TERRA ASPRA D'AGAVI E SASSI
(La poesia dialettale di Albino Pierro)
Non dev'essere un caso che della poesia di Albino Pierro si siano
occupati una schiera di illustri professori: Giorgio Petrocchi, Ernesto
De Martino, Umberto Bosco, Giuseppe Petronio, Tommaso Fiore, Mario Marti. A me ne raccomandò la lettura Aldo Vallone.
Mi meravigliai che il libretto della Terra d'u ricorde (edizione del
« Nuovo Belli », Roma, 1960) recasse, oltre alla prefazione, la traduzione in lingua dei versi dialettali a cura di Giorgio Petrocchi, studioso
che certo non ha tempo da perdere (ricordiamoci che a lui è stato affidato il lavoro « quasi titanico » dell'edizione critica della Divina Commedia): mi colpì, voglio dire, questo fatto, sebbene potessi rinvenire,
tra le righe della prefazione, anche una motivazione sentimentale e autobiografica: « Chi ha percorso, come tanti, come me, le mitiche arse
vallate della Lucania, s'è specchiato in quella terra che non è sua, che
non gli ha dato i natali, ma gli richiama nel cuore la memoria di un antico immobile arcano mondo di affetti e di tristezze, conosce per dolorosa esperienza la fitta acuta dell'inquietudine quando il sole cala dietro quei monti pietrosi, o la solenne attesa di un'alba, o la chiusa silenziosità di quegli uomini ». Ma dopo aggiungeva, a correggere quell'impressione: « Fuori d'ogni suggestione autobiografica, " 'A terra d'u ricorde " mi sembra un evento ricco di sorprese, e ho desiderato che tutti se ne capacitassero ».
L'anno prima, 1959, era uscito presso l'editore Cappelli un folto volume di poesie in lingua, Il mio villaggio, con in appendice una testimonianza di Ernesto De Martino, il quale accomunava l'esperienza del poeta a quella propria di etnologo, nel penetrare nell'anima del paese lucano e della sua gente. Egli trovava il punto d'incontro nella comune
esigenza di porre alla base della vita culturale del nostro tempo un
« paese del ricordo », una « patria » che mediasse il rapporto tra lo studioso e il mondo, contro « coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti » e « si avviano alla morte della passione e dell'umano ». Una gnoseologia poetica o una gnoseologia scientifica, dunque, non sono possibili senza questo stabile fondo psicologico di attaccamento a un luogo, una « nostalgia » culturalmente attiva e che dà un significato umano alla ricerca.
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De Martino parlava di « risonanze » che le terre tra il Bradano e il
Sinni avevano avuto in lui e che avevano avviato il corso dei suoi pensieri « verso l'esperienza della morte, a favore della quale parlavano la
precarietà dello stesso suolo (le frane, i terremoti), e il paesaggio, e i
volti "chiusi di nero e senza voce" »: risonanze che egli non riusciva a
staccare da certe immagini contenute nella poesia di Pierro, come in
questi versi, così emblematici:
Rivedo il torrente asciutto del mio paese
con quelle pietre così bianche e così grandi
con quelle colline così scarne
più del dolore odiato dagli uomini,
e quelle canne una qua una là
sotto i ponti diruti
sorpresi dalla luna che sbucava da un crepaccio,
cuore della terra divenuta cadavere.
Come non ricordare le risonanze che questo stesso paesaggio ebbe
già in un ospite straniero della Lucania, Valery Larbaud? Ecco alcuni
versi di una poesia del 1904, « Centomani », tradotta da Leonardo Sinisgalli:
A una svolta della strada ecco il funebre Basento
e la sterile provincia, la terra aspra, le nere
colline folte di boschi putridi...
Alberi, rovine, terrapieni, canneti del Basento,
paesaggi neutri e a mala pena malinconici... (1)
Però, riprendiamo il discorso dall'inizio, dall'avallo concorde dato
alla poesia di Pierro da tanti esponenti della cultura universitaria. C'è
quasi da supporre, al fondo, una segreta matrice di predilezione pascoliana, poi opportunamente deviata, nel passaggio al dialetto di Tursi,
in una curiosità filologica finalmente soddisfatta di esercitarsi su un
testo così nuovo e pure così in regola con i valori della poesia lirica
classica.
Il nome del Pascoli venne subito in mente ai primi lettori di Pierro: a parte i temi fondamentali della famiglia e del paese, c'era proprio
nel modo di trattarli, questi temi, un « gusto pascoliano » (Petrocchi) (2).
Pierro scriveva in lingua e usava la lingua poetica consensualmente accolta dopo le polemiche del dopoguerra: generalmente dimessa, ant i-
(1) In Poeti stranieri del '900, a cura di V. Scheiwiller, Milano, 1956.
(2) G. PETROCCM, premessa a 11 mio villaggio di A. Pierro, Bologna, 1959.
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lirica, narrativa, ma ogni tanto percorsa da un baluginare di mistero,
un'ansia di vedere al di là delle cose:
da
Ma oggi c'è ti n po' di freddo,
ed è l'aprile:
sugli alberi le gemme
e i silenziosi uccelli
stupiscono nell'ombra quasi verde (3).
Ma c'era a volte qualcosa d'irrisolto, un certo che di « sovrabbondante e oratorio » (Petronio) (4) che tradiva una ricchezza e un'urgenza di contenuti, però grezzi nel magma dell'autobiografismo; gli affetti
familiari sovente non varcavano il segno del caso privato e sí effondevano con una generosità troppo ingenua e fidente.
L'ispirazione elegiaca, però, aveva in sé un fecondo elemento oggettivo: il sentimento del paese lucano. Ed è questo elemento che a un
certo momento agisce dal profondo con un moto di liberazione, assurgendo a tema principale e unificando in sé i motivi soggettivi e personali. Tuttavia non si tratta di una decisione contenutistica, si badi, ma
espressiva, di puro linguaggio poetico. Accade a Pierro ciò che accadde
a Verga: decide di rappresentare un mondo particolare, subalterno, fuori dalla storia, e non più con la mediazione di una lingua unificata e ufficiale, ma servendosi della lingua stessa di quel mondo, il dialetto di
Tursi, un paese della provincia di Matera.
Solo che mentre in Verga è la lingua nazionale che si riplasma nelle strutture dialettali, in Pierro è il dialetto che viene utilizzato negli
stessi modi della lingua letteraria. Il dialetto di Tursi, non avendo una
tradizione culturale, non ha alcun prestigio: in questo senso il suo uso
letterario rappresenta una scelta e un'invenzione assoluta. Il senso di
liberazione che scaturisce dalla scoperta di questo « nuovo » linguaggio
è espresso nella breve poesia che apre la prima opera in dialetto, 'A
terra d'u ricorde, una dichiarazione di poetica: se le campane di Pasqua
sono le parole di Cristo che ha vinto la morte, ora questa parlata fresca di paese getta il bando e dice: venite qua, vi ho aperto le porte:
sta parlèta frisca di paise
ièttete u banne e dìcite:
...mo
« vinese a què,
v'agghie grapute i porte » (5).
(3) « Un altro aprile », ne Il mio villaggio cit.
(4) G. PETRONIO, premessa ad Agavi e sassi di A. Pierro, Roma, 1960.
(5) Senza titolo, col capoverso « S'i campène di Pask ».
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Alla prima raccolta in dialetto, pubblicata nel 1959, seguirono altre
due del 1963, 1 'nnamurète (Gl'innamorati) e Metaponto. Tutt'e tre ora
sono state riunite in un solo volume sotto il titolo Metaponto (Editori
Laterza, Bari, 1966), per la loro « radicale unità d'ispirazione », come dice Mario Marti nella presentazione. A fronte del testo è stampata la
versione di Tommaso Fiore, che ha scritto anche la prefazione. La versione del Fiore aiuta il lettore, ignaro dei duri suoni del dialetto di Tursi, a intendere il senso letterale del testo ma più ancora a penetrarne
l'ispirazione alla sua radice più reale. L'umanista, lo scrittore e il meridionalista li vedo ugualmente presenti e interessati in questo lavoro
di collaborazione, condotto con freschezza di sentimento poetico e gioioso vigore stilistico.
Ma di che dialetto si tratta? Riporto qualche notizia che me ne ha
fornito Mario D'Elia. La parlata di Tursi appartiene all'area dialettale
posta a cavaliere tra la Calabria e la Lucania, la cui fonologia presenta
tratti particolarmente arcaici e preziosi relitti dei suoni latini. Come
gli altri dialetti di questa zona, chiamata dal Lausberg Mittelzone, conserva dei suoni latini caduti in tutti i dialetti, lucani compresi, dell'Italia centro-meridionale: per esempio a Tursi si dice ancora trémété
duu fridd, « trema dal freddo », dove trémété conserva la - t finale del
latino (6). Altri caratteri arcaici sono, nei dialetti della zona, la conservazione di - s finale del latino; gli esiti o da o lunga o breve del latino,
mentre in generale nell'Italia centro-meridionale la o è il risultato dell'evoluzione dei suoni latini o lunga u breve ecc.
Si sa che il ricorso alle risorse dialettali è uno degli aspetti più recenti della ricerca letteraria e ne sono noti i motivi. Si è trattato, in
gran parte, d'un uso strumentale e accessorio delle parlate di minoranza, a sostegno della scarsa espressività della lingua comune. Come è
stato giustamente notato, « ha contribuito al fenomeno lo stesso procedimento di rapida unificazione e disfacimento dei dialetti, che ne ha
reso largamente noti elementi caratteristici » (7). Nel caso di Pierro, invece, vi è l'assunzione integrale, non strumentale, del dialetto nativo come « radice viva » d'ispirazione e immedesimazione nei suoi contenuti
psicologici e ambientali di lingua particolare, tagliati tutti i ponti con
la cultura comune. Ciò richiama il comportamento dell'individuo nel
chiuso della famiglia, allorché affida al dialetto una comunicazione intima esclusivamente ricevibile nell'ambito della società familiare. La
dicotomia dell'intellettuale meridionale, uomo di cultura nazionale e
uomo di villaggio, si esprime nel bilinguismo lingua-dialetto che reagisce automaticamente agli stimoli dell'ambiente. La scelta del dialetto
Díe Mundarten Siidlukaniens, Halle (Saale), 1939, pag. 145.
(7) C. Scinex, 11 linguaggio, Torino, 1960, pag. 345.
(6) Cfr. H.
LAUSBERG,
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è a un certo momento imposta a Pierro dal suo stesso mondo poetico,
intimo, familiare, che vive nel raggio brevissimo del paese senza mai
varcarlo; e dunque è un mondo che cade tutto nell'area isolata, atempovale, conservatrice della parlata e dell'anima dialettale e si identifica
con essa.
Mentre di solito al dialetto si affida una funzione rivelatrice di settori di realtà, specialmente in senso sociale, il dialetto di Pierro ríspecchia una profonda estraneità alla vita comune e alle sue apparenze,
un distacco che i frequenti richiami al paese e alla gente non colmano
ma anzi mettono in evidenza. Specie nella liríca amorosa de I 'nnumurète il poeta è chiuso in una sfera di sentimento estremamente assorto
e personale:
'A serannotte
quanne si ricògghiene
a la chèsa i cafune,
« statte bbóne » si dìcene, cuntente,
e ié ca sùu amère m'accidére
cchi nun Ile sente.
(La sera tardi, quando si raccolgono
nelle case i cafoni,
— Statti bene — si dicono contenti,
ed io, che amaro son, mi ucciderei
per non sentirli) (8).
La lirica individualistica di Pierro nasce in un ambiente contadino
arcaico e immobile nel tempo. L'inattualità del dialetto consente la
soluzione favolosa della rappresentazione poetica, che rapidamente evade dall'aggancio realistico del presente per un mondo astorico e leggendario di carattere popolare. C'è solo una pietas, impetuosa ma lontana,
per la sua gente, per quelli « della sua razza »:
Sempe ca torne mi ci sente sempe
cc' 'a raspa 'nganne di nu chiante e strinte
a tutte quane chille cristiène
d' 'a razza méja
ca pure óje ci stène
com'i chène tutt'osse e menze sagne,
annivrichète e ferme com'i strazze
(8) « Coma nu criature » (« Come un bambino »). La versione di questa e delle
altre poesie citate in seguito è di Tommaso Fiore.
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e citte citte com'a tante morte
ca nun sàpene cchiù chiggiè nu lagne.
(Sempre che torni mi ci sento sempre
con la raspa del pianto nella gola
e stretto a tutti quanti quei cristiani
della mia razza,
che anche adesso vi stanno
come i cani tutt'ossi e insanguinati,
•
anneriti e lì fermi come stracci
e zitti zitti come tanti morti
che più non sanno cosa sia lamento) (9).
La realtà lucana è sovrastata da una surrealtà in cui quel povero e
desolato mondo si rispecchia in modo libero e puro: si veda la continua presenza di fossi (fossi), drupe (dirupi), iaramme (burroni), tinipe (alte pareti d'argilla), grutte (grotte), caforchie (caverne), degli
aspetti cioè della rugosità del paesaggio lucano, nel quale si mischiano
drammaticità geologica e sogno d'una infanzia libera e selvaggia:
E manche mi mpaurèje
si mi cugghiite 'a notte e lle facìte
cchiù citti e nivri i fossi, a une a une...
(E manco m'impaurivo
se mi cogliea la notte che rendeva
più muti e neri i fossi a uno a uno)... (10)
Quann u tempe è sincire,
atturne atturne 'a terra d'i iaramme
ci ampìete a lu sóue com'u specchie,
e quann si fè notte c'è nu frusce
di vent ca s'ammùccete nd'i fossi
e rivìgghiete u cuc e ci fè nasce
nu mère d'erve.
(Quando il tempo è sincero,
la terra dei burroni, intorno intorno,
come uno specchio al sole rilampeggia,
ma quando si fa notte c'è un fruscio
di vento che nei fossi si nasconde
(9) «Metaponto».
(10) « U iaramme» (« Il burrone »).
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e risveglia il cuculo e fa spuntare
un mare d'erba) (11).
...'a timpa ca spicciài te a 1 u cée
e addii ci avi passète
lest na cosa nivra com'u spirite.
(...l'alta parete che arrivava al cielo,
per dove era passata
lesta una cosa nera come spirito) (12).
Tommaso Fiore sta attentissimo a cogliere i lati realistici di questa
poesia e i segni, sia pure schivi e avari, di una socialità che salvi Pierro da una sterile posizione di solitudine onirica. A questo punto è inevitabile il parallelo con Scotellaro: l'ambiente lucano e contadino è lo
stesso ma i « cafoni » di Pierro non sono i contadini di Scotellaro. Questi infatti usò la lingua nazionale per un'opera di rivoluzione e di redenzione contadina, per spezzare il cerchio dell'isolamento storico, mentre Pierro volontariamente si rinchiude in questo mondo di sofferenza
parlando dall'interno di esso col linguaggio popolare. Negli occhi di
Pierro è una turba (una murra di gente) che ondeggia con la sua immagine sfocata e pur potente, vista con pietà cristiana (misereor super
turbam: Marco, 8, 2). Vorrei, egli dice, piangere forte in quella piana di
Metaponto tra le croci e presso un treno che vedevo sempre là fermo
com'a na zuca tira nd'i scannìje
di na murra di gente
ca senza na paróua s'appinnìne
e lle facìne com'a tante nnóre
cchi tutte chille mène arrussichète.
(come una fune tesa nelle angosce
di un mucchio di gente
che in silenzio vi si appendevano
e come tanti nodi vi formavano
con tutte quelle mani lì arrossite) (13).
Certo, per una poesia come questa è da farsi per ora questione di
linguaggio più che di temi e di idee. Nella lettura di Metaponto l'interesse si ferma sopratutto sull'espressione: il dialetto di Tursi è usato
(11) « 'A Ravaténa » (« La Rabatana »).
(12) « U iaramme » (« 11 burrone »).
(13) « Metaponto ».
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senza la mediazione o la presenza invisibile di un'altra lingua, e la
sintassi interna, poetica, non è ricalcata sulla lingua colta ma è schiettamente vernacola (spesso la versione tradisce l'impossibilità di un corrispettivo persino logico e concettuale, e il senso si rischiara solo col
confronto del testo). Il dialetto ha un potere di sintesi e di evidenza
concreta e il poeta se ne serve come d'un obiettivo che passa sulle cose
e ne fa risaltare i particolari. Ecco un ritorno dalla caccia al cinghiale:
'A scuppetta cucchèta supr'i muscki
chiamàite rirenne 'a curtuccéra
ca 'uccicàite chiène come ll'óore;
e dui mustazzi nivri, tisi tisi,
parìne carbunéri
ca vutàine i spalle alla cuntrore.
(Lo schioppo di traverso sulle spalle
la cartucciera chiamava ridendo,
che piano come l'oro luccicava;
e tesi tesi due mustacchi neri
parean carabinieri
che al meriggio voltavano le spalle) (14).
Lo scrittore dialettale si rivolge a una cerchia limitata di destinatari e non si cura che per tutti gli altri il suo messaggio o gran parte
di esso vada perduto. C'è, ad esempio, una breve poesia intitolata
« Prima di parte » (Prima di partire), il cui tema è il rinnovarsi della
pena del distacco dal luogo amato. La notte prima di partire il poeta
sale al balcone di sopra (adàvete), guarda gli embrici del convento
imbiancati da una piccola luna e tutti i balconi della sua casa vuoti, e
ascolta i grilli che cantano nascosti nel nero delle montagne (amrnuccèti nd'u nivre d'i muntagne). In questa lirica è oggettivato con mirabile
limpidezza un sentimento universale, comprensibile da tutti; eppure vi
sono in essa valori lessicali e fonetici non trasmissibili a chi sia estraneo
all'ambiente dell'autore: adàvete, ammuccèti, nivre ecc.
Con una scelta radicale, Pierro affida la sua comunicazione lirica
a una lingua sconosciuta, parlata da gente umile, in un paese povero, ricevendone in compenso una straordinaria forza d'espressione e d'invenzione. E' la « nuova lingua » di cui parla Mar ti, capace di dare al
poeta argomenti nuovi e felicità nuova di esprimere:
(l4) « U cignee » (« Il cinghiale »).
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U ialle è cantète.
Cché aspèttese?
Ièsse dafóre e zumpe:
già nd'i srète
di stu paise zinne c'è nu sòue
ca sànete i cichète.
(Il gallo ha cantato.
Cosa aspetti?
Esci qui fuori e salta:
nelle strade
del piccolo paese c'è già un sole
che i ciechi risana) (15).
LUCIANO DE ROSA
(15) « Il gallo ».
Le parole del titolo del presente articolo sono prese dalla poesia « Agavi e
sassi » della raccolta omonima: « Mia terra, / aspra d'agavi e sassi ».
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