In copertina:
Pistola semiautomatica italiana mod. 1910.
Quaderni di Oplologia, n. 2, giugno 1996.
a cura del Circolo Culturale “Armigeri del Piave”,
via Brenta 50, 31030 Dosson (TV)
Registrato col n. 1047 presso il Tribunale di Treviso il 2 gennaio 1998.
Direttore Responsabile: Sergio Zannol.
Comitato di Redazione: Millo Bozzolan, Antonio G. Caruso, Gianrodolfo
Rotasso
Hanno collaborato a questo numero:
R. Allara, Vercelli - I. Cati, Udine - N. Ciampitti, Milano - S. Coccia, Roma M. Gasparini, Treviso - R. Manieri, Brescia - V. Marrone, Brescia P. Pinti, Macerata - G. Rotasso, Belluno - M. Troso, Novara.
La collaborazione ai Quaderni di Oplologia è aperta a tutti i
Soci. Il Consiglio Direttivo e la Redazione, per garantire al massimo
l’obiettività dell’informazione, lascia ampia libertà di trattazione ai suoi
collaboratori, anche se non sempre ne condivide le opinioni. Gli scritti,
esenti da vincoli editoriali, investono la diretta responsabilità
dell’Autore, rispecchiandone le idee e la personale cultura oplologica.
La Redazione si riserva il diritto di modificare il titolo degli articoli e di
dare a questi l’impostazione grafica ritenuta più opportuna.
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SOMMARIO
NELLO CIAMPITTI
- La prima ordinanza italiana automatica: Glisenti 1910
pag.
3
MARCO GASPARINI
- I Giganti dell’aria
pag.
7
PAOLO PINTI
- Armi e vele in Jugoslavia
pag. 15
ROBERTO ALLARA
- La colorazione degli acciai inossidabili
pag. 22
MARCO GASPARINI
- 9 Glisenti
pag. 25
MARIO TROSO
- Una lacuna dei nostri vocabolari
pag. 27
SERGIO COCCIA
- Un secolo fa: il reclutamento in Italia
pag. 30
ITALO CATI
- Il lancia-torpedini Bettica
pag. 45
MARCO GASPARINI
- L’Ultimo volo del Col. Smith
pag. 51
VINCENZO MARRONE - ROBERTO MANIERI
- Enrico Bertasi, l’ultimo Signore del “Falco d’Italia”
pag. 55
GIANRODOLFO ROTASSO
- Baionette italiane
pag. 63
2
3
La prima ordinanza
italiana automatica:
Glisenti mod. 1910
La Glisenti mod. 1910 è stata chiamata anche
la “Luger dei Poveri” e con piena ragione
NELLO CIAMPITTI
L
a Glisenti, spesso chiamata la “Luger dei poveri”, ha purtroppo in comune con questa solo l’elevata qualità di esecuzione e di finitura oltre a
parte della complessità del progetto. Quest’arma, che se proprio deve
essere sottoposta a paragone assomiglia per forma (ponticello del grilletto e sicura) alla Nambu 1904, venne ideata e disegnata dall’ing. Revelli, ufficiale di
artiglieria e progettista, dieci anni dopo, della mitragliatrice Fiat mod. 1914.
L'inventore fu Revelli, ma il brevetto fu depositato nel 1905 dalla Siderurgica Glisenti, già produttrice delle ordinanze “74 e 89”. La Siderurgica Glisenti, fondata a Carcina (BS) circa cinquanta anni prima si era occupata inizialmente di armi sportive per poi entrare nel “giro grosso” con revolvers a doppia
azione in calibro 10,35, sfruttando prima il brevetto Chamelot-Delvigne per la
“74” e poi, riveduto e corretto, quello di Bodeo per la “89”.
Il primo modello costruito ed adottato ufficialmente come “modello 1906”, era camerato in 7,65 parabellum, calibro nato da pochi anni ma già sufficientemente popolare.
Questo modello differiva da quello successivo, oggetto di queste note,
4
principalmente per l’adozione di due sicure e per il calibro.
Solo pochi anni dopo, intorno al 1909, le alte sfere dell’esercito si convinsero dell’assoluta inadeguatezza del calibro 7,65 parabellum nelle automatiche militari, così venne bandito un nuovo concorso per un’arma automatica con
un calibro non inferiore al 9 mm. proprio in quel periodo la Glisenti cedette la
propria sezione armamenti alla Meccanica Tempini, che per adeguarsi alle nuove tendenze, iniziò immediatamente a sperimentare il calibro 9 parabellum nell’arma recentemente rilevata.
Purtroppo ci si accorse subito che, per deficienze oggettive (leggi progetto), non era assolutamente il caso di adoperare cartucce che sviluppassero
forti pressioni in un’arma nata per un calibro inferiore. A tutt’oggi è difficile
immaginare quali difficoltà e quali impedimenti dovette affrontare la Tempini
per riuscire a superare l’iter burocratico (l’arma non fu mai presentata a test tecnici) e fare adottare un’arma camerata, solo sulla carta, per il 9 parabellum. Infatti nonostante tutti gli studi e prove fatte, per poterla adoperare senza rischiare
la rottura dell’otturatore, era necessario usare cartucce con cariche ridotte di
circa un quarto rispetto alla carica originale. Le entrature dovevano essere veramente notevoli, se si pensa che al bando del Regio Esercito partecipavano concorrenti come Colt, Mauser, Browning e Mannlicher, oltre all’italiana Vitali.
Nonostante tutte le sue evidenti manchevolezze la Glisenti venne lo stesso adottata con il nome di “mod. 1910” e solo cinque anni dopo venne di fatto sostituita dalla Beretta 1915.
E’ interessante notare che quest’arma sebbene fosse stata prodotta dalla
Glisenti in 7,65 parabellum in quantità esigue e distribuita alle varie armi per
prove valutative, anche nella seconda versione riveduta e migliorata dalla Tempini, continuò ad essere impropriamente chiamata Glisenti mod. 1910.
5
Vediamo ora la parte meccanica. La “910” è un’arma a corto rinculo e
percussore lanciato. Ciò significa che manca completamente del cane. Per corto
rinculo si intende invece che, la canna, all’atto dello sparo rincula solidalmente
con la culatta e l’otturatore di circa mezzo centimetro (6,5 mm). Poi la culatta
viene fermata da un risalto, posto ad hoc, sul castello, mentre l’otturatore invece continua la sua corsa retrograda, comprimendo la molla di recupero ed armando il percussore. A questo punto l’insieme canna-culatta-otturatore viene
riportato nella posizione originale da una seconda molla alloggiata nella parte
anteriore del castello e passando recupera e camera la cartuccia. Il percussore
quando è armato sporge dalla parte posteriore dell’otturatore, dando così avviso
di percussore armato, ma non necessariamente di colpo in canna. Questo è il
movimento in sintesi, non vogliamo infatti tediare il lettore con la descrizione
delle innumerevoli molle, contromolle, rulli e leve che abbondano in quest’arma. Come è facile intuire questa pistola necessitava di manutenzione e controlli
continui e per tali motivi non era ovviamente gradita dalla truppa, mentre, data
la sua linea filante ed il suo bellissimo fodero in cuoio con caricatore di riserva,
era molto apprezzata dagli ufficiali, che si dice la portassero sul lato destro della schiena con il calcio rivolto verso l’alto.
L'arma è fornita di due sicure, una a farfalla posta sulla parte posteriore
dell’otturatore che se inserita blocca il percussore, l’altra automatica a controleva, situata anteriormente lungo l’impugnatura blocca perennemente il grilletto e
deve essere tenuta premuta per sbloccarlo.
Sulla parte sinistra dell’impugnatura sono alloggiati e ben dissimulati, i
pulsanti per il blocco dell’otturatore in apertura e per lo sgancio del caricatore.
La prima operazione va eseguita a due mani, infatti con una si arretra l’otturatore mentre con il pollice della mano che impugna l’arma si preme il pulsante
spingendo verso l’alto una linguetta (simile alla sicura Luger) che blocca l’ottu-
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ratore. Per smontare la cartella sinistra ed accedere ai meccanismi interni è necessario svitare la vite posta sotto la canna e tenuta bloccata da un pernetto a
molla. Una volta allentata la vite si solleva anteriormente la cartella che è invece agganciata ad incastro nella parte posteriore. Aperto questo “sportello” è
possibile scalzare la guancetta sinistra ed accedere ad un attrezzino parte cacciavite e parte chiavetta per lo smontaggio dell’otturatore. Questo piccolo utensile è comodamente alloggiato su di una lastrina, che unisce i due lati dell’impugnatura, e su cui trova anche posto il gruppo sgancio caricatore. Il meccanismo è molto semplice: una lastrina incernierata al centro e tenuta in posizione
da una molla a lamina, con da un lato il pulsante, dall’altro il gancio che trattiene il caricatore. Quando si preme l’estremità con il pulsante si solleva l’altra
svincolando il caricatore. Per smontare la guancetta destra è necessario agire
dall’interno, abbassando con una punta la levetta ad essa incernierata che la
blocca contro il castello. L’arma è fornita di due caricatori cromati, particolare
raro per quel tempo, di ottima fattura, molto robusti e muniti di due risalti zigrinati, posti ai lati dell’elevatore, che facilitano la presa e di conseguenza il caricamento.
Gli organi di mira sono entrambi piccoli, sfuggenti e di difficile collimatura in condizioni di luce non perfette. Le guancette di bachelite nera zigrinata
con al centro l’aquila sabauda, venivano spesso sostituite da altre in legno perché essendo molto sottili si rompevano per un nonnulla.
Ultimo neo la cartuccia che dovendo per forza di cose contenere una carica ridotta, non era intercambiabile con le altre di pari calibro (diametro), requisito essenziale per un buon approvvigionamento e un conseguente utilizzo
efficace.
Cosa altro dire di quest’arma, bella ed elegante in fondina ma fallimentare dal punto di vista meccanico operativo, se non che grazie a tutti questi suoi
difetti non fu prodotta in grandi quantità ed oggi rappresenta per il collezionista
un pezzo molto ambito.
Scheda tecnica
Produttore:
Tipo:
Calibro:
Lunghezza:
Altezza:
Peso:
Sicure:
Capacità:
Glisenti e Tempini.
pistola a corto rinculo con percussore lanciato.
9 millimetri Glisenti.
canna 100 mm a sei righe. complessiva 210 mm.
140 mm.
850 gr scarica.
manuale a farfalla e automatica a controleva.
caricatore da sette colpi
La cartuccia
lunghezza totale
lunghezza bossolo
diametro orlo
peso della palla
velocità iniziale
29 mm
19 mm
9,9 mm
8,1 grammi
320 m/s
7
I giganti dellÊaria
MARCO GASPARINI
l 9 agosto 1945, con il bombardamento nucleare su Nagasaki, il Giappone
cessò definitivamente le ostilità contro gli Stati Uniti; ancora sei giorni e la
resa sarebbe stata sottoscritta a bordo della corazzata Missouri nel porto di
Tokyo.
Con questo atto si chiudeva il più sanguinoso conflitto del secolo che, a
detta di molti strateghi militari, ha avuto come vincitore un solo paese: l’Unione Sovietica.
In effetti, con l’esclusione dei paesi sconfitti, tutti gli altri belligeranti
sono rientrati in possesso di territori perduti all’inizio delle ostilità, per
l’U.R.S.S. invece l’estensione della zona d’influenza ai paesi dell’est europeo
creava un “impero” inimmaginabile alla fine degli anni '30.
Il Know-how nucleare era destinato a non rimanere monopolio degli
I
Un B36 in volo. Questo enorme esamotore non ebbe la fortuna che meritava; i superperfezionati motori a pistoni non reggevano il passo dei turboreattori
8
Un B50 (in basso) si rifornisce da un B29 trasformato in aerocisterna; si può notare
la estrema somiglianza dei velivoli con differenze essenzialmente sulla deriva e sulle
gondole motori
Stati Uniti, altrettanto dicasi per le esperienze nel campo della propulsione a
getto.
Il fatto che i Tedeschi avessero spostato le zone di produzione e sperimentazione verso est temendo i bombardamenti strategici alleati permise la cattura di progetti, tecnici e prototipi da parte dei sovietici durante la loro fulminante avanzata in Cecoslovacchia e Polonia.
Questa situazione di stallo politico e militare portò alla definitiva chiusura dell’Unione Sovietica ad occidente e alla separazione del mondo in due blocchi nettamente distinti.
Le tensioni sfociarono quindi nella guerra di Corea dove gli Stati Uniti
si scontrarono quasi direttamente con le armate Sovietiche; il “quasi” é d’obbligo, in quanto i MiG-15 nordcoreani erano spesso portati in volo da piloti sovietici.
Il termine del conflitto portò all’inizio della “guerra fredda”, combattuta
sui fronti diplomatici e con aiuti più o meno velati alle popolazioni delle zone
“calde” del globo: Sud America, Estremo Oriente e Centro Africa.
In questo teatro, durato circa quarant’anni, si sviluppa il nostro excursus
sugli sviluppi del bombardamento strategico.
In un primo tempo, fino cioè all’inizio del conflitto in Corea, possiamo
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Un Victor inglese mentre sgancia il suo enorme carico di bombe convenzionali;
messo in ombra dal più famoso Vulcan, questo quadrireattore avrebbe meritato più
fortuna
dire che “si viveva di rendita”; fu in questo periodo che videro la luce, infatti,
tutti i progetti avviati in Gran Bretagna, U.S.A. ed U.R.S.S. negli ultimi mesi
della seconda guerra mondiale.
Si trattava di aerei che nascevano già superati, sviluppati senza le tecnologie del turboreattore e del nucleare, surclassati quindi dai piccoli caccia a reazione, sviluppati dalle varie potenze in tempi brevissimi.
Negli Stati Uniti, già grandi maestri del bombardamento strategico,
comparvero il B-36 ed il B-50; il primo fu chiamato “il fiasco da un miliardo di
dollari”, e già questo la dice lunga sulla sfortuna di un aereo che se fosse comparso due anni prima avrebbe accorciato i tempi del conflitto mondiale.
Dotato di sei motori per un complessivo di 20.000 cavalli di potenza e
con un apertura alare di oltre 70 metri, questo gigante poteva raggiungere quote
di 12 chilometri, impossibili quindi per i caccia ad elica, e poteva portare 36
tonnellate di bombe ad oltre 5000 chilometri di distanza.
Il B-50 invece era una versione modificata del glorioso B-29, montava
motori più potenti ed era stato irrobustito rispetto al precedente modello.
La possibilità dei caccia sovietici di operare a quote di oltre 15.000 metri
rendeva vulnerabili queste macchine che vennero quindi relegate a compiti di
ricognizione ed aerocisterna.
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Da ricordare i tentativi americani di proteggere i grossi e lenti bombardieri mediante dei caccia a getto modificati oppure appositamente progettati per
potersi agganciare inferiormente al velivolo e entrare in azione solo al bisogno
per poi riportarsi in posizione.
Tra tutti lo XP85 poteva comodamente entrare nella stiva posteriore del
B-36 (dimezzando però il carico bellico) e quindi viaggiare al sicuro al suo interno e uscirne per intercettare eventuali caccia nemici per poi rientrarvi; la fase
di aggancio falliva mediamente 9 volte su 10, per cui il progetto fu accantonato.
In Unione Sovietica invece, con l’esclusione del Tu-4 (praticamente una
copia non autorizzata del B-29 Americano), si continuarono a progettare e costruire piccoli ed agili bombardieri tattici come durante la “gloriosa guerra patriottica”; utilizzando la propulsione a getto Tupolev e Iliushin produssero due
bireattori subsonici con ala dritta che presero le designazioni di Tu-14 ed Il-28.
Il B52 é stato per oltre 30 anni la spina dorsale dello Strategic Air Command dell'USAAF
Gli Inglesi, frattanto, restavano gli unici a poter contare su una potente
industria aeronautica e, esauriti i bombardieri a elica sviluppati alla fine del secondo conflitto, diedero il via alla serie dei cosiddetti Bombardieri classe “V”:
il Valiant, il Vulcan ed il Victor.
Caratterizzati dalla configurazione quadrireattore, ognuno presentava
innovazioni aerodinamiche più o meno efficaci; tra tutti solo il Vulcan, caratterizzato da una grande ala a delta, rivestì pienamente il ruolo di bombardiere
strategico e deterrente nucleare, mentre dopo pochi anni dalla loro entrata in
servizio il Valiant ed il Victor vennero convertiti in aerocisterne.
Giudicato superato nel 1966 il Vulcan venne declassato al ruolo di bombardiere tattico e quindi radiato dal servizio agli inizi degli anni 90, con oltre 35
anni di operatività.
Anche i francesi misero in cantiere un bombardiere strategico in grado
di utilizzare il potenziale nucleare ora disponibile: il Mirage IV.
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Con le sue quattro turboeliche, per un totale di 60.000 cavalli, il Tu20 risulta il più
veloce aereo a elica del mondo
Da non confondere con il più famoso Mirage III, caccia con ala a delta
degli anni 60, il Mirage IV appare come una copia ingrandita del predecessore;
con due uomini di equipaggio trasportava una bomba nucleare a caduta libera
alla velocità di oltre 2300 km/h ad una distanza che dipendeva solo dalla possibilità di effettuare rifornimenti in volo.
Ritornando alle due superpotenze possiamo constatare che, terminata la
guerra di Korea, il teatro di operazione mondiale era ormai definito, mentre gli
sviluppi della missilistica ponevano ben determinati limiti all’impiego dei bombardieri.
Gli statunitensi costruirono dapprima grossi aerei plurimotori, poi puntarono sull’alta velocità ed infine sulla capacità di penetrazione; I russi, contemporaneamente, dopo aver valutato la possibilità di bombardieri strategici ultraveloci puntarono su bombardieri medi, con possibilità di operare con carichi
nucleari anche sulle grandi distanze.
Il B-47 fu il primo dei grossi bombardieri messi in linea dagli americani
ma la sua carriera durò poco in quanto dopo soli cinque anni dall’entrata in servizio venne sostituito dal più famoso B-52; quest’ultimo, caratterizzato dalla
presenza di ben otto reattori, con le sue varie versioni rimase in prima linea per
oltre 35 anni fino al 1993.
Contemporaneamente in unione sovietica comparivano due pietre miliari
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Primo bombardiere supersonico dell'USAF il B58 é qui rappresentato con tutti i carichi trasportabili; in basso a sinistra si nota il fuso aerodinamico che trasportava un
ordigno termonucleare ed un serbatoio ausiliario per le missioni di penetrazione
del bombardamento tattico: il Tu-20 ed il Mya-4.
Assai simili strutturalmente e per capacità operative, i due velivoli erano
totalmente diversi per ciò che riguardava le unità motrici; infatti mentre il Mya4 era un quadrireattore con i motori posti al raccordo tra ali e fusoliera il Tu-20,
contrariamente alle tendenze del momento, montava quattro turboeliche da ben
15000 HP ognuna che muovevano due eliche quadripala controrotanti.
Le prestazioni erano molto simili sotto tutti i punti di vista, é da segnalare però che, per la particolare struttura delle eliche che potevano ruotare a velocità transoniche, con 810 km/h il Tu-20 risulta il più veloce velivolo ad elica di
produzione di serie mai costruito.
Negli U.S.A. la possibilità di disporre di motori sempre più potenti, l’esperienza maturata nel volo supersonico e la presenza di sistemi missilistici nei
territori ostili portarono allo sviluppo del B-58 prima e del B-70 poi.
Il primo, dotato di una grande ala a delta e di quattro reattori con postbruciatore, entrò in servizio nel 1959 e fu il primo bombardiere supersonico
nelle fila dell’aviazione americana; portava un grande fuso aerodinamico sotto
la fusoliera in cui era contenuto il serbatoio ausiliario ed il carico nucleare:
giunto sul bersaglio a velocità supersonica il B-58 sganciava il tutto sull'obietti-
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vo e iniziava la manovra di fuga a Mach 2 con il pieno di carburante e in configurazione “pulita”.
Il B-70 invece non entrò mai in servizio nonostante fosse una macchina
fantascientifica per gli anni ‘60; si trattava di un delta con alette stabilizzatrici
anteriori, i suoi sei reattori gli permettevano una velocità di Mach 3 pari a oltre
3200 km/h e nel volo ipersonico le estremità alari si piegavano verso il basso
per “ingabbiare” le onde d’urto e sfruttarle per la propulsione.
Un incidente di volo, in cui un F-104 venne risucchiato dai vortici d’estremità del B-70 ed entrambi gli aerei ne uscirono distrutti, chiuse definitivamente la carriera del grosso esamotore, tuttavia é lecito pensare che ci fossero
anche problemi di bilancio, dal momento che ogni volo costava allo stato circa
un milione di dollari (di allora).
Da notare come questo aereo, anche se non entrò in servizio, diede il via
allo sviluppo del caccia più veloce della storia: il MiG-25, concepito appunto
per l'intercettazione del B-70.
Anche i russi tentarono la strada del bombardiere strategico iperveloce e
anch’essi la abbandonarono dopo poco tempo; il progetto di Tupolev nominato
T-4 (con “T” i sovietici indicano i prototipi di aerei supersonici) riuscì a superare mach 2.5 ma, visto l’abbandono del B-70 negli U.S.A. e visto anche il costo
di gestione dell’apparecchio, si pensò che il posto giusto per questo quadrireattore con ala a delta fosse il museo Monino a Mosca.
Per onor di cronaca diciamo anche che il T-4 ebbe il discutibile privilegio di essere il primo aereo al mondo a costare più del suo peso in oro!
Lo sviluppo della missilistica si spostò, nella metà degli anni ‘60, sempre più verso i missili da crociera (o “Cruise”); capostipite di questa famiglia di
armi fu la V1 tedesca che colse impreparati gli inglesi nel 1944.
Molto più veloci e perfezionati i Cruise della nuova generazione resero
praticamente inutili i grossi e veloci (e costosi) bombardieri degli anni ‘60: ora
era sufficiente un aereo che potesse portarsi in prossimità dell’obiettivo senza
essere scorto e poi lanciare il missile che avrebbe seguito autonomamente la
rotta fino al bersaglio.
Ciò che rendeva interessante ora l’impiego dei bombardieri strategici era
la possibilità di colpire con successo diversi obiettivi impiegando un solo velivolo caricato con alcuni missili.
Per rendere poco visibile un bombardiere si poteva agire sul suo profilo
di missione oppure sulla riflessione radar; i bombardieri ora in servizio nell'USAF rispecchiano questi canoni: il B-1 e il B-2.
Caratterizzati da una lunga e sofferta gestazione, più per cause politiche
che altro, entrambi sono gioielli della tecnologia aeronautica in grado di restare
in aria oltre 20 ore mediante rifornimento in volo e raggiungere ogni parte del
globo.
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Il B-1 é stato concepito come “penetratore”: dotato di ali a geometria
variabile infatti é in grado di volare a 50 metri dal suolo a velocità molto vicine
ai 1000 km/h evitando gli ostacoli orografici grazie ad un particolare apparato
detto TFR (Terrain Following Radar); le sue stive possono contenere fino a 3
tamburi rotanti, ognuno con la capacità di 6 missili o bombe termonucleari.
Il B-2 invece é un aereo veramente anticonvenzionale: primo aereo tuttala ad entrare in servizio attivo, ha un potere di disperdere le emissioni radar tanto da offrire una superficie di rilevamento di un metro quadro, contro i 465 m²
reali. Ciò non lo rende “invisibile” ai radar, ma permette che la individuazione
dell'aereo avvenga quando ormai é in zona per lo sgancio dei missili.
L’ultima generazione dei bombardieri sovietici, tutti progetti del Tupolev Bureau, comprende due velivoli a geometria variabile: il Tu-26 ed il Tu160.
Mentre il Tu-160 é esternamente identico al B-1 statunitense il Tu-26 é
un bombardiere medio senza riscontri in occidente; in grado di trasportare un
missile AS7 Kitchen semiannegato in fusoliera, il Tu-26 é stato concepito inizialmente come bombardiere marino con funzioni antinave ma la sua capacità
di rifornirsi in volo porta il suo raggio d’azione a coprire tutto il mondo.
È da notare come la tecnologia elettronica abbia notevolmente ridotto la
richiesta di personale a bordo: il B-36 richiedeva ben 15 uomini di equipaggio,
il B-2 ha bisogno di solo 2 piloti!
Quale sia il destino dei bombardieri strategici non é ben chiaro: c’è chi
asserisce siano una specie in via d'estinzione e chi ritiene siano, ora e sempre,
l’arma decisiva.
Personalmente credo che, con la caduta del patto di Varsavia, non vi sia
più lo stimolo per costruire grosse e complicate macchine dal momento che i
conflitti attuali tendono ad assumere l’aspetto di guerre civili.
Un’intervento armato in paesi del terzo mondo risulta già complicato
politicamente solo con la presenza di contingenti di pace, già azioni tattiche sono difficoltose da compiere, figuriamoci le strategiche!
Probabilmente si cercherà di allungare il più possibile la vita di questi
ultimi rappresentanti dei bombardieri strategici, tanto per tenere vivo l’effetto
deterrente da essi provocato.
Chiudiamo ricordando una frase latina di 2000 anni fa: SI VIS PACEM
PARA BELLUM! (se vuoi la pace prepara la guerra) e finora sembra aver funzionato.
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ARMI E VELE
IN JUGOSLAVIA
PAOLO PINTI
D
all’incontro di alcuni appassionati di barche a vela e di oplologia è nata l’idea di organizzare un charter in Jugoslavia con un bellissimo
Ketch di 16 metri.
La Jugoslavia è giustamente famosa fra i velisti per il mare pulito e riparato dalle moltissime isole, per le coste rocciose ricche di piccoli porti accoglienti, per il buon pesce fresco e per le città ricche di fascino e storia.
Basterà pensare a Sebenico o a Spalato o Ragusa: tutte splendide città ricchissime di testimonianze della dominazione veneta, con case in pietra che ricordano quasi in ogni particolare quelle di Venezia.
Ma lo scopo preciso di questo viaggio voleva essere la «scoperta» del
Un bel portale di palazzo a Dubrovnik con un mortaio e palle in pietra
per decorazione
Un cannone in ferro sugli spalti di Ragusa (Dubrovnik)
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All’interno di una delle porte d’accesso al centro storico di Curzola c’è una
piccola cappellina arricchita, forse
come ex voto, da due cannoni in ferro. Una targa in lingua incomprensibile ricorda forse l’evento al quale tali
armi sono legate e vi si legge chiaramente la data 1571: Lepanto
Sempre vicino alla stessa porta d’accesso si conserva un arco trionfale eretto
nel 1650 in onore del veneto Leonardo
Foscolo, difensore di Candia contro i
turchi. È ornato con trofei d’armi e il
particolare curioso è che i cannoni posti
ai lati, in basso, hanno raffigurata una
nuvoletta di fumo, segno che stanno facendo fuoco
maggior numero possibile di testimonianze oplologiche: armi e fortificazioni antiche.
La prima piacevole scoperta è
avvenuta a Ragusa (Dubrovnik): le
sue mura fortificate sono semplicemente eccezionali, con vari forti, bastioni, ecc. e circondano interamente
la città sia verso terra che dalla parte
del mare.
Per gli studiosi di fortificazioni
Un grosso pezzo d’artiglieria in ferro
con il Leone di San Marco protegge ancora la bellissima Curzola dalla flotta di
barche da diporto che circonda la città
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Particolare della spada. La presenza di una marca simile ad una torre
deve far attribuire la paternità della
lama a Federico Picinino
Particolare del cannone con il Leone
Marciano
c’è di che star bene per un bel po’. È possibile percorrere tutte le mura, visitando le varie postazioni ed ammirando un panorama stupendo.
Ogni tanto una feritoia con un pezzo d’artiglieria per arrivare poi al museo
navale con vari cannoni ed altre interessanti testimonianze dell’antica marineria.
All’interno della città vecchia gli spunti oplologici non si contano. Lungo
il corso principale (Stradun) di fronte alla chiesa di San Valacco c’è un obelisco
con un guerriero in armatura del 1413, opera di Bonino da Milano, ottima fonte
per riscontri sulla tipologia dell’armamento difensivo dell’epoca.
Vicino all’obelisco c’è un bel palazzo con un portale sovrastato da palle di
pietra per mortaio, nonché da un mortaio pure in pietra.
La vera sorpresa è costituita dal museo delle armi antiche ospitato nella
Casa del Rettore.
Ben sistemate in vetrine moderne e complete di didascalie abbastanza precise vi sono armi di un certo interesse: un bel mascolo d’artiglieria medievale,
due modelli di cannone settecenteschi, alcuni jatagan, tre alabarde, una partigiana, tre morioni, una cotta di maglia, uno spadone a due mani, due schiavone e
varie armi da fuoco albanesi e italiane a pietra focaia, ed altri reperti sempre da
guardare con cura.
Veleggiando verso nord è doverosa una sosta a Curzola, altra città circondata da splendide mura, con bastioni di notevole bellezza e, naturalmente, mu-
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Il Museo di Curzola è piuttosto interessante, ricco di testimonianze eterogenee dell’antichità del posto. Nella foto, cinque «schiavone», una spada da lato e una splendida ragazza. Veneziane le prime e forse milanese la seconda, mentre la mancanza
della marca di San Marco in Moleca, della «mosca convenzionale», ecc., deve far
escludere l’origine veneta della ragazza bionda (moglie dell’autore, n.d.r.)
nita di antichi pezzi di artiglieria.
Notevole il cannone con lo stemma di San Marco, in ghisa, lungo circa 3
metri.
Altri «cannoni» più piccoli sono conservati all’interno di una porta d’accesso e in una cappellina votiva al cui altare fanno da ornamento. Una targa in
slavo commemora (forse) una battaglia navale del 1571 (Lepanto?).
A fianco della cappellina c’è un arco trionfale eretto nel 1650 in onore del
veneto Leonardo Foscolo, difensore di Candia contro i turchi.
L’arco è ricco di trofei d’arme, tra i quali si distingue bene un cannone su
ruote mentre spara (è rappresentata la nuvola di fumo).
Sulla parte più alta di Curzola c’è la cattedrale che ci riserva una sorpresa
davvero notevole: una panoplia di armi in asta che una targa classifica come ex
19
voto del 1483, ma che in
realtà sono molto più tarde.
Si tratta di alabarde
italiane della fine del ‘500,
brandistocchi e corsesche
del ‘500, quadrelloni da
breccia e da marina (i più
corti), una picca e due
(chissà come stanno lì) armi
che sembrano naginata giapponesi (il buio totale rende
difficile un esame anche approssimativo e la foto, pessima, è stata realizzata con
una esposizione lunghissima).
Per lo più dovrebbe
trattarsi di armi venete e sarebbe utile per uno studio
accurato procedere alla verifica dell’eventuale esistenza
di marche d’armaiolo.
Di fronte alla cattedrale c’è un bel palazzo che
ospita un pittoresco museo,
il Gradski Muzej.
Una parte della piccola raccolta di armi della IIª
guerra mondiale del Museo di Curzola
C’è di tutto: dagli oggetti d’epoca romana, alla
ricostruzione di una cucina del secolo scorso, a ceramiche inglesi, a reperti di
marineria, ecc. e naturalmente, armi.
Poche ma d’indubbio pregio. Una rustica panoplia regge sei spade, e precisamente cinque schiavone ed una spada da lato.
Tre schiavone hanno il caratteristico pomo in bronzo e le lame recano la
«mosca convenzionale».
La spada da lato ha il codolo recante una scritta indecifrabile e un disegno
che sembra una torre (Picinino?).
Una saletta contigua ospita una piccola rassegna di armi partigiane e di
testimonianze della dura lotta nell’ultima guerra.
20
Ma anche l’esame di
quadri ed altre opere d’arte
si può ricavare qualche elemento utile per lo studioso di
armi antiche, come per esempio dallo spadino (o spada) ritratto insieme all’ufficiale di marina in un dipinto
pure conservato in tale museo.
Una caratteristica costante e davvero curiosa della Jugoslavia almeno da Zara
a Ragusa è che in tutti i negozi che vendono gioielli e
prodotti in filigrana - e ce ne
sono a decine in ogni via di
tutte le città della costa e delle isole - sono esposte armi
antiche, con un cartellino
che avverte che non sono in
vendita.
Per lo più si tratta di
bellissimi jatagan, ma ci sono anche pistole balcaniche
a pietra e persino armi inglesi ed italiane sempre ad avancarica.
Cattedrale di Curzola. Una ricca panoplia di armi
in asta ricorda qualche evento del 1483: in realtà
del 1483 non c’è nulla, essendo tali armi assai più
tarde. Un esame accurato porterebbe sicuramente
ad interessanti scoperte sulla presenza di marche
nei ferri di tali armi veneziane
È un fenomeno strano:
non è facile spiegare il perché dell’accostamento filigrana-arma, eppure è indiscutibile che tale accoppiata è riscontrabile in decine
di negozi.
Sebbene ostentatamente non in vendita, tali armi possono essere esaminate e per il loro elevatissimo numero costituiscono un incomparabile serbatoio di
riscontri tipologici per lo studio di jatagan e pistole albanesi.
Diciamo che questo è l’aspetto più curioso per il visitatore-oplologo, ma il
più affascinante è certo quello delle fortificazioni.
Tutte di stampo veneto, in bellissima pietra bianca, fanno parte integrante
21
del paesaggio, specie per chi arriva dal mare, come nel nostro caso.
Piccoli e grandi porti sono difesi da mura bianche con lo stemma del leone
marciano che rappresentano una vera e propria mostra all’aperto di fortificazioni, ricche di varianti, bastioni, torri, feritoie, ecc.
In definitiva un’ottima meta dal punto di vista oplologico, ma certamente
di gran rilievo per quello velistico e nautico in genere.
Ormai i marinai sono diffusi ovunque, moderni e ben attrezzati e ricchi di
ogni comfort.
La traversata dalle coste italiane non presenta particolari difficoltà e una
volta sul posto le centinaia di isole offrono spunti continui per riprese fotografiche eccellenti, per la
ricerca di posticini isolati nei quali ancorare e fare il bagno,
baie tranquille per trascorrere la notte e, in
conclusione, per vivere una meravigliosa
vacanza in acque pulite e trasparenti anche
se indubbiamente
freddine.
Certo, musei e
fortificazioni possono
essere visitati anche
per chi giunge via terra o in traghetto, ma
spostarsi in Jugoslavia
per mare è certamente
più facile oltre che più
affascinante e divertente.
Una meta da non
perdere ed un’esperienza incredibile.
Un ritratto di ufficiale con ben evidenziata la spada. Purtroppo tale opera non è datata, né le eventuali didascalie
assenti) in lingua sarebbero di grande aiuto
22
La colorazione
degli acciai
inossidabili
ROBERTO ALLARA
I
l problema di eseguire una colorazione degli acciai inossidabili è stato risolto in modo compiuto in tempi relativamente recenti. Per il passato ci si
limitava a una gamma limitata di tinte che traevano origine da trattamenti
termici. Daremo alcune indicazioni sui differenti metodi.
La brunitura,
cioè l’annerimento
superficiale, può essere effettuata in due
modi:
- Immersione dei
particolari, accuratamente sgrassati e puliti, in un bagno costituito da bicromato
sodico fuso a temperatura di 400 °C per
circa 30 minuti; al
termine del bagno gli
oggetti vengono raffreddati e lavati accuratamente con successiva asciugatura;
- Immersione in una soluzione costituita da 180 parti di acido solforico, 50 parti di bicromato di potassio e 200 parti di acqua distillata, mantenuta ad una
temperatura di 90-100 °C e con una durata di immersione di 20-30 minuti;
seguono un lavaggio accurato ed un risciacquo.
La colorazione può essere effettuata con tre differenti metodi.
- Il primo consiste nello scaldare uniformemente il manufatto ad una tempera-
23
tura che corrisponde ad un desiderato colore di rinvenimento, e nel lasciarlo successivamente raffreddare. Ovviamente la possibilità di scegliere
una gamma di colori è limitata a quella degli ossidi superficiali che si possono formare. Nella tabella della pagina precedente si possono leggere le
temperature e le colorazioni corrispondenti per gli acciai inossidabili martensitici e ferritici. La superficie colorata è tenace e resistente.
- Il secondo consente di pervenire ad una colorazione dorata di diversa tonalità
e consiste nell’immersione dei manufatti, precedentemente sgrassati e puliti, in un bagno costituito da nitrato di sodio o di potassio ad una temperatura di 400-450 °C. La durata dell’immersione è compresa tra i 5 e i 40
minuti e le tonalità più forti si ottengono con temperature vicine al limite
superiore. Segue, come al solito, un accurato lavaggio e l’asciugatura.
- Il terzo sistema trova applicazioni sempre maggiori sia per la uniformità di
colorazione che si ottiene che per la gamma piuttosto ampia di colori. Il
sistema consiste nell’immersione del pezzo da colorare, sempre ben sgrassato e pulito, in un bagno costituito da 250 parti in peso di acido cromico,
490 parti in peso di acido solforico e 100 parti in peso di acqua distillata,
alla temperatura di 80-85 °C.
24
In queste condizioni la formazione dei colori è guidata dalle variabili
temperatura e tempo secondo le leggi indicate nel diagramma di pagina 23, e
consente un’ottima riproducibilità, non in funzione della forma del particolare.
La colorazione può essere eseguita su pezzi di dimensioni e forma qualsivoglia, a condizione di disporre di vasche di dimensioni adeguate. La successione dei colori in funzione del tempo di immersione è: bronzo, blu, oro, rosso,
porpora e verde. Naturalmente sono ottenibili diverse tonalità per ciascun colore, variando opportunamente i tempi in un certo intervallo.
La colorazione così ottenuta è però poco resistente all’usura e in generale alla abrasione, ed è perciò necessario far seguire un procedimento di
“indurimento” della pellicola colorata. Questo indurimento è eseguito con un
trattamento catodico che segue un lavaggio in acqua fredda, successivo, a sua
volta, al trattamento di colorazione.
Terminato l’indurimento si procede ad una lavaggio in acqua calda e alla
successiva asciugatura. Il bagno si compone di 250 parti in peso di acido cromico, 2,5 parti in peso di acido fosforico e 1000 parti in peso di acqua distillata; la
densità di corrente è di 0,2-0,4 A/dm3 , ed il tempo del trattamento varia tra i 5
ed i 10 minuti.
E’ opportuno che il trattamento di indurimento segua immediatamente
quello di colorazione, per evitare danneggiamenti alla superficie colorata; l’indurimento provoca una leggera variazione, prevedibile ed uniforme, della tonalità del colore raggiunto durante la prima fase.
Il metodo è applicabile su tutti i tipi di acciai austenitici, con colori più
brillanti per quelli della serie AISI 300. Anche gli acciai ferritici del tipo AISI
430 e AISI 434 si comportano in maniera analoga, mentre sui tipi martensitici,
specialmente con quelli con tenore di carbonio minore dello 0,1%, di solito ci si
limita ad una brunitura a causa dell’attacco superficiale che si può sviluppare.
Va rilevato che mascherando opportunamente alcune porzioni di superficie è
possibile ottenere figurazioni e coloriture anche con differenti colori. E’ infatti
il tempo di immersione che determina il colore, e quindi si può procedere ad
immersioni successive, mascherando alcune parti, per ottenere colorazioni differenti sulla stessa superficie.
Ricordiamo anche che la mascheratura può essere effettuata con resine
fotosensibili, così da poter riprodurre fotograficamente anche disegni e immagini.
25
9 Glisenti
MARCO GASPARINI
F
a sempre piacere quando un appassionato ci chiede consiglio su problemi
di ricarica; per qualcuno il piacere maggiore sta nella sensazione che provocano le parole “Tu, che sei un esperto...”, per me invece il gusto sta
nella risoluzione dei problemi tecnici.
Qualche tempo fa, un collezionista mi chiese consiglio sulla ricarica del
glorioso 9 Glisenti e subito ricordammo assieme i bei tempi andati.
Prima del 1975 circolavano ancora liberamente le varie Glisenti mod. 10,
le Brixia, le Beretta mod. 15 e le più rare mod. 23 e regolarmente si sentivano
storie di nasi colpiti da carrelli impazziti, canne gonfiate ed altre amenità del
genere.
Tutto ciò contribuì non poco alla fama di debolezza e fragilità delle pistole
bresciane, tanto più che nessuno osava dire che le cartucce impiegate erano 9
parabellum di oscura provenienza o peggio le esuberanti 9M38 del MAB.
Ora che le pistole in questione sono tranquillamente detenibili poiché non
sono più considerate micidiali armi d’assalto, sorge il problema del munizionamento e da qui parte la sfida!
La cosa più semplice é il reperimento dei bossoli, potendosi tranquillamente utilizzare i bossoli del 9 Para o, per i più economi e pazienti, quelli del
9x21 accorciandoli fino a 19.15 mm (é un lavoraccio!)
La ricerca é partita dal catalogo Fiocchi 1976; in occasione del centenario
della ditta venne emesso questo dettagliato fascicolo in cui veniva esposta tutta
la produzione corrente.
Alla voce “Cartucce a percussione centrale per armi portatili automatiche
e semiautomatiche a canna rigata” si possono trovare il 9 Glisenti, il 9
Parabellum ed anche il 9M38.
Per ognuna di queste sono riportate, oltre a peso della palla lunghezze, velocità ed energia, le pressioni massime di esercizio pari a 1400 bar per il 9 Glisenti e 2500 bar (!) per le altre due.
Questi valori, pur lasciandomi un po’ perplesso, dovrebbero essere attendibili vista la provenienza, e rendono giustizia alle mod. 10 per aver retto almeno un po’ pressioni 80% maggiori al normale.
Ora viene la parte più difficile, e cioè trovare dei dati di ricarica attendibili
e congruenti con i valori trovati.
Sul libro “Cartucce” di Frank Barnes vengono indicate due ricariche con
palla da 116 grani e i dati sperimentali delle cartucce militari.
Le tre velocità date sul Barnes (320 m/s) risultano leggermente più basse
di quanto compaia sul catalogo Fiocchi, tanto più se si considera che la GFL
dichiara 365m/s ma con palla da 124 grani.
L'unico difetto di questi dati è dovuto al fatto che le polveri indicate sono
obsolete ed in generale introvabili in Europa; le riportiamo per dovere di crona-
26
ca: 3.6 grani di 230P o 4
grani di Bullseye.
La fortuna comunque non ci abbandona in
quanto la sorella maggiore della 9 Glisenti, la 9
Parabellum, é la cartuccia
per semi-auto più usata
nel mondo.
Per questa munizione, i cui dati dimensionali
sono identici a quelli della 9 mod. 10, sono disponibili innumerevoli combinazioni di ricarica tra
cui cercare quello più adatto.
Spulciando tra tutti i
fascicoli, manuali o fo- Cartuccia a pallottola per pistola mod. 910 e cartuccia
glietti volanti che mi so- a pallottola mod. 910 per mitragliatrice, da “Notizie
no passati tra le mani ho Sintetiche” del Laboratorio Pirotecnico di Bologna
travato oltre cento cari- (1916).
che, ma non mi sono fidato molto, poiché per il
9 Para sono previsti 2600 bar al massimo e quindi le polveri usate possono dare
velocità anche basse con picchi di pressioni superiori però ai 1400 bar richiesti
con conseguente pericolo per le meccaniche.
Per non rischiare le nostre preziose Glisenti ho un solo dato che ritengo
sicuro al 95%; l’ho preso direttamente dal manuale Vectan che riporta oltre ai
soliti valori anche le pressioni ricarica per ricarica.
Con palla in piombo da 125 grani, 4.6 grani di BA9 danno 300 m/s con
una pressione dichiarata di 1250 Bar: perfetto!
Dato che la polvere in questione è molto comune nelle nostre zone e che
le palle da 124-125 grani si possono trovare sia di fabbrica (ad esempio le Fiocchi teflonate), che da stampo (RCBS, Lee ecc.) ritengo che questa carica sia ottima per provare le gloriose Brixia & Co.
Come inneschi utilizzerei gli universali CCI small pistol, in quanto i Fiocchi hanno dimostrato di essere molto robusti e quindi da non utilizzare per i primi esperimenti, inoltre eviterei di spostarmi dalle dosi indicate, almeno finché
non si troveranno altri dati; per le cariche fornite si dovrebbero comunque ottenere risultati alquanto costanti, visto il buon riempimento del bossolo, ma si
tratta di supposizioni tutte da verificare a fuoco.
Spero di poter quanto prima testare in poligono queste cariche sia per vedere la precisione e la costanza delle cartucce che, soprattutto, per “resuscitare”
questi spicchi di storia oplologica italiana.
27
Una lacuna
dei nostri vocabolari
MARIO TROSO
S
e esaminiamo i vocabolari della lingua italiana con riferimento a chi impugnava armi in asta, troviamo che tutti, in genere, indicano:
picchiere = soldato armato di picca
alabardiere = soldato armato di alabarda
e meno frequentemente:
partigianiere = soldato armato di partigiana (Zingarelli).
Non compaiono: ronconiere, falcioniere, corseschiere, ecc.
Eppure almeno la denominazione ronconiere risulta in due documenti letterari dell’ultimo quarto del XV secolo e conferma, tra il resto, che il nome più
antico di quest’arma è roncone e non ronca. Da ronca dovrebbe derivare, eventualmente, ronchiere termine che, a differenza di ronconiere, non trova conferma nei documenti storici.
Il primo documento è tratto dalla Cronaca del Ferraiolo la cui prima edizione risulta essere apparsa a Napoli tra il 1486 ed il 1490. Il manoscritto(1) è
corredato da 99 illustrazioni che fungono da commento visivo e si legano direttamente al testo.
Nel settembre 1486 il Re di Napoli, Ferdinando I, mentre si svolge in Castelnuovo una grande festa nuziale, fa arrestare il conte di Sarno, suo ospite,
perchè implicato nella congiura dei baroni contro di lui. Il castellano, Pasquale
Carlone, esegue l’arresto scortato da “multe ronconiere della guardia”.
“Lo s(igniore) re, che era chiaro et informato de multe
tradimente, fece infenta (finta) de mannare a chiamare
lo conte de Sarno dintro la camara dove sua maistà
steva et, como fo per dintro le diverse camare,
trovaie (il conte trovò) lo s(igniore) messer Inpascale,
castellano dello ditto castiello, con multe ronconiere
della guardia....”(2)
Da notare il tratto napoletano con vocale e finale a indicare, indistinta-
28
mente, singolare e plurale: inimice nostre per inimici nostri, ronconiere per
ronconieri.
Il secondo documento è tratto da “La rotta di Serezana (Sarzana) e Serezanello (Sarzanello)”, Firenze circa 1500. (Torino, Biblioteca Reale, Inc.
I.49, strofa 41.).
È un testo della fine del ‘400 composto da 69 strofe che si riferisce ad un
episodio della guerra tra Firenze e Genova del 1486, risoltasi con la vittoria dei
Fiorentini che ricuperano la città di Sarzana. Nella strofa qui riprodotta sono
indicati alcuni dei personaggi che da soli o con truppe assoldate partecipano a
quella guerra al servizio di Firenze. La Regina del nostro “ronconiere” dovrebbe essere Isabella, sposa di Ferdinando il Cattolico, Re di Castiglia e Leon dal
1474 al 1504.
Probabilmente esisteva un corpo d'élite, costituito da ronconieri, che veniva identificato come “Guardie della Regina” o qualcosa del genere.
“Uno spagnuolo di Spagna vi viene
Ferrando ronconier della Regina
Bartol da San Miniato non si tiene
Lodovico da Ferrara vi chamina
Thomaso ciciliano che ritenne
e Genovesi già nella collina
e quel da Castiglion con altri alquanti
con Lorenzone ancor de cavalcanti.”(3)
La presenza della denominazione ronconiere in due fonti ben distinte e
geograficamente lontane conferma l’uso diffuso di quest’arma. In entrambi i
casi il riferimento ad un impiego particolare sta ad indicare che l’arma, in quel
periodo e in quegli ambiti, era adottata da truppe scelte.
In conclusione, alla luce di quanto messo in evidenza, riteniamo che non
dovrebbe mancare, nei nostri vocabolari la denominazione “ronconiere = soldato armato di roncone (o di ronca)”.
_____________________________
1
2
3
ms. M 801 conservata nella Pierpont Morgan Library di New York (USA).
Ferraiolo, “Cronaca”, 92r. (18), p. 13. Firenze 1987.
“Guerre in ottava rima”, v. II (guerre d’Italia), p. 33. Modena 1989
29
30
UN SECOLO FA:
IL RECLUTAMENTO IN ITALIA
SERGIO COCCIA
N
el 1995 il nostro Parlamento ha votato una legge, quella sull'Obiezione di coscienza, che mette praticamente fine al nostro Esercito o,
quanto meno, lo relega sempre più ad essere un ramo secco. Non è
nostro compito giudicare l'operato del Parlamento di una Democrazia nata
dalla Resistenza e fondata sul Lavoro, ma semplicemente far conoscere ai cultori della Nostra breve, ma ricca storia militare, come era organizzato il Regio
Esercito Italiano circa un secolo fa.
Introduzione
Il periodo che prenderemo in esame è quello del 1892, da poco avevano
visto la luce le nuove regole sul reclutamento.
Dopo vent’anni dall’unità d’Italia -concetto relativo visto che mancavano
ancora delle regioni alla vera unità- la nascente Nazione, con alterne vicende, si
stava dedicando a guerre con uno spirito completamente diverso da quello che
aveva animato le guerre d’Indipendenza. La febbre del Colonialismo aveva in-
Fregio da berretto d'artiglieria da montagna, il tondino è interamente ricamato in quanto
esisteva un solo Reggimento (coll. dott. D’Orazio)
31
vaso anche questa giovane Nazione.
Ma come avveniva il reclutamento? come era composto il
nostro esercito? quanto durava la
ferma?
Principio
Il principio, fondamentale
sancito dalle leggi vigenti, era
quello dell'obbligo generale personale al Servizio Militare.
Tutti i cittadini erano soggetti alla leva, ognuno faceva
parte della classe dell’anno in cui
era nato, per cui tutti i cittadini
italiani nati dal 1 Gennaio
es.1860 al 31 Dicembre dello
stesso anno, facevano ovviamente parte della classe del ‘60.
Normalmente concorrevano
alla leva coloro che nell’anno in
corso compivano i 20 anni, ed il
vincolo al servizio durava fino ai
39 anni.
Fregio da berretto da ufficiale contabile (coll.
dott. D’Orazio)
Gli idonei che non appartenevano all’Esercito Permanente (E.P.) o alla
Milizia Mobile (M.M.), facevano parte della Milizia Territoriale (M.T.). Per
capire cosa si intendesse per E.P., M.M. e M.T. vedi successivamente.
Eccezioni
Naturalmente l’obbligo generale personale al servizio non veniva inteso in
senso assoluto.
Diverse eccezioni erano stabilite sia riguardo problemi di incapacità morale e fisica, sia problemi relativi alla tutela di interessi relativi alle famiglie, agli
studi ed alle professioni.
a- Incapacità morale. Chi aveva riportato particolari condanne (es. lavori forzati), non era soggetto ad obblighi militari.
32
b- Incapacità fisica o intellettuale. Occorreva essere di buona e sana costituzione fisica, essere più alti di m 1,55, con un perimetro toracico di m 0,80.
La lista di tutte le imperfezioni fisiche previste erano allegate al regolamento.
c- Eccezioni nell’interesse sociale.
- Esenzione del servizio di I e II categoria per motivi di famiglia con assegnazione alla III categoria;
- Surrogazione del fratello, a vantaggio delle famiglie;
- Proroghe nella prestazione del servizio nell’interesse degli studi;
- Volontario di un anno.
Volontario di un anno
Questa particolare figura va vista in maniera particolareggiata per la sua
implicazione con lo studio delle uniformi.
I motivi per cui era riconosciuta, questa eccezione, erano diretti a favorire
gli studi, gli interessi delle famiglie e chi svolgesse particolari mestieri.
Occorreva avere minimo 17 anni, non aver avuto problemi con la giustizia,
aver superato il I anno di Liceo od Istituto tecnico.
Fregio da berretto da ufficiale dell'artiglieria a cavallo (coll. dott. D’Orazio)
33
Occorreva pagare una somma fissata da un Regio Decreto, mai superiore a
£ 2.000 per la Cavalleria e £ 1.500 per le altre armi.
Poteva prorogare la prestazione del servizio per motivi di studio e per problemi legati alla sua professione.
Ordinamento generale
delle forze militari
Per prima cosa occorre far presente che gli idonei al servizio venivano divisi in 3 categorie.
La 3ª categoria era formata di diritto da tutti coloro, idonei, che erano considerati “sostegni di famiglia”, tutti gli altri, i disponibili, venivano assegnati
alla 1ª ed alla 2ª.
Il contingente di 1ª C. era determinato per legge ogni anno; quelli che erano in più e non avevano diritto alla 3ª, formano il contingente di 2ª, che poteva,
con apposito Regio Decreto, essere diviso in due parti.
Berretto ufficiale fanteria di linea (coll. dott. D’Orazio)
34
Il criterio per la determinazione dell’ordine da eseguire nella destinazione
alla 1ª Categoria, era quello dell’estrazione.
Questa estrazione avveniva con criteri determinati, alla presenza di alcune
Autorità civili e militari, e a quella dei cittadini che compivano in quel periodo
i 20 anni.
Per alcuni cittadini, detti “capilista”, non si applicava il principio dell’estrazione. Difatti, alcuni soggetti, che si erano sottratti con frode all’inserimento
delle liste degli anni precedenti, venivano inseriti direttamente nella I categoria,
appunto senza estrazione.
Le forze militari dell’Esercito erano organizzate secondo tre linee o reparti, la 1ª era rappresentata dall'Esercito Permanente (E.P.), la 2ª era della Milizia
Mobile (M.M.) e la 3ª era rappresentata dalla Milizia Territoriale (M.T.)
Quelli di 1ª e 2ª Categoria appartengono successivamente alle 3 linee, salvo gli operai d’Artiglieria, la Cavalleria ed alcune specialità dei Servizi che non
transitano nella M.M.
Per eventuali servizi d’ordine e di sicurezza pubblica all’interno era istituita la Milizia Comunale della quale facevano parte contemporaneamente tutti i
militari in congedo illimitato di 1ª, 2ª e 3ª Categoria (iscritti sia all’E.P., alla
Berretto da ufficiale del treno del genio (coll. dott. D’Orazio)
35
M.M. ed alla M.T.).
Una parte del contingente di 1ª categoria poteva essere assegnato, come
vedremo successivamente, alla leva di mare.
Obblighi di servizio e ferme
Vediamo ora, nel dettaglio, quanto e come si svolgeva la ferma.
La durata era di un anno per i “Volontari di un anno”, di qualsiasi arma.
Questa figura è stata precedentemente trattata.
Tre anni ( o due a secondo quanto stabiliva la legge annuale di leva), per la
Fanteria, l’Artiglieria, Genio, Treno, Sanità, Sussistenza, assegnati alla R. Marina, mentre gli operai di Artiglieria avevano sempre la ferma di tre anni.
Di quattro anni era la ferma della Cavalleria.
Cinque anni per Carabinieri, capi-armaioli, musicanti, deposito stalloni,
uomini di governo degli stabilimenti militari di pena, maniscalchi e vivandieri
ed i sottufficiali delle varie Armi.
Dopo il periodo di ferma prescritto, pur rimanendo nella prima categoria,
erano inviati in congedo illimitato fino all'anno previsto per quel tipo di servizio (vedi tavola 1).
Berretto da ufficiale dei lancieri (coll. dott. D’Orazio)
36
Quelli della seconda categoria rimanevano nelle E.P. per otto anni, dopo di
che passavano alla M.M. fino al compimento del dodicesimo anno, in seguito
transitavano nella M.T.
Normalmente, nei periodi di pace, rimanevano in congedo illimitato, ogni
anno dovevano però essere richiamati i militari di una classe per un periodo che
variava dai due ai sei mesi .
La terza categoria apparteneva, per tutto il vincolo del servizio, alla M.T.,
ed in tempo di pace, rimaneva in congedo illimitato. Non c’erano particolari
prescrizioni, per la sua istruzione, ma la legge stabiliva che le chiamate alle armi, per i militari di M.T. poteva essere di trenta giorni per ogni quattro anni.
Gli ascritti nella Cavalleria, Carabinieri, capi-armaioli, musicanti, deposito
stalloni, uomini di governo degli stabilimenti militari di pena, maniscalchi vivandieri, gli operai di Artiglieria, non transitavano mai nella Milizia Mobile,
ma passavano direttamente alla Territoriale; le ultime tre classi della Cavalleria
venivano, però ascritte al Treno del Genio e di Artiglieria. Ciò è facilmente
spiegabile visto che il Treno era composto da traini animali (cavalli).
La legge, prevedeva obblighi particolari di servizio per i cittadini appartenenti per leva o ascritti ai distretti della Sardegna. Difatti, finita la ferma, cessavano di far parte dell’E.P. ed erano assegnati alla Milizia Speciale dell’Isola
Berretto da ufficiale generale (coll. dott. D’Orazio)
37
(M.S.) e lì rimanevano, fino al passaggio nella M.T. La seconda categoria veniva assegnata alla M.S. fin dal principio e transitava insieme alla prima categoria nella M.T. .
La composizione
dell'Esercito Permanente - E.P. Nel periodo da noi preso in esame l’E.P. risultava essere diviso nelle seguenti Armi e Servizi.
- Stato Maggior Generale. Erano gli Ufficiali Generali che erano in tutto 149.
Di cui 5 d’Esercito, 48 Tenenti Generali, 92 Maggiori Generali, 3 Maggiori Generali Medici ed 1 Commissario. Di questi 145 erano in servizio e 4 a disposizione. Questi Generali svolgevano varie funzioni di comando nei vari reparti
che di seguito illustreremo.
- Corpo di Stato Maggiore. Composto da 4 Ufficiali Generali (già menzionati
nello Stato Mag. generale), tra cui il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, 266
Ufficiali di S.M. (da capitano a Colonnello) e 10 Ufficiali Contabili.
- Arma dei Reali Carabinieri. Suddivisa in 11 legioni territoriali più una allievi, 43 Divisioni territoriali, 113 comp., 376 tenenze, 84 sezioni, e circa 3200
Berretto da ufficiale superiore del genio (coll. dott. D’Orazio)
38
stazioni.
- L'Arma di Fanteria era composta da varie specialità, iniziamo dalla Fanteria
di linea. 48 Brigate su due reggimenti, per un totale di 2 Reggimenti Granatieri
(facenti parte delle Brigate di Fanteria, la 1ª) e 94 Reggimenti di Fanteria di
linea (dal 1° al 94° ).
Della Fanteria facevano parte i Bersaglieri, su 12 Reggimenti.
Gli Alpini, specialità della Fanteria, erano inquadrati su 7 Reggimenti.
Anche i Distretti erano considerati facenti parte della Fanteria. Suddivisi in
87, di cui 8 di prima classe 79 di seconda, prendevano il nome dalla città dove
risiedevano. Anche il personale degli stabilimenti militari di pena rientrava,
amministrativamente, nella Fanteria.
Sottotenente del 1° reggimento genio, sulle spalline il tipico
fregio dell’Arma, la corona reale (archivio autore)
39
Gli Ufficiali delle fortezze, anche se vestivano l'uniforme dell’Arma di appartenenza erano, amministrativamente, della Fanteria.
- L’Arma di Cavalleria. Era una delle più complesse. Composta da 9 Brigate
su 24 Reggimenti di 6 squadroni, tatticamente e dal punto di vista disciplinare,
si ripartivano in mezzi Reggimenti su 3 squadroni ognuno. le Brigate potevano
avere due reggimenti (la 1ª- 4ª- 5ª- 9ª ), tre (la 2ª - 6ª - 7ª - 8ª) e quattro (la 3ª di
stanza a Milano).
- L’Arma di Artiglieria. Anche questa, vista la diversità degli impieghi, era
abbastanza complessa.
Comprendeva :
- 6 Ispettori ;
- 4 comandi d'Artiglieria da Campagna, 2 da Fortezza;
- 24 Reggimenti d'Artiglieria da Campagna;
- 1 Reggimento Artiglieria a Cavallo;
- 1 Reggimento Artiglieria da montagna;
- Reggimenti Artiglieria da fortezza, erano in tutto 5, di cui i primi due erano da Costa (25° e 26°), gli altri 3 da fortezza (27° - 28° - 29°);
- Direzioni e stabilimenti di Artiglieria, con circa 170 Ufficiali; 5 comp.
operai con 15 Ufficiali e 500 sottufficiali e truppa;
- Veterani.
- Arma del Genio.
Comprendeva :
- 3 Ispettori;
- 6 Comandi Territoriali;
- 4 Reggimenti; i primi due erano composti da 4 brigate Zappatori (12
comp.), 2 brigate Zappatori-Minatori (6 comp.), e 2 comp. Treno; il 3° Regg.
(telegrafisti) era composto da 3 brigate Zappatori (7 comp.), 3 brigate Telegrafisti (6 comp.), 1 brigata Specialisti (1 comp.), e tre comp. Treno; il 4° Regg.
Pontieri-Lagunari, era su 8 comp. Pontieri, 1 brigata (2 comp.) Lagunari, 1 brigata Ferrovieri (4 comp.) e 3 comp. treno;
- Varie direzioni (Genio per la Marina, officine di costruzione materiale
del Genio).
- Corpo Sanitario. Diviso in ispettorato, direzioni, stabilimenti, comp., scuola
e gli Ufficiali Medici dei reparti.
- Corpo di Commissariato. Era composto da 12 direzioni territoriali di Commissariato, 1 stabilimento di Sussistenza, 12 comp. di Sussistenza e di Ufficiali
di Commissariato addetti a servizi speciali.
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- Corpo Contabile Militare.
- Corpo Veterinario.
- Corpo Invalidi e Veterani. Il Corpo era formato da Ufficiali e Soldati inabili
al Servizio attivo. Dovevano avere 18 anni di servizio e non aver diritto alla riforma. Se l'inabilità era causata dal Servizio, potevano far parte del Corpo anche prima dei 18 anni. Il personale di truppa era impiegato in servizi di usciere,
custode e piantone nei comandi e negli uffici territoriali.
- Istituti, Scuole ed Accademia, Enti minori.
LA MILIZIA MOBILE - M. M. Era costituita da:
- Fanteria. Comprendeva 48 Regg. di linea ( da 1 a 48); 18 btg. Bersaglieri
(da 1 a 18); 22 comp. Alpini (da 76 a 97 inglobati nei Regg. Alpini dell’E.P.).
- Artiglieria. Da campagna 12 brig. , 12 comp. treno; da montagna era su 3
brig.; a cavallo, c’era solo 1 comp. treno; da fortezza, 11 brig.; oltre a
questi la M.M. aveva alcuni reparti speciali della Sicilia, in particolare
da campagna, 1 brig. ed 1 comp. treno, da fortezza 2 comp..
-Genio. 5 brig. zappatori, 2 brig. minatori, 3 comp. telegrafisti, 2 comp. ferrovieri, 4 comp. pontieri, 1 comp. lagunari e 4 comp. treno.
- Sanità e Sussistenza. 12 comp. Sanità, 12 comp. Sussistenza.
- Milizia Speciale di Sardegna. Composta da 3 Regg. di Fanteria di linea su 3
btg. di 4 comp., 1 btg. Bersaglieri di 4 comp.; 1 squadrone di Cavalleria;
1 brigata di 2 batt. di Artiglieria, 1 comp. da fortezza, 1 comp. treno; 1
comp. zappatori; 1 comp. sanità; 1 comp. sussistenza.
La Milizia Territoriale
Risultava composta da:
- Fanteria di linea. 320 btg. (5 della Sardegna), raggruppabili in reggimenti o
unità maggiori; 22 btg. Alpini.
- Artiglieria da fortezza. 100 comp. che potevano esser riunite per costituire
20 brigate.
- Genio. 30 comp. che potevano essere riunite per formare al massimo 6 brigate, per la Sardegna 1 sezione che faceva parte della comp. art. da fortez-
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za.
- Sanità e Sussistenza. 13 comp. di Sanità (1 per la Sardegna) e 13 di Sussistenza (1 per la Sardegna).
La leva Marittima.
Il principio fondamentale per questa leva era lo stesso di quella di terra.
Tutti gli idonei erano personalmente obbligati fino al 31 Dicembre dell'anno che compivano i 39 anni.
A differenza che nell’Esercito, dove per particolari Armi o Servizi, il reclutamento era fatto, diciamo regionalmente, per distretto, per essere iscritti alla
leva di mare occorreva aver esercitato un particolare mestiere.
Pescatori, operai di cantieri navali, fuochisti, studenti di istituti nautici,
facevano parte della leva navale. Si evince chiaramente che la condizione necessaria era quella di avere una certa esperienza nel settore.
Le eccezioni ed i temperamenti erano gli stessi dell’Esercito. Non era, però, fissata per gli iscritti alla Leva Marittima, alcun limite minimo di statura, né
di perimetro toracico. Tali limiti venivano richiesti solo per chi si arruolasse
come mozzo. Per quest'ultimi il perimetro toracico doveva essere minimo di 83
cm, per chi avesse 16 o 17 anni, 84,3 cm fino ai 18 anni e di 85 cm fino ai 19.
La statura minima di 155 cm e non doveva essere più del doppio della circonferenza toracica. Il peso doveva corrispondere approssimativamente a 345 grammi per ogni cm di altezza.
Anche per la Marina esisteva il volontario di un anno, ma con maggiori
limitazioni.
Poteva esser concesso solamente ai diplomati di scuola di nautica (capitani
marittimi, costruttori navali, macchinisti), agli alunni che erano almeno da un
anno in questo tipo di scuole o a coloro che frequentavano studi nautici presso
professori autorizzati.
Come precedentemente visto, una parte del contingente di 1ª categoria
della leva di terra poteva essere assegnata alla Regia Marina. Il motivo era che,
viste le limitate categorie di persone che avevano pratica di mare, e quindi titolo per essere arruolato in Marina, occorreva integrare il reclutamento .
Sulla scelta “pesava” soprattutto la statura. Difatti gli idonei di 1ª Categoria, con statura inferiore a 1 metro e 60 centimetri, potevano entrare a far parte
della leva di mare.
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Come per l’Esercito gli abili al servizio erano divisi nelle solite tre categorie, con le stesse modalità.
Differenza sostanziale era la divisione in solo due - non tre come per l’Esercito - grandi reparti.
- Marina da guerra attiva,
- Riserva navale.
La prima corrispondeva, si fa per dire, all’E.P. ed alla M.M., la seconda
alla M.T..
I marinai di 1ª e 2ª categoria appartengono fin dall’inizio alla marina da
guerra attiva per 12 anni, successivamente alla Riserva Navale; quelli di 3ª categoria appartenevano per tutto il tempo alla Riserva Navale.
Obblighi di servizio e ferme
Il servizio era di un anno inferiore all’Esercito, difatti iniziava a 21 anni e
terminava a 39 (18 anni complessivi invece dei 19).
Anche qui c’era una differenziazione della durata delle ferme, per i provenienti dall’Accademia Navale, i musicanti e gli ammessi alle altre scuole di marina, durava 6 anni, quattro anni per gli iscritti di leva e volontari, tre anni per i
provenienti dalla leva di terra e, naturalmente, un anno per i volontari di un anno.
La 1ª categoria, quindi, ultimata la ferma (vedi tabella 2), andava in congedo ma rimaneva ascritta al corpo RR . Equipaggi fino al 31 Dicembre del 12°
anno, dopo passava alla Riserva Navale. Quelli di 1ª categoria forniti dalla leva
di terra, restavano, ultimata la ferma, ascritti al Corpo RR. equipaggi fino al
passaggio alla M.M. della propria classe.
La 2ª categoria era ascritta al Corpo RR. Equipaggi per i primi 12 anni e
alla riserva navale nei rimanenti. In tempo di pace rimanevano normalmente in
congedo.
I militari di 1ª e 2ª categoria in congedo potevano essere chiamati alle armi per Decreto Reale, o totalmente, o per classi, o per specialità di servizio, sia
per rassegne che per istruzione o altre eventualità.
La Riserva Navale, in pace, prendeva le armi temporaneamente, per istruzione o per ragioni di ordine interno.
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Il lancia-torpedini
Bettica
ITALO CATI
F
ilo spinato, reticolati, ostacoli di ogni genere, squallida e snervante vita
di trincea, irrigidimento delle linee contrapposte. A questo si era arrivati
in modo progressivo dopo le prime battaglie della Grande Guerra.
Su tutti i fronti, e in particolare su quello italiano, le armate di Cadorna
durante le prime offensive isontine si erano trovate al cospetto di un nemico
ben trincerato che poteva battere con fuoco di mitragliatrici dall’alto delle quote
carsiche le truppe in avanzata, che inevitabilmente si trovavano avviluppate da
un groviglio di ostacoli artificiali frenandone lo slancio con conseguenti perdite
Descrizione
1. Coda
3. Maschio
5. Zoccolo
2. Vitone a galletto
4. Testa cilindrica
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Carichette aggiuntive
1. Barra della carichetta aggiuntiva
2. Carichetta aggiuntiva
3. Carica di spinta
4. Barra della carica di spinta
non indifferenti di materiale umano.
Per ovviare a tale situazione, vennero impiegati dei nuclei di ardimentosi
facenti parte delle cosiddette “Compagnie della Morte” composte di volontari,
che protetti dalle corazze Farina e muniti di pinze e cesoie tagliafili, attaccavano
con generoso sprezzo del pericolo i reticolati Austro-ungarici aprendo in essi
dei varchi permettendo alla fanteria in attacco di insinuarvisi e di conseguenza
impegnarsi per la conquista della postazione contrapposta.
Anche i militari “arditi” dei reparti d’assalto avevano in organico dei nuclei di specialisti tagliafili, che però una volta aperti i passaggi effettuavano direttamente dei colpi di mano contro obiettivi già individuati e mirati in partenza.
Tutte queste azioni molto pericolose procuravano non poche perdite agli
organici di questi particolari nuclei, assottigliandone non poco le schiere. Occorreva trovare altri mezzi idonei allo scopo senza rischiare di più la vita di valorosi combattenti.
Nasceva così a fattor comune su tutti i fronti europei la così detta
“artiglieria da trincea” che aveva lo scopo con le sue armi a tiro curvo, effettuato da posizioni fisse di prima linea, di agire direttamente con successo contro
fortificazioni e contro il famigerato binomio reticolato-mitragliatrice, a cui poco
poteva il tiro teso delle artiglierie a grande gittata.
Va detto che già da alcuni anni precedenti all’inizio del conflitto, i tede-
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Descrizione della torpedine
1. Anima
2. Miccia di innescamento
3. Miccia di accensione
4. Innesco
5. Esplosivo
6. Tappo di legno
schi, con largo intuito avevano previsto tale impiego, ed erano provvisti di minenwerfer da 17 cm di cui fornirono anche i loro alleati Austro-ungarici, che
con successo le usavano contro le postazioni italiane.
Per ovviare a tale problema, lo Stato Maggiore del Generale Cadorna nel
1916 approvvigionò la nascente specialità dei “bombardieri” con una serie di
armi di produzione nazionale, come i vari lanciabombe e mortai Minucciani,
Torretta, Carcano, Ansaldo e infine l’insolito, ma molto efficace, lanciatorpedini studiato e messo a punto dal capitano del Genio Alberto BETTICA di
Torino.
Questa particolare arma conteneva in sé tutti gli elementi per il tiro che
dovevano essere adoperati in operazioni normalmente eseguite con le armi da
fuoco ordinarie e che, per cause “emozionali”, durante il combattimento alle
brevi distanze non potevano essere accuratamente svolte.
Altre caratteristiche erano:
- Piccolo peso, piccolo volume, facile assemblamento, costo limitato grazie ai
materiali con cui l’arma veniva costruita, facilmente trovabili in commercio;
- Notevole facilità nel tiro (otto colpi al minuto circa);
- Gittata massima ed effetto schegge di 150 metri, con tiro eseguito con proiettili di peso uguale.
Essendo i lancia-torpedini delle armi molto versatili, non abbisognavano
di appostamenti speciali per il tiro e venivano inquadrati a sezioni nel numero
di tre per reggimento di fanteria e a sezione unica nelle compagnie Arditi, con il
compito di precederli e seguirli durante le azioni offensive essendo tali armi
facilmente trasportabili (peso 19 kg) in quanto munite di passanti per il fissaggio delle cinghie di trasporto a mo’ di zaino.
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DESCRIZIONE DELL’ARMA
La struttura molto particolare, era composta da uno zoccolo di appoggio
fatto di legno molto forte, che comprendeva una testa semicilindrica ferrata, su
cui appoggiava e si muoveva il maschio, unitamente alla sua piastra ed al settore di elevazione.
La coda veniva fermata a terra durante il tiro da sacchetti a terra, il maschio di acciaio era imperniato al centro della testa semicilindrica in modo da
poter ruotare in un settore di elevazione di 40° circa.
Tale movimento era frenato da un settore di elevazione fissato per mezzo
di un vitone a galletto.
DESCRIZIONE DELLA TORPEDINE
Era costituita da un tubo di ferro il cui interno veniva diviso in due parti
da un tappo fermato al tubo per mezzo di una strozzatura. L’anima, che veniva
“investita” sul maschio al momento dello sparo, conteneva la carica di spinta,
Dati sugli effetti ottenuti
1. Linea serventi portamunizioni e tiratori
2. Zona colpita da schegge
3. Linea trincee nemiche
4. Zona colpita con effetti di distruzione
5. Linea dei pezzi
6. Linea serventi portamunizioni (di rincalzo)
7. Zona ricoperta da schegge
XX.XX. Linea dei reticolati
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compressa contro il tappo da una barra. L’anima aveva due fori diametralmente
opposti, uno per il passaggio della miccia di accensione, l’altro per l’accensione
della miccia di innescamento.
L’interno della torpedine conteneva la carica di scoppio costituita da esplosivo dirompente, compresso contro il tappo, sul quale, per impedire i contatti con la vampa della carica di spinta, veniva preventivamente disposta a forzamento una rosetta di piombo ed un cuscinetto di paraffina.
La miccia d’innescamento faceva capo all’innesto, il quale era fissato nell’interno della carica di scoppio.
All’esterno del tubo, le micce erano protette da una fasciatura di fettuccia.
L’anima delle torpedini e la miccia di accensione venivano protette da un cappuccio di carta paraffinata.
Le casse porta munizioni contenevano otto ordigni, l’accenditore della
miccia e uno straccio per la pulizia.
CARICHETTE AGGIUNTIVE
Il potenziamento della gittata poteva essere aumentato per mezzo di carichette aggiuntive costituite da un pacchetto di 10 grammi di polvere nera che,
incollate ad una barra collocata nella torpedine, faceva si che la stessa barra venisse a risultare a contatto con il maschio allorché vi era la “calzatura” sull’arma.
Particolare da non trascurare era l’assicurarsi che le carichette fossero a
contatto con la carica di spinta delle torpedini.
ESECUZIONE DEL TIRO
Ripari di fortuna in prima linea e anfratti del terreno risultavano ottimi per
il posizionamento dell’arma in vista dell’esecuzione del tiro. Pochi sacchetti a
terra servivano a proteggere il tiratore e le munizioni dalla vampa. Il tiro veniva
eseguito in maniera molto semplice e senza nessuna indicazione speciale, bastava investire la torpedine sul maschio e provocare l’accensione della miccia.
Lo zoccolo di appoggio che veniva fermato a terra con materiale di fortuna, dava l’elevazione sostenendo e dirigendo la torpedine al momento dello
sparo. Essendo la rapidità del tiro maggiore di quella di rifornimento delle munizioni, occorreva preparare un numero di colpi sufficientemente congruo al
caso, in base allo scopo che si voleva conseguire. La gittata poteva essere au-
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mentata o diminuita variando l’elevazione, eseguendo il tiro più o meno curvo.
INCIDENTI DI TIRO
Le torpedini, generalmente, erano collaudate prima di essere incassate,
tuttavia venivano ricontrollate prima del tiro ed eventualmente scartate se stentavano ad essere investite sul maschio.
Altri inconvenienti potevano essere:
- Mancata accensione della carica di spinta, causa il deterioramento della miccia.
- Colpo corto o scoppio prematuro, causato da una falla nel metallo dell’arma.
DATI SUGLI EFFETTI OTTENUTI
Un lancia-torpedini, servito da personale provetto, poteva sparare 60 colpi
in otto minuti circa. Ogni proietto scoppiando, come già detto in precedenza,
esercitava un’azione distruttiva per un raggio di due metri circa, con effetto
schegge di 150 metri. Si aveva, così, per ogni colpo una zona di efficacia di 10
metri quadrati e, un tiro sistematico e preciso in una rosa di 10 metri di diametro, complessivamente una zona di 150 metri quadrati dopo aver ricevuto 60
colpi risultava annientata in tutti i suoi obiettivi.
Rapportando questi dati su tre sezioni inquadrate una per ogni battaglione
per reggimento di fanteria, si aveva un totale di 18 armi che, poste a 10 metri
una dall’altra ed avendo ognuna di esse una dotazione di 64 colpi sortiva i seguenti effetti:
- Una striscia di 200 metri di lunghezza, profonda 14, che veniva colpita in otto
minuti da 1152 torpedini, equivalenti a 3 tonnellate di ferro e 1000 kg di esplosivo, rappresentava 2800 metri quadrati su cui si esercitava, compenetrandovi, l’azione distruttiva; inoltre, vi era una zona lunga 500 metri quadrati e profonda 300 coperta di schegge.
Come visto, l’effetto era veramente devastante e molto efficace, tuttavia
queste armi furono ingiustamente non molto valorizzate: furono avvicendate
progressivamente a partire dal 1917, sia dal lanciabombe francese Stokes, sia
dalle bombarde, sempre di tipo francese, da 58 mm A e B e da 240 mm nei modelli corto e lungo, nonché dalle potentissime 340 e 400 mm.
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LÊultimo volo del col. Smith
Atterrare su un grattacielo
MARCO GASPARINI
28 luglio 1945.
L
a guerra in Europa é finalmente finita e sul fronte del pacifico si sta
preparando l'attacco nucleare al Giappone; il colonnello dell’USAAF
William F. Smith Jr, pluridecorato pilota con 50 missioni di bombardamento su Francia e Germania al suo attivo, sta prestando servizio di supporto e
addestramento.
La sua prossima missione consiste nel trasferire un North American B25 dall’aeroporto di Bedford, Mass., dove é stato sottoposto alla sverniciatura
del verde tipico del teatro europeo, a quello di Sioux Fall, South Dakota, da dove poi proseguirà per la costa del Pacifico.
Un normalissimo volo di trasferimento dunque, tanto che le mitragliatrici non erano state caricate, né tantomeno vi erano bombe nella stiva.
Il piano di volo prevedeva uno scalo tecnico a Newark (attualmente aeroporto per voli interni della circoscrizione di New York), il traffico commerciale e le condizioni meteorologiche comportavano lo spostamento dello scalo
sull’aeroporto La Guardia di New York, a circa 25 Km a nordest da Newark.
Effettuati tutti i controlli pre-volo il pilota ed il navigatore si stavano
portando in testa alla pista richiedendo il permesso di decollo quando una Jeep
si affianca all’aereo e segnala al pilota di fermarsi: é comparso un passeggero
per New York.
Si trattava del marinaio M.A. Perna che doveva raggiungere i suoi familiari al più presto dopo aver avuto la notizia della morte di suo fratello durante
un assalto di Kamikaze sul fronte Pacifico.
Caricato il passeggero a bordo, l’aereo decolla e punta verso sud chie-
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dendo periodicamente le condizioni meteorologiche al La Guardia.
Il viaggio prosegue senza storia a 300 metri di quota e 400 Km/h fino a
New Haven, nel Connecticut; ormai ad un tiro di schioppo da New York il colonnello si prepara all’atterraggio e qui, per uno stupido lapsus, comincia la tragedia.
Il colonnello comunica al La Guardia di trovarsi a 15 miglia a Sudest
dall’aeroporto, mentre la posizione corretta era di 15 miglia a NORDEST.
La torre di controllo comunicò le condizioni di vento al suolo e la pista
attiva ma Smith continuava a chiedere a Newark se ci fosse possibilità di atter-
Come appariva il 79° piano dell'Empire State Building dopo il terribile impatto del bombardiere
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rare là, preferendo il più attrezzato aeroporto a ovest dell’Hudson.
Ottenuta finalmente l’autorizzazione all’atterraggio ed avuto il percorso
di discesa, l’aereo scese sotto le coltri di nuvole permettendo all’equipaggio di
vedere l’East River, scambiandolo però per l’Hudson, 5 km più a ovest.
Più o meno sopra il Triborough Bridge, Smith virò portandosi sopra
Manhattan credendo di trovarsi sopra il New Jersey e si portò in quello che lui
riteneva il finale.
Flap fuori, giù il carrello, motori e passi delle eliche regolati per l’atter-
Un’immagine pittorica dell’urto. Dopo tre settimane dall’incidente le riparazioni erano
già concluse e solo i lavavetri potevano notare la differenza tra la costruzione originale e
il restauro
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raggio e quindi una decisa discesa... proprio sulla Fifth Avenue!
Il bombardiere schivò di un soffio la Cattedrale cattolica di St.Partrik, il
Rockefeller Center e il palazzo della RCA e quando il pilota si accorse della
situazione tragica diede massima potenza ai motori puntando il muso verso l’alto e virando a destra.
Purtroppo tra l’aereo e la salvezza si trovava l’Empire State Building,
all’epoca il più alto edificio del mondo con i suo 396 metri, e il B-25 concluse
il suo volo piantandosi tra il 78° ed il 79° piano e restandovi incastrato.
Essendo sabato gli uffici erano praticamente deserti, inoltre il brutto
tempo aveva ridotto il numero dei visitatori agli osservatori del 86° e 102° piano, tuttavia alcune persone nel palazzo al momento dell’impatto sono concordi
nel dire che la cima del grattacielo si sarebbe spostata di circa 60 centimetri!
La gondola del motore sinistro con tutto il carrello attraversarono il palazzo da parte a parte tagliando le corde di uno dei vari ascensori del grattacielo; Betty Lou Olivier che lavorava come operatrice degli ascensori cadde per
oltre 300 metri fino nei sotterranei riportando miracolosamente solo la frattura
delle gambe e di una vertebra.
L’ala sinistra cadde sulla 34° strada e fortunatamente non causò danni a
persone; le bombole d’ossigeno vennero scagliate nel centro del palazzo dove
innescarono un incendio, inoltre i vapori tossici dell’incendio del carburante
affumicarono la terrazza dell’86° piano.
Bilancio dell'incidente: 3 morti (pilota, navigatore e passeggero), 1 ferito
(Betty Lou) e 7 intossicati dal fumo; poteva essere una strage!
L’inchiesta attribuì tutta la colpa al pilota, in realtà sia la torre di controllo di Newark che quella del La Guardia avevano la loro buona parte di responsabilità permettendo all’aereo di continuare a volare in una zona che era interdetta al traffico (quella a “sudest” dell’aeroporto): probabilmente informando il
colonnello Smith che si trovava fuori zona costui avrebbe potuto rendersi conto
del suo errore e quindi atterrare tranquillamente.
55
Enrico Bertasi,
l’ultimo Signore
del “Falco d’Italia”
VINCENZO MARRONE E ROBERTO MANIERI
In anni di lavoro ha restaurato la collezione Marzoli
esposta nel castello di Brescia
Modi gentili, grande maestria e modestia, ormai rara, sono i primi aspetti che
colpiscono confrontandosi con il restauratore della collezione di armi antiche
bianche e da fuoco che costituiscono il Civico Museo delle armi Luigi Marzoli.
Lo abbiamo incontrato ed intervistato nel suo laboratorio. Tra momenti di recupero storico, illustrazione di tecniche ormai dimenticate e saggi di grande
capacità, abbiamo parlato di restauro, della sua filosofia e del suo significato.
L
e mani di Enrico Bertasi, il restauratore delle armi antiche esposte presso
il Civico Museo del castello di Brescia, hanno rimesso in vita tutti i pezzi dell’eccezionale collezione Marzoli. Questo museo, per importanza
storica ed artistica, costituisce una delle strutture più considerate a livello mondiale e richiama presso le proprie sale numerosissimi studiosi da ogni parte del
mondo.
Il restauratore, personalità eccezionale e tecnico di grande competenza e
serietà, è la persona a cui, da diversi anni, l’amministrazione del fondo Luigi
Marzoli ha assegnato l’incarico di provvedere al restauro ed ai piccoli interventi
conservativi imposti dal materiale assolutamente originale esposto presso le sale o conservato nei depositi comunali.
L’immediata sintesi della lunga e sapiente pratica di artigiano riacconciatore di nitide forme che il tempo aveva sbozzato, storto, ammaccato o ossidato
si spalanca subito davanti ai nostri occhi nella piccola officina ospitata nella sua
abitazione situata in Castello quello che, nella storia, viene definito il “Falco
d’Italia”.
Bertasi, quando lo incontriamo per realizzare questo servizio per “EXA 96
tabloid” ci mostra i pezzi a cui sta attualmente lavorando: un’armatura del ‘600
e uno “sfondagiaco” tedeschi e l’ingegnoso acciarino di una pistola a due canne
sovrapposte, anche quella del XVII secolo, funzionante con un sistema che permette alla seconda carica, contenuta nello scodellino, di porsi immediatamente
sotto il cane, una volta sparato il primo colpo.
L’oggetto guizza nelle mani del nostro ospite e ci viene svelato il meccanismo. Sotto l’effetto di una molla reggispinta a lamina e ovviamente forgiata a
mano dall’antico costruttore, il bacinetto della canna inferiore si scopre per ef-
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fetto dell’arretramento meccanico di quello superiore dopo che, ad arma sparata, si arretra il pesante cane che reca la pietra e si riposiziona la martellina. I due
bacinetti alimentano la vampa che percorre due distinti foconi, garantendo così
al nobile proprietario del bel “ferro” ben due colpi per difendersi dalle insidie
della strada o del rivale di corte. Ma la nostra attenzione viene rapita ora da un
brandistocco, poi da una spada la cui fornitura ci ricorda una forma analoga di
una spada tedesca da ufficiale della guerra dei Trent’Anni del secolo XVII conservata a Stoccolma presso il Livrustkammaren ed infine da un’armatura che
Enrico Bertasi svolge il proprio lavoro alle dipendenze del Comune di Brescia. Autentica personalità nell’ambito del restauro lega il proprio nome al restauro delle armi
antiche della collezione Marzoli
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troneggia nel mezzo
del laboratorio, i cui
pezzi appaiono trattenuti per poche fibre da
un cuoio cotto dagli
anni e duramente corrotto dai lubrificanti
versati sulle placche
metalliche sagomate.
“Quell’armatura
non è un granché” ci
dice Bertasi mentre
stiamo lentamente
scrutando il pezzo, “...
lo si vede dall’interno
e, soprattutto, dall’elmo che era uno dei
manufatti più difficili
su cui era chiamato a
cimentarsi un artigiano dell’epoca”. Notiamo, infatti, che l’elmo
di quell’antico uomo
d’arme tedesco non è
costituito da un pezzo
unico, come dovrebbe
essere, ma da due metà saldate sulla sommità. “Gli artigiani
più bravi forgiavano
l’elmo tutto intero,
mantenendo spessori
sottili o incrementandoli là dove si rendeva
necessario per garantire la protezione o la
comodità di chi doveva poi portarlo in battaglia” conferma Bertasi. Il maestro battitore partiva infatti da una
lastra di metallo forgiato a più riprese e,
secondo alcune scuole,
fatto riposare in una
lettiera di calce per
qualche mese, trattamento a seguito del
Armatura tedesca da campo. La conservazione di reperti di
importanza storico-culturale quali le armi antiche comporta
una serie di problematiche la cui risposta va ricercata ora
nel supporto della moderna chimica, ora nella grande esperienza e nella professionalità dei restauratori in grado di
applicare le tecniche tradizionali
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quale la struttura acquistava particolari caratteristiche meccaniche (alcuni scavi
seguiti da ritrovamenti hanno localizzato la zona attualmente occupata dalla ditta Uberti, a Zanano di Sarezzo, come una di quelle presso la quale giacevano i
forgiati bolliti a “calcinare”) e quindi procedeva alla lavorazione di imbutitura e
stiraggio vero e proprio avvalendosi del supporto di aiutanti di bottega addetti
al mantice, alla staffa del maglio ed alla “botta” della dima.
I soli strumenti erano gli utensili sagomati, la fucina ed il martello, mentre
i vari trucchi del mestiere erano i segreti di un’arte ormai definitivamente persa.
Il metallo, durante la lavorazione veniva più volte riscaldato e fatto rinvenire
per togliere alle lamiere l’effetto sfoglia dell’incrudimento superficiale operato
dalla martellatura e l’opera continuava ininterrottamente sino a lavoro concluso. Nascevano allora i morioni tondi, a cresta o gli aguzzi realizzati integralmente da un’unica lamiera o prendevano forma e volute gli spallacci delle pesanti armature da campo o da giostra in spesso acciaio.
Mentre Bertasi ci conferma tutto ciò, dai pochi oggetti che ci ha mostrato,
abbiamo già capito lo stile che ispira il suo metodo di operare, di accostarsi a
dei pezzi trasudanti storia, intaccati dal ferro delle battaglie e dallo schianto dei
cavalli che travolgono fanterie composte da uomini spesso rozzi strappati alla
Uno scorcio della collezione Luigi Marzoli che costituisce il Civico Museo delle Armi di
Brescia. Questo museo, famoso in tutto il mondo, è stato costituito in seguito ad un lascito
legato al Comune di Brescia. La condizione che subordinava il passaggio di proprietà della famiglia Marzoli al Comune era la costituzione di una struttura museale adeguata a disposizione della cittadinanza e di tutti gli studiosi di oplologia e di storia
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campagna o al rude lavoro della montagna.
Il modo di lavorare di Enrico non tende ad aggiungere ad armature, fucili
o altri “reperti” storici pezzi nuovi che ne ripristino artificialmente lo splendore.
Il suo obiettivo, in ogni lavoro, è riportare l’oggetto alle condizioni in cui
il costruttore lo ha completato, effettuare cioè un restauro solamente conservativo che riesca, per quanto possibile, a trarre dal pezzo la sua luce originale.
“Il maestro non sono io, ma l’artigiano che, secoli fa, ha forgiato e modellato l’arma. Insomma se la molla di un acciarino è rotta, si può provare a
saldarla bollendola (ossia forgiandola e ottenendo la sua saldatura per brasatura al color bianco) ma non ritengo corretto sostituirla con una nuova”.
La corruzione del tempo era evidente nell’immagine a lato: il restauro è stato qui preciso e materialmente ricostruttivo. La lama è stata saldata per mezzo di bollitura e quasi
resa integra con riporto di metallo
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Il rispetto per il lavoro di quei grandi e poveri maestri armaioli che Bertasi
ha saputo infondere nella sua certosina opera lo si coglie, per intero, visitando il
museo delle armi. Questa collezione Bresciana, al contrario di altre del suo genere, dà la suggestiva impressione che i singoli pezzi esposti ci trascinino indietro nel tempo.
Ogni arma non sembra, infatti, “restaurata” ma solo ben conservata. Le
bruniture originali, realizzate secondo le regole alchemiche della fornace creativa e dei reagenti “magici”, magari ottenute unicamente lasciando bruciare sopra
la lama, ben sgrassata e priva di segni, un falò di tralci e legni di vite, sono effettuate con lo stesso metodo adottato da Vincenzo Perugini, armaiolo in Nuvolera, quando vuole brunire di un bel blu Colt la braghetta di un acciarino. Sotto
il velo di olio siliconico di protezione, l’opaca e fredda luce che emana ogni
singolo reperto esposto, lascia la netta sensazione che coloro che cinque secoli
fa indossavano o brandivano il pezzo siano ancora vivi e vegeti, in giro per il
colle Cidneo su cui si erge incombente il castello.
Crediamo sia difficile trattare in questo modo ciò che è antico e che dà
l’impressione di essere irrimediabilmente perso, ma Bertasi anche di fronte alla
situazione apparentemente più disperata, mai si è dato per vinto. “La soluzione
è una sola: olio di gomito... e qualche piccolo trucco che non desidero svelare
perché nessuno si possa permettere di fregiarsi del titolo spesso abusato di e-
Brunitura, agemina e incisione: niente male come difficoltà. L’arma, un fucile da tiro
ad avancarica, era assolutamente ossidata e dopo settimane di lavoro ecco il risultato.
Per i più curiosi quello dell’immagine è un finto luminello e del resto sono assenti qui
cane e batteria. La sua presenza si giustifica solo per disporre di una simmetria generale. L’incisione riporta la storia di Guglielmo Tell
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sperto e danneggiare così pezzi magari rari”. E in effetti crediamo che un piccolo o grande o quantomeno ingegnoso trucco ci vuole quando, è lui stesso a
dircelo, si trovano situazioni molto compromesse in cui sono mescolati insieme
ossido, doratura, agemina e brunitura.
Il restauratore è chiamato a rimuovere l’ossidazione sanando le superfici,
senza compromettere gli strati superficiali della brunitura, lasciando inalterate
le parti rimesse in oro. Gli aggressivi suggeriti dalla chimica moderna si scontrano con lo spirito e la tecnica di Bertasi. E sugli scaffali appaiono flaconi di
alcool a 94°, gli oli minerali più strani, un piccolo flacone di acetone, resine
dalle essenze esotiche dimenticate nelle scaffalature dei colorifici di un tempo e
tanti, veramente tanti intrugli fatti di soluzioni, emulsioni e depositi di ossidi e
terre decantate negli anni. Bertasi ci mostra allora il pezzo che gli ha dato la più
grande soddisfazione di artigiano restauratore: è una spada dall’impugnatura
costituita da una miriade di fili d’oro intrecciati. Fu trovata nel greto di un torrente a Pizzighettone, in condizioni ovviamente pietose, come mostrano le foto
del servizio. Ciò che Bertasi è riuscito a trarre da quel pezzo di metallo informe
è veramente incredibile.
La sua abilità sembra diretto retaggio di quei rinomati artigiani bresciani
che hanno seminato per tutta l’Europa migliaia di armature, spade, fucili, elmi,
pistole, corazze. Uno di questi capolavori bresciani compare su molti libri di
storia: è l’armatura di Re Luigi XIV, il “Re Sole”.
Guardiamo l’elsa rigirandola tra le mani, stringiamo il pomolo e avvertiamo il contatto con il metallo freddo, il dito scorre sul filo della lama ancora abbozzato nonostante l’erosione tipica di un’arma da scavo. Un tempo, spada alla
mano un uomo ha affrontato degli avversari con quella lama e con essa nel pugno è caduto, ferito, sentendosi lambire il corpo dalle fredde acque della roggia.
Ora la spada è li, memoria salvata dalla corruzione del tempo, a ricordarci la
nostra storia e gli innumerevoli episodi che l’hanno costellata, episodi di piccoli
e decisi uomini che indossavano protezioni di metallo e deprecavano l’uso delle
prime armi da fuoco perché toglievano il diritto, ed il privilegio, della lotta a
contatto diretto, ad armi pari.
Erano altri tempi e la spada tra le nostre mani lo conferma. Brescia viveva
di una fama diffusa in tutta Europa, anche perché, quanto usciva dalle officine
Bresciane e, soprattutto, Gardonesi non erano solo armature per nobili. La Serenissima, infatti, affidò per secoli a Brescia, il ruolo di arsenale delle sue armate.
Questo richiamo a Venezia ci dà l’occasione per parlare delle famose
“canne” Gardonesi che non scoppiavano mai tra le mani di chi le usava.
“Sinceramente non ho ancora capito in cosa consistesse l’oggettiva superiorità dei fucili costruiti a Gardone. Per me avevano scoperto un trattamento
termico che evitava il collasso della canna. È un segreto che è rimasto sepolto
nel tempo come quello del sistema di brunitura che ancora oggi non si riesce a
riprodurre nelle sue gradazioni”.
Bertasi sembra accennare a questo insondabile segreto dei gardonesi, quasi con una punta di rammarico, come se avesse provato chissà quante volte a
carpire quel segreto senza riuscirvi. “Una cosa è certa” continua Enrico “la
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quantità di sali e brandelli di resine naturali che rilevo nelle pieghe delle armature, dimostra che gli antichi uomini d’arme non dovevano certo essere inclini all’amore per l’igiene personale. Si versavano infatti sugli abiti quantità
notevoli di soluzioni deodoranti perché le imbottiture delle armature assorbivano e raccoglievano la sudorazione, lo sporco, il fango e, durante la caccia, il
sangue delle prede quando, naturalmente, non era quello del malcapitato avversario o il proprio. Quando procedo alla pulitura delle armature sciolgo
spesso le incrostazioni lasciate dalle resine profumate e l’aroma si sparge in
tutto il laboratorio. Se la mia ricerca non fosse mirata a rimuovere i sali di acido presenti nelle pieghe del metallo per impedire che la loro riattivazione corrompa le superfici, questo fatto potrebbe essere degno di uno studio specifico”.
L’ultima tappa di questo nostro colloquio con il restauratore del Museo
delle Armi è costituita dai cannoni, le colubrine, le bombarde e le spingarde che
sono ospitate numerose nelle stanze del museo e che ancora sono perfettamente
funzionanti ed in grado di sopportare una carica di polvere. È una coda della
nostra conversazione che ci dà modo di capire da dove provenissero quelle improvvise esplosioni che, a volte, hanno lasciato attonita la città che guardando
verso il castello si chiedeva se, per caso, fosse ritornato il generale Heynau, la
“iena” delle dieci giornate. Bertasi ha prestato la propria collaborazione per girare alcune scene di un cortometraggio prodotto dalla Camera di Commercio di
Brescia e dal Consorzio Armaioli Bresciani sul tema della costruzione delle armi. Una scena vede una vecchia artiglieria deflagrare tra fumi, lapilli e sbuffi
una piccola quantità di polvere nera. La palla non c’era, ma l’effetto di realismo
è stato assicurato.
Ormai è sera avanzata, ci congediamo dall’amico Bertasi e ci avviamo
verso il portone del castello. La notte è fredda e cupa, scendiamo la breve rampa che introduce alla portella, un tempo custodita dal corpo di guardia.
Lungo la ripida parete dello spalto alla nostra sinistra, un’ombra lunga disegna una sagoma contratta nella quale riconosciamo gli spallacci. La scorgiamo minacciosa, incombente, quasi diabolicamente protesa verso di noi.
Poi Bertasi spegne la luce del laboratorio e la sagoma della vecchia armatura cessa di stagliarsi contro l’incandescenza della forte lampada del banco e
l’ombra svanisce nell’oscurità.
Forse quel giorno a Pizzighettone era il tramonto.
Ci aggiustiamo i cappotti e nel nostro silenzio ci convinciamo che è solo
suggestione. Per un momento però, in noi, l’uomo è tornato. Lo abbiamo fatto
brevemente rivivere. La spada dall’impugnatura d’oro ancora brandita nel pugno. Grazie, Bertasi, ora siamo certi di aver capito.
_________________
L’articolo è stato riprodotto per gentile concessione degli autori.
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Baionette Italiane
GIANRODOLFO ROTASSO
Baionetta mod. 1814 per fucili da fanteria
del Regno di Sardegna e Regno d’Italia.
Questa baionetta, con lama a sezione triangolare a lati sgusciati e manicotto a spacco con ghiera di fissaggio, deriva dal famoso mod. 1777 - Anno
IX francese.
Il sistema di innesto di quest’arma dell’età napoleonica fu adottato durante la Restaurazione dalla maggior parte degli eserciti europei e lo si ritroverà
ancora impiegato su baionette del nostro secolo.
Gli eserciti degli Stati preunitari italiani ed in particolare del Regno di
Sardegna, di cui il Piemonte fece parte integrale dell’Impero, conservarono
questo tipo di baionetta fino all’Unità d’Italia. In seguito il Regio Esercito la
utilizzò fino alla completa distribuzione della «sciabola-baionetta» del fucile
Vetterli.
Il modello adottato nel 1814 per la fanteria dell’Armata Sarda è simile a
quello francese che durante l’Impero veniva costruito dalla «Manifattura Imperiale di Torino». La stessa baionetta fu adottata per i moschetti d’artiglieria
(fino al 1844) e da minatori e, con lama leggermente più lunga (mm. 514) fu
inastata anche sui moschetti da RR.CC. a piedi.
Il fodero era in cuoio annerito con puntale in ferro o in ottone e con cinturino per il fissaggio alla tasca del budriere (alla francese). In seguito, munito
di cappa con bottone e poi con gancio in ferro e cinturino, veniva portato in una apposita “camera” della tasca (1864).
- Lunghezza totale della baionetta: 528 mm
- Lunghezza della lama:
460 mm
- Lunghezza del manicotto:
67 mm
- Diametro interno del manicotto:
22 mm
- Peso della baionetta:
300 gr
- Peso del fodero:
155 gr
(le dimensioni sono soggette a tolleranze).
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Sciabola-baionetta da Bersaglieri
del Regno di Sardegna e Regno d’Italia.
L’adozione della carabina a canna rigata per questo particolare Corpo,
fondato da La Marmora, comportò anche l’adozione di una baionetta, denominata «sciabola-baionetta», con lama a filo e punta da poter essere usata, disinastata, come «daga».
Il primo modello del 1836, del quale non si conoscono esemplari (come,
del resto, non è nota nemmeno la carabina), non ebbe successo, in quanto, da
come risulta da una relazione dell’epoca, aveva l’impugnatura piuttosto debole.
Nel 1839, con l’adozione di una nuova carabina simile agli Jägerbüchse
degli Stati tedeschi, venne adottata una baionetta di modello prussiano
(Hirschfämger mod. 1809). Questa nuova sciabola-baionetta aveva la lama
dritta ad un filo, punta e breve falso filo, e impugnatura in ottone a lungo incastro laterale a “T”, con molla a dente d’arresto per il fissaggio alla braga della
canna della carabina.
Il fodero era in cuoio annerito con cappa e puntale in ottone.
Questo modello fu mantenuto anche con le successive carabine, ossia le
mod. 1844, 1848 e 1856. Queste ultime, inoltre, trasformate a retrocarica nel
1867 con il sistema «Carcano», mantennero la stessa baionetta fino alla totale
sostituzione avvenuta con le armi sistema «Vetterli».
- Lunghezza totale della baionetta: 606 mm
- Lunghezza della lama:
470 mm
- Lunghezza della lama al tallone:
30 mm
- Peso della baionetta:
870 gr
- Peso del fodero:
180 gr
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Sciabola-baionetta d’Artiglieria
del Regno di Sardegna e Regno d’Italia
In seguito all’adozione della sciabola-baionetta per i Bersaglieri, anche agli
Artiglieri venne data una baionetta immanicata, eliminando in tal modo la baionetta da Fanteria mod. 1814 e la daga mod. 1833.
Questa baionetta, a lama diritta a doppio filo, simile alla vecchia daga
(1833), venne adottata nel 1843 con la denominazione di “sciabola-baionetta” e
fu inastata sul moschetto “ridotto” adottato l’anno successivo come mod. 1844.
L’impugnatura era in ottone intagliato a lungo incastro laterale a “T”, con
molla a dente d’arresto per il fissaggio alla braga della canna del moschetto.
Il fodero era in cuoio annerito con cappa e puntale in ottone.
- Lunghezza totale della baionetta:
- Lunghezza della lama:
- Larghezza della lama al tallone:
- Peso della baionetta:
- Peso del fodero:
590 mm
455 mm
30 mm
720 gr
180 gr
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Sciabola-baionetta per
armi Remington del Regno d’Italia
Si tratta di una baionetta di tipologia francese, usata per i fucili Chassepot
mod. 1866, adottata anche dallo Stato della Chiesa per i fucili e carabine Remington sistema «Rolling-Block».
Aveva una lunga lama a “jatagan” con grande sguscio fino al falso filo.
L’impugnatura era in ottone intagliato con incastro a “T” sul dorso e con piolo
a dente d’arresto, per il fissaggio all’arma da fuoco, azionato da una molla a
lamina. La crociera era in acciaio e recava l’anello con vite di regolazione e un
grande gancio per il fascio d’armi.
Il fodero era in cuoio del tipo piemontese in sostituzione di quello in lamiera di ferro, ex pontificio, con cappa e puntale in ottone.
Le armi Remington mod. 1868, in dotazione all’esercito pontificio all’epoca della presa di Roma, furono distribuite ai Bersaglieri nel 1871.
- Lunghezza totale della baionetta:
690 mm
- Lunghezza della lama:
568 mm
- Larghezza della lama al tallone:
29 mm
- Diametro interno dell’anello di crociera:
17,5 mm
- Peso della baionetta:
680 gr
- Peso del fodero:
200 gr
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Sciabola-baionetta mod. 1870
Primo tipo (denominata “Tipo E”
dal 1874)
Fu la prima baionetta costruita ex novo per l’esercito del Regno d’Italia.
Aveva una lunga lama diritta ad un filo, punta e falso filo con grande sguscio
fino al debole ed il suo asse era leggermente spostato rispetto a quello dell’impugnatura.
L’impugnatura, in ottone, manteneva la sagoma delle baionette dei Remington pontifici ed anche l’anello della crociera aveva la vite di regolazione, mentre il gancio, di disegno diverso, recava all’inizio un piccolo sperone. Il fornimento era trattenuto alla lama da un bottone avvitato al codolo.
Il fodero era in cuoio annerito con cappa e puntale in ottone di tipico gusto
piemontese.
- Lunghezza totale della baionetta:
690 mm
- Lunghezza della lama:
565 mm
- Larghezza della lama al tallone:
27 mm
- Diametro interno dell’anello di crociera:
17,5 mm
- Peso della baionetta:
750 gr
- Peso del fodero:
205 gr
Secondo tipo (denominata “Tipo D”
dal 1874)
Era simile al primo tipo, ma con lama più corta di 45 mm.
Le lame del primo tipo accorciate si riconoscevano dallo sguscio più lungo.
Il fodero ebbe dal 1875 la cappa munita di bocchetta di acciaio con linguette.
- Lunghezza totale della baionetta:
- Lunghezza della lama:
645 mm
520 mm
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Sciabola-baionetta mod. 1870 adottata nel 1874
(denominata “tipo U” dal 1891)
Manteneva la stessa lama del “tipo D”, mentre il fornimento era di nuovo
disegno.
L’impugnatura, composta da un cappuccio di ferro o di ghisa fisso alla lama, aveva le guance di corno o di ebanite trattenute da due viti passanti; la vite
verso il cappuccio fermava anche la corta molla che azionava il piolo a dente
d’arresto.
La crociera aveva l’anello senza la vite di regolazione ed il gancio non presentava più il piccolo sperone.
- Lunghezza totale della baionetta:
- Lunghezza della lama:
- Larghezza della lama al tallone:
- Diametro interno dell’anello di crociera:
- Peso della baionetta:
- Peso del fodero:
645 mm
520 mm
27 mm
17,5 mm
550 gr
195 gr
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Sciabola-baionetta mod. 1870
adottata nel 1879
(denominata “tipo Z” dal 1891)
Era simile alla sciabola-baionetta del “Tipo U”, dalla quale differiva per
avere il fornimento amovibile, trattenuto alla lama da un bottone avvitato al
codolo.
Le guance erano in ebanite nera.
- Lunghezza totale della baionetta:
645 mm
- Lunghezza della lama:
520 mm
- Larghezza della lama al tallone:
27 mm
- Diametro interno dell’anello di crociera:
17,5 mm
- Peso della baionetta:
550 gr
- Peso del fodero:
195 gr
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Sciabola-baionetta mod. 1870
(Tipo regolamentare dal 1879)
Era simile alla sciabola-baionetta del “Tipo Z”, dalla quale differiva principalmente per avere la molla del piolo più lunga e tenuta ferma dalla seconda
vite delle guance.
Il fodero era di nuovo disegno con cappa e puntale in ottone ed anche in
ferro.
- Lunghezza totale della baionetta:
645 mm
- Lunghezza della lama:
520 mm
- Larghezza della lama al tallone:
27 mm
- Diametro interno dell’anello di crociera:
17,5 mm
- Peso della baionetta:
550 gr
- Peso del fodero:
180 gr
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Circolo Culturale “Armigeri del Piave”
Sommario delle pubblicazioni
edite
a partire dal 1997
SAGGI DI OPLOLOGIA
G. Rotasso, Le armi nei secoli del Rinascimento, pp. 5-26 - V. Posio, Le armature delle Grazie, pp. 27-38 - P. Pinti, Artiglierie veneziane a Nauplia, pp. 3976 - G. Ricci Curbastro, I Rosaglio, pp. 77-86 - C. Calamandrei, Per Ascari d’Africa, pp. 87-94 - S. Zannol, Il munizionamento del ‘91, pp. 95-128 - S. Coccia, I Guastatori del Genio Alpino, pp. 129-150.
QUADERNI DI OPLOLOGIA
N. 1 - 1995
P. Pinti, Armi e misure, pp. 3-7 - M. Gasparini, Mistel (ovvero le bombe più costose della seconda guerra mondiale), pp. 8-10 - N. Ciampitti, L’Ordinanza
italiana Bodeo 1889, pp. 11-15 - M. Gasparini, Cannoni imbarcati, pp. 16-22 F. Gasparini, Il coltello da combattimento tedesco della IIª guerra mondiale,
pp. 23-26 - N. Ciampitti, Pistola a rotazione Tettoni mod. 1916, pp. 27-30 - G.
Rotasso, L’armamento individuale dagli eserciti preunitari all’esercito italiano
della Repubblica, pp. 31-59.
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N. 2 - 1° semestre 1996 - Circolo Culturale Armigeri del Piave