racconti
fenandel59
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«Ho 33 anni, vivo e lavoro a Verona. In realtà mi chiamo
Benedetto ma il mio nome non mi è mai piaciuto.
Nell'unica mia precedente apparizione letteraria (il racconto
Catia nell'antologia Malacarne edita da Aliberti nel 2004)
ho usato lo pseudinomo di Elle.
In passato ho lavorato davvero in un aeroporto, ma i personaggi e soprattutto le vicende narrate in questo racconto sono per
la maggior parte frutto di una rielaborazione affettuosa di esperienze mie e dei miei colleghi di quegli anni, condita – se volete –
con un po' di nostalgia».
il valzer
della patata
benny ferraris
Arrivano a frotte, le stagionali. A fine autunno e, più
numerose, a primavera.
Anche se il contratto dura pochi mesi tutto sommato è considerato un buon lavoro. E poi fa sempre una
certa impressione quando lo racconti in giro. Ma lavorare in aeroporto, a conti fatti, non è diverso da stare
all’ufficio postale. Solo che se sei fortunato per terra
trovi un penny invece di cento lire, se invece c’hai sfiga
uno ti starnutisce in faccia e sei il primo in Italia a beccarti l’influenza australiana.
A selezionarle era Augusto, vecchio marpione e
nostro amico fidato. Lo chiamavamo “un bacio e ’na
carezza”. Raccontava che ai tempi belli, a Fiumicino,
taroccava le liste d’attesa e alla fine, guarda caso, rimaneva a terra proprio la bonazza di turno. Purtroppo
signorina non c’è posto, sono desolato ma ho fatto il
possibile, posso almeno offrirle la cena? e via così. Dice
che non era proprio detto, tante volte si incazzavano
per davvero; ogni tanto però ti andava dritta e la benamata compagnia di bandiera non doveva nemmeno
sborsare i soldi per il pernottamento della passeggera.
Privilegi dei grandi scali: da noi in provincia gli aerei
sono pieni solo quando c’è la fiera, e gli sfigati che sul
volo non ci stanno sono al massimo rappresentanti dell’edilizia. Altro che cena romantica e serata col botto.
Glielo dicevamo ogni volta: Augusto, ci raccomandiamo a te, stavolta pensa solo alla qualità, l’azienda ha
bisogno di collaboratrici valide. Ogni tanto riusciva a far
passare gnocchette ragguardevoli anche se non sapevano dire mezza frase in inglese; ma erano casi isolati.
Di regola aveva le mani legate: facendo i colloqui con
le Risorse Umane, il capitolo “bella presenza” aveva una
priorità inferiore.
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Il corso introduttivo durava una settimana: alla fine,
giusto prima di buttarle nella mischia, Augusto convocava me e il mio amico Calvados. Capitavamo in aula a
fare un sopralluogo, un po’ come i mercanti facoltosi
che vedono per primi il bestiame in vendita.
Dieci minuti per dare un’occhiata, fare un po’ gli
splendidi e farci riconoscere. Era un vantaggio minimo,
anche se Calvados è così brutto da assicurare l’effetto
rimbalzo e far capire che il pezzo giusto ero io: due battute e poi qualche scommessa, puerile ma divertente.
La vera mischia scattava solo dopo, quando le stagionali cominciavano a lavorare.
Per le più appetitose cominciava un’esperienza schizofrenica, confrontate coi tempi convulsi del nuovo
lavoro in un ambiente dove i pochi colleghi maschi
facevano a gara per fare i simpatici e dare una mano,
mentre le donne, che erano la maggioranza del personale, non perdevano occasione per far capire che
sarebbe stato meglio lasciar perdere.
Nonostante la giovane età, le stagionali hanno la
scorza dura e, in molti casi, le idee chiare. Subiscono
pressioni, dispetti e vere bastardate, ma tengono botta.
Al massimo un piantino – ottima occasione per ganci
efficacissimi – poi fanno passare la tempesta, creano
nuove alleanze e mettono in atto la loro strategia.
Devo ammetterlo: sulle prime, giovane e illuso, mi
ero invaghito di qualcuna.
Ma l’esperienza insegna, e i colleghi esperti pure:
oltre alle bastonate nei denti mi erano servite le lezioni del Corazziere, un capoturno che dall’alto del suo
metro e mezzo sciorinava imprese degne delle migliori commedie all’italiana, con palleggi di due o tre novelline in contemporanea. Poi concludeva sempre raccomandando: Fai altrettanto, tu che puoi.
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La sua carriera, quanto a questo, era tramontata
mestamente da quando si era accasato con una collega
che lo teneva sotto doppio controllo incrociato, a vista e
attraverso una rete di colleghe informatrici. Il povero
Corazza da allora si limitava a proiettare le sue aspirazioni su di noi, giovani stalloni, sfoggiando solo qualche
numero innocente con procaci viaggiatrici in difficoltà.
Col tempo ero diventato più accorto, ma i trucchi
che adottavo quando arrivavano le nuove stagionali
erano grossomodo sempre gli stessi: sorrisetti, ti ricordi di me, al caffè offro io che sono qui da più tempo, se
non hai capito chiedimi pure che ti rispiego, e piccoli
favori assortiti.
Il mio classico era presentarmi come il più bello del
check-in, un po’ di spavalderia non guasta. Anche i colleghi, ciascuno aveva il suo stile e il suo repertorio: io
ero più tattico, altri come Calvados e il Fiocina più
diretti, il Bombarda decisamente sfacciato.
Tra noi vigeva un accordo non scritto: se uno puntava una preda con decisione, bastava che lo facesse
sapere in giro e per fair play gli altri spostavano il mirino, almeno per un po’.
Ma cambiava poco: dopo un mesetto si tirava su la
rete e si vedeva cosa avevi preso. Il campo delle operazioni si restringeva settimana dopo settimana. Se con
la punta numero uno c’era poco gioco, si rimescolavano le carte e via per un’altra mano.
Le migliori, comunque, non passavano mai inosservate.
Nell’ambiente le notavano subito tutti, dagli operai
della rampa ai baristi fino ai veri ossi duri, cioè i piloti e
gli steward, quei maledetti.
Non tutti entravano davvero nella competizione.
Saverio, ad esempio, il napoletano responsabile del
nastro bagagli con la testa eternamente impomatata: lui
si limitava a un ruolo di osservazione e, per così dire,
progettazione. D’estate mandava moglie e figli per tre
mesi in ferie a casa della suocera, «per avere mano libera». Ma a giudicare da quanto si arrapava per ragazzine
di vent’anni più giovani, non doveva combinare granché
nelle sue serate da single.
Quasi tutte le mattine sgattaiolava in silenzio dalla
porticina dietro i banchi del check-in e mi spuntava a
sorpresa da dietro le spalle. Mi arpionava un braccio e
poi partiva con la sua panoramica: in ordine numerico,
a partire dal banco 1, numerava in dettaglio posizioni,
varianti e orifizi in cui avrebbe posseduto ciascuna delle
colleghe presenti. Da vero signore non ne dimenticava
nessuna, e con fantasia ammirevole dedicava a ciascuna
una piccola perla, un trattamento personalizzato che
cambiava giorno dopo giorno.
La sua vera passione, però, era la Cavalla, una virago
in minigonna perenne che scatenava il suo testosterone in modo incontrollabile. Quando vedeva la Cavalla,
Saverio trasaliva, rapito dal desiderio: stringeva fortissimo la morsa sul mio braccio mentre le descrizioni di
cosa le avrebbe fatto si facevano sempre più torbide; di
solito sul più bello di colpo tornava in sé e concludeva
queste performance con un motto di stizza nei miei
confronti: «ma perché non te la chiavi, la Cavalla, cazzo!»
Come se la cosa dipendesse solo da me.
La Cavalla non ci aveva mai degnato di uno sguardo,
a me e ai miei compari.A Saverio tanto meno.Volava più
alto, lei, puntava dritto ai comandanti, come vengono
chiamati nell’ambiente. Alla fine ce l’ha fatta: i bene informati la danno sicura con un pilota tra i più fascinosi.
Prima della fine della stagione, però, qualcosa succedeva sempre. Se avevi scommesso e giocato bene il
risultato arrivava, soprattutto con le più giovani.
Alla peggio, un ripiego.
Magari una che veniva fuori in seconda battuta, che
a prima vista l’avevi sottovalutata oppure era entrata
nelle grazie di qualcun altro.
Un classico consisteva nel giocare su più campi, ma in
questo bisogna fare molta attenzione: basta una distrazione, la più stupida mossa falsa e il palco cade: il tam
tam della solidarietà femminile sputtana a 360 gradi
additandoti come un maiale. Sulla definizione, niente da
ridire, ma alla fine becchi il doppio due di picche.
C’era anche una regola ferrea su cui puntavamo:
quelle che arrivando dichiarano ai quattro venti quanto sono innamorate del loro bellissimo fidanzatino,
entro fine stagione qualche storiella se la fanno.
È sempre stato così, è la “legge del Bombarda”: con
la stagionale fidanzata, la chiavata non tarda.
Come la ricciolona rossa che diceva che era venuta
a lavorare lì per sei mesi perché le servivano i soldi per
sposarsi: matrimonio già fissato, lunghe descrizioni dell’abito e altre banalità.
Non aveva fatto i conti con il Fiocina, che le ha
messo gli occhi addosso prenotandola fin dal primo
giorno. Manco una settimana alle nozze e tac, beccati a
bombare nella macchina di lui: parcheggio dipendenti,
pieno giorno, fine turno.
Tanto di cappello.
Quello che si fa fatica a capire, in questi casi, è che
non necessariamente cedere alla tentazione implica un
cambiamento di piani: alcuni giorni dopo la performance automobilistica, la rossa si avviò all’altare, vestita di
bianco candore, come previsto.
Il Fiocina ne fece una malattia, che durò a lungo e
con momenti di profondo sconforto, e fu interrotta
solo dall’arrivo della successiva infornata di stagionali.
E io?
La cantonata colossale è arrivata a sorpresa, quando
ormai credevo di avere la pelle spessa come un elefante. Una moretta con gli occhi da zingara.
L’avevo notata subito, in aula, durante l’anteprima
concessa da Augusto.
Misi le cose in chiaro con tutti, quella è mia, guai a
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chi la tocca, e via con la punta. Le dissi che ogni stagione avevo il diritto di selezionare una che mi facesse da
segretaria personale e che se avesse fatto la brava
forse il privilegio sarebbe toccato a lei. Sulle prime era
stata al gioco, poi un po’ per volta l’avevo persa di vista.
Mi raccontavano che stava con un discografico ricco
sfondato e m’era giunta anche la voce, non confermata, che combatteva la solitudine delle lunghe tournée del fidanzato fiondando con un belloccio, un collega di Saverio. Poco male, come da procedura avevo
cambiato obiettivo in corsa, togliendomi anche qualche soddisfazione.
Erano anni in cui andavo via come il pane.
Verso fine stagione il Corazza organizzò la solita
festa, a cui venivano invitati tutti e regolarmente ne succedeva di ogni.
Io sfruttavo queste occasioni per fare notare la mia
classe superiore: non mi mischiavo a tutti quegli allupati
all’ultima spiaggia e mi astenevo da qualunque gancio,
dando meritato spazio all’altra mia grande passione: mi
inchiodavo al banco del bar e di solito finivo la serata
marcio come un cavallo cantando I will survive al karaoke.
Quella volta, proprio mentre cercavo di alzarmi
dallo sgabello su cui avevo già costruito una consistente fortuna alcolica, mi si parò davanti la zingara
con un fare bellicoso. Io non l’avevo nemmeno vista
arrivare alla festa, ma i miei sensi ovattati dall’alcool si
ridestarono prontamente.
«Non mi offri niente?»
«È tutto gratis».
«Alla fine l’hai trovata la tua segretaria, eh?»
«Ne ho provate diverse, ma le ho licenziate tutte in
tronco alla fine del periodo di prova. Non c’è più il personale di una volta».
«Il posto è vacante? Mi posso candidare?»
Ho sempre pensato che il massimo sia una donna
seducente, che nasconde più che svelare, che fa intuire
più di quanto ti fa vedere. Ma poi, quelle rare volte che
sono così esplicite io perdo la testa.
«Facciamo un altro giro di ginlemon e poi ti faccio il
colloquio, vediamo se sei all’altezza».
Bevuto il drink in un sorso, ci eravamo rifugiati nell’unico bagno della casa. La nostra focosa intimità fu
presto guastata da qualcuno che bussava sulla porta in
maniera sempre più insistente. Io e la zingara ci guardammo: era inevitabile interrompere l’approccio, e se
volevamo mantenere riservata l’informazione sul
nostro tête-à-tête occorreva che uno solo uscisse, e
l’altro si nascondesse da qualche parte. Pur con gli
ettolitri d’alcool che il Corazza forniva ai suoi ospiti e
tutta la nostra disinvoltura, uscire insieme dal cesso non
poteva non destare sospetti.
Eccomi allora, nascosto dietro la tenda della doccia,
ubriaco perso e con il nervoso nelle mutande, ad
aspettare che la scocciatrice che c’aveva interrotto
finisse di vuotare la vescica, canticchiando allegramente
una canzone dei Pooh.
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Nonostante la rompicoglioni, il dado era tratto.
Passai la notte con la zingara senza che mi sfiorasse
il pensiero del facoltoso discografico o di qualunque
altro concorrente al cuore della mia nuova segretaria
particolare. Il modo in cui si era proposta e la naturalezza con cui gli eventi si erano svolti mi diedero una
certa baldanza: la mattina dopo mi presentai al lavoro
con un’ora di sonno, un alito da codice penale, ma
incredibilmente tonico. Chi la dura la vince, pensavo.
Non ci ero rimasto nemmeno tanto male quando,
prima di salutarci, aveva preferito non darmi il suo
numero di telefono adducendo motivazioni sfuggenti.
Invece avrei dovuto.
Nel giro di qualche settimana io e la zingara allacciammo una relazione strana, in cui era sempre e solo
lei a decidere tutto, a convocarmi quando voleva vedermi, e io che obbedivo, sbavandole dietro in modo sempre più ignobile. Alla fine dei nostri incontri lei lasciava
sempre intendere che, visto quanto le piacevo, le cose
tra di noi si sarebbero sistemate in poco tempo.
Poi se ne andava e non dava notizie di sé per qualche giorno. Io non desistevo, anzi diventavo sempre più
sicuro che prima o poi l’avrei accalappiata e fatta definitivamente mia. A tratti mi sentivo talmente vicino alla
meta che pensavo che non appena l’avessi vista cadere ai miei piedi per concedersi finalmente senza più
riserve, avrei seguito la strategia che tante volte mi
aveva suggerito il Corazza: le avrei detto che non mi
interessava più.
Sul lavoro facevo del mio meglio per nascondere la
nostra liaison, ogni volta che veniva fuori il suo nome
cambiavo discorso e smentivo qualunque sospetto nel
modo più efficace: continuavo a fare il piacione come
sempre. Sfidavo il Fiocina a chi diceva la cazzata più
grossa con le colleghe gnocche e per fare lo sborone
avevo anche fatto innamorare di me una scorfana di cui
si era invaghito Calvados. Affettavo indifferenza anche
quando Saverio mi spiegava con la consueta gravità
quale trattamento avrebbe riservato alla mia zingarella.
L’unica cosa che avevo manifestamente cambiato era
il mio atteggiamento professionale: facevo di tutto, ma
proprio di tutto, perché il contratto della zingara alla fine
della stagione venisse prolungato. Avevo bisogno ancora
di un po’ di tempo, solo un po’ di tempo in più, per farla
mia: se non fosse stata confermata come avrei fatto?
La fregatura, ovvio, era dietro l’angolo. O meglio,
davanti ai miei occhi, ma io mica l’avevo vista. Tutti
sapevano che la zingara si vedeva con un comandante sardo pluridivorziato, oltre col solito discografico del
cazzo e con il collega di Saverio: ecco cosa faceva tutte
le altre sere.
Non si erano presi la briga di mettermi sul “chi va là”
solo perché la mia astuzia aveva dissuaso tutti e nessuno sospettava che tra i tanti ballerini invitati al valzer
della patata ci fossi anch’io.
Molti anzi si chiedevano: ma se non se la fa, perché
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insiste tanto a dire che è brava? E si convincevano: forse
perché è brava davvero.
Alla fine la stronza aveva trionfato. Subito dopo aver
firmato l’agognata conferma contrattuale per la prima
volta insinuò che il nostro momento non era mica poi
così vicino. Un cambiamento di rotta tanto brusco, a
dispetto del mio impegno per prolungare la nostra collaborazione, mi incuriosì. Condotto un rapido sondaggio presso le accreditate fonti informative dell’azienda,
il risultato fu tanto chiaro quanto sconfortante.
Nel frattempo la mia avventura nell’ovattato mondo
dell’aviazione civile si stava concludendo.
Me ne andai così, dopo un ultimo giro di stagionali
di cui, come sempre, io e il Fiocina godemmo l’ebbrezza e Calvados andò in bianco.
Non la salutai nemmeno.
*
L’ho rivista l’altra sera, dopo anni, la zingarella.
Stavo passeggiando in centro con Lulù, la stagista
diciassettenne che mi ha fatto finalmente mettere la testa
Andrea Piva
Apocalisse da camera
Einaudi, 214 pagine, 13,80 euro
Un ottimo esordio e uno dei titoli più azzeccati degli
ultimi anni. Ecco cos’è Apocalisse da camera, romanzo
del salernitano-barese Andrea Piva, conosciuto soprattutto come sceneggiatore de Lacapagira e Mio cognato,
o per Un muro di televisori, racconto incluso ne La qualità dell’aria. Non un capolavoro, sia chiaro, ma un esempio di come ci si possa staccare alla grande dalla stitichezza di molte produzioni nazionali, per stile e organizzazione della storia, oltre che per l’utilizzo di una lingua finalmente non piana, quasi barocca.
Ambientato in una Bari che resta sullo sfondo,
Apocalisse da camera cresce nella sua miscela di tragedia e di acida ironia a ogni capitolo, permettendo al lettore di ridere, anche se a denti stretti, delle disgrazie del
protagonista. Perché, per quanto nel distacco di una
narrazione in terza persona, non è difficile leggere nell’implosione di un uomo qualunque, di un bastardo
qualunque, il ritratto, seppur distorto, di noi stessi e di
una società che è poi quella in cui viviamo. Questo rappresenta la figura del trenta-e-qualcosa Ugo Cenci, assistente senza assegno alla cattedra di Filosofia del diritto, che traccheggia mantenuto dai genitori (loro sì con
portafogli, e contenti d’aprirlo per gli sfizi del loro unico
figliolo) nei corridoi dell’università, avendo come sole
passioni l’alcool, la cocaina e il sesso. Quest’ultimo con
studentesse che senza problemi offrono i loro servigi,
in cambio del voto sul libretto. Uno come tanti, direbbe Siti, con la coscienza infilata sotto i tacchi. Ma viene
un giorno in cui il suo superiore, il professor Frappelle,
gli notifica l’esistenza di voci attorno a questi mercimoni. Niente di scandaloso, Frappelle non è né giudice né
poliziotto, ma se le voci continuano dovrà prendere
provvedimenti: «Che poi significherebbe allontanarti
dall’istituto.Tutto qui».
La coscienza o qualcosa di simile inizia lentamente a
scavare, accendendo il lato paranoico del personaggio
e facendolo scivolare inesorabilmente, nell’arco della
stessa giornata, dentro il buco nero dell’autodistruzione, da cui non lo salveranno gli innumerevoli pippotti di
coca né le massicce dosi di vodka e rum.
Non fosse per l’epilogo, Apocalisse da camera sarebbe
il degno gemello di Mio cognato: un salto nel nero totale.
Ma in questo compendio dell’orrore che Piva costruisce
per descrivere la società come oggi la viviamo, il grottesco tanto caro alla migliore e alla peggiore commedia
all’italiana ha il sopravvento, rendendo ancora più agghiaccianti le conclusioni che se ne possono trarre.
recensioni
Andrea Piva
a posto, per lo meno nelle ultime cinque settimane.
Ci siamo salutati io, lei e Luigi: anche lui ai tempi lavorava in aeroporto e s’era guadagnato l’appellativo di
“Culoquadro” per le sue doti fisiche e intellettuali. Ho presunto che oggi sia il suo compagno, o quantomeno il padre
dei due gemellini addormentati che portavano nel passeggino. Lei sembrava stanca, un po’ appassita, e d’altronde
vivere insieme a due mostri di sei mesi e a Culoquadro,
che i suoi anni li ha sempre dimostrati al cubo, non rientra
esattamente nella mia idea di vita stimolante e rilassante.
Era inevitabile che la situazione generasse un po’ di
imbarazzo, soprattutto quando Culoquadro, che non
sospettava di nulla, mi ha invitato ad andarli trovare.
Manco per il cazzo, pensavo.
Andandocene, sentivo un po’ di amaro in bocca. Lulù
non ha migliorato la situazione: mi ha chiesto chi fosse
«quella vecchia col passeggino» e a me non è venuto da
rispondere niente di meglio che «mia cugina».
Povera Lulù, chissà che confusione con questa storia
delle parentele.
Quando incontriamo qualcuno io dico sempre che lei
è la mia sorellina minore. Sergio Rotino
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