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OLEUL
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la copertina del decennio
A 4OCCHI CON IL ROCK accade che NON CI SONO AMORI FELICI
Buddy Holly
Buddy Holly
Geffen/universal 1958 (2004)
Elvis è il Re. Su questo non c’è
dubbio alcuno. È stato lui a dare al
rock ’n’ roll quella spinta e quella
popolarità che lo hanno fatto
diventare un fenomeno epocale.
Questo dato di fatto non ci deve
però far dimenticare che, come
sempre accade quando un
terremoto di quella portata investe
la cultura di un intero paese, la
responsabilità va distribuita tra una
immensità di personaggi: cantanti
e musicisti prima di tutto, ma anche
autori, produttori, discografici, dj,
presentatori di programmi televisivi
e promoter più o meno potenti.
Parlando di rock ‘n’ roll non si può
proprio evitare di citare personaggi
come Little Richard, Chuck Berry,
Jerry Lee Lewis, Bill Haley, Bo
Diddley, Fats Domino e Buddy Holly.
Ed è proprio su quest’ultimo che
vogliamo puntare la nostra (e vostra)
attenzione. Un po’ perché l’Universal,
nell’ambito di una serie di ristampe
celebrative dei 50 anni del rock
‘n’ roll, ha ripubblicato un album
del 1958 che porta semplicemente
il suo nome e comprende alcuni
dei suoi successi più grandi, un po’
perché Holly, con la sua area da
liceale studioso, era l’anti-Elvis per
eccellenza. In questo cd – potete
trovarlo oppure ordinarlo nel negozio
sotto casa – ci sono 12 canzoni (e
3 bonus track) che trasmettono
perfettamente l’atmosfera di
quel periodo. La prima cosa che
arriva è la voce: Holly canta in un
mondo semplice e diretto. L’unica
concessione a un modo
rock ’n’ roll che al momento
in cui si tengono queste
session si è già imposto è il
suo famoso “singhiozzo”, un
artificio di cui comunque
non abusa mai. Poi ci sono
le canzoni. Scorriamo i titoli
più famosi…Peggy Sue,
Ready Teddy, Words of
love… sono versi e musiche
che hanno fatto veramente
la storia della popular
music, brani immortali che
vengono continuamente
trasmessi, ascoltati o usati
dai pubblicitari più astuti,
quelli che attingono
all’immensa memoria
collettiva della civiltà
occidentale. Peggy Sue e
Words of love (quest’ultima
fu ripresa anche dai Beatles)
sono opera di questo
ragazzo occhialuto che il
destino ha voluto strapparci
in un incidente aereo il 2
febbraio 1959. Buddy aveva
appena 22 anni. Nel disastro
morirono anche Ritchie
Valens e The Big Bopper,
aggravando ancor di più il
già tragico bilancio di quel
volo maledetto. Affidato alla
sua musica e alla capacità
di creare uno stile personale
dalla fusione delle varie
componenti del rock ’n’
roll, la memoria di Buddy
è destinata a durare per
sempre.
Giancarlo Susanna
BREVESTORIA
Il decennio in cui tutto ha inizio. Stockhausen cominciale
sue prime sperimentazioni elettroniche, nasce il primo
juke-box, più o meno in concomitanza con l’invenzione
delle chitarre elettriche Les Paul e Fender Bill Haley forma i
Comets, la prima band rock and roll. Il suono della musica
cambia grazie a Chuck Berry e alla sua chitarra ma sarà
solo l’irrompere dell’industria musicale che “ruba ai neri
per dare ai bianchi” a fare esplodere il fenomeno. Con
That’s all right di Elvis Presley quella che prima era musica
fatta dai neri per i neri arriva al grande pubblico. Little
Richards, Bo Diddley, Gene Vincent, Jerry Lee Lewis, Buddy
Holly sono solo alcuni degli artisti che animano la scena
di quegli anni. Un decennio prolifico per la musica che
saluta la nascita del soul ad opera di Ray Charles, dello
Ska in Jamaica e dell’Exotica, gli anni del Greenwich
movement della beat generation e del jazz che avrebbe
aperto la strada al flower power. E mentre l’america si
prepara a ballare al ritmo del twist in Europa e in Francia la
musica è affidata agli chansonnier come Leo Ferré, Jaques
Brel, Edith Piaf, Gilbert Becaud, Brassens, Yves Montand,
Moustaki.
George Brassens
Le Parapluie
1954
3/1/’54 Prendono il via le
trasmissioni televisive della RAI
30/9/’55 muore l’attore
James Dean
Hanno comprato
panettoni, vini col
bicarbonato dentro,
cassette di falso
cognac, prosciutti
chimicamente
invecchiati,
cavatappi artistici
e poliglotti, mazzi
di mungitopo (al
prezzo di orchidee),
abetini, televisori, e
persino libri.
(Luciano Bianciardi)
4/11/’58 Nominato Papa
Giovanni XXIII
1/1/’59 Fidel Castro
prende il potere a Cuba
Morto nel 1981, George Brassens
è sepolto nel cimitero dei poveri.
Questa sua “ultima volontà”
rispecchia perfettamente il suo
modo di vivere la vita e la chanson.
Umile per origine e per ideologia,
il cantautore francese, padre dei
cantautori europei venuti dopo
di lui era iscritto alla Federazione
anarchica e interpretava al meglio
lo spirito esistenzialisa della Prigi del
secondo dopoguerra. Dall’inizio
degli anni cinquanta Brassens, che
aveva già pubblicato un romanzo e
alcune raccolte di poesie, diventa
popolarissimo in Francia con le sue
canzoni popolate da personaggi
strambi e provenienti dai bassifondi.
Storie di emarginati e poco di buono,
critiche dirette contro la società
dell’epoca, tremendamente attuali
e dissacranti ancora oggi.
Alcuni dei suoi pezzi sono diventati
immortali anche in Italia grazie alle
traduzioni che ne fece Fabrizio De
Andrè (Il gorilla, Morire per delle idee,
Il testamento, e altre).
Tra le sue canzoni c’erano molti testi
della tradizione poetica francese,
testi tratti da Villon o da Jammes, e
tutte, o quasi, offrivano una
visione caustica della vita,
uno sguardo disincantato e
anticonformista che lo resero
un guru per le generazioni
degli anni cinquanta,
sessanta e settanta.
Incantevole e
indimenticabile tra le altre è
Il n’y a pas d’amour hereux,
dal suo secondo album, Le
Parapluie (1954), scelta da
Froncois Ozon come sigla
finale del suo Otto donne e
un mistero.
Dario
SENTITI QUESTI
Songs for young lovers (1955) – Frank
Sinatra
Elvis (1956) - Elvis Presley
Jerry Lee Lewis (1957) - Jerry Lee Lewis
Here’s Little Richard (1957) - Little Richard
With is hot and blue guitar (1957) - Jonny
Cash
Singin’ to my baby (1957) Eddie –
Cochran
After school session (1958) - Chuck Berry
Blue train (1957) John Coltrane
The genius of Ray Charles (1959) - Ray
Charles
la copertina del decennio
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’6
CAPITAN CUORDIBUE accade che PAROLE E CANZONI
Captain Beefheart and His Magic
Band
Trout Mask Replica 1969
La figura di Captain Beefaheart
per la storia della musica è di
un’importanza capitale. Il lavoro
svolto dal Capitano dalla metà degli
anni ’60 fino al ’69, anno che vede
l’uscita del capolavoro assoluto Trout
Mask Replica, avrebbe consegnato
ai posteri una nuova codificazione
della materia musicale, rompendo
nettamente con il passato e le
tradizioni melodiche, assolutamente
privo di agganci con qualsivoglia
esperienza musicale precedente.
Certo, anche Cuordibue è figlio
del blues di Robert Johnson, ma
questo risultato finale è un suono
senza precedenti nella storia della
musica da tracciare un segno
indelebile che fa da spartiacque
con il passato. Da qui in poi qualcosa
è cambiato. Donald Van Vliet
(questo il vero nome), vero despota
e tiranno di quella Magic Band che
(soprattutto per quanto riguarda le
chitarre) tanto apporto darà alle sue
idee, canta con la sua voce roca
inconfondibile che si immerge tra
arpeggi sgangherati, voci in falsetto,
sax e clarinetto free jazz suonati in
maniera grezza e primordiale, in una
festa sonora anarchica e dadaista.
Eppure non deve ingannare lo
spiazzante effetto che può dare un
disco come Trout Mask Replica in
quanto l’anarchia compositiva è solo
apparente; c’è un lavoro di concetto
più profondo di quello che
si possa pensare tra quella
ridda di suoni “sgraziati”. E
non sarà un caso se Vliet
è stato fondamentale per
la formazione di numerosi
musicisti; senza il Capitano
non avremmo avuto
Birthday Party, la no wave,
Pere Ubu, e in età moderna,
la goliardia di Azita e le
Scissors Girls, l’istinto primitivo
degli Old Time Relijun, la
commovente bellezza del
canto di Al Johnson degli
U.S.Maple. Come dire…una
leggenda. Leggenda,
come spesso accade, non
capìta all’epoca. Troppo
netto il divario, che lui stesso
aveva creato con la storia
della musica; troppo forte
l’impatto dirompente del suo
genio per la sua epoca. Ha
preferito ritirarsi, nascondersi,
dedicarsi alla pittura. “In
molti hanno provato a farmi
diventare una rockstar,
ma sono sempre riuscito a
fregarli”.
Giampiero Chionna
Leonard Cohen
Songs of Leonard Cohen
Columbia 1968
3/6/’61 Incontro tra
Kennedy e Kruscev
4/4/’68 Martin Luther
King viene assassinato
“Quando ieri a Valle
Giulia avete fatto a
botte coi poliziotti,/
io simpatizzavo coi
poliziotti!/ perché i
poliziotti sono figli di
poveri./ Vengono
da periferie,
contadine o urbane
che siano.”
(P.P. Pasolini)
BREVESTORIA
Il vitalismo musicale degli anni 50 lascia il posto alla ribellione
dei 60. Tanti i generi e le scene musicali che si affacciano
in questo decennio in America e in Europa. L’evoluzione
della musica rock prende forme e strade diverse a seconda
della connotazione geografica in cui si radica e si sviluppa.
In California diventa surf con i Beach Boys, acid rock o
psichedelia con Jefferson Airplane, Grateful Dead, Frank
Zappa fino ai Doors. Sull’altra costa il rock nuovo ha il suono
di Velvet Undergound e Fugs. Il rock sposa anche l’impegno
sociale del folk con Bob Dylan e diffonde il genere grazie
ai Birds e a Simon and Garfunkel. Anche l’Europa, e in
partiolare l’Inghilterra, è il teatro di grandi cambiamenti per
il mondo della musica. I Beatles naturalmente sopra tutti
che da Liverpool sono la risposta al circuito blues e mersey
beat, che si era sviluppato a Londra quasi in opposizione
al rock e che vede tra le sue fila gruppi come gli Animals,
gli Yarbirds e i Rolling Stones. E se in Inghilterra i Kinks e gli
Who irrobustiscono il suono in America Mc5 e Stooges già
lo esapserano, senza dimenticare il grande ruolo di Jimi
Hendrix. Ma gli anni 60 sono anche gli anni in cui il rock si
europeizza grazie al suono della scena di Canterbury e di
gruppi come i Soft Machine e di cantautori come Donovan
e Nick Drake ma anche Cat Stevens e Van Morrison.
Se penso agli anni ‘60 e a Leonard
Coehn penso a un’altra America.
Se da una parte Joan Baez e
Bob Dylan impregnano le loro
canzoni di politica e di quella
spinta rivoluzionaria caratteristica
del decennio, dall’altra Leonard
guarda all’uomo. Con uno stile
che trae ispirazione dall’Europa e
da cantautori come Jaques Brel e
Brassens Leonard Cohen esordisce
nella musica nel ’68 con Songs of
Leonard Cohen. Il disco rappresenta
l’arrivo alla musica di un artista con
alle spalle già una carriera di poeta
e scrittore di fama internazionale.
Ed è infatti la parola la protagonista
delle sue canzoni. Le tematiche
sono l’amore e la religione, il
peccato e l’allontanamento da
esso: tutti contrasti tenuti in bilico
da una voce inconfondibile e uno
stile che influenzerà tantissimi artisti.
La voce di Cohen è uno dei tratti
distintivi di questo disco e della sua
successiva produzione. Quel suo
essere così discreta e malinconica,
la sua profondità che arriva diretta
al cuore senza stravaganze come
gli arrangiamenti strumentali che
pur affidandosi alla tradizione
folk hanno all’interno sfumature
che attingono da molto altro
e rendono il disco diverso, una
sorta di incontro tra letteratura e
musica. Gli arrangiamenti (a volte
solo chitarra e voce) si
arricchiscono di tanto in
tanto di violini e accenni
ritmici su cui comunque
sono sempre la voce e
il testo ad avere risalto.
L’intimismo, la metafora,
la solitudine, il cinismo
(tematiche che segneranno
la carriera di artisti come
Jeff Buckley, Nick Cave, Tom
Yorke, Morrisey) sono il lato
romantico e introspettivo
degli anni ’60. Nel disco
troviamo in apertura
Suzanne, omaggiata e
reinterpretata da molti.
Nel disco troviamo tanti
altri episodi indimenticabili
come Sister of mercy
(adottato come nome da
una band dark anni 80), The
stranger song, Winter lady.
In generale però in meno di
cinquanta minuti Songs of
Leonard Cohen racchiude
un nuovo modo di fare
la musica, uno stile che
nasce in sordina, lontano
dai riflettori e a suo modo
rivoluzionario. Un disco che
va ascoltato, ma anche
letto, interpretato, sentito.
Osvaldo
SENTITI QUESTI
20/7/’69 L’uomo sbarca
sulla Luna
12/12/’69 La strage di
Piazza Fontana
Revolver (1966) - Beatles
Blonde on blonde (1966) – Bob Dylan
Pet Sound (1966) – Beach Boys
Velvet Underground and Nico (1967)
– Velvet Underground
Are you experienced (1967) – Jimy
Hendrix
The Doors (1967) – The Doors
Tommy (1969)– The Who
Beggars banquet (1969) - Rolling Stones
Live dead (1969) - Gratefull dead
Stooges (1969) - Stooges
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60
CE N’EST QUE
LE DEBUT,
CONTINUONS
LE CONBAT
di Piero
Manni
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Gli esaltanti anni Quaranta, per la Resistenza e la ricostruzione materiale e morale (anche se si concludono con una
vergognosa delega di potere agli USA); i fantastici anni Cinquanta, con il boom economico la Lambretta e la Seicento (e pur
essi si chiudono con la Celere di Tambroni che spara in piazza a Genova sugli operai, lungo una tradizione inaugurata da Bava
Beccaris nel ’98 -del secolo precedente); i mitici anni Sessanta, prima dei Settanta di piombo.
Mitici: devo fare uno sforzo di memoria per ritrovarne l’eroicità, in questo primo scorcio di millennio dove tutto si omologa, tutte
le vacche sono nere e i morti son tutti uguali, quelli della Resistenza e quelli di Salò, privati come siamo del diritto di giudicare e
di parteggiare.
Si aprono, gli anni Sessanta, con il culmine della guerra fredda e col massimo rischio di un nuovo conflitto mondiale, con John
Kennedy che tenta l’invasione di Cuba sfidando l’Unione sovietica di Nikita Kruscev; già, proprio quel Kennedy che oggi la
sinistra italiana celebra come il massimo riferimento per i propri discorsi di democrazia e di progresso, non fosse stato per il passo
indietro, per il cedimento dell’orso ucraino che pure all’ONU batteva la scarpa sul tavolo, avrebbe portato ad un’altra guerra
mondiale.
In Italia la Confindustria e il terziario che avanzava avevano bisogno di orizzonti più vasti: ecco allora che la Democrazia
cristiana scarica i fascisti del MSI ed apre ai socialisti, l’istruzione obbligatoria fino a 14 anni, lo statuto dei lavoratori e Mattei che
mette in discussione l’oligopolio energetico delle sette sorelle rimettendoci le penne in un incidente aereo.
Il contributo più potente allo svecchiamento lo danno proprio i cattolici: Giovanni XXIII promulga la Mater et magistra ed apre
il Concilio Vaticano II che non soltanto smummifica la Chiesa ma soprattutto ammoderna il dibattito culturale tra i cattolici e
consente la crescita di ampie fasce di cattolici progressisti e radicali che da quel momento avranno un marcato rilievo.
Naturalmente la reazione non manca, non soltanto in termini di opposizione e di ostacolo ma addirittura di tentativi di colpi di
stato attraverso i militari e i servizi segreti deviati (allora e dopo).
Dall’altra parte si lanciano grande temi ideali, capaci di coagulare tante energie intellettuali di diversa estrazione: dalla
solidarietà internazionale all’obiezione di coscienza (don Lorenzo Milani), dalla parità di diritti per la donna (Pietro Germi,
Divorzio all’italiana) alla scuola di classe (di nuovo, il don Milani di Lettera a una professoressa, che nelle università italiane era
ben più letto del Libretto rosso di Mao e dell’Uomo a una dimensione di Marcuse).
Intorno a quest’ultimo tema nasce il movimento degli studenti, dapprima limitato a contestare la riforma proposta da
Gui, ministro D.C. dell’istruzione (il d.d.l. 2314, studiato e discusso fino alla nausea) e poi, anche sulla spinta dei movimenti
internazionali e delle loro elaborazioni, allargato al rifiuto generalizzato dei modelli culturali, politici economici delle civiltà euronordamericane, comprese quelle dei paesi allora sedicenti socialisti; su questo rifiuto generalizzato si costruisce un rapporto con
grandi fasce del movimento sindacale (uno degli slogan più diffusi: “Studenti, operai, uniti nella lotta”).
È il Sessantotto.
Sembra la rivoluzione, in molti ci crediamo: diecine di università occupate, migliaia di scuole superiori, cortei e manifestazioni,
assemblee a gogò e “controcorsi” tenuti dagli stessi docenti; insieme con gli operai a presidiare le fabbriche; per mesi le prime
pagine dei giornali.
Anche a livello internazionale gli eventi sembrano dar ragione a chi pronostica cambiamenti epocali: l’immagine
dell’ambasciatore americano che fugge in elicottero ammainando la bandiera dal Vietnam (anche lì era stato il progressista
John Kennedy ad iniziare l’intervento) sembra il simbolo della crisi dei potenti del mondo, mentre crescono le situazioni di
opposizione radicale oltre che in Asia anche in Africa e in America Latina (dove l’uccisione del Che non aveva certo spento le
lotte)
E, secondo noi allora, “Ce n’est que le debut, continuons le conbat”.
Poi i potenti prendono le misure, in Italia si studia a tavolino e si attua la strategia della tensione, a partire con la strage di Piazza
Fontana, che è la rappresentazione della sconfitta dei movimenti di opposizione radicale e chiude i mitici anni Sessanta.
Capita ogni tanto di incontrarsi tra “reduci”, e si parla: alcuni sono dirigenti di partito o hanno fatto carriera nelle istituzioni,
parecchi all’Università, molti nella scuola media oramai lì lì per pensionarsi, qualche giornalista.
Qui a Lecce di opposizione radicale ne son rimasti pochi: qualche cretino col look psicologico ancora del sessantottino, ed un
altro paio, forse tre.
La maggior parte dei reduci, forse con la cultura dei pentiti, dicono che non è servito a nulla, che le cose sono rimaste come
prima e che anzi peggiorano.
Io, a parte il rimpianto del reduce per quella stagione dove prevalevano la passione e gli ideali, credo invece che alcune
conquiste siano diventate patrimonio generale: l’approccio critico alle questioni; la discussione delle autorità; il dibattito
stravolgente in alcuni settori che sembravano intoccabili (psichiatria, giustizia); soprattutto è crollato il razzismo contro le donne.
Per mettere in discussione queste acquisizioni ci vorrebbe almeno un ventennio di berlusconismo, e credo che questo non lo
avremo.
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JOEY RAMONE PLACE accade che IL FUTURO CHE AVANZA
Ramones
Ramones
Sire 1976
Flashback: avevo tredici anni,
una celtica e i jeans strappati alle
ginocchia. Accesi la radio e in
concerto c’erano i Ramones e due
pirla che li commentavano. E io che
mi ascoltavo quei situazionisti dei
Sex Pistols e la musica industriale.
Capirete, miei amati, che la mia
vita cambiò per sempre. I maggiori
killer seriali della storia del pop
intero, questo sono stati i Ramones.
Graziati dall’ambiguità e da una
confezione estetica unica, di
inesorabile fascino. Quattro freaks
sotto gli accecanti bagliori del rock
che si faceva musica nuova: la sua
ennesima trasfigurazione. Ma anche
il punk rock, la techno, l’electro,
tutto il moderno da lì a venire ne
ha beneficiato. Joey, Johnny, Dee
Dee e potremmo fermarci qui:
tre supernova, tre stelle cadenti.
Perfetti: Joey, il bimbo demente
sballato, allampanato, movenze
femminili e quella voce; Johnny, il
folle, il nazista, basso, con quegli
occhi teneri e feroci; Dee Dee, il
manimal, lo showman, l’animale
da party e da palco. Dovreste
comprarvi Raw, il dvd appena
uscito nei negozi, e guardarlo
bene per capire l’inesplicabile
potenza, l’enorme fascino di cui
non si ammantavano, ma erano
naturalmente dotati: baciati da Dio.
Capirete che a questo punto parlare
BREVESTORIA
di anni ’70 non servirebbe a
molto: i Ramones nascono
in quel contesto ma ne
appaiono già svincolati.
E non potrebbe essere
altrimenti. Giusto in tempo
per il nuovo millennio, per
i riconoscimenti ufficiali e
cascano giù come birilli. Il
primo ad andarsene è Joey,
il mio preferito, il divino, e le
luci dell’Empire State Building
di New York si accendono
quella notte e viene issata
una bandiera in memoria.
Tempo qualche mese e
gli dedicano una intera
piazza: Joey Ramone Place.
Poi Dee Dee, overdose di
eroina, un destino scritto,
l’ultima botta. Infine Johnny,
“Dio benedica l’America e
George W. Bush” all’ingresso
nella Hall of Fame di fronte a
Eddie Veder e Michael Stipe.
Morti quei tre, nonostante
il rammarico enorme di
non poterli vedere più
dal vivo, non rimane quel
senso di vuoto incolmabile,
fateci caso. Quel vuoto
da mitologia della dead
star morta-martire non li
sfiora neanche un po’. Solo
elettricità nell’aria, scosse,
luci… One, two, three, four!
Sergio Chiari
Con gli anni ‘70 è come se la musica spingesse
improvvisamente sull’accelleratore: il garage e il beat si
trasformano nel punk, la psichedelia si evolve e diventa
progressive, nasce l’hard rock che diventerà poi heavy
metal. Tim Buckley, Lou Reed, Joni Mitchell, Neil Young,
Tom Waits sono solo alcuni degli innovatori del genere
cantautorale, primo fra tutti per fama Bruce Springsteen.
La morte di icone come Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi
Hendrix provocano nei ‘70 una crisi del rock a cui in
Inghilterra una delle reazioni è il Glam. Suo iniziatore fu
Marc Bolan ma il massimo esponente fu sicuramente David
Bowie. Nel frattempo in Germania si sviluppa una scena
importantissima anche se sottovalutata. Una scena fatta di
gruppi come Krafwerk e Can che anticipano elettronica e
wave. Due generi comunque caratterizzano sicuramente il
decennio più degli altri. Il punk con la sua carica distruttiva
rivoluzionerà completamente il suono e l’approccio alla
musica, una vera filosofia che vede oltre ai famosi Clash,
Sex Pistols e Ramones un’infinità di gruppi ed etichette.
L’altro, anche se non prettamente nell’ambito rock, è la
disco music.
11/9/’73 Colpo di stato in
Cile guidato da Pinochet
2/11/’75 La morte violenta
di Pierpaolo Pasolini
“E dico con gli atri,
ripetendo con gli
altri, che bisogna
uccidere il tiranno;
e non uso questa
sporca lingua,
invece, per le mie
caccole private
o per celebrare
le belle mani di
una laurabeatrice,
moglie, figlia
o ganza di
colonnello”.
(Roberto Roversi)
9/5/’78 Trovato il cadavere
di Aldo Moro ucciso dalle BR
16/10/’78 Karol Woityla è
papa Giovanni Paolo II
Kraftwerk
Autobahn
Phliips 1974
Senza i Kraftwerk molto di quello
che ascoltiamo oggi non
esisterebbe. Padroni in musica
di un concetto uomo macchina
che trova corrispondenti letterari
in gente come Pinchon e De Lillo i
Kraftwerk sono una nuova filosofia
della musica. Prima della new
wave, prima dell’electro, prima
del punk funk, prima di un certo
tipo di pop, prima di tutto ci sono
i Kraftwerk. La ricerca e lo studio
di suoni freddi permutati da quelli
caldi della black, la loro incredibile
semplicità esecutiva e al contempo
il loro spessore concettuale fanno
dei quattro di Dussendorlf una
miniera da cui tutti hanno attinto
a piene mani. Padri indiscussi di
quell’elettronica che arriva alla
massa, massimalisti nell’uso delle
parole e della voce come slogan,
politici nel loro citazionismo, inventori
di un’immagine fatta di divise dai
colori che contrastano citando Hitler
e Marx contemporaneamente.
Basta guardare una loro copertina
per capire da chi hanno scopiazzato
i loro bei completini i Franz Ferdinand
o ancora andando un po’ dietro
gli stessi Devo. Quando si dice un
gruppo fondamentale. Se poi si
pensa che i Kraftwerk muovevano
i loro primi passi nei 70 tutto assume
dimensioni gigantesche. Discepoli
di Stockausen i Kraftwerk dopo primi
esperimenti arrivano a definire la
loro perfetta formula nel 74
con Autobahn. Dentro c’è
tutto: il futuro che avanza,
la metropoli, l’alienazione
industriale, c’è il passato e il
presente sintetizzato in uno
stile e un suono che è già
avanti. I campionamenti
di motori e clacson fanno
da contraltare a suoni più
vellutati di tastiera e flauto e
a una voce assolutamente
atona e ironica, ritmiche
serrate di drum machine si
alternano ad atmosfere più
liquide. Un’interazione uomo
macchina quasi completa,
la disumanizzazione della
musica, renderla geometrica
non solo in composizione
ma anche nell’esecuzione.
L’interazione tra schermi,
proiezioni e musica nelle
loro esibizioni, il loro muoversi
rigido e robotico, l’abitudine
che avevano di posizionare
in platea manichini con
le loro fattezze sono tutti
elementi che fanno dei
Kraftwerk un gruppo di
avanguardia totale. Insieme
a loro c’era tutta una scena
tedesca definita Kraut rock
in cui si muovevano gruppi
come Can o Tangerine
Dream con la loro visione più
cosmica lisergica e dilatata
della musica.
Osvaldo
SENTITI QUESTI
Pearl (1970)– Janis Joplin
Weasels ripped my flesh (1970)- Frank
Zappa
Led Zeppelin IV (1971)- Led Zeppelin
The rise and fall of Ziggy Stardust and the
spiders from Mars (1972)- David Bowie
Harvest (1972) - Neil Young
Machine head (1972) - Deep Purple
The dark side of the moon (1973)- Pink
Floyd
Horses (1975) - Patty Smith
Never mind the bollocks (1977) - Sex
Pistols
London Calling (1979) - Clash
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VENEZIA
RADIO
di Stefano
Cristante
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Venezia, 1976. Quarta ginnasio. I miei genitori hanno scoperto da un mesetto circa che dal mio portafoglio occhieggia una
tessera della Fgci. Sono un giovane comunista, dunque. Non è esattamente una condizione così speciale, replico. In fondo
in classe mia siamo una diecina a condividere questo status. A loro non interessa, dicono. Che cosa mi sono messo in testa
eccetera.
A quindici anni eccetera. Iscriversi a un partito quando non hai nemmeno un pelo di barba eccetera.
Punizione dunque? Punizione. Di quelle toste.
Pomeriggi segregati in casa. Il vocabolario di greco da un lato della scrivania, quello di latino dall’altra. In mezzo, i libri delle
versioni.
È la disperazione. Mi chiudo in un mutismo ostile, mi aggiro per casa come uno spettro, attaccato a una letteratura
adolescenziale che cerca ovunque segni di rivolta o, al limite, di profonda estraniazione (Orwell, Paul Nizan, Kafka).
E poi Venezia, fuori dalle finestre.
Venezia è “andare”, noi abbiamo i piedi come mezzo di trasporto, stare fuori casa (anche con la pioggia, il vento, la nebbia) è
la nostra principale fonte di libertà.
Mi attacco al telefono (mi sono informato: non esiste ancora lo scatto urbano, quindi non gravo sulle spese famigliari se parlo
con gli amici per ore intere). Ai miei poi il telefono di pomeriggio praticamente non serve.
Uno dei miei amici (figlio di progressisti, per lui la tessera della Fgci è poco più di un innocuo gadget) mi dice: “Hai mai sentito
Radio Venezia International?”
Sono un po’ perplesso. La radio la consideravo un oggetto parentale, si accendeva la domenica mattina per sentire Gran
Varietà presentato da Johnny Dorelli, una specie di antipasto prima della tv (bianco e nero pedagogico).
No no, mi fa l’amico, guarda che adesso ci sono le radio libere, prova un po’ a questa frequenza.
Provo la frequenza. È vero, non sono le solite voci ingessate della Rai. Sono voci di ragazzi che dicono cose anche frivole e
ridacchiano, mettono su valanghe di musica e chiacchierano, chiacchierano. Però di politica dicono poco o niente, mi pare. E
c’è una produzione intera di spazi per messaggi e dediche, abbastanza scemette mi dico. Però intanto comincio ad ascoltare,
prendo confidenza con certe voci, mi abituo alla musica del dj tale.
Sento il mio amico, il quale mi spiega che un suo amico di Mestre gli ha assicurato che anche la Cgil sta pensando di aprire
una radio e di affidarla a un’associazione giovanile doc, ma per ora niente, Radio Venezia è la prima e l’unica.
Me ne faccio una ragione e mi abituo anche ai primi jingle che reclamizzano negozi, soprattutto di dischi.
I miei genitori mi sembrano disposti a rinegoziare la punizione. La primavera è vicina.
Uno degli ultimi giorni di prigionia. Il mio amico è venuto a trovarmi, la radio è in funzione e noi siamo a portata d’orecchio
come al solito. A un certo punto Davide fa: “Adesso parte quella trasmissione di cui ti parlavo. Sei pronto?”
La trasmissione consiste in uno spazio dedicato alla musica scelta dagli ascoltatori. I primi che telefonano in radio hanno il diritto
di chiedere tre brani musicali e di commentarli più o meno per un quarto d’ora. Francamente non ho ancora capito cosa ha in
mente Davide, ma rispetto la sua inventiva goliardico-ribellistica.
Lo speaker sta dicendo: “Allora ragazzi, tra qualche istante parte il nostro nuovo spazio per la vostra musica preferita. Tra dieci
secondi chi di voi ci chiamerà per primo avrà in premio la propria musica. Dieci, nove, otto…”
Davide si è avvicinato al telefono. Ha composto l’intero numero e si è fermato con l’ultima cifra nel dito, pronto a mollarla (vi
ricordate i vecchi telefoni a rotella?). Mi fa l’occhiolino. Io non so se credere all’efficacia del suo stratagemma.
Invece funziona. Lo so perché sento la voce di Davide provenire non solo dalla sua bocca, ma anche dalla radio. “Salve,
complimenti per la tempestività” – fa lo speaker – “Come ti chiami?”
“Ernesto” – risponde impavido Davide.
Io sono emozionatissimo. Siamo in onda. Cioè, almeno Davide è in onda. “Sono qui con il mio amico Emiliano” – prosegue
Davide. “Molto bene ragazzi, siamo contenti di avervi con noi in radio. Che canzone volete sentire?”
Davide mi passa inaspettatamente la cornetta, me la ritrovo tra le mani, devo dire qualcosa. Balbetto: “Inti-Illimani”. Erano
quegli anni là, la musica andina era dappertutto, i musicisti scappati dal Cile di Pinochet erano approdati in Italia, non c’era
festa dell’Unità dove non suonassero. Anche se il rock inglese quasi new wave era la nostra casa, era possibile che a uno come
noi venissero prima in mente loro, gli andini, di tutti gli altri.
“Ah” – replica lo speaker. Silenzio.
“E quale brano?”
Farfuglio: “Venceremos” (scontatissimo).
Quando il funereo pezzo parte altisonante la voce al telefono ci spiega in tono confidenziale:”Mi raccomando ragazzi, niente
politica. Radio Venezia è una radio apolitica”.
Noi: “Sissì”.
Io sussurro a Davide: “E le altre due canzoni? Non so nessun altro titolo…”
Lui sembra molto tranquillo. Ma come, penso, nemmeno lui sa i nomi delle canzoni del disco.
“Allora” – lo speaker – “siamo qui con Ernesto ed Emiliano e stiamo ascoltando della musica popolare sudamericana, gli IntiIllimani: è appena terminato il famoso brano Venceremos, adesso cosa volete sentire?”
Quel genio di Davide: “La terza della seconda facciata”
“La terza della seconda facciata, senz’altro, eccola qui, Ramis. Buon ascolto”.
Riusciamo anche a dire due o tre banalità sulla musica tradizionale e sugli strumenti musicali andini, fino a che Davide richiede
– con lo stesso sistema – l’ultimo brano.
Siamo agli sgoccioli.
“Abbiamo passato un piacevole quarto d’ora anche questo pomeriggio con il vostro spazio musicale, grazie a Ernesto ed
Emiliano. Noi vi salutiamo ragazzi. Avete un’ultima cosa da dirci?”
Davide prende brusco la cornetta e urla: “Viva Salvador Allende, viva il Cile, viva la libertà”.
Riattacca esplodendo in una risata istrionica. Rido anch’io come uno scemo.
La radio è rimasta zitta per qualche interminabile secondo. Poi il tipo fa: “Ci scusiamo con tutti i nostri ascoltatori, purtroppo
esistono persone che non stanno ai patti e che scambiano la radio per un megafono per i loro proclami politici. Li invitiamo a
rivolgersi altrove”. Arriva addirittura il direttore della radio, caccia fuori anche lui una paternale decisamente pietosa (ma di
cosa hanno paura?).
Nel frattempo qualcuno bussa alla porta. Trasaliamo.
Mia madre regge un vassoietto, due bicchieri di coca e qualche merendina. Noi siamo bloccati, non respiriamo. Magari ha
sentito tutto. No, non credo. Non sarebbe entrata con il vassoio.
“Cosa state facendo? State studiando?”
“Sì, stavamo cominciando – replico- “poi abbiamo sentito un programma alla radio e ci siamo fermati qualche minuto.”
Lei butta l’orecchio. Quelli stanno ancora dicendo: “C’è gente che scambia la nostra radio per una tribuna politica”. Lei
scuote la testa: “Almeno ascoltaste musica, lo capirei già di più”. E spegne la radio, e quindi si dissolve dopo un momento col
vassoio vuoto.
Io e Davide ci guardiamo.
“Davide, mi hai fatto evadere via etere. Te ne sono grato”. Sorrido.
“Ernesto – mi corregge lui - almeno per oggi chiamami Ernesto”.
’70
la copertina del decennio
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’8
THIS IS POP! accade che PROVINCIA EPICA
Xtc
Drums and Wires
Geffen 1979
Molti considerano gli anni ‘80 una
sorta di medioevo dell’era moderna,
un trionfo del trash in tutte le sue
forme. Inutile sottolineare che siamo
di fronte ad un falso storico, ad
una visione distorta e riduttiva di un
panorama più ampio e complesso.
I grandi cambiamenti sociali e
politici si traducono in campo
artistico e musicale nella ricerca di
strade compositive alternative e
originali. Il movimento punk funge
da spartiacque tra passato e
futuro. All’interno di quella che oggi
viene comunemente definita New
Wave, si muovono le più disparate
sperimentazioni musicali: i rumorismi
degli Einsturzende Neubaten, i riff
taglienti dei Gang of Four, il dark dei
Bau Haus, il punk degli Husker Du,
l’elettronica minimalista dei Cabaret
Voltaire e quella accattivante dei
Depeche Mode, senza considerare
la poliedrica ecletticità dei
Tuxedomoon e le originalissime
dilatazioni sonore dei Jesus and
Mary Chain. Non mancano poi
quelle band che riscoprono la
tradizione reinterpretandola in
maniera moderna. Tra queste una
menzione particolare spetta agli
Xtc, che scelgono come riferimento
il pop britannico, creando però un
proprio stile unico e inconfondibile.
Nel loro capolavoro Drums and Wires
(1979), rappresentativo di tutta la
BREVESTORIA
loro produzione anni 80, gli
Xtc inseriscono tutto il meglio
del proprio repertorio: un
pop graffiante, elegante e
trasformista, ricco di cambi
di tempo e soluzioni geniali,
grande cura riservata
all’aspetto strumentale con
tastiere in primo piano che
non soffocano le chitarre
ma ne esaltano la ritmica
e ne accompagnano
le tante divagazioni
verso il funky. La voce è
incredibilmente policroma
e mette in risalto con la
stessa efficacia l’anima
guascona del gruppo
(Hellicopter, When you are
near me) e la sua forte
inclinazione malinconica.
Outside world è trascinante
ed esplosiva, Complicated
Game un delirio straziante e
visionario, con l’idea geniale
del cantato balbettante e
sorretto da echi crescenti
e confusi, ma la palma
di miglior brano spetta
probabilmente a quella
Making plans for Nigel, che
apre il disco, facendone
emergere subito tutti i tratti
distintivi. La produzione è di
Steve Lillywhite alle prese
con uno dei suoi primi lavori
ma destinato a diventare
uno dei più noti produttori
del mondo.
Giacomo Rosato
Per alcuni la “morte” di un certo tipo di musica per altri il
nascere di un nuovo modo di farla e concepirla. Gli anni ‘80
racchiudono in se un lato oscuro e un altro solare. Gli anni
-80 prendono il punk e lo trasformano in new wave, gruppi
come i Joy division, i Cure, Siouxe and Bunshees, Bauhaus,
Dead Can Dance, i Wire (solo per citarne alcuni) prendono
l’essenza del movimento punk, il suo approccio minimalista
e lo dilatano, lo rallentano, gli danno un’ipnoticità che
diventa oscura grazie a testi, linee melodiche e atmosfere
debitrici del dark dei Black Sabbath, Van Der Graaf
Generator, ma anche di Lou Reed e di alcuni episodi
dei Pink Floyd. La wave come molta della musica dal
punk in poi si baserà su un assunto fondamentale: non
bisogna essere dei bravi musicisti per suonare. Partendo da
questo la musica si libera e la neonata elettronica entra
di prepotenza nelle composizioni delle canzoni. Mettendo
da parte tutta l’esplosione del pop (Madonna, Micheal
Jackson, Prince, Duran Duran e compagnia bella) non
possiamo assolutamente dimenticare alcuni dei mostri sacri
del rock come Rem, U2, The Smiths, Pixies, Guns and Roses,
Queen, Sonic Youth e le gravi omissioni sono solo mancanza
di spazio.
CCCP
Affinità e divergenze tra il compagno
Togliatti e noi: del conseguimento
della maggiore età
Attack Punk 1985
12/7/’82 Camponi del
mondo Campioni del mondo
4/8/’83 Craxi Presidente
del Consiglio
“Se io posso
cambiare e anche
voi potete cambiare
allora tutto il mondo
può cambiare”
(Rocky IV)
“Questo film è
dedicato al valoroso
popolo afgano”
(Rambo III)
“Mi avete preso per
un coglione. No, sei
un eroe”
(Oronzo Canà)
1985 Il mondo conosce
l’Aids
1989
Cade il muro di Berlino
Quando esce il primo album dei
CCCP, Affinità - divergenze fra
il compagno Togliatti e noi: del
conseguimento della maggiore
età (Attack Punk, 1985), ci si
accorge subito che era un piccolo
capolavoro del rock europeo.
Punk americano, cantautori
italiani, musica industriale europea,
dark britannico si mescolano per
raggiungere uno stile assolutamente
personale. La voce di Ferretti,
costantemente sovratono, è la
vera protagonista del disco. Ferretti
dimostra una particolare attitudine
ad adattare la propria lingua alle
esigenze ritmiche e armoniche della
musica.
Il sarcasmo è il tono predominante
del disco e si manifesta soprattutto
in Curami, il cui ritmo è dettato
dallo xilofono, e nei ritornelli idioti
di Mi ami?, vero e proprio jingle
da avanspettacolo erotico. Io sto
bene è l’hit del gruppo, forte di
uno dei ritornelli simbolo degli anni
ottanta: “Non studio, non lavoro,
non guardo la TV, non vado al
cinema, non faccio sport”. Assieme
al tango modernista di Allarme
rappresenta l’ideale introduzione a
Emilia Paranoica, il lungo brano che
chiude l’opera, il vero capolavoro
di questo disco e senza dubbio uno
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dei punti più alti del rock
italiano degli ultimi vent’anni.
È l’inno di una generazione
annoiata e perduta tra
droghe e psicofarmaci,
l’epica della provincia
italiana, racchiusa nella frase
finale “Aspetto un’emozione
sempre più indefinibile”
ripetuta meccanicamente
con l’accompagnamento
indolente della musica. Una
paralisi fisica e mentale,
un punto di non ritorno
del tipico nichilismo anni
ottanta.
I CCCP hanno
rappresentato, con questo
più che con tutti gli altri
dischi, un momento
veramente nuovo nella
scena rock italiana, una
sintesi felice di quello che
veniva dalle altre parti del
mondo, uno stato di grazia
che forse neanche lo stesso
Ferretti è più riuscito a
raggiungere nel corso della
sua ventennale carriera.
Dopo la caduta del muro
di Berlino e lo scioglimento
dell’Unione Sovietica Ferretti
e Zamboni decidono di
cambiare il nome del
Gruppo in CSI, Consorzio
Suonatori Indipendenti.
Dario
SENTITI QUESTI
Zenyatta Mondatta (1980) - Police
Duran Duran (1981) - Duran Duran
Speack and spell (1981) - Depeche
Mode
Power corruption and Lies (1983) - New
Order
Born in the Usa (1984) - Bruce Springsteen
Purple Rain (1984) - Prince
The Smiths (1984) – The Smiths
Joshua Tree (1987) - U2
It takes a nation of milions to hold us
back (1988) - Pubblic Enemy
Disintegration ( 1989 ) - Cure
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80
PROFUMATI
OTTANTA
di Livio
Romano
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Certo fa un effetto fastidioso riesumare adesso certi arnesi della voga degli Ottanta. Adesso che gli stilisti conciano le modelle
con questi make-up che sanno di carnevale di Venezia e queste vestimenta mod che, al pari delle mise fricchettone che
qualche anno fa agghindavano le pischerle manco fossero compagne di Joan Baez in procinto di manifestare per il ritiro delle
truppe dal Vietnam, il solo scorgerle in maniera così decontestualizzata per le strade restituisce un’impressione straniante, di
un già visto per nulla al mondo piacevole da rivedere. L’effetto di un rimosso che improvvisamente viene a visitarti senza che
nessuno glielo abbia richiesto. Perché noi che abbiamo vissuto la teen-age negli ‘80 siamo l’unica generazione dopo la guerra la
quale non vada neanche un po’ orgogliosa dello Spirito del tempo della propria adolescenza. La quale appena è stato possibile
ha dismesso i maglioncini verde fosforescente e le camicie rosa e i dischi dei Tuxedo Moon per foderarsi il corpo di abiti minimalisti
o etnici o militari giù fino alle zampe d’elefante e agli esquimo che, sull’incalzare della maturità, hanno defenestrato dagli armadi
e dagli immaginari quel colore fucsia profondo con sottofondo di batteria elettronica che per tutti noi rappresenta il decennio
di Craxi e di Reagan e della Tatcher.
La musica popolare è il più potente evidenziatore di un’epoca, si sa. Sarebbe bello fare il gioco dei due commessi di Alta
Fedeltà di Hornby. Arriva la Rivoluzione Musicale e porta via… Negli zaini conserviamo i dischi di… Ah, quanta paccottiglia ha
portato via l’arrivo della nuova psichedelica americana, l’arrivo delle nuove minacciose nubi di fine secolo come se non fosse
bastato l’incubo della bomba atomica intorno al quale argomentavamo nei nostri temi di italiano a settimane alterne (e quando
non si parlava del Day After c’era sempre da inveire, al cospetto della prof marxista, contro il Riflusso Nel Privato e la Società
Dell’Immagine salvo poi, in cameretta, ballare il mambo di Sergio Caputo "in attesa d’altre novità").
Ma andiamo con ordine. Lo scrisse Brian Eno nel 1982. È finita l’epoca dei grandi concerti, dei casini al Parco Lambro, del pur
rivoltoso Lou Reed che scappa da Milano nauseato dalla violenza. È arrivato il momento di andarsene ciascuno nel suo club e,
davanti ai clip proiettati contro il muro, coltivare la propria personale Nuova Onda. C’erano, nel calderone post-punk, gli istrici
ossigenati con la fissa per quelle drum machine dell’epoca davvero tontolone se le si confronta con quelle di oggi, ma insomma
suonavano. Ragazzo Selvaggio Portami Via, nei casi peggiori (Duran Duran). Eleganti canzoncine di miele e giuggiole negli
esempi più raffinati (Roxy Music). E poi c’erano i club del metallo. Questi AC/DC con ancora sotto le scarpe il fango del punk.
I Black Sabbath che, unica band occidentale, aveva accettato di suonare per il regime separatista sudafricano. Tutti quanti
soporiferi e inutili, e i loro supporter dal giubbotto di jeans con le maniche lacerate e le maglie di sotto dai colori più scioccanti:
buzzurroni del Fronte della Gioventù (fratelli maggiori dei personaggi scentrati e spersonalizzati di Aldo Nove) oppure Paninari in
Timberland, piumino Moncler, maglione a trecce Stefanel. Imbarazzanti.
I dark si riunivano nelle cantine ARCI più progredite. Avevano addosso spolverini da maniaco sessuale e rimmel e cerone e
mascara a etti sul viso. Vagheggiavano suicidi nel deserto come con orgoglio proclamava d’aver tentato Robert Smith dei
Cure. Si immalinconivano ascoltando l’altro Grande Suicida del dark: Ian Curtis degli insostenibili Joy Division. Ognuno a modo
suo tentava di destrutturare il rock’n’roll e l’Occidente intero. Brian Eno con i suoi Ambient 1, 2, 3 ad libitum e con la fenomenale
produzione degli U2 di Unforgettable Fire, insieme con i Talking Heads e con quell’altro depressone di Nick Cave espressero al
meglio questi venti di goticismo che attraversavano l’Impero. Ad ascoltare oggigiorno i Siouxsie and the Banshees, invece, c’è
da maledire di non essere nato negli anni Venti.
Poi un altro club monomaniacale e di dimensioni planetarie si faceva sempre più frequentato: quello degli Ossessionati Dal
Boss. Puoi dire peste e corna di Springsteen –soprattutto da quando ha assunto quest’atteggiamento ambiguo nei confronti
dell’imperialismo di Bush. Ma, insomma, sì: Nebraska e Born to run ce li teniamo ben nascosti nello zaino quando la Polizia
Musicale farà piazza pulita delle nefandezze Eighty. Poi sono arrivati i fresconi. Qualcuno ha cominciato a dire "E basta co’ ‘sti
quattro quarti", "Sassofonisti e trombettisti avete smesso di fare la fame". Nacque la Cool Generation. Ballare, dobbiamo, amici
minatori della Scozia. Ritmo swing e blues. Il compagno Paul Weller e i commilitoni Tracy Thorn e Ben Watt degli Everything but
the girl (sopravvissuti fino ai nostri giorni con orripilanti quanto ben più remunerative produzioni techno). Gli eterei Cocteau Twins
e quell’altra gran uggia di David Slylvian. Il parimenti tedioso e geniale Joe Jackson. Quell’altra gran ruffiana di Sade. Ma anche
i Weekend e Van Morrison. Look ricercato, smoking, cravatte. "Giura che non credi che gocce di profumo possano dormire per
forza in sacchi a pelo marron", ipotizzava Luca Carboni.
Dallo swing alla melodia leccata il passo fu breve. L’esordio stucchevole dei Prefab Sprout (Germoglio Prefabbricato: il più brutto
nome della storia del rock) ebbe cinque stelle sulle maggiori testate e noi lì ad ascoltare questi languidoni e a comprare rose alle
fidanzate per contestare le sorelle maggiori e le loro sentenze comunarde –sorelle le quali, è noto, tempo dieci anni e son corse
tutte a palestrarsi nonché a guarnirsi dei pizzi intimi più audaci.
Allora allora, dunque, cosa resterà. Cosa è restato nei nostri cuori e nei nostri scaffali, dei terribili Ottanta? L’improfumarsi, è ovvio.
Coccolarsi, staccare la spina, fare quattro salti per tirare fuori il veleno ("Citrosodina granulare, bevo per dimenticare il mal di
mare che questa vita ci dà… mi fanno male i piedi a furia di ballare un pediluvio nel tuo cuore mi concederò"). Resteranno i
grandissimi Smiths, checché ne dicano i detrattori. Quel miscuglio fatato d’ogni cosa buona fosse circolata nel decennio. La voce
piagnucolosa e sensuale di Morrisey. I suoi tulipani offerti alla platea. I riff di Johnny Marr. Nella vecchia Europa per queste robe
siamo, come dire?, sensibili. E resta la infinitive guitar di The Edge. Il suono psichedelico che verso l’85, e grazie sostanzialmente ai
Rem e ai Dream Syndicate, cominciò a riaffiorare, in Europa, fra le corde dei chitarristi di Echo & the bunnymen e dei Big Country.
Era il segno che la New Wave fosse finita. Che si fosse in procinto di inaugurare di nuovo Grandi Narrazioni nel rock e nella vita
delle persone. Da Seattle stava per arrivare il ciclone Nirvana. Oltre all’altro ciclone che tutti sappiamo, e che ha spazzato via
l’interregno barocco del Decennio del disimpegno.
la copertina del decennio
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NON CHIAMARLO POST accade che UNA MATASSA NERA
Slint
Spiderland
Touch&Go 1991
“Che senso ha fare musica quando
c’è gente che suona così”. Queste
le parole di un estasiato Jason Noble
(futuro chitarrista di Rodan, Rachel’s
e Shipping News) dopo aver assistito
a un concerto degli Slint. Lousville,
Kentucky, 1987: un gruppo di liceali
di provenienza punk (Squirrel Bait) dà
alla luce Tweez, disco che destruttura
l’eredità hardcore fino a suonare
come elettrico free rock. Brian
McMahan e David Pajo, le menti
insieme a Britt Walford ed Ethan
Buckler, stabiliscono le coordinate
del suono del prossimo decennio.
Ma l’immortalità viene raggiunta solo
quattro anni più tardi, quando nel ’91
la Touch&Go licenzia un capolavoro
assoluto della musica: Spiderland.
Distaccandosi dal suono degli esordi,
gli Slint partono dalla tradizione del
blues del delta, bilanciandola con
la loro attitudine punk, rinunciando
alla forma canzone e introducendo
un sofferto parlato in alternativa
ai lamenti dei padri ispiratori,
intervallato da sprazzi di urla emo.
Breadcumb Trail apre con una
geniale combinazione di arpeggi e
armonici fino all’esplosione finale;
prosegue Nosferatu Man tesa e
nervosa mentre è acustica e funerea
Don, Aman; di assoluta derivazione
blues è Washer mentre la strumentale
For Dinner… è la quiete che
preannuncia la tempesta. Chiude
Good Morning, Captain con la sua
struttura geometrica e le chitarre dal
sapore arabeggiante. Il grido finale
…I’m sorry, I’ll miss you lacera
le carni e il cuore. Poco
dopo gli Slint si sciolgono,
ufficiosamente in seguito a
una grave crisi depressiva
del cantante Brian. Ai loro
arpeggi si ispirano i Tortoise
di Chicago e i June of ’44.
Ian Williams invece dà un
calcio alla cultura rock con
i suoi epilettici Strom&Stress
destrutturando la materia.
Steve Albini fonda nel ’94
gli Shellac con il loro suono
tagliente e le geometrie
nervose. Jim O’Rourke e i
Gastr del Sol sdoganeranno
la sperimentazione a un
pubblico più vasto. In Scozia
lo “young team” Mogwai
stupisce con il primo album
e si conferma poi con
Cody. Ma cosa rimane oggi
del post rock? Ammesso
che sia esistito mai questo
genere, sono pochi i gruppi
significativi, troppo imitati dai
loro successori che ripetono
stancamente stilemi già
codificati. Persino i mostri
sacri come Noble, Mueller e
i Tortoise sono ormai la cover
band di loro stessi, avendo
esaurito la vena innovativa.
Forse solo i Radiohead con il
coraggioso Kid A sono riusciti
a superare i confini del rock
andando oltre. Tra i pochi
che davvero oggi possono
vantare l’appellativo di post
rocker.
Gianpiero Chionna
BREVESTORIA
Gli anni ‘90 sono gli anni del Grunge, del Trip hop, del Brit
pop, del Post rock, della Techno, della Drum ‘n’Bass. Dopo
il “buio” degli anni ‘80 il Grunge nato con i Mother love
Bone crea un ponte tra punk e hard core risvegliando
l’attenzione verso il rock grazie al fenomeno Nirvana.
Il noise intanto è una realtà affermata che continua
a muoversi nell’underground americano. Il Trip hop di
Bristol e il Brit pop spopolano in Inghilterra. Da una parte
un’elettronica jazzata (Portishead) dub-psichedelica
(Massive Attack) dall’altra un suono decisamente più
easy, un pop di matrice beatelsiana che esplode con una
miriade di gruppi (La’s, Blur, Oasis, Suede, Supergrass, Shed
Seven…). Accanto a questa svolta commerciale del Rock,
gli Slint aprono una nuova strada: musica più angolare che
sovverte in un certo senso i canoni della forma. La techno
e la drum’m’bass che già da tempo esistevano esplodono
in questi anni e saranno il collante con il secolo a venire,
impazzeranno nelle discoteche scalzando la dance e la
disco.
Trycki
Maxinquaye
Island 1995
13/9/’93 Rabin e Arafat si
stringono la mano
1/5/’94 muore Ayrton
Senna a Imola
Per la prima volta
è stato chiaro che
l’informazione
è legata alla
finzione in quanto
sceneggiatura,
costruzione
drammaturgica dei
fatti. [...] L’effetto
guerra della CNN
per la prima volta
ha lasciato che si
immaginasse il vero.
(Link project,
Netmage)
1998 Il caso Lewinsky è
sulla bocca di tutti
24/3/’99 il comunista
D’Alema va in Kossovo
Trip hop, ovvero l’hip hop che si
tinge di suoni capaci di creare
suggestioni vicine alla psichedelia.
Da qui trip, letteralmente viaggio, e
quindi musica capace di far spaziare
la mente grazie alla confluenza di
prestiti da altri generi che si fondono
in un’unica formula per creare una
nuova suggestione musicale. Il beat
viene rallentato, il jazz si unisce
ad arragiamenti orchestrali che
convivono con lo scratch, voci vicine
al blues si accostano a trovate pop,
in cadenze a volte dub a volte più
spezzate. Il Trip hop nasce a Bristol,
Inghilterra, ad opera di un gruppo,
i Massive Attack (ex Wild Bunch)
che ancora oggi sono i massimi
esponenti del genere. Il loro primo
disco Blue Lines del ‘91 ha dentro
di sé tutti gli ingredienti caratteristici
del genere e che nel corso degli
anni verrano ripresi e elaborati
da altre formazioni (Portishead,
Morcheeba, Lamb). Membro dei
Massive Attack era anche Trycki, al
secolo Adrian Thaws, un miscuglio
di sangue giamaicano, africano e
gallese, cresciuto nel ghetto nero
di Bristol che intraprende presto
una carriera solista. Nel ‘95 esce
Maxinquaye, sicuramente il suo disco
più commerciale (Hell is around the
corner, brano contenuto nell’album,
fu la sound track della pubblicità
per la Superga) e per questo forse
quello che meglio riesce a
farci entrare nel suo mondo.
Un mondo decadente e
oscuro dove la sua voce
a volte afasica, stanca e
monocorde contrasta con
quella angelica dell’allora
minorenne vocalist Martine. I
samples catturati e macinati
vengono impastati con
armonie dissonanti creando
atmosfere inquietanti. Era
dai tempi del dark che
non si respirava un’aria
così pesante. Un disco
fumato e fumoso di cui ti
sembra di afferrare e di
perdere in continuazione il
filo. Tra i brani anche una
cover stranissima di Black
steel dei Pubblic Enemy. In
Maxinquaye c’è un po’ di
tutto quello che poi negli
anni e nei dischi successivi
sarà piano piano isolato
e approfondito. Questo
disco è come una matassa
di blues, dub, hip hop,
ritmi africani, breack beat,
distorsioni, campionamenti
che un po’ dipingono quegli
anni di caos organizzato.
Osvaldo
’9
SENTITI QUESTI
Repeater (1990) - Fugazi
Nevermind (1991) - Nirvana
Dirty (1992) - Sonic Youth
Slanted & Enchanted (1992) - Pavement
Siamese Dream (1993) – The Smashing
Pumpkins
Defintely maybe (1994) - Oasis
Worst case scenario (1994)Deus
Grace (1995) - Jeff Buckley
Murder Ballads (1996) - Nick Cave
O-de-Lay (1996) - Beck
Ok Computer (1997) - Radiohead
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RAVE
PARTIES
dii
Pierfrancesco
Pacoda
90
ph Alice Pedroletti
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Rave parties
To rave, letteralmente andare in deliro.
Ovvero il forte bisogno di trasformare un raduno pop, in uno spazio votato alla ‘libertà assoluta’. I rave party, fenomeno
inglese degli anni ‘90, conseguenza ed esasperazione dell’ondata acid house, esplosa il decennio precedente tra Londra, San
Francisco ed Ibiza, hanno definitivamente azzerato il club come luogo geografico, le pareti della discoteca, la musica come
oggetto di consumo. Luoghi nascosti, inaccessibili, promozione sotterranea, per costruire, per una notte soltanto una ‘zona
temporaneamente autonoma’ dove la sperimentazione sonora e la danza potessero convivere,vivere.
House, techno, drum’n’bass, trance, al di là degli stili, i grandi rave inglesi hanno riportato al centro della scena l’amore per i
free festival, momento essenziale nelle culture giovanili anglosassoni degli anni ‘60, facendo riscoprire a più di una generazione,
il piacere del ballo e del ritmo elettronico, come strumento, finalmente, di socializzazione.
Homelands, Creamfields, Glastonbury, tutti i grandi spettacoli dance contemporanei non sarebbero mai esistiti, se un manipolo
di techno hippies non avessero deciso di ballare da qualche parte nella campagna inglese, sfidando le convenzioni con riti
sciamanici e tribali che susciteranno l’interesse di antropologi, come il francese George Lapassade che se ne occuperà nel
saggio essenziale, ‘Dallo Sciamano al rave’.
A dieci anni dall’esplosione della scena acid house, il versante ultra lisergico della dance music, una agguerrita ondata
di scrittori britannici celebra lo spirito psichedelico di quei giorni raccontando le storie di dj, rave illegali, suoni sintetici che
attraversano veloci l’Inghilterra, imponendo al pianeta le avventure di una ‘chemical generation’ che ha in Irvine Welsh
(Trainspotting, Acid House) il suo esponente più celebre. Lo strumento più efficace per una ‘immersione totale’ nei paradisi
visionari e letterari di quelli anni, é la raccolta ‘Disco Biscuits’, curata dalla giornalista e dj Sarah Champion. Ci sono tutti i
narratori di warehouse party dove lo spirito della dance univa gli hooligan di squadre di cacio rivali, tra storie di aerei che
ospitano sound system dai bassi devastanti e di feste senza regole in qualche fabbrica abbandonata.
Dallo stesso Welsh, il più famoso, grazie al successo di Trainspotting, uscito nel 1993 ad Alex Garland, che aveva appena
pubblicato il bellissimo ‘The Beach’, da cui verrà tratto un film affascinante con Leonardo di Caprio, sino a Jeff Noon, Alan
Warner e Gavin Hills. Ognuno con un frammento di scrittura che arriva, senza compromessi, dal cuore pulsante delle piste da
ballo, divenute definitivamente il ‘luogo’ dove nascono, crescono caoticamente, e poi svaniscono, le più eccitanti subculture
giovanili degli anni ‘90. Come avrebbe detto il poeta beat visionario Allen Ginsberg, ‘Accenditi, Sintonizzati, Scompari’.
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’00
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la copertina del decennio
DETROIT CHIAMA MONDO accade che BENTORNATO FOLK
Dalla città dei motori, delle catene
di montaggio, dell’alienazione da
lavoro arriva la colonna sonora del
terzo millennio. Con la caduta della
Ford, Detroit diventa la città che
meglio riesce a rappresentare l’era
post-industriale e i suoi relativi disagi,
legati ai licenziamenti di massa e
alle conseguenti rivolte sociali. Da
questo clima nasce una musica
estrema come la Techno, una
nuova corrente musicale destinata
a sconvolgere i canoni della
creazione e della fruizione artistica,
che introdurrà un’emotività inedita
e intensamente fisica, legata a una
feroce urgenza del ballo, che non
sarà più quello leggero e disinvolto
della disco, bensì quello roboante
e ben cadenzato dal suono delle
macchine. Il “vuoto” di Detroit aveva
reso “piena” la musica. Dopo la
nascita negli anni ’80 si affaccia sulla
scena una nuova scuderia di artisti
che porta il nome di Underground
resistance e se Juan Atkins, Derrick
May e Kevin Saunderson sono i
padri della Techno, gli U.R. non
possono che rappresentarne i figli
ribelli. Mike Banks, Jeff Mills e Robert
Hood sono veramente incazzati!
U.R. è techno militanza allo stato
puro, è ideologia, è ribellione! U.R.
sono i figli degli operai licenziati
nelle fabbriche di Detroit, sono
i ragazzi che occupano quelle
maledette strutture abbandonate
e vi organizzano i Techno party per
farle rivivere un’ultima volta; sono
quelli che sperano che il futuro
dei loro figli non sia come
quello che è toccato loro.
La techno ha inizio nel 1990
e amplia i progetti espressi
dai “creatori” prima di
loro e vede, per la prima
volta, l’etichetta come
protagonista del disco
rispetto all’artista. U.R. non
vuole far conoscere al
mondo i suoi artisti, tanto che
durante concerti e live-set
essi si esibiscono con il volto
coperto da passamontagna.
La linea dura delle nuove
leve di Detroit accompagna
la Techno dal ‘90 ai giorni
nostri in tutto il mondo,
stravendendo singoli come
X-101 oppure The vision o
ancora Riot, classici ancora
oggi stampati e suonati nei
migliori club d’avanguardia.
U.R. ha gettato un ponte
fra Juan Atkins, l’iniziatore,
e quelli che molti, in Europa
chiamano impropriamente
Techno: gli ultimi alfieri
di questa musica così
indefinibile eppure così
saccheggiata. U.R. e Atkins
assieme rappresentano
oggi la techno, l’unica che
può essere definita tale. Il
resto sono solo fandonie da
commercianti.
Kosmik
BREVESTORIA
L’ultimo decennio, quello in corso e ancora a metà
chiude questo nostro piccolo excursus. Tra le tendenze
musicali in voga in questi ultimi quattro anni sicuramente
l’hip hop. Eminem su tutti sembra incarnare quel ruolo
mediatico popolare e provocatorio paragonabile a chi
il nostro viaggio ha fatto cominciare e cioè Elvis. Oltre
che con il biondino l’America ha invaso il mondo con
tutte le sue produzioni black che imperversano nelle
radio e nelle tv tematiche. Sempre dall’America, questa
volta da Detroit la techno si conferma genere nel futuro.
Dopo i suoi esordi e il suo radicarsi nella cultura dei
rave, techno ed electro sembrano i ritmi di questi anni.
Accanto all’elettronica più aggressiva anche l’elettronica
minimale attraversa un buon periodo grazie soprattutto
alla nuova scuola nord europea. Sempre in tema di suoni
e ritmi placidi il 2000 segna sicuramente un ritorno al folk
delle origini, alla musica acustica in Inghilterra come
in America. Anche il rock del nuovo millennio guarda
al passato. Molte infatti sono le band che nascono
ispirandosi a suoni delgi anni ‘60, ‘70, ‘80. L’impressione
fino ad oggi, e per questo parziale, è che ancora non ci
sia un gruppo o un genere a marchiare il decennio.
Goodbye
Ben and Jason
Fetanta 2003
13/5/’01 Berlusconi
presidente del Consiglio
20/7/’01 muore
assassinato Carlo Giuliani
L’ineguaglianza e
l’esclusività non sono
“cool”. L’opulenza del
Primo mondo non è
“cool”. Una cultura che
continua a istigare la
gente a consumare non
è “cool”. L’AmericaTM
non è “cool” E quelli che
si fanno abbindolare
sono la peggior specie
di “non-cool”, sono
degli sfigati.
(Adbusters)
11/9/’01 Attentato alle
Torri Gemelli di New York
1/1/’02
La notte dell’Euro
Capita. Ai precursori. A tutti gli
artisti che anziché seguire le mode
preferiscono battere strade difficili.
Con questo album il duo formato
da Ben Parcker e Jason Hazeley
ha dato l’addio alle scene dopo
aver anticipato il cosiddetto new
acustic movement inglese. Quel
che meraviglia di più, oltre tutto,
è che Goodbye è il più riuscito dei
dischi realizzati da Ben e Jason,
quello in cui la loro identità di autori
e interpreti è più definita e matura.
Non che Emoticons (1999) o Ten
songs about you (2001) fossero opere
minori, tutt’altro, ma tra le canzoni di
Goodbye si respira senz’altro un’aria
più limpida e rarefatta. La sequenza
iniziale è praticamente perfetta
– da Mister America a Hollywood,
passando per A Star in nobody’s
picture e You’re the reason – e non
c’è nulla che ne alteri la bellezza.
A Ben basta soltanto una chitarra
per creare dei piccoli capolavori
mentre Jason si accontenta come
sempre del suo ruolo di co-autore,
arrangiatore e strumentista elegante
e raffinato. Si può prendere come
esempio Miracle, un piccolo e
prezioso gioiello acustico che ci
lascia immaginare come potrebbe
essere il primo album da solo di Ben.
Ma Miracle è seguito a ruota dalla
splendida Orphans e da Sail on
Heaven’s Seal, un dolce amaro tre
quarti in cui emergono frammenti
di noise, e sono altri due passi
decisi verso la realizzazione di un
capolavoro. E ancora: Window in/
window out, con il pianoforte
di Jason in bella evidenza
e un arrangiamento
cameratistico beatlesiano
e la conclusiva, magica
When to laugh. La canzone
d’autore inglese affonda
le sue radici negli anni ’60
parte da Yesterday dei
Beatles – voce e chitarra
acustica (di Paul) più
un quartetto acustico
– e da Catch the wind di
Donovan, per esplodere
letteralmente con John
Martyn, Nick Drake, Allan
Taylor, Iain Matthews,
Sandy Denny, Al Stewart,
Ralph Mctell o Richard
Thompson (per citare
appena i più importanti).
Gli anni successivi sono
stati più oscuri, ma al
tempo stesso hanno visto
affermarsi cantautori come
Boo Hewerdine (con i Bible
e da solo), Andy White,
Billy Bragg o David Gray.
È a questa tradizione che
si richiamavano Ben and
Jason, tenetelo a mente
quando frugate negli
scaffali di un negozio di
dischi: potrebbe capitarvi
una copia di Goodbye
dimenticata da tutti. Non
lasciatevela sfuggire. E se
la fortuna non vi assiste
cercatene una viaggiando
in rete. Chi ha mai detto che
la musica migliore debba
essere per forza conosciuta
da tutti?
Giancarlo Susanna
SENTITI QUESTI
XTRMNTR (2000)– Primal Scream
Hot rail (2000) - Calexico
Marshall mathers (2000) - Eminem
Yeah Yeah Yeahs (2001) Yeah Yeah
Yeahs
Is this it? (2001) – Strokes
Here be monster (2001) – Ed Harcourt
Neon golden (2002) - Notwist
Turn on the bright lights (2002) – Interpol
Elephant (2003) - White Stripes
When it falls (2004) – Zero 7
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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
13
Dear heather
Leonard Cohen
Sony music/columbia
Emotive
A perfect circle
Virgin music/ emi
Nino Rojo
Devendra Banhart
Young God/ xl
This is
Speedmeter
Blow it harp|family affair
Italian playboys
Link quartet
Record kids
È uscito l’ultimo album del
grande cantautore canadese.
Fuori dal tempo, lontano dalle
mode Cohen confeziona un
disco fortemente legato alla
sua tradizione. Impregnato di
lettaratura, semplice, senza
orpelli perché un grande
vecchio della musica come lui
non ha niente da dimostrare.
La cosa che piace di questo
disco è il suo motivo ispiratore:
la grande delusione per il
risultato delle ultime elezioni
americane. Questa si esprime
in un disco composto quasi
per intero da cover tra le quali
spiccano Imagine di John
Lennon e What’s going on di
Marvin Gaye.
Il suo nuovo disco ha
focalizzato, anche
smodatamente, l’interesse
verso questo nuovo folk
americano legato alle radici,
il cosiddetto prewar folk.
Niente di nuovo anzi un ritorno
alle origini. Il nuovo disco di
Devendra è di una semplicità
disarmante.
This is è il nuovo lavoro
degli Speedmeter
che rappresentano la
reincarnazione ideale
dei Meters. Undici tracce
di indemoniati soluzioni
hammond accompagnate
da straripanti e folgoranti
passaggi di fiati.
Finalmente una etichetta
italiana produce uno dei
gruppi più elettrizzanti del
panorama hammond groove
ed acid jazz mondiale. I
Link quartet giungono alla
loro terza prova mostrando
maturità con composizioni
fresche e godibili, difficilmente
rintracciabili nei tanti gruppi
italiani.
Hamletmachine
Goodmornigboy
Urtovox
di Osvaldo
Se avessi te
H.E.R
di ST
Meg
Meg
Multiformis - Bmg
Non c’è niente di più buono delle cose fatte in casa, diceva mia nonna, ed aveva ragione, questo
nuovo disco sfornato caldo caldo da Urtovox è pieno di ingredienti che fanno pensare all’Inghilterra
e all’America ma è un prodotto italiano al 100%. Dietro il nome d’arte Goodmornigboy si nasconde
in realtà Marco Iacampo, ex leader dei veneziani Elle, che con questa sua seconda prova da solista
ha definitivamente lanciato l’indie italiano d’autore a livello internazionale. Un disco di una bellezza
e una semplicità rare, una voce bellissima e tagliente, uno stile che sembra seguire l’eredità del folk
americano di Neil Young ma che si sposa piacevolmente con il low-fi acustico di personaggi come
Sparkleehorse. La scelta dell’inglese per esprimersi è puro suono che si intreccia con gli strumenti
dosati sapientemente. Un disco da esportare che nulla ha da invidiare alle produzioni di Lou Barlow e
soci, suonato e arrangiato con un’eleganza che impreziosisce le bellissime canzoni. Accanto a Marco
che suona piano e chitarra hanno collaborato alla realizzazione di questo piccolo gioiello musicisti del
calibro di Giovanni Ferrario e Alessandro Stefana. Da non perdere.
Dinamico e divertente è “Se avessi te”, l’EP dell’artista di origine foggiana H.E.R. (al secolo Erma
Castriota) immesso sul mercato e accompagnato da una serie di performance live in set acustico
che coinvolgeranno violino e pianoforte elettrici. I quattro brani contenuti nell’EP attraversano diversi
generi musicali, in un caleidoscopico mescolarsi di suoni, colori e ritmi. Denominatore comune i due
strumenti musicali dell’artista: la sua sorprendente voce dall’estensione stupefacente e il suo violino,
mirabilmente suonato come voce cantante, quasi estensione delle sue già notevoli doti vocali, e per
chi ha avuto piacere di assistere alle sue performance live, del suo stesso corpo. Completano il quadro
gli arrangiamenti al pianoforte dal sapore acid jazz per rendere i brani unici e preziosi, e predisporli
ad ascolti ripetuti per poterne scorgere tutte le venature e l’eleganza. H.E.R. nei sui brani canta
d’amore: l’amore verso un partner che non c’è, o che è diverso da quello immaginato, e l’amore nei
confronti di se stessa e del suo nome, nell’evoluzione personale ed artistica, in continuo cambiamento
e miglioramento. Le precedenti collaborazioni (Nidi d’Arac, Teresa De Sio, Giovanni Lindo Ferretti) ci
avevano abituati ad un lavoro di alta qualità ed ad un’artista completa: questo disco non tradisce le
aspettative e apre la strada ad una carriera da solista che offrirà senza dubbio grandi sorprese.
Disco d’esordio per la ventisettenne dei 99 Posse. Al primo omonimo lavoro da solista Meg (nella foto
di Alice Pedroletti) è già un piccolo caso per la critica, divisa tra chi la considera la Bjork italiana e la
accosta alla Vanoni e Mina, e chi invece abituato a vederla nei panni di donna d’assalto nei 99 Posse,
non vede di buon occhio il suo tentativo di svestirsi della band che ha accompagnato in questi anni,
per altro con un disco dallo stile piuttosto diverso, meno “aggressivo” e più poetico.
Semplicemente Maria Di Donna in arte Meg non si sente vicina a nessuna delle artiste citate pur
apprezzandole, ha voluto che questo disco nascesse così, senza mediazioni di sorta, e con particolare
attenzione ai testi. Probabilmente i più resteranno indifferenti alle undici tracce della nuova Meg,
ma ascoltandolo con attenzione difficilmente non le si potrà dare atto aver fatto un buon lavoro,
passando tra la sua bellissima voce e le musiche curate dalla “mano elettronica” dei 99 Posse Marco
Messina. Brani di sicuro impatto sono Puzzle e l’omaggio ai ritmi brasiliani di Senza Paura quest’ultima
cantata con gli Elio e Le Storie Tese, senza dimenticare ovviamente il singolo promozionale Simbiosi.
di Augusto Maiorano
Lombroso
Lombroso
Mescal
di Osvaldo
Verrebbe subito da pensare: “Ah ecco i WhiteStripes italiani”. Effettivamente se pensi alla formazione
(chitarra, batteria) e al suono (tipicamente anni 70) l’associazione nasce spontanea. Ma a ben
ascoltare scopri subito che di ben altra materia si tratta. Il progetto Lombroso nasce per caso, frutto
di una jam, e vede insieme Dario Ciffo, violinista storico degli Afterhours, alla chitarra e alla voce, e
Agostino Nascimbeni alla batteria e ai cori. L’atmosfera generale è rock and roll con piacevoli svisate
in soluzioni che fanno pensare a un Battisti (la ghost track del disco è una sua cover) accompagnato
dalla Formula 3. Appassionati di anni 70 e 60, i due ne attingono a piene mani e passano agilmente
da un pop and roll scanzonato a stacchi surf con tanto di coretti alla Beach boys. La mancanza di un
ensemble classico viene risolta grazie all’uso di una sorta di loopmachine che cattura giri di chitarrabasso che diventano scheletro portante di brani dal groove tipicamente ed energicamente vintage.
La voce a tratti graffia e a tratti sale ricordando un po’ Ivan Graziani. Un prodotto italiano dal sapor
retrò con il suono e il gusto degli anni, forse migliori, della nostra tradizione rock.
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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
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We were gladiators
Theramin
Guinea Pig
Guinea Pig
Psychotica records
di Gianpiero Chionna
Mountaineer
Sleep and me
Sommerweg/Wide
di Patrizio Longo
disco del mese
Marianne
Faithfull
Before the poison
Naive
Due nuove uscite in casa Psychotica Records. Segnaliamo Theramin e Guinea Pig. Il fatto che Catania
sia una città piena di creatività musicale viene confermato (se ce ne fosse bisogno) dal buon lavoro
dei Theramin che pur avendo come punto di riferimento il solito math rock albiniano, mescolano le
carte con altre influenze. Così accanto alle squadrate geometrie degli Shellac si affianca un riffing di
marca June of ’44, ma anche stasi di post rock più schietto con l’ottima To be away. Near by the Saint
Leonard river invece abbina un chitarra acustica al recitato di Sacha Tilotta disegnando un bozzetto
rurale e contemplativo. Sonorità facilmente riconoscibili, ma il risultato finale è di tutto rispetto. Inoltre
una chicca per gli appassionati: Guinea Pig è un b-movie che con disinvoltura mostra una serie di
torture gratuite e belluine; un finto snuff insomma. Sapete cosa attendervi dalla musica del gruppo
omonimo quindi! Partendo da geometrie math rock di gran lunga più rabbiose di altri colleghi, i
Guinea Pig si lanciano anche in sferzate di noise assassino e accordi che non dispiacerebbero per
nulla alla Skin Graft. E in effetti non dispiace neanche a noi la loro musica lontana anni luce dalle
acustiche finocchiate di questo periodo.
La voce di Henning Wandhoff riesce con le sue calde tonalità a creare ambienti dai toni soffici e
raffinata. Alcuni la paragonano a quella del grande Lou Reed. Il nuovo cd di Mountaineer sembra
essere il secondo tempo del precedente lavoro Sunny Day (Sommerweg – 2003). La struttura musicale
di base folk con i suoni della chitarra immersa fra le culture che si incontrano dall’Arizona al Brasile.
Possiamo ascoltare nei trentotto minuti circa dell’esecuzione del cd, folk tradizionale, samba latinoamericana il tutto con un tocco di pop contemporaneo. “Sleep and me” un disco sussurrato non
cantato dove si predilige un’atmosfere soft creata da strumenti tradizionali, quali tastiere a pedale,
chitarra folk, banjo, ritmi messi in loop. Per alcuni tratti ascoltando il disco si ricorda il grande JJ Cale.
Fra le tracce che è giusto evidenziare troviamo “I live in your house” un cocktail di samba da proporre
di fronte un tramonto in una location che farebbe risaltare questa ballata. Merita una nota anche
“Glow” divisa nelle due sezioni. Per gli amanti del ritmo la traccia undici remix “La grande illusion”.
Davvero un magnifico album, versatile nei suoni dai molteplici gli ascolti.
Ci sono voci che in poche battute riescono a evocare mille storie e un intero mondo
di sensazioni e emozioni. Quella della Marianne Faithfull di oggi scura e sgranata, ha
poco a che fare con la fragilità di un tempo, quando la cantante era la musa della
Swinging London. Sembra che le esperienze, le traversie, le gioie e i dolori della sua
esistenza si siano concentrati nella voce, un segno così forte e riconoscibile che le
permette di muoversi a tutto campo nell’ambito della canzone d’autore. La Faithfull
può collaborare con Angelo Badalamenti, con i Blur o con Beck, come ha fatto in un
passato non troppo lontano, senza tenere di snaturare il suo approccio alla musica.
Il rispetto e l’affetto che la circondano non fanno anzi che rafforzare e rendere
ancora più incisiva e memorabile la sua musica. Ed è come se la forza espressiva
di Brocken English, l’album che la riportò alla vita e alla ribalta sull’onda del punk
nell’ultimo scorcio degli anni ’70, continuasse a spingerla in nuove e imprevedibili
direzioni. Before the poison nasce dall’incontro della Faithfull e musicisti come Pj
Harvey, Nick Cave, Damon Albarn e Jon Brion ed è senza dubbio uno dei suoi dischi
più intensi e riusciti, oltre che uno dei migliori del 2004. Nell’opera precedente, Kissin’
time, aveva toni più calmi e rilassati, Before the poison recupera in modo magistrale
il rock più oscuro ed ipnotico. Non è un caso che in apertura siano sistemate due
canzoni scritte e prodotte da e con Pj Harvey, la cui sensibilità è evidentemente
in sintonia con quella della Faithfull. Sono The mistery of love e My friend Have a
stabilire la temperatura emotica di tutto l’album, un mood in cui entrare con la
stessa naturalezza i contribuiti degli altri ospiti e amici. Si tratta dunque di un grande
disco, che oltre a confermare la statura di autrice e interprete della Faithfull ci dice
che è anche chi ha scelto il rock come modo di esprimersi può accogliere con
grazia l’inevitabile arrivo delle rughe e dei capelli bianchi.
Giancarlo Susanna
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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
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Mondo la douce
AA.VV.
Irma Records
di Postman Ultrachic
Elegia
Paolo Conte
Warner
di Antonietta Rosato
What you waiting for?
Gwen Stefani
InterscopeRecords
di Davide Castrignanò
La compilazione prende il nome dal fatto che il materiale presente proviene da tutto il mondo:
Giappone, Russia, Brasile e molti altri paesi. Un disco in cui sono presenti pezzi che spaziano dal
loungecore alla digital bossa, i giapponesi “Deep” si cimentano in un doo wop futuristico con
incursioni scat da brivido.
Gli strafamossissimi “Kaledoscopio” ci offrono un morbidodrum bass con forti accenni po; i “Doing i
Time” remixano con gusto i messicani OV7, autentica leggenda in patria; “Milky Laqres” rileggono in
chiave lo fi Mas que nada dandogli quella follia che solo i russi in questo periodo sanno dare.
Il pezzo più danzereccio Tv show ce lo regalano i “Schiffers”, con una straordinaria parte vocale che
è un campione accelerato e corretto di un pezzo dei “Ridillo”, tra le cose migliori del disco. Troviamo
anche delle anteprime come Tee tee coco di Robert Passera insieme a una delle voci più significative
del regno unito Lorrainne Bowen. Mentre per gli amanti del cinema non bisogna lasciarsi scappare la
versione di Capiozzo e Mecco con il tema della strana coppia di Jack Lemmon e Walter Matthau.
A nove anni da Una faccia in prestito e dopo la parentesi internazionale di Razmataz torna Paolo
Conte ed è come se il tempo si fosse fermato. Elegia è quasi un’antologia della carriera artistica del
cantautore. L’attenzione è tutta per la ricomparsa dell’uomo del Mocambo, storico eroe perdente,
gestore di un bar di provincia che di sera, agghindato a festa, cerca in ogni donna quella del destino
ma immancabilmente si ritrova sempre solo. Con La nostalgia del Mocambo si chiude la tetralogia
dedicata a questo personaggio. Tranne qualche caso c’è ben poca ironia in questo album. Elegia si
potrebbe dire che è il disco della nostalgia. Se c’è un momento allegro è un momento della memoria,
il resto è citazione e rimpianto. Ma se frattura con il passato c’è, questa è nella grande assenza del
jazz. I fiati sono quasi totalmente rimpiazzati dagli archi, non ci sono grandi arrangiamenti, non c’è il
kazoo. Tredici pezzi, tutti in italiano, che al primo ascolto sembrano non lasciare traccia, qualche vago
ricordo di già sentito ma poi ti girano in testa e ti fanno ricordare come ti sei sentito la prima volta che
hai ascoltato Paolo Conte. Tutto questo è già in Elegia, l’overtoure che dà il titolo all’album e che era
stata pensata per Celentano, come altre canzoni dell’album, ma che alla fine me le devo cantare da
solo con questa brutta voce.
TickTock TickTock TickTock, il ticchettio mi frulla nella testa e mi sorprende la follia acida che invade
una tranquilla canzone di provincia. Non ho mai sopportato i NoDoubt, ma ascolto il debut single
della Stefani e inizio a canticchiare e saltellare. Decisamente piacevole la canzone (prodotta da
Nellee Hooper) nel suo missaggio di icone pop (mi viene in mente Kylie Minogue, Madonna e la
ruffianaggine della Spears); impastate di wave-house e tonificate da innocente sregolatezza. Starò
forse invecchiando, ma anche il video (contenuto nel cd-single) risulta accattivante e se la canzone
spopola in buona parte dei locali alternativi “istituzionalizzati” di mezza Italia, riempiendo dance-hall
a iosa, allora forse c’è da pensare che sia un prodotto ben riuscito. Un buon biglietto da visita per
l’album “Love.Angel.Music.Baby”, non c’è dubbio, fortemente raccomandato ai nottambuli e sfrenati
danzatori isterici, di cui credo di poter fare parte. Non sono da meno neppure i due remix (in versione
dub-light) del pezzo, orchestrati da Jacques Lu Cont e presenti nel cd-singolo; in totale rasentano i
18 minuti di musica, ma scorrono via con piacere e diletto dell’apparato uditivo. Non voglio istigare
all’acquisto, ma preavviso i meno accondiscendenti che probabilmente il pezzo li tartasserà per i
prossimi mesi invernali.
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LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI
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Nicola Lagioia
Occidente per principanti
Einaudi
di Rossano Astremo
Marco Vichi
Il nuovo venuto
Guanda
di Bubu
il libro del mese
T.C. Boyle
Doctor Sex
Einaudi
Dall’autore di Tre sistemi di sbarazzarsi di tolstoj (minimum fax, 2001) non te lo saresti mica aspettato
un romanzo del genere. Attendevi con ansia questa seconda prova narrativa del barese Nicola
Lagioia. In libreria si staglia in tutta la sua sublime bellezza la copertina raffigurante un’opera di Adrian
Tranquilli, Until the end (tecnica mista, 2002). Imprechi contro il creato per il prezzo, 17 euro, ma in
fondo sei felice che un autore pugliese a trent’anni pubblichi con la prestigiosa collana Supercoralli
dell’Einaudi. Occidente per principianti è un romanzo che, come i cocktail che si rispettino, va bevuto
tutto in un sorso. 297 pagine che rasentano la perfezione (tranne alcuni momenti della seconda
parte un po’ rabberciate, quasi riempitive). Occidente per principianti è la storia di un giornalista
fantasma sulle tracce della prima amante di Rodolfo Valentino. Ad accompagnarlo in questo
viaggio un regista indipendente inseguito dai creditori e una studentessa di cinema bella e infedele.
Occidente per principianti è il romanzo manifesto dei poveri cristi nati nei ’70, vittime di un precariato
lavorativo che spezza le gambe. Occidente per principianti è un romanzo sulla spettacolarizzazione
dell’informazione, una sorta di mondo sopra il mondo che tutto condiziona, che tutto genera. La
letteratura pugliese è in buone mani. Altro che Carofiglio!
Con questo lavoro Marco Vichi ci regala la terza avventura del commissario Bordelli, il suo più noto
personaggio e anche stavolta lo sfondo in cui si svolge la storia è la Firenze degli anni ’60. Un uomo
viene trovato morto nel suo appartamento. Causa della morte: un paio di forbici piantate con
inusuale forza nella nuca. Perché tanta ferocia? Perché la vittima era un usuraio e Bordelli quasi
non vorrebbe trovare l’assassino, che, sebbene non abbia lasciato alcuna traccia, ha firmato
inconsapevolmente l’omicidio. Ad accompagnarlo nell’indagine c’è l’amico di sempre, il medico
legale Diotivede, ormai prossimo alla pensione ma più che mai appassionato del suo lavoro, che con
una brillante intuizione metterà Bordelli sulle tracce del colpevole. Il Bordelli che incontriamo in questo
terzo atto è lo stesso che ci è stato offerto nei due precedenti romanzi: cinico, disilluso ma dotato di un
animo generoso che lo spinge ad aiutare gli stessi criminali che lui arresta, gente cui la vita ha riservato
poche gioie e molta sfortuna. A completare la trama è il caso in parallelo condotto dal pupillo del
commissario, l’agente Piras, che tornato in Sardegna per un periodo di convalescenza si imbatte nello
strano suicidio di un vicino di casa…
Unico appunto da fare: alcune soluzioni appaiono un po’ azzardate e ci sono momenti in cui la trama
si perde in ricordi troppo lontani dal contesto narrativo.
Nel 1948 il dottor Alfgred Kinsey, professore di Zoologia in un piccolo college degli
Stati Uniti pubblicò un libro destinato a diventare uno dei più discussi best seller di tutti
i tempi: Il comportamento sessuale dell’uomo, seguito nel 1953 dal Comportamento
sessuale della donna.
In anni in cui l’America era stretta dalla morsa del perbenismo, il rock non aveva
ancora mostrato le possibilità dell’amore libero, Alfred Kinsey provocò un vero e
proprio scandalo pubblicando i risultati delle sue ricerche. In meno di dieci anni lui
e il suo staff condussero oltre 18000 interviste a uomini e donne sul comportamento
sessuale. Kinsey mostrò all’America che dietro al perbenismo di facciata si
nascondeva un popolo in cui i rapporti prematrimoniali erano diffusissimi così come i
rapporti extraconiugali, la masturbazione maschile e femminile e altre “aberrazioni”
sessuali come rapporti con animali e comportamenti illegali.
Boyle ha scritto un romanzo decisamente impeccabile, perfetto, bellissimo.
L’espediente scelto dallo scrittore per raccontare la storia di Alfred Kinsey è un
vecchio trucco che quando è usato bene come in questo caso produce degli effetti
eccezionali: l’espediente del narratore inattendibile.
Jhon Milk, il protagonista narratore del romanzo dichiara infatti di essere
completamente soggiogato dal suo maestro e mentore, di imitarlo apertamente e di
assecondarlo in tutto quello che gli chiedeva.
Milk dichiara inoltre di non ricordare per niente bene alcuni dei fatti che riporta.
E questo gli permette di dire tutto quello che vuole e a noi permette di crederli,
perfettamente consapevoli che quello che racconta può essere del tutto falso. Ma
che ci importa. Il bello del romanzo è che non si limita a raccontare la ricerca. Milk
ripete infatti spesso che il suo vuole essere un racconto su Prok e non su di lui, ma
quante volte invece Milk si dilunga nel raccontarci gli aspetti privati della sua vita, da
single prima e da uomo sposato poi.
E ci racconta il rapporto con gli altri membri della cerchia ristretta e con le loro
mogli, e con le amiche e gli amici della ricerca come loro definivano le persone
più generosamente disponibili ad aiutare i ricercatori nella loro impresa. E l’impresa
dei ricercatori si spinge sempre più in là nella sperimentazione diretta di quello che
vengono scoprendo nlle interviste, in un crescendo continuo di depravazione, amore
e gelosia, il tutto all’insegna dell’amore libero e del sesso ridotto a puro scienza.
Dario Goffredo
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LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI
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Adam Fawer
Improbable
Feltrinelli
Carlo Lucarelli
La mattanza
Einaudi
Pete Dexter
Train
Einaudi
The Best of McSweeney’s
a cura di: Dave Eggers
Minimum Fax
One Ring Zero
As smart as we are
ganzi come siamo
Minimum Fax
La storia di David Caine, un
matematico che riesce a
prevedere le probabilità e
le conseguenze delle sue
azioni nel futuro. Aiutato
dal fratello gemello e da
un’affascinante agente
segreto doppiogiochista,
Caine deve capire cosa gli
sta succedendo prima che lo
scoprano altri.
In DVD lo «speciale» di Blu
notte. Misteri d’Italia andato in
onda per la prima volta, con
immenso successo, nell’estate
2003. Con un libro in cui
Lucarelli racconta la mafia,
come fosse un romanzo. Ma
non lo è.
Un grande romanzo insieme
cupo e luminoso, inciso da
un Faulkner del nostro tempo.
Un micidiale meccanismo a
orologeria unito a una scrittura
tesa e serrata che sa restituire,
dietro il velo della normalità, la
profondità dei sentimenti e la
violenza brutale della vita.
McSweeney’s, la rivista
letteraria fondata da Dave
Eggers è il fenomeno più
rivoluzionario della scena
letteraria americana.
Capace di diventare in pochi
mesi punto di riferimento
di un’intera generazione
senza perdere il suo status
di prodotto autogestito e
autofinanziato.
In esclusiva per l’Italia sul sito
di minimum fax è finalmente
disponibile l’album As smart
as we are del gruppo One
Ring Zero, con diciassette
canzoni scritte da Paul Auster,
Rick Moody, Dave Eggers,
A.M. Homes, Myla Goldberg,
Margaret Atwood, Jonathan
Lethem e tanti altri scrittori
americani
Lu sule , lu mare, lu ientu
Manni
di Pierpaolo Lala
Vincenzo Corraro
Sahara Consilina
Palomar Bari 2004
La domenica è il giorno della parola del Salento. La nuova e comoda agenda pubblicata da Manni
Editore per il 2005 è scritta da salentini, da salentini acquistiti e soprattutto per tutti coloro che vogliono
apprezzare qualcosa in più di questa terra.
Non un libro, non una semplice agenda.
Una via di mezzo che, attraverso lo snocciolarsi dei giorni e delle stagioni, presenta un campionario,
raccolto da Agnese Manni e Giancarlo Greco, di appunti sulla terra del rimorso e degli ulivi, della
tradizione e dei fichi d’India, del vino e della malinconia, dellu Sule, dellu mare e dellu ientu. Le
composizioni originali per raccontare i tre elementi sono affidate a Edoardo Winspeare, Giovanni Lindo
Ferretti e Livio Romano. Regista, cantautore e scrittore che descrivono il loro salento. Ma sfogliando le
pagine ci si imbatte anche in Daniele Silvestri, Vinicio Capossela, Aldo Bello, Vittorio Pagano, Antonio
Verri, Giovanni Pellegrino, Alda Merini, Maria Corti, Ernesto De Martino, Vittorio Bodini, Donato Valli,
Kant e nei canti di tradizione, Salvatore Toma, Antonio Errico. Di quest’ultimo segnaliamo L’ultima
caccia di Federico Re (sempre per Manni), che si muove tra realtà e finzione raccontando il grande
Imperatore che con la sua cultura segnò un’era.
Dietro l’inquietudine di un gruppo di giovani universitari fuori sede, in Sahara Consilina si nasconde il
dramma dello sradicamento dalla propria terra e la necessità di trovare le motivazioni per fare ritorno
ai luoghi del sud. Il romanzo di Vincenzo Corraro, infatti, è la storia della nuova emigrazione italiana
- giovanile, universitaria e intellettuale – che, a differenza di quella della manovalanza disperata,
ha imparato a non piangersi addosso, a non sentirsi vittima, fino a trarre sofferente gioia da una
condizione che diventa anche occasione di viaggio, conoscenza, scoperta e arricchimento.
Sahara Consilina è un romanzo crudele, politico, ironico, musicale, è un romanzo d’amore e di morte,
è un romanzo corale: tante storie che si intrecciano su un’unica tensione etica come una specie di
lente d’ingrandimento delle tante sfaccettature umane. Le sue pagine coinvolgono il lettore con la
ricerca famelica di una ragione di vita e il desiderio insopprimibile di riscattare la propria esistenza
dandole memoria, identità ed appartenenza.
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CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA
18
2046
Wong Kar Wai
di Michele Pierri
Bride and prejudice: The
Bollywood musical
Gurinder Chadha
Nel 1966, ad Hong Kong, in una stanza d’albergo il giornalista Chow Mo Wan cerca di scrivere un libro
sul futuro nel quale riversa tutte le sue esperienze passate. L’ultimo lavoro di Kar-Wai si distingue come
un’opera indipendente e particolarissima, in cui la stanza d’albergo che da il nome al lungometraggio
(2046 per l’appunto), rappresenta il crocevia della memoria del protagonista, delle donne che ha
posseduto, dell’unica che ha amato. Un film sulla memoria ma anche sul rimpianto. A sottolineare
l’impossibilità di rivivere pienamente il ricordo, il regista costruisce le sue inquadrature utilizzando solo
metà dello schermo, lasciando a volte parte dell’inquadratura nera o lievemente sfocata perché
nel ricordo l’immagine non risulta mai completamente nitida. Kar-Wai e il suo fedele direttore della
fotografia Christopher Doyle riescono a fare quello che vogliono e rappresentano una “alternativa” al
cinema americano da classifica. Un motivo in più per vedere un film che è stato tra i favoriti a Cannes
e che racchiude mille pensieri, mille ricordi. 2046 è il luogo dove si affollano le contraddizioni e le
illusioni della mente, uno spazio/tempo dal quale nessuno fa ritorno, alla ricerca delle proprie memorie
perdute.
La signora Bakshi non vede l’ora di trovare un marito alle sue quattro figlie. Quando il giovane Balraj
arriva in città la signora Bakshi farà tutto il possibile per presentargli le sue figlie. Una di queste sembra
essere attratta dall’amico americano di Balraj. Di fronte a questo lavoro, uno spettatore occidentale
può sentirsi quantomeno confuso. Può essere però un’ottima occasione per scoprire qualcosa in più
di Bollywood e della tendenza indiana di questo periodo. Ad esempio, ogni film prodotto da quella
straordinaria macchina (capace di sfornare 800- 900 film l’anno!) è caratterizzato da una serie di
elaborate scene di canto e danza, che sublimano qualunque approccio fisico (perfino i baci sono
vietati) e che prendono origine dal teatro classico indiano dei secoli scorsi. In più, tutti i film seguono
la stessa formula narrativa: una storia d’amore tra due bellissimi giovani, ostacolata e contrastata da
fraintendimenti, obiezioni ed altri problemi, le reciproche famiglie, che occupano sempre un ruolo
centrale, e la comicità che sdrammatizza. Alla fine, si troverà sempre un compromesso tra i valori
tradizionali e quelli moderni. Particolare e non facile da vedere nelle nostre sale.
di Michele Pierri
film del mese
Kar/Wai
Soderbergh
Antonioni
Eros
In programma fuori concorso alla 61ma Mostra del cinema di Venezia, “Eros” si
divide in tre episodi che portano la firma di tre eccezionali cineasti. Diversi capitoli
per diversi modi di raccontare l’erotismo e soprattutto quello che ne consegue. Il
primo, intitolato “La mano”, è quello diretto da Kar-Wai ed è anche quello che offre
gli spunti migliori e che come al solito si distingue per raffinatezza e maestria anche
se appare abbastanza ripetitivo considerati i suoi lavori precedenti. Ripercorrendo i
sentieri di “In the mood for love” e del più recente “2046”, il regista racconta di una
Shangai degli anni ’30 dove il sarto Xiao Zhang (Chang Chen), divenuto il favorito di
una prostituta d’alto bordo (Gong Li), le rimarrà fedele anche quando la sua bellezza
appassirà. La seconda parte, firmata da Soderbergh, si intitola “Equilibrium” ed è
quella che meno ci si aspetterebbe.
Ambientata a New York negli anni ’50 parla di un pubblicitario (Robert Downey Jr.)
che si rivolge a uno psicoanalista perché ossessionato da un sogno erotico ricorrente
durante cui scorge una donna della quale, una volta sveglio, non ricorda l’identità.
Ma durante la sua seduta di analisi, lo psicoanalista (Alan Arkin) è a sua volta distratto
da una donna che vede dalla finestra dello studio. Girato alternativamente in bianco
e nero e colore per separare i momenti di sogno da quelli reali, questo episodio non
rappresenta certo un momento indimenticabile ma risulta se non altro il più originale
e sperimentale.
Il terzo ed ultimo mediometraggio, quello di Antonioni, ideatore di questo progetto,
risulta quello meno riuscito e più banale. Basato su un tema ricorrente del regista
ferrarese, quello dell’incomunicabilità della coppia, sorprende per una sceneggiatura
e una recitazione talmente scadenti da compromettere inevitabilmente un episodio
che già di per se non è entusiasmante. Intitolato “Il filo pericoloso delle cose” ci illustra
le vicende in Toscana di una coppia in crisi (Christopher Buchholz e Regina Nemni)
che si trova in vacanza.
Lui incontra una giovane donna (Luisa Ranieri) con la quale si abbandona ad
appassionato rapporto. Le due donne finiranno per incontrarsi misteriosamente su una
spiaggia. A fare da anello di congiunzione tra gli episodi ci sono le tavole oniriche
di Lorenzo Mattotti e la canzone “Michelangelo Antonioni” scritta e interpretata da
Caetano Veloso, forse uniche vere note positive di un lavoro che, viste le premesse,
poteva davvero essere ben altro.
Michele Pierri
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CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA
19
Ocean’s twelve
Steven Soderbergh
Birth
Jonathan Glazer
La nina santa
Lucrecia Martel
Closer
Mike Nichols
Elvis has left the building
Joel Zwick
Danny Ocean riunisce tutta
la sua squadra di ladri per tre
nuovi colpi, che questa volta si
divideranno in tre città diverse:
Roma, Londra ed Amsterdam.
Nel frattempo Terry Benedict,
il proprietario del casino di
Las Vegas, che Ocean e
il suo team hanno ripulito
precedentemente medita
vendetta...
Dieci anni dopo la prematura
morte del marito, la bella
Anna sta per risposarsi con
Joseph. Ma proprio alla vigilia
delle nozze, un misterioso
ragazzino compare nella
vita dei fidanzati: si chiama
Sean, proprio come il defunto
consorte di Anna, e dice di
esserne la reincarnazione...
In una città di provincia
un gruppo di adolescenti
con inclinazioni mistiche si
interroga sul proprio ruolo nel
progetto divino. Un congresso
di medici fa arrivare uno
specialista famoso che
casualmente incontra Amali,
uno dei ragazzi. E’ Dio che
l’ha chiamata per salvare
quest’uomo?
Tratto dall’ omonima opera
teatrale di Patrick Marber,
racconta la storia di due
coppie che vedono i loro
equilibri incrinarsi quando
l’ uomo della prima viene
coinvolto emotivamente dalla
donna della seconda. Per chi
ama i sentimenti riveduti e
sviscerati.
Una storiella carina (e forse
anche vera!), Kim Basinger e
John Corbett per raccontare
la vicenda di una venditrice
di cosmetici che per alcune
incredibili circostanze entra
in contatto con Elvis Presley.
Intrecci e colpi di scena in una
commedia divertente e senza
pretese.
Ferro 3 – La casa vuota
Kim Ki-Duk
di Michele Pierri
In dvd
Spiderman 2
Sam Raimi
di Giampiero Chionna
Tae-suk è un ragazzo che passa il tempo alla ricerca di case altrui da abitare in assenza dei
proprietari. Visitandone una si imbatte nella ricca Sun-hwa, maltrattata dal marito. I due sceglieranno
di vivere ai margini, spostandosi di casa in casa, finché la scoperta di un cadavere negherà loro la
promessa di libertà. Ennesimo gioiello del regista coreano che ci ha ormai abituato a veri e propri
capolavori, affreschi di rara bellezza e intensità, vera poesia in movimento. Perché Ki-Duk è prima
di tutto un pittore che è arrivato al cinema per vie traverse e che riesce non riesce a concepirlo
se non come esperienza totale ed avvolgente. L’amore, la solitudine, l’identità e la libertà sono i
temi portanti di un film retto su un equilibrio magico e poetico dove niente è scontato o prevedibile
e dove il tocco dolce ed artistico di Ki-Duk rende un comune lavoro un’esperienza unica. Lavoro
che ora più che mai fa da apripista a una nuova ondata (che per la verità non ha mai cessato di
fluire) di film asiatici raffinati e fuori dall’ordinario. Un film sul disagio e sul mal di vivere che si cerca di
contrastare a colpi di mazza da golf (il ferro 3 del titolo appunto) che costituisce il simbolo e la via per
un temporaneo ed inerte riscatto che si chiama sopravvivenza.
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. È con questo motto che Spiderman continua la
sua avventura. E questa volta più che mai si nota la libertà di cui ha goduto il regista Sam Raimi nella
direzione delle scene, tanto da concedersi un guizzo di follia nel momento della nascita di Octopus,
ricalcando lo stile dei suoi primi film. Sullo sfondo resta invece lo scontro con il Dr. Octavius-Octopus,
altra nemesi dalla personalità doppia che in certi punti rischia di clonare il Goblin del primo episodio.
Sullo sfondo perché il personaggio è solo un espediente spettacolare per tenere occupato il nostro
ragnetto. Il vero nemico di Peter Parker in questa seconda puntata è lui stesso: la sua doppia vita,
la fatica e i sacrifici per preservarla. Il film è tutto qui: negli studi universitari tribolati, nella maniera di
pagare il mutuo di zia May e nel commosso confronto con la stessa, nel desiderio legittimo di una vita
normale, nei baci non dati a Mary Jane e nel loro amore negato; nel volo tra i palazzi, vero e proprio
atto liberatorio e momento di evasione dal muro di responsabilità, eretto per una sorta di espiazione
per la morte di zio Ben. E nessuna meraviglia se il nostro sembrerà capitolare, se vorrà assaporare
quella vita spensierata che ogni ragazzo della sua età dovrebbe vivere. Ma l’umanità di Peter è
davvero immensa e sa che lo sguardo pieno di riconoscenza di persone salvate da morte certa è
linfa vitale. “Non mi abbandonare Peter!” grida una spaurita zia May durante l’assalto di Octopus alla
banca. No, Peter Parker non ci abbandonerà mai.
ogni mercoledì
Caffè Letterario - Lecce
Sound and Vision for the club
23 dicembre
Candle - Lecce
Winter Party
25 dicembre - 8 gennaio
Istanbul Café - Squinzano
Postman Ultrachic
“Sound e Vision for the club” è il mercoledì del
Caffè Letterario. Ogni settimana a partire dalle
22:00 in via Paladini una serata che fa bene
ai sensi. I cangianti allestimenti visivi del Caffè
letterario si incontrano con le selezioni dei dj
che si susseguono settimana dopo settimana.
Quattro mercoledì all’insegna della musica e
delle nuove mostre.
Grande festa per presentare il primo numero
a colori di CoolClub.it. In consolle tutti i dj di
CoolClub: Sonic The tonic, Postman Ultrachic,
Tobia Lamare, Dj Rosability, Scaccomatto, Sgt
Pepe e tanti altri. Ingresso 1 euro. Inizio fissato
per le 22.30.
L’Istanbul Café di Squinzano anche quest’anno
festeggia il Natale con Postman Ultrachic e la
sua Lounge against the machine. Una serata
all’insegna dell’easy listening e della danza
con il dj che ha fatto del vinile la sua vera
ragione di vita. Inizio ore 23.00. Ingresso con
consumazione.
26 dicembre
Istanbul Cafè - Squinzano
Mama Roots
28/30 dicembre
Lecce/Gallipoli/Taranto
Cucuwawa
28 dicembre
Istanbul Café
Ska Combat
Domenica 26 dicembre appuntamento live
all’Istanbul Cafè con il reggae dei brindisini
Mama Roots. La band parte dalle cover
dei classici della musica proveniente dalla
Jamaica, alle quali dà un’interpretazione
molto personalistica colorata dai diversi stili
reggae (roots, rock-steady, ska, ragga) e da
spunti rock e soul. Inizio ore 22.30. Ingresso con
consumazione.
Il 28, 29 e 30 dicembre il gruppo salentino
Cucuwawa promuoverà il suo primo singolo
“Sunshine” in tre negozi della Sisley a Taranto,
Lecce e Gallipoli. I Cucuwawa consegneranno
a tutti coloro che effettueranno un acquisto nel
punto vendita una copia del singolo. La colonna
sonora sarà curata dai dj Sonic The Tonic, Sgt
Pepe e dj 13.
L’ultimo giovedì dell’anno all’Istanbul Cafè
si festeggia con Ska Combat, una miscela
esplosiva di generi musicali per una serata dal
divertimento doppio. La mitica Ska in Town,
la storica festa ska a cura del Dj Sonic the
Tonic si unisce alle sonorità del rock, del punk,
del soul e diventa Ska Combat. Ingresso con
consumazione.
29 dicembre
Istanbul Café
Dj Rosability
29 dicembre
Planet – Lequile
General Levy + Sud Sound System
29 dicembre
Lohengrin Pub – Tricase
Bludinvidia
Serata all’insegna della musica da ballare
all’Instanbul Cafè di Squinzano. In consolle la
giovane promessa dj Rosability, conosciuto
negli ambienti dei discotecari anche come dj
Scaramuccia per la sua indole rissosa con i piatti.
Ingresso con consumazione.
Il Salento si conferma terra di reggae anche a
dicembre. Sonoria Promotion e CoolClub il 29
dicembre festeggiano l’anno che si chiude con
un appuntamento imperdibile per gli amanti
della musica in levare. In consolle al Planet
di Lequile Sud Sound System e General Levy.
Ingresso 10 euro.
Il 29 Dicembre i Blundinvidia saranno di scena
al Lohengrin di Tricase in una particolarissima
e suggestiva versione unplugged inaugurando
così il nuovo tour promozionale che li porterà a
suonare in tutta Italia dall’inizio del 2005.
Nino della Notte (1910-1979)
a cura di Marina Pizzarelli - Allestimento
Francesca Fiore
Castello Carlo V – Lecce
Fino al 6 febbraio
di Rita Miglietta
L’Assessorato alla Cultura della città di Lecce ha
inaugurato uno stimolante progetto culturale: tre
retrospettive dedicate ai tre artisti: Lino Paolo
Suppressa, Geremia Re e Nino della Notte,
figure centrali della cultura salentina del primo
e secondo novecento. Un viaggio a ritroso verso
un lungo tempo culturale, dispiegato tra l’ultimo
dopoguerra fino agli anni settanta ed entro il
quale artisti, intellettuali e artigiani edificavano
una identità culturale salentina. Ad aprire questo
viaggio: quadri, manifesti e disegni di Nino della
Notte (1910-1979), esposti nel Castello Carlo V
fino al prossimo febbraio. L’importanza di questa
manifestazione che ci piace pensare come un
progetto, scaturisce non solo dall’opportunità
di vedere il lavoro degli artisti, ma anche dal
fatto che, osservando le immagini salentine, ora
di Nino della Notte, e scorgendone le influenze
delle avanguardie artistiche del novecento,
deve nascere l’opportunità per riflettere sul sud,
sui luoghi geograficamente provinciali dove pure
è stato ed è possibile sentirsi parte di uno spazio
più vasto come l’Europa e dove, soprattutto, può
risiedere la consapevolezza del rinnovamento,
che non è maniera ma ricerca e tensione
costante.
30 dicembre
Chalet del mar - Gallipoli
Boo Boo Vibration – Cucuwawa – Ska in town
30 dicembre
Istanbul Cafè - Squinzano
Insintesi
7 gennaio
Istanbul Cafè - Squinzano
Sylvain Chauveau
Sull’asse emiliano salentino il penultimo giorno
dell’anno si vive a Gallipoli al suono del reggae
e dello ska, del rock e della packanka. Sul
palco i salentini Cucuwawa aprono il concerto
dei bolognesi Boo Boo Vibration. A seguire le
selezioni musicali dei dj di Ska in town. Ingresso
5 euro.
Serata dedicata agli appassionati dell’elettronica
con Insintesi, un progetto nato nel ‘98 che
partendo dal “drum’n’bass”, dal”dub” ed dal
“trip-hop” ha dato una propria chiave di lettura.
Checco e Pastic saranno in consolle. Ingresso
con consumazione.
Grande appuntamento con la musica d’autore
francese all’Istanbul cafè di Squinzano. Sul
palco Sylvain Chauveau (piano and guitar solo
set) preceduto da Arca e Angle. Ingresso con
consumazione. Il 5 gennaio appuntamento con
Tobia Lamare e la sua Montecarlo Night.
sino all’8 gennaio
Spazio Dawn - Lecce
ArteArchitetturaAmbiente
14 gennaio
Istanbul Cafè - Squinzano
The Juniper band
28 gennaio
Cantieri Koreja – Lecce
Via
Prosegue la mostra a cura di Anna Cerignola dal
titolo ArteArchitetturaAmbiente. In esposizione i
lavori di Hidetoshi Nagasawa, Toti Semerano e
Xlavio. Lo Spazio Dawn è in via XXV Luglio 59 a
Lecce.
Appuntamento live all’Istanbul café con The
Jupiner Band. La loro musica è uno stato
mentale, che attraversa il songwriting più
intimista e caldo per dirigersi verso più duri
territori space-pop, lungo una strada diretta
ed emozionale, con una ruota nel fango e
l’altra sulla strada. Inizio ore 22.30. Ingresso con
consumazione.
I Cantieri Koreja ospitano per la rassegna Strade
Maestre lo spettacolo Via di e con Fabrizio
Saccomanno affiancato sul palco da Cristina
Mileti. Partendo dai nomi delle strade di un
qualsiasi paesino del basso Salento lo spettacolo
racconta dei viaggi verso il nord Europa, del
lavoro in miniera e della strage di Marcinelle
in Belgio.
APPUNTAMENTI
mercoledì 22 dicembre
Raiz Family ai Cantieri Koreja - Lecce
giovedì 23 dicembre
Rave al Jazzy - S. Caterina (Nardò)
Super Reverb all’Heineken green stage
- Tricase
sabato 25 dicembre
Granma allo Zizò pub - Aradeo
domenica 26 dicembre
Appuntamento da non perdere al
Barrueco di Santa Caterina con i dj di
CoolClub Postman Ultrachic e Tobia
Lamare
martedì 28 dicembre
Blood Sugar al Piper - Melendugno
Super Reverb all’El Rojo - Alezio
giovedì 30 dicembre
Dinamo Rock al Jack’n’Jill - Cutrofiano
Super Reverb al Mokà - Corsano
Gianfranco Rizzo Soul Band al Morrison’s
Pub - Martano
venerdì 31 dicembre
Dinamo Rock e Blood Sugar al
Lohengrin - Tricase
domenica 2 gennaio
Super Reverb al Lohengrin - Tricase
mercoledì 5 gennaio
Urla dal balcone ai Cantieri Koreja Lecce
Montecarlo Night con Tobia Lamare
all’Istanbul di Squinzano
giovedì 6 gennaio
Granma al Big Ben - Brindisi
venerdì 7 gennaio
Love or Confusion al Transilvania Lecce
sabato 8 gennaio
Coriolano con Alessandro Gassman al
Politeama Greco - Lecce
domenica 16 gennaio
Il ritorno del Barone di Munchausen ai
Cantieri Koreja - Lecce
lunedì 17 gennaio
Alti e bassi con Olcese e Margiotta al
Cinema Elio – Calimera
martedì 18 gennaio
Alti e bassi con Olcese e Margiotta al
teatro Fasano - Taviano
giovedì 20 gennaio
Foredecapu Blues Band al Soirèe Castrignano dei Greci
Venerdì 21 gennaio
Edith Piaf - L’hymne à l’amour al Teatro
Moderno - Maglie
sabato 22 gennaio
Caligola ai Cantieri Koreja – Lecce
mercoledì 26 gennaio
Bersagli di vetro al Teatro Illiria Poggiardo
domenica 30 gennaio
In volo ai Cantieri Koreja – Lecce
per le vostre segnalazioni scrivete a
[email protected]
tutti gli altri appuntamenti sul sito
www.coolclub.it
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MILANO CSIDE 3_12_2004
INTERPOL LIVE
Arriviamo presto al C-side, abbiamo venti minuti per fotografare gli Interpol, uno dei gruppi del momento, il concerto è già
soldout e nel locale fervono i preparativi. Mentre Alice allestisce il set per il servizio gli Interpol fanno il soundcheck. Rilassati
e divertiti improvvisano un paio di mazurche per provare i suoni, chi lo avrebbe mai detto da un gruppo paragonato ai Joy
Division. Le premesse sembrano delle milgiori, un suono compatto e canzoni che suonate live acquistano maggior colore e
spessore. Il primo a raggiungerci è il batterista Samuel, cordiale ci confida di essere molto provato da questo tour europeo
che li vede in giro da settimane, è contento dice ma non vede l’ora di tornare a casa e riabbracciare la sua ragazza per
Natale. Arrivano gli altri e senza alcun divismo si fanno fotografare, disponibili a seguire indicazioni, scherzano tra di loro
mentre il cantante Daniel Kessler gioca con uno yo yo. A due ore dal concerto c’è già fila fuori dal locale. In circa duemila
alla fine, stipati aspettiamo l’inizio che arriva con una travolgente Next exit l’accoglienza è un boato. Generosi alternano
brani del primo album e del nuovo Antics con un suono avvolgente e un modo di suonare stilosissimo. C’è vigore più che
nei dischi, la voce di Daniel è bellissima e la gente in estasi canta a memoria dalla prima all’ultima canzone. Acclamati si
concedono anche nel rituale bis che lascia tutti soddisfatti, compreso il sottoscritto.
Osvaldo
ph Alice Pedroletti
L’onda scura degli Interpol
Qualcuno ha detto che il secondo album
è sempre il più difficile!! Perché lo avete
chiamato “Antics”? Se non sbaglio significa
scherzo, gioco, non vi prendete troppo sul
serio?
Sicuramente la stesura del nuovo album
è stata più difficile perché c’erano molti
più fattori che hanno condizionato la
registrazione e la creazione del nuovo disco,
sicuramente molte più pressioni e aspettative
da parte di tutti! Pubblico, casa discografica
e così via… lo abbiamo chiamato così...
effettivamente significa gioco… lo abbiamo
fatto per divertimento ma soprattutto perché
volevamo essere più tranquilli, rilassati
nell’approccio e non presuntuosi, abbiamo
cercato di non prenderci troppo sul serio a
dispetto della nostra immagine che lo è... non
credi?
Come è cambiato il vostro approccio alla
musica tra la prima incisione e questo nuovo
disco, intendo la vostra idea di musica, di
suono rispetto all’aumentare delle aspettative
In verità nulla è cambiato, il nostro modo
di scrivere canzoni, di dedicare tempo alle
incisioni e lo stesso vale per la nostra attitudine
a lavorarci su; forse l’unica differenza è che
ora siamo più bravi nello scrivere le canzoni
perché abbiamo più esperienza rispetto a Turn
on the bright light.
Per quanto riguarda le aspettative eravamo
un pò preoccupati perché dopo il successo
del primo disco la pubblicità intorno al nuovo
è stata molto forte...anzi troppo e questo
ha sicuramente creato delle aspettative
maggiori da parte del pubblico e se le
aspettative su di un disco sono alte e poi
questo disco quando esce non è bello…
beh non ci fai una bella figura!!!!!! Noi
però abbiamo cercato di restarne fuori il
più possibile per non essere condizionati…
almeno mentalmente… non ci sentiamo
migliori rispetto al primo album ma siamo
soddisfatti di come è stato fatto e di come
suona… sarà poi la gente a decidere il resto!!
Qualcosa però è cambiata in questo nuovo
disco, dai testi alla musica che ha un suono
più aperto
Dei testi hanno detto che sono più romantici,
ma non saprei dire con certezza… ma
preferirei parlare del suono: nella registrazione
del primo disco non avevamo un’idea di un
album completo, suonavamo da un po’ di
tempo, avevamo delle canzoni di cui forse
non conoscevamo ancora il potenziale;
in “Turn on the Bright light” ci sono varie
registrazioni messe insieme, suona tutto
un po’ uguale!! Per questo nuovo album
invece avevamo questa idea e visione di LP
completo ed i brani sono diversi tra loro…
è un disco molto più dinamico, volevamo
trasmettere questo e credo che ci siamo
riusciti!
Siete ormai annoiati dalle continue analogie
che si fanno con voi rispetto a gruppi del
passato come Joy Division per citarne uno a
caso?
Assolutamente sì!!! Perché noi abbiamo il
nostro suono e magari ci paragonano a band
che non abbiamo mai (ndr !!?) ascoltato… e
quindi preferirei non parlarne!!!
Invece ultimamente che cosa state
ascoltando, so che avete ascolti diversi
all’interno del gruppo
Sì è vero ognuno di noi ascolta cose diverse
ma non stiamo ascoltando molto in questo
periodo, siamo più interessati alla nostra
musica ad ascoltarla e cerchiamo nel mentre
delle soluzioni diverse rispetto alla creazione
di qualche remix o versione da proporre dal
vivo diversa ovviamente da quella originale;
in verità passiamo molto più tempo a
guardare film che comprare dischi e quindi
se devo essere onesto con te non mi ricordo
assolutamente per esempio l’ultimo disco che
ho comprato!!!
Ma avete al momento una band che stimate
più di altre...oltre agli Interpol ovviamente!!
I Cure sono al momento la mia band preferita
anche se apprezzo altri gruppi come per
esempio i Mogwai... che sono grandi!!
Il vostro rapporto con il pubblico? Le vostre
tinte “noir” hanno incuriosito la nuova
generazione dark!
A noi non interessa avere un pubblico
stereotipato! Qualcuno ha voluto tirar fuori la
questione del “ghothic”! ma l’essere dark è
una cosa creata dalla stampa o dai continui
accostamenti musicali che hanno fatto i
media o anche dal nostro modo di vestire
forse… ammetto che abbiamo ascolti in tal
senso come Bauhaus o Cure ma non sono gli
unici! Siamo un gruppo tendenzialmente rock,
vogliamo piacere anche al popolo dell’indie
rock, infatti in America il mondo “gotico”
non ci segue, succede solo e unicamente in
Europa ma non sappiamo il perché…lo trovo
buffo!!!!
New York al momento è un posto sicuramente
vivo e stimolante per produrre musica
soprattutto dopo il risveglio in questi ultimi
anni di una nuova scena musicale...ma esiste
veramente una nuova scena?
È vero ci sono molte band che suonano e
producono musica a New York, e non saprei
dire come si sia svegliata la città, più o meno
ci conosciamo tutti e anche se NY è grande
ci incontriamo negli stessi luoghi e stiamo
bene insieme e quindi alla fine non credo
che si possa parlare di una vera e propria
scena musicale e artistica; esiste un rapporto
di amicizia tra di noi come se fossimo una
specie di comunità… se devo farti dei nomi
mi piacciono molto gli Yeah Yeah Yeahs e
Rapture, credo che siano molto interessanti,
da non perdere dal vivo!!
Qualcosa sulle imminenti elezioni? Anche se
credo non siate molto interessati alla politica!
È vero non siamo molto interessati alla politica
ma le elezioni sono qualcosa che in modo
diverso toccano un po’ tutti!! Tutta New York
è assolutamente contro Bush!!! Speriamo che
cambi qualcosa!!! Anche se dai sondaggi… e
questo lo trovo molto strano... molti americani
trovano Kerry poco fotogenico e divertente,
e questo potrebbe essere un punto a suo
sfavore….
(ndr: questa ultima domanda ovviamente è
stata fatta prima delle elezioni presidenziali
americane, tutto è stato già deciso e riguardo
all’essere “fotogenico e simpatico” rispetto a
dei crimini di guerra insanabili la dice lunga
sul modo di pensare di questo popolo!!!!!!!)
Carlo Chicco
ph Alice Pedroletti
CoolClub
.it
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THE NEW COLORS OF COOLCLUB
Il commiato del direttorex
… la tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato
su noi due… è ascoltando Incontro di Guccini che scrivo le mie
prime, tristi, righe da ex direttore di Coolclub.it. Concedetemi, cari
lettori, e soprattutto lettrici, poche parole di un saluto che, benché
già annunciato, mi lascia logicamente un pizzico di malinconia,
attenuato per fortuna da qualche vantaggio di questa mio
passaggio di consegne. Innanzi tutto mi rinfranca la contropartita
offertami dal caro, bello e amabilissimo neo Direttore Piliego che,
in cambio del mio “nulla osta”, si è impegnato fin da subito, vista
la morigerata vita che il suo nuovo e autorevole ruolo gli impone,
di dirottare su di me le costanti attenzioni del drappello di sue
ammiratrici. Sollecitando loro di manifestare le grandi o nascoste
doti consolatorie. Ma la tristezza del saluto è ancor di più attenuata
dal fatto che, avendo tenuto a battesimo il primo numero ufficiale
di Coolclub.it, da buon ex direttore ma sempiterno padrino,
continuerò ad essere partecipe delle sue sorti, e di quelle dei lettori.
Ma c’è dell’altro: come leggerete nella gerenza, il mio è solo un
saluto parziale, è più un “declassamento” da direttore responsabile
a piccolo, semplice, umile membro del collettivo redazionale. In
quanto tale però, sarò in buona compagnia e spesso, mi auguro,
partecipe sia di collettive luculliane abbuffate nonché di frivole e
viziose riunioni redazionali, appuntamenti dai quali, la mia alta e
autorevole veste di direttore, nel corso di questi mesi mi ha tenuto
un po’ lontano. Un saluto cari lettori; a voi carissime lettrici, rinnovo
l’invito ad alleviare la sottile malinconia, di prevenire i probabili futuri
attacchi di tristezza e ansia e di riempire il vuoto lasciatomi dal fatto
di non essere più Direttore Responsabile di Coolclub.it.
Ciao, grazie e… sigh!
Dario Quarta
Come vi sarete accorti
CoolClub.it è a colori.
Non indugio sui contenuti,
magistralmente snocciolati da
Osvaldo il nuovo direttore, e
sulle motivazioni che ci hanno
condotto alla dolorosa scelta,
commoventemente narrate
dalla prima penna Dario.
Consegno ai lettori nuovi e
a tutti quelli che ci seguono
da sempre, che fanno di
CoolClub.it il giornale più letto
nei bagni degli universitari
leccesi, solo alcune riflessioni
poco organiche e (per molti)
inutili su questo territorio
che ormai viene da tutti
riconosciuto semplicemente
come Salento. Non so
bene come spiegare la mia
perplessità ma più passano
gli anni più mi accorgo che
molti hanno giocato intorno ad
una identità forse inesistente
o esistente solo in parte. Così
il Salento per alcuni salentini
si trasforma nell’unica realtà
possibile, nell’unico mondo
autentico, nell’unica meta dei
turisti di tutto il globo, nella terra
più fertile, più ricca di ulivi e
vite, nella sola donna pizzicata
dalla taranta, nella patria di
animali in via di estinzione.
Tutti coloro che muovono
passi sono i primi. Primi editori,
primi registi, primi organizzatori,
primi tra i primi. Unici e soli.
Il Salento è diventato luogo
e si è identificato in una
provincia che si muove,
cresce, migliora, sfrutta le
congiunzioni internazionali e
nazionali positive per diventare
qualcosa di importante. Ma
il rischio è di avvilupparsi
nella propria bellezza, di
considerarsi troppo altri dagli
altri e di non accettare più
le diversità, le meravigliose
novità che il confronto e lo
scontro consegnano. Dall’altra
parte invece c’è la necessità
della fuga, della continua
scontentezza rispetto alla
mancanza di interessi, di
cultura, di movimento. La terra
del rimorso si trasforma nella
terra del lamento. Troppo bello
o troppo brutto. Non si sono vie
di mezzo? Il Salento in realtà
è come tutte le altre terre. E
i salentini sono come tutte le
altre persone. Bisogna solo
lavorare per andare avanti
e cercare di migliorare. Tutto
il resto sono chiacchiere per
cercare un turista in più…che
scoperto l’inganno potrebbe
non tornare!
Pierpaolo
23
“Si muore un po’ per poter vivere”
cantava il caschetto d’oro negli anni
sessanta. Avendo tra le mani questa
nuova versione di Coolclub.it, forse
molti penseranno che il giornale, e chi
lo fa, non sono più gli stessi. Qualcuno
penserà, è inutile negarlo, che il
collettivo “ha fatto i soldi”, qualcun
altro penserà che ha venduto
l’anima al diavolo, altri ancora
penseranno che semplicemente il
giornale si è snaturato, che ha perso
quell’aria “alternativa” che lo faceva
distinguere nel mare dei giornali
patinati e a colori e gratuiti che
circolano nei nostri pub. Tutti pensieri
leciti, per carità, ma come rispondeva
Lenin a chi gli diceva “compagno
permettici di criticarti” “ e voi
compagni permettetemi di fucilarvi”,
lasciate che io possa rispondere a chi
storcerà il naso guardando la nuova
veste di questo foglio.
Parto intanto dalle novità più rilevanti.
Da oggi Coolclub.it è a colori. La
precedente scelta del bianco e nero
era dettata da due motivi essenziali:
uno, il più basso, ma purtroppo il
più vitale era economico, l’altro era
puramente stilistico. E fin qui siamo
tutti d’accordo, il vecchio giornale
piaceva, o almeno, è quello che
ci avete sempre detto. Ma perché
allora passare al colore? Il primo
motivo, quello economico non è
cambiato, e infatti questo mese
il collettivo mangerà in bianco. Il
secondo motivo, quello stilistico è
stato modificato. Il tipo di grafica che
ci piace è una grafica essenziale,
minimalista quasi, e questo tipo di
grafica predilige il bianco e nero. Ma
è nostra natura esplorare l’inesplorato,
vedere dove si può arrivare, offrire
sempre qualcosa di nuovo, un
prodotto di qualità crescente, sempre
migliore, sia nei contenuti che nella
veste tipografica. Cambia la carta,
aumenta la tiratura, aumentano
le pagine, aumentano i contributi
esterni (sempre di altissima qualità, e
ne approfitto ancora per ringraziare
tutti gli amici che ogni mese fanno
sì che questo giornale possa uscire
con nuove recensioni, nuovi articoli e
nuove idee).
Lo sforzo che abbiamo fatto per
produrre questo giornale (che
rimane gratuito, unica cosa che non
cambierà mai) è stato notevole ma
non ha prodotto i frutti sperati. Come
è stato finora Coolclub.it è un’impresa
a perdere. La mancanza di fondi fa sì
che il giornale venga autofinanziato
da chi lo fa. E qui altre due novità,
una visibile l’altra no.
Questo pezzo, lo sapete, nel vecchio
giornale sarebbe stato in quarta di
copertina. Come potete vedere la
quarta di copertina adesso ospita
della pubblicità. È stata una scelta
dolorosa ma obbligata. Senza quei,
pochi, soldi che i nostri sponsor
ci mettono a disposizione questo
giornale non vedrebbe la luce. E fra
le due cose (vendere una pagina di
pubblicità e non pubblicare il giornale)
abbiamo scelto la prima e spero che
sarete tutti d’accordo con me.
La novità invisibile è che presto verrà
lanciata una campagna associativa
all’associazione culturale Coolclub.
Siete tutti invitati a sostenere il
nostro lavoro. I dettagli saranno resi
noti in futuro, per ora basti sapere
che saranno previste tre quote
associative: socio tesserato, socio
ordinario e socio sostenitore. Finora
i soci di Coolclub erano pochi. È
arrivato il momento di diventare
tanti e condividere sempre di più
questa esperienza, che speriamo
vivamente, faccia parte della nostra
vita collettiva.
Un ultimo, doveroso, e essenziale,
ringraziamento va a tutti voi che
ci avete sostenuto, incoraggiato,
criticato in maniera intelligente e
costruttiva aiutandoci sempre a
rendere migliore questo pccolo frutto
della nostra fantasia e della nostra
voglia di fare qualcosa di diverso in e
per questa nostra città.
dario
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