparpagliati sul pianeta
contassero sul tuo sistema operativo, probabilmente ti interesseresti di più alla
storia della torre di Babele (soprattutto per la parte della punizione divina).
Poiché alla base del processo di interazione umana c’è la necessità di
comprendersi, diventa essenziale che anche gli strumenti dell’attività quotidiana siano facilmente comprensibili.
Tutti abbiamo amici sbruffoni (i migliori: tutti stimoli e divertimento)
che utilizzano il sistema operativo o i programmi del PC in inglese perché
«così sono stati ideati e quindi sono più semplici da usare», ma poi si nascondono in bagno con un dizionario.
Queste piccole esigenze di ciascuno si trasformano per una multinazionale nella customer experience, ossia nel grado di soddisfazione di ognuno
di noi alle prese con il singolo prodotto.
301
E la soddisfazione è maggiore se ciò che si legge o si usa è scritto nella
propria lingua. Un piccolo problema: il costo della localizzazione dei sistemi operativi (e quindi di menu, guide utente ecc.) in ogni singola lingua del
pianeta è insostenibile per qualunque azienda poiché, fatto 100 il costo della traduzione in urdu di un programma, possono essere 20 i ricavi se tutti
(ma proprio tutti) quelli che lo parlano decidono di comprare il prodotto.
Soluzione? Per Microsoft è stata la creazione di un progetto che coinvolge azienda e clienti. Servono solo una commissione in grado di valutare la
richiesta, programmatori volonterosi e un kit per intervenire nel codice e
tradurre.
E così, grazie al Language Interface Pack, oggi dalla Lettonia all’Indonesia ci sono milioni di utenti che possono lavorare, studiare, divertirsi utilizzando un PC che parla la loro lingua.
It works…
Funziona o, meglio, deve funzionare. Non basta offrire ai clienti strumenti che parlano la loro lingua: è sempre più necessario «comunicare». Ed
è qui che emerge la differenza tra localizzazione e globalizzazione. La localizzazione è la traduzione di un documento o di un prodotto in una lingua
locale, adattata in base alle specificità culturali. La globalizzazione è molto
di più: è la creazione di documenti e prodotti che siano utilizzabili in ogni
cultura e facilmente localizzabili, con conseguenti risparmi. Un documento
«globalizzato» comunica chiaramente ed evita fraintendimenti culturali.
Le regole di base per la creazione di documenti «globali» si possono
adottare in ogni comunicazione che debba avere un «respiro internazionale». Qualunque testo (di solito una pagina web) che le varie filiali nel mondo devono leggere, capire e tradurre.
Regole per globalizzare un testo
Orari e date
Usa il formato internazionale dell’ora (24h) evitando così la specificazione a.m. e p.m. non comprensibile in molte parti del mondo, e inizia il calendario il lunedì e non la domenica (è la modalità più diffusa). Attenzione
alle date! Scrivi sempre il mese per esteso: la data 9/2/1974 negli Stati Uniti è il 2 settembre mentre in Italia è il 9 febbraio.
302
Valute e misure
L’euro ci ha aiutato, ma quando parli di valute precisa sempre la nazione: un dollaro canadese e uno taiwanese non sono la stessa moneta. E se sei
appassionato di libbre, pollici e altre strane unità di misura, fatti coraggio e
usa il sistema internazionale: metri, gradi Celsius, litri ecc.
Esempi e scenari
Evita nomi personali e commerciali, indirizzi, numeri di telefono, alias
di e-mail. Usa nomi con la più ampia varietà di origine culturale e non dimenticare una nota sul «riferimento puramente casuale a nomi esistenti e
fatti realmente accaduti».
Tieni presente anche la situazione politica, religiosa, sociale, così come
le tradizioni, gli sport, le vacanze, per arrivare alle leggi che regolano il business; in alcune culture uomini e donne non si toccano in pubblico neanche
per stringersi la mano.
E se devi scrivere di tecnologia, non prendere il tuo paese come punto di
partenza: gli standard dei telefoni cellulari, per esempio, dell’e-mail, del
wireless variano di nazione in nazione; il concetto di telefonata a lunga distanza è sconosciuto in alcune parti del pianeta.
Linguaggio
Prima di tutto una regola che si applica a ogni testo, in particolare a quelli «globali»: lo stile deve essere chiaro, semplice, corretto ma non «condiscendente»; non deve cioè adattarsi per forza alla sensibilità di un popolo
(se scrivo, per esempio, le caratteristiche di un prodotto, non sono obbigato
a cercare «confidenza» con l’utente «padano» dicendogli che serve molto
sopra il Po).
Attenzione a punteggiatura e sintassi: «Usa questa funzione se vuoi solo
aggiungere delle pagine in seguito» non è uguale a «usa questa funzione se
vuoi aggiungere solo delle pagine in seguito».
Usa articoli e parole che aiutano il lettore a identificare soggetto e oggetto: spesso questi elementi vengono omessi nei testi scritti nella propria lingua, ma così si complica il lavoro dei traduttori.
Il linea generale le frasi devono essere sempre brevi, semplici e complete, quindi:
●
●
elimina le parole non necessarie
evita anche le parole composte e, in ogni caso, separa la radice della parola con un trattino
303
●
●
●
●
usa una sintassi standard: soggetto, verbo, complemento oggetto, altri
complementi (legge della vicinanza)
evita le strutture ambigue
evita la forma passiva
usa liste o tabelle al posto di frasi complicate.
Scelta delle parole
Anche in questo caso, usa parole semplici e dirette.
Scegli sempre la parola più facile e specifica in riferimento al contesto
ed evita i verbi essere, fare e avere: per esempio sostituisci «fare la cena»
con «cucinare la cena».
Non utilizzare espressioni idiomatiche e colloquiali. (La traduzione dell’italiano «Prendere due piccioni con una fava» negli Stati Uniti diventa
«Kill two birds with one stone». Diverso, vero?)
Non scegliere parole sarcastiche, dialettali o gergali, o modi di dire che
possono non essere riconosciuti da chi deve localizzare il testo, generando
traduzioni «creative» (per esempio: «chi fa così ci sta dentro un sacco»; immagina come verrebbe tradotto).
Evita abbreviazioni e acronimi. Attento alle parole «sensibili»: termini
militareschi, riferimenti sociali e culturali possono offendere l’audience internazionale. Per esempio, nonostante la relazione schiavo/padrone tra
server e client sia ben documentata, in alcuni contesti può risultare inopportuna. Un corollario sono le «etichette» e le generalizzazioni: un inglese non
si considera, bontà sua, un europeo.
Grafica
Nella scelta dei colori, i toni neutri sono generalmente utilizzabili senza
problemi; da evitare invece quelli con significati religiosi o politici.1 La
scelta delle immagini è territorio di caccia dei grafici che, di solito, scelgono in base «all’impatto»: meglio usare immagini generiche, adatte a tutto il
mondo (atleti, paesaggi, segnali internazionali, monumenti).
Evitare immagini che possono risultare offensive per alcune culture, come la posizione delle mani o i gesti, le immagini di vacanze e le situazioni
lavorative e sociali che coinvolgono uomini e donne.
Non inserire testo nella grafica, perché non viene tradotto dai traduttori
automatici, e se lo usi lascia lo spazio per inserire il testo localizzato.
Accertati di avere acquisito il diritto di utilizzo delle immagini per tutto
il mondo, o per i singoli paesi interessati.
304
Usando il linguaggio presentiamo agli altri il nostro modello del mondo.
La scrittura di un testo globale è proprio questo: conoscere la struttura del
nostro linguaggio e modificarla «scientificamente» per renderla fruibile da
tutti, ovunque. Per questo è così difficile, per questo è così affascinante.
Per approfondire
❍
❍
❍
❍
❍
❍
❍
RonScheer.com: http://ronscheer.com/index.html
Plain Language Action Network (US): http://www.plainlanguage.gov/
World Time Zones: http://www.worldtimeserver.com/
Nancy Hoft Consulting: http://www.world-ready.com/index.htm
W3C Internationalization/Globalization: http://www.w3.org/International/
Unicode Official Site: http://www.unicode.org/
Language Interface Pack: http://www.microsoft.com/resources/government/
locallanguage.aspx
Note
1
Per esempio, non esiste in ogni lingua una traduzione dei nostri giallo, rosso, blu e verde.
Alcune tribù africane non distinguono tra verde e azzurro. Altre della Nuova Guinea non
hanno nomi per i colori e usano solo i concetti di chiaro e scuro. Gli eschimesi hanno sette
parole diverse per indicare il bianco, colore dominante nel loro mondo di ghiaccio. Al contrario di noi occidentali, per i giapponesi il nero è il colore della vita, il bianco quello della
morte. Sempre in Giappone, un’azienda ha dipinto i muri dei bagni di rosso, che per loro
crea disagio, per limitare le pause dei dipendenti. Al contrario, i cinesi scelgono arredi rossi
per i loro ristoranti: pare che mettano appetito.
Su questo il web è una preziosa fonte di informazioni. Un paio di fonti: http://www.
fralenuvol.it/bambini/colori/storia_colori.php e http://desktoppub.about.com/cs/color/a/
symbolism.htm
305
X generation
Polivalenza che suscita emozioni
di Chiara Fornari
IL primo essere umano a scontrarsi, suo malgrado, con l’incredibile successo simbolico della X è stato l’apostolo Andrea, che il 30 novembre del 60
d.C. fu martirizzato su una croce a forma di X. Da quel giorno, detta croce
di sant’Andrea. La X come simbolo, segno, cromosoma, numero romano,
icona, variabile matematica, raggio fotonico, file riservato e lettera dell’alfabeto affonda le proprie origini in epoche lontane e in molte culture.
La fortuna storica di questo segno apparentemente semplice fa riflettere
sulla forza di certi simboli. A differenza delle unità linguistiche (le parole),
composte da più grafemi e fonemi (le lettere dell’alfabeto) cui si possono
attribuire di volta in volta significati diversi, il simbolo unisce e sintetizza,
in un unico segno grafico, significato e significante. E con un potere evocativo assai maggiore.
Proprio l’esaustività dei simboli ne ha agevolato la diffusione nel linguaggio pubblicitario. Il logo, per esempio, è un simbolo capace di concentrare identità, valori, riconoscibilità di un’impresa o di un ente, come la mela di Apple, il baffo di Nike, le tre strisce di Adidas.
Una pubblicazione anonima on-line definisce i software in commercio
«letteralmente un’incognita, nel senso che ormai tutti i principali sistemi
operativi si chiamano X»: Mac OS X, Unix, Windows XP, Linux, Aix. La
semantica insegna che a nomi simili corrispondono oggetti simili. Questi
esempi dimostrano che forse proprio la presenza costante della X nei nomi
dei software è diventata col tempo una garanzia di qualità e un implicito ma
indispensabile marchio di fabbrica.
Secondo Eleonora Fiorani: «nelle nostre culture comunicative i flussi di
informazioni tendono sempre più a diventare una mescolanza di comunicazione […] visiva».1
307
Polivalenza visiva
E un segno come la X, nella mescolanza di comunicazione visiva, ci
sguazza. Basti pensare a quanti e diversi significati può assumere. Su una
parola o su una frase vuol dire no (togliere, cancellare); sulla casella di un
questionario o su una scheda elettorale vuol dire sì (adesione, consenso).
In un altro contesto, ancora, è un segno di unione: il chiasmo è la disposizione dei termini di una frase in ordine invertito rispetto a quelli della frase precedente, così come sono incrociati i segni che compongono la X; è un
metodo efficace per dare compattezza ai diversi elementi di un periodo, legandoli trasversalmente.
Se scriviamo, in poesia:
miglior v i t a
g i o r n i sereni
cogliamo al volo l’effetto dell’incrocio: legame grammaticale (vita e giorni
sono sostantivi, miglior e sereni sono aggettivi) e semantico (vita e giorni
sono porzioni di tempo, miglior e sereni sono qualità). I quattro punti agli
estremi della X si uniscono nel centro, creando un’immagine di grande forza e significato.
Stesso effetto nel motto di una compagnia di assicurazioni:
A l l e a n z a assicura
e semplifica la v i t a.
Come prima, incrocio grammaticale e semantico: i due verbi indicano le
azioni tipiche dell’assicurazione; i sostantivi, il nome della compagnia e il
valore più importante per tutti.
Polivalenza valoriale
Quando nel 1991 Douglas Coupland pubblicò il suo primo romanzo, Generazione X, forse non immaginava la fortuna che avrebbe ottenuto.2 Il termine «generazione X» fu coniato dall’allora trentenne Coupland per indicare i protagonisti del suo esordio letterario: 80 milioni di giovani venuti al
mondo tra 1961 e 1981. Oltre alla capacità di descrivere la generale mancanza di valori dei ragazzi nati in quegli anni, grande è stata la scelta del titolo, tanto da garantire all’autore fama e successo.
La X è un’incognita matematica: non possiede un significato proprio,
308
ma permette al lettore di associarle quello che preferisce. Generica ed efficacissima («abilmente vaga», direbbe Milton Erickson) la X funziona così
non solo come lettera, ma come simbolo di una generazione. Il titolo del romanzo non dà informazioni sul contenuto, ma riesce a sedurre il lettore.
Lineare ed essenziale, un simbolo come la X resta intraducibile: è proprio la sua indeterminatezza a convincere e a produrre un effetto emotivo dirompente.
Polivalenza sensoriale
Secondo diverse ricerche, durante una conferenza il pubblico ricorda dal
30 al 35 per cento di ciò che vede, dal 10 al 15 per cento di ciò che sente, ma
ben oltre il 50 per cento di tutto, se gli audiovisivi supportano le parole dell’oratore.3 Anche la pubblicità deve convincere, ma prima ancora deve generare stupore e coinvolgere: parlare agli occhi, alle orecchie e allo stomaco
del consumatore.
Forse la X soddisfa proprio tutto questo: il suo imparziale protendersi in
più direzioni apre ai sensi ogni possibilità. Diniego e consenso, scambio e
riservatezza, incognita e obiettivo da centrare. Come su una mappa dei pirati, la X non smetterà di condurre al tesoro.
Note
1
FIORANI, ELEONORA, Grammatica della comunicazione, 2ª ed., Lupetti, Milano 2002, p. 73.
COUPLAND, DOUGLAS, Generazione X. Storie per una cultura accelerata, Interno Giallo,
Milano 1992; Mondadori, Milano 1996.
3
«Gli strumenti auditivi, visivi e audiovisivi» in MAJELLO, CARLO, L’arte di comunicare, 26ª
ed., Angeli, Milano 2003, p. 86.
2
309
You
Tu, voi e gli altri
di Alessandro Lucchini
Y: SIMBOLO di un bivio. Vado di qui o di là?
Dimensione salutare in ogni espressione umana, il dubbio è benefico anche nella scrittura: aiuta a non irrigidirsi sulle proprie posizioni.
Il dubbio in questione è duplice, perché riguarda la Y come simbolo, nella lingua inglese, della seconda persona del verbo: «you». Singolare o plurale, è la «you form», base del reader focused writing, quello stile di ricalco
scritto che rende protagonista il lettore.
Un esempio dalla letteratura:
Mi chiamo Octave e mi vesto APC. Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che
non avrete mai […]. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei
vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. […] Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.1
Che energia in questo inizio, vero? Frasi incalzanti, parole semplici,
molti verbi, quasi tutti all’indicativo. Ma chi è il protagonista? Lui, l’autore:
«mi chiamo», «mi vesto», «sono», «inquino», «ho lanciato». Noi lettori siamo solo il suo pubblico. Aggancia i nostri occhi alle pagine, ci accelera il
battito del cuore, ma subito ci disgusta.
Sentiamo quest’altro inizio.
Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. […] La porta è meglio
chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito agli altri: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato […] Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo
311
di Italo Calvino!» […] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato.2
Calvino ha lo stesso scopo: inchiodarti gli occhi al libro. Ma ha un altro
modo per raggiungerlo. Ti rende protagonista. Ti parla di te, delle tue abitudini. E tu ti riconosci: ti rilassi, ti raccogli, prendi la posizione più comoda.
Ho trovato qualcosa di simile su un cartoncino nel bagno di un albergo:
Riesce a immaginare quante tonnellate di asciugamani in tutti gli alberghi del mondo
vengono lavati inutilmente ogni giorno, e che esorbitante quantità di detersivo viene
così a inquinare le nostre acque?
Scelga lei dunque:
❍ asciugamani gettati nella vasca da bagno significano: per favore cambiarli;
❍ asciugamani riposti sull’apposito portasciugamano significano: li uso ancora una
volta.
Aiuti anche lei la lotta all’inquinamento! Grazie.
Carini, penso: mi chiedono di difendere la natura. In fondo, tenere gli
asciugamani un giorno in più non è un gran sacrificio. Si capisce che l’esigenza è ridurre le spese di lavanderia. Bravi, però: se mi avessero esibito
quella, mi avrebbe dato fastidio. Invece sorrido, orgoglioso dei miei asciugamani umidi, e so che tornerò in quell’albergo verde.
Tutto il contrario dell’autoreferenzialità, vizio tipico delle aziende, delle
istituzioni, della pubblica amministrazione. In primo piano ci sono loro, gli
autori, con ciò che fanno, dicono, producono: solo alla fine ci sono le persone cui si rivolgono.
■
■
■
La nostra azienda, dal 1975 leader nel mercato dei prodotti per l’igiene, è
orgogliosa di presentarle…
Siamo lieti di informarla che stiamo organizzando un importante convegno
sul tema…
Per la celebrazione dei 50 anni di attività in Italia, il nostro istituto ha promosso un’iniziativa rivolta a…
Quante lettere riceviamo di questo tipo? E quante lettere cominciano con
formule impersonali come «Gentile Cliente», o «Egr. Sig. / Gent.ma Sig.ra»?
Nel web, poi, tutto ciò è ancora più pesante. Qui il lettore è protagonista assoluto: decide i modi di lettura, le direzioni, la durata o la fine di un messaggio.
Se sei redattore o editor in un’azienda, se scrivi testi per il web, se il tuo lavoro è fatto anche di scrittura, qui trovi articoli, consigli pratici e tanti link per scrivere e comunicare meglio.
312
È il benvenuto del sito Mestiere di scrivere.3 Lo stile è quello di Calvino.
C’è tutto in quelle 36 parole: la linea editoriale, lo stile, i vari tipi di lettore.
Reader focused writing è proprio questo. Anche se scrivi in veste professionale, a leggerti sarà sempre una persona, con un cervello e un cuore. Vediamo come giocano in questa partita i pronomi personali.
Il tu e il lei
Non c’è una netta distinzione. Non basta il tu a generare confidenza, né
il lei a mantenere il distacco. Il problema è sempre rendere il lettore protagonista. Qualche suggerimento.
La prima distinzione importante va fatta sul destinatario, poi sullo strumento.
Ideale il tu se la comunicazione è uno a molti (one-to-many), e se usiamo
uno dei classici strumenti pubblicitari (annuncio stampa, poster, dépliant, locandina, volantino ecc.), o anche un direct mailing massiccio senza inducare
il nome del destinatario. È un «tu pubblicitario», non un «tu confidenziale»,
nessuno se ne scandalizza. Suonerebbe stonato un «lei» in questi contesti.
L’importante è mantenere la coerenza: se usiamo il «tu pubblicitario» nel titolo di un mailing, continuiamo a usarlo nel testo: unico messaggio, unica voce.
Meglio il lei se la comunicazione è uno a uno (one-to-one), sia nel caso
di una relazione davvero esclusiva (per esempio, risposta a reclami o domande), sia nel caso di mailing su grandi tirature ma di tono personale (per
esempio, lancio di nuovi prodotti, aperture di filiali, invito a eventi ecc.).
Merita un pensiero a parte l’e-mail: non è affatto detto che qui sia da preferire il tu. L’e-mail è percepita come una via di mezzo tra una lettera e una telefonata. Non si capisce perché si debba usare il tu se poi al telefono, e anche
di persona, usiamo il lei. Il tu può anzi generare perplessità in qualche lettore,
che a volte si prende anche la briga di lamentarsene («Chi vi autorizza a scrivermi con il tu?»). In certe situazioni può essere davvero utile un tono più formale: penso a una lettera di scuse, o a un chiarimento delicato.
Il voi, il noi
Il voi è da sconsigliare se vogliamo stabilire un dialogo diretto con il
lettore. La maggioranza dei casi, dunque. Il lettore si sentirà riconosciuto
non come persona, ma come parte di un «target». Peggio, di un «target
group».
313
L’effetto «branco» («vi comunico che…», «chi di voi riuscirà…») non
scalda la relazione.
Nei messaggi rivolti alle imprese, la pratica del voi è spesso solo una soluzione di ripiego alla mancanza di dati personali: scrivere «all’ufficio amministrativo» e parlare al voi («siamo lieti di presentarvi…», «potrete trovare qui le migliori soluzioni…», «vi aspettiamo…»), però, significa rassegnarsi a finire subito nel cestino.
Qualche frase al voi ci può stare, ma solo quando s’intende la collettività
aziendale: «la vostra sede», «il vostro personale», «le vostre esigenze di servizio». Da riscaldare però con il lei quando ci rivolgiamo al lettore specifico: «gli
impegni della sua azienda…», «vorrei presentarle…», «venga a trovarci…».
Stesso discorso per il noi. Quando intendiamo «la nostra azienda» nel significato più collettivo («i nostri prodotti…», «i nostri servizi…», «la nostra
storia…»), va bene il noi. Meglio l’io quando il lettore si aspetta un tono più
personale e coinvolgente. Nelle scuse, per esempio: è vero che è l’azienda che
si scusa, ma il lettore perdona più volentieri una persona che un’azienda.
Per il futuro: l’io-testimonial
Qualche volta possiamo forzare ancora di più l’approccio reader focused,
sbilanciandoci verso una visione soggettiva. E il tu diventa io. Non un «io scrittore-azienda», ma un «io lettore-cliente». Come nella brochure di un albergo:
Stazione di Milano. Pochi passi e sono in albergo (poi scopro un grande garage: mi
sarà utile, al prossimo viaggio). Mi accoglie un’atmosfera unica. Architettura moderna, arredi primo Novecento, uno stile di ospitalità che dà le emozioni di casa.
Nel silenzio dolce della mia camera: idromassaggio, un buon film, biancheria di lino.
Meritavo tutto questo.
È un «io-testimonial», che spinge il lettore a identificarsi con il testo, e
quindi con l’autore. Ricalco emotivo, sensoriale, sociale e situazionale in un
colpo solo.
Il «si» impersonale
Da ridurre al minimo. Evoca il linguaggio burocratico, spersonalizza,
spesso nasconde un’informazione importante e la relativa responsabilità.
Si comunica che la sua richiesta non è stata accolta.
314
Sembra dichiarare l’incapacità di trovare una soluzione, e la scelta di affidarsi a un destino imperscrutabile. Spesso usata da banche, assicurazioni,
pubblica amministrazione, dimostra l’impaccio a uscire da una cultura autoreferenziale e di potere, per aprirsi a una di confronto.
Put your face in your written words, dice un motto della scrittura americana: «metti la tua faccia nelle tue parole scritte». Non trincerarti dietro espressioni oscure. Tanto la tua faccia, e i tuoi sentimenti, verranno fuori lo stesso.
Tu, lei, noi, voi… Non esiste la forma universale, adatta a ogni occasione. La buona scrittura è come la grande sartoria: massima attenzione per il
cliente (lettore), e una buona mano.
Note
1
BEIGBEDER, FRÉDÉRIC, Lire 26.900, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 17.
CALVINO, ITALO, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano 1994.
3
http://www.mestierediscrivere.com è il sito di Luisa Carrada, punto di riferimento per tutti
gli scrittori professionali.
2
315
Zitti tutti!
E il silenzio vi parlerà
di Francesca Gagliardi
«UN bel tacer non fu mai scritto» ammoniva mia nonna. A stare in silenzio
non si sbaglia mai. Allora, perché parlare del silenzio in un libro sulla scrittura? La domanda è pertinente, tant’è che la linguistica classica non riserva
alcuno spazio all’indagine sulla natura del silenzio e sul suo valore nell’atto
comunicativo. Eppure, indubbia è la sua presenza, nonché la sua bellezza.
Sono, allora, davvero così contrapposti silenzio e parola, e poi ancora,
silenzio e scrittura? Parola e silenzio si affermano reciprocamente: non esistono una senza l’altro. Il silenzio costantemente nega e illumina il linguaggio. A noi basta guardare una pagina. Stanghette e pallini si rincorrono sullo
spazio bianco: le parole sul silenzio.
«Sileo» e «taceo»: due facce, una medaglia
La natura complessa del silenzio si manifesta sin dalla sua definizione. È
un’astrazione costruita dalla nostra mente che, conosciuti suoni e rumori, ricostruisce l’idea della loro assenza? Oppure si tratta di un fatto sensibile,
oggettivo? Fenomeno o concetto? Entrambi, forse. Insieme.
Per riferirsi all’atto di stare in silenzio, la lingua latina ha due verbi:
sil‰re e tac‰re. Il primo indica un generico silenzio complementare a suoni e
rumori; il secondo si riferisce a una forma di silenzio intesa come negazione
di comunicazione.
Quando inviamo una e-mail e non riceviamo risposta, attraverso quel tacere noi stiamo già ricevendo un messaggio. E ancora, il silenzio che scandisce l’alternanza comunicativa convoglia fino a noi il feedback dell’interlocutore: mi segue? È d’accordo? Gli importa ciò che dico?
317
Nell’un caso e nell’altro, il silenzio ha valenza semantica: a seconda di
come si manifesta, la comunicazione cambia.
Silenzio : parola = attesa : rivelazione
Gli approcci allo studio del silenzio sono molteplici e spaziano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione, alla psicolinguistica. In tutti, il silenzio appare non tanto come assenza di comunicazione, bensì come
funzione comunicativa concreta: il silenzio è attesa.
Quando parliamo, il silenzio di chi ascolta precede e prepara la sua risposta: è il silenzio dell’alternanza, il silenzio del rapport. Quello che permette di recuperare le informazioni cancellate, generalizzate o deformate.
Il silenzio, dunque, è parte attiva della comunicazione perché luogo dell’intuizione e della creatività dell’ascoltatore/lettore. Quando il nostro interlocutore si interrompe, magari sul più bello, siamo portati a voler sapere
qual è la sua conclusione. Anticipiamo, nella nostra mente, una o più ipotesi
di finale. La curiosità cresce.
La peculiarità del silenzio è tutta lì; le sue applicazioni, molteplici. Nel
public speaking, pause ben calibrate fanno risuonare nella mente di chi
ascolta l’eco di quanto appena detto e stimolano ipotesi circa la piega che il
discorso prenderà. Alcuni politici e relatori sanno usare magistralmente
queste valenze del silenzio.
Così la pagina scritta: qualche tempo fa, Telecom Italia comprò delle pagine sui maggiori quotidiani nazionali e le lasciò completamente bianche
per alcuni giorni. Errore d’impaginazione? Grafico e tipografo impazziti?
No. «Che mondo sarebbe senza comunicazione?» recitava una scritta piccola, a piè pagina. Telecom aveva attirato l’attenzione con il silenzio: il lettore
riempiva a piacere quello spazio vuoto e solo in un secondo momento confrontava le proprie ipotesi con l’oggetto, finalmente svelato.
E, ancora: avete mai ricevuto un mazzo di rose accompagnate da un biglietto bianco? Finché non intuite chi può averle mandate, la mente si arrovella passando in carrellata i volti di tutte le persone che conoscete. Effetto
assicurato.
Scrivere: un silenzio tra sguardo e voce
Anche nella scrittura il silenzio conserva il suo potere evocativo. Per
cogliere le suggestioni create dall’alternanza fra silenzio e parola, infatti,
non occorre che qualcuno ci parli: è sufficiente che leggiamo. C’è infatti
318
una writing voice, come dicono gli americani: «una voce della scrittura».
Anche quando condotta fra sé e sé, la lettura possiede una dimensione sonora, perché nella nostra mente risuona il ricordo della voce di chi ci scrive, o la nostra stessa voce che legge per noi. Come per una composizione
musicale, allora, parliamo di fraseggio, ritmo, velocità, pause; una dimensione che, se ben gestita, può offrire molte sfumature ai colori che usiamo
per esprimerci.1
Indispensabile, per calibrare il ritmo di uno scritto, è anche la punteggiatura: ritma la lettura, ne determina i silenzi e sostiene la sintassi nell’organizzare la frase. Se usati correttamente, punti, virgole, punto e virgola e due
punti possono aumentare chiarezza ed energia di un testo.
La virgola separa, unisce, conduce attraverso il senso di una frase; il
punto e virgola sospende e poi conclude. I punti esclamativo e interrogativo
stuzzicano sempre l’attenzione e il due punti, come dice Alessandro Baricco, «detta una sospensione di tempo, e accende l’attesa di qualcosa di
straordinario. Quel che fa è: promettere».2
Le parentesi isolano: efficaci per chiarire un pensiero, per far passare un
commento, un sussurro. E poi c’è il punto: «legame fra il silenzio e il suono
delle parole, come una diga in mezzo a un fiume: interruzione e silenzio fra
due fiumi di parole».3
Certamente, molto efficace è l’uso di frasi brevi e anche di qualche lieve violazione della punteggiatura. Come, per esempio, il «punto enfatico»
o enfopunto, che mette in risalto un enunciato conferendogli autonomia,
pur mantenendo dipendenza semantica dall’enunciato precedente. Per
esempio così:
Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e
ti semina dentro un’immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E
quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quando è troppo tardi. E già sei, per sempre,
un esule: a migliaia di chilometri da quell’immagine, da quel suono, da quell’odore.
Alla deriva.4
Vedere voci, vedere silenzi
Più ci avviciniamo al silenzio, più parliamo del suo contrario: suono, ritmo, fraseggio, pause; insomma, della dimensione sonora del linguaggio e
della scrittura. Ma quella sonora non è l’unica dimensione del silenzio. Che
cos’è il silenzio per i sordi?
L’idea stessa che i sordi vivano nel silenzio è un clamoroso equivoco del
mondo udente. I sordi non vivono affatto nel silenzio. Semplicemente frui319
scono dei suoni e del silenzio attraverso gli occhi.5 Il fruscio del vento tra le
foglie, lo scoppiettio del fuoco, il mare in tempesta, tutto, insomma, viene
percepito come immagine: è quello il suono per i sordi, mentre il concetto
di silenzio coincide con l’impossibilità di comunicare.
Scrive Emmanuelle Laborit, attrice sorda francese:
Sono vissuta nel silenzio perché non comunicavo. È questo, il vero silenzio? Il buio
totale dell’incomunicabilità? […] Immagino suoni sotto forma di colori. […] Il silenzio è a colori, non è mai in bianco e nero. […] Ho due occhi per udire. Gli altri producono suoni con la bocca. Quanto a me, non so che cosa siano i suoni. E neppure il
silenzio. Non hanno alcun significato, quelle due parole.6
Alcuni amici sordi mi scrivono spesso. La loro scrittura è incredibile,
travolgente. Usano quasi tutti i colori della tavolozza, font differenti di differenti dimensioni, sfondi, formattazioni azzardate, elementi decorativi e in
movimento: faccine sorridenti (ciao, come va?), pupazzini che inviano baci
(ti voglio bene, buon compleanno, a presto, smack) o saltano di gioia (ho
passato l’esame, vado in ferie, ho vinto alla lotteria ecc.). Faccina triste, pagina bianca, vuota (va molto male).
Inizialmente, lo trovavo pazzesco. Poi ho capito che nella loro scrittura
(come nel loro mondo) tutto parla. E che la gestione degli spazi pieni/vuoti
è metafora perfetta dell’alternanza parola/pausa del parlato.
Il silenzio impaginato
In quest’ottica, l’impaginazione è assimilabile all’aspetto paraverbale
della comunicazione orale. Il silenzio, in qualche modo, racchiude i contenuti, li mette in relazione e svolge una funzione connettiva.7
Quando viene creato un marchio, per esempio, il logo è inserito in un silenzio «circolare»: in un’area detta «di rispetto» che non può essere invasa
da altri elementi visivi e che, parte integrante dell’immagine, le conferisce
importanza e personalità.
«Lineare», invece, è il silenzio che organizza contenuti testuali e di immagine secondo pieni e vuoti ritmicamente ripetuti: in questo caso, gli spazi
che scandiscono il ritmo visivo rendono più chiara la comunicazione come
un respiro, come le pause di un discorso o di un brano musicale.
Il silenzio può definire i rapporti tra i contenuti (grande/piccolo,
tanto/poco, presenza/assenza ecc.). Parliamo allora di silenzio «comparativo»: se impaginiamo una lista di pro e contro in modo che la colonna dei
vantaggi sia fitta di parole e quella degli svantaggi sia seguita da molto spa320
am■re
zio vuoto, quel silenzio ci fornisce, senza aggiungere altro, un eloquente
commento alla scelta da compiere.
E che dire, infine, del silenzio che svela nascondendo, che ci fa l’occhiolino e che, nel limitarla, amplia la sfera della comunicazione?
Un silenzio da toccare
Neppure il tatto è estraneo all’esperienza del silenzio. Basta pensare come cambia un messaggio, a seconda del tipo di carta su cui è veicolato.
Grammatura, composizione, porosità, vergatura, tutto concorre – silenziosamente – a creare nel lettore differenti sensazioni. E c’è una carta adatta
a ogni tipo di comunicazione. Che impressione vi farebbe ricevere una partecipazione di nozze su carta di giornale?
Non è solo questione di consuetudine o di processi di stampa: chi progetta elementi di comunicazione sa che l’oggetto verrà toccato e annusato,
non solo letto e guardato.
Evidentemente, il discorso cambia quando il supporto è un monitor.
Un impaginato su schermo, infatti, non ha dimensione fissa (volendo, si
può far scrollare per chilometri di pixel), può contenere immagini in movimento, elementi di interazione con l’utente. Non ha, inoltre, una visualizzazione oggettiva, ma diversa a seconda dello strumento usato, e la composizione dei colori è ottenuta in modo opposto rispetto alla carta: dal video i
colori escono grazie a un fascio di luce diretta, che li rende più aggressivi rispetto a quelli impressi su foglio. Anche lo spazio bianco a video colpisce (e
affatica l’occhio) molto diversamente da una pagina bianca.
A differenza del formato fisico, infine, che maneggiamo e portiamo vicino al nostro corpo, il monitor è sempre un po’ lontano da noi, in un paradossale altalenare fra vicinanza e lontananza, condivisione e intimità, capace di
amplificare la valenza evocativa del silenzio. Attraverso vista, udito e tatto il
silenzio alimenta sensazioni alle quali è a volte superfluo voler dare un nome. Il silenzio, quest’incanto di creatura, parla.
321
Valore della parola e del silenzio
di Ugo Canonici
HO sempre sentito dire che le parole sono pietre. Mi sembra poco. Io direi
che le parole sono pietre preziose. Perché ogni parola ha un valore, la sua
collocazione ha un valore e ha un valore anche il suo esserci o non esserci.
Valore del bla bla
Sì, anche il bla bla, l’uso a ruota libera delle parole vale. Provate a chiederlo agli adulatori. Ricordate Il Corvo e la Volpe? «Impara che tutti gli
adulatori vivono a spese di coloro che li ascoltano», diceva la volpe al corvo, deluso per aver perso il suo prelibato pezzo di formaggio. E aggiungeva:
«Questa lezione vale, senza dubbio, un formaggio».
Ma se l’adulatore rientra in una categoria che non ci piace, e quindi saremmo portati a conferire un valore negativo alle parole, provate a leggere
questo brano: è una lettera che un quasi cliente mi ha scritto per informarmi
che non avevo vinto la gara alla quale avevo partecipato.
Gentili Signori, vi ringraziamo per averci proposto la vostra idea per…
Eravamo coscienti nel momento in cui vi abbiamo contattato di aver individuato nelle
vostre strutture un interlocutore di prim’ordine, in grado di adempiere al compito nel
migliore dei modi.
Queste aspettative non sono andate deluse. Il progetto presentato ha dimostrato originalità, professionalità e impegno, né è in discussione la disponibilità di uomini e mezzi
in grado di garantire la perfetta riuscita dal punto di vista tecnico e organizzativo.
Come vi è stato già anticipato però la scelta della nostra azienda è andata in un’altra
direzione. Si è trattato di una scelta difficile, dettata unicamente da motivazioni di
natura aziendale, legate a un mix di fattori.
Queste motivazioni ci hanno orientato verso una scelta che può rappresentare un
primo passo verso quel cambiamento a cui vogliamo arrivare e che riteniamo necessario. Cambiamento che implica un processo, un cammino graduale e non accelerazioni improvvise.
Siamo certi che chi lavora bene, con coscienza ed entusiasmo, e riesce a trasmettere
ai propri interlocutori il proprio lavorare bene, ha gettato un seme. Il vostro lavoro ha
lasciato un segno di cui, di certo, terremo conto in futuro.
Ringraziandovi ancora vi salutiamo cordialmente.
Nome Cognome, Direttore Acquisti
322
Alla fine della lettera uno si sente quasi contento… Credo comunque che
valga la pena di fare la fatica di usare le parole in questo modo. La validità
del testo conferisce valore anche all’azienda che lo firma.
Valore della sintesi
Sì, sì, calma. Vedo già che state storcendo il naso perché vi ho detto del
valore dell’essere prolissi. Allora riparo subito accennando al valore dell’essere sintetici.
Raccontano che il grande Indro Montanelli, quando un collaboratore gli
portava un articolo, gli dicesse: «Va bene, ma riportamelo più corto del 30
per cento». Ovvio che il giornalista si sentisse in difficoltà. Ma replicare a
Indro non era facile. E allora giù di forbici e lima. Il pezzo veniva ripresentato della dimensione voluta e rileggendolo tutti verificavano che, paragonando le due stesure, per la prima non c’era più partita.
Bisognerebbe che ci pensassero anche gli oratori nei convegni e nei congressi. Chissà perché molti sono convinti che il valore dell’intervento è legato ai minuti che si «resiste» dietro il podio. Vai a convincere un presidente che può dire le stesse cose, con la speranza, in più, di essere seguito, in
venti minuti al posto di quell’oretta buona che scaturisce dalla lettura dei fogli che il suo speech writer gli ha preparato!
Alla sintesi è in genere connessa l’efficacia. Provate a domandarlo a
Pierre-Jacques Cambronne. Alla richiesta del generale nemico di arrendersi
avrebbe potuto replicare con una serie di argomentazioni e di controproposte, cercando di arrivare, magari dopo lunghe discussioni, a un onorevole
compromesso. Ma lui aveva ben chiaro in testa cosa fare e ritenne di essere
esplicito (e sintetico) nella sua risposta.
E con una parola è passato alla storia.
Valore del silenzio
Ma se il saper usare in modo corretto le parole ha un suo peso dobbiamo
ricordarci che un peso, e non piccolo, si ritrova anche nel non usarle. Al momento opportuno.
Tutto il teatro e i grandi attori ci ripetono l’importanza dei «tempi» del
dire e del tacere. Anche la tradizione popolare ci ha riempito di proverbi.
Ma il valore del silenzio, credo che tutti abbiamo avuto modo di viverlo in
prima persona. A volte nella funzione passiva del ricevente e a volte in quella
attiva («perché non mi sono morso la lingua prima di rispondere!»).
323
Conclusione
Queste brevissime riflessioni, dal fiume di parole all’assenza di parole, mi
portano a un ultimo pensiero. Tutti noi abbiamo a disposizione uno strumento
eccezionale, che ha in sé tutte le possibilità. Sta a noi come utilizzarlo.
E come per gli strumenti musicali, non è sufficiente metterci sopra le
mani. Perché li si possono malamente strimpellare, fare rumori noiosi o ottenere musica celestiale che manda tutti in visibilio. Per raggiungere quest’ultima situazione ci vuole un po’ di dote naturale e tanto, tanto studio.
Imparare a usare le parole è uno sforzo che sa dare ricompensa. Secondo
me, ne vale la pena.
Note
1
BETTARINI, MARIELLA, Il silenzio scritto, Gazebo, Firenze 1995.
BARICCO, ALESSANDRO, «I due punti. Leggendo Gadda», in AA.VV., Punteggiatura, vol. I, I
segni, Rizzoli, Milano 2001, p. 98.
3
CAPPA LEGORA, CRISTINA, Vassily Kandinsky, Mazzotta, Milano 1997, p. 3.
4
BARICCO, ALESSANDRO, Castelli di rabbia, Rizzoli, Milano 1991, p. 24.
5
«Vedere voci» è un’espressione di Oliver Sacks, e il titolo di un suo libro (Vedere voci. Un
viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano 1989).
6
LABORIT, EMMANUELLE, Il grido del gabbiano, Rizzoli, Milano 1995, pp. 25 e 29.
7
Per la stesura della parte sull’impaginazione del silenzio, preziosi sono stati i suggerimenti
di Caterina Vitali, art director e cara amica, cui va il mio ringraziamento.
2
324
Appendici
Appendice 1
Corpo, mente e linguaggio
nel mestiere del comico
di Stefania Zenato
HO affiancato il team del varietà televisivo Zelig durante la registrazione
dell’ultima puntata 2004 di Zelig Circus (11 milioni di spettatori). Mi sono
calata nel tendone di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, dove si registra la trasmissione e ho studiato ogni fase del lavoro: le prove, i retroscena
nei camerini, le cene con comici e autori, lo spettacolo durante le due registrazioni TV, i festeggiamenti finali.
Rapport tra comico e autore
Molti comici sono autori dei propri pezzi, altri sono interpreti di testi
creati intorno alla loro abilità di caratteristi. Spiega Giancarlo Bozzo, direttore artistico di Zelig Circus insieme a Gino & Michele (Gino Vignali e Michele Mozzati): «Tra comici e autori il rapporto si genera per affinità. Non
c’è una prassi. Noi organizziamo ogni anno diversi laboratori, dove comici
e autori lavorano insieme. In quel contesto nasce la sintonia tra un comico e
un autore e i due cominciano a ideare pezzi e personaggi nuovi».1 La sintonia si estende come ricalco naturale a tutte le persone che gravitano intorno
a Zelig (costumisti, truccatori, addetti alla security, cameraman). C’è grande
collaborazione e apertura al nuovo.
«Molte volte», precisa Bozzo, «il personaggio nasce da un lavoro congiunto tra autore e comico, altre volte il comico ha uno spunto creativo e
trova nell’autore la capacità di replicare la vis comica.»
Dunque l’autore osserva il comico, va in ricalco e poi in guida. Quando
si guarda un autore leggere un pezzo, lo si vede replicare il paraverbale e il
non verbale del comico per il quale l’ha scritto. Questo lo aiuta a entrare in
327
sintonia con il ritmo del comico e a comprendere quali espressioni sono
coerenti con il suo personaggio.
Anche per i conduttori le battute sono studiate per mantenere la massima
congruenza con il personaggio: Vanessa Incontrada gioca il ruolo della studentessa un po’ ignorante ma bella e giovane, Bisio è il comico con background intellettuale che ironizza sulle cose che lei dice, ma la desidera.
Questo si traduce in un lessico più elevato per l’uno e maccheronico per
l’altra, e nell’intramontabile gioco tra seduttore e preda. La domanda che
guida la selezione delle battute è «Suona bene in bocca a X?», «X direbbe
una cosa del genere?».
Rapport tra pubblico e comici
Luigi Pirandello insegna che l’umorismo funziona attraverso due meccanismi: la sorpresa o la ripetizione.
Nel caso di Zelig è la ripetizione alla base del rapport. Si crea una sorta di
ricalco reciproco, consensuale manifestazione di approvazione. Ricalco del
comico: usare il tormentone che coinvolge il pubblico. Ricalco del pubblico:
ripetere a oltranza la frase che prevede arrivare dopo l’aggancio. Ecco due
esempi: Franco Neri: «Franco… oh Franco» (Franco = aggancio, il pubblico
risponde: Oh Franco); Pino Campagna: «Papi… ci sei, ci fai, sei connesso?»
(Papi = aggancio, il pubblico risponde: ci sei, ci fai, sei connesso?).
Stato del pubblico
È interessante notare il lavoro fatto sullo stato del pubblico prima che la
trasmissione cominci. È proprio Giancarlo Bozzo a scaldare la sala: esorta i
presenti ad applaudire, battere i piedi, fare la ola. Giancarlo provoca il pubblico affinché risponda con sempre più convinzione ai suoi inviti, instaura
complicità verso i comici che dovranno esibirsi.
Il pubblico è lasciato a se stesso solo per una pausa di dieci minuti, nella
quale può consumare un caffè in un luogo connotato dagli elementi visivi,
dalle musiche e dai gadget di Zelig.
Nelle pause tecniche di registrazione i comici si alternano sul palco provando pezzi nuovi o recitando parti del loro repertorio, per tenere calda l’atmosfera. Qui il pubblico ha un ruolo centrale e mantiene la totale naturalezza delle sue reazioni, al contrario dei format TV in cui viene chiamato solo
a ridere e ad applaudire.
Spiega Michele Mozzati: «Non ci piaceva il modo di fare comicità in
328
TV, così abbiamo voluto creare un nuovo format. Il nostro lavoro è rivolto al
pubblico, non alle telecamere». Per questo l’energia nel tendone è molto
forte. Il comico non guarda mai in camera: guarda il pubblico. Per chi è a
casa, l’immagine dello spettacolo dove il pubblico si diverte è ancora più
forte, perché attiva un meccanismo di proiezione che lo sguardo in camera
del comico e l’ininfluenza del pubblico non attivano.
«Veniamo dal teatro» continua Michele: «il nostro linguaggio e il modo
di porsi dei nostri comici è più credibile rispetto alla tradizionale comicità
in TV, dove il pezzo è basato sulla ridicolizzazione di altri personaggi, e la
satira politica avviene attraverso la trasformazione del comico nel personaggio politico, con ore di trucco per un pezzo di cinque minuti. La nostra satira passa attraverso le parole del comico, che resta se stesso.»
Alchimia tra generi e canali
Il pubblico di Zelig è cambiato di pari passo con il grande successo. Inizialmente la trasmissione si rivolgeva a universitari, ora a famiglie. Per raggiungere un’audience così differenziata sono stati accostati generi molto diversi: linguaggio comico alto, battuta fine a se stessa, tormentone ecc.
Si gioca anche sulla combinazione dei canali di uscita. Con un ritmo di
quattro minuti ciascuno, intervallati dai presentatori, i comici alternano pezzi basati sul solo non verbale (Tutine), sul paraverbale e non verbale (Cevoli nell’assessore Palmiro Cangini) o su tutti e tre gli elementi (Ale e Franz).
A questo si aggiunge il coinvolgimento dei sensi: l’ausilio di strumenti
musicali (Sgrilli, Dado), pezzi en travesti (Cirilli in Tatiana e Raul Cremona
in Jacopo Ortis).
Risate a colpo d’occhio: incontro con un comico visivo
Ho intervistato Paolo Migone, autore e interprete dei suoi pezzi. Incontro illuminante, perché mi ha mostrato in che modo la creatività nasce e si
trasforma attraverso un’affascinante elaborazione visiva.
Le origini teatrali
«Ci sono stati anni in cui snobbavo la televisione», ricorda Paolo. «Non
mi piaceva il tipo di comicità che vedevo: io pratico il surreale e nei format
in TV non ne trovavo. Io mi ispiro alla realtà e poi la deformo come con una
grande lente.» Già da questa descrizione Paolo ci mostra come la sua realtà
viaggi per immagini.
329
Come nasce un pezzo comico?
«Nonostante abbia quarantotto anni, ho salvaguardato alcuni aspetti dell’infanzia. Uso un sistema che è facile e difficile allo stesso tempo: il sistema dei
bambini. Sono attratto dai particolari. Non mi ricordo neanche una canzone ma
ho una memoria fotografica incredibile. I bambini dicono ‘Ora siamo nel saloon e la seggiolina diventa il cavallo’. Allo stesso modo, ogni volta che dico
‘vado in cucina’, il mio cervello entra in cucina e s’immagina delle cose.» I termini che Paolo usa sono legati in massima parte al visivo. Poco all’auditivo.
«Per esempio, io so che una certa battuta sul tostapane fa ridere. Quando
sono in cucina – sono sul palcoscenico, ma vedo la cucina intorno a me – il
mio sguardo passa lungo i mobili. Arriva al tostapane e so che lì ho una battuta pronta, ma magari mi dico ‘No, posso fermarmi su un’altra cosa che fa
più ridere’.»
«C’è una grande curiosità nel mio immaginario che mi spinge a inventare in qualsiasi momento. Sono arrivato a un punto in cui non scrivo niente di
quello che faccio. Quattro anni fa scrivevo una paginetta e me la imparavo a
memoria come vedevo fare agli altri. Poi ho smesso perché le parole mi
confondono.»
«Le parole mi confondono»: un’altra considerazione che descrive la lontananza di Paolo dalla percezione auditiva. Il suo modo di apprendere ricorda le mappe mentali, percorsi che lo conducono ai punti salienti della sua
comicità in uno scenario mentale connotato da colori e oggetti.
«Io ho delle diapositive nella mente», continua Paolo. «Vedo la donna
nevrotica che pulisce l’armadio ma non le basta perché è nevrotica. Svita le
viti, le ciuccia e le riavvita. Ho l’immagine, quindi non è necessario che abbia le parole. Ma ogni volta che vedo quella immagine il mio cervello fa
uno sforzo per cercare qualcos’altro. Quindi una volta potrebbe essere che il
cencio è stufo e se ne va come fosse un animaletto e poi lei lo ripiglia… È
come se fossi un fotografo. Vivo con un rullino in testa. La gente non ci crede ma io, quando parlo di oggetti deformati per far ridere, li vedo davanti
agli occhi. Non è che mi dico ‘Ora faccio ridere parlando del frigorifero’, io
vedo il frigorifero con le bollette appiccicate che dice ‘Va boh, Paolo, ci vado io a pagarle le bollette’. Tutto questo senza testo scritto, ed è meraviglioso perché non faccio nessuna fatica, c’è solo divertimento.»
Il ritmo televisivo
Il ritmo risulta essere una componente fondamentale di un pezzo comico
per la TV.
«In questi anni», continua Paolo, «ho cercato di imparare un nuovo ritmo... All’inizio ho sofferto perché dovevo zippare i miei pezzi, nati per die330
ci minuti, in quattro minuti. Togliendo qui togliendo là perdevo gli agganci.
Adesso li forgio sui quattro minuti. Il mio personaggio mi aiuta, perché fare
l’arrabbiato consente di parlare senza pause sembrando naturale. L’adattamento al ritmo televisivo è stato abbastanza lungo anche perché io vengo
dal teatro. A teatro c’è un rituale speciale. In TV tutto si consuma e si butta.
È tutta roba che vale un giorno. Non ti ci devi nemmeno affezionare.»
E come si è conciliato il linguaggio teatrale con quello televisivo, senza
l’ausilio di testi scritti?
«Ho incorporato il nuovo ritmo. Non seguo la regola della battuta ogni
tot parole. Quest’anno ho fatto il pezzo sulle mozzarelle, dove non c’è nessuna battuta. Sono convinto che la gente si riconosca in queste situazioni di
tensione. Due persone in casa, che si vogliono bene ma che in quel momento si danno fastidio per una sciocchezza. È quello il gioco. Lui apre la busta,
si bagna le dita con l’acqua della mozzarella, se le pulisce nel canovaccio e
lei gli dice ‘Che cosa stai facendo?’ con un tono che fa paura. Ha avuto successo perché è una situazione in cui tutti si ritrovano. Il meccanismo è:
‘questa cosa mi fa imbestialire da anni però non ci ho mai pensato’, e questo
fa ridere perché così lo esorcizzi, te ne liberi.»
L’aspetto di improvvisazione solleva la mia curiosità sul metodo con cui
Paolo entra nello stato necessario a condurre questo percorso visivo sul palcoscenico, di fronte a centinaia di persone.
«A volte mi capita di non averne voglia», risponde Paolo. «Quando sono
in teatro incorporo anche questo nello spettacolo, ci posso giocare. In TV cerco di scaricare la tensione muovendomi. Vado dietro al palco, corro salto mi
muovo, perché il cuore di tutto è la velocità mia e del pubblico. In TV parti da
freddo, vai sul palco e devi avere la temperatura giusta rispetto a ciò che gente ha visto prima. Se vengo dopo un comico che lavora sulla testa, il pubblico
è già pronto al ragionamento. Se vengo dopo un comico che usa tutti tormentoni, e agisce di più sulla risata di pancia, devo fare uno sforzo in più.»
Note
1
Ho potuto scrivere questo contributo grazie a Giancarlo Bozzo, direttore artistico di Zelig,
che mi ha messo in condizione di osservare ogni cosa e muovermi in libertà. Un grazie a lui,
a tutti i comici e allo staff al completo. Uno particolare a Michele Mozzati e Paolo Migone.
331
Appendice 2
Dimmi come scrivi...
Grafologia: dalla scrittura alla personalità
di Pacifico Cristofanelli
È DIFFICILE non avere particolari sollecitazioni di fronte alla nostra e all’altrui
scrittura. Possiamo portarci dietro il giudizio poco gratificante di qualche insegnante, l’ammirazione per la bella scrittura della nostra amica, il tentativo
di riprodurre una firma originale, l’antipatia per gli scarabocchi del capoufficio, il gusto di scrivere a mano o, al contrario, la piena integrazione con la tastiera del computer o del telefonino (siamo alla «generazione pollice»).
La scrittura è infatti anche qualcos’altro rispetto alla «rappresentazione
del linguaggio mediante segni grafici convenzionali», e a tutti gli altri significati che registra il vocabolario.
Prima di parlare di questo qualcos’altro, oggetto di studio e di ricerca
della scienza grafologica, può essere utile ricordare la critica di Platone alla
scrittura come tecnica. La scrive nelle ultime pagine del suo Fedro:
L’alfabeto produrrà oblio nelle anime di quelli che lo apprenderanno, in quanto trascureranno la memoria fidandosi dello scritto e richiameranno il ricordo da fuori, attraverso segni estranei, anziché dall’interno di se stessi. Ciò che tu hai trovato non è
dunque una medicina per la memoria, ma un mero mezzo per richiamare alla mente.
Ai tuoi discepoli non offri vera sapienza, ma un’apparenza. Poiché essi, potendo aver
notizia di molte cose senza apprenderle, avranno l’impressione di possedere molte
conoscenze, e invece saranno, nella maggioranza dei casi, completamente ignoranti,
ma anche difficili da trattare perché finiranno per trasformarsi in sapienti per apparenza (portatori di opinione) anziché in sapienti per davvero.
A distanza di oltre duemila anni, non sentiamo più la scrittura manuale
come estranea, tanto che abbiamo quasi dimenticato che si tratta di una tecnica appresa, perché ci è naturale considerarla intimamente connessa con il
333
linguaggio parlato. La critica platonica può lasciarci perplessi, anche se
mantiene una sua attualità se la riferiamo, per esempio, alla scrittura telematica, che sentiamo ancora esterna alla nostra personalità.
La scrittura come comunicazione (non verbale)
La scrittura oggetto della grafologia non è quella dei segni dell’alfabeto,
quanto piuttosto lo stile personale, il modo, la forma, il movimento con cui
si eseguono quei segni.
Diciamo subito che nei confronti della grafologia scientifica permane
qualche diffidenza.1 Per avvicinarsi alla prospettiva grafologica risultano
utili le categorie operative di componente «adattiva» o «effettuale» e componente «espressiva» che Gordon Willard Allport vede in ogni comportamento umano, scrittura compresa.2
La componente adattiva o effettuale della scrittura è costituita dal suo
valore funzionale, dallo scopo che intende raggiungere. La componente
espressiva risiede nel modo personale e unico con cui viene eseguita, tanto
che non esistono due scritture uguali. Infatti, la parte espressiva della scrittura risulta da elementi inconsci, e quindi grazie a loro è possibile accedere
alla parte profonda della personalità.
Si potrebbe applicare alla scrittura la nota espressione di Marshall
McLuhan: in un certo senso anche in grafologia «il medium è il messaggio».3 Per il grafologo, infatti, lo strumento scrittura costituisce l’oggetto di
studio specifico, pregnante di significato.
La scrittura diventa così una forma autonoma di comunicazione in cui il
destinatario è il grafologo, il messaggio è dato dalle informazioni sulla personalità, il referente è la personalità di chi scrive, il canale è il supporto che
registra lo scritto, il mittente è il cervello e, finalmente, il codice è l’insieme
di segni grafologici messi a punto, con approcci distinti e anche diversi, dai
capiscuola della grafologia.4
La grafologia può essere quindi considerata lo studio dell’aspetto non
verbale della scrittura in quanto non ne esamina il contenuto, le parole, i
concetti, ma la forma, il disegno, il movimento lasciato dalla mano e dal
cervello. Attraverso la decodifica di questo movimento il grafologo risale
dalla periferia al centro, dalla mano al cervello, dal presente al passato e
quindi alla «storia», con procedure analoghe a quelle che usano antropologi,
sociologi o medici.5
Come per l’apprendimento di qualsiasi lingua, anche per quella grafologica la difficoltà non consiste tanto nell’apprendere le singole lettere di questo «alfabeto», ma nel combinarle insieme nelle loro infinite possibilità,
334
nella lettura contestuale di tutti i segni, nel collocare le tessere del mosaico
in modo che possa emergere un’immagine chiara.
La proiezione della personalità nei segni grafologici avviene anche attraverso un simbolismo che utilizziamo inconsciamente e continuamente in altre manifestazioni e in altri comportamenti. Così, per esempio, il foglio
bianco è percepito come l’ambiente in cui ci si muove e la scena in cui si
manifestano le tendenze della vita interiore. Il movimento sul foglio è il
comportamento nella realtà. La direzione del movimento verso destra della
scrittura occidentale – scelta operata dagli antichi greci – è l’andare verso
gli altri, verso la vita e il futuro. L’inizio, la fine, l’andamento di una lettera
e di una parola rappresentano anche l’inizio, la fine e l’andamento di un’azione, di un rapporto, di un ragionamento. La linea di base è la concretezza
dei rapporti con la realtà, il suolo su cui si cammina e si opera, il confine tra
coscienza e inconscio.
Creando lo spazio e collocandoci in esso, siamo continuamente attratti
da quattro forze fondamentali (o vettori: sinistra, destra, alto e basso),
ognuna con significati specifici, alle cui sollecitazioni simboliche rispondiamo in maniera diversa e personale, esprimendo la ricchezza dei rapporti dell’io, la spontaneità o la preoccupazione, l’ansia o l’immediatezza.
La dinamica del simbolismo spaziale non si oppone alla spiegazione che
viene ricercata nell’ambito della fisiologia e delle neuroscienze. Perché non è
determinante l’organo che conduce la penna (dopo adeguato esercizio si può
scrivere con la mano opposta a quella abituale, con il piede o con la bocca): è
il cervello che scrive e si racconta. Cervello come sintesi del patrimonio biologico ereditario e formidabile registratore delle esperienze individuali.
A che cosa serve la grafologia
Le applicazioni della grafologia sono numerose. Prima ancora che si costituisse come scienza, è stata utilizzata in ambito giudiziario a fini identificativi, per stabilire se due scritti provengano dalla medesima mano.
Adottando il metodo grafologico nella perizia su documenti, si analizzano il movimento, il gesto, il dinamismo, la personalità grafica dell’autore o
degli autori degli scritti in esame (firme su cambiali, assegni e documenti,
stesura di testamenti, lettere anonime ecc.).
L’uso più ricorrente della grafologia è finalizzato alla conoscenza della
personalità sulla quale si aprono ampi spiragli, non esclusa la dimensione
psicosomatica e dinamica. È uno strumento rapido e affidabile anche perché
il soggetto non subisce condizionamenti psicologici o emotivi, dato che la
scrittura è stesa spontaneamente, prima di essere analizzata.
335
Un’altra applicazione si registra in ambito scolastico: la grafia rivela l’evoluzione e la crisi di personalità dei ragazzi, e offre indicazioni preziose
sulle motivazioni del comportamento che possono sfuggire anche all’insegnante più attento o al genitore iperprotettivo. Non secondario è l’aiuto nella
scelta dell’indirizzo scolastico. Il grafologo non è un grafomante che predice
i risultati nello studio, ma può rilevare le tendenze intellettive e attitudinali.
La grafologia può evidenziare alcune attitudini utili ai fini della professione. Mentre la scelta del lavoro è condizionata da fattori più forti rispetto
alle aspirazioni e alle richieste dell’individuo, emerge sempre più l’esigenza
di autorealizzazione. La grafologia può indicare a ognuno il ruolo e la mansione in cui valorizzare pienamente le proprie potenzialità.
Non meno interessante è l’applicazione in ambito matrimoniale e familiare
dove – anche insieme con altri specialisti – il grafologo mette a disposizione la
sua competenza per formulare diagnosi di «compatibilità». Anche nella coppia
già costituita, l’intervento del grafologo può chiarire le motivazioni di eventuali contrasti e offrire indicazioni sulla base delle potenzialità latenti dei coniugi.
Tutto ciò finché ci sarà la scrittura manuale, comportamento «non verbale» individualizzato e individualizzante in cui natura e cultura, eredità e ambiente, innato e acquisito «depositano» le proprie tracce. Ma nulla ci vieta
di tentare un’applicazione degli strumenti grafologici all’e-mail o alla pagina web, perché, come dice Sigmund Freud: «nessun essere umano può conservare un segreto. Se le labbra tacciono, chiacchierano le punte delle sue
dita; il tradimento trapela da ogni poro». E le punte delle dita forse continuano a chiacchierare anche quando battono su una tastiera.
Scritture eloquenti
Quella di Leonardo da Vinci è sicuramente una delle scritture più note e peculiari. Come
si può osservare dal primo facsimile, è orientata da destra a sinistra non solo nel movimento generale ma anche nell’ideazione e nell’esecuzione delle singole lettere. Uno
specchio (per questo si parla di scrittura «speculare») o la funzione «Rifletti orizzontalmente» di un programma di elaborazione delle immagini (facsimile a destra) la rende
«normale» e più leggibile.
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Grafia di don Lorenzo Milani di cui il grafologo Nazzareno Palaferri, senza conoscere l’autore, ha scritto: «È difficilmente influenzabile perché oltre a dominare appieno il sentimento
ha uno spirito di critica che non perdona nell’attività di vaglio, fino al punto che potrebbe
risultare ipercritico se non avesse una grande apertura di mente e di cuore, soprattutto se
non avesse quell’intuito psicologico che gli fa capire tante cose». Le regole dello scrivere
dell’autore di Lettera a una professoressa (1967) hanno questo retroterra.
La scrittura segue l’evoluzione della personalità. Il rovesciamento a sinistra, la ricerca di
uno stile anticonformista, «originale», come anche la strettezza, l’addossamento e l’accavallamento delle lettere gridano la «protesta» di questa adolescente di sedici anni e il suo
bisogno di porsi controcorrente. A ben vedere, però, dietro la chiusura, la difesa e il rifiuto si nasconde un gran bisogno di affetto e di attenzione: è particolarmente attivo il
meccanismo di difesa della «formazione reattiva».
Per approfondire
CRISTOFANELLI, PACIFICO, Grafologia. Dalla scrittura alla personalità, Messaggero,
Padova 2004.
MORETTI, GIROLAMO, Trattato di grafologia, Messaggero, Padova 2002.
TORBIDONI, LAMBERTO - ZANIN, LIVIO, Grafologia. Testo teorico-pratico, La Scuola, Brescia 2001.
337
Note
1
Si veda, una per tutte, la voce «grafologia» nel Dizionario dello scettico (http://www.italiano.
skepdic.com/grafologia.html) che non risparmia, per esempio, né la PNL e né la psicanalisi.
Si veda anche la sezione «Pseudoscienze» nel sito http://www.vialattea.it/esperti e qualche
articolo nel sito http://www.cicap.org
2
G.W. Allport (1897-1967), psicologo statunitense, si è occupato dello studio dell’individuo
e delle motivazioni coscienti della personalità.
3
MCLUHAN, MARSHALL, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967.
4
Meritano di essere ricordati Jean Hippolyte Michon (1806-1881), Jules Crépieux-Jamin
(1858-1954), Ludwig Klages (1872-1956), Max Pulver (1889-1952), Girolamo Moretti
(1879-1963).
5
In questo lavoro di lettura dei segni e delle «tracce», il metodo di Girolamo Moretti, per
esempio, ha individuato circa novanta aspetti (segni grafologici) che possono essere raggruppati nelle categorie di curvilineità/angolosità, larghezza, pressione, collegamenti, calibro (dimensione), inclinazione, direzione degli assi letterali, aste, andamento sul rigo, chiarezza e
confusione, rapidità, forma e accuratezza, ricci.
338
Appendice 3
La parte dell’occhio
di Mara Lombardi
L’occhio aperto e l’orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi
esperienze. Da tutte le parti affluiscono voci e il mondo risuona. Come esploratori che si addentrano in paesi nuovi e sconosciuti noi facciamo scoperte nel
«mondo quotidiano», e il nostro ambiente, altrimenti muto, comincia a parlare
un linguaggio sempre più chiaro. Così i segni morti diventano simboli viventi,
e ciò che è morto diventa vivo.
Wassily Kandinsky1
Vedo, quindi esisto
Anche l’occhio vuole la sua parte: la guarda, la pesa, l’analizza. Uso
molto il canale visivo, è per questo che amo disegnare e dipingere. Le mie
scelte sono spesso istantanee; appunto, a colpo d’occhio.
Svuoto la cassetta delle lettere colma di posta e già in ascensore guardo
la corrispondenza e leggo, cerco, riconosco. Scelgo veloce nel mucchio di
stimoli e prima ancora di essere alla porta ho già deciso l’ordine con cui
aprirò le buste. Ne scelgo due.
Una lettera molto Umanitaria
Conosco la Società Umanitaria, ente morale e benefico più che centenario. Punto di riferimento per iniziative culturali e di beneficenza, nel rispetto
della tradizione solidale italiana: poco modaiola e understatement.
La lettera è un invito a una conferenza: «La casa: edilizia sociale tra
estinzione e rilancio».
Uno sguardo alla struttura (vedi pagina 340) e l’occhio corre al logo, ai
colori, all’impaginazione, all’indirizzo:
●
●
sulla sinistra ci sono in colonna i nomi degli sponsor, ma non i marchi
(schisci, si dice a Milano)
la carta semplice mi suggerisce congruenza fra l’ente, gli obiettivi e il tema
339
●
●
pieni e vuoti equilibrati
la parolona INVITO che non ammette sbandature.
Semplice, forse un po’ troppo, ma poi penso che il contenuto qui è più
importante della forma. Quindi bene, tranne per il testo al piede dell’invito:
un corpo piccolo, non solo per i presbiti e gli anziani.
Nel complesso, un buon esempio di calibrazione, ricalco e guida.
Il questionario di soddisfazione del servizio di B&O
Bang & Olufsen, azienda leader in hi-fi e high-tech, mi invia un questionario di soddisfazione dedicato ai servizi di postvendita: librettino di 8 pagine, formato 15 x 21 cm, carta riciclata, piacevolmente ruvida. Osservo la
prima pagina e mi sembra uno spartito musicale:
●
●
ouverture:–il loro indirizzo
preludio:–il mio indirizzo
340
●
●
●
allegro:–una foto buffa dei due, allora giovani, fondatori (almeno credo)
andante:–il testo di presentazione
gran finale:–il raffinato marchio-logotipo B&O.
Traspare la loro identità: hi-fi tech design, per i vostri occhi e per le vostre orecchie.
341
E poi la semplicità: bianco e nero morbido, pulito ed essenziale. Ritmo
nelle proporzioni e perfetta simmetria fra vuoti e pieni. Il testo:
Lavoriamo costantemente al fine di migliorare il livello del servizio postvendita. È per
questo che siamo interessati a conoscere il Suo grado di soddisfazione circa il servizio ricevuto.
Il Suo aiuto ci sarà prezioso per offrirLe un’esperienza migliore in qualunque futura
situazione. Le chiediamo gentilmente di considerare l’esperienza sin qui vissuta e di
dedicarci qualche minuto per compilare il questionario allegato e inviarcelo utilizzando la busta preaffrancata.
A parte la convinzione che la relazione fornitore-cliente sia migliore se
complementare, e qualche maiuscola troppo ossequiosa, il testo mi avvicina. C’è congruenza fra stile e contenuto, fra il ruolo di autore e quello di lettore. C’è una saggia presupposizione: «migliorare il livello» significa che è
già buono. C’è rapport. E c’è la guida, da «Il Suo aiuto ci sarà prezioso» alla proiezione nel futuro «per offrirLe un’esperienza migliore in qualunque
futura situazione».
Seguita da un ritorno morbido al passato per la richiesta di valutazione:
«Le chiediamo gentilmente di considerare l’esperienza sin qui vissuta».
Visto che ho letto di corsa, la mia mente potrebbe operare una lieve inversione sintattica, e percepire quel gentilmente nella frase anche così: «Le
chiediamo di considerare gentilmente l’esperienza sin qui vissuta.»
Piccolo spostamento, suggerimento (o comando?) nascosto. Alla mente
capita, vero?
Aprire ritmare sentire
Nel subbuglio della notte ho bisogno di parole. Vado alla libreria e quasi
al buio passo in rassegna i dorsi. Li cerco stretti, scarni, cose brevi. Apro a
caso un catalogo Electa su Fortunato Depero. Una tarsia in panno balza ai
miei occhi e mi sveglia di colpo.
Vedo una composizione coloratissima, equilibrata, ogni angolo è pieno,
composto, senza sbavature o interruzioni. Sento il ritmo dell’immagine,
tamburi e voci che escono dalle forme e un refrain che sgorga dalla cornice
ripetitiva e simmetrica. Percepisco i personaggi squadrati e corpulenti che
soddisfano il mio bisogno di equilibrio tra pieno e vuoto; il movimento è
deciso; il colore crea le forme; la sedia in basso ma al centro dell’attenzione. Un bell’esempio per tutti i canali percettivi. L’originale (Festa della sedia) è esposto al MART di Rovereto, stupefacente.
342
Fortunato Depero, Festa della Sedia, 1927 (tarsia in panno, 330 x 257 cm); Rovereto,
MART; © Fortunato Depero by SIAE 2005.
Corpo a corpo
Di che cosa ho bisogno quando leggo? Di sentire il peso del libro, quel
chilo e mezzo sullo stomaco, di toccarlo, pagina ruvida o patinata, copertina
con caratteri in rilievo, di divorarlo e poi digerirlo con calma.
Mi piace il carattere grosso, che riempie la pagina, anche il colore, e se
poi c’è l’aletta di copertina meglio, e se sulle alette c’è anche la biografia
dell’autore, è come un antipasto.
Leggere è un rito, la pila sul comodino è l’altare, il libro è il centro del
rito.
Il mio corpo contro il corpo del libro, il corpo del carattere in grassetto
spunta fuori dalla pagina e mi invita alla lotta. Lo guardo, tocco, sento.
Chissà, se potessi toccare il Libro imbullonato di Depero (1927).
343
Fortunato Depero, Libro imbullonato, 1927; per gentile concessione degli eredi Depero.
Ogni pagina un racconto a sé stante, composto a mano in tipografia con
infiniti e diversi caratteri, con immagini, pagine ripiegabili, a quinta teatrale… lui stesso lo definì «MECCANICO (imbullonato come un motore), PERICOLOSO (può costituire un’arma proiettile), INCLASSIFICABILE (non
si può collocare in libreria, fra gli altri volumi)».
Fu uno dei tanti esperimenti dei futuristi per rivoluzionare il concetto
classico di editoria, sia nella forma sia nelle parole.
La parola visiva
Il futurismo iniziò nel febbraio 1909 con il primo Manifesto di Marinetti. Benché movimento solo italiano, influenzò il dibattito artistico internazionale di quegli anni.
Uno dei suoi tratti più tipici è proprio la grande produzione di scritti (i Manifesti) con dichiarazioni di obiettivi e strumenti per ottenerli. Nel primo manifesto sulla pittura futurista del 1910 si ribadisce il rifiuto del passato, dell’accademismo, delle convenzioni e delle imitazioni. Più interessante è il secondo
manifesto del 1910, La pittura futurista. Manifesto tecnico. Vi si legge:
Lo spazio non esiste più; una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. […] Le sedici persone che avete intorno a
344
Fortunato Depero, Il semaforo ideale, 1930 (disegno a china e tempera, 44 x 32 cm);
Collezione Campari.
Notate quanti predicati sensoriali: dentro di me (K), un cielo grigio (V); il mio profilo nero segnato (V), su una nuvola di malumore (K); un cuore appeso al bivio dello stato d’animo (K), quale improvviso semaforo (V); una pulsazione rossa (K/V), di BITTER
accende (V); incalza (K); divampa (K); il megafono (A), di luce (V), mi dice (A) «lì, all’angolo, entra, dissetati» (K); una pulsazione gialla (K/V), di CORDIAL abbaglia (V); illumina (V); rinforza (K); il secondo megafono di luce mi dice (A): «lì, all’angolo, entra, rinvigorisciti» (K); finalmente! fuori da me il grigio cielo (V), via la nuvola di malumore (K);
ecco un semaforo rosso e giallo (V) ideale – sì, entrerò (K); sempre all’angolo C A M P A
R I; gior-nal-men-te (A), pun-tual-men-te (A). Uno spot modernissimo.
voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro, tre: stanno ferme e si muovono;
vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano
a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri
corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così che il tram
che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso
si amalgamano.
345
C’è ansia di rappresentare gli oggetti in continuo movimento, conservando l’immagine di quel dinamismo. Non solo nei quadri troviamo elementi
che soddisfano tutti i canali percettivi, anche negli scritti, nelle Parolibere, i
primi esempi dell’arte visuale e concreta che pone il lettore nell’ottica di
guardare il libro più che di leggerlo.2
Boccioni scrive nel suo Contro il paesaggio e la vecchia estetica del
1914: «Le affiches gialle, rosse, verdi, le grandi lettere nere bianche e bleu,
le insegne sfacciate e grottesche dei negozi, dei bazar […] ecco ciò che ci
inspira e ci affascina».
Per finire, ancora Depero: godetevi l’esclamazione pubblicitaria nel testo di pagina precedente.
Note
1
KANDINSKY, WASSILY, Punto, linea, superficie, Adelphi, Milano 1972, p. 19.
MARINETTI, FILIPPO TOMMASO, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole
in libertà, 1913.
2
346
Appendice 4
Mnemotecnica
Ginnastica per ricordare
di Sergio Borra
SPESSO la gente si lamenta della propria memoria, minimizzandone l’efficienza. Invece, in ogni momento della nostra vita la capacità di ricordare ci fa
compiere miracoli. Anche per leggere questo testo è necessario il suo aiuto,
altrimenti ci apparirebbe una sequenza di simboli grafici senza significato.
La memoria è alla base di tutto ciò che sappiamo. Registra, classifica,
immagazzina, recupera l’informazione con una flessibilità, una rapidità e
una capacità superiori al migliore dei computer. Raccoglie le nostre esperienze sensoriali e ci permette di riconoscere una cosa già vista o udita, un
sapore, un odore, una sensazione tattile provata. Se consideriamo la memoria come un muscolo, ecco alcune tecniche per allenarla.
Memoria visiva, auditiva o cenestesica?
Tutto parte, ancora, dalle modalità sensoriali. Ognuno ha un proprio stile
di pensiero e di memorizzazione. Possiamo parlare di una memoria più visiva, legata alle immagini; oppure di una più auditiva, all’udito; o di una più
cenestesica, alle sensazioni.
Il visivo pensa ed elabora le proprie decisioni per proiezioni e associazioni visive. Si serve di immagini mentali per comprendere direttive aziendali o
piani complessi. Quando esiste un problema di lavoro, ricorre a letture per
trovare una possibile soluzione o consulta un manuale. Ricorda ciò che gli
viene sottoposto sotto forma di illustrazioni e grafici. Usa schemi, forme
geometriche, simboli; colora i testi, spesso con evidenziatori diversi.
L’auditivo dà più importanza alle parole, proprie e altrui. Ricorda poesie,
messaggi pubblicitari, canzoni, che poi continuano a ronzargli in testa. La347
vora meglio nel silenzio, o in situazioni che gli permettono di concentrarsi
sui problemi. Durante una riunione, la sua attenzione si fissa sulle frasi a effetto. Apprende tramite letture e ripetizioni ad alta voce, o registrazioni.
Il cenestesico apprende per prove e tentativi, cerca di fornire sensazioni
ed emozioni al proprio corpo, ha bisogno di «afferrare il concetto», «toccare con mano», sentirsi coinvolto. Per decidere dev’essere posto davanti o,
meglio, dentro il problema, viverlo in prima persona. Durante una conversazione con un collega può sentire l’esigenza di camminare su e giù, o di aprire la posta, o di fare qualcos’altro: lo aiuta a riflettere sulle cose. Il movimento per lui è importante per mantenere «aperti» i canali di apprendimento e memorizzazione, perciò gli è difficile star seduto ad ascoltare.
Pensate a cosa ricordate con maggior facilità o qual è la situazione di apprendimento più soddisfacente per voi. Per esempio, di una vacanza ricordate più i paesaggi e gli ambienti, i discorsi e i suoni, o le attività svolte, i
profumi e il clima?
Quando incontrate una persona, ricordate di più la sua faccia e il suo
look, il tipo di voce, oppure i movimenti del corpo e la simpatia? Quando
cercate una via ricorrete a una cartina, chiedete informazioni, o vi affidate al
senso di orientamento?
Se avete individuato la vostra modalità più forte, potete imparare a usarla al meglio. Se siete visivi, cercate di esprimere le esperienze e le idee visualizzandole con schizzi e disegni, rappresentatele con dei grafici, chiedete
esempi per fissare i concetti. Se siete auditivi, fatevi spiegare nozioni nuove
a voce, ascoltate nastri registrati, sostenete conversazioni. Se siete cenestesici, inserite nel vostro processo di apprendimento il movimento fisico, confezionate le informazioni in modo concreto, sperimentate.
Per affinare le facoltà mnemoniche, però, è fondamentale far partecipare
anche altri sensi, oltre a quello prevalente: un apprendimento multisensoriale è molto più efficace.
Le «stanze» di Simonide e i «loci» ciceroniani
La tecnica mnemonica ha origine intorno al V secolo a.C. Fu escogitata
dal poeta greco Simonide. Come racconta Cicerone nel De oratore, durante
un banchetto cui Simonide fu invitato per recitare alcune poesie in onore del
padrone di casa, crollò il tetto della sala, provocando la morte degli ospiti,
ma non di Simonide, che pochi attimi prima era stato chiamato fuori. Molti
corpi erano irriconoscibili. Simonide ricordò il punto esatto in cui ognuno
degli ospiti era seduto, e poté identificare i corpi. Questa circostanza gli
suggerì le leggi della memoria: se la memoria visiva era così buona, poteva
348
usarla come aiuto per ricordare anche altre cose. Escogitò un metodo usato
ancora oggi: il metodo delle stanze.
Consiste nel visualizzare una stanza con tutti gli oggetti e i mobili che la
compongono: ogni oggetto e ogni mobile corrispondono a un’immagine cui
associare le cose da ricordare. Ogni volta che avete bisogno di richiamare tali cose, sarà sufficiente guardare l’oggetto o il mobile con l’«occhio della
mente», e automaticamente scaturiranno le informazioni che avete associato.
Esempio. Pensate a una stanza di casa vostra. Partendo dalla porta e procedendo con ordine, visualizzate dieci oggetti o mobili: lo stereo, una libreria, il televisore e così via.
Supponiamo ora che dobbiate ricordare di comprare dei fiori, di telefonare a un amico e di prelevare al bancomat.
In primo luogo, basterà immaginare che mentre inserite un CD nello stereo, dallo stesso escano fiori di colori diversi, con un delizioso profumo che
pervade l’intera stanza. Poi, potete immaginare che tutte le pagine dei libri
si trasformino in tessere del bancomat e dai libri stessi cadano fragorose cascate di monetine e banconote. Infine, l’immagine che compare in TV è
quella del vostro amico che, con un grosso telefono sulla testa e a un volume così alto da rompere lo schermo, vi urla di chiamarlo subito.
Ora so che se vi dicessi «stereo», subito mi rispondereste «fiori», e così
anche per gli altri due collegamenti; e so che con un minimo di esercizio
siete in grado di farlo da soli. Verificatelo.
Un metodo simile è quello dei «loci» ciceroniani, codificato appunto da
Cicerone, con il quale egli riusciva a memorizzare molte informazioni nuove, collegando ognuna di esse a un luogo o ad un elemento di un percorso
perfettamente noto.
Pensate, per esempio, al percorso che fate ogni giorno per andare da casa
in ufficio; scoprirete con quale facilità sia possibile visualizzare in ordine
tantissimi loci abituali. La tecnica consiste nell’associare le cose da ricordare a questi luoghi, per poter richiamare in perfetto ordine l’intera sequenza
di informazioni.
Immaginazione, emozione, associazione
Dai sistemi appena descritti comprendiamo che i fondamenti di cui la
memoria ha bisogno sono:
1. immaginazione
2. emozioni
3. associazioni.
349
Ogni mnemotecnica ha bisogno di attivare i nostri cinque sensi. Pensate
come potrebbe essere molto più facile ricordare una materia come la storia
se fosse possibile vedere le immagini delle battaglie, sentire le voci dei personaggi o toccare con mano le prove lasciate ai posteri.
Usare tutti i sensi nella vostra immagine mnemonica non è però sufficiente se insieme non create emozioni: quanto più le vostre immagini mentali saranno bizzarre, esagerate, paradossali, grottesche, in movimento, colorate, tanto più sapranno rafforzare il ricordo.
È poi essenziale associare in modo creativo qualsiasi informazione nuova
a qualche elemento già presente nella vostra memoria: permette di migliorarne il rendimento, come avrete notato nelle tecniche delle stanze e dei loci.
Invecchiamento e memoria
È luogo comune che il declino mentale sia parte inevitabile e naturale
dell’invecchiamento. Diverse ricerche dimostrano che il 20-30 per cento degli ottantenni ottiene risultati analoghi, se non superiori, a quelli di persone
molto più giovani. D’altra parte, la storia è piena di scienziati, studiosi, personaggi politici e artisti che hanno conservato un’ottima salute mentale anche molto avanti con gli anni. Sotto, allora, con un po’ di jogging, di training della mente, perché la memoria si può migliorare a qualsiasi età, anche
senza chiamarsi Picasso, Tolstoj o Churchill.
➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜➊➜
MEMORIA E SCRITTURA: ALTERNATIVE O ALLEATE?
Intervista a Sergio Borra
di Paola Perna e Alessandro Lucchini
Per gli esperti di mnemotecnica, scrittura e memoria sono tra loro in contraddizione. Perciò trattiamo il tema con Sergio Borra attraverso questa intervista: contiamo di stimolarlo e «cavargli fuori» qualche riflessione in più sui punti di contatto.
Molti ritengono che la trascrizione sia un atto di sfiducia verso la
propria memoria. Altri vivono la scrittura come un surrogato della
m e m o r i a : « N o n m e l o r i c o r d o , m e l o s c r i v o » . È d a v v e r o c os ì? L a
scrittura non aiuta la memorizzazione?
Sì che l’aiuta. Pensiamo al formato del foglietto «pro memoria», ai colori, alla posizione delle parole chiave nella pagina. Pensiamo all’atto fisico dello scrivere alcune
parole, che crea una forte partecipazione emotiva tra il messaggio e il suo autore,
350
che nella fattispecie è anche destinatario. Se il soggetto è cenestesico, compiere il
movimento lo aiuta a ricordare. Nello stesso tempo, poiché la memoria è molto visiva, aiuta anche fotografare mentalmente quella frase, o quella parola evidenziata
in colore, o scritta a margine. Ci sarà capitato, in un libro, di ricordare una tabella,
in alto a destra, sfondo grigio, o una parola chiave che abbiamo scritto accanto,
che ci aiuta a ricordare il contenuto dell’intero capitolo.
Mappe mentali, problem solving, creatività: quanto possono aiutare
in questo le mnemotecniche legate ai meccanismi neurolinguistici?
Le mappe mentali sono utilissime per prendere appunti, fissare dei concetti, imparare e ricordare. Stimolano la naturale capacità del nostro cervello di creare associazioni. Sono ancora più utili se le scrivo in modo creativo, usando vari colori, simbologie, forme geometriche che rappresentano concetti diversi e di diversa importanza.
L a v i s u a l i z z a z i o n e d e l p e n s i e r o , i n t e s a n o n c o m e u s o d i d i s e g n i , i c one, simboli, ma come «scrittura visiva». Pensiamo alla «visibilità» di
I t a l o C a l v i n o , m a p e n s i a m o a n c h e a l r a m o d e l l a g o d i C o m o c h e v o lge a mezzogiorno. La capacità di creare immagini con le parole
scritte è importante solo per i visivi o per tutti?
È importante soprattutto per i visivi, perché hanno una naturale predisposizione
a pensare e capire per immagini. Efficacissimi, in proposito, gli esercizi che si fanno nei corsi di creatività, e che ricordano gli esperimenti dei futuristi: come scrivere la parola «cammello» in un modo che riproduca visivamente le forme di un
cammello; la C è la testa, le due M sono le gobbe ecc. O scrivere «ombrello» disegnando un ombrello. Nei libri su cui i bambini imparano a leggere, le parole non
si fondono sempre così con le illustrazioni?
Nel momento in cui si evocano delle immagini, però, quelle immagini sono collegate anche a suoni (lo sciacquio delle onde del lago), o a parole ascoltate in quel
momento (le voci dei pescatori o dei turisti in barca), o a sensazioni (l’acqua o il
calore del sole sulla pelle).
L’immagine è comunque un motore molto importante per le altre sensazioni. Forse soprattutto nella cultura occidentale, dove sembra ci sia una percentuale maggiore di visivi, date le continue sollecitazioni oculari del nostro mondo (computer, TV, cinema, manifesti, scritte che appaiono e scorrono nelle vetrine ecc.). In
Oriente, dove la spiritualità è più forte, sembrano esserci più cenestesici; in Africa, dove esistono meno immagini, e si comunica più con suoni e ritmi, sembrano
esserci più auditivi. Dico «sembra» perché queste generalizzazioni vanno sempre
prese con cautela.
Scrivere i propri obiettivi è una pratica cui ricorrono in molti. Alcuni
s o l o a i n i z i o a n n o , p e r p o i d i m e n t i c a r s e n e . A l t r i c o n r e g o l a r i t à . P e rché aiuta a raggiungerli? Cos’è, autosuggestione o qualcosa in più?
Scrivere i propri obiettivi significa prendere un impegno con se stessi. Ci sono
persone che li scrivono e poi addirittura li firmano: un rituale d’impegno ancora
351
più stringente. In molte aziende si fa all’interno di un gruppo, di una squadra, legando il gruppo in un contratto psicologico. Alcuni scrivono il proprio obiettivo,
ne fanno un sacco di fotocopie e le appendono ovunque, sul computer, in macchina, sul letto, ci tappezzano la casa, facendone un richiamo continuo, per ritornare all’impegno preso anche in eventuali momenti di cedimento.
La stessa tecnica può funzionare anche in senso opposto: ci sono persone che
svuotano il cervello dai pensieri negativi scrivendoli su un foglio e poi bruciando
il foglio. Una forma di autosuggestione molto efficace.
Certi suoni, certi profumi, certi gesti funzionano come «ancore»,
spingendo le persone a riattivare emozioni, pensieri, stati d’animo.
S u c c e d e l o s t e s s o n e l l a s c r i t t u r a ? C e r t e p a r o l e p o s s o n o e s s e r e c om e a n c o r e v e r b a l i ? E c os ì c e r t e f i g u r e , c e r t i s i m b o l i ?
Esattamente. Per esempio, in certi ambienti professionali o culturali esiste un linguaggio comune e un comune sentire. Pensiamo all’informatichese (backuppare,
formattare, flaggare), al marketinghese (target, customer orientation, sellout/sell-in), al burocratese o all’aziendalese, all’internetese e così via. Molte di
queste parole sono criticate dai loro stessi utenti, che tuttavia continuano a usarle: forse proprio perché funzionano come ancore; in senso semantico, perché evocano un significato preciso per quel gruppo; in senso psicologico-relazionale, perché fanno sentire le persone dentro o fuori da quel gruppo; e anche in senso mnemonico, e quindi economico, perché fanno risparmiare tempo riunendo diverse
persone in un unico pensiero.
Spesso i formatori nei corsi, o i capi nelle riunioni, presentano alcune parole simbolo, che poi le persone cominciano a ripetere, introducendole nella loro quotidianità. Ognuna di quelle parole richiama il concetto cui è collegata. Le parabole,
le metafore, le storie simboliche, non fanno lo stesso? Il solo nominare una parola chiave di quella storia o metafora riesce poi a scatenare la situazione emotiva a
cui è stata ancorata.
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Gli autori
Maristella Addante
Nata a Bari nel 1974 tenta, per pura tradizione familiare, di abbracciare il mondo della contabilità, ma la passione per il lato umanistico delle cose le fa conquistare una laurea in Filosofia con una specializzazione in Scienze umane. Un master in
comunicazione d’impresa e relazioni pubbliche rafforza la convinzione che comunicare può essere il suo mestiere. Lavora nel mondo della formazione, delle telecomunicazioni, del customer service e della vendita, continuando a seguire corsi di
PNL, e-learning, business writing.
Alessio Albano
Nato a Verona nel 1977, nel 2002 si laurea in Scienze della comunicazione a Padova con una tesi sul web project management. Dopo un anno nella redazione del
canale digitale satellitare Match Music, nel 1999 inizia a sviluppare progetti di comunicazione sul web per le PMI. Personalità eclettica, si cimenta con la grafica e il
web development, mentre si occupa di architettura dell’informazione e gestione dei
contenuti. Dal 2002 a gennaio 2004 è account manager in Upgrade Multimediale.
Dopo il master in Web Content Manager, presso Ateneo Multimediale, è consulente
di comunicazione.
Davide Alemani
Nasce nel mitico 1968 quando l’uomo non aveva ancora posato il piede sulla Luna. Bambino precoce, ancora in fasce si dedica alla lettura dei grandi classici di…
Walt Disney. Ha molte passioni: dal blues alla storia egizia ai fasti dell’impero sovietico. Ma soprattutto ama scrivere: giornalista, copywriter, è un «drogato di parole». È
il content director di www.microsoft.com/italy, che con le sue oltre 10.000 pagine è il
sito italiano più visitato, con una media di oltre 3 milioni di page view al mese. Scrive
articoli anche per riviste di meccanica ed è il cuore di www.ktvehi.com.
353
Marzia Andreoni
Vive a Lucca. Laureata in Lettere moderne, lavora nella scuola come insegnante
di materie letterarie. Si è occupata di scrittura creativa e ha collaborato con varie case editrici. Ha frequentato presso la facoltà di Lettere e filosofia di Pisa il master in
italiano scritto e professionale.
Sergio Borra
Nato a Torino nel 1964, è amministratore delegato della Dale Carnegie Italia,
esclusivista dei corsi della Dale Carnegie Training, azienda leader nel business training dal 1912. Già durante gli studi in Economia e commercio sviluppa esperienze
consulenziali nei settori: memorizzazione e lettura veloce, public speaking, leadership e team building, comunicazione efficace, vendita e negoziazione, aspetti motivazionali. Master PNL in comunicazione, secondo i programmi della International
Association of NLP. Insegna Personal Improvement and Development presso la European School of Economics. Ha condotto seminari e conferenze cui hanno partecipato, a oggi, oltre 36.000 persone.
Carlo Bosso
Nato nel 1953 a Torino, città dove vive e lavora, è laureato in Lettere e filosofia.
Si occupa di selezione, formazione e sviluppo delle risorse umane in una multinazionale americana, dove ha l’opportunità – per mestiere! – di dedicarsi all’universo
uomo (e donna) e la fortuna di interagire con una variegata moltitudine di caratteri e
comportamenti. Ha lavorato in numerose aziende internazionali, dove ha progettato, organizzato e tenuto corsi di formazione. Si è dedicato alla scrittura, pubblicando due sillogi poetiche, Schizzi sinfonici (Pentarco, Torino 1987) e Appunti di viaggio (ivi, 1991), nonché il romanzo breve La luna e le ombre (L’autore libri, Firenze
1996), molto apprezzato da parenti e amici, cioè coloro che l’hanno letto.
Monia Brizi
Nata a Macerata nel 1977, dopo la maturità scientifica si laurea in Scienze della
comunicazione e poi frequenta un master in Web Content Manager a Milano. Scopre la passione per il web presso un’agenzia di comunicazione, dove cura l’information architecture di alcuni siti. Nel 2003 ha preso parte alla creazione di una
community sulla web art, attualmente si occupa della redazione di contenuti e progetta un sito per i diversamente abili. Ostinata, eclettica e curiosa. Adora scrivere e
creare.
Elena Caldirola
Laureata in Scienze Politiche, opera presso l’Università di Pavia, dove è direttore del Centro Linguistico. Ha collaborato a ricerche sul rapporto fra multimedialità
e tecniche di apprendimento, ed è intervenuta in convegni internazionali dedicati a
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tali argomenti. Formatore nel master in Scienza e tecnologia dei media dell’Istituto
universitario di Studi superiori di Pavia. Di internet subisce il fascino delle contaminazioni: lo stesso movente che alimenta la sua passione profonda per il jazz.
Pier Sergio Caltabiano
Socio fondatore e presidente della SIPNL, è trainer di PNL. Direttore del CTC,
Centro di formazione manageriale e gestione di impresa delle Camere di commercio di Bologna, dal 1985 svolge attività di ricerca, progettazione e docenza sulla
qualità dei processi formativi e di comunicazione presso università e organizzazioni
pubbliche e private. È inoltre vicepresidente nazionale dell’AIF, l’Associazione italiana formatori.
Ugo Canonici
Laurea in Ingegneria elettrotecnica a indirizzo nucleare, amministratore delegato e direttore generale di CLEIS – Comunicazione, promozione, servizi per l’impresa. Ha lavorato in IBM Italia nelle aree vendite, marketing e comunicazione. È
autore dei libri: Il marketing diretto per l’industria (Pirola, Milano 1985), Il bigino
del Marketing Diretto (K e K), Spiccioli di Marketing (Alfa Linea), Te lo do io il
computer (SEI, Torino 1988), vincitore del premio Montefinale, Il nostro computer
quotidiano (SEI, Torino 1991), Dal contatto al contratto (Etas, Milano 1995). Giornalista, dirige la rivista dm&c e collabora con varie testate. Docente presso l’Accademia di comunicazione, la Consulta di marketing dell’Università di Parma, il master di Publitalia, il master di Tecnopolis a Bari.
Paolo Carmassi
Nato a Roma nel 1960, formazione umanistica. Prima di scegliere la comunicazione si è occupato di vendite, marketing e information technology in una delle
maggiori organizzazioni di distribuzione di componenti elettronici e periferiche per
computer. Ha seguito la genesi e lo sviluppo dell’IT, come quella degli strumenti di
comunicazione digitale prima di internet. Dal 1992 è amministratore di Es Studio,
impresa di comunicazione posizionata nel mondo delle nuove tecnologie. Ha coordinato e diretto la realizzazione di siti internet di B2B e B2C. È consigliere nazionale di Unicom, Unione nazionale delle imprese di comunicazione.
Lorenzo Carpanè
Veronese, docente liceale di lettere, svolge la funzione di supervisore di tirocinio per la SISS del Veneto, dove insegna Didattica della letteratura. Ha svolto attività di formatore per il ministero della Pubblica istuzione. Ha pubblicato diversi
studi su Torquato Tasso, sulla letteratura barocca e sulla storia della stampa. È
membro del Centro di studi tassiani di Bergamo.
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Luisa Carrada
Vive e lavora a Roma. Laureata in Lettere moderne, lavora come editor e business writer nella struttura di comunicazione della Finsiel (Gruppo Telecom Italia).
Nel 1999 ha aperto il sito Il Mestiere di scrivere, il primo in Italia sulla scrittura
professionale e la scrittura per il web. Nell’aprile 2000 ha pubblicato presso l’editore Lupetti il manuale di scrittura on-line Scrivere per internet.
Consuelo Casula
Specialista in psicologia del lavoro e psicoterapia ipnotica, svolge attività di formazione e di psicoterapia. Professore a contratto di Comunicazione interpersonale
presso l’Università Iulm di Milano e didatta della Scuola italiana di ipnosi e psicoterapia ericksoniana. È autrice dei libri Giardinieri, principesse, porcospini (Angeli, Milano 2002), Risvegliare l’energia dei chakra (Red Edizioni, Como 2000) e I
porcospini di Schopenhauer (Angeli, Milano 1997), oltre che di numerosi articoli
su riviste specializzate.
Giovanna Chiozzi
Nata a Treviso nel 1967. Ha conseguito il Baccalaureato internazionale di Ginevra, e si è laureata in Lingue e letterature moderne a Trento, specializzandosi con
un master in Technical Authorship. Ha iniziato ad avvicinarsi al mondo del technical writing nel 1998 quando, nel ruolo di documentation manager della Build &
Software Factory di Telecom Italia, ha partecipato alla fondazione del TransAlpine
Chapter per la Society of Technical Communication, di cui è stata presidente nonché coordinatrice del gruppo italiano dei technical writer. Attualmente si occupa di
knowledge management e comunicazione.
Fabrizio Comolli
Nato a Milano nel 1964, coltiva da anni un’imbarazzante bigamia tra umanesimo e tecnologie digitali. Laureato in Filosofia (Milano, 1988) e in Psicologia (Torino, 1998), ma innamorato dell’hi-tech, ha cercato di ricomporre il suo dissidio interiore concentrandosi sull’interazione uomo-macchina e sulla sua comunicazione
(dal technical writing alla divulgazione). Il suo campo di lavoro primario è l’editoria tecnica.
Dal 1995 a oggi ha collaborato con aziende e con editori per progetti cartacei e
on-line, in veste di autore, editor, publisher. Attualmente lavora come consulente
editoriale nel settore tecnico-scientifico. Solo un amico ha potuto convincerlo a
scrivere di nuovo qualcosa. Non è detto che abbia fatto bene.
Mario R. Conti
Nato nel 1959, giornalista professionista, è vicecaporedattore di Oggi. Prima di
approdare al primo settimanale italiano per la famiglia, dove dal 1990 si occupa di
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attualità e spettacolo, è stato cronista sportivo a La Notte, di gossip al settimanale
Eva Express e, per due anni, animatore e inviato di Radio Monte Carlo. Da trent’anni coltiva le passioni per lo studio delle religioni, la psicologia e la musica. Sposato,
ha due figli, un coniglio nano e un pesce rosso.
Pacifico Cristofanelli
Laurea in Filosofia a Roma, diploma di perfezionamento in Filosofia a Urbino, diploma di grafologo con specializzazione in consulenza scolastica e consulenza peritale presso la Scuola superiore di studi grafologici dell’Università di Urbino. Docente
nelle scuole statali superiori e medie dal 1970 al 1989, preside dal 1989 al 1994.
Professore a contratto alla facoltà di Scienze della formazione dell’Università
di Urbino, corso di laurea in Tecniche grafologiche. Professore a contratto alla facoltà di Scienze della formazione dell’Università LUMSA di Roma, corso di laurea in Consulenza grafologica. Direttore della rivista Scrittura, relatore in congressi nazionali e internazionali, autore di saggi di argomento pedagogico e
grafologico.
Mafe De Baggis
Fondatrice e direttore creativo di Daimon, società che si occupa dell’impostazione e del coordinamento operativo di testate on-line e di community, inizia la carriera come copywriter e consulente di comunicazione. Dopo essere stata community manager di Atlantide, comunità on-line di Tin.it, matura altre esperienze di comunità virtuali. Sviluppa l’area CRM e community in RCS WEB (RCS Editori) e
cura i servizi People, Genio e Newsgroup in Virgilio (Matrix). Relatore a convegni
e docente di master e corsi, collabora con alcune testate giornalistiche. È autrice del
libro Le tribù di internet (Hops Tecniche Nuove, Milano 2002).
Sabina Del Monego
Nata a Milano nel 1965, di origini venete. Da programmatore software in ambiente Vax/VMS Digital a redattore di procedure per il Sistema qualità ISO 9001 e quindi,
con l’avvento di internet, a web-content-factotum. Vale a dire: fare un po’ di tutto per
quanto riguarda i contenuti del web. Ultima formazione seguita con passione: master
in Web Content Manager all’Ateneo Multimediale di Milano. Scrive favole per bambini (e non) e dipinge, rintanata nei boschi all’imbocco della Valle d’Aosta.
Chiara Fornari
Nata a Roma, vive a Milano e studia Lettere moderne. Da sempre attratta dal
mondo della scrittura. Collabora con uno studio di comunicazione e con l’ufficio
relazioni esterne di Fondazione Fiera Milano; scrive per una rubrica di e-learning e
per alcune testate di moda. Grazie a Paola Perna, si avvicina al mondo delle assicurazioni, lavorando per Zurich Italia. Con Alessandro Lucchini e Luisa Carrada ap-
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profondisce la scrittura professionale. Fortemente motivata e decisa a non deporre
la penna, scrive di tutto. Ama leggere, ascoltare musica e il mare delle Eolie, più di
ogni altra cosa.
Silvia Frattini
Nata nel 1973, vive e lavora a Milano. Laureata in Lettere moderne, ha realizzato CD-ROM d’arte e turismo e curato la fornitura di contenuti per portali on-line e
progetti e-learning. Master in PNL, tiene seminari sul content management e sulla
formazione a distanza. Collabora con testate on-line ed è tra gli autori del libro
Content management (Apogeo, Milano 2002).
Francesca Gagliardi
Nata a Cremona nel 1969. Laurea in lingue e letterature straniere a Parma nel
1994. Ha lavorato all’Azienda di promozione turistica (APT) della sua città e, attualmente, alla Provincia di Milano dove progetta e scrive contenuti sul sito del settore Idroscalo, sport, turismo. Adora Mozart e scrivere: così studia polifonia sacra e
diventa pubblicista. Ma è la passione per la linguistica che le regala la scoperta più
emozionante: i sordi, la loro realtà e la loro meravigliosa lingua, la lingua italiana
dei segni. E poi, Beatrice, quattro anni: sua figlia.
Rosella Gaudiuso
Nata a Bari nel 1972, è laureata in Economia e commercio. Dopo un master in
comunicazione d’impresa e relazioni pubbliche, la sua passione per la scrittura e il
web prendono il sopravvento sui principi di contabilità e sulla finanza aziendale.
Collabora come business writer con Alessandro Lucchini ed è coredattrice di un
«Corso professionale di scrittura per le banche», on-line sul sito www.italicon.it.
Dopo un’esperienza come redattrice di corsi bancari per una società di e-learning,
approda alla gestione dei contenuti del sito www.buonalombardia.it.
Remigio Guadagnini
Laureato in Conservazione dei beni culturali, scopre internet nel 1996. Dal 1998
progetta CD-ROM multimediali e realizza animazioni digitali. Dal 2000 collabora
con diversi enti di formazione e inizia quindi a progettare percorsi formativi per l’elearning. Dal 2002 lavora nel campo dell’architettura dell’informazione e della comunicazione digitale per Altreforme, società che si occupa di progetti di integrazione tra arte, comunicazione e multimedia.
Paolo Iabichino
Nato nel 1969, è direttore creativo di OgilvyOne, la prima agenzia di marketing
one-to-one in Italia. In pubblicità dal 1990, è passato dall’advertising tradizionale
alla comunicazione relazionale, incontrando qui la giusta dimensione di uno scrive-
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re più attento al destinatario. Con il suo team gestisce campagne e strategie di comunicazione per importanti marche italiane e internazionali. È convinto che la pubblicità non abbia più bisogno di un target, ma di un interlocutore con il quale marche e prodotti devono mettersi in relazione, superando la logica del bisogno per
sposare l’etica del servizio. Da qui l’advertising si arricchisce di nuove discipline
per avvicinare un nuovo consumatore, sempre più individuo, che obbliga la scrittura a passare dal registro seduttivo a quello emotivo.
Mara Lombardi
Nata a Milano nel 1957, città dove vive e lavora. Ha fondato nel 1985, e dirige,
un’impresa di comunicazione. Ha frequentato il liceo artistico e l’Accademia di Brera.
È stata allieva di Dimitri Plescan e Raffaele De Grada. Affianca all’attività professionale un’intensa attività artistica. Affascinata dalla fotografia in bianco e nero, ha trovato nella tecnica dell’incisione un naturale mezzo espressivo. Ha esposto in personali e
collettive e tenuto corsi per adulti su come disegnare con la parte destra del cervello.
Marco Lucchetta
Nato in provincia di Treviso, si è laureato in Sociologia con una tesi sulla rappresentazione nei media dei viaggi di Giovanni Paolo II. Ha iniziato a occuparsi di community on-line, lavorando nella web agency Powerhouse. Sviluppa contenuti editoriali per portali e partecipa a progetti per valorizzare il brand digitale di aziende quali
Aprilia, Ferrero, Henkel. Dopo un’esperienza come copywriter in un’agenzia pubblicitaria, diventa consulente e si occupa di progetti di comunicazione on-line e off-line.
Alessandro Lucchini
Nato a Milano nel 1959, business writer. Laurea in Lettere moderne, anni di
giornalismo e di pubblicità. È autore dei libri Intranet. Teoria e pratica (Apogeo,
Milano 2004), Content management (Apogeo, Milano 2002), Business writing.
Scrivere nell’era di Internet (Sperling & Kupfer, Milano 2001), Scrivere. Una fatica nera (Deus 1996, oggi gratis nel sito www.comuniconline.it) e di vari corsi di
scrittura professionale in siti di e-learning. Tiene corsi di business/web writing per
aziende ed enti pubblici, insegna all’Università Iulm di Milano ed è nel comitato
scientifico del master in italiano scritto e professionale dell’Università di Pisa
(http://sisppi.humnet.unipi.it/master).
Claudio Maffei
È uno degli esperti più noti nel campo delle relazioni interpersonali. Svolge
un’intensa attività di docenza presso aziende ed enti pubblici su competenze di comunicazione, motivazione e cambiamento. Consulente di politici, manager pubblici
e privati ai massimi livelli nazionali, è professore a contratto in alcuni master post
laurea. Autore e coautore di libri, collabora con periodici nazionali e testate specializzate: http://www.comuniconline.it
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Ezio Maisto
Salernitano, specializzato in politiche per il turismo. S’è occupato di ricerca, editoria, teatro, marketing, formazione, copywriting. Project manager per l’ex ministero del
Turismo, l’APT di Messina, la Provincia di Salerno, ha vinto un concorso nazionale di
idee e lavorato a tre Contratti di Programma. Rincorre l’indefinibile nella risposta alla
domanda «che cosa fai nella vita?». Ora che gli hanno detto che è un esploratore con la
passione per i contenuti, ha in mente di iscriversi a un corso di bricolage.
Elisa Marconato
Nata a Milano nel 1980, dove si è diplomata con successo al Liceo linguistico
Manzoni, indirizzo Informazione e comunicazione. Dopo aver frequentato diversi
corsi di comunicazione, ha svolto attività di web writing e di coordinamento per alcuni siti internet. In seguito è stata consulente di comunicazione presso il Comune
di Milano. Da sempre attratta dalla musica e dalla comunicazione corporea, ha frequentato un’accademia di danza. Ora la sua vita si divide tra un’impresa di comunicazione e un palcoscenico.
Mariella Minna
Laureata in Lingue e letterature straniere, cultrice della lingua e della cultura
giapponese, è interprete e traduttrice freelance e si occupa di traduzioni e localizzazione dal 1985. Appassionata di cinema e letteratura, scrive per diversi siti web e
contribuisce ad animare le discussioni sul newsgroup tematico it.arti.cinema. Entusiasta e comunicativa, sogna di diventare web writer a tempo pieno.
Florio Panaiotti
Classe 1973, laureato in Giurisprudenza, nel 2000 ha abbandonato la pratica forense per dedicarsi completamente a internet e alla scrittura. Inizia a collaborare
con studi professionali, società di consulenza ed enti locali nel campo dei finanziamenti comunitari, occupandosi di tutto ciò che riguarda il web content. Fra i vari incarichi, attualmente è responsabile dell’area Information brokering della TK Consultant, ed è riconosciuto dal Formez quale informatore comunitario per le amministrazioni pubbliche.
Stefania Panini
Consulente e docente in organizzazioni pubbliche e private, lavora sulle tematiche HRD (human resources development), della comunicazione professionale
(comportamenti organizzativi, leadership, web writing e content management), della formazione dei formatori. Insegna Comunicazione e gestione delle risorse umane
presso il corso di laurea di Ingegneria gestionale dell’Università di Pisa. Collabora
inoltre con l’Università di Bologna, corso di laurea in Scienze della formazione, per
la gestione di un laboratorio sul tutor formatore.
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Annalisa Pardini
Una laurea in Lettere moderne, varie esperienze nelle relazioni pubbliche e nell’orientamento scolastico, ha insegnato nella scuola secondaria superiore e ha una
passione: scrivere. È autrice di testi poetici (Fulmineo memento, Giardini, Pisa
1986) e scolastici (Letteratura, progetto modulare, Atlas, Bergamo 2002).
Minimo comune multiplo del suo percorso umano e professionale: la ricerca della comunicazione efficace, consapevole delle multiformi profondità dei destinatari.
Giampaolo Pecorari
Nato a Milano nel 1956. Nel 1985 inizia a occuparsi di risorse umane in Italtel, negli anni di Marisa Bellisario. Il suo stile è orientato alla estrema chiarezza; è
fautore del rewriting (un suo capo gli consigliò di riscrivere una lettera utilizzando i caratteri minuscoli per figlio di …), nonché della scrittura condivisa: le rifiniture apportate da due colleghe rendono più conveniente e digeribile la sua prosa
professionale.
Paola Perna
Consulente di comunicazione, giornalista. Formazione filosofica, laurea in Logica. Un’attività di consulenza tra: scrittura tecnica e professionale, per strumenti
di comunicazione tradizionale ed economica, siti web, e-learning, presentazioni e
pubblicazioni; ghost writing, produzione contenuti per il linguaggio parlato, presentazioni o discorsi; comunicazione aziendale e specializzazione nelle strutture
logiche per il web e nell’organizzazione dei contenuti; formazione alla scrittura;
tecniche di presentazione in pubblico e in riunione, logica, semiotica e linguistica
applicata.
Simone Ramaccini
Nato a Melzo, in provincia di Milano, nel 1976, si è laureato in Giurisprudenza
nel 2002 con una tesi in Informatica giuridica. Affascinato da internet, si appassiona all’uso delle nuove tecnologie nell’ambito della comunicazione. Dopo aver conseguito una specializzazione in web marketing & web advertising a New York, ha
lavorato prima come webmaster, poi come internet manager presso alcune aziende
milanesi. Oggi opera come consulente per lo sviluppo di strategie digitali per le
PMI, dalla stesura di piani marketing alla pianificazione di campagne per il web, e
cura il sito http://www.wmportal.com.
Maria Vittoria Re
Laureata in Lingue e letterature straniere a Parma, si è specializzata in spagnolo.
Per ragioni di studio approda a Barcellona, folgorata da Jordi e dal fermento culturale barcellonese. Studia il catalano, e per qualche anno collabora con la Fundació
La Caixa e, in seguito con il nuovo centro espositivo Caixa Forum. Attualmente vi-
361
ve a Milano, dove fa la mamma a tempo pieno. La sua passione: il paracadutismo. I
grandi amori: ancora Jordi e la loro figlia Montserrat, per la quale compone fiabe e
brevi racconti che un giorno, forse, pubblicherà.
Emiliano Ricci
Nato a Firenze nel 1964, si è laureato in Fisica con orientamento astrofisico. Dal
1998 è funzionario alla Regione Toscana, dove si occupa di progettazione di siti
web. Esperto in comunicazione della scienza, collabora con diversi istituti di ricerca. Come giornalista scientifico collabora con molte testate locali e nazionali, anche
radiofoniche e televisive. Ha all’attivo diverse pubblicazioni divulgative in campo
astronomico (libri, CD-ROM, DVD).
Roberto Sanna
Nato a Cagliari nel 1970, è laureato in Lettere moderne. Dopo un’esperienza nel
campo del turismo approda nel web come copywriter, scrivendo di arte, musica e
tradizioni. Dal 2000 collabora con www.SardiniaPoint.it, occupandosi dei contenuti del sito e di alcuni progetti web. Coprogettista per la gestione dei contenuti in
quattro lingue del sito www.RentSardinia.com, ora si occupa di copywriting tradizionale per pubblicità su stampa. Dopo il master in Web Content Manager all’Ateneo Multimediale di Milano, collabora con l’agenzia Es Studio all’analisi dei contenuti dei siti web.
Nilda Tempini
Nata a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, nel 1960. Ha studiato Medicina,
ma le sue due grandi passioni di sempre sono la scrittura e la storia. Ha collaborato
con riviste, cartacee e telematiche, in particolare nel settore del lavoro e della formazione. Attualmente si occupa della comunicazione aziendale e dei testi dei corsi
di formazione per un’azienda di Milano. A questa attività, affianca il lavoro freelance di business e web writer.
Tiziana Valtolina
Web writer, collabora con la Regione Toscana nella realizzazione dell’architettura informativa e redazione della intranet. Si è laureata in Filosofia, ha seguito corsi di comunicazione radiofonica e pubblicitaria, e un master in Web Content Manager. Prima esperienza di lavoro a radio RTL Firenze, adesso frequenta ambienti lavorativi legati al web e si diletta a scrivere degli argomenti più diversi: piante, filosofia e antropologia, internet.
Pierluigi Voi
Nato a Milano nel 1949, ha studiato presso l’Università Cattolica, il Centro studi cinematografici e l’Organizzazione per la preparazione professionale degli inse-
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gnanti, opera dagli anni Settanta come formatore di docenti sul linguaggio audiovisivo. Animatore di circoli cinematografici, è stato per vent’anni formatore di docenti e realizzatore di prodotti educational al Centro per i servizi didattici audiovisivi
della Regione Lombardia. È ora responsabile della comunicazione esterna presso il
Centro di formazione professionale Vigorelli della Provincia di Milano, dove inoltre coordina i corsi per la formazione di varie figure professionali destinate all’ambito dei media. È master di PNL.
Fiorella Zaggia
Formazione umanistica, si è laureata in Scienze politiche a Milano, veneta d’origine e di cuore, milanese per il resto. Si occupa di risorse umane dal 1974. Migra
negli anni Ottanta, anni d’oro per la consulenza, in una multinazionale europea con
sede in Milano: apprende il mestiere di progettista di formazione e di consulente.
Innumerevoli i progetti realizzati e le ore d’aula in tutta Italia. Nel 1996 fonda Tender, società di consulenza e formazione, dedicata allo sviluppo di progetti per HR.
Passioni seminascoste, ma praticate appena possibile: l’Alto Adige, la cucina, i dialetti e il Rinascimento. L’amore visibile e dichiarato: sua figlia Federica.
Vilma Zamboli
Nata a Milano nel 1961, creativa e amante delle lingue straniere, si forma nell’area software. In Italia e all’estero si occupa di automazione e supervisione dei processi industriali, e scrive documentazione tecnica. Nel 1994 realizza il primo help on-line
di Windows. Nel 1999 si confronta con la realtà americana del technical writing e dà
vita a Writec (http://www.writec.com). Offre consulenze, sviluppa progetti e forma
personale in tutti gli ambiti legati alla redazione tecnica: schede tecnico-commerciali,
documentazione di progetto, help on-line, manualistica, presentazioni.
Vincitrice della Trans European Technical Communication Competition 2003 e
2004, è presidente del TransAlpine Chapter (http://www.stc-transalpine.org), divisione transnazionale della Society for Technical Communication (STC).
Stefania Zenato
Artista, consulente e trainer. Si è laureata in Semiotica greimasiana, è master
pratictioner in PNL. Realizza spettacoli, affianca i professionisti nel raggiungimento dei loro obiettivi, insegna tecniche di comunicazione efficace, scrive romanzi e
per il resto danza. Ama le persone e le storie: http://www.stefaniazenato.it
Chiara Zuccalà
Nata a Milano nel 1969. Si è avvicinata alla comunicazione lavorando nel customer care di Tele+, dove si è occupata tra l’altro di formazione per il contact
center. Dalla televisione passa alle assicurazioni come responsabile vendite online in Allstate Insurance. Nel 2000 approda nel settore finanziario come direttore
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sales & customer service di ING Direct; lavora quotidianamente parlando e scrivendo ai clienti della banca diretta, senza mai incontrarli. I suoi amici dicono che
saprebbe vendere il ghiaccio agli eschimesi, forse per quella lingua lunga che non
risparmia nessuno. Sogno nel cassetto: una laurea in scienze della comunicazione.
Non è mai troppo tardi.
364
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371
Indice
dei modelli neurolinguistici
ambiguità 38-39
ancore 43-44
avverbi utili e avverbi dannosi 49
calibrazione 9-10
cancellazione:
semplice 16-17;
nel metamodello 16-18;
nel Milton model 29-31
causa/effetto 24
citazioni 45
comandi negativi 40-41
comparazione mancante 17
con & pro 61-62
congiunzioni disgiuntive 32-33
congiunzioni e collegamenti temporali o
causali 35
deformazione 22-25
domande di comprensione 55-56
domande guida 56
domande nascoste o indirette 40
equivalenza complessa 24-25
forme di estrazione indiretta 38-42
generalizzazione 19-22
gestione delle obiezioni 60-61
guida 11-12
incorporazione 58-59
indici referenziali non specificati 30
interruzione di schema 62-64
intonazione 53-55
junko logic 52
lettura del pensiero:
nel metamodello 23-24;
nel Milton model 35-36
limitazioni al modello 36-37
ma, però, tuttavia, e, mentre, nello stesso
tempo, anche se, nonostante ecc. 51
malformazioni semantiche 34-36
«maluma» e «takete» 46-47
mancanza di indici referenziali 18
marcature per analogia 41
metafore 44
metamodello 13-26
Milton model 27-42
nomi di persona 48
nominalizzazioni:
nel metamodello 22-23;
nel Milton model 29
nominalizzazioni/denominalizzazioni
48-49
numeri ordinali 32
373
operatori modali:
nel metamodello 21;
nel Milton model 37
performativa persa:
nel metamodello 21-22;
nel Milton model 36
postulati conversazionali 42
predicati 5-6
predicati di consapevolezza 33
predicati simmetrici e asimmetrici 1920
predicati temporali: la «time-line» 4950
presupposizioni:
nel metamodello 25;
nel Milton model 31-34
punteggiatura 52-53
quantificatori universali:
nel metamodello 20;
nel Milton model 37
rapport 9-12
ricalco 10-11
ricalco interrogativo 56
ristrutturazione 59-60
sinestesie 8
sistema rappresentazionale auditivo 4-5
sistema rappresentazionale cenestesico 5
sistema rappresentazionale visivo 4
sistemi rappresentazionali 3-8
submodalità 6-7
subordinate temporali 31-32
suggerimenti e comandi nascosti 39
swish pattern 64-65
tempi e modi dei verbi 50-51
trial and error, metodo 7-8
truismi 45-46
verbi, avverbi e aggettivi pragmatici 3334
verbi non specificati:
nel metamodello 17-18;
nel Milton model 30-31
via da / verso 62
win/win 57-58
Nella stessa collana
Charles K. Langford
L’analisi tecnica
Paolo Scandaletti
Come parla il potere
Fabrizio Pirovano, Guido Granchi
Il manager di successo in 7 mosse
Franco Ascani
Management e gestione dello sport
Joseph O’Connor, Andrea Lages
Diventare un coach con la PNL
Finito di stampare nel maggio 2005
dalla Tip.Le.Co. - Via S. Salotti, 37 - Piacenza
Printed in Italy
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