Assemblea del clero
San Massimo, 17 settembre 2009
L’umanità del prete
Lectio,
Relazioni
e lavori di gruppo
INDICE
PRESENTAZIONE 3
LECTIO BIBBLICA
5
FORMAZIONE UMANA E UMANITÀ DEL PRETE
10
GRUPPO 1:
Amicizia sacerdotale e vita fraterna.
35
GRUPPO2:
Relazionalità. Relazioni oblative, libere e sincere con uomini e donne.
41
GRUPPO 3:
Affettività e celibato. Capacità di amare tutti con cuore indiviso
47
GRUPPO 4:
Cura adeguata di sé. Gestione delle risorse e dei tempi. 52
GRUPPO 5:
Burnout. Anche per il prete c’è il pericolo di “bruciarsi” ed “esaurirsi”.
56
GRUPPO 6:
Stagioni della vita. Tutte le età e le condizioni della vita sono in permanente stato di servizio per la Chiesa.
64
2
Presentazione
Nella riunione del Consiglio Presbiterale del 20 maggio u.s., si è
deciso di trattare il tema dell’umanità del prete. Siamo sollecitati in
questo dall’anno sacerdotale che abbiamo appena iniziato e dalla tematica della vita e fraternità sacerdotale che ci sta accompagnando
da qualche anno.
“Nel contatto quotidiano con gli uomini, nella condivisione della
loro vita di ogni giorno, il sacerdote deve crescere e approfondire
quella sensibilità umana che gli permette di comprendere i bisogni ed
accogliere le richieste, di intuire le domande inespresse, di spartire le
speranze e le attese, le gioie e le fatiche del vivere comune; di essere
capace di incontrare tutti e di dialogare con tutti”. (Pastores Dabo
Vobis, 72)
Non va dimenticato poi, ricordano poi i nostri vescovi, che l’umanità del prete è la via normale attraverso cui noi comunichiamo il
messaggio di salvezza del Vangelo. (cfr. La formazione permanente
dei presbiteri…, n. 23).
Nella personalità equilibrata e matura di un prete e di un diacono
risplende in modo pieno la grazia dello Spirito effuso nell’Ordinazione
che gli permette di svolgere in modo sereno ed efficace il ministero
ricevuto. E’ un cammino iniziato fin dalla giovane età, ma che continua nello scorrere del tempo e nelle diverse situazioni e relazioni che
si incontrano.
Sono riportati i contributi dei relatori e dei gruppi di lavoro. Questo semplicissimo strumento può essere utilizzato per la formazione
vicariale del clero.
A tutti un augurio di un buon cammino di formazione.
Don Giuseppe Pellegrini
Vicario generale
3
4
Lectio biblica: 1 Timoteo 4, 12-16
Don Bonifacio Giannatilio
La sez. 4,1-6,3 della lettera contiene, nel suo complesso, una lunga serie di esortazioni per la formazione alla responsabilità pastorale.
Ma, dato anche lo spazio della meditazione, limitiamo la nostra attenzione al cap. 4° da cui è tratto il testo appena proclamato, presentandone anzitutto una breve sintesi.
12 μηδείς σου τῆς νεότητος
καταφρονείτω, ἀλλὰ τύπος γίνου
τῶν πιστῶν ἐν λόγῳ, ἐν ἀναστροφῇ,
ἐν ἀγάπῃ, ἐν πίστει, ἐν ἁγνείᾳ. 13
ἕως ἔρχομαι πρόσεχε τῇ ἀναγνώσει,
τῇ παρακλήσει, τῇ διδασκαλίᾳ. 14
μὴ ἀμέλει τοῦ ἐν σοὶ χαρίσματος,
ὃ ἐδόθη σοι διὰ προφητείας
μετὰ ἐπιθέσεως τῶν χειρῶν τοῦ
πρεσβυτερίου. 15 ταῦτα μελέτα,
ἐν τούτοις ἴσθι, ἵνα σου ἡ προκοπὴ
φανερὰ ᾖ πᾶσιν.
12 Nessuno disprezzi la tua giovane età,
ma sii esempio ai fedeli nelle parole,
nel comportamento, nella carità, nella
fede, nella purezza. 13 Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione
e all’insegnamento. 14 Non trascurare
il dono spirituale che è in te e che ti è
stato conferito, in forza delle profezie,
con l’imposizione delle mani da parte
del collegio dei presbiteri. 15 Abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse
interamente perché tutti vedano il tuo
progresso.
All’inizio (4,1-7) Timoteo è aiutato a valutare dottrine e pratiche erronee, di tipo ascetico-gnosticheggiante che sviliscono il matrimonio
(in chiave encratita) e si perdono in questioni alimentari. Tutto questo
rischia di far breccia nella comunità per opera di falsi maestri. Timoteo è dunque invitato ad interpretare correttamente ciò che concerne
la fede per illuminare le coscienze dei fratelli.
Ma questa funzione censoria e negativa, è solo la prima faccia
della medaglia. Ben più importante è l’invito successivo (4,8-11). Il
giovane presbitero deve concentrarsi su quanto è essenziale per sua
formazione e il suo ministero: sperimentare e proporre una vita cristiana bella e franca, sostenuto dalla motivazione di fondo, cioè la
speranza della salvezza che viene dal Dio di Gesù. Questo esercizio
personale riempie e sostanzia anche il sul ministero divenendo l’oggetto del suo insegnamento.
Da ultimo (4,12-16) l’autore della lettera espone una concreta modalità di vivere il proprio servizio perché possa risultare credibile ed
efficace. Chiamato a divenire modello dei credenti, ne attinge la forza
dal dono di grazia conferitogli in vista della missione. È su quest’ulti5
mo tratto che ci soffermiamo un po’ più lungamente.
Nei primi due passaggi appena visti, Timoteo viene esortato a salvaguardare l’autentica libertà cristiana e a sperimentare e proporre
la vera esistenza cristiana. Si tratta di un servizio senza dubbio gravoso ed impegnativo. Sarà in grado il collaboratore di Paolo di portarlo a termine, vista anche la sua giovane età, con il fatale carico di
inesperienza che essa comporta? Il serrato elenco di esortazioni dei
vv. 12-16 si sforzano di rispondere a quest’interrogativo, mostrando
le condizioni alle quali il ministero di Timoteo può divenire efficace e
credibile.
v. 12 Diventa modello. Il registro del v. sposta l’attenzione da Timoteo, al suo rapporto con la comunità. La difficoltà evidenziata concerne, come appena segnalato, l’età di Tim. In un contesto culturale
dove solo gli anziani avevano diritto di parola e di guida, il rischio che
un giovane venisse giudicato con diffidenza, se non cori disprezzo,
era più che reale. Questo lato debole dell’esercizio ministeriale di Tim
è la prima attenzione che l’autore della lettera intende coprire con la
forza della sua autorità.
L’esortazione alla comunità, però non esonera certo il presbitero
dall’impegno a compensare il disagio creato inevitabilmente dall’età
con la manifestazione di virtù che lo rendano incontestabile. Da qui
l’imperativo «diventa modello dei credenti». Il farsi modello è un tratto che accompagna stabilmente l’esercizio della responsabilità ministeriale in tutto l’epistolario di Paolo (cfr Fil 3, 7; 2Ts 3,9) e non solo
(cfr i Pt 5,3 e Tt 2,7). I credenti — vedendo Tim — dovrebbero essere
in grado di verificare la loro conformità all’ideale cristiano e modellare, nel rispetto dell’individualità di ciascuno, la loro vita.
Gli atteggiamenti che danno corpo all’esemplarità sono elencati
in una lista di cinque termini, che coinvolgono la sfera relazionale e
la maturità interiore. Occorre precisare che nelle Pastorali la densa
terminologia kerigmatica di Paolo, lascia il posto ad una, come dire,
più “esistenziale e quotidiana” in cui il tratto umano si intreccia inestricabilmente con la ricchezza dell’esperienza credente. Quindi «parola» non rimanda direttamente alla predicazione (verrà precisata
specificatamente al v. successivo) ma al conversare pacato e capace
di ascolto. Il «comportamento» si riferisce alla condotta generale di
vita, al modo amabile di relazionarsi con gli altri, segnato da una correttezza umana che lascia trasparire la grazia cristiana. Passando al
livello più interiore, «carità» richiama l’amore fraterno con tutto il suo
corollario di mansuetudine, umiltà, pazienza, rispetto, compassione,
affetto sincero, ricerca del bene di ognuno. Anche la «fede», senza
6
che scompaia il suo portato teologale, qui denota maggiormente la
fedeltà e la lealtà. Infine la «purezza» raccomanda la trasparenza e
la sincerità di intenzioni (cfr Fil 1,17) e la correttezza dell’agire, contro
ogni forma di ipocrisia.
In sintesi l’A. sottolinea il fatto che Tim prima di essere un responsabile gerarchico è un uomo sano e un cristiano maturo. Solo
così l’esemplarità raccomandatagli può trovare riscontro e garantire
credibilità ed autorevolezza al suo ministero.
v. 13 L’esercizio del ministero. Tim è qui invitato a concentrare
le sue energie (prosekō = avere la mente rivolta verso) al ministero
della Parola. Infatti i tre termini (lettura, esortazione ed insegnamento) convergono inequivocabilmente su questa dimensione. Si
tratta di funzioni ben conosciute (vedi l’articolo determinativo che
le accompagna) e quindi dotate del carattere dell’ufficialità. La «lettura» si riferisce alla proclamazione in pubblico della Parola di Dio.
Esercizio tutt’altro che banale, vista la difficoltà di leggere la forma
manoscritta dei testi antichi, dove non c’era né spazio tra le parole,
né punteggiatura. A partire dalle Scritture l’«esortazione» diventa
attualizzazione della Parola, capacità di trovarne gli sbocchi pratici e
i risvolti che guidano la coscienza di ciascuno, ammonendo da rischi
di svilimento e/o di distorsione del Vangelo. Infine 1’«insegnamento»
ha qui la valenza di un’esposizione di carattere dottrinale e sistematico, che ponga al riparo dalle deviazioni erronee, messe in atto dai
suddetti falsi maestri.
In sintesi Tim deve coltivare una conoscenza profonda della Scrittura che è tutta «utile per insegnare» (cfr 2Tm 3,16), presentando un
quadro coerente, approfondito e culturalmente adeguato della vita
cristiana. È nella dedizione ampia alla Parola che Tim gioca l’efficacia
del suo ministero.
v. 14 Non trascurare il carisma. Essere modello per la gente
e avere una competenza profonda ed efficacie della Parola sono impegni gravosi. Tim è invitato a trovare la forza e la fiducia per sostenerli rifacendosi al fondamento del suo ministero: il «carisma» che
gli è stato dato. Il termine porta in sé l’idea della gratuità e — pur
riferito all’azione multiforme dello Spirito di Dio, qui, in sintonia con
Paolo, sottolinea la stabilità e la continuità del dono, piuttosto che
gli aspetti eclatanti e sorprendenti (cfr dono delle lingue, glossolalia,
guarigioni,...). Gli esegeti hanno proposto diverse interpretazioni di
questo denso versetto, specie per quanto concerne il riferimento alle
profezie e l’imposizione collegiale della mani. Non vai la pena dilungarsi sul dibattito e arrivo velocemente alle conclusioni che più paio7
no plausibili. Per l’indicazione delle profezie rimando all’inizio del cap.
13 di Atti, dove la comunità è dotata di maestri e profeti che reggono
collegialmente la chiesa antiochena. Similmente anche per la scelta
di Tim come responsabile sono intervenute persone profondamente
radicate nell’esperienza di fede e per tanto in grado di intravedere
nella storia l’azione graziosa dello Spirito. Circa il collegio dei presbiteri che impone le mani si può concludere che esso faccia riferimento
ancora al gruppo di responsabili a guida della comunità locale. In
2Trn 1,6 si dice che Paolo stesso — e da solo — ha conferito il carisma. Ciò però non sconfessa quanto qui segnalato a proposito del
collegio presbiterale. Il carisma è stato dato a Tim attraverso (dia +
genitivo) l’imposizione delle mani di Paolo, accompagnato e condiviso
dall’intero gruppo dei presbiteri (metà + genitivo). L’apostolo rimane
quindi l’agente principale del rito per il conferimento del carisma. I
presbiteri associandosi a lui hanno segnato la loro approvazione e il
loro consenso, partecipando collettivamente al gesto di Paolo.
Sciolte — pur brevemente le difficoltà — ne cogliamo il senso complessivo. L’impegno di formazione e adesione al ministero, richiesto
a Tim, e radicato in un carisma dello Spirito che egli ha ricevuto in
forma stabile La responsabilità perciò e sostenuta dal dono E questo il motivo più profondo di fiducia che Tim può avere di fronte alle
difficoltà del suo compito. L’origine divina del ministero però non elimina la corresponsabilità storica ed esistenziale di uomini dotati di
profezia, che agiscono in sinergia con il collegio dei presbiteri e con
Paolo. Il dono — conferito in un dato momento storico, come attesta
I’aoristo — non è però una realtà statica. Domanda cura e va sempre
ravvivato. Le modalità di questo «ravvivare il carisma», però, non
sono date presentate esplicitamente nel testo ed è quindi giocoforza
rimontare alle esortazioni che precedono e seguono. Il carisma quindi
non si ravviva altrimenti che nell’esercizio ministeriale: la ricerca costante di una sanità personale e dell’equilibrio umano, la pratica della
pietà, l’essere modello, l’assidua attenzione alla Parola, la capacità di
farla risuonare nella vita della gente, lo sforzo di mantenere genuina
la fedeltà al Vangelo (la dottrina) e la profonda comprensione del
mistero cristiano. In definitiva non è il carisma che determina automaticamente l’abilità ministeriale, ma è quest’ultima che permette
al dono ricevuto di mantenersi vivo e di crescere. Dono e impegno
vanno di pari passo e lavorano in stretta sinergia. Puntare sull’uno a
scapito dell’altra comporta inevitabilmente lo spegnimento e il fallimento ministeriale.
vv. 15-16 Esortazioni conclusive. Richiamato il fondamento, l’A
8
conclude con una serie di secchi imperativi, che stanno a testimoniare l’importanza che viene riconosciuta a quanto appena raccomandato: «abbi premura di queste cose e dedicati ad esse interamente».
Dietro questo richiamo riassuntivo si intravede la premura di evitare
il pericolo di lasciarsi distrarre da cose secondarie a scapito di ciò
che è invece il fondamento: la crescita umana e il servizio della Parola. Solo così a Tim viene assicurato il «progresso» sia in chiave
personale, che in chiave ministeriale, cioè la diffusione della Parola
assiduamente servita e la crescita della vita spirituale della comunità.
Le altre esortazioni «veglia su te stesso e sul tuo insegnamento e sii
perseverante» altro non sono che il richiamo a quanto visto sopra,
rispettivamente i vv. 12 e 13.
A conclusione delle esortazioni, si apre una promessa che mostra
l’esito buono di un corretto esercizio ministeriale: la salvezza escatologica, come lascia intendere il verbo al futuro. L’orizzonte dell’impegno di Tim — pur profondamente radicato nella storia concreta sua e
della sua gente — non resta chiuso nello spazio spesso angusto del
quotidiano, ma respira grazie all’orizzonte della speranza definitiva
della salvezza. È notevole che questa promessa del futuro con Dio
unisce assieme il presbitero e la comunità. Un autentico e assiduo
esercizio del ministro, come sopra descritto, è la condizione per la
salvezza stessa del ministro. Questa conclusione sembra un truismo:
è logico che sia così. Però alla luce delle raccomandazioni appena
viste, il richiamo è tutt’altro che scontato. La realizzazione del presbitero non si gioca in un orizzonte ascetico personale e intimistico,
ma facendo leva sul dono ricevuto, esso è proiettato su un insistito
confronto. La maturità umana, il servizio assiduo alla Parola, la fedeltà alla vera dottrina, strappano dal rischio dell’autoreferenzialità
e proiettano nel campo aperto e responsabilizzante del confronto
continuo, paziente e rispettoso. È il luogo dove emergono “gli uomini
spirituali” che parlano profeticamente e che collaborano con l’azione
promotiva e liberante dello Spirito, garanzia ultima della salvezza di
tutti.
9
FOR MAZIONE UMANA E UMANITÀ DEL PRETE
Padre Amedeo Cencini
“L’umanità del prete è la normale mediazione quotidiana dei beni
salvifici del Regno1” , così il testo sulla formazione permanente dei
presbiteri di qualche anno fa, a ricordarci che non abbiamo altra via
per annunciare il messaggio di salvezza al di fuori della nostra umanità, così come un tempo l’umanità del Figlio è stata pensata e voluta
dal Padre come sacramento della redenzione del genere umano.
Proprio da questa costatazione deriva l’idea della formazione umana (FU), come attenzione educativo-formativa a questa realtà decisiva, quasi sua condizione, dell’economia terrena della salvezza, e condizione che non può esser data certo per scontata. Purtroppo, infatti,
la storia di molti preti è storia di “uomini mancati”. Ed è doloroso e
inquietante, poiché invece la chiesa di oggi e di sempre “ha bisogno
non di funzionari o di grigi esecutori, non di silhouette spirituali, ma
di uomini, uomini umanizzati, uomini con profondità di vita interiore
e dunque uomini ‘umani”2.
Ma è necessario chiarire, o cercare di chiarire questo concetto
dell’umanità e della FU del prete, e forse anche liberarlo da certe
precomprensioni che rischiano di ridurne il senso profondo.
1- Dubbi e precisazioni sul concetto di formazione umana (e di
umanità del prete)
Vi sono alcuni equivoci da chiarire sull’idea di FU, sul piano del
rapporto con le altre dimensioni formative, del suo contenuto e della
sua funzione e del metodo che le è o dovrebb’esser proprio.
1.1-Formazione per strati e dimensioni3
Quando si parla di FU s’intende al tempo stesso una concezione
della formazione per ambiti o secondo dimensioni diverse. Che sarebbero, nel caso della formazione sacerdotale, oltre alla FU, formazione
1 CEI, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari, Roma
2000, 23.
2 L.Manicardi, “La preghiera del presbitero”, in AA.VV., La seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Saronno 2008, p.104.
3 Mi avvalgo in questo paragrafo delle pregevoli riflessioni di mons.D.Coletti, apparse
sulla rivista “Seminarium”, della Congregazione per l’educazione cattolica (La formazione umana e l’educazione al buon gusto, in “Seminarium”, 4(2003), 881-905; e Formazione permanente del clero: come, a quali condizioni, , in “Seminarium”, 4(2005),
701-730).
10
spirituale, intellettuale e pastorale4 . Dimensioni persino classiche.
La FU, secondo quanto dicono documenti importanti come Pastores dabo vobis, sarebbe “il necessario fondamento”5 di queste diverse dimensioni formative e dell’intera formazione sacerdotale.
Tale distinzione e specificazione ha certo un suo valore e si rivela
preziosa per concepire e attualizzare un sistema formativo che preveda tutte le varie componenti della crescita armonica della persona
del sacerdote. Ma non manca qualche rischio in questa classificazione, non appena si dovesse dimenticare che le diverse dimensioni
non sono strettamente indipendenti l’una dalle altre e solo nel loro
insieme armonico danno luogo a una buona “figura di valore” di vita
e ministero sacerdotale. E dunque non può esserci qualcosa di previo,
sia nel senso temporale (qualcosa che “viene prima”), sia nel senso di
non strettamente connesso, quasi sganciato e neutro (magari da fare
nell’anno propedeutico, come condizione minimale per l’ammissione
alla formazione vera e propria).
Così come va superata quella prassi secondo la quale si “tende a
distribuire il compito educativo a diversi livelli o ‘strati’ tra loro relativamente indipendenti”, in modo tale che “si dice: educhiamo prima
l’uomo ‘naturale’, poi la sua dimensione genericamente religiosa, poi
il credente in Cristo e, infine, il discepolo impegnato nella sua figura
vocazionale”. Secondo tale distinzione, “i primi due strati sarebbero
di competenza laica e razionale; per gli altri due sarebbe invece necessario il salto della fede”: questa impostazione troppo ‘rigida’ del
problema porta a rischi evidenti nel processo educativo6. Il rischio
della frammentazione del processo formativo, per cui gl’insegnanti
s’occupano della mente o dell’aspetto intellettuale, gli educatori della
condotta esterna o delle attività pratiche, il rettore del discernimento
finale, il direttore spirituale dell’anima o del cammino cosiddetto spirituale, il confessore della coscienza o del foro interno, il parroco dove
il giovane fa esperienza dell’acquisizione delle competenze pastorali,
lo psicologo, eventualmente, degli aspetti problematici (specie quelli
sessuali), e nessuno s’occupa della persona; appunto, il rischio è proprio quello di perder di vista la persona nella sua globalità e unità,
determinata proprio dalla sua umanità, luogo in cui convergono tutte
le sue varie componenti.
Non si forma il prete, dunque, senza formare contemporaneamente l’uomo e il credente, solo allora la formazione diventa vera e anche
4 Cf Pastores dabo vobis, 43-59.
5 Ibidem, 43.
6 D.Coletti, intervento all’Assemblea della Cei del maggio 2009, cit. in “Settimana”
23(2009) 16.
11
fenomeno complesso, come diceva neppur tanto paradossalmente
quel rettore di seminario: “per formarvi come preti basterebbero tre
mesi, per formare in voi l’uomo e il credente non mi basta il tempo”.
1.2-Qualche residuo manicheo
Per non dire di quella sorta di aporia d’una certa idea di formazione, diretta spesso solo verso la parte “nobile” o tale considerata o
assolutamente positiva (di solito la parte intellettuale, l’idealità valoriale…), determinante ancora una volta un tipo di attenzione educativa –almeno a volte- banale o insufficiente (diretta solo o soprattutto
verso il versante conscio, la condotta esterna, i modi esteriori), o incapace di scrutare la persona in profondità e dunque anche di cogliere la radice equivoca di certi atteggiamenti esteriori corretti (anche
troppo) e assieme sospetti di alcuni giovani (vedi una certa interpretazione della liturgia come ritualismo ed esibizionismo, vedi un certo
tipo d’ossequio all’autorità costituita, vedi l’incapacità di accogliere il
diverso-da-sé assieme a un culto un po’ eccessivo dell’ortodossia…, e
in certi casi vedi pure una sessualità non ben definita, come elemento
che a volte fa parte di questo singolare identikit). Mentre poca attenzione viene data alla parte “meno nobile”, o considerata sospetta,
all’umano, al sensibile, all’inconscio, al non detto, alla radice che sta
sotto a questi stili esistenziali e che ne svelerebbe l’intima inconsistenza e contraddittorietà. Il cammino formativo è anzitutto cammino educativo, ovvero itinerario verso la conoscenza di sé, nel quale il
giovane dovrebbe essere esercitato, fino a giungere alla capacità di
lettura di sé7.
Sembra quasi persistere in questi atteggiamenti vecchi pregiudizi
manichei.
1.3-L’equivoco delle “virtù umane” e della “maturità umana”
L’altro equivoco verte proprio sull’espressione “formazione umana”
spesso intesa come legata a un certo tipo di atteggiamenti virtuosi,
alle cosiddette “virtù umane” e in funzione del raggiungimento d’una
“maturità umana”.
Tale tipo d’espressione non è felice, parrebbe quasi esistessero
anche virtù animali (subumane) o sovraumane. Semmai, nel linguaggio cristiano tradizionale, l’unica distinzione riconosciuta sarebbe tra
virtù morali (alcune dette “cardinali”) e virtù teologali. Che sono poi
7 Penso, in questo senso, a quanto potrebbe essere rilevante imparare a leggere il
proprio corpo, il quale ci manda un’infinità d’informazioni, se noi sapessimo decifrarle
12
tutte “umane”, tipiche espressioni dell’essere umano che s’apre alla
relazione con il Trascendente (componente tipica della maturazione
e maturità umana), anche se con un notevole e principale apporto
della Grazia8. Più appropriata, ma ancora non del tutto soddisfacente, è la dizione del concilio che definisce le virtù umane come quelle
“virtù che sono tenute in massima considerazione tra gli uomini, e
rendono accetto il ministro di Cristo”9. E le elenca, quasi a darne
un esempio che non pretende comunque esser esaustivo: sincerità d’animo, rispetto costante della giustizia, sincerità, rispetto della
giustizia, fedeltà alla parola data, gentilezza del tratto, discrezione e
amorevolezza nella conversazione, fermezza d’animo, saper prender
decisioni ponderate e retto modo di giudicare persone ed eventi…10.
Il criterio è quello della “considerazione massima” di cui godono da
parte dell’opinione pubblica determinati aspetti del temperamento e
comportamento dei sacerdoti. È cosa buona tenerne conto, ma forse
non è il massimo.
Altra lista e più recente di virtù umane è quella del documento
della CEC sugli “Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e della formazione dei candidati al sacerdozio” dell’ottobre 2008, al n.2. Tale testo si rifà a PDV e all’elenco ivi
presentato d’una serie di virtù umane e di capacità relazionali che
sono richieste al sacerdote affinché la sua personalità sia “ponte e
non ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo Redentore
dell’uomo”11. Ma poi sottolinea e specifica:
“Alcune di queste qualità meritano particolare attenzione: il senso
positivo e stabile della propria identità virile e la capacità di relazionarsi in modo maturo con altre persone o gruppi di persone; un
solido senso di appartenenza, fondamento della futura comunione
con il presbiterio e di una responsabile collaborazione al ministero
8 Idem, La formazione umana, 902.
9 Optatam totius, 11.
10
Cf Ibidem (cf anche Presbyterorum ordinis, 3). Secondo Pastores dabo vobis
le virtù umane spaziano dall’equilibrio generale della personalità alla capacità di portare il peso delle responsabilità pastorali, dalla conoscenza profonda dell’animo umano al senso della giustizia e della lealtà (cf Pastores dabo vobis, 43-44). Altra lista nel
documento della CEI sulla formazione nei seminari: “l’equilibrio, l’amore per la verità,
il senso di responsabilità, le fermezza della volontà, il rispetto per ogni persona, il coraggio, la coerenza, lo spirito di sacrificio sono elementi rilevanti, anzi necessari, per
l’esercizio del ministero. Così pure il modo autorevole e fraterno di entrare in rapporto
con gli altri, la sincerità, la discrezione, il modo maturo di presentarsi e di esprimersi,
sono chiavi che aprono le porte della fiducia, dell’ascolto, della confidenza” (CEI, La
formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari3,
2007, 90).
11 Pastores dabo vobis, 43.
13
del vescovo (PDV, 17); la libertà di entusiasmarsi per grandi ideali
e la coerenza nel realizzarli nell’azione d’ogni giorno; il coraggio di
prendere decisioni e di restarvi fedeli; la conoscenza di sé, delle proprie doti e limiti integrandoli in una visione positiva di sé di fronte a
Dio; la capacità di correggersi; il gusto per la bellezza intesa come
“splendore di verità” e l’arte di riconoscerla; la fiducia che nasce dalla
stima per l’altro e che porta all’accoglienza; la capacità del candidato
di integrare, secondo la visione cristiana, la propria sessualità, anche
in considerazione dell’obbligo del celibato”12. Lista senz’altro ancor
più attendibile e meritevole d’attenzione, ma che non pare ancora
fuori di quella ambiguità.
Dalla quale è possibile uscire solo se si afferra il vero senso della
FU.
1.4-Obiettivo della formazione umana
La frase che abbiamo riportato prima mi sembra ci aiuti a comprendere l’obiettivo della FU: “L’umanità del prete è la normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno”13, se ciò è vero la FU
mira a rendere l’umanità del prete trasparente, mediazione che non
frappone ostacolo, e che consenta il più possibile un passaggio lineare della grazia da Dio all’uomo. È esattamente questa trasparenza
che rende la persona del presbitero consistente, consistente con ciò
che (o con Chi) deve annunciare. A questa consistenza è connessa
l’efficacia del suo ministero, da non confondere con l’efficienza, che
invece è legata al possesso di competenze e abilità varie per svolgere
il ministero.
È in ogni caso da ricordare che l’umanità del prete è comunque
mediazione dei beni salvifici del Regno, anche se non l’unica evidentemente, dunque in ogni caso il cuore e la capacità di relazione, il
gesto e il tratto relazionale, i sensi esterni e interni, l’atteggiamento
interiore e la libertà di esprimere i sentimenti, la lucidità della mente
12 Cec, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e
della formazione dei candidati al sacerdozio”, Roma 2008, 2. Paolo VI, nella Lettera
enciclica Sacerdotalis cælibatus (24 giugno 1967), tratta esplicitamente di questa
necessaria capacità del candidato al sacerdozio ai nn. 63-64: Acta Apostolicae Sedis,
59 (1967), 682-683. Egli conclude al n. 64: “Una vita così totalmente e delicatamente
impegnata nell’intimo e all’esterno, come quella del sacerdote celibe, esclude, infatti,
soggetti di insufficiente equilibrio psicofisico e morale, né si deve pretendere che la
grazia supplisca in ciò la natura”. Cfr. anche Pastores dabo vobis, n. 44: Acta Apostolicae Sedis, 84 (1992), 733-736.
13 CEI, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari,
Roma 2000, 23.
14
e il coraggio della volontà…, insomma tutto ciò e quant’altro è parte
ed espressione dell’umanità del presbitero e dell’annunciatore è di
fatto mediazione della grazia che giunge all’uomo che ascolta. Nessun prete può dunque pensare che la sua eventuale immaturità o
debolezza o contraddizione interiore o inconsistenza… sia qualcosa
che riguarda solo lui. Purtroppo…
Basterebbe questo per sottolineare l’importanza della FU e dell’attenzione a quanto a essa si riferisce.
1.5-Non solo contenuti
Inoltre, comunemente quando si pensa alla FU si pensa a una questione di contenuti, di “virtù umane”, per l’appunto, da trasmettere e
far crescere progressivamente nel cuore del candidato al sacerdozio.
Tale concezione non è errata, ma rischia d’esser intesa in modo
parziale, come se l’umanità del sacerdote fosse solo l’aspetto esteriore, il punto d’arrivo finale e non il luogo misterioso ove avviene l’incontro altrettanto misterioso con il dono di Grazia, e ove deve dunque
avvenire la formazione-trasformazione, l’evento della conversione e
della metanoia. E questo perché tale interpretazione riduttiva della FU pare lasciare in ombra una questione fondamentale: la FU è
formazione di che cosa? Questione che è subito seguita da un’altra
altrettanto sostanziosa: formazione in che modo, con quale metodo,
attraverso quale pedagogia?
Credo che le due cose siano intrinsecamente connesse tra loro:
solo il chiarimento della prima consente di intendere correttamente la
seconda. È fin troppo evidente che FU significhi formazione dell’umano, del cuore e della mente, ovvero della capacità affettiva e mentale, a livello conscio e inconscio, formazione dei sensi interni ed
esterni, della sensibilità e della coscienza (che non si forma solo sui
testi di teologia morale), dei gusti (aver un palato da Beatitudini) e dei
desideri, della capacità di prender decisioni e di commuoversi dinanzi
a ciò che è vero e bello, della libertà di voler bene di lasciarsi voler
bene, della sessualità come risorsa infinitamente preziosa che abilita
alla relazione, alla relazione con l’altro-da-sé e rende feconda la vita,
della responsabilità per gli altri che dà un tocco drammatico alla vita,
della memoria come organo non solo che recupera e registra fatti e
volti, ma come capacità d’integrare tutto il vissuto personale, e non
solo per accettarlo o tentare di riconciliarsi con esso, ma per dargli
un senso, formazione di ciò che di più umano c’è nell’uomo, … Altro
che galateo del bravo seminarista oggi e del prete politicamente o
teologicamente o liturgicamente corretto domani!
15
L’impressione è che questo sia solo teoricamente chiaro, ma ben
lungi dall’esser portato alle logiche conseguenze, come sarebbe, ad
es, l’interpretazione della FU come metodo, e l’interrogativo inevitabile sulla natura del metodo da usare. È evidente che, se FU significa
lavoro sull’umanità del candidato, nel senso prima accennato, e dunque lavoro duro e che va in profondità, tale metodo non potrà esser
fatto solo di pii incoraggiamenti o di semplici appelli –per quanto
vigorosi- alla volontà, come se l’individuo fosse sempre libero di fare
quello che gli è indicato o che lui stesso tanto vorrebbe. Stiamo dicendo che ci vuole un metodo adeguato: a una certa idea di FU deve
corrispondere un metodo adeguato, che possa e sappia intervenire
a quei livelli, dove –ad es- nascono i sentimenti e le motivazioni, ove
la libertà è frenata e impedita, ove scattano certi automatismi che
molto spesso anticipano l’atto decisionale, ove si formano sensibilità
e coscienza (spesso all’insaputa del soggetto) che van contro i suoi
stessi ideali… Tutti questi livelli non sono sempre così evidenti “a occhio nudo” (l’occhio del formatore o dello stesso soggetto), e dunque
ci vorrà un tipo d’intervento educativo particolare, un metodo d’investigazione che sappia andare in profondità per intercettare davvero
l’umano, una pedagogia educativa, anzitutto, che sappia tirar fuori la
verità della persona, penetrando nelle profondità dell’essere umano,
ove magari uno scopre pure i suoi mostri; e poi (e solo poi) una pedagogia formativa, che non s’accontenti di cambiare i comportamenti,
ma che miri esplicitamente a trasformare i sentimenti. Altrimenti, se
non è “umana” e dell’umano, è una povera formazione, inconsistente
e debole, banale e superficiale se non addirittura finta. E il “duc in
altum”, se non è accompagnato dal “descensus ad inferos”, finisce
per suonare come cordiale presa in giro o finzione illusoria o ideale
impossibile e frustrante.
E qui paghiamo lo scotto, molto probabilmente, d’una sottovalutazione del problema del metodo che ci portiamo dietro da molto
tempo, noi figli mai rinnegati d’un certo (post)illuminismo teologico
(o spirituale), che, notoriamente, attribuiva e continua ad attribuire
molta -o quasi esclusiva- importanza ai contenuti rispetto al metodo.
Come se la pedagogia fosse destinata a esser come la parente povera
della teologia, o come se fosse sufficiente chiarire il fine del cammino formativo per compiere il cammino stesso. O come non fosse più
vero che una teologia che non diventi pedagogia non merita il nome
di teologia cristiana, o una spiritualità che non possa esser tradotta
in percorso pedagogico neppur essa è vera sapienza dello Spirito.
Occorrerà, dunque, intendere la FU come una questione non solo di
contenuti, ma pure di metodo, per rendere la formazione cammino
16
integrale di attenzione all’umano, cammino che poi il giovane –una
volta appreso il metodo- potrà continuare a percorrere per tutta la
vita, perché tutta la sua vita sia formazione permanente.
Ma a noi qui interessa tirare un’altra conclusione, pertinente al
nostro tema. Questo concetto di FU ci fa comprendere anche il vero
senso della formazione permanente (FP).
2- Dalla formazione umana alla formazione permanente;
dalla formazione permanente all’umanità del prete
È proprio il chiarimento appena fatto che apre il discorso su un
versante quanto mai attuale, nuovo potremmo dire, e oggi assolutamente decisivo per la vita del prete: la FP. La quale è motivata e
giustificata esattamente dall’idea ora espressa, d’una formazione che
va in profondità, alle radici dell’io, per operare un processo di educazione-formazione-trasformazione dell’umano. Progetto complesso,
e che nessuno può pensare di esaurire nel tempo della formazione
iniziale. Progetto impossibile all’uomo, e possibile solo a Dio. Ecco
l’idea della FP, quale cammino che dura tutta la vita, inevitabilmente,
attraverso il quale il Padre-Dio forma nel presbitero i sentimenti del
Figlio. Non solo la condotta esteriore, ma i sentimenti: la parte più
umana e più profonda (chiaro il rimando a Fil 2,5, ove è usato il verbo
fronein, nel senso di provare le medesime sensazioni, lo stesso modo
d’andare incontro alla vita e agli altri). L’idea dell’estensione nel tempo della formazione è collegata strettamente all’idea dell’intensità o
della radicalità del processo formativo, che deve raggiungere tutta
l’umanità del presbitero. Stiamo in sostanza dicendo che il concetto
di FP è conseguenza diretta del concetto di FU. E che l’assenza di FU
significherebbe formazione banale e superficiale.
Ma stiamo anche dicendo che solo un autentico cammino di FP
consente al sacerdote di recuperare e vivere in pieno la propria umanità, perché sia mediazione trasparente dei beni salvifici.
Ebbene, proprio attorno a questa connessione si sviluppa ora l’articolazione del nostro discorso, secondo quelle 6 aree identificate e
che sono state già oggetto della vostra riflessione personale e condivisione di gruppo.
2.1-Stagioni della vita presbiterale
Se la FP, che è la vera sfida della vita del prete oggi, significa
l’azione del Padre che plasma in noi i sentimenti del Figlio, il Bel
Pastore, allora tale azione non solo non si può compiere in una sta17
gione privilegiata della vita, o in quella che noi chiamiamo la formazione iniziale, ma nemmeno è azione che conosce tregue né tempi
morti, ma si compie ininterrottamente, in ogni stagione esistenziale,
in qualsiasi contesto di vita, nella buona e nella cattiva sorte, nella
salute e nell’infermità, nel pieno vigore dell’impegno apostolico così
come nell’età del ritiro e dell’abbandono dell’apostolato attivo. Perché in ogni età della vita c’è un particolare passo da fare in questa
identificazione, particolari esigenze del valore da vivere, nuove debolezze cui far fronte ma anche nuove risorse su cui contare (e che
possono anche aumentare nel corso della vita), o particolari sorprese
della vita ecc. Si pensi, ad es, come anche uno scacco esistenziale
(come una seria infermità, o un trasferimento difficile, o una fragilità inattesa, o un insuccesso apostolico) possano diventare autentica
mediazione formativa, come un passaggio prezioso in tale cammino.
Ma pensiamo anche all’alternativa opposta, che è questa: se la vita
del prete non è formazione permanente, è frustrazione permanente!
a) Il vero “noviziato”
Rigorosamente parlando, allora, se punto d’arrivo è questo esser
conformi al cuore del Figlio, dovrebbe esser proprio la fase finale della vita quella strategica e decisiva dal punto di vista formativo, il vero
“noviziato”, perché è quella che ci introduce nella fase dell’identificazione piena col Figlio, attraverso la morte. Occorre forse ripensare
allora l’assistenza ai preti anziani, che non può ridursi evidentemente solo alle cure fisiche, o –meglio- ripensare il cammino formativo
come un iter progressivo, che va verso l’intensificazione progressiva
dell’impegno formativo, non della sua attenuazione. In altre parole,
dovremmo passare dall’idea della concentrazione della formazione
nella prima fase del cammino vocazionale (la formazione iniziale) a
una concezione della formazione distesa lungo l’arco della vita, ma
con una tensione o disposizione formativa da parte del singolo (la cosiddetta docibilitas) che dovrebb’essere in crescita, fino a giungere al
punto culminante della morte, come compimento del processo stesso
formativo, o della piena identificazione con i sentimenti del Figlio.
Compito della formazione iniziale, in tal senso, sarebbe l’abilitazione
del futuro presbitero a essere docibilis (non solo docilis), ovvero a
imparare a imparare dalla vita per tutta la vita. In un processo di
crescita progressiva.
b) Le due dimensioni della FP
In tal senso è allora importante specificare che in una corretta
idea di FP sono due le dimensioni portanti: esiste una FP ordinaria e
18
una straordinaria. La prima è quella fondamentale, ne è responsabile
il soggetto e si attua ogni giorno della vita, nella situazione ordinaria
ove è chiamato a svolgere il proprio ministero e nel proprio ministero,
per esser sempre più libero (o docibilis) di lasciarsi formare dalla vita
secondo il modello del Figlio; mentre FP straordinaria sarebbe quella
organizzata dall’istituzione, si compie in alcuni momenti e corsi speciali, che riguardano l’aggiornamento del presbitero in aree specifiche. Condizione psicologica della prima è la docibilitas; mentre per la
seconda è sufficiente la docilitas.
Evidentemente l’ideale è porre assieme queste due dimensioni. Di
fatto normalmente si parla di FP nel secondo senso, di quella straordinaria, purtroppo. Anche le sollecitazioni di questa Anno Sacerdotale
non mi sembra che stiano promuovendo un’autentica cultura della FP
in senso pieno.
Per cui, per concludere questo paragrafo, il problema non è che il
clero invecchi e l’età media si sposti sempre più in avanti, ma che…
questo sia considerato un problema, un evento negativo. O, per dirla
diversamente, il vero problema è che ancora non abbiamo imparato a
considerare tutte le stagioni della vita come pienamente rispondenti
a un progetto che è destinato per natura sua a compiersi progressivamente nell’esistenza del presbitero, “l’anziano” per definizione.
2.2-Cura adeguata di sé
Il senso più autentico della cura di sé è dato dalla preoccupazione
responsabile per la propria formazione che continua nel tempo.
a) Un Altro si è già preso cura di me…
La cura è “adeguata” quando implica la piena responsabilità, come
abbiamo visto, e si manifesta nella libertà di chi ha imparato a imparare dalla vita per tutta la vita (=docibilitas). Senza deleghe infantili
all’istituzione, e imparando invece a sfruttare ogni situazione di vita
come mediazione preziosa, ancorché a volte misteriosa, del progetto
formativo del Padre sulla propria persona. Diciamo pure che un presbitero si prende cura di sé quando s’accorge che un Altro s’è preso
cura di lui, ovvero quando comprende la logica della FP, che non è
questione di aggiornamento o di tenuta generale, spirituale o intellettuale o psicologica, ma è azione di Dio, è grazia in costante azione, con assoluta certezza, in qualsiasi momento della vita, perché
non possiamo nemmeno immaginare quanto il Padre desideri portare
avanti in ciascun presbitero l’immagine del Sacerdote eterno, figlio
suo. Dunque la FP non è un’eventualità, ma è ed esprime questa cura
19
del Padre; e siccome è azione del Padre non vi può esser più nessun
momento nella vita del prete che possa esser considerato neutro dal
punto di vista formativo, ma –al contrario- ogni situazione di vita,
anche quella che può sembrare la meno adatta o la più contraria, può
diventare luogo e momento di formazione. Lo diventa di fatto, ovviamente, grazie alla collaborazione intelligente del prete, grazie alla sua
docibilitas. Ma di fatto è qui che nasce la sua responsabilità, il suo
autentico prendersi cura di sé, come una costante e vigile attenzione
per scrutare in ogni frammento di vita la grande mano del Padre che
mi plasma secondo il cuore del Figlio. Ed è solo a questo punto che
la vita del prete assume qualità, un alto grado di qualità, evitando
quelle varie forme che dicono invece una qualità di vita bassa o quasi
inesistente.
b) Povera qualità di vita
Accenniamo brevemente ad alcune di queste forme14.
• Schizofrenia
Schizofrenia tra il personaggio del culto, compìto e a volte ridondante, e l’uomo reale, spesso arido e freddo, incapace di relazione e
di empatia, e comunque lontano da quel che ha celebrato o da quella
Parola che ha annunciato. Tale schizofrenia rimanda a una concezione
ormai vecchia e desueta, che limiterebbe gli spazi e le possibilità di FP
del presbitero solo ad alcuni momenti e situazioni, senza estenderla
all’intera sua vita, tutta protesa in ogni istante a raggiungere la piena
statura di Cristo e interpretare creativamente, come un’opera d’arte,
i suoi sentimenti nella misura originale dell’esistenza presbiterale o
religiosa e della persona del presbitero o del consacrato/a. È proprio
questa frattura, di conseguenza, a rendere l’individuo sempre meno
vigilante su ogni aspetto della sua propria umanità, a lasciarsi andare, in qualche modo, non dando più la necessaria attenzione alla
qualità della sua vita, del ministero, delle relazioni.
• Poca cura di sé
Determinata da una vita presbiterale che per l’accumularsi degl’impegni, per il prevalere d’un certo disordine nell’attribuire le giuste
priorità e nel dominare il tempo della giornata, per una certa pigrizia
o incapacità a porre limiti alle proprie prestazioni (o al proprio senso
d’onnipotenza), finisce per non lasciare davvero più posto alla cura
di se stessi. Ad es, dal punto di vista intellettuale: occorre ribadire,
“che un presbitero privo di una vita intellettuale, cioè in primo luogo
14 Per questa parte cf A.Cencini, L’ora di Dio. Le crisi nella vita credente, Bologna (in
stampa).
20
incapace di assiduità alla lettura, avanza a grandi passi verso la decadenza spirituale, a risentirne saranno anzitutto la sua adorazione e la
sua contemplazione, progressivamente più aride e più povere, ma poi
anche la sua predicazione e, infine, la sua autorevolezza all’interno
della comunità cristiana. Sappiamo bene che l’esito di una scarsa vita
intellettuale, del mancato esercizio del pensare, non consiste solo
in una ristrettezza di orizzonti, ma sovente si traduce anche in una
condizione di miseria spirituale in cui si è esposti a derive opposte
e speculari: da una parte l’influenza del relativismo che dissolve la
fede, dall’altra quella del fondamentalismo che, sotto la maschera di
un’identità forte e rassicurante, prelude ogni ricerca ed è intollerante
verso i cammini diversi dal proprio”15.
• Disattenzione all’abituale contesto di vita
Altra conseguenza ed espressione d’una umanità povera e mancante: la cattiva qualità di vita umana. Si pensi semplicemente ai
rapporti fondamentali e ai bisogni primari che un uomo vive: la casa,
il cibo, il vestito.
La casa del presbitero è sovente inospitale, luogo che non “canta
la vita”, in cui è difficile sentirsi a casa propria, per chi ci abita e per
chi la frequenta. O per chi sembra aver ridotto il luogo ove lavora o
addirittura la propria camera a una tipografia o a un’officina o a un
retrobottega o a un rispostiglio o a qualcos’altro di non ben identificabile e di praticamente inivivibile.
Il cibo e il contesto in cui è assunto non sempre diviene simbolo
d’una convivialità che distende e che ritrova le sue radici nel banchetto cristiano per eccellenza.
E il vestito non è forse il primo linguaggio con cui una persona
comunica ciò che è? Per questo Gerolamo raccomandava di fuggire
l’eleganza e la ricercatezza, ma anche la sciatteria e la negligenza.
Insomma “lo si sappia o no, questi tre ambiti riflettono chi è il presbitero, e nello stesso tempo lo influenzano: a partire da qui si rivelano
la sua libertà e autonomia”16, ma anche la ricchezza e armonia, o
bruttezza e disarmonia, della sua umanità.
• Forme di narcisismo
Non è sempre facile, per altro, cogliere il limite oltre il quale la cura
di sé rischia di diventare eccessiva attenzione alla propria persona,
con varie deformazioni comportamentali, dal salutismo alla cura eccessiva del proprio look, dal giovanilismo narcisista alla paura esage15 E.Bianchi, Ai presbiteri, Magnano 2004, pp.67-68.
16
Ibidem, 69-70.
21
rata di far apparire i segni del proprio invecchiamento, dalla pretesa
d’esser padroni del proprio tempo alla rigidità nel perseguire i propri
interessi, ecc.
D’altro canto il rischio è anche sul versante opposto, ma sempre
legati a un difetto d’identità: vi sono ancora presbiteri che sembrano non aver alcuna attenzione nei confronti di sé, del proprio corpo,
della propria salute, o che sembrano confondere il cosiddetto zelo
pastorale con un senso esagerato dell’io, e non conoscono tregua e
riposo nel loro presunto darsi per gli altri (neanche il ritmo naturale
dell’alternanza giorno-notte a volte).
2.3-Burn-out
Abbiamo in sostanza già parlato di questo fenomeno nel paragrafo precedente. Normalmente con tale termine s’intendono questi
tre “sintomi” nell’ambito clericale: esaurimento emotivo, spersonalizzazione, inefficienza (e inefficacia) personale. Non è dunque esattamente solo questione di sovraccarico di lavoro, ma semmai d’uno
squilibrio nell’organizzazione del proprio tempo, legato –a sua voltaa un ulteriore squilibrio più profondo personale.
a) Errato rapporto col ministero
Fondamentalmente il fenomeno del burn-out (detto anche del guaritore deluso, dell’apostolo frustrato, del prete scoppiato…) è un problema d’identità che nasce o si manifesta in un errato rapporto tra
presbitero e ministero (inteso come attività, luogo, persone, tempo,
risorse profuse…), rispetto al quale il prete ha delle aspettative precise (conscie e inconscie). In buona sostanza egli non ha risolto il problema della propria identità, o della percezione positiva di sé, e la va
dunque a cercare in quel che fa, nel proprio ruolo, col quale s’identifica (è un “arruolato”) e dal quale non sa più prender le distanze, quasi
ne fosse risucchiato, finendo per non saper più calcolare tempi e modi
d’azione pastorale (“non ho tempo”, ed è proprio così poiché ha perso
la capacità-libertà di gestire con intelligenza il proprio tempo). E a un
certo punto finendo anche per sentire come ostile tutta questa realtà,
quando non gli darà ciò che s’attende.
b) Insuccesso pastorale come fallimento personale
Mi pare illuminante la seguente analisi di Manicardi al riguardo: “il
presbitero vive a volte l’esperienza di insuccessi pastorali in modo
talmente personalizzato da cadere in stati depressivi. Se si fa coincidere personalità e lavoro pastorale, realizzazione di sé e ruolo, allora
22
un insuccesso (che va messo realisticamente in conto) può condurre
a una profonda crisi e disarticolazione personale. Se il presbitero vive
la sua funzione pubblica, il suo ruolo, come prolungamento della sua
personalità, allora gli eventuali fallimenti pastorali vengono ingigantiti
e trasmutano in senso di fallimento personale, perdita di autostima,
tentazione di abbandono. Dall’aver fallito qualcosa si trapassa indebitamente al senso di fallimento totale di sé. C’è il rischio di far dipendere tutto da sé e di divenire una cassa di risonanza narcisistica che
registra sul proprio conto successe e insuccessi”17.
Ora, vi sono almeno tre brevi considerazioni da fare. La prima
parte dal fatto inoppugnabile che crisi e insuccessi, persecuzioni e
contraddizioni fanno parte della promessa di Cristo a chi lo segue con
radicalità, non costituiscono affatto un evento strano e imprevedibile, anzi, si potrebbe dire che in qualche modo confermano una certa
autenticità. Mentre, al contrario, seconda considerazione, è pure il
caso di affermare con chiarezza che “l’ossessione per il risultato, per
il successo, per l’esito dell’azione pastorale, va valutata per quello
che spesso è: antievangelica. Ci può essere molto evangelo nell’apprendere la lezione d’un fallimento personale e ci può essere molta
idolatria nel vantare un successo pastorale”18. Infine, terza riflessione
a mo’ di domanda: il prete è proprio sicuro che quanto egli chiama
fallimento sia davvero tale secondo il vangelo? Oppure è tale solo
in riferimento alle sue attese più o meno irrealistiche, più o meno
infantili-adolescenziali? È proprio sicuro che il suo dispiacere, in tali
casi, è solo per la nobile causa del Regno? O è anche e soprattutto
per il suo piccolo regno personale?
Scrisse diversi anni fa l’allora card. Ratzinger: “Se oggi i sacerdoti
tante volte si sentono ipertesi, stanchi e frustrati, ciò è dovuto a una
ricerca esasperata del rendimento. La fede diventa allora un pesante
fardello che si trascina a fatica, mentre dovrebbe essere un’ala da cui
farsi portare”19.
c) Anche i preti possono bruciarsi
Secondo un’interessante ricerca sulla presenza del fenomeno del
burn-out tra i preti della diocesi di Padova sono risultate queste 6
categorie: 124 d’essi appartengono a quelli cui “tutto va bene” (beati
loro!); altrettanti 124 sono “bruciati” (alti livelli di esaurimento, spersonalizzazione e bassa efficienza e ancor più efficacia personale); 24
sono gli “insoddisfatti” del loro ministero; 19 gli “stanchi” (si sentono
17 Manicardi, “La preghiera”, 100.
18 Ibidem, 101.
19 J.Ratzinger, La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Cinisello B. 1991, p.92.
23
sottoposti a una forte pressione emotiva e/o fisica che non reggono);
14 gli “efficienti sofferenti” (coscienti di svolgere bene il loro compito,
ma anche d’un certo disagio della propria condizione); 12 “quelli del
ruolo” (che li fa sentire più come “dispensatori di servizi religiosi” che
“pastori”). Da notare, e il dato è inquietante, che dei preti tra i 25
e i 29 anni d’età ben due terzi fan parte del gruppo più a rischio20 .
Sarebbe interessante vedere quanto questi dati possano esser estensibili anche alla realtà del clero veronese.
d) Compito dell’istituzione
Quando il prete è in difficoltà non sempre è in condizione di riconoscerlo, ancor meno è libero di chiedere aiuto. Se dunque si aspetta
che sia lui a farsi vivo e sollecitare un soccorso si perde tempo prezioso e si lascia che l’individuo scivoli nella situazione critico-problematica. C’è bisogno che attorno a lui qualcuno se ne accorga e intervenga. Per questo c’è stato chi ha detto che per ogni prete che va in crisi
o che è lasciato andare in crisi ce n’è sempre un altro, almeno, che è
in crisi, anche se non lo sa, e a volte è pure tutta un’istituzione che
ancora non è entrata nella logica della FP. La quale implicherebbe la
presenza nel territorio ecclesiale in questione d’una realtà più o meno
strutturale, e comunque ben visibile, fatta di uomini, di fratelli presbiteri, che possano dedicarsi a tempo pieno per il servizio della FP
in diocesi, per la sua programmazione generale, anzitutto, a livello di
corsi o di quanto possa servire per creare nella testa e nel cuore dei
preti della diocesi una vera e propria cultura della FP, come pure per
quell’aiuto da dare ai fratelli in difficoltà, o direttamente essi stessi, o
indirizzando verso referenti sicuri il fratello in crisi. Il primo vantaggio
o frutto di questa struttura è il messaggio che lancerebbe a tutta la
diocesi: d’una presenza attenta non solo nei primi anni dopo l’ordinazione presbiterale; e non solo aspettando che si dia una situazione
di emergenza (quando c’è ben poco da fare), e dunque anche la sensazione d’una presenza vigile, materna-paterna, o la certezza d’un
accompagnamento fraterno, da parte d’una chiesa che si prende cura
dei suoi ministri. Ovviamente soprattutto nei passaggi più difficili. Il
supporto, in altre parole, potrebbe o dovrebb’esser doppio: uno che
riguarda le condizioni e i tempi di normalità del ministero, l’altro le
situazioni di emergenza, perché nessun fratello in crisi debba sentirsi
per questo un appestato, né debba andare a cercare chissà dove chi
possa aiutarlo. Non dovrebbe esistere l’una senza l’altra.
Ma l’impressione è che oggi non si stia camminando in questa direzione, anche se in qualche diocesi si avvertono segnali in tal senso,
20 cf M.Pizzighini, Anche i preti possono “bruciarsi”, in “Settimana”, 23(2007),5.
24
quanto ci consente di sperare.
Secondo alcuni la chiesa si troverebbe oggi a vivere un periodo
significativo e strategico come fu quello immediatamente successivo
al Concilio di Trento, quando nacquero i seminari, come struttura
stabile formativa per la formazione dei sacerdoti, e sappiamo quanto
la loro istituzione sia stata decisiva per la vita della chiesa intera.
Ebbene, oggi siamo in un analogo snodo storico: ma non più per
quanto concerne la formazione iniziale, bensì per quanto riguarda la
FP, per la quale dovrebbero sorgere strutture in grado di garantire
la continuazione della formazione del presbitero lungo tutto l’arco
dell’esistenza. È una vera e propria sfida per la chiesa di oggi! Forse
l’unico vero problema.
2.4-Vita relazionale: fraternità, amicizia sacerdotale, affettività e
celibato
Entriamo ora in uno degli aspetti più interessanti e arricchenti,
da un lato, della vita del prete, ma anche più complessi e faticosi,
dall’altro: le relazioni interpersonali. Il prete, per definizione, è un…
animale relazionale in quell’aia che è la parrocchia, e dunque dev’esser attrezzato da questo punto di vista. Anche questo problema lo
vediamo a partire da un punto preciso d’osservazione: la FP.
a) Mediazione privilegiata
Abbiamo detto che la formazione è permanente quando è quotidiana, ovvero quando si compie nelle situazioni e nei contesti normali della nostra vita, quelli che noi normalmente non abbiamo scelto
(parrocchia, persone, normali attività quotidiane, incarichi vari…),
ma che appartengono al progetto vocazionale che abbiamo scoperto
come il nostro, quello pensato dal Padre per ciascuno, che ci forma plasmando in noi i sentimenti del Figlio. Particolarmente c’è una
mediazione privilegiata in questo processo formativo, quello della
relazione interpersonale. Se il Padre-Dio si serve delle circostanze
concrete della vita, tanto più la sua azione giunge a noi attraverso le
persone; e proprio perché è lui all’origine di questo progetto e tutto
nelle sue mani si può trasformare in occasione provvidenziale, anche
ciò che a noi sembrerebbe inadatto o contrario, così ogni relazione,
ogni persona che in qualche modo entra in contatto con la vita e la
persona del presbitero è tramite prezioso, ancorché misterioso di
questa stessa azione divina che mira a renderci come il Bel Pastore,
l’amico degli uomini e delle donne, particolarmente degli ultimi, colui
che ci ha rivelato Dio stesso come relazione, come Trinità, attraverso
la sua vita di relazione.
25
b) Docibilitas relationalis
E ancora, se la FP è fondamentalmente azione sua, che chiede
comunque a ciascuno di noi il massimo del coinvolgimento personale
(la docibilitas), proprio per questo non possiamo stare troppo a distinguere tra una relazione (o persona) e l’altro, decidendo noi quale
potrebb’essere formativa e quale no, e pretendendo di vivere in situazioni e con persone perfette, ma dovremmo sempre più capire che
ogni contesto e ogni relazione ha in sé una valenza educativa, che ovviamente può esser colta, sfruttata e vissuta solo da chi è così libero
nel cuore d’aver appreso la docibilitas relationalis, o che ha imparato
a imparare da ogni relazione, da ogni persona, santa e meno santa21 .
In concreto, mi pare d’intravedere come una progressione in questo apprendimento lungo il quale cammina la FP dell’umanità del prete.
• Fraternità sacerdotale
Credo che dobbiamo uscire da un certo modo di pensare la fraternità sacerdotale, per un verso fin troppo idealistico e quasi poetico, come si trattasse di qualcosa di straordinario ed eventuale,
alla fine, solo per pochi; e per un altro verso, al contrario, si tratta
d’abbandonare quella certa visione banale della fraternità medesima,
o superficiale, tutto sommato, perché finalizzata solo o soprattutto al
benessere psicologico o alla difesa del celibato.
La fraternità sacerdotale è componente dell’identità del singolo
presbitero, non esiste –infatti- identità, dal punto di vista psicologico, senza appartenenza. Chi si tira dunque fuori dal gruppo, o vive
rapporti inconsistenti coi propri fratelli sacerdoti, o si sente e agisce
da persona autosufficiente, snobbando tutto quel che sa di comunità
e condivisione, di collaborazione e fraternità, mostra d’avere un io
piccolo piccolo, inconsistente, immaturo, preadolescenziale, negativo
e disperato alla fine, poiché la positività dell’io è anche frutto di relazione col tu, come c’insegna tra gli altri Lévinas.
Non credo d’esagerare se dico che il virus dell’individualismo è da
tempo penetrato all’interno della chiesa indebolendo proprio quello
che dovrebb’essere uno dei segni più convincenti dell’evangelo: la
fraternità dei suoi annunciatori, poiché l’evangelo s’annuncia non da
soli, c’ammonisce la stessa Parola, ma in coppia, meglio se in 12, e
ancor meglio in 72. Ma purtroppo c’è ancora un folto esercito di (falsi)
21 E non con l’atteggiamento di quel prete cinquantenne che una volta s’espresse
così: “Ho comunicato ai superiori che ho deciso, da oggi, di obbedire solo a quei superiori che siano più santi e più intelligenti di me”. Fermo restando che era sempre lui
a stabilire poi chi fosse più santo e intelligente di lui…
26
annunciatori solitari, che mentre combattono una guerra assolutamente perdente, non s’accorgono della contraddizione22 evidente nel
loro annuncio e del male che fanno all’azione della chiesa , ma poi
anche a se stessi: l’individualismo genera percorsi solitari, a volte
solitudini tristi e disperate, altre volte –ed è peggio ancora- solitudini
compiaciute e cercate23, c’impedisce di condividere il dono ricevuto
rendendoci estranei gli uni agli altri, ci illude di trovare felicità e realizzazione nella ricerca miope del proprio interesse, impedendoci di
provare la gioia del vivere rapporti significativi, del “vivere insieme”,
del pregare insieme, ma anche del mangiare assieme, del ridere assieme, del programmare assieme, del tentare vie nuove assieme;
diventa prima o poi stile di vita contrario all’evangelo, fatto di apostolati privati, di gestioni individualistiche d’un bene che è poi comune,
senso di proprietà dell’altro, della parrocchia, del gruppo, dell’amico,
gelosie infantili, la tristemente famosa invidia clericalis, rivalità adolescenziali, spesso sfociando in depressioni molto difficili da curare,
altre volte in altre forme anche patologiche nell’area affettiva e suoi
dintorni. È un autentico virus, forse la tentazione più subdola presente nel clero o in certa parte del clero di oggi. Con gravissima ricaduta
sul popolo di Dio, che ha bisogno e diritto di vedere questa fraternità
sacerdotale in atto; insomma, in una diocesi non si può aspettare il
giovedì santo per accorgersi che esiste un presbiterio!
D’altro canto la fraternità presbiterale sgorga spontaneamente dal
dono ricevuto nell’Ordine. È nella natura delle cose per un prete. Coi
suoi fratelli (non confratelli, per favore) egli condivide qualcosa di
molto importante, niente meno che l’identità, l’io ideale vocazionale,
sancito dal sacramento dell’ordine. La prima, naturale comunità per
il presbitero è la comunità dei preti24. Il Concilio Vaticano II è stato
esplicito al riguardo: “I presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono tutti tra loro uniti da intima fraternità
22 È proprio a partire da queste controtestimonianze che c’è chi dice che i preti sanno
amare (forse, senz’altro sanno parlare d’amore), ma non sanno amarsi tra di loro.
23 Ricordo la sorpresa dinanzi ai dati preoccupanti della ricerca fatta alcuni anni
fa dalla FIAS (federazione italiana assistenza sacerdoti) sulla solitudine del prete,
su cui spesso s’intonano grandi (auto)lamentazioni. La sorpresa fu determinata non
tanto dall’entità del fenomeno, più o meno prevedibile, quanto dall’evidenza, emersa
da moltissime testimonianze, che la solitudine era in buona parte voluta e preferita
alla compagnia di altri presbiteri: “per alcuni presbiteri la solitudine è anche rifugio,
difesa, alibi, gratificazione, qualcosa di funzionale per la loro struttura intrapsichica”
(A.Cencini, La solitudine del prete oggi: verso l’isolamento o verso la comunione?”, in
AA.VV., Il prete e la solitudine: ne vogliamo uscire?”, Atti del convegno Fias, Rocca di
Papa giugno 1989, p.62). Alla faccia della fraternità presbiterale!
24 Sul tema dell’amicizia presbiterale in relazione con il celibato, cf Gaidon M., Amitiés
sacerdotales et célibat, in “Seminarium”, 1/1993/77-87.
27
sacramentale”25.
Il presbiterio è “luogo sacramentale, sotto questo aspetto anche più forte di quel che non sia la comunità per i religiosi”26. Già
Paolo VI chiedeva di fomentare al massimo la “intima fraternità
sacramentale”27, poiché particolarmente i sacerdoti in difficoltà devono poter “contare sulla carità senza limiti di quelli che sono e devono
essere i loro più veri amici”28, ovvero i loro fratelli presbiteri.
Ed è molto importante essere realisti in tutto ciò, e capire, l’abbiamo appena accennato più sopra, che tale fraternità non viene dalla
carne e dal sangue, ma dal dono ricevuto, è dunque realizzata con
fratelli che io non ho scelto e dai quali non sono stato scelto; proprio
per questo tale fraternità è locus theologicus, e ancora proprio per
questo attraverso di essa l’azione del Padre forma in noi il cuore del
Figlio29. È fondamentale a questo riguardo uno sguardo di fede. E
proprio in tal senso diventa vitale per una fraternità che nasce dalla
fede, la condivisione della fede stessa, del nostro cammino di credenti, di ciò che è centrale nella nostra vita, di Dio… Noi non possiamo
nemmeno immaginare quanto l’imparare a condividere la fede (la
narratio fidei) potrebbe alzare il tono e la qualità delle nostre fraternità presbiterali. È quel che ci raccontano gruppi di sacerdoti che
portano avanti in modo sistematico questa esperienza30.
Va però aggiunta un’altra osservazione al riguardo: se vogliamo
davvero creare una mentalità nuova al riguardo occorre interrogarsi
fin dalla prima formazione sul tipo di presbitero che vogliamo formare
e partire con decisione dall’inizio del cammino educativo. Non possiamo, in altre parole, lamentarci dello scarso funzionamento delle
comunità pastorali se ancora non c’è un certo tipo di preparazione fin
da subito al senso della fraternità. Le comunità presbiterali non s’improvvisano, implicano una notevole libertà interiore e disponibilità
alla condivisione. A volte si ha davvero l’impressione che tali comunità presbiterali siano come convivenze coatte con scarsa condivisione
di vita, o più… “unioni di fatto presbiterali” che non espressione di
reale vita fraterna tra presbiteri.
25 Cf Presbyterorum ordinis, 7-8. 14: EV 2/1267-1270. 1290-1292; cf anche Cenacchi
G., Il presbitero e gli altri presbiteri, in Concetti G. (a cura di), Il prete per gli uomini
d’oggi, Roma 1975, pp.575-594.
26 Franchini E., Non separare spiritualità e pastoralità, in “Settimana”, 6/1989/6.
27 Paolo VI, Sacerdotalis Caelibatus, 79; EV 2/1493.
28 Ibidem, 81; EV 2/1495.
29 Bonhoeffer al riguardo propone delle riflessioni quanto mai opportune sulla differenza tra comunità psichica e comunità pneumatologica (cf D.Bonhoeffer, La vita
comune, Brescia 1986).
30 Cf, al riguardo, A.Cencini, La verità della vita. La formazione continua della mente
credente, Bologna 2008, pp.487-488.
28
• Amicizia sacerdotale
“Un prete senza amici è un prete che puzza di rimozione. Un prete
con pochi amici è un prete con poca salute psichica”31. Anzi, “un prete
senza amici -secondo mons.Ancel, uno che se n’intendeva di preti- è
generalmente un prete in pericolo. Certo, l’amicizia umana non basta,
ma nella maggior parte dei casi da me conosciuti i preti che hanno
lasciato erano preti che non avevano trovato il sostegno di una vera
amicizia”32. Gli fa eco, più vicino a noi, D.Cozzens: “se il sacerdote
non ha qualche amico intimo, corre un serio pericolo, e i suoi sforzi di
rimanere unito spiritualmente a Dio non compensano l’angoscia esistenziale che gli tormenta l’anima. A questo punto è facile che la fame
di una relazione romantica e sessuale condizioni e domini tutto”33.
D’altro canto l’amicizia non è solo realtà umana o supporto psicologico, ma componente e conseguenza o strumento di quella caritas
pastoralis che contraddistingue l’autentico pastore34. O, come dice
Laplace, “la profondità d’una vita spirituale si manifesta nell’amicizia
e, quando non esistono le relazioni con Dio, quelle con gli uomini non
sono migliori”35.
E da cosa viene l’amicizia? Da una condivisione particolarmente
profonda di ideali e valori, o da una sintonia marcata circa il proprio
ideale di vita, che si nutre poi di condivisione e mette sempre più al
centro il punto finale, l’obiettivo verso cui tendere, senza lasciarsi
distrarre dalla gratificazione legata alla scambio amicale.
Molti lamentano al riguardo il persistere di vecchi pregiudizi che
impediscono la nascita d’una mentalità nuova al riguardo, anche nella
prima formazione, anche a causa dell’assenza di modelli nella generazione degli anziani.
Osserva p.Scalia: Quando si parla di amicizia tra preti o tra consacrati sembrerebbe una ovvietà, “se anche questo tipo di rapporto
non fosse piuttosto raro. La verità è che ad uno scambio fraterno…,
ad una chiarezza di sentimenti e ad un fiducioso abbandono ai gesti
e alle premure benevole dell’altro, per svariati motivi, non siamo stati
educati. Si temevano così tanto –proprio a salvaguardia della castità31 J.Mohana, Psicoanalisi per il clero, Torino 1970, p.205.
32 A.Ancel, cit. da Pellegrino, Castità e celibato sacerdotale, Torino-Leumann 1969,
p.26.
33 D.Cozzens, Verso un volto nuovo del sacerdote, Brescia 2002, p.41.
34 Cf Colombo G., Fare la verità del ministero nella carità pastorale, in “Rivista del
clero italiano”, 70/1989/328-339; cf anche Brambilla F.G., La teologia del ministero:
stato della ricerca, in AA.VV., Il prete: identità del ministero e oggettività della fede,
Milano 1990, pp.82-88.
35 J.Laplace, Le prêtre à la recherche de lui-meme, cit. da Gaidon M., Amitiés sacerdotales et célibat, in “Seminarium”, 1/1993/82.
29
le ‘amicizie particolari’ che si finiva per creare le ‘inimicizie particolari’, come scrive T.Radcliffe”36.
Ancora Scalia: “Se non facilitiamo e incoraggiamo sane e vere
amicizie tra preti e futuri preti, ce li sogniamo i presbitèri che siano
luoghi di fraternità sacerdotale e luoghi della ricerca di Dio. Finiremo
per incoraggiare quella concorrenza tra preti, quella invidia clericalis,
quella competizione che crea mostri di solitudine personale, inestirpabile arrivismo, tristezza, pentimento per la strada intrapresa, delusione e, alla fine, anche inevitabili ‘compensazioni’ di molti tipi”37.
Una di queste è proprio quello strano modo di vivere l’amicizia che
esprime il livello o il blocco infantile dello sviluppo della persona, disposto sì a vivere l’amicizia ma come quel “puer aeternus” che deve
mettersi sempre al centro di tutto e di ogni relazione, e finisce per
legarsi a pochi o pochissimi, spesso trattati come proprietà privata o
possesso geloso, e ignorare il gruppo38.
C’è chi dice che spesso i preti hanno più amici laici che preti: cosa
può nascondere? Alla domanda rispondo solo che l’ideale sarebbe
aver entrambi per amici, come dice un mio collega: “ai seminaristi
suggerisco, in particolare in prossimità della conclusione del percorso formativo, di avere nel ministero almeno tre amici: uno, che sia
un prete; gli altri due, che siano una coppia di sposi, meglio se con
figli… Sull’opportunità che un prete possa avere almeno un amico
prete non vorrei dire troppo, perché penso basti il buon senso. In
certi passaggi difficili (ma non solo) del ministero, credo che la vicinanza d’un confratello consenta di entrare in un dialogo fecondo
senza che il racconto di sé e della propria situazione abbia bisogno di
troppe premesse o contestualizzazioni. Altrettanto importante e, di
più, mi verrebbe da dire, fondamentale, è l’amicizia con una famiglia.
Amici del marito e della moglie: non amici del marito sopportando la
moglie; e tanto meno amici della moglie e… il marito “sa che siamo
amici!” (io e la moglie…)”39. Il motivo è presto detto: c’è un aspetto
della vita familiare che fa particolarmente bene a un prete celibe: la
testimonianza dell’assoluta concretezza dell’amore, un realismo che il
testimone dell’Assoluto (a volte meno realista) farà bene a tener presente, e che, tra l’altro, gl’impedirà d’idealizzare come un preadolescente l’amore di coppia (specie in occasione di certe crisi affettive).
36 Cit. in Scalia, Forse che l’amore, 247.
37 Ibidem, 247-248.
38 Ho analizzato questo problema nel già citato libro di prossima pubblicazione con le
edizioni Dehoniane L’ora di Dio.
39 S.Guarinelli, Il celibato dei preti: perché sceglierlo ancora?, Milano 2008, p.121.
30
• Relazione con il popolo di Dio
Il principio della relazione interpersonale come mediazione particolare d’un processo di FP vale per ogni tipo di relazione, non solo per
quelle all’interno della comunità presbiterale, ma anche per quelle
con la gente qualsiasi, con il popolo di Dio che gli è stato affidato, e
che –ancora una volta- lui non s’è scelto e da cui non è stato scelto.
La sua FP passa anche attraverso la relazione con queste persone,
anche quello è locus theologicus, e anche qui parliamo della relazione con tutti, senza eccezioni, e dunque d’una disponibilità credente
che è condizione per entrare in una situazione per certi versi nuova:
l’evangelizzatore, infatti, che ha imparato a imparare dalla sua gente,
da coloro cui è inviato, diventa evangelizzato. È la libertà dell’evangelizari a pauperibus, che arricchisce davvero il presbitero di quella
sapienza e beatitudine che il Padre ha promesso proprio ai piccoli e
ai poveri e che spesso il sacerdote non conosce affatto. Ma è ancora,
soprattutto, una forma di docibilitas, che di fatto rende la dinamica dell’evangelizzazione a doppio senso, com’è giusto che sia, quale
processo che è attivo e passivo, di scambio di ruoli tra i partners, o
tra i poli di ricezione e trasmissione della fede, come un compimento
o completamento della dinamica dell’annuncio, in cui nessuno può
dirsi solo maestro e in cui tutti indistintamente siamo discepoli l’uno
dell’altro o dell’unico Dio che parla attraverso ognuno.
Forse questo è il vero senso della Nuova Evangelizzazione che,
come piaceva dire a Giovanni Paolo II, è soprattutto questione di
nuove relazioni, di relazioni davvero umane e che s’arricchiscono
dell’umanità di coloro che entrano in questo scambio comunicativo.
Ovviamente non si tratta di un semplice giuoco tra le parti, ma si
tratta per il prete di vivere con tutta la propria carica d’umanotà il
rapporto che lo lega alla sua gente, o –come diceva Teilhard de Chardin- di “amorizer le monde, di amorizzare il mondo”40. Il presbitero
deve capire che non si evangelizza ciò che non si ama, o coloro che
non ama; per questo –come dice Pastores dabo vobis- egli è chiamato ad “amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico
distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con
una specie di ‘gelosia’ divina, con una tenerezza che si riveste persino
delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei ‘dolori
del parto’ finché ‘Cristo non sia formato’ nei fedeli”41.
Il prete che si sacrifica per la sua gente, in termini di tempo ed
energie donate, anche con reale sacrificio di sé, sceglie di agire così,
40 A.Paoli, Gettati nel mondo, in “Rocca”, 10(2006), 52.
41 Pastores dabo vobis, 22.
31
di stare vicino a chi soffre, di andare a trovare persone in difficoltà…,
perché sente quelle persone come “la sua gente”, perché gli vuol
bene. In tal senso il celibato non è semplicemente ciò che lo solleva dalle preoccupazioni d’una famiglia garantendogli spazi di tempo
libero, ma è semmai un grande spazio affettivo, che gli consente
appunto di amare con cuore assolutamente libero le persone che gli
sono state affidate42.
• Affettività e stile relazionale celibatario
Il presbitero, abbiamo detto, è chiamato a stabilire molte relazioni,
potremmo dire con chiunque, ma non in modo qualunquistico, bensì
con uno stile che è tipico della sua vocazione (così come il coniugato è
chiamato a porsi in relazione con la propria moglie secondo lo stile tipico della vocazione matrimoniale). È solo a questa condizione che la
sua vocazione celibataria promuove la sua umanità, e diventa come
un grande spazio affettivo, una immensa risorsa dal punto di vista
della sua affettività, quando tale vocazione è rispettata e vissuta coerentemente. Altrimenti, quando l’opzione celibataria non è vissuta coerentemente e pienamente nella relazione, avviene il contrario,
avviene che l’umanità del prete non cresce, è l’umanità del “puer
aeternus”, chiuso nel proprio mondo e nella pretesa d’una centralità
che magari sfrutta anche la dimensione ministeriale o liturgica, in
particolare, della sua vocazione e perennemente alla ricerca di consensi e rassicurazioni. Il sintomo più evidente è quel sostanziale egocentrismo che rende insensibili nei confronti dell’altro, attenti solo a
sé e incapaci di empatia, timorosi della relazione intensa e di qualsiasi
segno di vicinanza43, incapaci di amicizia e dunque pericolosamente esposti alle varie forme di compensazione del naturale bisogno
d’intimità (fino a sognare quella più radicale nel rapporto sessuale),
oppure quella pretesa di amare tutti e poi di non amare nessuno, o la
famosa “filantropia telescopica”, tipica di chi fa grandi discorsi sulle
grandi povertà del mondo o ama quelli… lontani e non s’accorge di chi
gli è accanto. Sono tante le deformazioni del celibato e della capacità
d’amare del presbitero, che molte volte vive un celibato osservante o
solo continente, ma non casto e tanto meno vergine.
Allora diventa possibile e addirittura necessario cercare di chiarire,
senz’alcuna pretesa di completezza (forse impossibile), cosa voglia
dire “stile relazionale celibatario”.
Anzitutto occorre dire che tale stile… esiste, e che ogni presbitero
dovrebbe cercare di esplicitarlo, di precisarlo sempre più, quasi d’es42 Cf Guarinelli, Il celibato, 111.
43 Dice paradossalmente p.Cantalamessa: “è meglio un cuore diviso che ama, d’un
cuore indiviso che non ama nessuno”.
32
serne geloso, perché lo stile è l’impronta di quel uno è in quel che
uno fa.
Cominciamo allora col dire che il prete non può seguire un criterio
elettivo-selettivo nelle sue relazioni, che lo porta a frequentare solo
alcuni, quelli che egli sente come i più gradevoli, ma avvicinare e
amare chiunque, in libertà; e se una preferenza proprio la deve avere
sarebbe la preferenza per chi è più tentato della tentazione classica,
quella di non sentirsi amato o solo o disperato.
Ma il presbitero deve stare soprattutto attento a una regoletta
ben precisa e apparentemente semplice: egli non può occupare mai il
centro d’una relazione (poiché il centro appartiene a Dio), e se qualcuna s’ostina a porlo al centro della propria vita egli le ricorda: “non
sono il tuo centro, ma Dio”, così come ricorda a chi presume mettersi
al centro della sua vita: “non sei tu il mio centro, ma Dio”, e si tira in
disparte, perché chi lo ama faccia soprattutto esperienza di Dio e del
suo affetto.
Altra squisita caratteristica della relazione celibataria è il fatto che
essa nasca al di fuori dell’incontro sessuale, dunque non è di per
sé motivata dal corpo e dalla sua attrazione. Di conseguenza egli
dovrebbe adottare lo stile di chi passa accanto all’altro/a semplicemente sfiorandolo/a, con infinita delicatezza, senza invadere gli spazi
altrui, fisicamente e non solo, senza penetrare nell’intimità dell’altro,
né fare del corpo il luogo e il motivo dell’incontro interpersonale, che
invece è costituito da Dio e dal suo Spirito44.
Ancora, stile del vergine è lo stile di s.Francesco quando bacia e
abbraccia il lebbroso, ovvero lo stile di chi impara l’ascesi liberante
della rinuncia, della rinuncia al viso più bello per dire di sì al viso più
brutto, e si ritrova con un cuore trasformato, che prova nuove attrazioni, o di chi apprende ad amare col cuore e la libertà di Dio, che
ama tutti, specie gli ultimi, specie chi è più tentato dalla tentazione
44 Strano a dirsi, ma il prete oggi su questo campo a volte appare d’una incredibile
ingenuità, mista ad altrettanto incredibile analfabetismo affettivo-sessuale. Come
non sapesse leggere i propri sentimenti ed emozioni, il proprio corpo e le sue reazioni
(quante informazioni esso ci dà!), o non sapesse che il corpo con le sue espressioni “lega” molto più di quanto si pensi, o ignorasse che quando avvia una relazione, financo la più spirituale, con una persona dell’altro sesso deve necessariamente
prevedere, se è normale, un certo tipo di reazioni dentro di sé, che non saranno
necessariamente pericolose, ma necessitano in ogni caso d’un sano, cioè intelligente,
autocontrollo. Come non sapesse più distinguere una relazione qualsiasi, con le tante
persone con cui entra in contatto nel suo ministero pastorale, da una relazione che
invece sta diventando sempre più significativa e per lui importante, che quella persona sta occupando un po’ troppo i suoi pensieri e fantasie, che il desiderio di vederla
sta diventando sempre più forte e troppo spesso è desiderio che viene accontentato.
33
per eccellenza, quella di non sentirsi amato, nemmeno da Dio45.
Così don Calati a tal riguardo: “Una vita celibe che non sa commuoversi per le sofferenze umane, che non rivela soprattutto compassione, che rimane chiusa in se stessa ed è arcigna, è biblicamente
maledetta”46.
Infine, è bene ricordare che stile relazionale celibatario non significa affatto negare la propria sessualità: il vergine per il regno non
rinuncia alla propria sessualità (sarebbe imbecille), anche perché non
è possibile; il sacerdote celibe semmai rinuncia all’esercizio della genitalità, ma vive la propria sessualità rispettandola nella sua natura,
come risorsa di energia preziosa, energia relazionale che lo apre al
rapporto con gli altri e in particolare al rapporto con l’altro-da-sé,
rendendo la vita feconda. Farà allora di tutto perché la sua sia una
sessualità pasquale, una sessualità che si lascia ogni giorno provocare, purificare, orientare, liberare, salvare, rendere feconda… dalla
croce di Cristo, che è l’espressione più grande dell’energia relazionale, aperta all’alterità e feconda di vita piena.
Un uomo che vive con tale stile, proprio per questo vive fino in fondo la propria umanità; un’umanità che testimonia come l’aver messo
Dio al centro della vita moltiplichi e arricchisca la propria affettività e
capacità relazionale, rendendola come un dono per tutti, o dimostra
come un cuore del tutto umano possa battere di battiti eterni.
45 Cf Ibidem, 183-192.
46 B.Calati, Il primato dell’amore, Camaldoli 1987, p.15.
34
Gruppo 1:
Amicizia sacerdotale e vita fr aterna.
Spazio di comunione, condivisione e sostegno.
Don Elio Aloisi e don Alberto Carcereri
- Introduzione: Il titolo
L’ amicizia sacerdotale non corrisponde alla vita fraterna in quanto l’ amicizia dice di un rapporto caratterizzato da scelta personale,
da conoscenza collaudata, da intensità affettiva e da stabilità…tutte
caratteristiche che di per sé non sono necessarie per una la vita fraterna rispettabile che si può intendere semplicemente come rapporto
di conoscenza, aiuto, accettazione, collaborazione, condivisione ecc.
Es. penso che tra il parroco e curato si dia una certa vita fraterna,
ma non per questo devono essere amici. Mentre l’amicizia può essere
solo raccomandata, la vita fraterna può essere comandata nel senso
che un prete può essere mandato a lavorare insieme ad altri in una
determinata situazione pastorale. (La vita fraterna dei religiosi è diversa perché viene determinata prima di tutto dai voti e dalla regola
della congregazione).
La nostra riflessione parte dalla situazione concreta: i principi teologici e sacramentali non sono dimenticati ma rimangono sullo sfondo
della ricerca.
Il nostro obiettivo di oggi sarà quello di dire come siamo e come
potremmo essere a riguardo della vita fraterna.
- La situazione diocesana come si presenta
A noi sembra che non ci siano divisioni e fratture palesi tra i preti
della nostra diocesi, avvertiamo piuttosto da una parte un certo disagio (diverse sensibilità e impostazioni pastorali, mobilità e improvvisazione) e dall’altra delle possibilità e opportunità che attendono
riflessione e incoraggiamento.
La vita fraterna di fatto si esprime in molteplici e diverse modalità
e per comodità dividiamo in due grandi gruppi.
Spazi istituzionali
Si tratta degli spazi conosciuti: convivenza in parrocchia tra parroco e curato (o altri sacerdoti) oppure in altre istituzioni (seminario
ecc.), il lavoro di zone e unità pastorali, comunità presbiterali, gli incontri vicariali (congreghe, ritiri, assemblee), gli eventi di formazione
35
(Folgaria, la due giorni…).
Spazi di libera scelta
Sono le varie aggregazioni di preti legate ai movimenti ecclesiali
(neocatecumenali o CL)o una determinata sensibilità e impostazione
pastorale (preti del Prado)o a una certa spiritualità (focolarini). Sono
quegli incontri molto informali da parte dei preti che sono favoriti da
diversi fattori: la classe di ordinazione sacerdotale, la vicinanza territoriale, la condivisione di certi interessi personali e l’opportunità di
certe occasioni di incontro.
- Quattro riferimenti necessari
1-Noi preti nel nostro tempo
La molteplicità di aggregazioni tra preti rispecchia la situazione
culturale di oggi che esalta l’aspetto personale, il desiderio di affermazione di sé, di autonomia e di libera scelta.
Ciò manifesta una ricchezza e varietà di doti e carismi e rivela la
tendenza a cercare rapporti, aiuti, collaborazioni e alleanze secondo
i propri gusti fuori dalla istituzione e non secondo i canoni da altri
stabiliti…
2-Noi preti in formazione
Occorre riconoscere un debito fondamentale nei confronti della
formazione che riceviamo prima di tutto in seminario nel cammino
di preparazione al sacerdozio, poi nei primi anni di ministero e infine
negli anni della vita sacerdotale in cura d’anime.
3-Noi preti per la pastorale
Noi siamo preti per un servizio alla pastorale che oggi si manifesta
complessa e frammentata. La situazione pastorale esige e raccomanda collaborazione, interazione e condivisione tra noi preti. I momenti
tradizionali (congreghe, ritiri, assemblee…) sono occasioni importanti
non solo per trovarsi ma soprattutto per decidere e realizzare percorsi condivisi.
4-Noi preti obbedienti al Vescovo
Il rapporto buono tra “fratelli” dipende anche dal rapporto buono
con il “padre”.
La fraternità chiama in causa l’istituzione sia nell’aspetto personale, sia in quello formativo e pastorale: le iniziative fraterne possono
partire dal basso e cercare consenso nell’istituzione oppure la pro36
posta può venire anche dall’alto, ma non può essere operazione a
tavolino dimenticando gli interessati, il cammino necessario ecc.
- La nostra esperienza
Nella nostra esperienza abbiamo trovato una conferma sul fronte
di questi quattro aspetti significativi. La vita fraterna di seminario
ha maturato una certa amicizia tra noi che poi è sfociata anche nella
richiesta di una comunità presbiterale. Abbiamo affrontato un lungo
periodo di preparazione con incontri e verifiche e anche con l’aiuto
di un rappresentante istituzionale. Il Vescovo alla fine ha accolto la
nostra proposta con l’assegnazione di una zona per un periodo determinato di servizio pastorale.
- Quattro piste promettenti per una vita più fraterna
1-Le esperienze non istituzionali di vita fraterna
Ci sono parecchie esperienze di vita fraterna che aiutano e sostengono la vita del prete. Rischiano però di restare taciute, poco
valorizzate e per niente riconosciute.
DOMANDA: Come vediamo il ritrovarsi dei preti nei movimenti e
in altri gruppi di libera scelta? E noi personalmente abbiamo fatto
esperienze interessanti di fraternità, che sostengono e aiutano la vita
di noi preti?
2-La formazione
Determinante è la formazione in tutto il cammino della vita del
prete. Nulla va improvvisato e dato per scontato. Si parla di atteggiamenti personali, ma poco di condizioni concrete.
DOMANDA: Quali i passi concreti e le condizioni oggettive della
formazione in seminario, negli anni del Giberti, nella preparazione di
unità pastorali, di zone pastorali e di comunità presbiterali perché si
dia un vero cammino di formazione e preparazione a una vita fraterna?
3-La finalità pastorale
La situazione pastorale di oggi, a differenza del passato, esige una
vita fraterna.
DOMANDA: La vita fraterna appartiene all’ordine di ciò che sa37
rebbe bello (ma difficile), interessante (ma non per tutti), utile alla
pastorale (ma non necessario), indispensabile (e non facoltativo)? Può
l’incontro di congrega rispondere a questa esigenza?
4-La Istituzione
Il Vescovo, la Curia e l’Istituzione in genere (lo stile della comunicazione, le scelte pastorali, le motivazioni di certe decisioni, le nomine…) giocano un ruolo importante nel determinare le condizioni per
una vita fraterna.
DOMANDA: Come raccorciare la distanza tra preti e Istituzione per
evitare mormorazioni, lamentele, sorprese e favorire una maggiore
conoscenza e fiducia reciproca?
Lavoro di gruppo
1-Le esperienze non istituzionali di vita fraterna
DOMANDA: Come vediamo il ritrovarsi dei preti nei movimenti e
in altri gruppi di libera scelta? E noi personalmente abbiamo fatto
esperienze interessanti di fraternità, che sostengono e aiutano la vita
di noi preti?
INTERVENTI
-Validità della partecipazione ai movimenti ecclesiali in vista della
fraternità e anche della pastorale: la spiritualità è determinante e la
diversità è ricchezza
-Richiamo dei fondamenti teologici e sacramentali della fraternità
sacerdotale
NOSTRI INTERROGATIVI
-La pastorale è la conseguenza della fraternità sacerdotale o viceversa?
-Come favorire il rapporto-relazione tra movimenti e parrocchia?
2. La formazione
DOMANDA: Quali i passi concreti e le condizioni oggettive della
formazione in seminario, negli anni del Giberti, nella preparazione di
unità pastorali, di zone pastorali e di comunità presbiterali perché si
dia un vero cammino di formazione e preparazione a una vita fraterna?
38
INTERVENTI
-Determinante non è la psicologia ma il sacramento del presbiterato: è il nostro rapporto con Dio che determina la fraternità
-Abbiamo la sensazione che fra di noi non c’è molta sincerità ed
esiste una certa facilità nell’etichettare le persone.
-Buono il tentativo di tempi prolungati per la formazione, occorre
però risolvere a livello istituzionale il lavoro in parrocchia
-Nella formazione teniamo presenti alcune condizioni: dialogo,
spazio a tutti, oltre il ruolo…
NOSTRI INTERROGATIVI
-A fronte di una certa confusione e frazionamento, quale idea di
chiesa o di pastorale soggiace al tipo di formazione?
-Quali percorsi per educare alla diversità?
3. La finalità pastorale
DOMANDA: La vita fraterna appartiene all’ordine di ciò che sarebbe bello (ma difficile), interessante (ma non per tutti), utile alla
pastorale (ma non necessario), indispensabile (e non facoltativo)? Può
l’incontro di congrega rispondere a questa esigenza?
INTERVENTI
-Il richiamo forte al nostro essere parte integrante della chiesa
-La vita fraterna è utile ma non necessaria alla pastorale perché
diventerebbe ‘funzionale’
-Andare d’accordo tra noi preti è elemento determinante di credibilità
-Avere attenzione ai preti soli e ammalati con visite ecc.
NOSTRI INTERROGATIVI
-Perché la fraternità funzionale alla pastorale è vista con sospetto?
4. La Istituzione
DOMANDA: Come raccorciare la distanza tra preti e Istituzione per
evitare mormorazioni, lamentele, sorprese e favorire una maggiore
conoscenza e fiducia reciproca?
39
to
INTERVENTI
-Siamo uguali nel sacramento ma non siamo uguali nel trattamen-
-Buono il rapporto dei superiori con noi preti giovani
NOSTRI INTERROGATIVI
-Perché non è emersa nessuna osservazione o critica, mentre se
ne mormora abbastanza?
NB: -Perché non siamo riusciti a sostare e riflettere sull’umanità
del prete e siamo scivolati subito sul piano spirituale-sacramentaleteologico?
40
Gruppo2:
Relazionalità. Relazioni oblative, libere e sincere con
uomini e donne.
don Giacomo Radivo
Introduzione
E’ un ambito importante della nostra vita e del nostro ministero,
sul quale vale la pena di soffermarci a riflettere. Che importanza
attribuiamo noi presbiteri alle relazioni? Come le coltiviamo? Quanto
tempo ed attenzione vi riserviamo?
Talora la nostra relazionalità può correre il rischio di essere pensata in maniera riduttiva, come una particolare qualità personale che
un individuo possiede in minor o maggior grado rispetto ad un altro.
Forse talora possiamo anche essere colti dalla convinzione che la relazionalità faccia parte del carattere e che ci sia poco o nulla da fare
per cambiare qualcosa del nostro modo di porci con gli altri. Eppure
dobbiamo anche pensare che la relazionalità umana non è solamente
una bella qualità (che ci rende più simpatici) ma è piuttosto luogo
normale ed efficace dell’annuncio evangelizzante.
“La relazionalità ha il suo primo fondamento nella Creazione. Dio
ha creato l’uomo orientato verso gli altri e dagli altri profondamente
dipendente; Egli ama le persone non come tanti esseri separati ma
comunitariamente uniti. Un ulteriore fondamento della relazione scaturisce dalla Redenzione”. Ogni persona è un salvato da Gesù, che
esprime verso gli uomini una relazione profondamente implicante. ‘A
voi miei amici dico....’ (Le 12, 4 ss) ‘Nessuno ha un amore più grande
di questo, dare la vita per i propri amici (...) Non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamati
amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a
voi.’ (Gv 15, 13 ss).
“Ogni persona salvata da Gesù è chiamata da Cristo alla salvezza
entro il Corpo mistico. Relazioni cristiane significano di conseguenza,
circolazione di una vita che è divina, interscambio di relazioni che divengono prolungamento e riflesso sulla terra di relazioni trinitarie. Il
dinamismo interiore che orienta le relazioni del cristiano verso il loro
compimento è offerto dalla carità. ‘Da questo tutti riconosceranno
che siete miei discepoli se avrete amore gli unì per gli altri ’ (Gv 13,
34) Un’ autentica carità non può vivere e perfezionarsi al di fuori delle
relazioni. La carità fa dovere di amare il prossimo come sé stessi (Mt
41
22, 39), anzi come Cristo stesso ci ha amati (Gv 13, 34)”
(Cfr. Dizionario Enciclopedico di Spiritualità,/3 Città Nuova, voc.
Relazioni)
Tutti sappiamo come il ministero di S. Paolo abbia grandemente
valorizzato la relazione personale quale veicolo privilegiato di annuncio del Gesù Risorto. Nel suo soggiorno a Tessalonica si presenta
addirittura quale modello di rapporto con i credenti. “Mai abbiamo
pronunciato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di
cupidigia: Dio ne è testimone. (...) Invece siamo stati amorevoli in
mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura delle proprie creature.
Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo
di Dio ma la nostra stessa vita perché ci siete diventati cari.” (1 Tess
2, 3 ss);
“Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché sia formato Cristo in voi” (Gal 4, 19). Paolo si considera, per chi ha generato
alla fede, come una madre, ma anche come un padre.
“Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti anche avere diecimila
pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi
ho generati in Cristo Gesù, mediante il Vangelo”. (1 Cor 4, 14-15)
In diversi casi Paolo non entra nel dettaglio ma si definisce come
genitore.
“Ecco, è la terza volta che sto per venire da voi e non vi sarò di
peso, perché non cerco i vostri beni ma voi. Infatti non spetta ai figli
mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli. Per conto
mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre
anime. Se vi amo più intensamente, dovrei essere riamato di meno”?
(2 Cor 12, 14-15)
Proprio sull’esempio di S. Paolo, Giovanni Paolo TI, nella Pastores
Dabo Vobis, sottolinea la grande importanza che ha per il presbitero
le formazione umana e relazionale in vista dell’efficacia stessa del suo
ministero.
n. 43 “Il presbitero, chiamato ad essere immagine viva di Gesù
Cristo, deve cercare di riflettere in sé, nella misura del possibile,
quella perfezione umana che risplende nel Figlio di Dio fatto uomo,
e che traspare con singolare efficacia nei suoi atteggiamenti verso
gli altri, così come gli evangelisti li presentano. Il ministero poi del
sacerdote, è si di annunciare la Parola, celebrare il Sacramento, gui42
dare nella Carità la comunità cristiana “nel nome e nella persona di
Cristo”, ma questo rivolgendosi sempre e solo a uomini concreti. Per
questo la formazione umana del sacerdote rivela la sua particolare importanza in rapporto ai destinatari della sua missione: proprio
perché il suo ministero sia umanamente più credibile ed accettabile,
occorre che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da
renderla ponte e non ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo Redentore dell’uomo. (...) Il sacerdote sia capace di conoscere in
profondità l’animo umano, di intuire difficoltà e problemi, di facilitare
l’incontro e il dialogo, di ottenere fiducia e collaborazione, di esprimere giudizi sereni e obiettivi. (...) Occorre allora l’educazione all’amore
per la verità, alla lealtà, al rispetto per ogni persona, al senso della
giustizia, alla fedeltà alla parola data, alla vera compassione, alla coerenza e, in particolare, all’equilibrio di giudizio e di comportamento.
(...) Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri,
elemento veramente essenziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere uomo di comunione. Questo esige
che il sacerdote non sia né arrogante, né litigioso, ma sia affabile,
ospitale, sincero nelle parole e nel cuore, prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente, e di
suscitare in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere,
perdonare e consolare”
a)- Potremmo dire, a questo punto, che solo là dove si realizza un
incontro umano avviene anche un incontro cristiano. L’annuncio avviene attraverso le relazioni.
Qual è la nostra esperienza in proposito ? Ho fatto io per primo
l’esperienza di essere evangelizzato attraverso relazioni umane significative ? Quale importanza attribuisco alle relazioni nella mia vita e
nel mio ministero?
b)- Le relazioni umane con i miei fratelli, laici e presbiteri, possono
costituire anche la mediazione formativa, nella logica di una formazione permanente, (quella che si svolge lungo tutti i giorni della mia
vita), attraverso la quale il Padre forma in me i sentimenti del Figlio.
L’uomo spirituale si dice sia sempre uomo profondamente relazionale.
Qual è la mia esperienza in proposito ? Le mie relazioni determinano
una crescita della mia spiritualità, o costituiscono talora anche un
ostacolo? (le troppo richieste della nostra gente ci assorbono a tal
punto da non avere più tempo per la vita di preghiera)
43
c)- Il presbitero è chiamato a stabilire molte relazioni, ma non in
modo qualunquistico bensì secondo la sua specifica vocazione. Esiste
o è esagerato parlare di stile relazionale presbiterale? Es. Il prete non
instaura relazioni in modo elettivo-selettivo, come avviene di norma
tra la nostra gente, ma è aperto a tutti. Se proprio vi sarà una preferenza nelle relazioni del prete, sarà con quanti sono nella società i
meno considerati.
Es. Il presbitero coltiva relazioni con tutti stando attento a non
occupare mai il centro della relazione, perché deve portare non a sé
ma ad un Altro.
Sarebbe possibile tentare di definire meglio i contorni di uno stile
relazionale presbiterale?
d)- Provocazione. Vi è chi ha definito il presbitero un ‘puer aeternus’, chiuso nel proprio mondo e proteso ad occupare sempre la centralità della scena, sfruttando al proposito anche la dimensione liturgica, per cercare consensi e rassicurazioni. Spesso nel prete ‘puer’,
si riscontra un egocentrismo di fondo che lo rende insensibile agli
altri, attento solo a sé, incapace di empatia, timoroso della relazione
intensa e della vicinanza degli altri, incapace di amicizie sane e pericolosamente esposto ad altre forme di compensazione al naturale
bisogno di intimità.
Si tratta solo di una caricatura esagerata, o a tuo giudizio la provocazione rappresenta, pur con tinte accentuate, un rischio reale per
un prete?
Quali sono le cause che potrebbero portare un presbitero ad una
sorta di ripiegamento su di sé?
(insuccessi pastorali, solitudine, mancata valorizzazione da parte
dei superiori o dei confratelli)
Come aiutarci vicendevolmente ad acquisire una relazionalità più
aperta e cordiale, sullo stile e sull‘esempio di Gesù?
Lavoro di gruppo
E’ vero che talora noi presbiteri abbiamo delle difficoltà nelle relazioni. Questo può anche essere dovuto ai frequenti spostamenti
cui siamo sottoposti, tanto da avere la tentazione che non convenga
‘investire troppo ’ sulle relazioni, tanto poi si viene cambiati. Dopo
un cambiamento spesso non si sa più come gestire delle relazioni
profonde che si erano create: conviene tagliare o in qualche modo
mantenerle?
44
Per avere buone relazioni con la nostra gente e tra noi presbiteri
è anzitutto importante potersi conoscere. Un parroco fa l’esperienza
che solo dopo molti anni emergono relazioni profonde e significative
con tante persone. Occorre avere la pazienza e il tempo a disposizione per una reale conoscenza. Il sapere di dover cambiare entro un
arco determinato di tempo non facilita le relazioni.
Talora si ha l’impressione di essere cambiati senza una vera ragione, ma per ‘tappare un buco’ cambiare per cambiare non è un criterio
valido. Ma un prete non è chiamato ad avere relazioni con ‘tutta la
diocesi’ ma con quella gente ove è posto, presso la quale deve poter
permanere e costruire relazioni. Non sempre si ha l’impressione che
i superiori ci conoscano in profondità ed abbiano con noi relazioni
autentiche. Questo non ci aiuta nelle relazioni con gli altri.
Per coltivare buone relazioni occorre maturare un’accettazione
profonda di noi stessi, occorre accettare di essere creature e discepoli, insieme alla nostra gente e non volere sempre occupare il centro
della scena. Per questo è molto importante per il presbitero coltivare
relazioni alla pari, non sempre e solo relazioni ‘filtrate’ dall’esercizio
ministeriale, ove abbiamo di norma un ruolo di presidenza. Avere relazioni diversificate, ci aiuta a deporre atteggiamenti poco genuini o
paternalistici, e di saperci svestire del ruolo.
Occorre coltivare inoltre un cuore puro, e saper vigilare sulle nostre reali motivazioni nell’ andare incontro alla gente. Solo un cuore
puro è capace di un ascolto reale, atteggiamento imprescindibile per
relazionarsi in modo autentico. Un cuore evangelico, un cuore simile
a quello di Gesù, rende capaci di relazioni vere come Gesù.
Sarebbe importante per ciascuno di noi, a proposito della relazionalità, l’accettare di mettersi costantemente in ‘analisi’. Non dallo
psicologo ma dalla nostra stessa gente. La nostra gente spesso ci
dona dei rimandi preziosi circa i nostri atteggiamenti. Talvolta questo
ci dà fastidio, invece dovremmo fame tesoro perché costituisce per
noi una grande opportunità di analisi dei nostri atteggiamenti, per
poter poi giungere ad una miglior capacità di relazione. Dio ti fa fare
analisi attraverso il prossimo, e ti aiuta a superare i diffusi blocchi del
paternalismo, del magistralismo (avere sempre la risposta pronta su
tutto), e del moralismo (giudicare immediatamente ogni persona e
situazione).
Per relazionarsi bene con gli altri è importante avere una chiara
identità, ma anche saper come gli altri percepiscono la nostra identità. Spesso diamo per scontato che gli altri ci vedano e ci capiscano
per quello che noi pensiamo di essere ma non è così. Come viene
45
percepito oggi il prete dalla nostra gente? Cosa gli domanda e cosa
si attende da lui? Se non ci mettiamo un po’ nella testa della gente
fatichiamo a metterci in relazione vera.
46
Gruppo 3
Affettività e celibato. Capacità di amare tutti con
cuore indiviso.
Don Diego Righetti
Introduzione
L’introduzione che segue vuole appunto essere “quello che è”: una
introduzione semplice, non preoccupata di presentare in modo esaustivo l’argomento e neppure di aprire tutte le finestre e le prospettive
possibili sull’argomento. Il suo scopo è quello di avviare la riflessione
su un tema di cui tutti abbiamo esperienza e di porre qualche domanda che aiuti a problematizzarlo e sviscerarlo attraverso il confronto di
gruppo. Propongo uno schema stilizzato…
Il tema dell’affettività è forse tra i più intriganti: non ne parliamo
volentieri perché tocca strati profondi e personalissimi di ciascuno.
Il mondo interiore dei sentimenti, degli affetti e di ciò che in genere
riguarda il “cuore” può facilmente generare perplessità…
SOSPETTO
Nel nostro ambiente, il termine “affettivo-affettività” porta con se
un paio di accezioni che ne condizionano il significato, in senso negativo o non immediatamente positivo. Anzitutto può diventare sinonimo di irrazionalità: attaccamenti, cotte, investimenti, perdita della
bussola… Qui l’affettività è qualcosa di minaccioso che soggioga l’uomo, che lo rende schiavo, che lo fa diventare “strano” (→ ma… sito
innamorà?)… In secondo luogo può essere sinonimo di instabilità/
precarietà: frutto di sentimento (instabile), di entusiasmo (che passa), di slanci (che finiscono subito). Il riferimento è all’età adolescenziale, alla personalità “sentimentale”, che si sente contrapposta alla
maturità dell’adulto (dove prevale la volontà, la stabilità, l’impegno…)
L’ affettività sembra quasi un fiume in piena da arginare: può accadere che l’affettività diventi più problema da cui difendersi che
risorsa da mettere in gioco, una dimensione che mette a rischio il
celibato, più che maturità degli affetti che nel celibato trovano una
delle loro espressioni…
Anche sul piano spirituale, l’affettività rischia di caratterizzare più
la preghiera e l’esperienza spirituale del giovane che dell’adulto.
→ la preghiera, si dice, non necessariamente gratifica. E se manca
il sentimento non per questo è meno vera
47
→ la messa, si dice, ha i suoi ritmi, le sue regole: sono i bambini
che battono le mani, o i giovani, quando cantano “Osanna eh…”
→ il ministero, si dice, è abnegazione, sacrificio, dono di sé… Ma “ci
si gode” anche a fare il prete?
EPPURE…
L’affettività ha sempre recitato una parte decisiva nell’esperienza
spirituale e pastorale dei grandi santi. Si veda per esempio la vicenda
di Teresa d’Avila - che organizza la sua vita spirituale attorno al tema
delle nozze mistiche - o Giovanni della Croce, di cui riporto le strofe
finali del poema che apre la sua opera “La notte oscura”. Il linguaggio
è decisamente erotico…
5. Notte che mi guidasti,
oh, notte più dell’alba compiacente!
Oh, notte che riunisti
l’Amato con l’amata,
mata nell’Amato trasformata!
6. Sul mio petto fiorito,
che intatto sol per lui tenea serbato,
là si posò addormentato
ed io lo accarezzavo,
e la chioma dei cedri ei ventilava.
7. La brezza d’alte cime,
allor che i suoi capelli discioglievo,
con la sua mano leggera
il collo mio feriva
e tutti i sensi mie in estasi rapiva.
8. Là giacqui, mi dimenticai,
il volto sull’Amato reclinai,
tutto finì e posai,
lasciando ogni pensier
tra i gigli perdersi obliato.
Anche Ignazio di Loyola sfrutta il mondo dei sentimenti come una
risorsa: si veda il capitolo del discernimenti degli spiriti, o il ruolo della fantasia nelle meditazioni (composizione di luogo).
La maturità spirituale suppone e comprende una maturità anche
dell’affettività, chiamata ad entrare in sinergia con la ragione e la
fede, nella prospettiva messa in piedi dalla chiamata al sacerdozio.
Non si può essere preti-orsi (ma nemmeno senza ratio…). Non essere
“affettuosi” è proprio un peccato:
S. Bernardo, Ufficio delle Letture del 15 settembre (Addoloratat):
«Non meravigliatevi, o fratelli, quando si dice che Maria è stata
martire nello spirito. Si meravigli piuttosto colui che non ricorda
d’aver sentito Paolo includere tra le più grandi colpe dei pagani
che essi furono privi di affetto. Questa colpa è stata ben lontana
dal cuore di Maria, e sia ben lontana anche da quello dei suoi
umili devoti».
Il testo cui s. Bernardo si riferisce è Rm 1,28-31, dove Paolo mette in luce che tra le conseguenze del peccato vi è anche la “carenza
affettiva” (Rm 1,31: senza cuore (traduzione CEI); sine adfectione
(Vulgata) ¥storgoj (testo greco → senza affezione naturale, non so48
cievole, incapace di amare).
Che il Verbo si sia fatto carne, significa che la rivelazione di Dio ci
viene incontro primariamente non come verità storica e chimicamente pura, né come redenzione, ma come una persona in carne e ossa,
fatta di sentimenti e pensieri, di intuizioni e ragionamenti. Faccio una
affermazione forte: prima di essere maestro e salvatore, Cristo fu
uomo: attraverso la sua umanità - fatta anche di affettività - Cristo
si fa riconoscere e ci fa fare esperienza della Verità e della Salvezza
che egli è. A Cristo si accede attraverso la carne; a Cristo si accede
attraverso Gesù di Nazareth.
Cristo, dunque, rivela il Padre con tutto di sè: anche con le emozioni e i sentimenti che il Vangelo ci racconta: il pianto, la collera, la
commozione… E la fede si indirizza a tutto l’uomo: alla ragione, alla
volontà, agli affetti e ai desideri. A tutto l’uomo si rivolge, tutto lo
impegna e tutto lo promuove.
Un primo spunto allora va colto proprio nel recupero dell’affettività: in quale modo riportare questa dimensione nella spiritualità, nel
ministero, nella vita personale del prete, nel mio rapporto con Gesù...
Bisogna anche ricordare che una visione troppo ottimistica dell’affettività è ingenua e ugualmente dannosa a quella che la censura: i
sentimenti non vanno messi in frigo, ma nemmeno lasciati alla spontaneità (come del resto accade anche per l’intelligenza).
- preti che non danno neppure la mano alle donne, per non rischiare
- preti che non si fanno problema a mettere un braccio intorno al
collo delle ragazze, o che indugiano in atteggiamenti ambigui, che
non sono prudenti, che non hanno l’umiltà di riconoscere che in tema
di affettività siamo tutti “normali” e per niente messi al riparo dall’Ordinazione…
Qui si apre il capitolo della crescita, della cura e dell’ascesi dell’affettività. In quali modi? In quale stagione della vita? Con quali mezzi?
SIGNIFICATO DELL’AFFETTIVITÀ
Non è la dimensione istintuale, caratterizzata dalla coercizione.
Non è la dimensione emotiva, caratterizzata dalla reattività (dipende
dalla causa che fa sorgere l’emozione). È il mondo dei sentimenti,
ossia del clima interiore associato in modo stabile nel tempo a determinate situazioni o persone
- amore, angoscia, odio, compassione, dedizione, amicizia…
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L’affettività è una dimensione della struttura antropologica: non
può essere ignorata, pena la dis-integrazione. Essa deve entrare in
sinergia con la vocazione, le mete e gli obiettivi che questa disegna
(altrimenti il ministero diventa un nemico da cui difenderci).
- Gesù: gioisce “nello Spirito”; piange su Gerusalemme…
L’affettività porta carburante alla ragione (finalità): la sintonia delle due è l’unità interiore, la maturità affettiva (quando godo di quello
che faccio, quando lo faccio con passione anche se mi costa, quando
metto grinta-creatività-smalto-partecipazione nel ministero).
CELIBATO
Un’area specifica dell’affettività e caratterizzante la vocazione presbiterale è quella celibataria. Celibato non è solo “il non potere esercitare una attività sessuale-genitale”, ossia non è solo una mancanza,
una sottrazione, una “impotenza” anche se voluta e liberamente scelta (celibato osservante e continente ma non “casto”). Ha un ruolo positivo e una funzione specifica. Quale sarà? Quali rapporti tra celibato
e affettività? Che cosa dona al ministero? Come realizza la sessualità
del prete?
ALTRE DOMANDE
- Quanto la formazione iniziale mi ha preparato a viver bene la mia
affettività- sessualità nel celibato presbiterale?
- Carta d’identità e sfera affettivo-sessuale: quali relazioni? E quali
attenzioni?
- Molti affermano che togliendo il celibato, ci sarebbero più vocazioni. Siete d’accordo?
LAVORI DI GRUPPO
Chiarito il metodo (proposta e confronto nel piccolo gruppo) e la
finalità (creare una occasione in cui i preti possano fare esperienza di
fraternità e di comunione presbiterale, riflettendo insieme attorno a
un tema), gli interventi hanno messo in luce i seguenti aspetti:
- i sentimenti sono una componente normale del nostro essere
preti; non rimangono estranei alle relazioni pastorali. Gestire l’affettività all’interno delle relazioni pastorali significa avere un rapporto
equilibrato verso tutti; provare sentimenti in maniera adulta. Una
50
difficoltà è quella di mettersi in gioco: saper rivelare quello che c’è
dentro di noi all’altro. Tra preti si fatica ad entrare in confidenza.
- l’affettività entra nella preghiera come capacità di confidenza e
di amore con il divino. È necessario avere un rapporto anche affettivo
con il Signore; e la “ricarica” che offre la preghiera è anche affettiva.
- la formazione iniziale mi ha sufficientemente introdotto a una
gestione adulta dell’affettività; tuttavia il vissuto concreto di questa
dimensione si impara poco alla volta nel “commercio” con la vita.
Anche l’aiuto di una competenza psicologica non è da sottovalutare e
talvolta aiuta a decifrare e ordinare gli input provenienti dal ministero. La fraternità tra preti è un aiuto in questo.
Bisogna tener conto che oggi l’affettività, nel suo formarsi e nel
suo consolidarsi, si incontra con un contesto sociale dove i generi
non sono più così ben definiti. Questo può dar luogo al sorgere di un
“celibato ferito”.
- il clima culturale confonde un po’ le cose: oggi il concetto di mascolinità non è più così ben definito. A questo si aggiunge anche l’imporsi di nuove risorse che domandano maggior responsabilità di una
volta (cfr. Internet) e il distacco dell’affettività dalla sessualità. Tra i
preti e nella Chiesa il tema della sessualità, nella concreta esperienza
personale e ministeriale, è messo a fuoco in maniera insufficiente;
la riflessione non fa abbastanza i conti con il vissuto reale e sembra
rimanere agganciata ai grandi discorsi di fondo e a una visione disincarnata. La sicurezza dell’8/.. inoltre, non ci aiuta a vivere il celibato,
che è segno di povertà e di incompletezza (Dio solo basta).
- la dimensione affettivo sessuale fa i conti - come tutta l’esperienza credente - con la realtà della croce
- le crisi capitano perché perdiamo la capacità di relazionarci profondamente. Talvolta questo è innescato dalla paura del giudizio e
conduce a relazioni formali.
A MO’ DI CONCLUSIONE
Riassumendo questi e altri interventi, sembra di poter individuare
tre atteggiamenti “virtuosi”:
1 - Sapersi rivelare (raccontare, confidare) e saper ascoltare
2 - Saper imparare: si cresce anche nell’affettività e nel celibato. È
necessaria la pazienza e la capacità di saper chiedere aiuto
3 - Saper condividere. La vita comune, il custodire e l’essere custoditi rimangono aiuti importanti
51
Gruppo 4:
Cur a adeguata di sé. Gestione delle risorse e dei tempi.
Don Mauro Bozzola
Introduzione
Con questo titolo, indichiamo la formazione permanente del presbitero: cioè il dotarsi di mezzi, strumenti, tempi, modi per vivere con
dignità e al massimo della proprie potenzialità la vita presbiterale.
Cura adeguata di sé non significa cercare strategie per uno “star
bene e basta” di tipo superficiale, per non aver troppe rogne nella
vita, per ricavarsi spazi di sopravvivenza in un mondo che ci mangia… ma significa vivere in pienezza l’essere uomo e prete, persona
con caratteristiche, doni e limiti propri; vivere in pienezza il dono/
compito/ministero che ho ricevuto dalle mani del Signore e che mi
pone dentro un mondo specifico come è il nostro del 2009 a servizio
di una comunità particolare che è la Chiesa a cui sono consacrato, per
l’annuncio del Vangelo e del Regno di Dio.
La formazione permanente per noi presbiteri del III millennio è la
vera sfida cui siamo destinati, pena una vita di “frustrazione permanente”.
Proviamo a fissare alcuni punti per la discussione:
1. Un termine: la docibilitas, “che non è solo docilitas, perché è
quell’intelligenza dello spirito che implica alcuni fattori precisi oltre
l’accoglienza «docile», obbediente e un po’ passiva, e cioè:
- Il pieno coinvolgimento attivo e responsabile della persona,
prima protagonista del processo educativo;
- un atteggiamento fondamentalmente positivo nei confronti
della realtà: di riconciliazione e gratitudine verso la propria storia e di fiducia verso gli altri;
- la libertà interiore e il desiderio intelligente di lasciarsi istruire
da qualsiasi frammento di verità e bellezza attorno a sé, godendo di ciò che è vero, buono e bello;
- la capacità di relazione con l’alterità, di interazione feconda,
attiva e passiva, con la realtà oggettiva, altra e diversa rispetto
all’io, fino a lasciarsene formare” 1.
1 Amedeo Cencini, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, San
Paolo 2002, p.34-35
52
Possiamo così definire la formazione permanente come la libertà di
chi ha imparato ad imparare dalla vita per tutta la vita. Senza
deleghe all’istituzione, e con un alto livello di qualità della vita.
2. La cura di sé intesa come formazione permanente e globale della
presbitero riguarda quindi
a. tutta la vita del prete, e non solo alcuni momenti (quando
vado a Folgaria, il 3° giovedì del mese, quando leggo un libro…);
mi formo quindi quando prego, quando sto con la gente, quando
visito un ammalato, quando leggo un giornale, quando ascolto un
po’ di buona musica, quando mi prendo tempo del riposo, quando
sopporto una persona molesta, quando…
b. tutte le fasi della vita del prete:
- i primi anni, tempo della giovinezza dell’amore e dell’entusiasmo per Cristo, ma anche anni in cui si impara a far i presbiteri,
con la necessità di lasciarsi guidare…
- la fase successiva, adulta ma ancora giovanile, segnata spesso dalla delusione per i risultati ottenuti e dalla stanchezza interiore, oppure dal rischio di una presunzione e dal ripiegamento
su di sé. È una stagione in cui siamo chiamati a ricercare l’essenziale;
- l’età matura, che segna un compimento, e regala il dono di
una paternità spirituale;
- l’età avanzata, che permette sempre più a configurarsi a Cristo che dona la sua vita; è il momento dell’attesa del Signore,
in cui la morte va assunta come l’atto supremo di amore e di
consegna di sé.
3. tutti gli ambiti della vita del prete:
- la vita intellettuale (la lettura di saggi, romanzi, libri …)
- l’aspetto teologico-pastorale (l’aggiornamento teologico e pastorale);
- la vita sociale (la capacità che cresce e cambia negli anni di stare
con la gente, in questo secolo, in questo tempo…);
- l’attenzione al corpo e al fisico;
- la vita relazionale (incontro con l’altro, con il femminile, con questa concreta comunità cui sono mandato);
- la vita affettiva (la nostra sessualità nello scorrere degli anni;
53
l’amicizia tra confratelli; la carità pastorale da un punto di vista
della risonanza affettiva);
4.Due rischi opposti:
a. L’eccessiva attenzione alla propria persona, con diverse deformazioni comportamentali;
- il giovanilismo narcisista;
- la cura eccessiva del proprio look;
- il salutismo;
- la paura esagerata di far apparire i segni del proprio invecchiamento;
- la pretesa di esser padroni del proprio tempo;
- la rigidità di perseguire i propri interessi.
b. La poca o nessuna attenzione nei confronti di sé
- non attenzione al corpo alla salute;
- confusione tra zelo pastorale e senso narcisistico dell’io (se
ci sono io le cose si metteranno a posto), per cui non c’è tregua ne
riposo nel nostro presunto “darsi agli altri” (nemmeno nell’accettazione del ritmo naturale giorno e notte: si lavora sempre, e di più,
e ancora…);
- oppure preti sciatti, rozzi, poco attenti alla condizioni di vita
(casa pulita e bella, mangiare e vestire dignitoso…).
Alcune domande per il confronto:
1. Condivido un’esperienza positiva di formazione permanente:
imparo ad imparare dalla vita per tutta la vita.
2. Difficoltà attuali che incontro nella cura della mia formazione
globale.
3. Possibili strategie per darsi tempi, modi e strumenti a favore
della nostra crescita di preti.
54
LAVORI DI GRUPPO
Presenti circa una sessantina di presbiteri di diverse età: da pochi
mesi di ordinazione fino a 60 anni di sacerdozio! Il clima cordiale della
condivisione ha donato spunti interessanti e anche frammenti di vita
che alcuni confratelli hanno voluto regalare ad altri. Qualche suggestione per continuare la riflessione:
• Nel clero giovane, la cura di se assume la dimensione di un primo
equilibrio da trovare: dopo la vita del seminario, che “protegge”, la
fatica principale è trovare un ritmo che non schiacci il presbitero, che
rischia di essere “mangiato” da attività e relazioni;
• La cura di sé è “adeguata” alla croce: l’equilibrio è sempre sbilanciato nella logica del dono, della “perdita”. Nella ricerca di un equilibrio, che è dinamico e cambia con il variare dell’età e delle situazioni
in cui siamo posti, vanno evitati i due estremi del “ritiro borghese” e
del “darsi senza limiti”, che spesso nasconde un bisogno narcisistico
di autocelebrazione.
• Abbiamo condiviso molte situazioni, in cui abbiamo, come
presbiteri, “imparato dalla vita” nelle sue diverse situazioni: dal malato che si visita, dal coetaneo che vive con fatica e dignità una croce,
dal povero che bussa alle nostre porte in cerca di speranza: la cura
di sé spesso si realizza nella “perdita” di tempo, energie, denaro …
per altri.
• Abbiamo sottolineato la necessità di “farci aiutare” dai riferimenti che la vita ci offre: il padre spirituale, un amico presbitero ecc.
• Possiamo imparare dalla vita e dalle persone, trattandole come
uniche: lo sguardo nuovo sul giorno che si apre, sulle persone che si
incontrano ci permettono di conoscerci per quello che siamo e di così
servire per ciò cui siamo mandati.
55
Gruppo 5:
Burnout. Anche per il prete c’è il pericolo di “bruciarsi” ed “esaurirsi”.
Don Giuseppe Marchi
Introduzione
Burn out •
PRETE BRUCIATO
•
CORTOCIRCUITATO
In questa breve relazione mi farò condurre dalle seguenti domande:
 CHE COS’E’?
 I SINTOMI VARI
 I PROBLEMI SPECIFICI
 COME SI PUÒ’ EVITARE, PREVENIRE O CURARE
 CHE COS’E’?
1. E’ un disturbo che tocca gli OPERATORI DI AIUTO (anche i
preti); viene correlato con l’insorgenza di un disagio nell’ambito in cui
si opera; interessa educatori, insegnanti, poliziotti, sacerdoti, infermieri, psicologi, medici…. operatori del volontariato.
Tali soggetti sentono emergere un lento processo di LOGORAMENTO psicofisico, una mancanza di energie ed un calo nella capacità di
sostenere e scaricare lo stress accumulato.
Lentamente e in alcuni casi improvvisamente i sintomi si manifestano così:
ESAURIMENTO EMOTIVO. Calano le energie psichiche e spirituali.
SPERSONALIZZAZIONE. Perdita della capacità empatica, rigidità nell’imporre applicare regole, pessimismo.
INEFFICIENZA PERSONALE. Cinismo e/o sentimento di bassa
realizzazione, bassa stima di sé.
Lo STRESS è il risultato di un rapporto squilibrato fra risorse personali, ambientali, cognitive, affettive e richieste.
Quando le risorse sono di molto inferiori alle richieste fatte, o le
richieste sono molto inferiori alle risorse, c’è uno squilibrio da cui nascono inizialmente tensioni transitorie.
56
Se lo squilibrio perdura parliamo di stress che, quando diventa
cronico, evolve in BURN OUT.
Burn out
ESTINGUERSI
SPEGNERSI
CONSUMARSI
FUSI
CAUSE SOGGETTIVE:
a - Caratteristiche della personalità (perfezionista, introverso, ambizioso…)
b - Aspettative pastorali, individuali (collocazione nella
comunità)
c - Stress non professionale (non derivante dal ruolo)
P.S: La personalità deve essere oggetto di attenzione nella
preparazione sacerdotale.
E’ fondamentale conoscersi, farsi conoscere e usare un buon
discernimento da parte dei formatori.
CAUSE OGGETTIVE: a - Relative al servizio che faccio, ruolo (curato, parrocchia piccola o grande.)
b - Relative a chi devo servire
c - Relative all’organizzazione (gruppi vari della parrocchia..)
d - Relazionali: colleghi e confratelli, Curia, Vescovo.
CAUSE SOCIO-CULTURALI:
la disgregazione del tessuto sociale produce richieste varie,
contrapposte e conflittuali (Catechesi, Parola di Dio, sacramenti vari, religiosità popolare, gruppi strani….)
 I SINTOMI VARI
L’insorgenza della sindrome di burn-out
quattro fasi.
57
segue generalmente
1. La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto i preti a scegliere questa missione.
Queste motivazioni di altissimo livello li spinge ad affrontare carichi
di lavoro e stress eccessivi
2 Nella seconda fase (stagnazione) il prete si rende conto che
le aspettative di partenza non coincidono con la realtà: l’entusiasmo,
l’interesse e il senso di gratificazione iniziano a diminuire. Si passa
così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno.
3. La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il
pensiero dominante del prete è di non essere più in grado di svolgere
bene il proprio servizio, vive una profonda sensazione di inutilità e di
non rispondenza del servizio ai reali bisogni delle persone, dei fedeli.
Emergono sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione.
Si tende ad avere comportamenti di fuga dall’ambiente in cui si
opera (adducendo scuse varie, “mi assento… declino gli impegni…”)
Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri)
4. Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia alla apatia, costituisce la
quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria
morte professionale. L’interesse e l’impegno per il proprio lavoro si
spengono e all’empatia subentra l’indifferenza.
 I PROBLEMI SPECIFICI
Il burn out quindi definisce lo stato di disagio psichico nel quale si
cade.
Quando?
La struttura, l’ISTITUZIONE nella quale si opera delude gravemente le proprie aspettative (parrocchia, comunità, Curia,
vescovo)
Allora succede che:
A. Il ruolo di prete viene vissuto con DISTACCO, non coinvolgimento.
B. Emerge CONFLITTUALITA’:
1. tra valori personali e valori della struttura (organizzazione, chiesa, parrocchia…)
58
2. tra una prospettiva nata da motivazioni personali
(alla base della scelta di servizio pastorale) e la progettualità dell’istituzione;
3. tra progettualità personale ed evangelica, ecclesiale
alla quale mi sono formato e le richieste della comunità
parrocchiale.
C. Si diventa oggetto di una forte idealizzazione da parte del
vescovo, vicari, confratelli:
DIRETTA (da te mi aspetto questo, oppure devi fare
così secondo il progetto pastorale)
INDIRETTA: sono bravo se faccio così, gli altri si aspettano da me questo o quest’ altro
D. Vi è una pressione psicologica tale che prima o poi provoca nel prete ostilità, ripulsa, fuga.
E. Nasce talvolta un senso di colpa e di vergogna per non
essere all’altezza del compito ideale che ci si è posto o che
altri pensavano tu fossi
all’altezza: in questo ultimo caso
si delude le aspettative forti di qualcuno.
F. L’alternanza tra ansia da prestazione e rabbia da frustrazione sfocia
nel conflitto interiore e psicologico e
provocano un crollo emotivo.
G. Per un prete o per una persona sensibile l’interiorizzazione dei valori e dei doveri può produrre una COERCIZIONE
AFFETTIVA E IDEALE insormontabile: il prete si sente in obbligo “di dare,” “deve dare”, “deve fare”, “deve essere utile”;
non può sottrarsi, pena il sentirsi minore, inferiore, indegno,
inadeguato.
H. (SENSO DI) APPARTENENZA (ti definisce perché ha regole, obiettivi,
progetti): questo è un elemento emotivo di
base nel bisogno di appartenenza ecclesiale che genera FIDUCIA (verso la chiesa, il vescovo, i preti…); quando questa
fiducia viene a mancare ci si può rifugiare in gruppi di appartenenza che promuovono una forte idealizzazione dei valori
di riferimento (movimenti, gruppi di preghiera…)
DOMANDA:
Il burn out del prete può rappresentare “il dito nella piaga” utile a
capire/comprendere le frustrazioni di una chiesa? Di una comunità?
Di una formazione?
59
 COME SI PUÒ’ EVITARE O CURARE
- E’ indispensabile sviluppare una CULTURA DELLA SOLIDARIETÀ’ (gruppi di preti che si trovano per condividere le difficoltà).
- Associandola ad una CULTURA DELLA PERSONA, che dia il
giusto rilievo ai bisogni personali, il cui fine è lo sviluppo armonico
dell’umanità che è in noi.
Occorre controllare, vigilare che L’IDENTITÀ’ DI RUOLO
(prete, parroco…) non diventi un “FALSO SE’ “, ciò avviene
quando l’identità di ruolo mortifica i bisogni personali; quando nega i bisogni soggettivi l’identità di ruolo è esterna all’io,
dunque falsa e generatrice di una serie di problemi.
Gli psicologi affermano che negando o rimuovendo il nostro malessere o la nostra rabbia, si organizza un’identità
falsa, mimetica…. Conformata secondo esigenze esterne,
convenzioni sociali (ecclesiali… bisogna farlo…) piuttosto che
secondo i moti della propria anima.
A volte qualcuno può cadere in un delirio di onnipotenza
del gruppo o comunità di cui fa parte a spese della propria
autenticità e della propria umanità, vivendo in una emarginazione tale da essere a rischio
DOMANDA: è l’individuo che va curato, o il gruppo e l’istituzione che seminano questo delirio di onnipotenza? Si deve intervenire
sull’individuo o sul gruppo di appartenenza?
- Non perdere il senso critico nei confronti delle proposte che arrivano (dalla chiesa, dalla parrocchia, dai gruppi vari…)
- Non affievolire la capacità di analizzare il proprio comportamento
e di mettere in campo strategie individuali di prevenzione del burn
out: questa capacità consiste nell’ASCOLTO DI SE STESSO, delle proprie EMOZIONI, reazioni, frustrazioni, paure, aspettative, delusioni
L’Istituzione dovrebbe leggere questi segnali dopo averli
ascoltati.
DOMANDA: che fine hanno fatto i disagi espressi dai preti (frutto
di una ricerca diocesana) nell’assemblea del clero alla fine del sinodo?
Continuiamo ad esprimere disagi e basta?
60
BURN-OUT: PERCHÉ PREVENIRE?
• E’ causa di sofferenza personale - e non solo• Si riduce l’efficienza e l’efficacia NELLA VITA PERSONALE E
SUL SERVIZIO PASTORALE
• Rappresenta un costo alto per la Chiesa, per la comunità che
guidiamo, per i gruppi, per i rapporti interpersonali.
• Indebolisce la testimonianza cristiana.
Lavoro di gruppo suddivisi in coppie:
Pochi hanno sperimentato i sintomi del burn out nella loro espressione più grave. Però sicuramente tutti hanno vissuto situazioni di
disagio, conflittualità, inadeguatezza.
1. Raccontatevi l’esperienza più significativa di disagio facendo
emergere:
a.
le cause che hanno portato a questa situazione
b.
i sintomi che avete rilevato
c.
come avete potuto superare le difficoltà
d.
da chi siete stati aiutati
e.
avete aiutato qualcuno che stava vivendo situazioni simili e come avete fatto.
2. Cosa possiamo aspettarci dall’istituzione per prevenire e/o
evitare di cadere in situazioni di burn out
3. Cosa ci aspettiamo dai confratelli, considerando che le relazioni interpersonali positive sono un aspetto fondamentale per
prevenire e “curare” situazioni di burn out.
Test: “BURN OUT”
1. [sì] [no] In genere ti senti più affaticato e meno energico?
2. [sì] [no] Percepisci un senso di insoddisfazione rispetto ai tuoi
servizi?
3. [sì] [no] Stai lavorando duramente senza ottenere i risultati
sperati?
4. [sì] [no] Ti senti più cinico e disincantato rispetto al tuo servizio
e alla gente con cui interagisci?
61
5. [sì] [no] Sei irritabile e di cattivo umore con la gente che ti
circonda?
6. [sì] [no] Gli incontri con famigliari, amici, collaboratori si sono
diradati?
7. [sì] [no] Stai avendo sintomi fisici come insonnia, dolori vari,
mal di testa, influenza, stomaco scombussolato…?
8. [sì] [no] Senti di non dare niente o poco alla gente?
Valutazione
Se hai risposto sì a più di cinque domande, sei nella fase
dell’esaurimento.
Se hai risposto sì a più di due domande, può essere che sei sul
cammino dell’esaurimento.
N.B. Il questionario proposto serve a farti un’idea sulla tua situazione pastorale in merito al burn out. In nessun caso, devi intendere il risultato come una diagnosi, per effettuare la quale
occorre la valutazione diretta di un professionista qualificato.
lavoro di gruppo
• Interventi
- Mi sono trovato in difficoltà quando sono passato da una convivenza con sacerdoti a una vita da solo.
- I laici possono sì aiutare il sacerdote nella vita personale, ma non
sono alla pari.
- Mi sono trovato in difficoltà a passare da un servizio pastorale
gestito da solo a una convivenza con il curato.
• Ruolo dell’istituzione
- Le figure istituzionali sono di grande aiuto quando sono riferimento forte di confronto e di ascolto nei riguardi dei preti.
- L’obbedienza non facilita nel caso che il prete non sia sufficientemente consapevole dei propri mezzi, possibilità, capacità. (Vedi il
caso in cui obbedisco senza mettere in conto la mia capacità reale di
adattarmi alle nuove situazioni di solitudine o di convivenza o altro)
- Occorre grande capacità di discernimento: conoscenza profonda
62
del prete a cui affidare un nuovo incarico o una nuova nomina.
- Non è sufficientemente attenta alle difficoltà del sacerdote:
aspetta che il prete venga a dire: “Non ce la faccio più!”.
- Non è capace di cogliere il malessere del clero.
- Non sa leggere i segnali silenziosi.
- Deve curare molto bene la prima nomina: la prima esperienza
pastorale deve essere obbligatoriamente positiva.
• Fraternità sacerdotale
- Mancanza di relazioni nutrienti e gratificanti: non essere sempre
nel ruolo, ma creare occasioni dove sono “me stesso”.
- Fornire e favorire occasioni di convivenze presbiterali finalizzate
a far star bene i presbiteri oltre che la funzionalità pastorale.
• Vescovo
- In qualche momento c’è rischio burn out quando pesa sulla tua
vita l’affermazione: “Il vescovo sono io!”.
- Quando il vescovo non interviene su casi di preti problematici e
preti che combinano guai (economici, relazionali, organizzativi…) provoca disagio e disorientamento.
• Seminario
- I formatori devono avere grande capacità di discernimento;
devono essere esperti in umanità e della Parola di Dio.
63
Gruppo 6:
Stagioni della vita. Tutte le età e le condizioni della
vita sono in permanente stato di servizio per la Chiesa.
Don Francesco Marchi
Introduzione
Benedetto sei tu, signore, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane ( e vino) frutto della terra e del lavoro dell’uomo … lo presentiamo a te
Così la vita di ogni uomo, e di ogni prete è fatta per essere un
dono a Dio costruito sulla realtà nostra esistenziale e sul nostro lavoro
Stagioni richiama una realtà in cammino. Un ciclo che ogni anno si
rinnova portando situazioni sempre diverse che chiamano interventi
(forme di lavoro) diversi quando guardi un campo viene da pensare
quante stagioni sono state necessarie, e quanto lavoro c’è stato fatto.
** ricordiamo le varie stagioni degli anni passati: ognuna con le
speciali caratteristiche La più calda …la secca …la piovosa …la fredda… quella segnata da fatti [la primavera di Praga …il settembre
della occupazione nazista in Italia …la caduta del Muro di Berlino …]
** ogni stagione richiede lavori diversi a seconda del clima, degli
avvenimenti, delle catastrofi o delle situazioni favorevoli … seminare
… coltivare . raccogliere , aggiustare i danni fa fronte agli imprevisti
Comunque sempre bisogna lavorare, in modi diversi secondo le
realtà che si susseguono
15. Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a
tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare:
il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo della educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno
di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato
d’intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così
come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali
che siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice
della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua
intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in uma64
nità, valere di più, essere di più. ( Pop. Prog. 15) cfr. la Caritas in
Veritate
Ripensare la vocazione cristiana e poi la vocazione al presbiterato o diaconato Sempre un dono, un germoglio di vita da far
crescere , compito che non finisce mai
Agostino diceva “Ubi dixisti: sufficit, ibi periisti” e la tradizione l’ha
sempre ripetuto
Ripercorriamo le nostre stagioni della vita:
•la formazione familiare (primo seminario) e del seminario si
combinano con varie percentuali e dosaggi: un tempo con rigidità morale e catechistica il seminario che ti deve mettere dentro tutto quello che serve, soprattutto ‘obbedienza ai superiori
che sono quasi l’unico riferimento di verifica …
•L’illusione che con l’ordinazione si sa tutto. Il sogno segreto ‘il
mondo è in un certo modo, ma adesso io porterò vere novità
•Il rapporto con la prima parrocchia di ministero e con i parroci e i preti che si incontrano: Entusiasmi e delusioni, fatica del
dialogo con i preti (ancora adesso i preti giovani hanno spesso
difficoltà a parlare liberamente nelle congreghe) La via di uscita
della delega ‘ai giovani’ quasi due parrocchie una del parroco e
l’altra del curato
•La prima parrocchia con al tentazione di fare piazza pulita e
ricominciare da capo (senza pensa che il successore potrà fare
altrettanto della mie iniziative
•La crisi dei 40 anni (cfr. Grun )
•La tentazione di adattarsi a sopravvivere a fare il ‘buon prete’
cioè il funzionario esatto secondo le norme, perdendo di vista la
sfida di annunciare il Vangelo, magari barricandosi con il diritto
canonico
•La tentazione di rifugiarsi….in qualche devozione, o gruppo
o movimento come salvagente della vita presbiterale, magari
snobbando il cammino dalla chiesa locale e la fatica di cercare
strade nuove di evangelizzazione
•La fatica di assimilare le direttiva del Concilio, di ripensare
continuamente l’evangelizzazione e la costruzione di una comunità di credenti capaci di pregare e di rendere testimonianza
Le sfide della vecchiaia. Del pensionamento (lasciando la parrocchia non conti più niente …)Fuori dall’organigramma della dirigenza
puoi solo fare il manovale occasionale
65
Tante sfide, opportunità, doni diversi a cui rispondere personalmente. Sempre bisogna camminare ..imprecare al temporale non
serve. Serve rimboccarsi le maniche
…dopo una alluvione … un terremoto … un cambio di luogo, di
salute, di culture …
Imprecare o lamentarsi non serve (il parroco di Erbezzo caduto
sulla pietraia sotto la strada: perde sangue, il curato si precipita giù
lo abbraccia e dice ‘moriamo insieme’ …Stupido, prendi il fazzoletto
e ferma il sangue….)
Due atteggiamenti di fondo
• la accettazione gioiosa della propria realtà
• la consapevolezza della vocazione allo sviluppo
cfr. salmo 131 + non vado in cerca di cose grandi superiori alle
mie forze. Sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio sua madre
+ spera Israele nel Signore ora e sempre
“Qualcuno starebbe sempre bene dove non è”
la vita ….
e così si avvelena
Essere contenti della propria condizione, ma nell’attesa di superarla ( come l’alpinista contento della sua forma fisica … per poter
effettuare l’ascensione ….proprio perchè è in salute può pensare alla
scalata …..
Il nuovo fa sempre paura inoltre cambiare incontra ostacoli
+ la formazione ‘statica’ dei preti anziani
+ la tentazione di rifugiarsi nel ‘si è sempre fatto così’ oppure ‘ci
hanno insegnato così’
+ la paura delle novità
Ci si rifugia in varie ricette: l’esperienza bella (vista o sentita) il
gruppo o il movimento … qualche nuova idee, magari sognata … o il
CIC la tradizione … seguire il Concilio è più difficile …
66
La bibbia è storia, movimento, vita, mai staticità
Il Papa ci ricorda che compito della chiesa è annunciare il vangelo
al mondo di oggi non a quello di ieri, per questo il mondo di oggi bisogna conoscerlo accettarlo come dono di Dio per oggi
Due attenzioni necessarie:
*** Progettare pensare la pastorale in concreto, in ‘questa realtà’
progetto condiviso (con il CPP e i responsabili e magari con
la comunità ) Le comunità presbiterali come soggetto di ricerca e
progettazione non solo di piccole scelte concrete
Papa Giovanni diceva di ‘rivestire la eterna dottrina con le espressioni della cultura di oggi’
*** verificare il lavoro fatto Palermo aveva lasciato il progetto del
discernimento comunitario
E’ più difficile fermarsi a verificare i difetti e le positività di un lavoro fatto
Salimei al settore est con la verifica fatta insieme: una parrocchia
presentava, raccontava il tipo di scelte pastorali fatte, senza farne
pubblicità, ma invitando a ‘criticare’ (nel senso positivo di valutare
valori e limiti) ed erano coinvolti tutti i preti presenti
I settori di lavoro, di crescita:
La mia persona: diventare sempre più uomo, più cristiano, più
prete
Salute - igiene fisica e spirituale – organizzazione ‘umana’ del
tempo - sport - distenzione, tempo libero - aggiornamento culturale – capace di pensare con la mia testa (oggi tanto difficile!) La
statua che c’è in seminario dell’uomo che regge il mondo…non è il
parroco (fasotutomi) ma Cristo
2) le mie relazioni
da curato a parroco … da ‘superiore’ a
fratello ….da Trento al Vat. II° Dal verticismo gerarchico a comunione
fraterna. Un passaggio doloroso per la nostra formazione fatta di
una certa obbedienza ….
Fermezza e duttilità fatica di coniugare leggi e norme e le realtà
delle persone concrete
3) la mia fede
Fondata sulla Parola di Dio
dal catechismo
e dal CIC al Vangelo
67
La mia preghiera … sempre più matura …la spazio dato alla Parola
di Dio… … alla meditazione … alla carità …
*+*+*+ La conclusione di Grun al termine del volumetto “Quaranta anni tempo di crisi o di grazia? : … dopo aver superato la crisi
dei 40 anni pensai che avrei potuto continuare a vivere jn tutta tranquillità. Invece, la vita mi conduce sempre attraverso nuove crisi e
nuove sfide … Abbiamo sempre da mettere in conto la vita ci toglie
via illusioni, che contrasta le nostre fantasie di una vita ben riuscita
…. Ora cerco dio vivere nell’istante presente … e cerco di essere sempre aperto alla sfida che il tempo presente mi pone. “
Le sfide … cfr E. Hillesum …..Beppe Severgnini: il meglio per gli
italiani nasce dalle sfide
Da chi, o cosa, dipende la mia formazione permanente? Dalle strutture dalle opportunità
O dalla mia scelta di non fermarmi, di non arrendermi ?
Il Papa ha detto recentemente che ‘si soffre perché molti a cui è
stata affidata una responsabilità lavorano per se stessi e non perla
comunità (nella società e nella chiesa )’
Lavoro di gruppo
Partecipanti 25 alcuni venuti perché pensavano si trattasse della
terza età … soprattutto della stagione autunnale.
- Dal disagio di chi ‘faccio fatica a dirmi 70 anni’ a chi ha parlato
di ‘valori e non efficienza’ e allora cosa conta nella chiesa: valori o
efficienza? È tornato il discorso della efficace e non della efficienza
notando che tra noi rischia di prevalere l’efficienza , più volte anche
nelle nomine e spostamenti ….Qualche malcontento… lamentele per
come sono inseriti e trattati i preti anziani
Oltre le stagioni ricomporsi come comunità cristiana di persone
che cercano insieme … stagioni che cambiano col cambiare del parroco o della parrocchia …
Si pensa al prete come ruolo e non una chiesa comunità di credenti in cui ci sono anche i preti
Ci conosciamo troppo poca tra preti e difficilmente i discorsi vanno
68
al fondo di una relazione personale e fraterna
il rischiosi identificarsi con ciò che fai pensando che i tempi passati fossero migliori
cercare soprattutto l’amicizia con le persone e non affannarsi troppo
per le cosa da fare
- Ha visto la predominanza di presenza di sacerdoti “stagionati”,
oltre i 75 anni.
A fronte della relazione di don Francesco ha tratteggiato i passaggi
importanti e le fasi della vita di un sacerdote, gli interventi sono stati
più numerosi sulla stagione del pensionamento.
Una stagione dipinta con toni sofferti, per il sentirsi spesso inutili, non più considerati o relegati a ruoli molto marginali. Una fatica
le cui responsabilità sono attribuite maggiormente all’incapacità dei
superiori di offrire situazioni adeguate, o ai responsabili delle parrocchie che marginalizzano. Si ravvisa nel cambio dei superiori sempre
il rischio che i sacerdoti più anziani non siano conosciuti, e quindi non
collocati nei contesti più appropriati. Forte quindi l’esigenza di programmare per tempo la loro sistemazione in altre realtà.
- A fronte di questo sentire, alcuni confratelli anziano hanno però
sottolineato l’importanza di rendersi disponibili a tanti servizi minori
o di aiuto alle parrocchie; in uno stile che meno rivendica, e più gode
di poter continuare ad aiutare benché in maniera più nascosta.
Non sono mancate sottolineature positive della propria condizione
di prete anziano, come possibilità di recupero di relazioni pastorali
nella chiave della saggezza, del consiglio, della fraternità.
- Alcuni preti non di questa fascia d’età, hanno manifestato il loro
disappunto nei confronti delle lamentele degli anziani; non tanto su
discorsi pratici di collocazione e servizio, quanto piuttosto sull’incapacità di vivere serenamente questo tempo pacato di possibili relazioni
autentiche e sagge, così come di avvicinamento maggiore al compimento dell’esistenza e dell’incontro col Signore
- Gli interventi dei preti di 60/70anni in ministero pastorale, sono
stati all’insegna di uno sguardo positivo su una stagione della vita
nella quale i grandi cambiamenti dei tempi, così come i cambiamenti di parrocchia, consentano di continuare a mantenersi freschi, in
necessità di ricomprendersi, riformularsi alla luce delle esigenze e
istanze diverse che vengono dalla vita della gente e dal mutare delle
situazioni pastorali. Il ministero attivo quindi “costringe” a ripensa69
menti necessari, che a volte sono faticosi, ma che rimotivano.
In particolare veniva accentuata la dimensione delle relazioni con
la gente più che delle attività, come fonte di saggezza e di sguardo sereno alla vita. Si intravede nella condivisione con i laici della
parrocchia una risorsa fondamentale per “mantenersi aggiornati” sui
cambiamenti culturali e dei modi vivere, per un ministero sapiente di
accompagnamento della propria e altrui stagione della vita.
- Assenti i cinquantenni, presenti due quarantenni, che hanno sottolineato l’importanza di non voler fotocopiare nella loro fase di vita
i tratti tipici del ministero in età giovanile, ma di essere aiutati a
comprendere la diversità tipica di questa fase di vita. Una fase di ripensamenti, rimotivazione, ma anche di acquisizione di una maggiore
maturità, assaporata come frutto gustoso e importante.
Assenti i preti giovani.
- Una considerazione finale, ci permette di mettere in luce come il
ministero attivo e l’inserimento nella comunità siano percepiti come
essenziali per vivere bene le proprie stagioni di vita. Con l’attenzione
però che il ministero non sia vissuta come una mera funzione operativa/organizzativa, per evitare tre rischi:
• iper attivismo giovanile;
• incapacità di relazioni autentiche che aiutino ad essere uomini
davvero;
• frustrazione di chi, identificatosi sempre col ruolo, quando non
l’ha più, va in crisi profonda.
Da sottolineare il clima positivo, sincero, cordiale e rispettoso del
confronto , che l’ha reso certamente molto positivo.
70
71
A cura della sezione Affari Generali della Curia di Verona
Assemblea del clero
San Massimo, 17 settembre 2009
L’umanità del prete
Lectio,
Relazioni
e lavori di gruppo
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