Domenico Pezzini
L'acqua e la rosa
Traditio fidei come traditio amoris:
trasmettere la fede è educare all'amore
L'acqua e la rosa sono state all'inizio un quadretto del
grande pittore spagnolo Francisco de Zurbaràn (1598-1664),
che mi abbagliò come una rivelazione la prima volta che lo
scoprii quasi per caso alla National Gallery di Londra. Di
dimensioni modeste, tali che si rischia neanche di vederla, la
piccola tela mostra, su un tavolo appena percettibile, una
brocca in cui si intravede un filo d'acqua e una rosa recisa
posate su un vassoio di peltro. Nient'altro. Il fondo nero mette
ancora più in risalto queste due cose essenziali in cui non è
difficile vedere una metafora di quanto costituisce la materia
primaria del vivere: l'acqua, appunto, da cui la creazione è sorta
e per la quale rimane nell'esistenza, e la bellezza, simboleggiata
nel fiore che per antonomasia indica l'amore. Sono stato
contento quando ho potuto realizzare il sogno di scegliere
quell'immagine per la copertina e il titolo di un libretto nato un
po' occasionalmente e dedicato a illustrare qualche regola
elementare del vivere in relazione1.
Sarà stato un caso, ma ho ritrovato acqua e rosa nei versi
densi e a loro modo programmatici di una poetessa inglese che
ha dedicato molto della sua riflessione al tema delle
D. PEZZINI, L'acqua e la rosa. Piccola grammatica della vita di relazione,
Centro Ambrosiano, Milano 2006.
1
relazioni interpersonali2. Elizabeth Jennings (1926-2001)
riprende le due immagini in una poesia in qualche modo
programmatica, Beyond Possession (Oltre il possesso), esattamente per dire che l'essenza più pura della relazione vissuta
in libertà di cuore è la gratuità: non è necessario schiacciare i
petali per avere il profumo della rosa, e non è possibile, anzi è
decisamente stolto, pretendere di fissare i lineamenti, nostri o
altri, su un'acqua che scorre. In parole povere: la relazione,
ogni relazione, con gli oggetti come ancor più con le persone,
muore nel momento in cui pensiamo di impadronirci dell'altro,
di mettere le mani in modo rapace su ciò che sveglia il nostro
desiderio.
La Jennings ritorna spesso sulla metafora dell'acqua, in cui
non è difficile vedere i vari aspetti della vita3. E simbolo della
labilità e transitorietà delle cose, come si è appena visto, con la
conseguenza che si è detto. Ma l'acqua di una fontana rimanda
anche immagini di prodigalità, creatività, eleganza, e chi la
osserva vi coglie «l'ammansire / il restar saldi nel fiorire di
mille spruzzi / che costruisce questa energia», al punto da
intuire «nella tensione un'immagine di calma sovrana, / una
quiete» (Fontana). Quella calma che a volte è cullata dal gocciolio lento e regolare della pioggia, un po' come le note di una
sonata per piano con cui Mozart «elabora il silenzio» (Mozart
nel cuore della notte). E l'acqua, in una metafora riassuntiva,
appare soprattutto emblema di docilità (Musica d'acqua): l'acqua
si adatta, precipita dalle rocce «per giungere alla quiete molto
più in basso», si distende in larghi estuari ove l'impeto della
sorgente rallenta e si placa, sa adattarsi alle sinuosità delle rive,
e se incontra un
2
E. JENNINGS, La danza nel cuore delle cose, a cura di D. Pezzini.
Editrice Ancora, Milano 2007.
3 Ho esplorato brevemente il tema in "L'immaginario dell'acqua
nei versi di Elizabeth Jennings", Il Piccolo, settembre/ottobre 2007,
22-23. I testi citati si trovano in questa antologia.
ostacolo si trasforma in spruzzi festosi che fanno pensare ai
riccioli di una testa solleticata dal vento.
Ora, cosa ha a che fare tutto questo con il tema della
relazione, e ancora più con la relazione in rapporto alla
trasmissione della fede? Moltissimo, perché se è vero che
«l'acqua è la vita, la rosa è la bellezza, e la relazione è la bellezza
della vita», non si vede come da questo cerchio magico possa
essere esclusa la fede, proprio per il rapporto intrinseco che
essa ha sia con la vita che con la bellezza, e ancora più con la
relazione interpersonale. In effetti, la risposta è già nella
domanda, perché se traditio significa trasmettere, questa è
un'operazione che non si dà se non all'interno di una relazione
in cui uno passa qualcosa a qualcun altro, dove, ovviamente, i
ruoli di chi dà e di chi riceve non sono né rigidi né immutabili.
Anche in questo caso è l'immagine del cerchio quella che
meglio aiuta a comprendere come funziona la trasmissione.
Volendo riassumere il tutto in poche affermazioni, diciamo
che la relazione è (1) il contesto in cui avviene la trasmissione,
(2) il contenuto che è trasmesso, e (3) il frutto che germoglia in
chi accoglie il messaggio. Quanto segue altro non è che uno
sviluppo di queste tre affermazioni capitali.
1. La relazione è il contesto in cui avviene la trasmissione
Cosa si intende quando si dice che la trasmissione della
fede, che normalmente chiamiamo catechesi, avviene in un
contesto di relazione? Certamente il fatto che c'è qualcuno che
parla e qualcuno che ascolta. La cosa, a ben vedere, accade
anche quando si legge un libro in solitudine. Perché l'autore
del libro è pur sempre una persona con la quale entro
spiritualmente in contatto dal momento che mi metto in
ascolto di quanto ha scritto. C'è, però, nella trasmissione della
fede molto di più di un
semplice contesto esterno che mette in rapporto due
strumenti, un trasmettitore e un ricettore. Se la catechesi,
qualunque forma assuma l'annuncio, avviene in un contesto
relazionale povero o nullo il fallimento è garantito. Questo
anche solo in ragione del messaggio, che ha a che fare con la
vita nei suoi aspetti più fondamentali. Nel linguaggio cristiano
la densità incredibile che deve possedere la trasmissione fino a
far scattare una relazione tra chi parla e chi ascolta ha un nome
ben noto: si chiama testimonianza. Il termine, con il suo
ricchissimo retroterra biblico, dice molto, e ha fatto bene il
Documento Base per il Rinnovamento della Catechesi (RC) a ricordare
che «la predicazione non è semplice comunicazione di sapere,
ma trasmissione di una parola che invita, interroga, provoca,
consola, crea comunione e salva» (n. 35). Siccome il problema
è trasmettere una «mentalità», e non delle semplici nozioni, si
dice ancora che «la mentalità di fede è radicata nella persona...
Con la grazia dello Spirito Santo, ciascuno sviluppa le sue
facoltà di ammirazione, di intuizione, di contemplazione, di
giudizio, di adorazione, fino a ratificare coscientemente la fede
che ha avuto in dono» (n. 41). Ognuno vede come tale
processo, in cui sono in gioco una mentalità da trasmettere e
una persona che la trasmette ad altre persone, non possa
avvenire se non in un contesto relazionale significativo, del
tipo di quello che esiste, per intenderci, tra una mamma e il suo
bambino, o di quello che Gesù ha illustrato nella celeberrima
metafora del pastore in rapporto con le sue pecore.
2. La relazione è il contenuto che è trasmesso
Quanto detto assume un valore ancora più grande se si
pensa che al centro dell'annuncio cristiano sta un Diorelazione, un Dio-Trinità. Qui si rende necessario evitare
ogni intellettualismo o l'istinto facile di confinare la fede nella
Trinità in qualche ritualismo sterile, dal segno di croce tracciato
come una formula magica alla percezione del sacramento come
"cerimonia" tutta esterna o quasi. Il rischio c'è. Il cristiano, ci
dice il Vangelo, è "ammaestrato" (vedi sopra), cioè educato a
vivere la condizione del discepolo, e "battezzato" nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (cfr. Mt 28,19). Che
significa? Basta forse un rito, per quanto elaborato e ricco di
significati illustrati per bene, a far funzionare le cose? Basta un
po' d'acqua per chiudere i conti con il "peccato originale" di
cui laverebbe la "macchia" e fissare la persona in una
condizione provvidenziale di anagrafe cristiana al riparo da
sanzioni e castighi? Nessuno dovrebbe essere così ingenuo da
poterlo anche solo pensare.
I simboli, in effetti, funzionano quando il loro senso è
colto, e quando la comprensione che ne deriva si materializza
in azione. Le catechesi battesimali dei Padri sono a questo
proposito una miniera di suggestioni, tanto più efficaci quanto
più legate alla concretezza visiva ed emotiva di immagini e
gesti. Ma basterebbe anche solo partire proprio dal senso
etimologico del verbo "battezzare", che significa immergere
completamente nell'acqua. L'acqua è simbolo archetipo di vita
e di morte. Nell'acqua si nasce, nell'acqua si annega. Due sono,
mi sembra, le applicazioni che la figura dell'acqua suggerisce.
Penso anzitutto alla spugna, che immersa nell'acqua se ne
imbeve e, spremuta, la restituisce. E se la spugna deve servire
allo scopo va continuamente immersa, perché una spugna
secca non serve a niente. Del resto, sarebbe bene ricordare che
il segnarsi con l'acqua benedetta entrando in chiesa altro non è
se non il gesto di chi vuole far rivivere le acque del suo
battesimo nel momento in cui nell'azione liturgica torna a farsi
"corpo" con quella comunità in cui il battesimo, appunto, l'ha
innestato. Si pensi
allora a cosa può voler dire essere battezzati nel nome della
Trinità: significa essere, e rimanere, immersi nella logica
relazionale di Dio, nientemeno. Come dire che il paradigma di
riferimento per la vita del cristiano è il modo di rapportarsi
delle tre persone, in cui la distinzione non genera conflitto od
opposizione, ma fa sorgere la sinfonia della complementarità,
in cui uno si definisce in rapporto all'altro. E un discorso che
può parere astratto. In realtà noi non sappiamo niente di Dio.
C'è, però, la via regale per entrare in questo mistero, ed è Gesù.
Il Padre è il suo riferimento costante: con lui è "uno"; lo
Spirito è il suo fiato che egli nella sua morte e risurrezione
offre al mondo perché viva della sua vita. Gesù, l'uomo di
Nazaret, è il crocevia che con la sua vita racconta la Trinità:
una rete di relazioni in cui la regola è il dono, ricevuto dal
Padre e donato nello Spirito. Come ben riassume il
Documento Base: «Il sublime mistero della vita di Dio, Padre, Figlio
e Spirito Santo, deve essere proposto dalla catechesi nella maniera con cui
è stato rivelato al mondo, e cioè, supremamente, attraverso la conoscenza
e l'esperienza che ne ebbe Gesù e che Egli ha annunciato e offerto agli
uomini» (RC n. 82).
C'è però una seconda immagine legata all'acqua: la morte e
la rinascita, quella così splendidamente illustrata dai verbi usati
da Marco per Gesù, che «è battezzato», cioè immerso fino in
fondo nell'acqua, da cui, però, «risale» (Mc 1,10). In una parola
la kenosi e l'ascensione, l'abbassamento e la glorificazione (cfr.
Fil 2,1-11). Il cristiano sa che tutta la sua vita è sotto il segno di
questo morire per nascere, morire a un modo relazionale
segnato dall'istinto di possesso per rinascere a un modo di
essere marcato dalla logica del dono. Qui l'acqua diventa vita,
perché vivere non è altro che rimanere immersi nella rete della
relazione trinitaria. Come scrive brutalmente Giovanni: «Siamo
passati dalla morte alla
vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte»
( 1 Gv 3,14).
Vorrei infine accennare a una terza immagine utilizzata dai
Padri: il fonte battesimale come utero della Chiesa. Lì uno è
concepito e covato fino al tempo stabilito, da lì, però, deve
uscire se vuole vivere. E un tema su cui lascio a ciascuno di
riflettere, perché è cruciale entrare in questa dialettica di dentro
e fuori. La comunità di fede, a cominciare da quella microcomunità che è la famiglia, funziona da utero in quanto lì si
impara a «formare la mentalità cristiana», che significa «nutrire
il senso dell'appartenenza a Cristo e alla Chiesa» (RC n. 43). Più
in dettaglio tale "«mentalità» è il frutto di un «educare i credenti
all'adorazione, al rendimento di grazie, alla penitenza, al senso
della comunità, alla familiarità con i segni che indicano la
presenza di Dio e in vario modo la comunicano» (RC n. 44).
Ma tutto questo non ha come traguardo la costruzione di un
utero caldo in cui crogiolarsi e, alla fine, morire. Se la fede nella
Trinità, così come ce l'ha rivelata Gesù, diventa una scuola di
relazioni, è necessario che la lezione venga esportata. I luoghi
dove il cristiano vive la sua fede, infatti, sono la mensa e la strada4, la comunità eucaristica e la comunità degli uomini. E
scritto ancora nel Documento Base, citando il Concilio, che «la
grazia del rinnovamento non può avere sviluppo alcuno nelle
comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della
sua carità sino ai confini della terra, dimostrando per quelli che
sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i
suoi propri membri» ( A d Gentes 37, citato in RC n. 88).
4 Sulla rilevanza cruciale di queste due metafore e le loro ricche
implicazioni mi permetto di rimandare a D. PEZZINI, ha strada e la
mensa. Il discepolo nel vangelo di Luca. Edizioni Paoline, Milano
2005.
3. La relazione è il frutto che germoglia in chi
accoglie il messaggio
A questo punto del discorso, affermare che la relazione sia
anche il frutto della traditio fidei è quasi pleonastico. E in realtà,
la distinzione che si è qui operata è tutto tranne che una
sequenza cronologica di momenti da vivere in successione. I
tre aspetti della traditio, infatti, contesto, contenuto e frutto,
stanno o cadono tutti insieme. Lo ricorda ancora il più volte
citato documento sul rinnovamento della catechesi: «Il mistero
cristiano è un mistero di "comunione". Nella catechesi non ci si deve mai
stancare di presentare in questa luce ogni verità e ogni atto. Tutto il
cristianesimo, nelle affermazioni della sua fede, nella sua costituzione
vitale, nella liturgia, negli impegni che propone, nelle mete che annuncia,
ha una struttura eminentemente comunitaria, che non può mai
essere disconosciuta» (RC n. 78, sottolineatura mia). Non ho
l'impressione che tale modo di pensare sia diffuso.
Dovrebbe essere una seconda natura per il cristiano, la
prima per importanza, ma basta vedere certe liturgie per avere
la netta percezione che anche il culto, che più di ogni altra
azione dovrebbe manifestare questo "mistero di comunione", è
spesso inteso più come un self-service che non lascia traccia
alcuna sul modo di vivere le relazioni tra le persone.
Evidentemente si è persa qualche connessione. Perché,
tanto per cominciare, bisognerebbe ricordare che Cristo è «il
centro vivo della fede», e «cristiano è chi ha scelto Cristo e lo segue» (RC
n. 57). Ne scende che Gesù è il nucleo centrale della traditio, e
cosa ne consegue? Proprio perché questo non rimanga un
concetto vuoto, si veda in che termini è descritta la
"personalità di Gesù "che il discepolo deve assorbire. La
catechesi, infatti, che scaturisce dal principio appena ricordato
è chiamata
a mettere in risalto «i lineamenti che meglio lo rivelano all'uomo del
nostro tempo: la sua squisita attenzione alla sofferenza umana, la
povertà della sua vita, il suo amore per i poveri, i malati, i peccatori, la
sua capacità di scrutare i cuori, la sua lotta contro la doppiezza
farisaica, il suo fascino di capo e di amico, la potenza capovolgitrice del
suo messaggio, la sua professione di pace e di servizio, la sua obbedienza
alla volontà del Padre, il carattere profondamente spirituale della sua
religiosità» (RC n. 60). Un bel programma, davvero, e tutto
segnato dagli aspetti più tipici della vita di relazione. Alla base
della quale sta un concetto mai sufficientemente messo a
fuoco, che la relazione cioè parte da una situazione di
"indigenza", o di bisogno, in cui ciascuno viene a trovarsi dalla
nascita, e alla quale ciascuno risponde creando, appunto, una
rete di relazioni, che, se l'espressione non fosse abusata e fonte
di equivoci, potremmo mettere sotto il segno del "mutuo
soccorso". Del resto, i verbi che costituiscono la dinamica
fondamentale della vita di relazione, e che ho derivato da
Giuliana di Norwich, una mistica inglese del Trecento, sono
tutti nel segno di una fragilità che ha bisogno di essere
sostenuta e aiutata: custodire, sopportare/supportare, ravvivare
e guarire. Queste azioni sono, al dire di Giuliana, «opera della
misericordia» e «tenerezza dell'amore», quello di Dio
naturalmente, ma anche il nostro (Rivelazioni, cap. 48).
Tra i luoghi dove il cristiano viene educato alla relazione ci
sono in primo luogo la famiglia e la parrocchia. Sulla prima
non è il caso qui di spendere parole se non per ricordare che
tutto quanto detto sopra dovrebbe trovare il terreno
privilegiato di applicazione anzitutto nell'ambito familiare. Ma
questo non basta, e accade anche che in certi casi non
funzioni. L'ambito più largo, e comunque necessario, è la
parrocchia, descritta idealmente dal Concilio come «luminoso
esempio di apostolato
comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si
trovano e inserendole nell'universalità della Chiesa»
(Apostolicam Actuositatem n. 10). Ancora la duplice
dimensione, dell'accoglienza e della missione. E «nella
comunità parrocchiale, più che altrove, che la catechesi può
divenire unitariamente insegnamento, educazione, esperienza
di vita» (RC n. 149) proprio per la rete vasta e articolata di
relazioni che in essa è dato di incontrare. Al di là di tutti i limiti
e le difficoltà della parrocchia, «le sue aspirazioni e le sue
possibilità restano pur sempre quelle di vivere e di annunciare
in tutta pienezza il mistero cristiano, offrendo a ciascuno il
dono di cui ha maggiore bisogno, con particolare sensibilità
per coloro che sono soli, per i lontani, i bisognosi, i poveri
d'ogni genere» (RC n. 149).
4. L'attenzione, il senso di gratuità, la bellezza
Volendo concludere con qualche indicazione concreta circa
l'opera di educazione alla relazione nel contesto della traditio
fidei penso di dover tornare al punto da cui sono partito: l'arte
e la poesia. Immagino che tale sentiero possa sembrare di
primo acchito paradossale, utopistico, e alla fine persino futile.
Con tutti i problemi che ci sono! Se però mi è concesso, vorrei
sommessamente ricordare che - almeno questa è la mia
esperienza - l'arte e la poesia, con la musica, contribuiscono in
modo considerevole a educare tre aspetti senza i quali ogni
raffinato ricettario psicologico per la vita di relazione rischia di
rivelarsi, esso sì, futile e inefficace. Questi tre aspetti sono:
l'attenzione, il senso di gratuità, e la bellezza.
Chiunque rifletta scoprirà presto come la frequentazione
della poesia, o della lettura in genere, contribuisca a rendere la
mente attenta e attiva. Lo stesso effetto lo fa
l'arte rispetto allo sguardo, e la musica rispetto all'udito. Nel
bene e nel male, secondo che l'oggetto sia bello o brutto. Se si
vuole uscire da un modo di relazione superficiale, bisogna
avere il coraggio di dire che ci si deve educare all'attenzione, e
questo passa dalla calma con cui si legge un testo, si guarda un
quadro o si ascolta, nella pace, una musica pacificante. Non è
con la velocità dei messaggini e con la loro lingua ridotta a
mozziconi che si potrà costruire il linguaggio della relazione.
Non è con la volgarità di un'arte ( ? ) che imbratta i muri che si
impara a guardare con rispetto e pudore un volto. Non è con
l'abitudine a una musica assordante che si può imparare a
cogliere la delicatezza di sussurri e sospiri che chiedono la
nostra attenzione.
L'arte e la letteratura educano alla relazione perché sono
esperienze di bellezza, e ancor più perché, come la bellezza,
sono "gratuite". Dal punto di vista pratico niente sembra più
inutile! E la nostra civiltà occidentale, purtroppo, sembra tutta
centrata sull'utile, il profitto, il rendimento, in termini di soldi e
di beni di consumo. Quanto una tale visione utilitaristica incida
sul modo di vivere le relazioni è sotto gli occhi di tutti. Uno
esiste solo se e finché "serve", poi lo si butta. Anche le relazioni interpersonali sono diventate - la denuncia è fatta spesso un bene di consumo! Ma quando è investita dalla ricchezza
anche la bellezza, purtroppo, diventa volgare e merce di
scambio. A tutti sarà capitato di incontrare, spero, persone
economicamente povere e anche, come si dice, senza una
grande cultura, che però hanno una sensibilità finissima, una
saggezza da far invidia. Sono il segno che il cammino
dell'attenzione, nutrito di bellezza vera e grembo fecondo della
gratuità, è aperto a tutti, e non coincide con un particolare tipo
di "ricchezza" materiale o intellettuale. Se di ricchezza s'ha da
parlare, è di quella "spirituale" che qui si tratta.
Vorrei terminare con un'esperienza recente. Mi trovavo in
Belgio per delle conferenze a una comunità di trappisti sul
tema del "riposo come categoria della vita spirituale". Ne ho
approfittato per visitare la collegiata di Nivelles, una splendida
costruzione romanica. Immerso in una luce cristallina, che
esaltava le linee purissime della chiesa, e in un silenzio che era
di per sé un'esperienza di contemplazione, ho vissuto un
momento di profondissimo riposo interiore. C'era in corso un
funerale. Il celebrante ha ricordato che la defunta era credente,
anche se non praticante, ma ha rimarcato che amava i fiori,
come si poteva vedere dalla sollecitudine amorosa con cui
curava il suo piccolo giardino. E disse che chi ama i fiori non
può non amare le persone. Ho pensato che chi è attento ai
fiori è un cercatore di bellezza, ed è pronto a scoprirla
dovunque, nei volti come nei cuori. Terminato il funerale sono
salito all'altare dove un modello di nave, simbolo della Chiesa,
portava sulle pareti della chiglia una serie di scudetti su cui gli
adolescenti che avevano da poco fatto la professione di fede,
avevano appuntato ciascuno una frase-programma. Una di
queste diceva: «Amare ed essere amato: sono parole di Gesù
che cercherò di seguire. Grégory». Le parole, in effetti, stanno
all'inizio dello splendido dialogo sull'Amicizia spirituale di
Aelredo di Rievaulx, un cistercense inglese del XII secolo, che
le riprende da sant'Agostino5. Ma è ovvio che avrebbe potuto
dirle benissimo anche Gesù, e devo dire che mi ha commosso
ritrovare nello scritto di un adolescente dei nostri giorni il
programma di un adolescente del medioevo. La Chiesa è una
rete di relazioni che si estende non solo nello spazio, ma anche
nel tempo. Sarà bene tenerne conto, più di quanto non si
faccia.
5 AELREDO DI RIEVAULX, L'amicizia spirituale, Prologo 1, ediz, a cura
di D. Pezzini. Paoline, Milano 2004, p. 103.
5. L'intreccio di tre amori
Termino citando una breve poesia che ho trovato in questi
giorni leggendo un bel libro di Timothy Radcliffe, ex maestro
generale dei domenicani. Sono versi scritti da un prigioniero di
guerra in un campo di concentramento giapponese:
Nessuno sapeva dirmi dove fosse la mia anima. Ho cercato Dio,
ma Dio mi sfuggiva. Ho cercato il mio fratello, e ho trovato tutti e
tre: la mia anima, il mio Dio e tutta l'umanità6.
Il tema è noto, ma non è inutile rimetterlo al centro di una
riflessione che si propone di illustrare come il trasmettere la
fede significhi educare all'amore. E ancora una volta mi viene
naturale ricorrere alla sapienza di Aelredo di Rievaulx, che nella
sua opera più importante dedicata a esplorare la relazione in
tutti i suoi aspetti ha scritto:
Benché in questi tre amori, quello per sé, quello per gli altri e
quello per Dio, sia evidente la differenza, essi sono però intrecciati
in modo straordinario, così che ogni singolo tipo di amore si trova
negli altri, e tutti gli altri in ciascuno: uno non c'è senza che ci
siano gli altri, e quando uno vacilla, si perdono anche gli altri.
Infatti, non ama se stesso chi non ama anche il prossimo e Dio; né
ama il prossimo come se stesso chi non si ama. Inoltre è chiaro che
non ama Dio chi non ama il suo prossimo: Chi infatti non ama il
fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede? (1 Gv
4,20)7.
6
T. RADCLIFFE, Il punto focale del cristianesimo, San Paolo, Milano
2008, p. 167.
7 AELREDO DI RIEVAULX, Specchio della carità 3 , 3 , ediz. a cura di D.
Pezzini, Paoline, Milano 1999, p. 256.
Ecco dunque la relazione come una rete che ha per autore e
protagonista Dio stesso, e che si materializza nel-l'intrecciarsi
di quei moti, che noi chiamiamo "amore", con cui, a partire da
noi stessi, ci proiettiamo verso gli altri e verso Dio, l'Altro per
antonomasia. Anche se, per esigenze di chiarezza, arriviamo a
separare queste tre traiettorie, esse in effetti non fanno che
intersecarsi, e in maniera tale che neppure più si riesce a
distinguerle bene. Scrive ancora Aelredo:
Questi tre amori vengono concepiti l'uno dall'altro, si nutrono l'un
l'altro, si accendono l'un l'altro, e infine raggiungeranno insieme la
perfezione. Ma avviene che, in un modo strano e ineffabile,
quantunque questi tre amori siano in noi simultaneamente, e non
può essere altrimenti, non sono però sempre percepiti in grado
uguale, ma quel senso di quiete e di gioia è talvolta avvertito nella
purezza della propria coscienza, talvolta viene mutuato dalla
dolcezza dell'amore fraterno, altre volte lo si acquista in modo più
pieno nella contemplazione di Dio8.
Aelredo parla di "quiete e gioia" perché in questa sezione
del suo trattato sta sviluppando il tema del "riposo" come
vocazione e punto d'arrivo delle nostre esperienze di relazione.
E chiaro, infatti, che se la relazione nasce da un bisogno che
segna ogni creatura come non autosufficiente, la sua
realizzazione è per ciò stesso appagante, qualcosa che ci
completa, ed è proprio questo il senso del termine "quiete" che
il nostro usa con frequenza impressionante. E un tema che
non è il caso di sviluppare in questo contesto. Ma basta
ricordare che il percorso prevede il raggiungere la pace con se
stessi, con il prossimo, e con Dio. Nel primo caso il cuore è
visto da
8
Specchio 3, 5, p. 257.
Aelredo come una camera dove tutto è in ordine, nel secondo
come una locanda che tutti accoglie e dove gli altri "passano"
come ospiti che non possiamo e non dobbiamo "trattenere",
nel terzo il cuore diventa santuario dove, rasentando
l'esperienza mistica, si incontra il volto di Gesù in uno stato di
grande dolcezza e serenità, un traguardo che è l'apoteosi della
relazione, descritta come un «giubileo, nel quale l'uomo rientra
in possesso dei suoi beni, ritorna cioè al suo creatore, per
essere posseduto e possedere, essere conservato e conservare,
essere trattenuto e trattenere»9.
Gli orizzonti si dilatano, e una buona pedagogia prevede
che il cuore venga educato alla grandezza dalla contemplazione
insistente di paesaggi vasti in cui respirare oltre le angustie in
cui a volte la stessa miseria dell'esperienza rischia di farci
precipitare. Nella geografia dell'anima non c'è spazio più vasto
di quello definito dal mondo delle relazioni. E questo il luogo
dove dobbiamo costantemente imparare, e insegnare, ad
abitare in modo corretto. Ne va del nostro "riposo".
9Specchio
3,15, p. 267
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Pezzini - don Mirko Bellora