Da Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze
attinenti alla mecanica ed i movimenti locali
TESTO
"Io farò considerazione sopra i movimenti fatti per l'aria, ché tali son principalmente
quelli de i quali noi parliamo; contro i quali essa aria in due maniere esercita la sua
forza: l'una è coll'impedir più i mobili men gravi che i gravissimi; l'altra è nel
contrastar più alla velocità maggiore che alla minore dell'istesso mobile. Quanto al
primo, il mostrarci l'esperienza che due palle di grandezze eguali, ma di peso l'una 10
o 12 volte più grave dell'altra, quali sarebbero, per esempio, una di piombo e l'altra di
rovere, scendendo dall'altezza di 150 o 200 braccia, con pochissimo differente velocità
arrivano in terra, ci rende sicuri che l'impedimento e ritardamento dell'aria in
amendue è poco: che se la palla di piombo, partendosi nell'istesso momento da alto
con l'altra di legno, poco fusse ritardata, e questa molto, per assai notabile spazio
1
devrebbe il piombo, nell'arrivare in terra, lasciarsi a dietro il legno, mentre è 10 volte
più grave; il che tutta via non accade, anzi la sua anticipazione non sarà né anco la
centesima parte di tutta l'altezza; e tra una palla di piombo ed una di pietra, che di
quella pesasse la terza parte o la metà, appena sarebbe osservabile la differenza del
tempo delle lor giunte in terra. Hora, perché l'impeto che acquista una palla di piombo
nel cadere da un'altezza di 200 braccia (il quale è tanto, che continuandolo in moto
equabile scorrerebbe braccia 400 in tanto tempo quanto fu quello della sua scesa) è
assai considerabile rispetto alle velocità che noi con archi o altre macchine conferiamo
a i nostri proietti (trattone gl'impeti dependenti dal fuoco), possiamo senza errore
notabile concludere e reputar come assolutamente vere le proposizioni che si
dimostreranno senza il riguardo dell'alterazion del mezo. Circa poi all'altra parte, che è
di mostrare, l'impedimento che l'istesso mobile riceve dall'aria, mentre egli con gran
velocità si muove, non esser grandemente maggiore di quello che gli contrasta nel
muoversi lentamente, ferma certezza ce ne porge la seguente esperienza.
Sospendansi da due fili egualmente lunghi, e di lunghezza di 4 o 5 braccia, due palle
di piombo eguali, e attaccati i detti fili in alto, si rimuovano amendue le palle dallo
stato perpendicolare; ma l'una si allontani per 80 o più gradi, e l'altra non più che 4 o
5: sì che, lasciate in libertà, l'una scenda e, trapassando il perpendicolo, descriva archi
grandissimi di 160, 150, 140 gradi etc., diminuendogli a poco a poco; ma l'altra,
scorrendo liberamente, passi archi piccoli di 10, 8, 6 etc., diminuendogli essa ancora a
poco a poco: qui primieramente dico, che in tanto tempo passerà la prima li suoi gradi
180, 160 etc., in quanto l'altra li suoi 10, 8 etc. Dal che si fa manifesto, che la velocità
della prima palla sarà 16 e 18 volte maggiore della velocità della seconda; sì che,
quando la velocità maggiore più dovesse essere impedita dall'aria che la minore, più
rade devriano esser le vibrazioni ne gli archi grandissimi di 180 o 160 gradi etc., che
ne i piccoli di 10, 8, 4, ed anco di 2 e di 1: ma a questo repugna l'esperienza; imperò
che se due compagni si metteranno a numerare le vibrazioni, l'uno le grandissime e
l'altro le piccolissime, vedranno che ne numereranno non pur le decine, ma le
centinaia ancora, senza discordar d'una sola, anzi d'un sol punto. E questa
osservazione ci assicura congiuntamente delle 2 proposizioni, cioè che le massime e le
minime vibrazioni si fanno tutte a una a una sotto tempi eguali, e che l'impedimento e
ritardamento dell'aria non opera più ne i moti velocissimi che ne i tardissimi".
ANALISI E COMMENTO
Galileo non è il primo scienziato a scrivere in italiano (tra i suoi predecessori, ci sono
Leonardo da Vinci, Niccolò Tartaglia, Agostino Ramelli), ma è il primo a farlo
realizzando un equilibrio tra l'esigenza empirica e dimostrativa e quella più
squisitamente letteraria.
Dunque, a differenza dei suoi predecessori, non gli interessava solo la funzione
comunicativa dell'italiano, il cosa, ma anche quella espressiva, il come. Egli
abbandona progressivamente il latino, lingua internazionale della scienza – con cui
scrive opere fondamentali come il De motu e il Sidereus Nuncius – perché la "nuova
scienza" possa arrivare a un pubblico più vasto possibile. Questa scelta è anche
dovuta al rifiuto del latino come strumento ormai superato e logoro, cristallizzato nel
vecchio formulario dell'aristotelismo cinquecentesco. Quel "libretto assai più breve
d'Aristotile e d'Ovidio" che contiene teoricamente tutto lo scibile umano e si chiama
alfabeto – secondo una sua famosa immagine – non deve più essere appannaggio di
2
una ristretta cerchia di eruditi, magari dallo spirito dogmatico e conservatore, ma
aperto a tutti coloro che egli chiamava gli "intendenti", cioè le persone colte e
dotate di un'intelligenza critica e innovatrice.
In questa scelta è aiutato anche dall'assidua frequentazione degli scrittori italiani
più amati, da Dante a Petrarca, da Ariosto a Tasso, cui dedica commenti e
considerazioni. In questo modo Galileo si forgia una lingua con precise caratteristiche
di esattezza ed eleganza, in grado di avvalersi contemporaneamente della
terminologia della fiorente trattatistica rinascimentale e dei migliori risultati della
letteratura volgare. Celebre è il giudizio di Ugo Foscolo: "dovette la copia, la purità e
la luminosa evidenza della sua prosa ad uno studio costante della poesia". Insomma,
per riassumere con una formula: unì Aristotele a Ovidio, rigore scientifico a
eleganza poetica.
Il brano scelto appartiene all'ultima opera pubblicata da Galileo, i Discorsi e
dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i
movimenti locali. La scelta è dovuta a diversi motivi. In primo luogo si tratta
dell'opera scientificamente più rilevante di Galileo, dunque particolarmente
rappresentativa della sua lingua scientifica: iniziata nell'estate del 1633, subito dopo
la condanna del Dialogo dei Massimi sistemi, presenta sempre la forma del dialogo con
gli stessi protagonisti (Simplicio, Salviati, Sagredo), e non è meno copernicana
dell'opera condannata; tuttavia i teologi non se ne occuparono perché non la capirono.
Per essere sicuro Galileo la fece stampare a Leida nel 1638 nella celebre tipografia
degli Elzeviri. È disponibile un'ottima edizione curata da Enrico Giusti, edita da Einaudi
nel 1990, facilmente reperibile, da cui è ricavato il testo (come curiosità si segnala che
Galileo è uno dei pochi autori italiani ad avere l'edizione nazionale, curata da Antonio
Favaro, in 20 volumi, Firenze, Barbera, 1890-1909, più volte ristampata).
L'argomento riguarda l'incidenza dell'attrito dell'aria nella caduta dei gravi. Ciò
che salta subito all'occhio è la fitta trama nominale: una lingua fatta di nomi, in cui
– come vedremo – anche i verbi tendono a essere sostantivati, e in cui dominano la
precisione e l'esattezza delle parole. La procedura tipica di Galileo, infatti, è quella
di trasformare la parola, veicolo di un senso generico, in termine, espressione
dell'aspetto più tecnico. Si tratta perlopiù di nomi d'azione, caratterizzati dalla
suffissazione in -mento e -zione: impedimento, ritardamento, movimento,
anticipazione, alterazione, vibrazione. L'esigenza di una scrittura sintetica e
oggettiva coinvolge anche gli altri elementi della frase. Da qui l'uso degli aggettivi
verbali in -bile: notabile, osservabile, equabile, considerabile; fino alla totale
sostantivazione per necessità tecniche: "l'istesso mobile". Si tratta di aggettivi che
consentono la trasformazione di frasi secondarie con verbo esplicito in unità nominali:
ad es., notabile sintetizza una relativa come "che si può notare". Lo stesso
procedimento si nota con i participi presenti: "gl'impeti dependenti dal fuoco" vale per
"gl'impeti che dependono dal fuoco"; "con pochissimo differente velocità" sta per "con
velocità che differisce pochissimo". Galileo potenzia al massimo i participi, quelle
forme cioè che, pur appartenenti al paradigma verbale, partecipano del più economico
statuto morfologico del nome. Così può usare il participio passato in varie funzioni:
1) sostantivato in qualità di termine tecnico: "proietti";
2) in sostituzione di una relativa: "lasciate in libertà", "i detti fili";
3
3) come ablativo assoluto: "trattone gl'impeti";
4) nella costruzione passiva: "fusse ritardata", "dovesse essere impedita dall'aria".
Sono tutti usi molto economici e sintetici, che inoltre garantiscono quella coesione
linguistica alla base dell'efficacia dei rapporti tra parole, e quindi della coerenza logica
del testo, fondamentale per una scrittura scientifica. La costruzione passiva ha un
altro vantaggio: essa privilegia gli oggetti sui soggetti, i fatti sulle opinioni. Si
può ottenere nella classica forma analitica di ausiliare e participio passato, oppure
nell'altra ancora più sintetica del si passivante: "si dimostreranno", "sospendansi",
"si rimuovano".
In una lingua che privilegia l'estrema sintesi e l'esattezza oggettiva i verbi soddisfano
queste esigenze. Ecco dunque l'uso frequente dell'infinito sostantivato:
"coll'impedir", "nel contrastar", "il mostrarci", "nel muoversi". Il ricorso alla forma
impersonale per una "mimetizzazione modesta dell'io" (Maria Luisa Altieri Biagi): "si
fa manifesto". Galileo tende a usare verbi molto generici (essere, avere, dare, fare,
rendere ecc.) associati di volta in volta a sostantivi che ne determinano il
significato: "farò considerazione" anziché "considererò", "rende sicuri" anziché
"assicura". Il fenomeno, molto diffuso, è l'ennesima conferma della volontà di
sottrarre spessore semantico al verbo, lasciandogli la sola funzione
morfosintattica.
Questa procedura si riflette sul tipo di sintassi: Galileo privilegia l'ipotassi, che
consente maggiore coesione e sviluppo, soprattutto attraverso frasi relative,
consecutive, avversative, ipotetiche, oppure attraverso il gerundio, che permette
un grande risparmio sintattico. Un altro espediente è l'ellissi: "se la palla di piombo,
partendosi nell'istesso momento da alto con l'altra di legno, poco fusse ritradata, e
questa molto".
Dal punto di vista retorico si nota la tendenza a duplicare i concetti: "impedimento e
ritardamento", "concludere e reputar". Da segnalare anche i moduli correlativi e
iterativi: "l'una [...] l'altra", "l'uno [...] l'altro", "in tanto tempo [...] in quanto",
"d'una sola, anzi d'un sol".
La forza argomentativa e assertiva si ottiene usando termini e verbi astratti
(considerazione, osservazione, concludere, reputar) e modi esortativi come il
congiuntivo (sospendansi, si rimuovano, scenda).
Tutte queste caratteristiche concorrono a rendere Galileo Galilei uno dei prosatori più
interessanti della letteratura italiana. Addirittura secondo Italo Calvino "il più grande
scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo".
4
Scarica

Da Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due