Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre,
coi
ginocchi
piagati
e
poesie
si
le
menti
aguzzate
dal
Mistero.
Le
più
belle
scrivono
davanti
ad
un
altare vuoto, accerchiati da agenti della divina
follia.
Alda Merini, Terra Santa
1
2
ANTOLOGIA
I° CONCORSO LETTERARIO
“MAESTRO RASA CALOGERO”
A CURA DI
SALVATORE IMBURGIA
ANTONIO LEONE
GAETANA LEONE
3
UN ILLUSTRE E SAGGIO POETA POPOLARE
MAESTRO RASA CALOGERO
Nacque l’8 ottobre 1918 a S. Cristina Gela (PA), una delle cinque colonie
albanesi di Sicilia. Perse il padre in tenera età e frequentò nel suo paese le
scuole elementari. Notato dal Parroco per la sua vivace intelligenza, fu
mandato a continuare gli studi presso il seminario “S.Maria dei Padri
Brasiliani” a Mezzojuso (PA). Scoppiata la seconda guerra mondiale venne
destinato a Rodi, nell’Egeo. Quando le sorti della guerra volsero a sfavore
dell’alleata Germania, fu prigioniero dei tedeschi per due anni e dopo
molteplici avversità riusci a ritornare in patria. Nel 1947 inizio a lavorare a
Cerda dove conobbe e sposò Vincenza Anzalone dalla quale ebbe 4 figli.
Nel febbraio 1948 vinse il concorso magistrale e iniziò il suo lavoro di
maestro a Cerda.
Diede inizio alla sua produzione poetica in dialetto
con l’intento di salvaguardare dall’oblio i proverbi,
espressioni di saggezza popolare. I suoi primi
scritti(“L’Onorevuli mancanti”, e “Li cumizi di
chiusura”) sono costituiti su di essi.
I temi ricorrenti nela sua poesia sono: l’amore per
il lavoro che svolgeva (Lu maestru , Addiu a la
scola,); il ricordo accorato del terribile periodo di
prigionia(Ricordu di la prigionia, Pani spartutu), il
rifiuto di ogni forma di totalitarismo ed il rispetto
per la democrazia (Li dui Napuliuna, lu guvernu
semu nui, ); e ancora: L’attenzione verso i semplici oggetti della vita
quotidiana (Lu chiovu, La zappa, La Pignata); la descrizione affettuosa ed
attenta di quello che egli considerava il “suo paese” (Ministoria di Cerda, La
chiazza, Malluta, Casteddazzu); cantò inoltre le glorie cerdesi: La Targa
Florio Picchì l’ann’a livari ?, A cacocciula)
Il maestro Rasa definì le sue poesie “spigolature umilissime” ma, in effetti,
egli riusci non solo a parlare con cori di profonda umanità ed interiorità, ma
anche di autentica poesia.
4
Lu scravagghiu
“cu si la senti, si stringi li renti”
Appuntidda li granfuzzi,…
si ferma e s’aripigghia….
Ammutta la paluuzza
chi porta a la so ‘ngagghia!
Un filu d’erba, un lignu,
‘na ciacudduzza, un ramu,
pi iddu sunnu ostacoli
di sforzu sovrumanu!
Si nun ci po’ d’avanti,
spinci pi d’arreri;
chissa è lu sò fini
e tuttu ‘u so pinseri!
Lu sentu baschiari,
s’accanna e s’affatica…..
ma nun s’arrenni
e ammutta
circannu la so buca!
Mi parino li vrazza
di lu putenti Atlanti
chi teni cu li spaddi
Lu munnu e l’abitanti!
S’anzamaddiu ci scappa
torna a ripigghiarla
cu nova forza e ‘mpegnu
comincia ad ammuttarla!
Decisu, risulutu,
né parra né talja,
ma senza titubanza
ripigghia la fatica!
Esempiu di travagghiu,
cuscenza e precisioni,
sforzu, volontà
costanza a fari beni!
Guardannu iu ‘na vota
lu scravagghiu bruttu,
mi ‘nzignai ‘sti cosi
e m’affruntaiu tuttu!?!?
RASA CALOGERO
Per gentile concessione della famiglia Rasa
5
BREVE STORIA E CURRICULUM
DELL’ ASS. CULTURALE
“LA NUOVA COMPAGNIA CITTA’ DI CERDA”
GRUPPO FOLK “I CARRITTIERI”
L’Associazione Culturale folkloristica “LA NUOVA COMPAGNIA
CITTA’ DI CERDA” ha una costituzione abbastanza recente essendo nata
ufficialmente nel 1998 , anche se fino a quella data gli stessi soci fondatori si
erano presi l’impegno dello studio folkloristico della nostra società cerdese,
partecipando con successo a varie manifestazioni cittadine siciliane e
internazionali.
Ripropone nei suoi costumi, il vestiario festivo dei popolani fine settecento
primi ottocento, risalendo fino alla dominazione spagnola di cui la società
cerdese ne ha subito l’influsso. Cerda è nata direttamente dalla dominazione
spagnola da cui ne prende il nome, essendo un marchesato del dominio
spagnolo del XVI secolo.
Le loro performances consistono in balli e tarantelle popolari che
riproducono il lavoro dei campi e della primaria attività locale che fin dai
primi secoli di vita della comunità cerdese è stata quella di viaggiatori o di
“carrettieri”
Cerda originariamente era denominata “FONDACO NUOVO” o
“TAVERNA NUOVA, perché era il punto d’incontro di tutti i carrettieri che
viaggiavano verso Palermo o l’entroterra siciliano.
Per questo motivo il gruppo Folk della Nuova Compagnia si chiama “I
CARRITTIERI”
Un ballo tipico del gruppo folk, è il ballo della cordella che è originario delle
Madonie e viene riproposto dai soci in svariate figure.
Esso rappresenta nella sua esibizione, il continuo evolversi della vita con le
sue vicissitudini. nell’arco dell’anno; infatti vi sono 24 cordelle tenute da
dodici coppie di ballerini a simboleggiare i dodici mesi dell’anno.
Anticamente veniva rappresentato nelle cerimonie nuziali come rito
propiziatorio, dove i ballerini, a ritmo della tarantella intrecciavano una
cordella legata ad un palo, che poi con la stessa abilità dovevano sciogliere
L’associazione ha animato diverse manifestazioni della rinomata sagra del
carciofo di Cerda, che ogni anno viene festeggiata il 25 aprile, organizzando
per tale occasione un festival di gruppi folcloristici che ogni anno riscuote
sempre maggiore successo e prestigio, In questa manifestazione si sono
avvicendati diversi gruppi folcloristici di rilievo, diventando una tappa
importante per ogni gruppo folk.
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CURRICULUM
98 Bivona: raduno folk “Sagra della Pesca”
Maggio 98 e 99 Cerda: festa di San Giuseppe sagra della Sfincia.
25 aprile 98-99-00,01-02 Cerda: Organizzazione della “SAGRA DEL
CARCIOFO”.
1999: Organizzazione corsi di tradizioni popolari alle scuole
elementari di Cerda .
23.05.99 Trabia: “Sagra del Nespolo”.
29.05.99 Cerda: festa della Legalità
Agosto 99 Cerda: Realizzazione della commedia “L’Aria del Continente” di
Martoglio, inserita all’interno del programma “Estate Cerdese”
27.08.99 Naso: Festival internazionale del folk
08.12.99 Cerda: festa dell’Immacolata
25.04.00:
intervento
alla trasmissione televisiva di RAI 2 “LA VITA IN
DIRETTA” in occasione della XIX sagra del carciofo
28.07.00 Caltabellotta (AG): Festa di San Lorenzo
21 08.00 Cerda: Organizzazione “Estate Cerdese”
22.08.00 Cerda: Ideazione e Realizzazione dello Spettacolo “50 anni di musica
italiana” I° edizione, inserito nella programmazione“Estate Cerdese”.
26.08.00 Cerda: Sagra della salsiccia
07.09.00 Cerda: Festa della Madonna dei Miracoli
16-17. 09.00 Monaco di Baviera (Germania):Partecipazione in qualità di
rappresentanti dell’ Italia all’ “OCTOBER
FEST”, sfilata per le vie del centro di
Monaco ed esibizione ufficiale all’interno del “Circo Krone”
21.09.00 Termini Imerese: Estate degli anziani
Settembre-Ottobre 2000: Festa della Provincia nei comuni di Sclafani
Bagni – Borgetto – Campofelice di Roccella .- Cerda- Roccapalumba
05-2000: “La Nuova Compagnia” viene inserita fra gli 8 gruppi del
circuito
dell’ A.A.P.I.T. di Palermo
08-2001 Cerda: Ideazione e Realizzazione dello spettacolo “Polvere di Stelle”
inserito nella programmazione “Estate Cerdese”
20.agosto 2001 fino al 30.agosto 2001 Polonia: Tournèe
05.11.2001 -Finale di Pollina: Sagra dell’olio
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Agosto 03: Organizzazione del I° Gemellaggio del Comune di Cerda con il gruppo
folk portoghese della città di Lamego
19 -30 Agosto 2002 Portogallo: tournèe a Lamego
Ottobre
2002
Piedimonte
Etneo:
Partecipazione
al
“GALA’
INTERNAZIONALE” di Piedimonte Etneo (CT)
27 Maggio 2003 Collesano: Festa Maria SS. Dei Miracoli
03. Agosto 2003 Atina (Fr): partecipazione al XXV° festival internazionale
del folklore.
04 – 12 Agosto.2003 Romania: torunèe a Cluj Napoca
19. Agosto 2003: gemellaggio con il gruppo folk Katerinca di BRNO (rep.
CEKA) con progetto finanziato dalla Comunità Europea sul tema: “Delinquenza.
Cerchiamo di Capire”.
19 – 24
Agosto .2003: Ideazione e Realizzazione del 1°
Festival
Internazionale del folklore “BASSA VALLE DEL TORTO”
08.02.2004 Agrigento: Partecipazione alla 59° edizione della sagra del
“Mandorlo in fiore”, in collaborazione con l’istituto Goethe di Palermo,
nell’ambito del progetto “I CAVALIERI VIRTUALI”
25 APRILE 2004 Cerda: Partecipazione alla XXIII sagra del carciofo
29 MAGGIO - 01 GIUGNO 2004 Lussemburgo: Partecipazione alla
manifestazione “I CAVALIERI VIRTUALI” in collaborazione con il “GOETHE
INSTITUT” di Palermo Diretto dal Prof. Paul Eubel, tenutasi presso Wiltz
(Lux).
Aprile - Settembre 2004 : Collaborazione con l’ agenzia “Aereoviaggi” di
Palermo per la realizzazione di una serie di spettacoli folk presso diverse strutture
alberghiere.
08.10.04: Collaborazione con il museo “Pro Targa Florio” di Cerda, diretto
da Antonio Catanzaro, per il 10° raduno del “Bugatti Club Italia”
06.02.04 Agrigento: Partecipazione alla LX Sagra del “Mandorlo in Fiore”
06.02.05 Agrigento: Partecipazione alla LXI Sagra del “Mandorlo in Fiore”
19.04.05- 23.04.05 : Stoccarda: realizzazione spettacolo folk in occasione
dei festeggiamenti per i sessant’anni dell’azienda Wurth,
incontro con Reinhold Wurth. Direzione del Goethe Institut di Palermo.
8
Altre attività svolte:
99-2002: Ideazione e Realizzazione Museo etno-storico:
Il progetto, cofinaziato dal Comune di Cerda, è stato interamente elaborato ed
eseguito dall’associazione. Suo obbiettivo principale era fornire una testimonianza
viva dei costumi, dell’artigianato e dei modi di vita dello scorso secolo. Il museo,
inserito all’interno di una palazzina di tre piani lungo la via principale del paese, è
stato strutturato prevedendo la realizzazione di tre spazi diversi ma
ideologicamente collegati. Si sono ricostruiti all’interno dell’edificio le abitazioni
di una famiglia borghese dell’ottocento, curando la struttura degli appartamenti,
dalle pareti all’arredamento, al vestiario. Sono state ricostruite interamente una
camera da letto, un salone. La seconda sezione dell’edificio è stata destinata a
contenere tutti gli attrezzi da lavoro del secolo scorso, secondo precise coordinate:
attrezzi da cucina, da lavoro nei campi, attrezzatura dei mestieri. L’ultimo piano
dell’edificio e’ stato diviso: da un lato si e’ pensato di allestire mostre temporanee
a ciclo continuato di arte contemporanea e artigianato artistico, cercando in tal
modo di dare possibilità ai giovani artisti di avere uno spazio a loro disposizione e
che permettesse loro la fruizione dei propri lavori.
Parte
dell’area
dell’ultimo
piano
è
stata
dedicata
alle
mostre
storiche.
Sono state realizzate le seguenti mostre:
-
Cerda: la sua storia attraverso le foto.
-
I Florio: Storia di una famiglia.
-
La targa Florio. Le emozioni, i ricordi, e la ricchezza di un mondo che fu…
Info: http://www.comune.cerda.pa.it/ museo etno-storico.
Agosto 03: ideazione e realizzazione della I° “Fiera Mercato” del
Comune di Cerda:la manifestazione, articolatasi in tre giornate, ha previsto la
realizzazione di 50 stand occupati da artigiani provenienti da tutta la Sicilia. La
fiera si è articolata
in diverse sezione: Artigianato in ferro -legno- vetro ;
Artigianato- artistico; eno-gastronomia- Arte e arredamento. Le giornate sono
state scandite con la programmazione di tre serate musicali i tema diverso: jazz;
afro-brasiliane con la partecipazione del gruppo di capoiera “Zumbì” di Palermo;
musica leggera con il gruppo “Sturmuntruppen” di Palermo.
2003-2005: Ideazione e Realizzazione del periodico “L’Opinione”:
L’Opinione, periodico di attualità, cultura e informazione, registrato presso il
Tribunale di Termini Imerese n° 04/05 R.Per. del 26-04-05mensile culturale
9
curato e finanziato interamente dall’associazione. Tiratura 5.000 copie. Il circuito
entro cui avviene la diffusione gratuita e’ quello dei comuni aderenti all’ “Unione
dei Comuni della Bassa Valle del Torto”
12-2004:Ideazione e realizzazione del 1° Concorso Letterario nazionale
“MAESTRO RASA CALOGERO” con il
patrocinio, della
Presidenza
dell’A.R.S., dell’AAPIT e del C.N.A
2004: Accreditamento al Servizio Civile Nazionale come classe quarta per
la realizzazione di attività culturali.
Dicembre 2004: Ideazione e Realizzazione del Libretto “Cerda, la sua
Storia per le vie” a cura di Ermelinda Imburgia.
Dicembre 2004: Ideazione e realizzazione del libretto “Storie, due anni di
Opinione” in allegato al numero di Dicembre del periodico L’Opinione, a cura di
Antonio Leone e Daniela Cappadonia.
***********************
ASSOCIAZIONE CULTURALE “LA NUOVA COMPAGNIA”
&
GRUPPO FOLK “I CARRITTIERI”
10
PRESENTAZIONE
Il premio letterario dedicato al Maestro Rasa Calogero, ha fatto
scrivere una pagina indimenticabile e significativa per Cerda e
la sua storia, conferendo alla nostra cittadina prestigio,
credibilità e visibilità esterna, per il richiamo che ha suscitato
non solo dalla Sicilia, ma da tutta l’Italia.
L’ Associazione Culturale, unica nel suo genere a Cerda, è
soddisfatta dell’evento, riuscito anche grazie alle importanti
sponsorizzazioni, come il patrocinio della Presidenza dell’ARS,
dell’A.A.P.I.T. di Palermo e del C.N.A.Al momento del bando nessuna credeva alla buona riuscita del
concorso, ma grazie all’impegno di alcuni soci a cui si deve
dare merito, il concorso prendeva una piega di rilevanza
nazionale, tant’ è che tra i partecipanti vi sono numerosi
personaggi di spicco nel mondo della cultura e non nuovi a
questo tipo di concorso.
Pertanto, così come abbiamo creduto nel concorso, altrettanto
crediamo nell’insieme del progetto che continua con la
pubblicazione di questa antologia delle opere partecipanti,
testimoniando l’enorme successo ottenuto e la risonanza
dell’evento.
Un vivo ringraziamento va a tutti i partecipanti al concorso, e
un arrivederci alla seconda edizione.
IL PRESIDENTE
SALVATORE IMBURGIA
11
NARRATIVA
12
1°classificato
LO SCONTRO
di PIETRO DATTOLA
Con passo lento e cadenzato, il Capitano passò in rassegna i suoi uomini. Erano tutti
uomini del suo villaggio: gente fidata, piena di coraggio, ciascuno pronto a
sacrificarsi per l'interesse superiore del gruppo. Nessun uomo vanaglorioso o
propenso a colpi di mano, ma tutti pronti a eseguire gli ordini del Capitano e a
mantenere le rispettive posizioni anche all’approssimarsi della sconfitta - e nessuno
di loro aveva la benché minima intenzione di perdere: di quei cento uomini - dal
ragazzino imberbe al vegliardo veterano - neanche uno temeva il peggio, quel giorno.
Il Capitano ripassò mentalmente lo schieramento. Aveva optato per un gruppo
frontale di venti uomini e due ali da quindici ciascuna; tutti gli altri sul retro, disposti
a mo’ di incudine schiacciata in senso longitudinale.
La sera precedente dopo l’ultima esercitazione, si era molto discusso sulla strategia
da adottare. Alcuni erano del parere di attaccare subito a testa bassa, per impedire che
i più giovani cadessero preda del naturale timore nei confronti dell'avversario: se la
paura della sconfitta si fosse fatta largo tra gli uomini, anche i più intrepidi avrebbero
potuto vacillare al momento decisivo. La miglior difesa è l'attacco, dicevano questi.
Altri, e fra questi vi era il Capitano, propendevano invece per una tattica d'attesa: far
stancare gli altri trattenendo il loro impeto e riducendo al minimo i danni in un primo
tempo, sfiancarli sfruttando le ali e sorprenderli con l’avanzamento improvviso della
retroguardia in un secondo. Alla fine, fu questa l’idea che trovò l'appoggio della
maggioranza, ed era senz’altro meglio così: l’autorità del Capitano non era certo
messa in discussione, ma “cento uomini compatti valgono più di mille disuniti,”
come amava ripetere il Capitano.
Quella sera, dopo la riunione, ciascun membro del villaggio, facesse parte o meno dei
cento prescelti, si era ritirato pensando all'evento dell'indomani. Sulla strada di casa,
un bambino che aveva assistito alla riunione chiese al padre se anche lui avrebbe
potuto dare un contributo - eh sì, il Capitano poteva ben essere orgoglioso dello
spirito combattivo che serpeggiava nel villaggio! Con il sorriso alle labbra, il padre
rispose “Non dire sciocchezze!”, ma pensava “Nel giro di pochi anni anche tu potrai
toglierti le tue soddisfazioni; per il momento pensa soltanto a crescere forte e sano.”
Parecchie donne erano preoccupate. Le giovani mogli, in particolare, che temevano
di ritrovarsi in casa, così presto, un uomo invalido o, forse, neanche quello. Le
suocere le rassicuravano (o almeno quella era la loro intenzione) e con la memoria
andavano ripercorrendo gli scontri precedenti, puntualmente interrotte, coadiuvate e
corrette dalle rievocazioni dei loro uomini che, troppo anziani per dare ancora una
volta il proprio contributo, si limitavano ad assicurarsi che la memoria delle proprie
13
gesta non venisse distorta o confusa dalle parole gracchiate distrattamente dalle
consorti.
Infatti proprio gli uomini, che in quelle occasioni rischiavano di perdere un occhio,
un arto o la vita stessa, erano quelli che più soffrivano a esser tenuti lontani dallo
scontro; e in serate di vigilia come quella, i familiari disposti intorno al focolare, gli
anziani si abbandonavano alle loro narrazioni - in parte certamente (fin troppo)
fantasiose, ma sostanzialmente genuine nella loro innocente spontaneità. E terminata
la rievocazione, per così dire, pubblica, le matrone a letto erano spesso costrette a
sorbirsi ulteriori commenti e memorie dei mariti coricati al loro fianco: del fatto che
quando era toccato a loro, avevano sempre fatto il loro dovere; di quella volta che
quando tutto sembrava ormai perduto, il loro reparto aveva ribaltato la situazione, o
di quell’altra in cui il villaggio a nord non si era nemmeno presentato, perdendo
anche l'onore - e a questo punto del discorso, di solito l’anziano, accontentatosi di
aver dimostrato la grandezza del proprio valore al mondo intero e alla consorte (le
due cose, per lui, coincidevano), perdeva ogni veemenza e loquacità e con un “Ah!”
finale si addormentava di colpo, con buona pace della moglie assonnata. Ma c’era chi
andava oltre, sentendosi in dovere di sottolineare che i ragazzi di oggi non
sembravano mettercela tutta, rammolliti com’erano da tutte le comodità a loro
disposizione; che nel villaggio erano ormai in pochi a essere davvero attaccati ai
simboli aviti; che ai loro tempi la tecnologia era rudimentale - e allora sì che la
tecnica era determinante, non come oggi! “Hai proprio ragione,” rispondevano le
consorti ravvoltolate sotto le coperte, nel tentativo di interrompere il dolce flusso di
ricordi che magicamente risanava anche l’uomo più sciancato. E solo quando proprio
non ne potevano più, con uno sbadiglio leggermente più prolungato degli altri e
sapientemente indirizzato, spegnevano la tremula fiammella della candela sul
comodino sperando che, col buio, si spegnesse una buona volta anche l'eccitazione
del marito.
Oggi non si poteva proprio perdere. L'attrezzatura era tutta a posto. Le divise erano
pulite e lucenti, e sembrava quasi un peccato, perché di lì a poco non lo sarebbero più
state: fango e sangue le avrebbero rese irriconoscibili. Un mezzo sorriso si affacciava
sui volti degli uomini più navigati, mentre quelli nuovi, gli esordienti, erano tutti
eccitati e parlottavano con i compagni di reparto, ridacchiando e alzando la voce un
tono di troppo. Il Capitano lasciò fare - era normale, prima. Dopo, non ci sarebbe
stata l'energia nemmeno per dire ‘ah’.
Nulla era cambiato. Si ricordò di quando, ed erano passati anni, ormai, aveva fatto
parte del reparto avanzato - quello che per primo vedeva gli avversari disporsi
sull'altro colle, di fronte a loro. In mezzo, allora come oggi, una vallata lunga mezzo
chilometro e larga all’incirca altrettanto. E oggi come allora, dietro il reparto
dell’estrema difesa, fervevano gli ultimi preparativi e si sprecavano gli incitamenti
del resto del villaggio, assiepato al sicuro ma poco lontano. Si sbandieravano
14
lenzuola bianche con lo stemma del villaggio cucito al centro e si suonava con
trombette ammaccate o tamburi di fortuna l’inno a tempo di marcia.
Infine si videro i nemici risalire la propria collinetta. Si stavano disponendo secondo
uno schieramento che il Capitano, con la sua esperienza, non tardò a riconoscere
come alquanto offensivo. “Bene, le due tattiche sono complementari” - non fece
quasi in tempo a pensarlo, che la nota bassa e prolungata di un corno squarciò l’aria
ferma; una sfera di stracci e cuoio lucido cuciti robustamente venne scagliata verso il
centro della vallata dalle retrovie degli avversari.
Dalle sommità delle rispettive collinette, cento da una parte e cento dall'altra, gli
uomini si lanciarono urlanti in una corsa carica di eccitazione e di gioia. E questo non
era che il calcio d'inizio: il divertimento, per i due villaggi, sarebbe durato ore.
15
II° classificato ex equo
MEMORIE DI NONNA
dI VALERIA PAGANO
Sono nata nel 1922, in una famiglia ricca, ma che ha sempre lavorato per guadagnarsi
il pane. Mio padre era un pescatore e mia madre era la capofamiglia. Donna dura
mamma, tanto che nel piccolo paesino dove abitavamo, dove io abito ancora,
giravano leggende sulla mia terribile madre. Bassa di statura, ma molto decisa. Se
facevamo un rumore a tavola, arrivava un leccamusso dritto sul mento. Era umiliante.
E faceva male.
Dei miei tre fratelli ero la più buona, la più calma, mi chiamavano lo strordiglione,
perché a volte mi dimenticavo le cose. E accadeva spesso che, se dovevo andare fino
alla soffitta di casa per prendere qualcosa, arrivavo sopra e non mi ricordavo più
quello che dovessi fare.
Sono nata nell’anno della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo. Ho vissuto la
guerra mondiale e ho visto finire Mussolini, ho vissuto durante la prima Repubblica
ed ora sono qui, ancora viva, durante la seconda.
Da giovane ero la più corteggiata del paese, l’ho scoperto solo di recente,
incontrando vecchi amici che a distanza di settanta anni mi hanno rivelato la loro
passata cotta per me. Ma lo so che ad ottantadue anni sono ancora piacente. Meglio
di molte donne incartapecorite che fanno di tutto per togliersi le rughe. Io le mie
rughe le vivo con dignità. Le uniche cose con cui le ho piallate sono state le mie
mani.
Mia madre mi ha condannato da giovane ad essere vedova.
Mi costrinse al matrimonio con un uomo più vecchio di me di sedici anni. Era stato
cresciuto da lei e ha visto bene di promettergli in sposa me. E mi sono fidanzata a
quattordici anni. La prima volta che lui si avvicinò per farmi una carezza, sono
scappata, impaurita, su per la tromba delle scale di casa. A sedici anni ero già
maritata.
Mio marito mi lasciò a casa, da sola, un mese dopo il matrimonio. Partì per l’Africa.
Mi lasciò illibata. Una sedicenne coniugata ancora ignara dei doveri matrimoniali.
Quindici anni ad aspettarlo. Quindici anni tra cui la guerra. Che periodo terribile. Io e
un gruppo di compaesani scappammo sopra i monti Aurunci. Avevo paura. Avevo
perso i contatti con mamma e papà. Sapevo che mio padre era in guerra a combattere,
insieme ai miei tre fratelli.
Un giorno riuscii a ripararmi in una casa e una bomba venuta dall’alto la distrusse.
Fui travolta da grossi pezzi di soffitto. Feci in tempo a vedermi interamente
insanguinata dalla testa ai piedi, con il ginocchio che mi sembrava rotto. Poi svenni.
Mi svegliai dopo alcuni giorni in ospedale, con tutta la testa fasciata. Non avevo nulla
di grave – dissero – un calcinaccio aveva colpito marginalmente la testa, la ferita al
ginocchio era solo un profondo taglio.
16
Mi ricordo tutti gli stranieri che vennero dalle nostre parti durante la guerra. Mongoli,
Tedeschi, Inglesi, Americani e poi Africani con l’orecchino al naso e il ciuffo in
testa, gli Indiani con il turbante.
Gli Inglesi erano proprio dei bastardi. Nascondevano il cibo sotto terra per non farlo
trovare. Gli Americani invece ci riempivano di leccornie. Me le ricordo bene le
patate che ci davano. E il cioccolato. I tedeschi non erano cattivi. Quando volevano
cacciarci urlavano “RAUS!RAUS!” e facevano gesti con le mani. Mi ricordo anche il
tedesco, giovane, avrà avuto la mia età, che un gruppo di contadini inferociti uccise a
colpi di zappa e bastone. Davanti ai miei occhi.
Le bombe distrussero tutte le case che fittavamo ai turisti, riducendole ad un cumulo
irriconoscibile di macerie. Fatica di anni smontata in pochi secondi.
Mi ricordo ancora i ragazzi giovani che andavano in guerra. Erano ragazzetti con
divise larghe, sembrava andassero ad una festa di carnevale a far la parodia di se
stessi più che in battaglia.
Finita la guerra aspettavo mio padre. Dicono che sia morto durante una attacco e che
lo abbiano seppellito chissà dove. Sono rimasta orfana di padre e non posso piangere
sulla sua tomba. E così rimanemmo con la mamma, che, nonostante la forza che la
distingueva, era la sola a tirare avanti la baracca. Sono stati giorni difficili, di
sacrifici, pane e cipolle era in nostro cibo quotidiano. Stavamo ricostruendo la nostra
ricchezza.
I miei fratelli partirono pochi mesi dopo la fine della guerra per andare a cercar
fortuna in Australia, la nuova terra, con l’attività ittica di papà.
Io invece ero rimasta lì, nel mio piccolo paesino, ad aspettare
il ritorno di mio marito. Erano passati quindici anni dal mio matrimonio. E non mi
ricordavo nemmeno il viso di quello che davanti allo Stato e davanti a Dio doveva
essere il mio coniuge. Fui costretta a richiamarlo ufficialmente tramite i carabinieri.
Tornò e quasi non lo riconobbi. Era invecchiato, ormai aveva cinquant’anni suonati,
aveva una gamba finta, con cui avevano sostituito quella vera, dilaniata da un carro
armato che lo travolse durante il lavoro. La vita coniugale non era esaltante, era senza
amore e mio marito era stanco e malato, aveva vissuto la sua vita altrove, con
un’altra donna ed era tornato non perché lo volesse, ma perché obbligato dalla legge.
Nel cinquantacinque nacque la nostra unica figlia, che illuminò la mia vita. Il mio
sposo non poté godersela a lungo, perché ci lasciò una notte, con un infarto, quando
la piccola aveva solo otto anni. Ci lasciò senza nulla, tranne che una misera pensione
di invalidità. Io, benché ancora giovane , benché avessi bisogno di un uomo per me e
la mia bambina, non volli risposarmi, non volevo che le voci maligne del paesino
pettegolassero sulla mia poca serietà. Tengo molto al giudizio altrui. La mia è sempre
stata una famiglia seria, e tale doveva rimanere.
Mia figlia è sempre stata più avveduta di tutti i suoi coetanei e appena ebbe l’età per
ragionare si rimboccò le maniche e, quando poteva, si metteva a lavorare. Dava
ripetizioni ai ragazzi più piccoli di lei, mi aiutava a fittare le case e, quando era
necessario, andava a casa altrui a fare i lavori domestici. Non potevo offrirle molto,
doveva contentarsi di un pantalone per l’inverno e uno per l’estate, un cappottino e
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qualche maglione. Il nostro nucleo familiare era composto da me, mia figlia e ancora
mia madre, avanti con l’età, ma ancora forte e con l’indole combattiva.
Comprammo con i nostri risparmi un terreno e decidemmo di costruirci la casa. Ma
non avevamo tanti soldi al tempo, fui costretta ad indebitarmi con della gentaglia. E
nonostante mangiassimo pasta e fagioli o poco più, a fine mese i conti non
quadravano mai.
Ma avevo una ricca amica che, sapendomi in difficoltà, si offrì di pagarmi i debiti e
mi assicurò che potevo ridarle i soldi con calma.
E’ stata dura, abbiamo sofferto, ma alla fine siamo riuscite a costruire una bella
villetta in campagna, sempre nel mio paesino. Mancavano ancora le porte e i
pavimenti, ma erano dettagli che avremmo inserito giorno dopo giorno.Un giorno
mia figlia venne a casa con un ragazzo brutto, zotico e sporco, me lo presentò come il
suo fidanzato. Mi sentii morire. Come poteva lei farmi questo? Non poteva trovarsi
un bravo paesano, magari il figlio del medico, che mi sembrava tanto a posto?
Quel ragazzo non mi piaceva. Non guardava mai in faccia quando parlava. Anzi,
spesso non parlava. Faceva sì con la testa e per no faceva uno strano rumore con la
bocca tirando la testa indietro.
La riempii di botte per evitare che lei lo vedesse ancora. Me ne pento ancora, ma
adesso so che era la cosa giusta da fare.
Malgrado tutto mia figlia e quel coso si sposarono pochi anni dopo. Dopo la laurea di
lui. La mia piccola invece, innamorata e cieca, aveva lasciato gli studi per seguirlo.
Così mi ritrovai sola con la mia vecchia madre, in quella casa grande e nuova, che
aveva una stanza in più che non era stata mai occupata dalla mia creatura.
Quanto dolore a sentire mia figlia lontana, quante ho pianto quando ho scoperto che
suo marito la picchiava.
L’unica cosa buona che ha fatto mio genero è quella di mettere al mondo due
bambine, le mie nipotine, che sono diventate le mie gioie dopo mia figlia. Ho potuto
crescerle quando venivano a trovarmi e io stessa mi muovevo per andare in visita nei
vari posti in cui si muoveva tutta la famiglia.
Ora sono vecchia e sola, mia madre è morta più di dieci anni fa, ho superato gli
ottanta anni, non riesco a muovermi più come una volta. Ho le ossa acciaccate e il
cuore sta facendo il resto. Ma ogni anno cerco di fare un sacrificio e prendo il treno,
faccio un lungo viaggio e arrivo da mia figlia e le mie nipoti, ormai grandi. Loro non
riescono a venire spesso a trovarmi, disto più di cinque ore di treno da loro, ma
quando mi vengono a trovare, anche se stravolgono un po’ le mie abitudini, sono
felice. Riempiono la mia vita con rumori, sorrisi e abbracci.
Quando rimango sola la mia compagnia è la radio e una vecchia amica, mia coetanea,
a volte petulante, ma che almeno scambia due chiacchiere.
Aspetto ogni sera la chiamata di mia figlia, così posso parlare un po’ di tante cose,
della mia piccola vita, delle mie opinioni sulle vicende che seguo in tv. Poi mi
addormento felice, spesso con il televisore acceso.
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II° classificato ex equo
IL RE E IL BUFFONE
dI RODOLFO ROSSI
C’era una volta un re.
Isolato dai resti del suo esercito, accerchiato dalle truppe nemiche, attendeva
immobile l’ultimo assalto. Il re era nero. Ma la guerra che combatteva contro i suoi
nemici, tutti bianchi, non era una questione di razza, né di territorio o di interessi
economici. Altre ben più sottili erano le cause di questo conflitto. Astuzia, audacia,
intelligenza, strategia: questi erano i valori che si misuravano sul campo, come tutti
quei fattori che portano un uomo a combattere contro un altro uomo per stabilire chi
valga di più. Un fante scivolò lentamente alla sua destra, apparentemente per coprire
l’avanzata di un cavaliere o forse per chiudergli una via di fuga: non se ne curò. La
manovra era troppo lenta per costituire un pericolo immediato e il suo cavallo, uno
splendido morello dal manto color ebano, era troppo lontano per essergli d’aiuto.
Concentrò la sua attenzione sui due lancieri che vedeva schierati alla sua sinistra:
guerrieri veloci, anche se non troppo agili. Non avevano grandi possibilità di
manovra ma così appaiati costituivano una seria minaccia, soprattutto per il poco
spazio nel quale poteva muoversi. Si spostò di un passo indietro, stringendo la spada
in pugno. Un altro fante seguì il primo a breve distanza e il re nero capì lo scopo
della manovra: benchè le forze avversarie fossero abbondantemente superiori, il
nemico non voleva rischiare e stava mandando i suoi fanti a recuperare rinforzi,
proprio là, alle sue spalle. Se la manovra fosse riuscita si sarebbe trovato in trappola,
senza neanche la possibilità di vendere cara la pelle, cosa che, oramai, gli sembrava
l’unico scopo per il quale valesse la pena di lottare. Se sua moglie fosse stata ancora
con lui forse avrebbe avuto la speranza di potersi opporre al nemico; quanto meno
avrebbe cercato di ostacolare il suo avversario al punto da imporgli un armistizio. Ma
adesso era solo e non aveva più né la forza né la voglia di sperare qualcosa. Fece
ancora un passo indietro. Aveva perso la sua regina nel bel mezzo del conflitto e
questo era stato un colpo troppo duro per lui. Il re era un uomo forte, non temeva la
vita né le sue sconfitte. Aveva combattuto molte battaglie ed era stato un esempio per
i suoi uomini che lo stimavano e lo rispettavano.
La sua compagna era sempre stata al suo fianco: dovunque lui fosse lei poteva
raggiungerlo velocemente, sorreggendolo e spronandolo nei momenti difficili. Questa
era stata la sua vera forza e ora che l’aveva persa si sentiva solo e senza energie. Né
in qualche modo lo poteva consolare il fatto che anche la regina del suo avversario
avesse fatto, dopo poco, la stessa fine. Pensò, con una punta d’ironia, che forse la
guerra non era una cosa da uomini. Un cavaliere si lanciò in avanti e si dispose a
copertura dei fanti che lentamente stavano scivolando alle sue spalle. Se avesse
potuto raggiungerli li avrebbe spazzati via con facilità: quei guerrieri numerosi ma
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piccoli non potevano competere con la forza della sua spada. Ma il cavaliere e, ora se
ne accorse, i due lancieri presidiavano il terreno davanti ai due fanti che, lentamente
ma inesorabilmente, avrebbero di lì a poco terminato la manovra. Non sarebbe
riuscito a fermarli in tempo per cui restò immobile al proprio posto. Fu un bene: una
furia nera si abbatté devastante contro la fanteria nemica, eliminando un primo fante
e ostacolando la marcia al secondo, così da neutralizzare l’operazione del nemico. Il
suo fedele lanciere non l’aveva abbandonato: inviato sotto le torri nemiche ad
impegnare l’avversario con una manovra diversiva, tornava ora a difendere il suo re e
a combattere al suo fianco. L’azione scompigliò i piani d’attacco del re bianco che,
persa la possibilità di concludere il conflitto senza altre perdite, lanciò i suoi
all’attacco scatenando una violenta battaglia. Il lanciere bianco attaccò il suo diretto
avversario cercando di prenderlo alle spalle ma passò troppo vicino al re nero che,
con un solo passo, gli fu addosso. Questo salvò il lanciere nero dall’attacco diretto ed
egli avanzò per coprire maggior spazio dinanzi a se mentre il suo nemico si poneva
precipitosamente in salvo, a poco distanza dal cavaliere. La manovra era solo
apparentemente difensiva: quando il primo lanciere fu al riparo dall’attacco nemico e
il re ripiegò un poco stringendosi accanto al suo ufficiale, il secondo partì all’attacco,
tanto rapidamente quanto vigliaccamente. Anziché affrontare il suo avversario di
fronte, misurandosi cavallerescamente faccia a faccia con il suo pari, attaccò di
fianco minacciando direttamente il re che si trovò così chiuso tra i due lancieri e il
cavaliere: qualunque mossa avesse fatto non avrebbe potuto sottrarsi al tiro nemico.
Che triste fine, pensò il re. Finire sotto i colpi di un lanciere senza neanche la
possibilità di lanciare un ultimo assalto, senza potere incrociare la spada con un mio
pari. Molte volte il re aveva immaginato il momento della sua fine. Come tutti,
sapeva che prima o poi sarebbe arrivata e come tutti credeva, o sperava, che sarebbe
stato un momento speciale, solenne e, in qualche modo, dolce. Amaramente
considerò che ognuno, cavaliere o stalliere, re o buffone, bianco o nero che sia si
ritiene in ogni caso al centro della vita, protagonista, nel bene e nel male, della partita
che siamo invitati a giocare. Ma la partita non è una sola: e ognuno è protagonista
solo della sua. Per tutte le altre è uno dei personaggi, talvolta un comprimario e può
solo augurarsi di fare bene la sua parte, con serenità e dignità. Questo pensava, il re
nero, stringendo in pugno la spada, ormai inutile, cercando di capire da quale parte
sarebbe partito l’attacco che avrebbe giocato l’ultima mano. Ma prima che questo
avvenisse il suo lanciere scattò e si frappose fra il re e il lanciere bianco. Forse è
questo che rende gli uomini tutti protagonisti, pensò il re mentre vedeva il suo fedele
compagno soccombere sotto il colpo del nemico: la capacità di sacrificarsi per chi si
ama e di conoscere valori più grandi della vita stessa. Il colpo che lasciò partire
vendicò il suo compagno e spazzò via il lanciere bianco. La sua furia si abbatté sui
nemici che, sorpresi dalla sua reazione, cominciarono lentamente ad indietreggiare. –
Codardi! – gridava il re nero, forse ferito, trascinandosi lentamente un passo alla
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volta e avanzando tra le file del nemico. – Cosa temete? Un uomo solo e ferito?
Dov’è il vostro coraggio? Dov’è il vostro onore? Dov’è il vostro re?
I due cavalieri, il lanciere superstite, i fanti: tutti rimasero immobili e muti. Il re nero,
alto e terribile, fece scivolare lo sguardo sul nemico che lo circondava da ogni lato:
era solo, ma non si sentiva solo. Accanto a sè, dentro di sé, aveva la forza di tutti
coloro che lo avevano amato, dalla regina all’ultimo dei suoi fanti, e che avevano
combattuto al suo fianco. Fece, lentamente, un altro passo avanti. Allora, dopo un
istante che sembrò eterno, sentì alle sue spalle un unico, solenne, regale passo. Girò
la testa e guardò il suo avversario, fissando i suoi occhi dritti in quello dell’altro,: il re
bianco era lì.
“Ti faccio tagliare la testa! Ti spedisco a spaccare le pietre nelle mie miniere” gridò il
re mentre con una manata spazzo via la scacchiera facendo volare i pezzi per la
stanza. Pedoni, cavalli, torri e alfieri schizzarono in aria, mancando di poco il buffone
che, sorridendo sotto la sua maschera cialtrona, cominciò pazientemente a
raccoglierli e a disporli in bella fila.
“Sono anni che giochiamo e non ho ancora vinto una sola partita. Mai. Nemmeno
una. Ti faccio rinchiudere nelle prigioni e getto via la chiave!”
“Non lo farete, maestà,” rispose paziente l’ometto, scuotendo lentamente il capo nel
tintinnio dei campanelli del suo buffo cappello.
“Chi ti dà tanta sicurezza, buffone? Perché non dovrei farlo?”
“Perché io sono l’unica persona di cui vi potete fidare. Vi faccio ridere per quello che
sono e per lo stesso motivo vi faccio arrabbiare: vinco a scacchi perché sono più
bravo di voi. Se giocaste con qualcuno dei vostri consiglieri, con il primo ministro o
con il capo delle guardie, probabilmente vincereste. Ma non sapreste mai se perché
siete bravo o perché siete il re. Invece il giorno che sconfiggerete me, saprete
realmente qual è il vostro valore. Sire.
Il re lo guardò torvo. “Disponi i pezzi, disse, facciamo un’altra partita”.
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III° classificato
ALI DI CRISTALO (ai bordi della vita)
dI GLORIA VENTURINI
Ai bordi della strada, in un'ora morta del giorno, un bambino viene
abbandonato da una madre troppo giovane, troppo egoista per amarlo. Per il
padre è stato solamente il piacere di una notte, niente di più. Ai bordi della
strada, vicino ad un cassonetto, avvolto da un asciugamano insanguinato, ora
c'è un bambino rinnegato.
Un'automobile fugge veloce, senza rimpianti, senza esitazioni, neppure una
lacrima, solo un problema risolto. Il bambino sorride all'azzurro del cielo, un
alito di vento lo accarezza, in quel caldo pomeriggio d'estate. Agita le sue
minute gambe e con le piccole manine sembra salutare il sole abbagliante ed
afoso.
Nel volto una serenità senile, un'espressione gioiosa, sconosciuta alla gente. Le
cicale sono le uniche compagne del piccolino, gli cantano una dolce ninna
nanna, e lui, s'addormenta. Il giorno lascia il posto alla notte, mai un tramonto
così tenue aveva colorato l'orizzonte. La luce brilla negli occhi del bambino,
che avvolto dalla meraviglia, è incantato dalle bellezze del mondo. Giunge la
notte, le stelle con il loro scintillio lo cullano e nel cuore infante, ignara vibra
la poesia più bella dell'infinito. L'aurora apre la porta al nuovo giorno. Il
bimbo rivolge gli occhi al cielo amico, senza sapere che la sua piccola vita si
sta spegnendo. Non ha pensieri, sente solo i morsi della fame e il calore
insopportabile del sole. Piange e si agita con le ultime forze rimaste. Le cicale
cantano, l'azzurro del cielo sovrasta sereno, e piano piano, il bambino chiude
gli occhi e si addormenta per sempre. Non ha capito la vita, l'ha osservata solo
per un momento. Quando l'indomani gli uomini della nettezza urbana lo
trovano, nonostante il ghiaccio che gela le loro vene, si addolciscono nello
scorgere un beato sorriso tra le piccole labbra; lui rideva ancora al cielo.
Le sue piccole braccia sono abbandonate in una dolcezza infinita, che nessun
adulto potrebbe mai provare. Con il cuore dilaniato da una ferita senza storia,
con l'animo a pezzi, con le lacrime che scendono impotenti dagli occhi, l'uomo
culla il bimbo, come fosse stato suo figlio, come non ha mai fatto la madre.
L'autoambulanza arriva, per dare un giusto valore a quella piccola vita
stroncata. Il cielo è azzurro, il sole risplende, le cicale cantano, poco più in là,
bambini giocano gioiosi sul prato.
Ai bordi dei giardini celesti, un angelo prende tra le braccia il piccolo
abbandonato, ora non ha più fame, ora non ha più caldo, ma sorride ritrovando
il celeste nello sguardo dell'amico divino.
Ai bordi della vita la luce dell'anima vola serena con ali di cristallo.
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Premio speciale giuria
BONGO
dI SALVATORE CARTA
L’avevano incontrato l’ultima volta nel chiostro duramente acciottolato della
chiesa S.Anna la Misericordia, grande più di un campo di calcio, e tutto
attorno a conformare la figura geometrica un porticato ritmato e compassato
da colonne di marmo grigio con archi a pieno centro, scritto dal tempo e dalle
penne. Bongo era il più alto del gruppo, con muscoli che apparivano flaccidi,
incapaci di forti tensioni, come se non avessero voglia di contrarsi, tantomeno
di lottare. Da sempre si ricordavano di lui quando, ogni volta che lo vedevano
e ovunque fossero, veniva apostrofato: ”Ciao Bongo!” e subito dopo in coro:
“Bingo Bongo Bengo/ Molte scuse ma non vengo/ Io rimando qui/ No bono
scarpe strette saponette/ Treni e tassi/ Ma con questa voglia al collo/ Star bene
qui/ Oh…. Bongo Bongo Bongo/ Stare bene solo al Congo/ Non mi muovo No
No./
E su questo doppio No, tante pacche sulle spalle, anche dal più basso della
comitiva tentavano di fare arrossire la sua pelle stranamente di colore ebano.
Lui finalmente riprendeva respiro, con la bocca rivolta verso quelle pietre
imbronciate, e non tentava neanche d’incrociare i loro sguardi, rassegnato
com’era nella sua impotenza; e pago nello stesso tempo di essere uh elemento
estraneo e conosciuto da tutti. Ogni pomeriggio feriale quello era il loro
cortile, l’agorà lucida partecipata da chi aveva finito rapidamente i compiti
aiutato da una memoria giovane e per niente intasata, e da quelli che
sonnecchiando e senza aver toccato o scritto pagine avevano detto di averlo
fatto, e anche da chi diceva niente di niente, e spavaldo si chiudeva dietro la
porta di casa. Fatalmente iniziavano col prendere a calci qualsiasi cosa che
somigliasse ad una sfera; qualche volta, quando la colletta aveva avuto buon
fine, anche ad una vera palla, che era poi il risultato di una frequente rinunzia
al “pane e panelle”,. E quando le canottiere erano fortemente inzuppate di
sudore, e le ombre ed il vento appena rigido ne arrischiavano i bronchi, la voce
perentoria, ma da prete di Don Bartolo li invitava ad entrare nella sala
parrocchiale. Si appassionavano, tracciando una linea rigida, al vecchio
western americano: alla fine della fiera, quando “il buono” stava per essere
sopraffatto, c’era sempre una pallottola a ristabilire canoni di giustizia, e
l’eccitazione li portava ad accompagnare con sfrenati urrà ed incoscienti “ola”
la caduta rallentata del “cattivo”. Era uno dei tanti gruppi che si componeva
dopo la guerra: sembrava che non avessero un passato, forse per dotta e
conveniente ignoranza, e si sentivano pervasi dalla grande voglia di nascere
per ripartire. Preparavano le prime sigarette con tabacco riciclato e carta velina
tanto pesante da formare anelli scuri e grigiastri, che si aprivano ed iniziavano
a sfaldarsi dopo troppo tempo per non tossirci sopra. Ed in uno di quei
pomeriggi, dopo il confezionamento, quella sigaretta, che sin dall’inizio si era
mostrata senza spian dorsale, era già aspirata da tutti, quando Bongo, con tono
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lieve, forse perché certo di non essere preso sul serio, ebbe a chiedere: “ Mi
fate dare una tirata?” Franco e Claudio, Nino “u longu” e Salvatore, e gli altri
tracciarono diverse diagonali di sguardi densi di sorpresa, e quindi di richiesta
di consenso ecumenico da parte di tutti, prima che Claudio, gran sacerdote,
passasse con attenzione quel mozzicone appiattito e sbavato, trafitto da una
piccola spina di rovo, aggiungendo: “ Bongo, succhia a pieni polmoni; non te
la fumare tutta!” La sua bocca si trasformò in una verde idrovora, ma i
filamenti di tabacco erano troppo laschi e profondamente trinciati per opporre
qualsiasi resistenza; per cui, subito il niente si dileguò in fumo ed il viso,
sospettosamente paffuto, sembrò una sfera magica di colore viola. Si erano
ritrovati a tappe in quel cortile: ognuno aveva vissuto la guerra con sofferta
incoscienza e senza alcuna voglia di ricordare, ciascuno per motivi diversi,
tutti per la stessa causa. Bongo e la sua famiglia erano ritornati, dopo qualche
anno di assenza, da Pian del Mugnone dove una delle due sorelle, Graziella,
aveva sposato, mentre le cannonate si fronteggiavano sull’Arno, un partigiano
alto e biondo, con capelli lunghi che spontaneamente si componevano in
riccioli; gli mancava il mignolo della mano sinistra, spappolato quando, calato
in fondo ad un pozzo cercò di sfuggire ad una retata delle truppe tedesche.
Erano scesi dal treno Bongo, la mamma e il cavaliere, l’altra sorella e la lunga
scale di figli maschi, che avevano reso felice Benito; e subito, con le doglie nei
cuori avevano pianto sui resti del palazzo dei Napoli e del Giglio: soltanto
grandi buche, mentre le convessità erano un insieme di terriccio e macerie, con
muri che si sbriciolavano per il vento e la pioggia appena insistente. Dopo
qualche mese il Comune riuscì a “sistemarli” in una stanza dell’Hotel Patria,
in attesa che, con i fondi ERP, si potesse assegnare loro una casa popolare.
Per più di un anno dormirono in una camera dell’altissimo quinto piano.
Dall’unica finestra s’intravedeva la facciata di S. Carlo Borromeo, che, verso
l’interno, nascondeva un delizioso e piccolo chiostro. Le stanze, una per
famiglia, si disponevano per tre lati, formando una T lunga circa duecento
metri; e la camera dove dormiva Bongo, con la madre, il cavaliere, fratelli e
sorella, era distante dall’unico doppio gabinetto. E le fugaci, ma frequenti
coliche mattutine, più dovute alla mancanza d’acqua che ad abbondanza di
cibo, dovevano attendere per esaurirsi, che le code si azzerassero. Quello era il
periodo in cui la testa di Bongo e degli altri compagni era uno shaker nel quale
venivano a miscelarsi Ettore e Achille, Ulisse e Penelope, la prima democrazia
in Atene, la Chiesa e la tavola di Mendeleev, Foscolo e Leopardi, Vincenti e
Amadeus. E ognuno di questi, superando la tensione di superfice, formava una
bollicina che tendeva ad alzarsi, insieme ai loro pensieri ed ai primi amori,
trasformando tutto, in grappoli di nuvole ricche di cariche intense. I
comportamenti di ognuno del gruppo sembravano delineati dalla sintesi degli
avi e dei miti greci, e venivano ritagliati dalle loro vivaci interazioni e dalla
presenza assidua delle famiglie; speravano che la nuova generazione, essendo
stata soltanto sfiorata dal disastro, avrebbe avuto maggiori opportunità e tempi
per incidere e migliorare ognuna di esse. E così, mese dopo mese iniziarono in
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qualche caso a disaggregarsi: l’Istituto Autonomo Case Popolari, da un lato,
cominciò ad assegnare i nuovi appartamenti, mentre, per altra parte, si
ricostruiva lo Stato, le Industrie, la Chiesa, i Partiti, la Mafia, per cui i padri e i
fratelli maggiori provavano a trovare lavoro. E quel nuovo trasferimento
coinvolse la maggior parte del gruppo: due palazzi anonimi, a cinque piani,
subito dopo il ponte dell’Oreto, iniziarono ad accoglierli. Quella di Bongo fu
una delle ultime assegnazioni; e quando arrivo insieme al cavaliere, alla madre
ed ai fratelli, trovarono un primo piano, con un balcone che dava su una
distesa di mandarini ad alto fusto, recintata da siepi verde scuro, mosse dal
bianco e dal giallo delle calle e dai rovi con fiocchetti rosa. La casa era situata
nella scala H, e per questa lettera, come per la K, Bongo provava una istintiva
avversione, perché una è muta, non ti giunge alle orecchie quando inizia la
parola, la devi immaginare, risulta misteriosamente orientale, aspira i nomi e
te li rende torbidamente voluttuosi; L’altro spesso è una costante con una
lunga serie di cifre che gli sembravano trasportarlo, come nei sogni che
frequentemente aveva fatto da bambino, giù lungo un baratro senza fine,
accompagnato soltanto dall’urlo di chi cade da un quinto piano alto, fino al
centro della terra. La porta d’ingresso era la prima a destra dopo due rampe di
scale e continuava subito con un corridoio-trincea che si apriva prima in un
cesso, nel quale erano stati collocati, facendoli calare dall’alto il lavandino, il
bidè e la tazza che prendevano luce da una finestrella che pescava nel balcone,
poi in una cucina con due pensili smaltati ed un tavolo per quattro, stretto ai
muri. Dopo tre passi, la camera da letto, in cui a sinistra avevano piantato un
armadio con i laterali bombati di finto noce, che tenevano uno specchio lungo
e molato che rifletteva chi dormiva, chi tentava il nodo scarpino, chi era
bucato dall’intramuscolare, chi provava il vestito da sposa. L’ultima porta ti
faceva entrare nella camera da pranzo-salotto-letto, nella quale s’imponeva un
tavolo coperto da una cera trasparente che copriva a sua volta un tappeto
rosso-scuro, l’ultima reliquia dei Napoli, convessa al centro come il calco della
testa di Bongo. Si era formato perché Graziella ogni volta che, durante la
guerra, prima del bombardamento, ululava la sirena, in cinquanta secondi lo
stanava, lo imbracava diventando un tutt’uno, faceva slittare il tappeto
dall’austero e vecchio tavolo, e avvolgendogli tutto il corpo, aveva soprattutto
cura che la sua testa, affollata di boccollotti neri, coincidesse con il centro del
tappeto, sovrastato dal giglio e dal leone rampante, e poi tutta una corsa verso
il ricovero. Comunque così era la casa e così l’avevano potuto arredare, in quei
primi mesi i suoi genitori. E abbassandosi sotto i mandarini per vedere le
gambe di chi arrivava, negli ampi spazi sottostanti si ritrovarono una buona
parte di quelli che erano stati il nucleo di piazza S. Anna, mentre si
introducevano quelli che arrivavano da storie e luoghi diversi. Da una parte il
gruppo tornava a ricomporsi, accogliendo nuova linfe; e senza un
appuntamento preciso, mai dato, si riunivano scaglionati secondo fasce di età
mentale, spesso iniziando a cercare per terra un bastoncino che doveva essere
compatto e duro per potere tagliare fendendola l’aria, ed un altro ancora più
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massiccio per percuotere il primo con un colpo secco, farlo rimbalzare e
quindi, colpirlo questa volta al volo per inviarlo il più lontano possibile. E fu
uno di questi pomeriggi che videro avvicinarsi due possenti ginocchia che
articolavano gambe da centometrista, e dalle foglie subito apparve una piccola
sfera tonda con gli occhi colore pece: era Bongo! Si sentirono intimamente
felice di averlo ritrovato e anche per celebrarlo partirono con: “Bongo,Bongo,
Ben….”. Non riuscirono a terminare la prima strofa perché quella massa nera,
trasformatasi in un pantera, si lanciò su Claudio, lo avvinghiò in una morsa
greco-romana, e prima che divenisse del tutto cianotico, lo scagliò sul prato di
ortiche. Le diagonali di sguardi furono più leste del solito ad incrociarsi, e
Nico “u longu”, stringendogli la mano superò facilmente il fruscio delle foglie:
“Questo è Giovanni!”. E da quel momento divenne conosciuto e caro a tutti.
Ognuno aveva scelto , o lo riteneva, la propria ragazza; Giovanni aveva da
parecchi giorni puntato un balcone con una filiera di gerani rosa e viola, ma
ancora non aveva ricevuto nessuna risposta e tutto ciò gli dava insolite
tristezze e cariche di inutili tensioni. E proprio per il sei Agosto, giorno in cui
ricorreva l’onomastico di Salvatore, come se si fossero passata voce, si
ritrovarono nei viottoli e nelle macchie dense di canneti, sotto il ponte del
fiume; l’acqua annaspava sudando per raggiungere il mare, e le rane sotto le
prime ombre iniziavano a comparire per cercare cibo e compagnie, quando,
come in una orchestra dodecafonica ognuno fu preso dall’irrefrenabile bisogno
di parlare, spesso inventando, di languori e baci e di situazioni particolari che
avevano incrociato con le loro ragazze: chi al cinema; i più fortunati,
motorizzati con lambrette ed un Ducati novantotto a quattro marce e pedali,
nelle campagne che circondano il circuito di Cerda. Tanto più le storie si
appassionavano e gli amori si aggrovigliavano, quanto più perle di sudore si
formavano nella fronte di Giovanni, e scivolavano veloci, prima rigandogli il
viso, poi il collo, sino a formare un piccolo laghetto proprio sotto il pomo
d’Adamo, Giovanni cominciò a farfugliare e ad arrossarsi nelle orecchie, si
alzò di scatto come se fosse stato morso da un tafano, e muovendosi proprio
come IO raccattò un rametto concavo e rinsecchito di mandarino, che si
continuava a mo’ di Y in due rami più piccoli. Lo adagiò leggermente a terra
fra le margherite gialle che nascevano rachitiche e spontanee e allontanandosi
raccontò la storia di Shaharazàd; la musica e le storie si trasformarono in un
crescendo infuocato e a quel punto gli occhi del mandingo divennero due palle
staccate dal sole mediterraneo, e lui prese con frenesia a curarsi con passione
soltanto di se stesso. Stava per lanciare un urlo che avrebbe terrorizzato i cani
randagi che erano soliti seguire il gruppo in attesa di coccole, pane e bastonate,
quando Claudio, con tempismo da cronometrista , dette uno strappo secco al
filo che aveva legato, e mimetizzato con ciuffi di gramigna, proprio nel punto
in cui le tre braccia della Y s’incontrano. E fu così che Giovanni vide
scomparire “L’origine del mondo”, castrando l’eccitazione: quindi un algido
silenzio ringhiò ai cani; e rese scuro di botto il cielo. Un bolo di saliva gli
scese giù per la gola , portandogli in modo esasperato in avanti le carotidi, e
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obbligandolo a scivolare la mano sinistra verso il basso, per accoppiare ogni
asola forse con il suo bottone. Nessuno rise e tutti s’indirizzarono mogi, mogi
verso casa. E i giorni si nutrivano di singulti di frenesia, di eccitazioni
esagerate che li possedevano, solitamente dopo momenti sonnacchiosi, come
quando verso la fine dell’estate, improvvise scariche si rincorrono nei cieli,
intrufolandosi fra le nuvole, animali saettanti che tornano ad impadronirsi dei
territori, e quindi si dissolvono tingendo l’occidente di una distesa di veli rosa
e celeste tenue, e rosso smunto; e ogni giorno possedeva la capacità di
prolungarsi, di stiracchiarsi su se stesso rinviando i domani. Queste sensazioni
rendevano continui ed interminabili gli sbadigli della testa di Giovanni ogni
giovedì, quando arrivavano alla spicciolata, al primo piano della scala H, una
decina di giovani lupetti con il viso inizialmente preoccupato, e bloccandosi
sul pianerottolo, bussavano alla sua porta semiaperta. Li accoglieva sua madre:
“Ciao Carmelo”, “Hai imparato la tabelline del nove? Giuseppina!” Si
chinava su ognuno di loro, attendendo che i loro volti si rassicurassero e il
fatto di trovarsi a casa del Cavaliere non li impensierisse più. Trovavano, dopo
avere attraversato il corridoio, la stanza grande con il tavolo non più a centro;
e a prendere tutto lo spazio che restava tre file di sedie impagliate, disposte a
chiesa. E quando tutto si era sistemato, la madre, in piedi, usciva dalla tasca
della lunga gonna un rosario di ciliegio brunito dal tempo, ed iniziava,
amorevole, il paternoster, un gloria patri ed uno dei misteri, e di seguito la
prima decina di avemaria. Davanti a lei quei bimbi l’avvolgevano in una
nuvola sussurrata di ritorni; snocciolando i grani, se li guardava uno per uno,
lambendone gli occhi, come se fosse utile per tenere il conto di quella giovane
litania. Riusciva ad accorgersi quando la liturgia non era più amata, anche
perché quelle piccole gambe iniziavano a muoversi, sedute, con maggiore
frequenze, ed in qualsiasi punto si trovassero diceva: “Anche questa mattina
abbiamo ringraziato la madre di Gesù”. Si avvicinava, e porgeva nella mano di
ognuno un sacchetto colorato con dentro una zolletta di zucchero, e cinque
gallette. Giovanni, dalla cucina in cui studiava, avvertiva la fine di quella
intrusione massiccia e non riusciva a comprendere se venissero per il
sacchetto, per i capelli di seta di sua madre o perché venivano inviati da Gesù.
Quella settimana, sin dal pomeriggio del martedì, tutti, piccoli e grandi, in età
di scuola elementare, di servizio di leva, e di tesi di laurea, avevano
cominciato a portare, al centro della vasta area non asfaltata fastelli di rami
secchi, resti di tronchi tagliati per dare spazio alla costruzione di un nuova
edificio, cartacce e pochi giornali già letti da tempo, mobili vecchi e scomposti
affinché fosse più facile trasportarli, e in serata si era formata una catasta così
alta che riusciva a gareggiare con le “vampe” delle altre borgate e con quelle
che venivano preparate, qualche secondo prima, contro gli eretici dai delegati
papali. Fino al tardo pomeriggio del diciotto continuavano ad allargare la base,
per innalzare sempre più la cima, e per tutti iniziava l’attesa: i bimbi si
accovacciavano sui marmi dei balconi sperando che intanto potessero vedere
S. Giuseppe, le moglie sbirciavano fra le gelosie le prime donne affacciate, i
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mariti erano presi come da una strana tensione, forse perché non avevano
potuto partecipare ai preparativi, le “sfinge” riposavano, scortate dai pensieri
di tutte nelle cucine, le ragazze da marito continuavano a ravviarsi i capelli; e
frattanto alcuni dei loro probabili compagni accatastavano libri, o perché
avevano ricevuto la cartolina di precetto, o perché si attendevano che fra pochi
giorni sarebbe arrivata; c’era chi aveva ricevuto la promessa di lavoro nella
propria città, e chi ne aveva visto alimentare, soltanto, il fumo della vampa
degli anni precedenti, e adesso aveva deciso di prendere il primo treno per il
continente. Diveniva, comunque, un atto di notifica per tutti: fra poche ore, le
cassette con i libri di osteologia e semeiotica, trigonometria ed integrali, diritto
romano e filosofia sarebbero stati annullati dal primo crepito della vampa.
Adesso gli occhi si alzavano per scrutare il cielo, e se c’erano nuvole ognuno
sapeva che S. Giuseppe non avrebbe potuto rinunziare alla sua festa, e che, una
volta che il fuochista aveva portato lo stoppino nella piccola cavità che i
ragazzi avevano formato nella catasta, nessuna goccia di pioggia avrebbe
offeso un Santo così potente. Le famiglie avevano trasportato le sedie nei
balconi; mentre sui tavoli da pranzo attendevano le sfinge ed i rosoli fatti con
alcool, zucchero ed assenze, e l’acqua e l’anice Tutone. Lo scricchiolio delle
noccioline americane, delle carrube e della semenza salata e abbrustolita inizio
a calare insieme al frinire delle cicale; e anticipato da una leggera brezza
marina videro avanzare lentamente, ma sicuro nell’andamento verso la vampa,
Giovanni vestito di nero. Nella sinistra alzava una scatola con cinque-sei libri
di letteratura italiana e latina; nella destra una torcia resinosa con un grosso
stoppino acceso che gli rischiarava, fluttuando, varie gradazione di viola. I
minuti si allungavano, gli scarponi sembravano essere trattenuti dall’erba, i
tessuti contenevano a stento i muscoli, ma seppe giungere al centro del
cerchio: poggiò con delicatezza sacrale i volumi nella bocca della vampa, e la
sinistra, ormai libera,aiutò l’altra per indirizzare la torcia verso la lingua sazia
di paglia. Il fuoco divampò in pochi secondi; e in tempo, prima che i balconi
rossi di gerani trionfassero, Giovanni indirizzò anche a quellio degli ultimi
piani “Viva San Giuseppe! Io parto. Viva San Giuseppe!”.
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E INOLTRE….
IN ORDINE ALFABETICO:
RACCONTO
dI CAPPADONIA LO DATO FRANCESCA
Durante la mia infanzia non esisteva il televisore.
Ci riunivamo davanti al braciere.
Insieme ai cugini organizzavamo qualche gioco:
con la palla, legando dei vestiti vecchi;
con i bottoni, lanciandoli per terra dentro un quadrato disegnato col gesso;
con le bambole di pezza;
con la “ciammarita”, fatta da un pezzo di mattone, che veniva lanciato il più
vicino possibile a una riga sul marciapiedi.
Ora i bambini giocano in modo diverso:
computer, playstation e altri giochi elettronici.
Paragonando quei periodi a questi, prima i giochi si inventavano, oggi sono
già creati.
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LO SBARCO SULLA LUNA
dI DI GREGORIO ANTONINA
Antonio aveva fatto tardi.
Come al solito si era attardato a giocare sul piazzale della chiesa come faceva
tutti i giorni. Il tempo gli era volato come sempre ma proprio quella sera non
avrebbe voluto far venire buio giocando per cui ora si stava avviando di buon
passo verso casa arrabbiato e preoccupato per due motivi. Il primo e il più
importante era che di sicuro, visto il ritardo, non gli avrebbero permesso di
guardare alla televisione lo sbarco sulla luna dei tre astronauti americani, il
secondo era che avrebbe sicuramente ricevuto il solito liscio e busso e magari
avrebbe saltato pure la cena, e stava morendo dalla fame.
Ninuzzo come lo chiamavano in famiglia aveva quasi undici anni ed era un
ragazzino vivace e curioso della vita, sempre a fare domande su questo e su
quello, come funziona? Posso smontarlo? Quando casualmente posava le mani
su qualche cosa, inavvertitamente, quasi senza accorgersene lo aveva già
ridotto in mille pezzi, rompendolo completamente. Era affascinato dallo
spazio, dagli astronauti, dal cosmo in generale e soprattutto dall’idea che da
grande avrebbe esplorato l’universo intero.
Appena mise piede in casa restò ammutolito.
La tavola era apparecchiata per sei persone e loro in casa erano quattro.
La madre che portava il lutto da oltre un anno per la morte di un fratello stava
parlando a bassa voce con la sorella, la zia Filuccia che anch’essa vestiva di
nero per lo stesso motivo. Come mai si trovava lì, perché era venuta da
Termini? Forse per lo sbarco? Nel piccolo salotto lo zio Salvo, marito della
zia, stava seduto in silenzio.
Papà non era ancora arrivato e sua sorella Marinella nemmeno e questo era
molto strano perché si faceva sempre trovare in casa quando rincasava il
padre, ben conoscendo la reazione qualora non la avesse trovato.
Il televisore spento. Come… spento? Inammissibile.
Mamma, la televisione!!!!!!, c’è lo sbarco sulla luna, tu scurdasti? –
Quale televisione e televisione, corri a lavarti e zitto che non è
momento….. –
Non è giusto….. dai accendiamo…….. magari già sbarcano….. non me
lo voglio perdere……Pi piaceri curri a lavariti e muto che a testa mi sta scoppiando….. u
capisti?.- gli urlò isterica.
Zitto zitto e piangendo Ninuzzo si avviò nel piccolo bagno a lavarsi le mani.
Marinella dov’è? Mà…… u sintisti….. unnè Marinella? –
Nessuna risposta.
Mentre si asciugava le mani sentì che il padre Giuseppe era entrato in casa.
30
-
Chi succirì, picchì si trova cà ta soru? Forse tua madre……Me matri è a Termini a casa e sta bene, non ti preoccupare, chiuttosto
assettati…… un ti scantari nenti succirì, nenti succirì…. - E sbotto a
piangere.
Il fatto è Giuseppe che…..- lo zio Salvo comparve come per magia dal
salotto che era al buio – quando si hanno figlie femmine le disgrazie
cominciano nel preciso momento che vengono al mondo, loro fanno,
sfanno e non si preoccupano di dare dispiacere al padre e alla madre e
alla famiglia intera……Giuseppe ebbe un lampo rivelatore…….
Marinella…… dov’è? ..Che mi vuoi dire? Che mi stai dicendo?...... E’
quello che penso io?......
Si Giuseppe, è come pensi tu, Marinella si ni fuì cu Pietro. – Le parole
gli uscirono a spintoni.
Fu il patatrac. I piatti e i bicchieri sibilarono da tutti i lati andando a
frantumarsi in ogni dove, i presenti abbassarono la testa coprendosi con le
braccia e solo per un fortuito caso non venne colpito al volto proprio Ninuzzo
che aveva deciso di uscire dal bagno, già piangendo.
Saruccia non osò neppure alzare lo sguardo verso il marito che sicuramente
l’avrebbe accusata quanto meno di complicità, già perché a lei Pietro piaceva
e lo aveva sempre rimproverato quando lui apostrofava la figlia ricordandole
che se l’avesse vista solo parlare con lui l’avrebbe riempita di timpulati e di
cauci ‘nto culu, pure in chiesa, all’occorrenza.
Raccattava da terra i cocci e piangeva.
Ninuzzo si rannicchiò vicino alla porta che era stata chiusa ed osservava
impaurito. Gli mancava la sorella che in quella circostanza lo avrebbe
abbracciato.
Marinella che di anni ne aveva quasi sedici non aveva mai chiesto poi chissà
cosa, a lei sarebbe bastato poter prendere un gelato con Pietro e magari
chiacchierare passeggiando, forse non era neppure innamorata. Certamente
però il comportamento categorico ed autoritario del padre avevano scatenato
in lei la visione del grande amore e ciò che era una semplice cotta si era
trasformata dal divieto in una autentica fissazione, quasi una malattia, E
quindi……
E ora che facciamo? –
Che dobbiamo fare
Quello che fanno tutti….E no bella mia, non in casa mia…. Per me era morta….. avevo una figlia
e non ce l’ho più…
Ragiona Giuseppe, che la lasci in mezzo a una strada?-
31
-
Dpve si trova ora? A Termini a casa tua? Allora tienitela, tanto tu figli
non ne hai….Saruccia a quelle parole accennò a un lieve malore, dovuto più alla mancanza
di aria nella stanza che ad un effettivo mancamento.
Eccola… tagliatela, si sente male, sulu chissà sai fare….. brava….
Complimenti….. comunque non voglio sentire questioni, quello che ho
detto ho detto, non mi interessa…. Non voglio sentire una parola. Chi
sbaglia paga …. E basta…..- urlava incontrollato.
Ninuzzo ormai divorato dalla fame asservava la scena che ora si prolungava
da oltre un’ora, le stesse parole, gli stessi gesti, gli stessi sguardi, nessuno
capitolava, il padre non cedeva, la madre si sentiva male un po’ si un po’ no,
la zia cercava di mediare, lo zio muto e scazzato.
Di mangiare nessuno parlava, la pasta condita nella padella era lievitata e
aveva cambiato colore, era diventata pallida come mamma.
Fu tentato di passare sotto il tavolo e senza farsi vedere accendere il
televisore, gli fosse riuscito di tenere a zero il volume forse non se ne
sarebbero nemmeno accorti. Sempre se non era tutto già finito…..
Vi rendete conto? Si stava perdendo lo sbarco sulla luna, tutta colpa di
Marinella che era scappata di casa con quel Pietro che non gli comperava un
gelato nemmeno morto. Maledetti tutte e due.
Se la cosa ti può interessare, viri ca a carusa non fece niente di male, me
lo giurò e io stanotte li feci dormire separati, ancora non è successo
niente…. Anche ora sono con la nonna, non li lasciamo soli.Nenti? E tu pensi che la gente ci criri? Oppure pensi che io ci credo? Mi
fai accussi fissa? …. E poi cosa vuol dire stanotte, da quando manca di
casa?.... Tu sei complice, tu lo sapevi… tu eri d’accordo….. figghia di
buttana…..ora fai finta di svenire……- e fece per colpire la moglie che
prontamente si allontanò dal tiro.
Salvo lo trattenne – Calmati, nessuno sa niente ancora…… i carusi si
presentarono verso mezzanotte, che dovevo fare? Dimmelo tu che dovevo
fare…….Mi state facendo la sceneggiata tutti quanti… Tutti d’accordo eravate!!!!
- rivolgendosi alla moglie - Ti ni poi iri cu ta figghia!!!!!! E tu Salvo…..
come parli bene…. proprio bene… bravo bravissimo!!!!..... nessuna sa
niente? Tuttu u paisi u sapi, donna Nunziatina si sta pigghiannu u friscu
da quannu arrivaiu, e di sicuru un si ni trasì….. belle parole…… nuddu
sapi nenti…….Certu pi comu griri tu, si misu ca griri ca ti sentunu finu ‘nta chiazza. . lo
riprese Filaccia.
Bravi… proprio bravi…. Ora la curpa è mia….. certo la colpa è mia….. perché
difendo l’onorabilità della famiglia….. io travagghiu comu un curnuto e guarda
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come vengo ricambiato…. Che non si presenti più davanti ai miei occhi…. E
ora itivinni tutti… tutti quanti…. E tu Ninuzzu va cùrcati sennò pigghiu u
cinturino….. –
Io voglio vedere lo sbarco sulla luna……Che luna e luna…. Te lo vedi domani…..Ti pare che ci vanno tutti i giorni sulla luna?.... – ora il piccolo singhiozzava
disperato.
Ti dissi va cercati…. – lo sguardo minaccioso.
Antonio in un batter d’occhio sparì.
U carusu arraggiuni avi, c’era lo sbarco sulla luna stasera… - Salvo disse quasi
tra sé e sé.
Che mi interessa della luna…. Che mi porta la luna a me?... e a te che ti
porta?... – già la voce di Giuseppe calava di tono.
La stanchezza a poco a poco vinse i nostri quattro che si trovarono seduti al tavolo
rimesso in qualche modo in ordine. Le donne in silenzio prepararono un caffè. Gli
uomini aprirono la porta e assaporarono in silenzio la brezza che finalmente
giungeva. Sembrava una veglia funebre. Tutto silenzio e sospiri.
Dopo un po’:
Certo ….. se ci ragioniamo bene….. oggi gli uomini sbarcano sulla luna e noi
siamo qua come se avessimo un morto in casa…… cose da medioevo…… qua
le cose non cambiano mai…. Il mondo intero cambia….. ma noi no…. Noi
pensiamo alla gente…… come ci giudica la gente…… quando impareremo? –
Salvo l’intellettuale disse le uniche parole.
Nessuno rispose.
Marinella si sposò quattro mesi dopo. Giuseppe l’accompagnò all’altare orgoglioso
di una figlia così bella e non ancora incinta, sollevato del peso che si era tolto, ora
alla figlia ci avrebbe pensato il marito, erano fatti suoi. Aveva passata la palla.
Antonio si perse lo sbarco sulla luna ma sognò di essere lui stesso l’astronauta che
camminò per primo sul suolo lunare e si convinse che in futuro, da grande, l’avrebbe
fatto per davvero.
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LA FORZA DELL’AMORE
dI LEONARDO GAGLIO
Un giorno come tanti altri, svegliato dalla leggera brezza mattutina, lasciai le calde
lenzuola e mi diressi verso la cucina per controllare l’ora. Era ancora molto presto,
così decisi di prendermela con comodo; dopo essermi lavato e vestito, mangiai con
piacere una brioches ma, mentre ero trasportato dall’inebriante gusto di quel
fantastico cibo,scoprii che forse era arrivata l’ora di prendere lo zaino e dirigermi a
scuola. Dopo aver percorso i pochi chilometri che dividevano la mia casa dalla mia
meta, arrivai a scuola puntuale come sempre.
Giunto in classe, solo come di consueto, posai lo zaino e mi sedetti; dopo pochi
secondi la visione di un bel gruppo di scolari diretti verso il fondo della classe, fu
accompagnata dall’assordante rumore di un branco di bufali inferociti e dal suono
della campanella che dava inizio alle lezioni.
Appena la classe si riempì si sentirono i lievi passi della professoressa Pizzurro,
stranamente accompagnati da altri. Quando la professoressa entrò, calò il silenzio;
dietro di lei comparve un’altra ragazza che però non notai subito. La professoressa,
dopo essersi schiarita la voce, disse
- “ Cari alunni, sono lieta di presentarvi la vostra nuova compagna, Chiara!” poi si
rivolse a lei e disse : “ Chiara, puoi sederti lì ”.
Subito dopo cominciai a scarabocchiare la copertina del libro che avevo davanti a
me, ma una dolce voce mi distrasse:
- “ Scusa, posso? ”
Alzai gli occhi e vidi quello che alla prima impressione mi sembrò un angelo; mi
diedi un pizzicotto per capire se sognavo, ma quella ragazza bionda con gli occhi
azzurri così simile ad un corpo celestiale, stava davanti a me, immobile in attesa di
una risposta.
Così precipitosamente le dissi :
- “Si, fai pure, per me è un piacere”.
Lei si sedette vicino a me ed un profumo dolce e sincero mi avvolse. In seguito
cominciai a parlarle con dolcezza, fino ad allora non ero mai stato romantico con
nessuno, ma quelle parole mi scivolano dalla bocca naturalmente.
Per la prima volta nella mia vita provavo per una ragazza qualcosa di straordinario
che mi prendeva allo stomaco e che poi mi saliva fino alla gola, qualcosa che mi
faceva gelare le mani quando le parlavo ma non sapevo cos’era così decisi di
confidarmi con la mia migliore amica : Ginny.
-“ Ciao Ginny”
- “ Oh, ciao Leo è un bel po’ che non ci si vede”
- “ Ginny, volevo un consiglio da te”
- “ Dai, dì pure, sono tua amica”
- “ Conosci Chiara, la nuova arrivata?”
- “ Si”
- “ Sai quando sono con lei è come se qualcosa dentro di me………”
- “ Amore”
Stupito e con la bocca spalancata dissi :
- “ Cosa ?!??!?!”
- “ Sei innamorato di Chiara e ti convieni che ti sbrighi a dirglielo mancano solo
pochi giorni all’inizio delle vacanze natalizie. Ora mi dispiace, devo andare, è
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tardissimo mia madre mi sgriderà. Scusa , ciao Leo” disse Ginny mentre scompariva
tra la nebbia di quella scura strada.
- “ Ma Ginny, sono……” Era ormai troppo lontana e non poteva sentirmi.
Il giorno dopo, alla fine delle lezioni dissi a Chiara:
- “ Senti Chiara, devo dirti una cosa”
- “ Di pure” disse Chiara fissandomi con i suoi occhi azzurri.
- “ Hem…allora….hai già fatto i compiti per oggi?”
- “Si, ma dovevi dirmi solo questo?” disse chiara sorridendo.
- “ Certo….”
- “ Allora ci vediamo”
Appena la sua immagine scomparì presi a rimproverarmi domandandomi perché ero
stato così stupido e alla fine tornai a casa sconfitto.
I giorni seguenti provai a rivelare i miei sentimenti a Chiara, ma ogni volta sviavo il
discorso su cose banali facendo la figura dello stupido. Le vacanze natalizie erano
cominciate e le occasioni per parlare con Chiara erano ormai terminate. Trascorsi
tutte le vacanze chiuso in camera mia, a nuotare tra i miei pensieri, tra i miei quesiti e
tra i miei sensi di colpa.
La vigilia di Natale decisi di andare in giro per le vie del paese per comprare qualche
regalo, mentre girovagavo, mi ritrovai davanti al mio negozio preferito di strumenti
musicali ad ammirare gli addobbi: rametti di vischio disposti sopra la vetrata e la
porta d’ingresso e, agrifoglio e luci coloratissime abbellivano tutte le pareti. Ma
mentre ammiravo cotanta bellezza qualcuno mi chiamò, mi girai bruscamente e vidi
Chiara. La sua bellezza era tale che quegli addobbi non mi sembravano più così belli.
Chiara sorridente come sempre mi disse :
- “ Ciao, che fai da queste parti?”
Timidamente risposi: “Compere…”
Calò il silenzio per pochi secondi ma poco dopo Chiara, indicando gli addobbi sopra
la mia testa, disse:
- “ Vischio”
Io non risposi, ero gelato dalla timidezza, ma poco dopo fui avvolto da un’inebriante
calore: Chiara mi aveva baciato. Il calore si propagava dalle labbra fino a riscaldare
tutto il mio corpo. Le mie mani si mossero e mi ritrovai amorosamente abbracciato
alla ragazza che desideravo più di ogni altra cosa. Era stupendo.
Dopo pochi minuti staccò dolcemente le sue dolci labbra dalle mie e mi guardò.
- “Questo è un si alla domanda di fidanzamento che ti dovevo fare da qui a poco?”
- “Si” e mi ribaciò riappoggiando con altrettanta dolcezza le sue labbra sulle mie. In
quello stesso istante capii che un piccolo bacio poteva racchiudere l’amore più
grande; infatti dopo quel bacio ne seguirono molti altri accompagnati da un grande
amore finchè mi ritrovai davanti all’altare a baciarla come la prima volta.
I giorni dopo il matrimonio furono stupendi ma una sera mentre eravamo sul nostro
letto una frase mi stranizzò :
- “ Senti Leo, devo dirti una cosa ma prendila diciamo come un consiglio che
metterai in pratica al momento giusto. Se un giorno non troverai più il calore nelle
mie labbra sappi sempre che sarò acconto a te, non ti lascerò mai. Basterà cercarmi,
quando tu vorrai mi troverai.”
- “ Chiara, perché dici queste cose? Abbiamo una vita davanti a noi piena d’amore e
felicità”
Chiara non rispose e si girò dall’altra parte come se si fosse addormentata mentre io
le parlavo. Allora presi ad abbracciarla ma poco dopo il sonno trascinò anche me.
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L’indomani mattina i raggi del sole entravano dalla finestra illuminando pian piano il
mio viso mentre il sole si alzava su nel cielo. Quando mi svegliai mi ritrovai in una
tarda domenica mattina soleggiata; mi rivolsi verso Chiara per svegliare anche lei con
un lieve bacio ma…….
- “ Nooooooooo!!!!!!!”
Più volte tentai di svegliarla ma non dava alcun segno di vita. Non volevo crederci, la
sera prima parlavamo insieme ed adesso lei giaceva ormai fredda accanto a me. Dissi
alla donna di servizio, con la voce tremante di andare a chiamare qualcuno perché
Chiara stava male.
Mi sedetti a terra. Vidi fiumi di gente che mi parlavano, correvano, strillavano,
chiamavano. Immagini sfocate mi sfrecciavano davanti agli occhi poi alla fine calò il
silenzio, solo due o tre persone restarono intorno a me. Quando misi a fuoco le
immagini vidi alcuni miei parenti continuare ad andare avanti. Ma io non ero
d’accordo.
Era soltanto un incubo, uno stupido incubo e fra poco Chiara mi avrebbe svegliato
portandomi la solita tazzina di caffé. Da lì a poco capii che erano passati diversi
giorni e il corpo di Chiara era già stato seppellito, ma non mi preoccupavo: era
soltanto un sogno. Un pomeriggio vidi le persone che erano state accanto a me,
andarsene distrutte. Io restai, non so per quanto tempo, lì dov’ero ma ben presto
dovetti accettare la realtà: Chiara non era più vicino a me e questo fu il colpo più
atroce. Stavo impazzendo, volevo distruggere tutto, nulla aveva più senso senza di
lei. Restai solo con il mio dolore. Sentivo che per me non ci sarebbe stata più né gioia
né felicità.
Passarono parecchie settimane finché, chiuso nel mio dolore e pensando a lei,
ricordai le parole che mi aveva detto poco prima di morire “ Se un giorno non
troverai più il calore sulle mie labbra, sappi sempre che sarò accanto a te, non ti
lascerò mai, basterà, quando tu lo vorrai, cercarmi e mi troverai”.
Vidi uno spiraglio di speranza nel mio cuore.
Pensai intensamente a lei, mi alzai e toccai il vuoto: un varco sembrò aprirsi ed una
luce abbagliante mi avvolse, intravidi il viso roseo di Chiara che sorridente mi disse:
“Finalmente hai trovato in te la forza dell’amore! Quando tu vorrai, mi troverai.
Ricordi? Eri così distrutto dal dolore che non hai pensato a me, alle mie parole.”
La riabbracciai e la baciai mentre un fiume di lacrime scendevano sul mio viso.
*
Non so se la voglia di rivedere chiara mi abbia portato ad avere allucinazioni d’amore
o se il Signore mi diede la grazia di rivedere Chiara per l’ultima volta.
Sono sicuro che anche voi siete avvolti nel dubbio……
Io posso dire soltanto che quel l’incontro mi aiutò ad andare avanti.
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INDELEBILI RICORDI DELLA
MONDIALE
dI LILIANA MAMO RANZINO
SECONDA
GUERRA
Quello che sto per raccontare è un pezzo di storia della mia vita, la testimonianza di
una bambina di appena cinque anni e il cui ricordo dei fatti è rimasto indelebile nella
mente. Così, mettendo in carta ciò che sto per raccontare è come fare una
confessione, come liberarmi da qualcosa che mi porto dentro da più di 60 anni,cioè
dalla seconda guerra mondiale e quando si parla di guerra è parlare di tutto. Alcuni
episodi tristi che ivi sulla tua pelle, in prima persona, ti lasciano un segno per tutta la
vita, ti fortificano, ti rendono più umani, più comprensivi dell’altrui sofferenza. Noi
tutti, purtroppo,
ai nostri giorni quotidianamente siamo tempestati da immagini di guerra che infuria
in ogni parte del mondo, ma questo ci porta all’abitudine, quindi all’indifferenza. Io,
invece rimango sempre più sconvolta e coinvolta, perché la guerra l’ho vissuta con
tutte le ansie e paure di una bambina. Siamo nel 1940, anno in cui l’Italia viene
coinvolta nella seconda guerra mondiale e così mio padre maresciallo di finanza,
messosi in congedo ancora giovane, a causa della mia nascita a Nardò in Puglia e di
un contemporaneo trasferimento nel trentino Alto Adige, è stato richiamato.
Indossata la divisa fu costretto a partire lasciando me e mia madre da sole a Catania.
Intanto la guerra si faceva sempre più sentire specie nelle grandi città. Così anche
Catania veniva tempestata dai bombardamenti e quasi ogni notte al suono assordante
delle sirene, ancora ben chiaro nella mente, ci si doveva alzare dal letto e correre a
riparo nel rifugio sottostante il nostro palazzo.
Ricordo benissimo lo sforzo sovrumano di mia madre, piccola donna, nel dover
portare me in braccio e trascinarsi dietro l’ottuagenaria zia Rosina che abitava con
noi. Giunti nel rifugio, rischiarato appena dalla fioca luce di una candela, circondati
da moltissimi sacchi di sabbia, ci ritrovavamo in tanti soprattutto donne, vecchi e
bambini. Vedevo molte donne che pregavano tenendo in mano il rosario e così fin da
piccola è incominciato a farsi strada nel mio cuore il più alto dei sentimenti: la
FEDE.
Ed ecco, come la guerra con la sua terribile faccia, sia capace di far nascere alti
sentimenti verso DIO e verso il prossimo. In questi tristi momenti ci si sente
accomunati e quindi più solidali e comprensivi delle altrui sofferenze. Spesso,
parlando con i miei figli e nipoti, mi compiaccio di definirmi “figlia della guerra”.
Riprendo il discorso della mia narrazione e così dopo circa un anno di sacrifici e di
lontananza mio padre, dopo aver ottenuto un permesso straordinario, segretamente è
riuscito a portarci con sé a Castelluzzo una frazione di San Vito Lo Capo in provincia
di Trapani e dove appunto prestava servizio. Siamo giunti a destinazione dopo un
avventuroso viaggio in treno durato quasi due giorni. I nostri bagagli erano due sole
valige, legate fuori dal treno ed anche mio padre era afferrato ad una maniglia fuori
dal treno, mentre io, mia madre e la vecchia zia, abbiamo trovato posto dentro un
vagone di terza classe pigiate come sardine. Io addirittura sono stata sistemata sul
portabagagli. Giunti a Trapani e da lì con una corriera d’altri tempi a Castelluzzo.
Qui siamo stati ospitati da una famiglia terriera benestante che ci ha messo a
disposizione la migliore stanza, quella dei ricevimenti, come la chiamavano loro, e
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che si è trasformata subito in camera da letto e in cucina separata da una tenda, il
gabinetto era in comune con i proprietari. E’ proprio a Castelluzzo che ho aperto gli
occhi alla mia vita. Qui ho incominciato ad amare la natura, perché ero in mezzo alla
campagna; ho incominciato a seguire le varie fasi delle stagioni, ad apprezzare i frutti
del faticoso lavoro del contadino.
Ho assistito direttamente alla semina, alla mietitura del frumento, alla macina del
grano e alla lavorazione del pane fatto in casa. Ho partecipato alla vendemmia, alla
pigiatura dell’uva, alla raccolta delle ulive e alla spremitura. Ho incominciato ad
amare tutti gli animali e soprattutto i cani. Proprio a Castelluzzo ho ricevuto in dono
all’età di sei anni, la mia prima cagnetta Fosca dalla quale non mi sono più staccata
fino alla mia venuta a Cefalù. Sempre a Castelluzzo ho iniziato a frequentare la
scuola elementare, una pluriclasse. Ho avuto i primi compagnetti di scuola e anche di
gioco e ho incominciato a socializzare con gli altri bambini.
In questo luogo in mezzo alla campagna, effettivamente l’eco della guerra era lontana
e si viveva una vita un po’ disagiata per noi che venivamo da una città, privi d’ogni
comodità e persino dalla luce. Si usavano, infatti, le candele ad olio. Il lume a
petrolio e l’acetilene. In compenso, però si viveva una vita serena, salubre, piena di
calore umano, d’affetti familiari e soprattutto al sicuro dai bombardamenti.
Ma, dopo due anni, le cose, improvvisamente cambiarono, con tanto dispiacere
abbiamo dovuto lasciare Castelluzzo, tutto il mio mondo, per un trasferimento di mio
padre a Finale di Pollina. Così, dopo un altro viaggio avventuroso e disastroso siamo
giunti appunto a Finale, una frazione di Pollina, un luogo strategicamente molto
importante. Ed ecco che qui la guerra si è fatta sentire incutando in tutti paura e
terrore. Ogni pomeriggio si sentivano le raffiche di mitra che gli americani
sferravano dagli aerei contro il treno passeggeri. Ogni notte si udivano i richiami
insistenti e lamenti strazianti dei poveri soldati di marina che invocavano aiuto dopo
che la loro nave era stata affondata, ma ogni richiamo cessava dal momento che il
mare era diventata la loro definitiva tomba. Ricordo le immagini raccapriccianti di
alcuni marinai che il mare riporta a riva con la testa e la pancia molto gonfia. A
Finale già avevo otto anni e quindi frequentavo la terza elementare anche qui in una
pluriclasse e ricordo la maestra Elvira che a dorso di mulo scendeva tutte le mattine
da Pollina. Anche a Finale una piccola frazione con poche anime e poche casupole ho
avuto modo di crescere in fretta, di sentirmi più matura dei miei otto anni, perché
sono venuta a contatto con gente più grande di me, quali ufficiali dell’esercito amici
di mio padre, guardie di finanza, gente anziana del luogo soprattutto donne, dalle
quali ho avuto modo di apprendere usi, costumi e tanta umanità. Il momento più
intenso della guerra l’ho vissuto, quando è avvenuto lo sbarco degli americani, che
sono sbarcati proprio sulla spiaggia di Finale. C’è stato un momento di grande
confusione generale. L’esercito si è sfasciato, i militari si sono tolta la divisa e in
abiti borghesi si sparpagliavano per la campagna nascondendosi nelle grotte. Anche
mio padre si è tolta la divisa e così mia madre, io e l’anziana zia e tante altre persone,
come dei latitanti, ci siamo messi in fuga per le campagne del territorio di Pollina. La
notte, le donne e i bambini dormivano dentro le grotte oppure dentro i pagliai dei
pastori, mentre gli uomini dormivano fuori. Di giorno, mentre ci arrampicavamo per i
viottoli, quando venivamo avvistati dagli aerei venivamo mitragliati. Ed ecco che
improvvisamente c’è stato un mitragliamento a bassa quota, mio padre ha ordinato a
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tutti di metterci a pancia in giù e così abbiamo evitato il peggio. Mentre venivamo
mitragliati, ricordo che la mia cagnetta Fosca che ho portato sempre con me da
Castelluzzo, ha avuto un ripetuto sobbalzo che ho avvertito benissimo, perché per
proteggerla le tenevo una mano sul dorso. Intanto noi ci siamo ritrovati coperti da un
manto di foglie di carrubo che erano state strappate dai rami dalle raffiche del
mitragliatore. Un momento ancora più tragico è stato quando dopo una settimana di
girovagare per la campagna, soffrendo la fame, la sete e il caldo, ci è stato annunziato
da una persona che veniva da Finale che gli americani erano finalmente sbarcati.
Allora mio padre stese sull’imboccatura del pagliaio dove eravamo rifugiati un
quadrato di tela bianca in segno di arresa. Ma, quale fu la nostra amara sorpresa nel
trovarci improvvisamente davanti due esacerbati soldati tedeschi in ritirata, i quali
con il mitra in mano ci hanno inveito nella loro lingua puntandocelo
minacciosamente in faccia. Allora mio padre persona molto sensibile, capita
l’antifona, tolse immediatamente quel quadrato di tela bianca giustificandosi che
altro non era che un pannolino messo ad asciugare e indicò appunto un neonato che
fortunatamente una madre teneva fra le braccia. Con l’aiuto del Buon Dio i due
tedeschi si allontanarono farfugliando e così noi fummo tutti salvi. All’imbrunire
siamo giunti finalmente a Pollina, un paesino arroccato a circa 800 metri, dove
abbiamo ricevuto una calorosa accoglienza da parte del Sindaco amico di mio padre e
da parte di tutti gli abitanti. E fu proprio a Pollina che ho visto i primi soldati
americani che non sembravano affatto soldati invasori, ma dei veri liberatori perché
si distinguevano per la loro gentilezza, umanità e generosità verso la popolazione. E
fu a Pollina che bambina piena di contentezza ho potuto portare la prima sigaretta di
buon tabacco a mio padre che insieme ad altri aveva fumato persino le foglie di
melanzane. Avvenuto lo sbarco degli americani che ormai chiamavamo alleati, mio
padre ha indossato di nuovo la divisa, ha ripreso il suo servizio e siamo venuti a
Cefalù e ricordo un momento molto emozionante, quando mio padre con la fascia
bianca al braccio con le lettere P.M. dal balcone del palazzo Comunale insieme al
Maggiore degli alleati ha annunciato a tutta la popolazione che finalmente si poteva
macinare di nuovo il grano. Io vivo a Cefalù dall’età di nove anni, qui ho continuato
gli studi; a Cefalù mi sono sposata, qui sono nati i miei figli e nipoti, qui ho insegnato
e così che considero Cefalù non la mia seconda patria, ma la mia vera terra.
Una mia personale considerazione sulla guerra è quella che ogni guerra ha due facce,
per chi la vive veramente può sperimentare la faccia del dolore, della distruzione,
della desolazione, ma anche quella della speranza, della ricostruzione e quella più
importante di saper forgiare l’uomo facendolo diventare più comprensivo e rispettoso
verso DIO e verso il prossimo.
Con la famiglia sono stata costretta a rimanere a Cafalù, perché pochi giorni prima
dell’entrata degli americani, la nostra casa di Catania è stata distrutta da un terribile
bombardamento.
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ASPETTANDO LEI
dI AGOSTINO MOSCATO
L’acqua della doccia cade sul mio corpo come una pioggia primaverile, è calda,
scorre velocemente dalla testa ai piedi dandomi una sensazione di benessere su tutte
le membra stanche. Mi piace soprattutto sentire l’acqua sulla testa e sulla schiena, mi
rilassa in modo straordinario dopo una giornata faticosa, stressata dal frenetico ritmo
della vita quotidiana.
Quando faccio la doccia non penso a niente, rimango concentrato indugiando sulla
calda pioggia che bagna ogni piccola parte del mio corpo e, come un fiore che viene
innaffiato dopo tanto tempo, mi rivitalizzo sentendomi addosso una piacevole
sensazione di freschezza.
Adesso il mio corpo sembra immerso in una fragranza di freschi odori che mi fa
sentire veramente pulito. Mi sono lavato così a lungo da percepire la netta sensazione
di aver reso tersa anche la mia anima! Certo sarebbe troppo semplice sbarazzarsi
delle colpe che albergano dentro di noi con un getto d’acqua.
Guardo l’orologio e, nel silenzio assoluto in cui è avvolta la stanza, riesco a sentire il
rumore della lancetta dell’orologio che scandisce i secondi, ho l’impressione di
percepire il divenire del tempo. Nella mia mente il tempo si concretizza e riesco a
vedere i secondi che vivono, transitano nel mio corpo e li identifico. Pura
immaginazione!
Mi muovo nella stanza nell’impaziente attesa che arrivi Lei, da tanto tempo aspetto
questo momento! Probabilmente l’agitazione dell’attesa mi fa vedere il tempo.
Manca ancora mezz’ora al nostro appuntamento, mi sembra un’infinità, giro per casa
senza sapere che fare, anche perché non riuscirei e non potrei far nulla.
Quando aspetto Lei avverto un buco nello stomaco e non riesco a compiere nessun
gesto sensato, mi accingo a leggere e ottengo solamente un tremolìo della gamba,
solitamente la destra, sfoglio le pagine senza neanche guardarle.
L’unica cosa che riesco a fare è mangiare, in questi momenti mangerei senza
interruzione, è come se il cibo riesca riempire il vuoto che ho dentro lo stomaco reso
sempre più profondo dall’emozione. Non posso mangiare del formaggio, tra poco Lei
sarà qui e magari sente il puzzo caprino nelle mie labbra impregnate da quel pezzo di
pecorino che ho dentro il frigorifero. Meglio evitare, è il primo incontro a casa mia e
non vorrei dare l’impressione dello zotico. Potrei mangiare della frutta, ma no, è
meglio di no, sarebbe conveniente bere qualcosa di fresco in modo da lasciare l’alito
profumato e farglielo sentire quando i nostri volti saranno molto vicini, ecco bevo
subito un bicchiere d’acqua e anice così mi sento completamente a posto.
Sono già le sette e ancora non suona il campanello. Non posso pretendere che arrivi
puntuale, è sempre una donna, qualche minuto di ritardo si può concedere. C’è un
problema, io sono da solo e non so più cosa inventarmi per trascorrere il tempo che
mi rimane prima di poterla rivedere. Questo è l’unico caso in cui ho paura di stare da
solo, la solitudine incombe minacciosa schiacciandomi in uno stato di abbandono in
cui mi riverso nell’indugiare.
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Solitamente sto molto bene da solo, è un momento di riflessione, di introspezione,
ricercare la propria essenza per poi essere sicuri di poter incontrare altri simili senza
nessuna preoccupazione, con serenità e senza timore dell’altro.
Ma in questi momenti terribili non ho nemmeno la forza di produrre semplici
pensieri, la mia mente si svuota ed è lo stesso vuoto che mi ritrovo nello stomaco, ed
è la stessa emozione di sempre, quella che mi coglie allorquando devo incontrarmi
con Lei.
L’orologio, incurante delle mie smanie, continua senza tregua a scandire i secondi, i
minuti che mi sembrano un’eternità. È già in ritardo di dieci minuti, più si avvicina il
momento del suo arrivo, più il mio buco nello stomaco diventa una voragine. Mi
sforzo di pensare a qualcosa di diverso, la mia fantasia non è molto feconda, questi
istanti tormentati annullano la mia creatività, così l’immaginazione mi conduce a
dipingere con i pennelli della memoria un suo ritratto.
La mia fantasia si ferma immediatamente sui suoi capelli, sono neri come una notte
senza luna, lucenti come un diamante colto da un raggio di sole. Sono belli i suoi
capelli, morbidi e sinuosi, toccandoli si ha la sensazione di accarezzare fili di seta
pregiata. Anche i suoi occhi sono luminosi, il colore delle pupille è comune a molte
persone, ma la luminosità no, è come se avesse una lucciola per ogni occhio che mi
incanta quando il mio sguardo incontra il suo. La bocca è piccola contornata da
labbra vermiglie delicate come petali di rosa.
È strano, ricordo benissimo ogni particolare del suo volto, ma non riesco a mettere
insieme tutti i dettagli per immaginarmi il volto nella sua compiutezza. È come se un
pittore sa dipingere benissimo singolarmente il naso, la bocca, gli occhi e non è
capace di dipingere integralmente un volto. Cerco di capire il perché mi succeda un
fatto così strano, eppure la vedo ogni giorno, la riconoscerei confusa tra mille
persone, ma la mia fantasia riesce solamente a cogliere piccoli particolari frazionati.
Sono trascorsi solo pochi minuti, credevo che il tempo si consumasse più in fretta
pensando alla bellezza del suo viso, ma i miei pensieri non riescono a colmare
l’ansiosa attesa.
Allora percorro con la mente, è un esercizio che faccio spesso, il tragitto che Lei
potrebbe fare per arrivare qui da me, calcolo tutti i tempi impiegati nell’ascensore,
nel prendere la macchina. Mi vieni facile immaginare tutte le vie che potrebbe
imboccare, ad ogni strada conto i secondi necessari per percorrerla, ecco adesso sono
arrivato qui dietro l’angolo, sento una macchina che si avvicina, deve essere Lei, mi
affaccio alla finestra e con grande delusione scopro che non è la sua macchina, devo
aver fatto male tutti i calcoli di percorrenza. Ricomincio, la paranoia sta prendendo il
sopravvento, soffermandomi qualche secondo in più lungo tutto il tragitto, magari c’è
un po’ di traffico che l’avrà fatta ritardare. È un modo, questo, per tentare di
ingannare l’emozione, sono talmente concentrato sul percorso che deve fare per
venire a casa mia che non sento più il vuoto nello stomaco. Ad ogni rumore di
macchina, però, ho un sussulto, e la profondità che ho dentro si dilata sempre più.
Eccola, è arrivata sta scendendo dalla macchina, scorgo una gonna gialla e nera che
copre fino ai ginocchi le sue bianche gambe, una camicia di un giallo molto luminoso
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come il grano rischiarato dal caldo sole di giugno. Il nero dei suoi capelli è interrotto
da un fermaglio a forma di fiore anch’esso giallo come la camicia.
Sento il battito del mio cuore acquistare un’accelerazione inconsueta che dal petto mi
sale fino alla gola, l’emozione fa fremere tutto il mio corpo, blocca le corde vocali
con la paura che non possano vibrare al momento opportuno.
Sta per suonare il campanello della porta, il suono elettrico ormai familiare diventa
un frastuono insopportabile per le mie orecchie. Sono attimi in cui non si può pensare
a niente, la morsa dell’emozione ti restringe la mente lasciandoti un piccolo spazio
dove si possono percepire gli stimoli più semplici.
Inspiro profondamente, come se dovessi affrontare un esame difficilissimo, ed apro
la porta. Occhi chiusi, come quando faccio un tuffo al mare, li riapro
contemporaneamente all’apertura della porta, Lei, finalmente, davanti a me, i raggi
del sole che le restano dietro illuminano la sua immagine rendendola più bella e più
allegra. I colori dei suoi vestiti sono resi più vivaci dal chiarore del giorno che sta per
andarsene.
Il tumulto del mio cuore sembra ormai placarsi, lentamente la frequenza cardiaca
torna alla normalità, il vuoto nello stomaco, come d’incanto, colmarsi nel momento
in cui guardo i suoi occhi così intensi, così iridescenti.
Con un sorriso di complicità si avvicina lentamente, mi saluta offrendomi le sue
labbra regalandomi un tenerissimi, caldo bacio.
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L’INCONFESSABILE ALEGGIA SUI TRENI
dI KATIA OLIVIERI
Sedersi in un antiquato vagone del treno Roma-Pescara con la vaga illusione di poter
leggere, in tutta tranquillità, una rivista interamente coniugata al femminile, fu
praticamente impossibile.
Mi sedetti, sì, con quest’illusione presto infranta, visto che, accanto a me, sedeva uno
sconosciuto che non aveva l’aria di rimanere tale.
“Cosa legge di bello,signorina?”
Di malavoglia mostrai la copertina. Ma la mia seccatura non apparve affatto palese,
dal momento che lo sconosciuto, di cui vi ho poc’anzi detto, si dette subito da fare
per ficcare il suo naso dappertutto.
Le sue grosse nari respiravano en plein air su tutta la campagna della pagina ventitrè.
E non smise di respirare neppure quando voltai pagina;anzi, il respiro parve farsi
ancor più beato non appena intravide una ragazza, alla cui vista gli saltarono gli
occhiali, quasi gli fossero d’impaccio, impedendogli di baciarla.
“Uhm, graziosa, eh?”
“Eh, già!”
“Le somiglia,sa?”
“Trova?” domandai. Non l’avessi mai detto!
“Tanto tempo fa”, disse, “mi capitò d’incontrare una così”.
Ma l’inflessione grave di quella mi diede una sensazione tutt’altro che superficiale.
Non soleva trattarsi d’un fatterello. Pensai. L’inconfessabile aleggia sui treni.
“L’ho amata tanto” disse.
Dal finestrino sfrecciavano i pini, e qualche dispettoso cipresso non mancava di
gettare nel marasma la tranquilla misura del verde. Una casa e poi un’altra stavano
impiccate sopra un cucuzzolo, soleva trattarsi d’un paese: un traballante paese che si
reggeva sopra le eliche del vento. In mezzo alla straordinaria e confusa vegetazione
s’affacciavano e si nascondevano talune timide code d’acqua.
“E poi”, gli chiesi, sollevando lo sguardo “com’è finita?”
“Se n’è andata.”
Sotto la rupe, una donna si dileguava come un ruscello, scompariva insieme allo
sguardo dell’uomo, d’una sfumatura che non saprò mai dire.
“Era mia nuora” disse,qualche istante dopo. “La moglie di mio figlio.”
Il treno correva imperterrito divorando cielo, case e qualche cipresso; il treno correva
ossequioso alla sua legge; il treno correva senza mai fermarsi.
Parlava di lei, di lei che lo aspettava davanti ad un negozio di scarpe, in un’altra
località, con due grandi occhi chiari, due occhi che fendevano il buio: tutto il resto
stava sotto una sciarpa; o sotto un foulard, quando le sferze dell’inverno erano
passate.
“Anche lei mi amava” disse.
Il treno correva senza accennare a fermarsi. Correva. L’uomo ebbe tutto il tempo di
lasciarsi ai suoi inconfessabili ricordi, finché mi resi conto d’esser arrivata.
Una voce femminile annunciava l’arrivo alla stazione d’Avezzano.
“Ora le donne sono arruolate dappertutto” dissi.
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“Già” rispose.
Ci salutammo di quell’addio che osa pronunziarsi solo nello sguardo. Misi un piede
sul predellino, anzi lo saltai. Ero sulla banchina.
Un fischio, e il treno riprese a correre con l’uomo e il suo segreto. A me non restava
neppure il nome. Un uomo di cui tutto sapevo, senza conoscerlo. Chi mai avrebbe
potuto giudicarlo? Io non mi sentivo proprio di farlo.
Era meglio salire su un treno ch’entrare in chiesa, pensai. Si può essere di carne e
ossa. E si può essere anche innamorati. Non c’è penitenza.
Una donna anziana sedeva ad un a panchina. Dietro, il grande orologio segnava le
dieci. La donna mi stava a guardare con tutta l’immobilità dei suoi occhi, pari alle
lancette dell’orologio, non si muovevano neppure d’un secondo.
Era lì, ferma, quell’anziana signora perbene, e nessuna supplica valse a far partire un
treno.
Un’ora sola restava prima che iniziasse lo sciopero.
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VERDEFOGLIA E IL PIRATA JOUNNO
dI GIUSEPPE SETTEMBRE
C’era una volta, un villaggio pacifico ed ospitale che stava festeggiando con gioia la
nascita di una principessa.
Il re Atomp camminava impaziente alla due estremità del salone reale del suo
castello in cui attendeva al suono del vagito della bambina; alle sue spalle, una porta
lo distanziava dalla camera da letto dove la moglie regina, Slitta, partoriva gemendo
dolori con urli.
La sua impazienza ebbe fine quando la porta si aprì ed uscì una delle sue dame che
sorrideva lanciandogli sguardi,<< E’ nata!>> esclamò esausta ma felice; il re
cominciò a sorridere e corse incontro alla moglie lasciando tutti alle sue spalle, era
così felice, la sua felicità aumentò non appena vide la bambina, era talmente bella che
tutti i presenti piangevano di gioia.
<<Che bella bambina nostra figlia!>> esclamò il re senza distogliere lo sguardo dalla
figlia che sorrideva <<Grazie per avermi dato la bambina>> spostando lo sguardo
verso la moglie che gli accarezzava i suoi lisci capelli <<A proposito come la
chiameremo?>>
<<Verdefoglia>> rispose prontamente la moglie regina sorridendo <<Quando stavo
partorendo, mi è caduta questa foglia verde>> mostrando una foglia ancora viva
<<Proviene da quell’albero vicino alla finestra>>indicò con l’indice un grosso albero
che lanciava ombre e alcuni tratti dei raggi solari che abbagliavano la camera da
letto.
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Dalla nascita della bambina principessina, Verdefoglia, decise di avventurarsi nei
boschi situati a nord – est dal castello che al momento brillava abbagliato dalla luce
dei raggi solari.
Verdefoglia cantilenava allegramente salutando tutti i cittadini che come ogni giorno,
vendevano e compravano la merci, la quale la ricambiavano con inchini gentili e
sorrisi di cuore.
Tutti rispettavano la famiglia reale per il loro buon rapporto con il popolo,
governavano con giustizia e uguaglianza.
All’entrata del bosco, si fermò per respirare aria pura e godersi tratti del panorama, il
suo volto era ancora più bello con il rossore apparso sulle sue guance.
<<Come si sta bene qui!>> esclamò Verdefoglia respirando allegramente <<Spero
che sarà sempre così>>
Presto riprese il suo cammino ed entrò nel bosco,molti animali la osservavano ad
ogni suo passo leggero e molte piante frusciavano spinte dal vento la quale
fischiettavano dolci melodie naturali.
Giunta al centro del bosco, Verdefoglia si sedette davanti al lago che era in mezzo al
bosco la quale al suo centro, una colonna altissima erogava dell’acqua bella fresca
che proveniva da altissime montagne.
<<Ora canterò un pochino la mia canzone preferia>> disse tra sé Verdefoglia, si
avvicinò alla riviera del lago per specchiarsi il suo bel volto la quale appariva come
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una gemella fosse davanti a lei sorridente, stava per cantare, ma presto fu bloccata dai
gridi che provenivano dal suo villaggio.
<<Che succede?>> si domandò tra sé mentre si alzava per vedere, il villaggio distava
a pochi passi, ma una voce maschile lo aveva bloccata.
<<Dove vai? Ci sono dei pirati che stanno assediando il tuo villaggio, è pericoloso
avventurarsi da sola>> esordì una voce maschile alle sue spalle,era così leggera e
gentile.
Verdefoglia si voltò spaventata, i suoi occhi erano puntati nella mano del giovane che
teneva saldamente la sua spada lucida che rifletteva il suo volto, si trattava di un
ragazzo di circa ventenne vestito da pirata <<Siete dei……>>fu bloccata dal pirata.
<<Calma!Calma!>> rassicurò il pirata <<Io sono il pirata Jounno e non sono come
altri pirati, faccio parte di una ciurma dei pirati giovani di cui sono il capo che non
miriamo a saccheggiare i villaggi o a rapinare il prossimo, ma siamo pirati per
avventura e passione>> presto emise un fischio che alle sue spalle apparvero cinque
giovani vestiti da pirati, erano due ragazzi e tre ragazze <<Questi sono Mattiop,
Clofono, Itella, Materatana e Rossennata>> indicando il resto della sua ciurma
<<Sono i miei amici che si avventurano per i mari con me, ovvero appassionati di
pirateria come me>> e rise divertito.
<<E tu ti chiami?>> concluse rivolgendosi alla principessa che si era calmata.
<<Verdefoglia>> rispose la principessa <<Sono la principessa del villaggio che
stanno assediando>>
<<Stai tranquilla>> rassicurò Jounno <<Siediti che ti dovremo tante spiegazioni>>
Tutti si erano seduti intorno ad un falò che abbagliava i loro volti.
<<Noi eravamo in un isola e mentre mangiavamo in una locanda, sentimmo da alcuni
pirati della ciurma Piratutto, i più temibili e malvagi dei pirati che mirano solo ad
arricchirsi mirando soprattutto a saccheggiare i villaggi e a rapinare il prossimo, che
avevano pianificato di assediare il tuo villaggio e sapendo che il vostro villaggio è il
più pacifico di tutti, decisi di seguirli per difendervi >> esordì Jounno senza
interruzioni.
<<Quindi domani ti aiuteremo a liberare il tuo villaggio>> disse Rossennata
sorridendo.
Il giorno seguente pioveva a dirotto, il cielo era coperto da nuvoli grevi che avevano
preso il posto della bella giornata.
Verdefoglia, Jounno e company erano scesi al villaggio, tutto era stato distrutto, i
cittadini lavoravano da schiavi e molti pirati controllavano le postazioni.
<<Sono molti>> osservò Verdefoglia a Jounno che continuava a osservare il
villaggio <<Come facciamo?>>
<<Ora vedrai come facciamo>> rispose Jounno sorridendo <<Prima di arrivare qui,
avevo attuato un buon piano, ricordati che pur essendo in maggioranza il nemico,
basta attuare un buon piano che lo si possa vincere pur essendo in minoranza>>,
<<Andiamo>> ordinò alla sua ciurma ordinando a Verdefoglia di r rimanere al suo
posto senza fare nulla.
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Come previsto da Jounno, la sua ciurma pur essendo in minoranza, si era mostrata
più forte ed era riuscita a battere molti pirati cattivi e a liberare i cittadini e i soldati
reali.
Dall’altra parte, improvvisamente Verdefoglia scomparve dal suo posto e si ritrovò
nella sala del trono del castello di suo padre e davanti un pirata anziano con la barba
grigia, Ogriggo, il capo dei pirati della ciurma Piratutto, si avvicinava per
imprigionarla; intorno c’erano altri pirati e una strega che saccheggiava <<Sei la mia
prigioniera>> rise Ogriggo con l’eco delle risate di altri << Se Jounno crede di
fermarmi, si sbaglia di grosso>> e mostrò il re e la regina incatenati che pregavano
lasciasse la loro figlia.
<<Papà! Mamma!>> gridò Verdefoglia guardandoli di continuo, era stata legata
anche lei.
Fortunatamente presto il portone della sala del trono si aprì ed apparvero Jounno con
la sua ciurma, i cittadini e i soldati che erano stati liberati, erano tutti pronti per lo
scontro finale che avrebbe portato fine ad Ogriggo.
<<Verdefoglia?>> spiò perplesso Jounno <<Come mai sei qui?>>
<<La mia cara strega, Streghino, l’ha teletrasportata>> rispose Ogriggo altero
<<Ti conviene fermarti ed arrenderti o ucciderò Verdefoglia>>
<<Lasciala>> ordinò Jounno.
<<Oh!Oh! a coraggio questo piccolino>> mimò Ogriggo e rise così forte che altri
indietreggiarono un po’ tappandosi le orecchie.
Ma, Verdefoglia diede un colpo sullo stomaco ad Ogriggo che essendo distratto dal
dolore, Jounno lanciò la sua spada uccidendolo.
Così il villaggio si era ripreso la libertà ed era ritornato come sempre; e i pirati
d’Ogriggo erano stati portati nelle prigioni con lavori forzati.
Il re e la regina diedero onore a Jounno e alla sua ciurma che divenne parte del
villaggio e la principessa Verdefoglia si sposò con Jounno dove vissero tutti felici e
contenti come il resto del villaggio.
THE END
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CRONACA ANONIMA DI UNA TRAGEDIA
dI LUIGI SCORSONE
Come spesso accadeva riuscivo ad estraniarmi dalla realtà circostante, non mi
trovavo nel mio paese e come ad ogni viaggiatore tutto avrebbe dovuto interessarmi,
eppure trascorsi le mie vacanze in quell’albergo di periferia scelto per caso. La
stanza era per me come un immenso batuffolo di cotone, i rumori giungevano attutiti
e di ciò che accadeva fuori nulla m’importava. L’unica realtà erano le mie riflessioni
sul caso, perché mai io che ero fuggito da ogni responsabilità avrei dovuto
interessarmi alle vicende di quel paese straniero? Di notte ottemperavo meticoloso e
solerte ai miei doveri di turista, vivo e buon cibo, musica e belle donne, questa era la
degna cornice che riempivo di me stesso.
La notte è come un giorno all’incontrario con meno persone e con la luna al posto del
sole, la tenue oscurità che ai più concilia i sogni permette ad altri di vivere la propria
vita. Tanta era la mia dedizione a queste abitudini che alla vita che mi pervadeva di
notte si contrapponeva nell’ozio delle ore diurne un’apatia che avvolgeva corpo e
mente con la quale sprofondavo in un profondo sonno. Avevo dovuto ricorrere alla
sveglia per alzarmi al calar del sole per iniziare la mia “giornata”, che bello pensai
essere sufficiente a me stesso tanto il mondo è così grande che non ha proprio
bisogno di me. Un brutto giorno la sveglia si ruppe e suonò con rumore di mille
petardi intercalati da acute sirene che si conficcavano come aculei nel mio cervello.
Portai le mani alle tempie cercando di coprire le orecchie ma il rumore non
accennava a smettere, così con un gesto di stizza scagliai la sveglia lontano da me.
Tentai di addormentarmi ma tutto fu vano ormai l’idillio era lacerato, mi alzai e
vestendomi notai che la sveglia era finita fuori dalla finestra e cosa strana c’era del
vetro anche all’interno della stanza. Uscendo dall’albergo osservai che quel luogo di
giorno era simile ad un contenitore vuoto, non c’è niente di più squallido di un posto
dove la gente dorme soltanto senza vivervi. Uscire all’aperto fu per me un trauma, il
sole è un giudice severo verso chi a lungo si sottrae alle sue udienze. Calai il cappello
sulla fronte scrollando le spalle come colui che si rifiuta di ascoltare il capo
d’imputazione preferendo che sia l’avvocato a riferirglielo. Dove andare era il
dilemma, poiché tutte le persone si dirigevano verso la stazione io decisi di andare
dalla parte opposta, andare dove gli altri non vanno per rimanere lontani dal mondo è
il modo migliore per non farsi coinvolgere in vicende che non ci riguardavano.
All’imbrunire arrivai in un parco, gli alberi d’inverno sembravano stringere a se le
poche foglie rimaste quasi a volerne conservare la vita nell’estremo tentativo di
proteggerle dal freddo.
Orrmai esausto decisi di fermarmi, la mia attenzione fu attirata da un bambino seduto
accanto ad un cumulo di giocattoli. Periodicamente giungeva al suo cospetto, credo si
trattasse dell’autista, che portava ogni volta un nuovo giocattolo “ Gradisce questo
signorino?” Il bambino rispondeva caparbiamente “No!Deve essere uguale a quello
che questa mattina mio papà ha promesso di regalarmi”.
L’uomo rimaneva imbarazzato, alzava gli occhi al cielo allargando le braccia e con
un sospiro prendeva il telefonino…..e poi rimaneva immobile. Un altro bambino
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giunse nel parco fischiettando, dai vestiti dignitosi ma non di certo lussuosi, egli
aveva le mani in tasca intento a cercare un fazzolettino di carta lindo e ben piegato,
trovatolo gli faceva compiere delle evoluzioni. “ Che gioco è” chiese l’altro bambino
incuriosito. “Non è un gioco, è il pegno che mio padre mi lascia ogni volta che riesce
a trovare lavoro e che io devo custodire e non sporcare per nessun motivo”. “Ma
come? Queste cose sono fatte per essere consumate e buttate”,“Mio papà dice sempre
che un fazzolettino pulito può sempre servire” , “ Sei strano, perché continui a
fischiettare?” Indugiando e abbassando lo sguardo rispose “Vorrei tanto avere un
flauto e nell’attesa che mio papà me lo comperi mi alleno a memorizzare motivi
musicali”, “Ma così sprechi fiato”, “No, coltivo la speranza per quello che la vita ci
può riservare da un momento all’altro”, “Tieni,questo giocattolo te lo regalo, oggi
questo servo sciocco ne ha comprati due uguali”.”Grazie cosa posso darti in
cambio?” “Niente,aiutami a sopportare la noia mentre attendo mio papà, tieni anche
un po’ d’acqua bevi e fammi sentire qualche motivetto allegro”.
Il bambino si riempì la bocca d’acqua tanto da gonfiargli le guance, poi emise un alto
fiotto verso l’alto emettendo acqua e un sibilo modulato che somigliava alla sirena di
un treno a vapore, l’altro bambino scoppiò in una sonora risata. Egli aveva donato un
giocattolo ed era stato ricambiato con un sorriso. D’improvviso arrivò un’auto della
polizia, rallentando notarono la targa della macchina che attendeva il bambino dai
molti giocattoli, scese un’agente con un foglio in mano e chiamò a sé l’autista con il
quale iniziò a scambiare fraso concitate, così gli fu indicato chi tra i due bambini
fosse quello dei giocattoli. Intanto l’agente rimasto in auto si asciugava il sudore
nonostante si trattasse di una fredda giornata, giratosi verso il parco riconobbe il
bambino del fazzolettino, scese, si mise a correre verso di lui e lo abbracciò.
Ora i due agenti si trovarono di fronte ai due bambini ma nessuno osava parlare,
l’autista si era appartato e fingeva di pulire il vetro della macchina. Uno strano
silenzio che né i versi degli uccelli né il vento osavano rompere, solo qualche foglia
cadeva dai rami degli alberi, ondeggiava nell’aria e arrivata sulle foglie secche, che si
trovavano per terra, sembrava volersi scavare un posto per essere più vicino alla
terra, per venire coperta da chi gialla e secca lo era da tempo.
Sopraggiunse una donna dal passo incerto e con il volto smarrito, guardò gli agenti
come chi giunto sull’orlo di un baratro girandosi guarda le orme lasciate dai suoi
passi pur avendo negli occhi solo l’immagine dell’abisso. Urlò “Me lo dovete dire
c’era anche mia figlia tra quelli uccisi dalla bomba!?” I due bambini all’unisono si
guardarono negli occhi, i bambini sono perspicaci anche quando non dovrebbero, a
volte come animati da una crudele forza riescono ad abbandonare il loro spensierato
mondo di fantasia per essere precipitati nel mondo dei grandi, ambedue senza che
nessuno gli avesse spiegato nulla compresero.
Il bambino dei giocattoli figlio di un’ispettore generale delle ferrovie che si trovava
su quel treno per verificare che arrivasse in orario, e il bambino del fazzolettino figlio
di un’operaio che alla stessa ora aveva preso lo stesso treno per il suo primo giorno di
lavoro. Trascinarono le gambe per quei pochi passi che li separavano con le lacrime
che scendevano per terra nel sordo rumore delle foglie infrante. Abbracciandosi si
strinsero l’uno all’altro come quelle poche foglie rimaste sui rami si stringevano agli
49
alberi. Si divisero l’unica cosa che gli era rimasta in mano, un fazzolettino di carta
lindo e ben piegato.
Rimasi turbato, si può essere in un paese ma non insensibili al dolore, mi chiesi
perché tutto questo era accaduto, avrei voluto davvero capire, avrei sacrificato vino e
buon cibo, musica e belle donne per dare un senso a quella vicenda. Gli agenti
andarono via insieme ai bambini, due innocenti che si erano conosciuti in una
tragedia, mi alzai e avviandomi verso l’albergo riflettevo; forse quei due bambini
erano venuti al mondo per un caso o forse per un consapevole atto d’amore. Due
bambini così diversi resi orfani dallo stesso odio, non c’era senso in tutto questo, solo
l’assurda e tragica mano del caso. Mentre rincasavo si stava formando una
manifestazione di protesta spontanea contro l’attentato, mi dissero che ci sarebbero
stati “tizio” e “caio” esponenti prestigiosi di schieramenti politici e poi anche
“sempronio” e tanti altri…… Rimasi confuso, era una cornice troppo grande dentro
la quale mi sarei smarrito. La manifestazione, cosa giusta dissi tra me e me ma uno in
più o in meno non fa nessuna differenza e di certo la mia presenza non avrebbe
potuto porre rimedio all’accaduto…..ne tantomeno cambiare il mondo. Ritornai nella
mia stanza dove i rumori giungevano attutiti proponendomi di ripartire al più presto,
annotai che ogni giorno era preferibile spostarsi in aereo poiché non avevo mai
sentito di attentati sugli aeroplani. Non conobbi mai le complicate vicende socioeconomiche e geopolitiche che avevano fatto da sfondo a quell’attentato, mi limitai a
scrivere sul diario “Oggi attentato al treno, sveglia rotta e vetri infranti da pagare”
prima di fare le valigie mi avvicinai alla finestra per togliere il vetro che si trovava
per terra, guardando distrattamente fuori rimasi impietrito…..Dalla finestra potevo
vedere tutto quello che era accaduto, oh Dio com’era vicina quella stazione alla mia
stanza!!
Madrid
11 marzo 2004
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SONO UN ASSASSINO
dI LENIO VALLATI
Le condizioni necessarie si erano concretizzate. Non restava altro da fare che partire.
Mi trovavo nel mio appartamento. Cucina, camera e un piccolo ripostiglio. Solo.
Seduto al tavolo di cucina davanti a una lattina di birra gelata. Il frigo aperto. Lo
chiusi con una pedata. Poi aprii il cassetto del tavolo e controllai che ci fosse tutto. La
mia pistola se ne stava sul fondo, come rettile, seminascosta da un panno nero. Mi
stava aspettando. C’era anche una busta gialla con dentro una foto. A mezzo busto. E
un biglietto con un indirizzo, hotel Trieste, via Donizetti 32. E una data, 18 luglio.
Domani. Ripresi la foto e me la rigirai tra le mani, osservandola fin nei minimi
particolari. Erano cinque giorni che non facevo altro. Sono un killer professionista,
ben pagato per uccidere chiunque mi venga indicato. Non ho mai fatto domande. Ho
ucciso e basta. Si è sempre trattato di tipi poco raccomandabili, di veri delinquenti.
Bastava guardare le loro facce! Dopo ogni esecuzione scoprivo, leggendo i giornali,
che si trattava di uno stupratore, di uno spacciatore oppure di uno strozzino. Uno
vende l’eroina a tuo figlio, lui muore per un’overdose e tu che fai? Oppure ti violenta
la figlia. Aspetti paziente il percorso della giustizia? No, se puoi, se hai i soldi, te la
fai da solo. Paghi uno come me, un killer appunto. Lo so che sono un delinquente
anch’io, ma questo è il mio lavoro. Non me lo sono scelto. Uno se lo trova addosso,
come un vestito fatto su misura. Comunque io uccido per denaro,e tipi che non
meritano di vivere. Non sto cercando di giustificarmi, ma non sono un assassino.
Forse sono un giustiziere, uno che contribuisce senza volerlo a ripulire questa zozza
società dall’immondizia che non si riesce altrimenti ad eliminare. Ma questo tizio
della foto era diverso. Mezza età, lineamenti regolari. Capelli spruzzati di bianco.
Occhi grandi da buon padre di famiglia sotto spesse lenti. Ben curato, ben vestito,
giacca e cravatta. Serio. No, non era uno dei soliti delinquenti. Ma perché lo dovevo
uccidere? Non lo sapevo. Ero pagato per farlo e basta. Non dovevo fare domande.
Qualche giorno prima non avevo comunque resistito alla curiosità. Così avevo
telefonato a Lorenzo. Lo so, ero stato uno sciocco. Nel mio lavoro non bisogna mai
lasciare tracce. “Pronto, Lorenzo?”. “Ma perché diavolo mi telefoni? Non hai tutte le
istruzioni?”. “Certo, ma volevo sapere il motivo per cui debbo uccidere il tizio della
foto”. “Non lo so neanch’io. Tu fallo e basta. E non telefonare più, intesi?”. Presi
un’altra birra dal frigo. La bevvi avidamente, ma lentamente, assaporandola goccia a
goccia. Poi indossai la giacca, cercai la pistola e la misi nella tasca destra. La foto e
l’indirizzo in quella sinistra. Mi alzai per uscire. Destinazione hotel Trieste, all’altro
capo della città. L’indomani mi sarei alzato molto presto. Alle sette. Sarei sceso e
l’avrei aspettato, nascosto dietro un’edicola di giornali. Non appena lo avessi visto
passare l’avrei ucciso. Tutto calcolato. Fin nei minimi particolari. Di lui sapevo solo
il nome. Si chiamava Vittorio Bartolini. Non sapevo altro. Neppure che mestiere
faceva. Neppure l’età. Improvvisamente suonarono alla porta. Chi poteva essere alle
nove di sera? Nascosi la giacca e il suo contenuto nell’armadio della camera da letto.
Andai ad aprire. Era Martina. “che ci fai tu a quest’ora?” dissi, cercando celare una
punta di stizza. “Sono venuta a trovarti, non ti fa piacere?”. “Certo” le dico, “entra”.
51
Martina aveva appena vent’anni. La conoscevo da poche settimane. Era successo
tutto in un bar a due chilometri da casa mia, all’ora di pranzo. Mi viene di fronte.
Capelli a baschetto, nerissimi, un largo sorriso. Lo zainetto stracolmo di libri
abbandonato in un angolo. Mi chiede se per caso ho da cambiarle cinque euro. “Non
so”, faccio io, visibilmente impacciato. “Ci guardo”. Era evidente che si trattava di
una scusa. Tiro fuori il portamonete, ma rovescio goffamente il suo contenuto sul
pavimento. Lei ride divertita, e mi aiuta a raccogliere i centesimi che si erano
insinuati tintinnando tra le sedie. I nostri sguardi si incrociano. “Come ti chiami?” le
domando . “Martina”. “Martina come?” “Non ti basta?” mi rispose lei ridendo. Le
offrii un caffè. Poi ci rivedemmo il giorno dopo sempre al solito bar. Poi fissammo
per la sera seguente a casa mia. Da quel giorno Martina è entrata nella mia vita.
Accontentandosi delle briciole di tempo che le lasciavo. La compagna ideale per un
killer. “Che mestiere fai?” mi aveva chiesto soltanto. “L’operatore di borsa” le
risposi. Lì per lì non mi era venuto in mente altro. Ebbi l’impressione che ci avesse
creduto. Spesso veniva a trovarmi, la sera. Ma se le dicevo che avevo da fare se ne
andava senza fare storie. Passavamo insieme ore deliziose nella mia camera.
Cucinavamo insieme, divertendoci un mondo. Poi facevamo l’amore. Fino all’alba.
Finché il sole non si insinuava da una scolorita persiana illuminando la mia piccola
stanza. Martina era entrata nella mia vita con tutta la sua frizzante gioventù. Era un
fresco ruscello di montagna che scorre allegro tra campi riarsi. O un sorso di
spumantino frizzante nella mia opaca vita di tutti i giorni. “Martina, ti prego, stasera
ho un terribile mal di testa”. Le dico dopo averla baciata teneramente sulle calde
labbra. “Ma mi mandi già via?Non mi vuoi?”. “No, che dici! E’ che ho avuto una
giornata terribile e domani mattina debbo alzarmi prestissimo…”. “Okay! Me ne
vado!” Martina è così. Mi abbraccia teneramente, mi bacia a lungo e se ne va. Senza
chiedere altro. Senza domandare perché. Scese soltanto le scale con l’aria di un
bimbo imbronciato al quale sia stato appena tolto un giocattolo. Aspettai qualche
minuto. Che non ritornasse. Poi uscii anch’io. Dopo aver preso due autobus arrivai
davanti all’hotel Trieste. Come supponevo era di infimo ordine. Due stelle ed
evidenti screpolature sulla facciata. Salii nella mia camera prenotata cercando di
farmi notare il meno possibile. Non prima di aver acquistato tre birre al bar
all’angolo. Faceva caldo. Molto caldo. Evidentemente l’impianto di aria condizionata
non funzionava. Ammesso che ci fosse. Mi distesi sul letto vestito. Mi sbottonai il
colletto della camicia. Il tizio della foto mi stava facendo impazzire. Andai più volte
in bagno a rinfrescarmi. Aprii una birra. Perché debbo ucciderlo? Bevvi avidamente.
Riguardai la foto più volte. Me la rigiravo tra le mani. Mi scolai tutta la lattina e ne
presi un’altra. Faceva un caldo terribile. Mi sorpresi a scendere le scale e a chiedere
un elenco del telefono alla signorina della reception. Batoli………Bartolini…ecco,
prof. Vittorio Bartolini. Forse un insegnante. Lo vogliono uccidere perché ha
bocciato qualche alunno? Assurdo. Ormai non connettevo più. Mi sorpresi a
comporre un numero di telefono. “Pronto? Parlo con il professor Vittorio Bartolini?”.
“No, sono la moglie. Chi lo desidera?”. Riattaccai prontamente. Dunque il tizio della
foto era sposato. Forse aveva anche dei figli. Ci doveva essere un errore, senz’altro,
chi poteva volere la sua morte? Quasi quasi domani mi apposto, dicevo tra me, lo
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guardo bene ma poi lo lascio andare. Che cosa mi possono fare? Non mi daranno altri
incarichi, e allora? E’ l’occasione buona per lasciare questo dannato mestiere.
Sposerò Martina e mi troverò un altro lavoro. In fondo, ho solo dieci anni più di lei e
al computer ci so fare. Con queste intenzioni e con l’ausilio della terza birra riuscii a
dormire un paio d’ore. Al mattino alle sei e mezza ero già sveglio. Ormai ci ero
abituato. Come un cacciatore nel giorno dell’apertura. Mi lavai, mi cambiai, presi
solo la pistola. Scesi. In pochi attimi ero in strada. Girai l’angolo e mi ritrovai in una
piccola piazza. Era vuota. Mi appostai dietro all’edicola e attesi. Cinque, dieci
minuti. Eccolo, è lui. Lo guardai attentamente. La mia mano accarezzava la pistola.
L’uomo attraversava lentamente la piazza. L’andatura calma e serena dell’uomo
onesto. Che non deve temere niente e nessuno. L’avrei lasciato andare, molto
probabilmente, quando una ragazza corse verso di lui. Si sorrisero, poi si
abbracciarono teneramente. Il mio cuore dette un sobbalzo. Era Martina! In un attimo
credetti di aver capito tutto. Certo, il mandante era la moglie! Il lurido porco se la
intendeva con una ragazzina appena ventenne! “Vergognati!”, sentii gridare dentro di
me, mentre la mia pistola usciva dalla tasca destra della mia giacca e faceva fuoco.
Due, tre, quattro colpi. L’uomo si accasciò al suolo. Martina urlava. Nessuno mi
aveva visto. La piazzetta era ancora deserta. Scappai di corsa nella direzione opposta
all’hotel. Mi voltai. Nessuno mi stava inseguendo. Improvvisamente, presi a
camminare come niente mi fosse successo per due-tre chilometri. Entrai in un ber.
“Una birra ghiacciata!” Mi sedetti. Ero affranto. Pensai a Martina. Mi parve strano,
ma non la stavo odiando. Amavo quella ragazzina. Mi dissi che l’avrei senz’altro
perdonata. Un’altra birra. La trangugiai d’un fiato. Un’altra ancora. Poi mi trascinai a
piedi verso casa. Il telefono stava squillando. Senza tregua. “Pronto?”. All’altro capo
parole spezzate da un pianto dirotto, inconsolabile. “Hanno sparato a mio padre! Me
l’hanno ucciso!” Ero diventato un assassino. Ma non avrei trovato il coraggio di
dirtelo. Di dirti che ti avevo ucciso il padre. Chissà per quanto tempo. Forse un
giorno ci riuscirò. E cambierò questo mestiere che mi sta troppo stretto, come un
vestito vecchio.
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POESIE
IN ITALIANO
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1° CLASSIFICATO
CRUCIANO ANTONIO RUNFOLA
PEPPINAEIDOS
Facta virumque cano, alma mater
Di quella creatura senza fama dai moti
Della vita nel silenzio riarso
Rivoluzionario rivoluzionato
Placato dal venereo abbraccio
N’ammurato di la so terra matri.
Peppino, re vichingo, osservavi
Le tue conquiste sudate, la lavorata
Distesa di terra spazzata
Dal vento indolente, indolente
Tu stesso finchè potevi, mentre
Ti sforzavi di perfezionare il Creato.
Si ti ergevi, finchè udisti
Nel silenzio la deflagrazione
Del tuo cuore che esplodeva.
Era il tuo sedicesimo lustro
E così ti accasciavi verso Terra,
La tua amata che ti abbracciava.
Vedesti la tua dimensione
Distorcersi, accartocciarsi, comprimersi,
contorcersi, stiracchiarsi, appiattirsi
in lunghe strisce piane roteanti in
Un vortice di bobine cinematografiche
Srotolate andanti dalle tue pupille al cielo.
Ti concentrasti, le ghermisti una ad una.
Nella prima sei un puero nelle braccia
Calde di tua madre, tuo padre
Ha una voce antica, inusuale, serena nella
Ristrettezza. L’aria è abbondante nel paese
Minuscolo, dimenticato da Dio.
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Poi, sotto la scure di oscuri malefici
Tua madre prega tuo padre di far
Aggiungere al prete un altro nome
Per confondere i maestri di alchimie.
L’asino sospira nella casa, tuo padre
Pensa alle elettriche luci d’America.
Nella seguente sei piegato sui ceci,
Faccia al muro, al maestro non piace il tuo
Puzzo di capre, la tua ostinazione.
Ma fra un attimo ti alzerai e tuo padre
Porterà latte al Maestro e te al pascolo
Ove ti insegnerà l’Alfabeto e ti erudirà.
A lu saluni di lu varberi lu signorottu
Quannu t’assetti e pigghi lu giurnali sfardatu
Ti rimprovera: “Talia stu strunziddu!
Leggi! Voli divintari qualcuno”.
Ti veni ‘ncontru, cu li mani ti spingi
Fora e: “Va talia li pecuri!” Ti grida.
Nell’altra striscia la tua casa sprofonda,
Sotto il peso dell’Ignoranza superstiziosa,
Della Malattia e della Morte, i tuoi cari
Fratelli muoino, tua sorella genera
Nazarena, una bimba senza nome, il ricurvo
Tuo padre ti chiama e poi muore.
Ecco appare la rossa bandiera del riscatto.
L’abbracci, la terra di tuo padre bruciata
Dal demone di tua sorella ti manca,
Il vuoto è in te, l’onore lo hai perduto.
Sull’autobus scricchiolante miri e brami
Quella terra tappezzata di canneti sparsi.
Lu to desideriu si leggi ‘na la to’ frunti
Vai giranno cu la bannera di li comunisti
“Compagni, vutati, pigghiamuni li terri
Abbannunati di li patruna”. Li campera
T’arrispunninu: “Vo’ la terra?
Va a Trivadduna e ti la ‘nsacchi”.
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Con la lotta e col miracolo è tua,
“La terra con le canne”, la lavori,
La fruttifichi, la fiorisci. Ivi ti stabilisci
Con tua moglie, li allevi i tuoi figli,
Il riscatto è compiuto. La terra
Origina il bene, La felicità. Non la cederai mai.
Il sole di buon mattino già ti trova
Nei campi. Le lotte adesso le guardi
In TV. Il sole allo zenit ti trova
Ancor curvo sui tuoi frutti. Tua moglie
Irosamente ti appella al desco.
Ti giri lentamente e vedi il paradiso.
Di nuovo la nemesi squassa casa tua,
La tua armoniosa bimba eroica ti lascia,
Le infermità ritornano tra i tuoi cari,
Il tuo vecchio cuore perde regolarità.
Consideri i tuoi discendenti e gioisci.
Nonostante la fatica, stai erto.
Non straziato piagato in un letto,
Ma alzato come un re nordico
Che guarda l’immenso campo
Di battaglia della Realtà, ti ha colto
Il decisivo colpo, il tuo cuore
E’ deflagrato per la insostenibile fatica.
Le strisce andanti verso il cielo
Adesso si diradano come nebbia
Inghiottita dall’oscurità. Le luci
Si spengono sulla tua Alba Longa
Prostrato su di lei, nella quasi oscurità
Girando leggermente la testa,
Con le ciglia pietrificate, l’hai baciata,
comu na mugghieri valenti e duci
Terra, amore mio, alma mater.
Idda ti detti sustentamentu,
Riparo, conforto, tranquillità
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2° CLASSIFICATO
GIOVANNA BONAFEDE
SORTILEGIO
Quale sortilegio
Puntella voracemente
La mia stella?
Chiosa d’un Karma
Non conosce ragione.
Quanto il maligno
ricamerà per me
sulla tela dell’infinito?
Cosa dovrò
ancora tributare
all’oscuro signore dei violini
per potere avere infine
la mia sorte?
Non ho più perle di sale
Da offrire in dono
E della mia sorgente
Sono secche le acque,
polveri di cielo
mi sotterrano i piedi
catene di ghiaccio
mi stringono le man
IL MIO ANGOLO DI CIELO
Il mio angolo di cielo
È qui
In questo niente
Di soffici parole,
che dispiegano chete
l’andar delle mie Moire.
Il mio angolo di cielo
È qui
Bandito a Nemesi,
sottratto al vento freddo,
qui Diana riposa e
Cartagine è lontana.
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ENLIL
Confusa, smarrita,
il freddo dentro
attraverso l’anima
inquieta.
Si aprono i varchi
dell’oblio,
Enlil scatena
la sua forza
incalzante, selvaggia
inarrestante.
Non risparmia
di Perseide la figlia
designata.
Vaga signora
di nero vestita
come tenebra
fulgente di sua vita,
traversa il mare,
piega il volere,
sfigura in pianto
il volto.
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3° CLASSIFICATO
ROBERTO MARZANO
UNA VITA DA POCO
Mani nell’aria,
scolpiscono
scie di spillo,
orridi sibili….
Improvvise
Micidiali, decise,
infliggono
al mio corpo
mortali offese……
Scappare!?
E dove mai, poi, ora?
Ho perso i miei fratelli,
non ho più la mia terra,
evapora
la vita…..
Vita, oh mia vita!
Appena assaporata
e già
ti sto perdendo…….
Vengono uomini urlanti
siam tutti fatti a pezzi!
La sola mia difesa,
unghie acuminate, vilipese, derise,
mi vengono amputate!!
Pian-piano,
strato a strato,
mi strappano la pelle,
il cuore mio scoperto,
persino preso a morsi….
Ormai non ho speranze
Il futuro mio è remoto……
Ma vale così poco la vita di un….
Carciofo?!?
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DOV’E’ FINITA LA POESIA?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita!?
L’avevo lasciata lì ieri! Evaporata…..svanita!
Vi prego ditemi dove se n’è andata!
L’aria già mi manca al pensier che sia sparita…
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita!?
Nel spaccar teste di manganelli ciechi che non trovano l’entrata?
O nel ripicchiarci sopra di altri tristi randelli che non trovano l’uscita?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita?
O, forse, nel folle carro-armato sparante al “bimbo-armato”
Di sassi polverosi
Che il giorno prima eran la sua stessa casa?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita?
Oppur sotto le macerie genovesi del
“Museo del Mar di Sangue Umano”
Dove giace chi mangiava tanto a pranzo (come da contratto),
Così da saltar la cena
E poter mandare il corrispettivo alla Famiglia Colgegya di Tirana…?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita?
Negli angoli della ragione, protervi sputi,
Mille foto, guinzagli, sacchi in testa, scope in culo,
torture assurde inflitte con piacere
e proiettili all’uranio, “democratici” saluti,
simpatici ricordi che pian piano fan morire?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita?
Nella “guerra preventiva” senza fine
Fiumi e fosse di lacrime d’argento
Navi piene di famiglie disperate
Bucato fin al cervello dente marcio cariato
E l’assenza di un fratello fatto a pezzi
Musiche cupe, neri fondali stesi…..?
Dov’è finita la poesia? Dov’è finita?
Forse nei meandri più oscuri del “Reparto Psichiatria”
Dove strappa le porte delle camicie di follia?
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Oppure , meglio, al “Reparto Cattiveria”
Dove non ci si fa scrupolo alcuno pur di passare alla storia….
…. Storie di miasmi inumane, ciuccia-sangue, banditi,
affamanti infami, bastonatori di mano…?!!?
Per favore ditemi dov’è finita la poesia? Dov’è finita!?
Si lo so che ogni tanto si riposa, non è che non ci sia,
Ma non per questo non mi struggo e mi dispero
Nella mia malinconia….
Lì dobbiamo fermare!
Si dovrà pur potere uscire da questo vortice di orrori
E riprendere a far poesie sugli uccellini e sui fiori.
CHIEDO SCUSA
Con l’anima urticata,
offesa,
scolopendra inviperita,
Chiedo scusa…
Ai bombardati
Corpi flosci nella polvere improvvisa
E alla signora affettata, sulle strisce,
la domenica mattina,
ancor mezza addormentata, poverina….
Chiedo scusa agli operai “Contratto-Special”
Veri funamboli del “circo” dei cantieri
Che stanno, finalmente, in posa per il telegiornale
Sotto un lenzuolo bianco e rosso…..
E alle barcate di disperati nottambuli
Che si giocano la vita a Lampedusa,
ai bambini gonfi di fame,
e alle loro mamme,
senza latte, senza denti
e senza pane,
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chiedo scusa!
Chiedo scusa a Bagdad e ai newyorkesi,
Dublino, Grozny, Bucarest e Falluja,
scusatemi a Guantanamo, Beslan e Gaza,
Come Genova, San Paulo, Bankok e nel Chiapas
E ancora ai siciliani, ai tibetani, ai sudanesi
E a tutti i dimenticati, da me per primo….
Chiedo scusa se,
malgrado l’assordante sottofondo dei vostri orrori quotidiani
continuo, comunque, a mangiare la mia cena
e chiede ai miei figli “Com’è andata a scuola?”
Chiedo scusa ma
Lo scorrere frenetico della vita
Non mi da tempo abbastanza
Per tamponare le ferite
E avere la forza di spegnere
Quel maledetto televisore-bombardiere
Anzi,
forse,
il far questo,
mi farebbe vergognare di più ancora!
Chiedo scusa ma non so se basti: sono molto, ma molto, confuso…….
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PREMIO SPECIALE DEL PRESIDENTE DELLA
COMMISSIONE
CARLA CAVALLO
A UN PADRE
E come puoi dirti padre
Se l’ardore d’amore
Di chi hai generato
Affoghi nell’insofferenza,
e come pretenderai l’abbraccio
nel domani della tua vecchiaia
se incateni nell’indifferenza
la carezza del tuo presente.
GERACI SALVATRICE PIETRA
DALLE LABBRA
Labbra aride
Che dissipano
Angelici sogni
Che feriscono
Cuori fragili
Che calpestano
Candidi gigli
Che intorpidiscono
Tiepidi corpi
Che liberano
Amare lacrime.
Voi labbra
Quanto male siete
Capaci di far
Riaffiorare
Anche se solo a voi
E’ consentito
Ardenti e teneri baci
Donare.
64
DANIELA COSTANTINI
PICCOLA DONNA
Ci sono ricordi da conservare per sempre,
come delicate pagine di un libro antico.
Che bello sedersi in poltrona
e rigirarsi tra le mani le care pagine ingiallite,
frammenti di ricordi lontani.
L’identica emozione
di quando io, piccola donna,
sfogliavo i petali di un fiore
per interrogarlo sul futuro
del mio giovane amore.
Cos’è accaduto da allora?
Quella piccola donna dov’è?
Ha la stessa tenerezza d’allora,
ma tra i suoi capelli
si è posato qualche fiocco di neve
e nei suoi occhi spunta una lacrima.
Ripiega con cura le pagine antiche
e baciandole le posa
accanto a fogli ancora bianchi,
quelli che la vita per lei ha preparato.
Tra le mani stringe una margherita…..
Giocando col tempo,
forse non ha ancora chiesto tutto
sulla sua vita.
Attende risposte e sposta lo sguardo….
Ascolta echi lontani
di un domani che verrà
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Continuiamo questa antologia con le opere degli altri
autori partecipanti al concorso, in ordine alfabetico:
PIETRO BARBERA
PARLAMI…. NONNA
Parlami delle gazze ladre, nonna,
che gracchiavano al mattino
tra le foglie del fico,
inseguendosi,
saltellando
sulle tegole di casa.
Dimmi della vastità di bionde spighe
che catturavano dal vento
il profumo di pane appena lievitato.
Quella palma altissima è ancora lì,
ai suoi piedi le pietre
lanciate per scrollare i datteri
raccolti da mani bambine
come stelle cadenti.
Raccontami dei lunghi filari di vigne
e di contadini sorridenti
assaporando un acino d’uva.
Parlami degli ulivi contorti
e del sole all’alba tra le foglie.
Dimmi come gioiva il tuo semplice mondo
mentre io son qui tra i filari d’auto,
stretto nel rumore dei clacson,
immerso in una densa atmosfera
di benzene.
66
GIUSEPPE BATTAGLIA
A A A “CERCASI”
Per appagare una femminista
Cercasi uomo senza la vista
Se poi è sordo ed ignorante
Qualsiasi uomo si faccia avanti
Ma c’è di più s’è zappatore
Gli farete un gran favore
Solo così l’appagherai
E ti cacci in mezzo ai guai
Tu non vedi più non senti
Si vende i denti per i suoi parenti
Nulla apprezza e nulla gli garba
Vai a vendere pure la barba
Dalla sera alla mattina
Lei ti porta alla rovina
Stai attento alla tua zappa
Anche quella lei ti strappa
E’ davvero un occasione
Questa femminista è confusione
Hai cercato hai trovato
E ti sei inguaiato
67
ROSARIO CALI’
RIFLESSIONI
Da un angolo di balcone
Il mio occhio vede una montagna vicina
Che illumina il mare sottostante
Con dolcezza cullante cullante.
Come se all’improvviso
Diventa tutt’uno ammaliante ammaliante.
Proiettandomi lontano lontano
Dove si sogna dove si vive.
Il mio occhio diventa così
Uno specchio infinito di colori
Facendo capire all’umanità
Di quali miracoli è capace la natura.
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CAMPILUNGO LOREDANA
VIVO……
Vivo ogni istante
Della mia vita,
……vivo per essere
riscaldata dal sole
e accarezzata dal vento,
vivo per assaporare
i mille gusti della vita
dell’aspro limone
alla dolce mela…
Vivo volteggiando quieta
e a passi leggeri, un lungo,
lungo valzer aspettando piano
l’ultimo raggio di sole.
69
EMANUELE CAPPADONIA
“IL VECCHIETTO”
Ho tanta stanchezza sulle mie spalle
Mi sento un gomitolo abbandonato,
abbandonato sul mio divano.
Sul mio divano caldo
Pieno di ricordi.
70
SALVATORE CARTA
UN PENNINO
Voglio un pennino d’oro e bottiglie
d’inchiostro nero. Uno sull’altro,
spessori di fogli bianchi attendono
albe di vita, accarezzate da voci e
parole,
Ora la punta scrive che mi ami; e
sporge il tuo profilo all’ingresso:
una mano saluta, l’altra scompone
la goccia, separando ogni granello
di sabbia nel deserto.
Si ribalta la clessidra, allungando
ogni tempo. Canto fra i tamerici;
percorrendo oasi di palme, dentro
i grappoli di datteri ti nascondi e con
gli occhi stuzzichi le stelle.
Provi a velare il volto: giochi? Forse,
non vista, vuoi scegliere: sei donna
sicuramente, forse io uomo. Tu vuoi
integrazione; anch’io. Quale Dio noi
preghiamo? Il tuo? Il mio?
Come si chiameranno i nostri figli? Il
sangue di tutte e due è sangue; non è
nero quello che pulsa nell’ombelico tuo,
né è bianco ciò che transita fra le
mie gambe. Dio, mio, tuo, senza confini.
Vogliono pace, soccorrono i dolori senza
chiedere nomi. Bloccano il loro cuore per teste
e gambe sul muro spiaccicate, e pianti sui
morti ammazzati di bombe intelligenti. Ma,
nessuno morirà del tutto se parlerà d’amore.
71
ANGELA CASALE
SONO RICCA
Sono ricca
Quando mio figlio torna a casa
Sono ricca
Quando mio figlio mi chiama mamma.
Quando stiro le sue camicie pensando
Gia’ al domani.
Quando mi dice: mamma fammi trovare cose buone
Da mangiare.
Quando discutiamo come due innamorati.
Quando mi vedi dietro i fornelli e pian, pianino
Ti avvicini e mi abbracci.
Sono ricca per questo modo tuo di fare.
Sono ricca!!! Anzi ricchissima per questo figlio
Che il Signore mi ha dato d’amare.
72
GIORGIO CASTAGNA
DOMANI SAPRO’
Soffrire e sognarti, chissà s’esisti
All’ombra incerta del domani.
Soffrire e non gioire,
sapendo che il desiato sogno
è velato da sentieri distinti,
soffrire e non gioire,
all’idea ch’estremi incompatibili
allontanino l’agogno futuro
Gioire e sfiorarti, sapendo ch’esisti,
baciarti e volerlo ancora domani.
73
VALERIA CURCIO
MORIRE
Anche tu,
impaurito,
come tutti, sentirai la violenza delicata
dell’abbraccio silenzioso.
Sentirai la frenesia di un istante,
ed un sussulto,
un gemito di dolore e piacere,
un’amara fine di spasmi e grida,
di dolce luce bianca
che sfuma in oscurità profonda.
Nel buio velato di scarlatto tepore
sveglierai i tuoi sensi
e nell’immenso fremito
di compresa apparenza
diverrai essenza muta legata all’anima.
Sarai accanto al passato
e vicino al futuro,
non più tristezza,
non più paura,
niente di realmente verosimile
ma di reale e vero.
Come tutti
sentirai la tua vita nell’abbraccio violento spegnersi,
e non sarai più smarrito.
74
ENZO DI GAETANO
METTI IL CASCO
Se prima di partir per
un’istante
pensassi a quelli che hai lasciato
a casa,
alla ragazza che ti sta
aspettando,
agli amici, alla festa che deve
incominciare,
sicuramente metteresti
il casco,
per poi non farli tutti
disperare.
75
SILVIA DAVANZO
LUCI
Luci nel mondo,
luci ovunque, Cina, Italia, Messico,
ogni bambino accende una candela.
Luce al mattino,
il sole sorge ovunque in tempi diversi,
ogni bambino celeste esprime un desiderio.
Luci alle case, ai negozi, ai bar.
Luci per la strada, in cielo, a terra,
luci intermittenti, colorate, grandi,
questo Natale sarà colorato da luci incantate,
per portare del bene nel mondo,
luce come speranza,
più ce ne sono e più speriamo in un nuovo mondo.
76
MICHELANGELO DI LORENZO
ALL’OMBRA DI BANDIERE
Stanchi di pensare
Barattano le loro vite
Lasciandosi dietro
I demoni del passato.
Sono i senza patria
Gli extra-comunitari
Che in punta di piedi
Trascinano
I morsi della sofferenza
All’ombra di bandiere
Che sventola a mezz’asta.
77
ENRICO DI PASQUALE
…DESIDERAVO TANTO CHE LEI RITORNASSE AD AMARE!!
Sobrio d’amore il mio tenero dolce cuore,
naufragava tra le onde tempestose del suo amore;
navigavo in un mar d’amor pieno,
disteso con la testa appoggiata dolcemente sul suo seno.
Imperterrito le parole della sua vita ascoltavo,
e con sicurezza dalla mia mente le cattiverie dette dagli altri cacciavo.
Vagamente sentivo la sua inspirazione,
mentre lei impaurita lasciava in me qualche emozione,
catturata da una breve carezza,
ma bastava per colorare la mia anima di tenerezza.
Atterrito provai a baciare le sue dita,
ad un tratto sentì il profumo della sua vera vita;
alzai il mio sguardo audace,
e la guardai dritto negli occhi,
volevo vedere il suo volto felice,
ma vidi scivolar lentamente dei fiocchi.
Ero sicuro che erano lacrime di felicità,
gettate via per dimenticare il passato vissuto in crudeltà.
Stanco di osservare il suo retrattile sorriso,
le chiesi se potevo riportare il sole nel suo viso;
Mi rispose, fissandomi negl’iridi per qualche attimo,
sembrava stordita da un incantesimo;
raccolse le mie mani sparsi tra i suoi vestiti bianchi,
e le portò al centro dei suoi fianchi,
mi strinse a se con tutta la forze che le rimaneva;
intanto il mio cuore più forte urlava.
Chiusi pian piano le palpebre tremanti,
e iniziai a sentire il suo respiro farsi avanti,
docilmente le nostre labbra si sfiorarono,
ed insieme i nostri sogni decollarono.
Dopo pochi istanti riaccesi la luce alla mia vita,
e capì che da quel momento la nostra vera vita era appena iniziata.
Finalmente vidi la sua faccia inondata di un gran sorriso,
con miliardi di raggi di felicità esplosi all’improvviso;
contento notai le nuvole dai suoi occhi scapare,
….desideravo tanto che lei ritornasse ad amare!!
78
LEONARDO GAGLIO
AETERNA TRANQUILLITAS
Avvolto dal dolore
cerco
Tra i tuoi baci
ed i tuoi abbracci
la passione di vivere
portatami via
in un sol secondo.
Cerco la quiete
che giaceva un tempo
nel mio cuore.
Stanco ed oppresso
mi accoscio a terra
sperando,
che il tramonto
arrivi presto
e che mi porti via
con lui,
mostrandomi
la vera quiete
che si rifugia
al di la della vita.
79
PAOLA GALIOTO GRISANTI
L’AMORE
L’amore è come il vento
che corre su un binario,
corre, sbuffa, ansima, rallenta,
alle stazioni si ferma.
E tu fanciulla svegliati,
ascolta il tum, tum del suo cuore,
sappi riconoscere se quello è
il treno giusto dell’amore,
se indugi, il treno potrebbe ripartire.
Se ti capita di salire su quello sbagliato,
aziona il freno, scendi,
perché il treno dell’amore
quello che per la vita
ti accompagnerà presto arriverà.
Ma tu fanciulla sappilo riconoscere
non indugiare ancora,
sali, e buon viaggio.
80
PIETRO GIOJA
NOTTE DI VIGILIA
Notte di vigilia
lenta,
arida,
irreale.
Di sterili sapori
senz’amore,
di torbidi silenzi
senza pace,
di vana pena
sospirosa e mesta.
Di cipressi
e crisantemi
aleggia cupo
un senso d’abbandono
tra gli amanti
ed ella,
schiena a schiena
stesa,
di fredda intima
rugiada scintillante
rivolge gli occhi
in supplica
ad una luna
argento.
E a ridestar rimorsi
e amari
ecco l’alba cinica
sulla deserta terra.
Ed egli allora
in nugoli lunari
polverosi
di piatto lume
diafano e rombante
incontri a porti va,
d’ogni rimpatrio vani.
81
Gelida,
buia e vuota
landa
senza vita
il borgo appare, ed ella,
com’ossa inerti
e sparse,
ne resta invano
eternamente
parte.
82
ENZA GIURDANELLA
L’OLOCAUSTO
Corpi ignudi buttati in una fossa,
denudati della propria dignità….
Corpi che sono solo un numero
prigionieri di un’assurda
spietata idea di perfezione
che esalta quella razza che non esiste
se non nella misera essenza di una folle idea….
Corpi stracciati dalla fatica del sopravvivere
chiusi come animali affamati di libertà
in recinti di morte e di dolore
appassiscono pian piano
senza inutili lamenti… pochi lamenti
in cui si specchiano grandi dolori
ci guidano sul tortuoso sentiero dell’olocausto…
Pochi lamenti ci dicono che esso è
il frutto marcio d’un albero malato
una cruda realtà che ha lasciato
il marchio dell’orrore
sui suoi martoriati figli.
Chi osa ancora dire che esso sia
solo l’illusione di gente allucinata
da fervide fantasie?
L’olocausto una cruda realtà.
83
SALVO INSERAUTO
RITMI LENTI
Come spinge il tempo,
quanto fretta mi mette addosso
ed io a tamponar qua e là
fra lavoro, famiglia e sogni.
Corrono tutti,
corre questa società,
corre il consumo.
Hanno votato la materia.
Dov’è lo spirito?
E quando è tempo
Per le mie passioni?
Voglio ritmi lenti, io
Voglio osservare e studiare
Ciò che sembra fermo,
voglio assaporare cose e momenti
ed intrattenermi con l’amore.
Dov’è diretto l’uomo?
Cos’è che cerca?
Se questa è la strada,
preferisco piccoli sentieri
dove umile passeggia poca gente
disposta ancora
ad incontrar poesia.
84
FRANCESCA LO DATO
LA NATURA
Quant’è bella la natura:
c’è il mare, c’è la terra, c’è il sole e c’è la luna
c’è il vento e la tramontana,
c’è chi suona la campana,
il prete che dice la messa,
le persone tutte in festa,
il tamburo va suonando per le strade allegramente,
i bambini si risvegliano con ansia e chiamano la mamma.
Mamma oggi è festa!
Un vestito nuovo voglio indossare
Che alla festa voglio andare.
85
LILIANA MAMO RANZINO
NEL DESERTO DELLA VITA
Nel deserto della mia vita
piena di interrogativi, delusioni,
dolori,
ho trovato finalmente
la vera e giusta risposta
ai miei infiniti perché
e alle mie ansiose attese.
Altrettanto infiniti sono stati
i granelli di quella
finissima sabbia,
sollevata da un immane bufera
e che sono riusciti ad entrare
nella mia mente,
nei meandri del mio cuore
e hanno lavato e spazzato via
ogni mio dubbio,
facendomi, così, conoscere
chi sono io
e a riconoscere chi è veramente Dio.
86
GIOVANNI MANNINO
NOTTE D’ESTATE
Afona scorre la notte.
Occhi socchiusi
Petto scoperto
Supino riposo sul letto.
Una zanzara
Ronza all’ore4cchio
Scrollo la testa, si sposta,
mi punge sul petto.
Accendo la luce
Già ronza al soffitto.
Le tiro il cuscino,
ritorna, mi sfida.
Le tiro una scarpa
Sbaglio la mira,
Che botta!... che schianto!...
Ho rotto lo specchio.
Mi armo
D’un pezzo di straccio
Con gli occhi sbarrati,
L’aspetto.
Non odo respiro
Silenzio perfetto,
E’ sparito nell’aria
Quel piccolo insetto.
Mi guardo ad un pezzo di specchio,
sorrido, rifletto:
“Che danno che ho fatto,
era solo un invisibile insetto”.
Se ti prendo!
Ti strozzo, ti smonto, ti schiaccio.
SE… TI PRENDO!...
87
FABIO NOVELLI
ARSO ORTO
Ramoscello
Placida acqua
Inzuppar lento
Nel frusciar del tempo
Sottili onde
Fra flutti disperse
E soave vento
Di sirena sospiro
Regalar
Profonde note incenso
Sul pel del fiume
Delicato Sole
Affannosi raggi
Riscaldar
Nella silente quiete
Dell’arso orto.
88
KATIA OLIVIERI
INVANO
Le parole tra noi
Cadono come l’ultima
Indifferente pioggia
Dai cornicioni.
Ad un tratto
si rammenta
d’aver piovuto,
che invano
ha piovuto.
89
MARIANGELA ROMANO
NON TEMERE
Non temere
non scorderò d’aver visto
il tuo sguardo fiero
chinarsi e tingersi
di tristezza,
non scorderò
le tue lacrime piene
d’amarezza,
non scorderò
il tuo profondo
silenzio,
non scorderò
le tue mani tese
per trovare conforto…
Non temere
non scorderò d’amare
ciò che sei
perché ho amato
ciò che sei stato.
90
SCORSONE LUIGI SALVATORE
L’ODIO
Velo di vernice penetrante
Sveglia la sofferenza e riapre le ferite
Poiché l’animo non può sopportare a lungo
cicatrici vecchie e stanche.
Come un sibilo esaltante
Lento e costante consuma la mente
Ma spesso rinvigorisce la carne dolorante.
Globo di fuoco dalle molteplici sembianze
Corre veloce lo spillo vagante
Attraversa il cuore… e con esso esplode inebriante!.
Eppure gelido ferro è il suo primo segno
Che viene vicino, si accosta supino
Degno compagno del suo immenso freddo.
Dopo è manifesto il suo urlo compiaciuto
Alto e maestoso il suo ruggito
Accolto forse…. solo perché ha trovato il vuoto.
Figlio dei giorni dalla vita strappati
Frutto amaro della coscienza che rinnega il dolore
Ma come…..
Come avrebbe potuto trasformarlo in amore?
91
MAURO SAVINO
L’ARIA NUDA
Ascolto le foglie spezzarsi sul cemento,
i rami stringere la mano al vento,
i nastri sui lampioni schiaffeggiarsi,
le piccole vendette dei bambini.
Ascolto la paura
e l’irrecuperabile.
Ascolto la nostalgia del nulla.
Ma dura solo un attimo.
Torno ad illudermi
di avere qualcosa da fare.
92
GIUSEPPE SETTEMBRE
FALCONE E BORSELLINO
Come un falcone inquadravi
Dalla tua poltrona gli uomini
Vigliacchi della mafia
E dentro il borsellino del tuo
Collega sbattevi i don… don…
Che si innalzavano incutendo orrore
E con ignoranza e la vostra
Saggezza con coraggio
Ha schiacciato il potere
Della mafia.
Morti siete per mano dei
Mafiosi, ma il vostro coraggio
Nei nostri cuori sarà per
Sempre e la mafia guadagna
Un nuovo soprannome:
uomini dell’ignoranza
e vigliaccheria.
93
CATERINA SICLARI
LA CASA DEL SOLE
Filtrano appena i raggi
Dalle persiane semichiuse,
nella casa del sole,
un tempo infuocata
da impetuose passioni
e rischiarata
da irrefrenabili emozioni.
Ritratti, sfumati
dalla luce fioca,
che, di sbieco,
ferisce volti e sagome
del tempo che fu.
Gingilli, dalle tinte indecise,
che si ergono a testimoniare
che la felicità,
un giorno,
albergò nella casa del sole.
94
SALVATORE SUNSERI
UN PETALO ROSSO
Apro gli occhi
E mi trovo in un immenso campo
Quanti colori,
quanti profumi,
quanti pensieri….
…. Ad un tratto
una rosa rossa
spicca più alta di tutti;
La vedo,
e’ lontana, irraggiungibile,
ma è troppo bella.
La voglio,
ma è troppo lontana.
Allora un petalo rosso
s’innalza in volo e si avvicina,
si avvicina si avvicina
E’ lei!
Un petalo rosso è servito
a rendermi per sempre
l’uomo più felice del mondo
95
MARIA ROSA TOMASELLO
GENTE DEL SUD
Arriva con enormi pesi,
valige, zaini,
coperte, viveri.
E’ gente del sud,
triste, taciturna,
ha attraversato
il lungo sentiero
che porta al nord,
la nebbia li accoglie
ed una fabbrica
aspetta braccia robuste
e mani callose,
la nera terra fertile,
il sole, il mare,
sono ormai lontani.
Un giorno
ritorneranno al sud
e i loro vecchi, chissà
se li aspetteranno nel cortile
o in un angolo accovacciati
con la morte nel cuore
per la solitudine,
per il loro muto dolore.
Un giorno
ritorneranno al sud,
riposeranno sotto il grande albero
nella nera terra fertile,
dove avevano lasciato
le loro radici.
96
GLORIA VENTURINI
ALI DI GABBIANO
Si strugge la sera
dentro al rosso di un tramonto,
dietro il tetto di una chiesa solitaria.
Le mani delle alghe
afferrano le lacrime salate
del mare in bufera.
Deboli speranze di cicala svaniscono,
falciate dalla mietitura di Atropo.
- Non chiudere
il volo d’aquila
dentro al cassetto! Quel sorriso di ninfea
scioglie stille di rugiada,
il giglio tatuato sulla pelle
profuma di purezza,
di anima e di vita.
E ti ritrovo
nel bosco dei sentimenti,
tra i sentieri degli amanti
dove s’incontrano
di nascosto i ciclamini,
poi, insieme,
asciugheremo il pianto delle cicogne,
le vestiremo di nuove rose.
Nell’arcata della notte,
la via delle stelle illumina il cammino.
- Vola con ali di gabbiano Una culla,
tra i fiori bianchi di ciliegio
- Lieto dormi tenero amoreBussa alla finestra
la primavera,
soffia sui sogni,
ti vuole svegliare.
97
LUANA ZAMPIERI
ORMAI…FINE
Scendono
Lacrime d’amore
Sulla favola
Che ha scritto il cuore
Ormai
Senza personaggi.
Lei,
delusa dal finale
pensa
ai teneri momenti ormai distrutti.
Lei,
sola tra tanti immagini
che invadono la mente,
ormai, lontane da afferrare.
Lei,
isolata nel dolore
nel nido ancora caldo di speranza.
Forse cerca il coraggio….
La forza per tornare
a guardare il sole.
Sbrigati che tramonterà…
98
POESIA
IN DIALETTO
SICILIANO
99
1° CLASSIFICATO
GIUSY RENDA
CAVADDUZZI E SCICCAREDDI
A li voti taliu i strati
e mi parinu trazzeri,
i cristiani mi parino
cu cavaddi e cu sciccareddi.
Ci su cavaddi ca caminanu
ca testa tisa tisa
e un ti talianu
chini chini di boria e di superbia.
Ci sunnu i sciccareddi
ca un annu mancu la forza
d’arragghiari
e u stissucaminanu e travagghianu
puru pi patrunazzi tinti…
Ci sunnu i cavadduzzi sapuriti
ca pari ca ridissiru
quanni rapinu la vucca
cu ‘ddi beddi denti bianchi
Chisti pari ca ridissiru
ma ‘cchiu spissu chiancinu
e unnu sapi nuddu…
mancu si fannu sentiri
pi fari nu lamentu
Ci sunnu i scecchi
ca vulissiru fari i cavaddi
ma un annu né a linia
né mancu a vuci
E va cummattitici cu chisti…
Duri, ma duri comu su,
‘ci putissuru scafazzari i nuci
cu la testa…
Megghiu starici luntanu
si sunnu arraggiati,
picchi di tanti buoni buoni
ca ti parinu,
tanti beddi cavuci ti sannu dari,
si c’acchiana a giuggiulena….
Ci sunnu beddi cavaddi,
100
ma beddi veru,
ca beddi su sulu di faccia
e no ‘nta la testa
Appena parranu
c’è sulu di scappari o
di mittirici un tappu
‘n mucca.
Piccatu,
picchì putissiru curriri luntanu
e inveci arrestanu sulu
‘nta stadia unni nasceru
Ci semu tanti cavadduzzi,
lari e beddi,
ci semu tanti sciccareddi,
‘ntuntaruti e svigghiareddi
ma sempre armaluzzi arristamu
si la bedda ‘ntelligenza
ca u Patri Eternu ‘nni retti,
misericurdiusu com’è,
unna facemu stiddiari
comu ‘ddu raggiu di suli e d’amuri
ca ogni matina ‘nni vasa e
nn’arruspigghia…
101
2° CLASSIFICATO
RITA ELIA
U PRISEPIU VIVENTI
Chi cci porti o Signuruzzu?
-Nà fascedda di ricotta,
picuraru sugnu iu,
‘un haiu autru ‘ntà sta sporta!
Tu chi porti jardiunaru?
-Portu ciuri vellutati
e un panaru chinu di frutta,
mi cuntaru ca sta notti
ci fu nascita ‘ntà grutta!
Piscatori, tu chi porti?
-Pisciteddi vivi-vivi,
fannu ciauru di mari,
‘un c’è autru ‘ntò cannistru;
chistu è tuttu u mè campari!
Tu chi porti, lavannara?
-Panniceddi profumati pi ‘nfasciari lu Missia
ca nasciu ‘nta stù munnu puvureddu comu a mìa!
Tu craparu, chi ci porti?
-Na pizzudda di formaggiu
e latti friscu di crapuzza pi cuariari ddà vuccuzza!
Furnareddu, tu chi porti?
-Dui panuzzi cauri-cauri, quattro ligna e carbuneddu
p’addumari canticchia di focu e cuaruari u bambineddu!
Picciutteddu, tu chi porti?
-Iu ci vaiu p’addummannari comu fari pi campari,
Portu appressu i mè spiranzi,
Portu appressu i mè penzeri,
ci li mettu avanti e peri!
E tu, riccu, chi ci porti?
-Iu nun portu nenti a nuddu,
tuttu chiddu ca haiu è miu,
cu stu poviru ‘un haiu chi fari:
nun è chistu lu me Diu!
102
NOTTI D’ECCLISSI
‘Nto cori haiu casciunedda di ricordi
ca ogni tantu grapu e nesciu fora;
stasera nni grapìu unu cchiù anticu
mentri staiu a taliari l’infinitu.
E m’attrovu ‘ntò paisi unni crisciu,
unni muviu li primio passiceddi,
paisi ca è chiamatu “di li stiddi”
unni mè matri di nica m’annacò
e “pi grazia ricivuta”
p’amuri a Santa Rita a Idda mi vutò.
Mi viru picciridda ‘ntà ddì strati,
ci attrovu muntagneddi di frumentu,
astrattu misu o suli, mennuli a mannari
e iu, chi trizziteddi o ventu,
a curriri e a scialari.
Ci viru carritteddi di ramagghia
E sciccareddi carricati a fenu e pagghia.
E attrovu li cianuri di nà vota,
di cosi veri, di cosi sinceri;
di oani di casa
e di mè matri ca m’abbrazza e mi vasa.
Stanotte ca u suli s’abbrazza ca luna e l’accarizza
e idda arrùssica e poi affruntusa si v’ammuccia;
grapìu stù casciuneddu assai luntanu
e tornu arreri ddòcu…
p’attruvari i so vasati, p’arrubbari i carezzi di so manu.
103
L’EMIGRANTI
Quann’eru caruseddu,lassai lu mè paisi,
a genti canusciuta e a terra catalisi.
Eru comu un passareddu ca fa canciu di nidu,
in cerca di distino, vulaiu ‘nta n’autru lidu.
‘Nta l’occhi mi purtaiu u mari da Sicilia.
‘ntò cori la me genti,
i cianuri, la parrata e a festa di sant’Agata.
E’ appressu li spiranzi di conciari u me avveniri,
d’aviri cchiù fortuna, d’attruvari dignità
e scurdarimi pi sempri a fami e a puvirtà.
E’ l’anni hannu passatu, nun sugnu cchiù carusu,
canciò lu me distino ma u coru l’haiu piatusu;
quannu penzu a mè la terra ca mi dava pani amaru
e arrivannu a fini misi si tirava u paru e sparu .
E spissu iu ci tornu e m’afferra a nostalgia
E tornu arrè ‘ntarreri cu la mè fantasia:
- vaiu a trovu li mè amici, mè matri picciuttedda,
i cianuri di nà vota, vanedda pi vanedda.
Mi viru arrè carusu, cu cori spiranzusu.
I tempi si canciaru, l’amici si straviaru,
giranno pi vaneddi, nun trovi i vicchiareddi,
a genti di nà vota ormai ‘un sunnu cchiù,
taliu la mè matruzza ca persi a gioventù:
mi sentu un catalisi, stranieru o so paisi.
‘Nto cori marristò sulu la nostalgia
e lu disiu d’amuri pi la terra mia!
104
3° CLASSIFICATO
SALVO INZERAUTO
TEMPU PI LA PUISIA
Vulissi ca mi passassiru lu stipendio
Senza ca io avissi a travagghiari
Ma no picchi sugnu lagnusu
Ma pi tuttu chiddu c’addisiu di fari.
Putissi scriviri nu libru
aviri chiù tempu pi la puisia
ririssi sempri lu me cori
fussi chiù bedda a vita mia.
Pi cumpletari li me versi
mi tocca fari li nuttati
e quannu stancu mi va curcu
è sulu tempu di latrati.
A voti mi sentu comu gravitu
l’avvertu forti dintra di mia
e comu na fimmina c’accatta
partorisci l’ultima puisia.
SICILIA MIA
Bedda Sicilia mia
quasi sempre vistuta di stu suli
truccata d’alligria
nascunni la to facci di duluri.
Supporti ‘sti supprusi
nun guarisci mai di ‘stu tumuri
ca tutti ‘sti mafiosi
ca sunnu tuttu tranni ca dutturi.
Ma ‘nta sta terra
la genti nun po sempri subiri
e fa na guerra
dunni spissu s’arrisica a muriri.
L’unica so arma è lu curaggiu
e tu tintu guvernu
c’avissi a essiri chiù saggiu
nun smovi un pernu.
Poi quannu suddedi un fattu gravi
105
prumetti sempri tantu
e mentri cu la vucca siti bravi
ccà resta lu chianti.
Lu sicilianu servi sulu allu putiri
p’aviri a maggioranza
e dintra di tia ancora viu cu dispiaceri
tanta ‘gnuranza.
LI NONNI
Domani ti porto dai nonni
Li lo sai che ti diverti –
Spissu dicinu accussì li figgi
a li so picciriddi.
E già! Li nonni su sempri pronti
a tinirisilli li niputeddi
quannu li figgi sunnu ‘npignati
o nescinu pi ghirisi a scialari.
Ma iddi lu fannu cun amuri
e virennusi arrivari ‘sti ‘nuccenti
nun sannu prima zoccu ci hannu a dari
e li figghiuzzi stanno assai contenti.
Poi si li portanu pissinu a spassu
firmannusi ‘nta na villa pi jucari
e si ci trovanu li jaggi cu l’armali
li picciriddi si c’incoddanu a talari.
Turnannu dintra dopu la passiata
si nni fannu fari di tutti li coluri
si mettine macari a quattro zampi
e lu picciriddu s’addiverti a cavarcari.
Quannu sunnu stanchi poi, cumincianu:
-Nonno cos’è questo? Nonna cos’è quello? –
E li nonni rispunnennu li sannu suddisfari
ma comu raccumannanu li figgi, in italianu.
Appressu,’nvicchiannu ‘sti nunnuzzi
pi certi figghi diventanu di pisu
e s’arriducinu via via sempri chiù suli
pirdennu araciu araciu ogni surrisu.
Ora, spirannu ca nonnu ci addiventu
Nun criu c’avissi a passari tanti peni
Nun m’abbannunerannu, mi lu sentu
La figghia mia mi voli troppu beni.
106
E, in ordine alfabeto, tutti gli altri che hanno partecipato a
questa sezione del concorso.
GIUSEPPE BATTAGLIA
A MUGGHERI N’GRASCIATA
A matina s’arruspigghia
Quannu a casa s’è quariata
Apri l’occhi spadigghiannu
Accumincia n’autra junnata
Mentri infial li tappini
Idda nun s’api cosa fari
E unn’havi accuminciari
Pi la casa arrisittari
Idda pensa consu u lettu
Megghiu rugnu na scupata
E accussi lu tempu passa
E si sciupa a matinata
Pi lu sforzu di pinzari
La so menti ormai è stanca
Mancu scupa nu ffa nenti
E la vuluntà ci manca
Quannu la sira lu maritu
S’arricogli ri travagghiari
Viri la mogghi stanca assai
Cu la testa di pinzari
Talja lu lettu munciuniatu
Cu lu linzolo tuttu sporcu
Comu fussi priparatu
Pi ddurmirici nu porcu
Mischinazzu ci siddia
Di fari alla mogghi na carizza
La s’o casa è ‘ngrasciata
Tutta china ri munnizza
Ci pigghia nu cestu
Comu fussi na pazzia
107
Nun s’afira chiù a stari
fra la grascia e la fittizia
iddu allora unni po’ cchiù
e scuppiata a so pazzia
abbannuna mogghi e casa
pi ‘nanticchia di pulizia
108
ANGELA CASALE
‘NA LA ME CASA
‘Na la me casa nun c’è nenti
nun ci sù mobili divani
nun ci su cosi appariscenti p’ingannari
l’uocchi di lu visitatori
Ma ci sù du fari lucenti
Ca la me casa inchinu di sbrannuri.
M’abbasta pur una vota d’acqua e un muzzicuni
Di pani e gghirimi a ccurcari
Mianzu a sta luci
Ca la me casa inchi e lu tiampu
Un si viri passari
O cori di Gesù
Canaluto juarnu
Sti du figghiunazzi mi vulisti dari
Ia tirringraziu assai e a tuttu
Lu munnu lu vuogghiu gridari.
109
ENZO DI GAETANO
SI CERCA E NUN SI TROVA
Forsi su tutti ca la
Paci cercanu,
forsi su tutti ca la
paci vonnu.
Però piccatu ca sta
Gran parola,
è comu l’aria chiusa
rintra on pugnu,
c’appena rapi a manu
nun si trova.
110
PIETRO DI GIOVANNI
L’ARIA DI LU PAISI
Cent’anni, natri centu e centu ancora
passaru, hann’a passari e passeranu
e finu a quannu girerà stu munnu
‘nto cori ci sarà sempri a me terra.
E pensu a cu è partutu
E pensu a cu è partutu
Cu lassa la so terra unn’è mai cuntentu
E pensa all’aria frisca e o beddu suli
E a quannu si parteva cu li muli
Pi ‘gghiri a siminari lu furmentu.
Cu a bedda pupa ‘i pani ‘nna vardedda.
Cu a furma di tumazzu e quattro alivi
E ancora oggi ia li sentu vivi
Sti sciauri e sti sapuri campagnoli.
Chisti su cosi santi e veri
Chisti su cosi di ricurdari
Chista è la forza di na cultura
Chisti su cosi ormai luntani.
E pensu o munnu d’oggi
E pensu: ci vò curaggiu.
Oggi ca un c’è travagghiu
Oggi ca c’è pitittu
Oggi ca si sta peggiu
Di quannu si stava “peggiu”
Cent’anni, n’atri centu e centu ancora
Passaru, hann’a passari e passerannu
E finu a quannu girerà stu munnu
Ìnto cori ci sarà l’aria di lu paisi.
111
MICHELANGELO DI LORENZO
CHIDDA E’
‘Nsemula tiramu avanti
spartinninu puru lu sonnu.
Mi veni appressu
cuntannumi li pidati
senza lagnarisi
di nudda cosa.
‘Un è la mè cumpagna
‘Un è lu mè amicu
e amncu è
ddu figghiu masculu
ca ‘un haju.
Si vò sapiri di cu parru!
Ascuta lu cori.
Si batti senza timuri
‘un aviri scantu
picchi si ‘ntra di tia
cc’è ‘na cuscenza….
Chidda è!
112
PAOLA GALIOTO GRISANTI
QUANNU ‘U PANI A LA CASA SI FACIA
Quannu ‘u pani a la casa si facia
tutti prestu a la matina si struvigghiavanu
e cu fari lestu e allegru,
dopo avirisi misu ‘u muccaturi ‘ntesta
a farina ri frumentu
mittivanu intra la madida.
La farina viniva cullucata a funtanedda
e dinta sta funtana sali,
lievitu e acqua aggiungivanu.
Cun fari amurusu la fimmina
cuminciava a ‘mpastari.
Tantu era l’amuri ca ci zittiva,
ca pi idda tutti i furmi chi costruiva
eranu comu tanti picciriddi.
Li lisciava mittennuci a giuggiulena
l’aggiustava, picchi vuleva ca nun
si sformassiru quannu dintra
a lu furnu già camiatu
so maritu a cociri li mittia.
I jorna i festa, si ‘n famigghia
c’erano picciriddi, u pani
pi sti picciriddi viniva mudillatu
a forma di pupidduzza pa fimminedda
u cavadduzzu cu cavaleri era pu masculiddu.
Poi a furma a cannistru cui ciuri
era pi dunarlu a ‘n signora
privileggiata ca magari idda a
casa ‘u pani ri frumentu nun facia.
Ah chi ciauru si rispirava
‘n dda casa quannu ‘u pani si facia!
113
ENZA GIURDANELLA
I CUNTI RA NANNA
Nànna ca si sempri ntò ma cori
m’arrivuòrdu li tà cùnti
ntà li sìrì timpistùsi
cuànnu iu rè lampi e truòna
mi scantàva e m’ammucciàva.
ca vuciùzza tua ammalata
mi ciamàutu e mabbrazzàutu,
iu cu tia m’alliscìautu
av’a ‘u curagghiu ri’n liùni
e ‘a furzàzza ri nu draùni.
Puòi lu tièmpu trascùrria
puòi ‘ntantu iu criscia
ma li cùnti ri la nànna
nto ma còri mi purtàva.
Iu criscìa, iu criscìa…
M’arrivuòrdu i ta palori
sèmpri aruci e allatinàti
cuànnu iu mi rispìrava
pi n’amùri cuntrariàtu
na passiòni nun capùta
pi l’amùri chiddu miu:
Iu criscìa, iu criscìa….
Ora nànna sùgnu rònna
e puòi cuànnu piènzu a tia
iu ti rìciu e ti cunfièssu
ràmmi a fòrza ri caìiri
tùtti i pèni e li catìni…
Pacinziùsa còmu a tia
vuògghiu sìri nànna mia
picchì sì pi mia na stìdda
ca mi pùnta e m’ancuatrìa
picchì si pi mia lu spècciu
e ‘a vèra fòrza ra vìta mia.
114
SERAFINA MARIA GULLO
NOTTI D’AUSTU
Chi fannu li stinni ‘nto cielu?
Parino tanti lamparini annusati pi fari festa
pì l’omini boni e pì chinni malvagi.
Ascutanu li nostri prieri
e sentinu li nostri lamenti.
Talianu stu munnu chi furria continuamente
e nun trova mai risettu.
115
TOTO’ IMBURGIA
LI CORNA DI CU SUNNU?
Un ghiornu ‘ nta la chiazza caminannu
C’era un furasteri supra un mulu
Chi si nnhi ava tranquillu e sulu
A lu so paisi luntanu un munnu.
Lu vitti unu ca di ririri lu spinnu avia
E virennu ca c’eranu du’ corna ‘ncantu,
ca di vitennu eranu statu gran vantu,
s’avvicinau, e senti a chiddu chi dicia:
“amicu ca iri faciti di cursa,
nun viriti ca pirdistivu l’urnamentu
ca a lu vostru paisi è grannhi vantu?
Turnati pi nun fari fatia persa!
Stu passiggeru, senza scumpunimentu,
si ferma di bottu cu maravigghia,
e, isannu la manu lassa la brigghia,
e la frunti si tocca p’un mumento;
e arrispunnennu all’amicu furbu
ca cririri si facia gran furfanti:
“Amicu li me corna sunnu ‘nfrunti,
li vostri però nun viu o sugnu orbu?
Certu perdiri li facistivu ccà,
nun viri ca la testa s’alliggiriu cchiossà?
116
LO DATO FRANCESCA
POESIA
Compari ortulanu vi cunfessu cà
a mia mi piaci assai lu vinu
e lu tegnu caru nà la utti mia.
E ora arrispunnu iu cumpari pitturi e vi dicu,
cà pi mia amu assai l’acqua,
cà iu senza acqua mi viu persu
cà di tanti travagghi ca aiu fattu
si nùn chiovi sugnu pirdutu,
e prego notti e jornu a lu signuruzzu
chi mi aiuta e fa chioviri,
ca si manna l’acqua di lu cielu
iu e la mia famigghia la pasta
e lu pani dicà laiu accattari,
caru compari ognunu garantemu u nostru interessu
117
ANTONINO LO PIPARO
‘NTA LU MUNNU IN CERCA D’AMURI
Un toccu di picciriddi di la luntana Russia,
si misiru l’ali e vosiru velari,
e vonnu sapiri, si ancora ‘nta stu munnu
chinu di massacri e di tirruri, chi fu fattu bellu di nostru Signuri,
ancora c’è un angulu d’amuri.
E parteru, passaru celu, terra e mari
e ‘mmenzu di acqui azzurri
vittiru la nostra bedda Sicilia,
ridenti, china di suli e d’amuri,
chi l’aspittava.
Calare ‘nta lu nostru paisi
e pusaru supra un grandissimu arbulu di pinu,
unni supra la cchiù avuta cima,
c’era mamma Antonella cu li brazza aperti
ca cu tantu amuri l’aspittava,
si l’abbrazzò tutti e si li scinniu
dintra la so bella casa.
Io li vitti e mi ficiru tanta tinnirizza,
la vuci e l’amuri di mamma Antonella
traforò tutti li casi di lu nostru paisi,
unnè chi tanti matri disposti a dari affettu e amuri
si sparpagghiaru e si li purtaru dintra li so casi
e iddi chini di gioia, facennu lu cantu come l’acidduzzi,
truvaru lu nidu di l’amuri e di la paci.
Vulissi ca pi tutti li Nazioni
e pi tutti i paisi ru munnu
avissiru l’amuri e l’esempiu
c’annu ratu sti granni matri di lu nostru paisi,
nun ci fussiru cchiù guerri,
nun ci fussiru massacri
e rignari la paci.
118
MANNINO GIOVANNI
ANGILU
A ‘n’angilu
ca si pusò supra li me spaddi
cci vosi dummanari:
“Unn’è l’autru munnu?”.
Iddu m’arrispunniu:
“E’ ccà!”
Quannu sta vita
ti vota li spaddi
ti cci trovi ‘nfunnu.
119
LILIANA MAMO RANZINO
OCCHIU DI MATRI
Senza a nuddu vuliri livari
v’assicuru ca sulu ‘na matri
certi cosi li po’ capiri.
Li figgi sunnu sangu du sò sangu
ciamma di lu sò cori
focu di li so vini.
A matri di li figghi
talia la cera
e quannu li viri patuti e sicchi
ccu l’occhi ci vulissi
unciari li masciddi.
Subbitu s’innaduna
si soffrinu
e già ‘nta lu sò cori
c’è ‘n ranni pena.
A matri a li figghi
ci talia la vucca
e l’ucchiuzzi
si sunni risolini
e ‘nta lu so cori
si viri passari tutti li peni.
Accussi, iu e tutti li mastri veri
talianu li propri figghi,
li propri criaturi
e vulissiru
ca sempri contenti e alleri fusiru
mai afflitti da guai e peni
e pì iddi preianu
matina e sira
ccu sincera firi.
120
MARIA ROSA TOMASELLO
LU SBAGLIU DI RENZINU
Picchì si sinteva granni,
picchì si sinteva omu
picchì vuleva essiri libiru,
comu na foggia
ca si stacca di l’arbulu,
un ghiornu
di casa scappò Renzinu
e, ‘ncumpagnia
di quattro amici,
lassò lu so paisi.
Ma aveva fattu pochi passi,
pochi passi appena
e già n’era pintutu,
vuleva a casa riturnari,
ma comu a correnti d’un ciumi
chiddi quattro su trascinare luntanu.
Passò na simana
e chi sacchetti vacanti
tutti si truvaru;
qualcunoi piunsò di iri a rrubari
pi putiri campari
senza travagghiari.
Ma sulu Renzinu dissi:
“iu nun ci vegnu!
sta pinsata nun mi convinci
pigghiatimi pi vigliaccu,
si vuliti,
ma iu lu stessu vi salutu
e pi la me strata vaiu.
Iu vogghiu sazziarimi di pani
‘mpastatu di travagghiu,
rispirari aria pulita
‘nta la vecchia casa
rispicchiarimi
nna l’uocchidi lu munnu,
e cerca
di paroli saggi.”
121
CATEGORIA BAMBINI
E RAGAZZI
122
SEZ A POESIA DIALETTALE
1° CLASSIFICATO SEZ A POESIA DIALETTALE
ENZO CIVILETTO:
Civiletto Vincenzo è nato a Termini Imerese il29.09.1994, abita a Cerda e frequenta
nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
U MISTERI DI ME PATRI
Quannu a notti veni,
accumincia u misteri di me patri.
Iddu arriva o furnu ch’è ancora scuru
E accumincia a ‘mpastari.
Fa u pani e tanti autri cosi boni.
Metti ‘nsemmula
A farina, u Sali, u lievitu, l’acqua,
e li fa girari.
U fa comu ‘na vota.
Sulu ca si fa aiutari de macchini
ca ci sunnu uora.
Quannu su pronti i pupi,
li fa limitari.
Aspetta cu pazienza u tempu ca ci voli.
Ora è pronto pi ‘nfurnari.
Passa u tempu, e quannu si coci,
u sciauru arriva, arasciu arasciu,
‘nte casi di li cristiani, e li fa struvigghiari.
Eccu ca aggiorna
E tutti s’accattanu lu pani cauru cauru.
Comu è bieddu u misteri di me patri
123
MARRAFFINO ELENA:
Marraffino Elena undici anni, ha tanti hobby, ma il suo preferito è la lettura.le piace
la scuola ed adora stare insieme agli amici. E’ vincitrice del concorso per “LA
MIGLIORE PRODUZIONE COMUNICATIVA”, anno scolastico 2002/2003 E’
vincitrice del concorso di letteratura “IO E IL LIBRO”, anno scolastico 2004/2005.
Ha partecipato al 1° concorso letterario “MAESTRO CALOGERO RASA”,
presentando la poesia in dialetto siciliano sotto citata “U PUTIRI DI NNIENTI”, che
è stato oggetto di studio di una scuola del Friuli, con la pubblicazione su un giornale
locale…… Anche nella sua scuola L. Pirandello di Cerda, il Preside ha messo in
circolare la stessa, al fine di farla leggere ai ragazzi dell’istituto.
U PUTIRI DI NNIENTI
(IL POTERE DEL NIENTE)
A MAFIA………..
A MAFIA UNN’ESISTE !
CHI CUOSA E’ A MAFIA ?
UNNI’ E’ A MAFIA ?
A CHISTA DUMANNA ARRISPUNNINU TUTT’ ACCUSSI’……
STAIU ZITTA, TALIU A TELEVISIONE E SIENTU,
SIENTU CUOSI E CAPISCIU.
CAPISCIU CHIU’ DI UNU RANNI E PUOZZU MMAGGINARI.
SUGNU STATA FURTUNATA……………
FURTUNATA PICCHI’ NASCIU N’TA NA FAMIGGHIA
CA’UNNE MAFIUSA
MA AUTRI PICCIRIDDI COMMU AMMIA, UNN’ANNU
AVUTU STA FURTUNA.
SUBBISCINU E CUNTINUANU A SUBBIRI
E QUANNU SU’ GRANNI ANNU FUORSI UN PUTIRI
U PUTIRI DI NNIENTI
PICCHI A MAFIA E’……….. NNIENTI !!!!!!!
Questa poesia la dedico alla mia famiglia, e ai miei docenti che mi hanno
insegnato in tutto questo tempo……………
124
SEZ B “POESIA IN ITALIANO ”
1° CLASSIFICATA SEZ B POESIA IN ITALIANO
JLENIA MARIA MARRAFFINO:
Marraffino Jlenia Maria ,di Francesco Antonio e Tuso Concetta è nata a Cefalù (PA)
il 24.12.1994 è residente in Via G.Cascino n°58 – 90010 Cerda(PA). Frequenta il I°
anno della scuola secondaria di I° grado dell’Istituto Comprensivo “ L. Pirandello ”
di Cerda (PA).
Vincitrice del I° Concorso Letterario “ Maestro Calogero Rasa ”, Categoria
“
Poesia in Italiano ”, organizzato dall’associazione culturale “ La Nuova Compagnia
Città di Cerda ”, svoltosi a Cerda il 26/12/2004 (vedi Poesia allegata); Seconda
classificata alla 5^ Festa della Canzone Italiana organizzata dall’Istituto Comprensivo
“ Paolo Balsamo ” di Termin Imerese (PA) il 15/04/2005.
Hobby: Disegno; Canto; Ballo ( frequenta da diversi anni la scuola di danza “ Show
Dance “ di Cerda e ha partecipato a diverse gare regionali di Ballo Liscio con ottimi
piazzamenti );
Jlenia Maria Marraffino ha partecipato anche alla sezione narrativa con il
brano “Una ragazza coraggiosa”
“ IO VORREI ”
……….Per Natale Vorrei…..
………qualche cosa che molto apprezzerei.
Per i bambini del terzo mondo Vorrei che avessero da mangiare,
qualche abito da indossare
e una casa dove alloggiare.
Loro per passare un Natale felice, in allegria ed armonia,
io so che per loro basterebbe un sorriso pieno di affetto e magia.
125
BONDI’ SINA:
Bondì Sina è nata a Termini Imerese il 27.05.1994, abita a Cerda e frequenta
nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
Titolo di studio: Sono stata ammessa al successivo grado di istruzione con OTTIMO
Attestati di partecipazione:
Mi piace ballare,cantare e studiare;ho partecipato a tante manifestazioni
-Ho vinto il 2° trofeo di Mazzara il 25/03/01 Liscio Unificato 3° posto; Una coppa
Conca D’Oro Bagheria Maggio 2001 Liscio Unificato 2° posto ; 1° Trofeo
dell’amicizia Bagheria Aprile 2002 Ballo da Sala 3° posto 2° Trofeo Dionisio
Siracusa 3 Novembre 20 Liscio Unificato 1° posto; 2° Trofeo Dionisio Siracusa 3
Novembre 2002 Ballo da Sala 2° posto.
Al Campionato Regionale Sicilia
23-24 Novembre 2002 Di Barcellona Liscio
Unificato 2° posto
Nella categoria 6-9 anni
Al Trofeo Conca D’Oro Palermo 12 Dicembre 2004 Liscio Unificato 1° posto; Al
Campionato Regionale Bagheria 4-5 Giugno 2005 Competizione Danza Sportiva 2°
posto
E in molte altre gare mi sono classificata nei primi 6 posti
Ho partecipato a molti FESTIVAL della canzone BABY classificandomi una volta 2°
posto e un’altra volta al 3° posto e anche quest’anno ho partecipato classificandomi
2° posto; Ho vinto quest’anno a scuola il 1° posto partecipando al primo corso di
BASKET a squadra
Ho partecipato alla 5° festa della canzone italiana A.S. 2004-2005 all’istituto
Comprensivo “PAOLO BALSAMO” di Termini Imprese classificandomi al 4° posto.
Ho partecipato al 1° Concorso Letterario “MAESTRO CALOGERO RASA” a
Cerda il 26/12/2004.
LA LUCE
Nel cielo c’è una luce
che splende ogni dì,
fa sorridere l’uomo
e tutti quelli che ci stanno intorno.
Illumina tutto il mondo
e dà vita ogni giorno.
Ogni tanto scompare
e finisce di luccicare.
126
CIRRITO GIUSEPPE:
Cirrito Giuseppe è nata a Termini Imerese il 20.01.1994, abita a Cerda e frequenta
nell’anno scolastico 2004-2005 la 5 elementare nell’istituto di Cerda.
CERDA
Cerda è un piccolo paesino,
molto bello e tanto carino,
conta 6.000 abitanti
e sono per la maggior parte persone eleganti.
Il carciofo è uno dei simboli principali,
insieme alla chiesa e alle zone municipali.
La “Targa Florio” è una gara automobilistica rilevante,
definita dai migliori automobilisti una corsa molto importante.
Il paese si trova ai piedi di una collina,
e per le sue bellezze l’hanno messo in cartolina.
Questo è tutto dalla mia fantasia
E mi raccomando non buttatela via!
127
FUSCO MARIA ELENA:
Fusco Elena Maria è nata a Termini Imerese il 19.10.1994, abita a Cerda e
frequenta nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
Sono Fusco Elena Maria, ho 11 anni, a settembre frequenterò la 1^ classe della
scuola media.
Quando non ho impegni, preferisco giocare al computer, guardare la Tv o ascoltare la
radio, nelle belle giornate vado in giro con i miei amici,la sera , invece, preferisco
leggere qualche pagina del mio nuovo libro.
Quando ho scritto questa poesia, ero molto entusiasta all’idea di partecipare per la
prima volta ad un concorso letterario che, secondo me, è stata una bella iniziativa.
POVERA NATURA!
La natura sta morendo
perché tutti stanno continuando
a farle del male.
Inquinando il mare
inquinando l’aria
e neanche si accorgono che
stanno facendo del male a loro stessi.
Tagliando gli alberi
l’ossigeno si tolgono,
ma essi,
non stanno neanche ad ascoltare
le persone che la vogliono salvare.
128
GULLO VINCENZO:
Gullo Vincenzo è nato a Termini Imerese il 20.08.1990, abita a Cerda dove è solito
dedicarsi alla lettura e scrittura.
L’AUTUNNO
Non c’è niente di bello
Dopo l’estate vien l’autunno;
i colori, i rumori
e lo scricchiolar delle foglie
che pian pian van cadendo
dagli alberi.
Il sospirar della tranquillità
e del tuo fresco profumo;
le passeggiate nei boschi
il pensier di vita degli scoiattoli e di natura.
Le giornate di vento
E di un sospirar di tranquillità.
Mio caro vecchio autunno
Ti saluto con tutto il mio cuor.
129
LAZZARA ANGELA:
Lazzara Angela è nata a Termini Imerese il 02.03.1994, abita a Cerda e frequenta
nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
IL MIO DIARIO
Tondo come il sole,
ci scrivo tante parole.
Azzurro come il mare
Non mi potrei di certo annoiare.
O giallo, o blu
Il mio diario sei solo tu!
130
MICELI MARIA LUISA:
Miceli Maria Luisa
è nata a Cefalù il 29.04.1994, abita a Cerda e frequenta
nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
IL MIO CARO DIARIO
Filastrocca del buon diario
Che ti scrivo in ogni orario,
Tutto ti scrivo con impegno
E ti decoro con qualche disegno.
Ti rileggo con allegria
E ti richiudo con simpatia.
Spero di tenerti sempre con me
E fare colazione con latte e caffè.
Il diario è il mio migliore amico.
131
PIZZO CONCETTA:
Pizzo Concetta abita a Cerda e frequenta nell’anno scolastico 2004-2005 la 5°
elementare nell’istituto di Cerda
LA PIOGGIA
In cielo c’è un grande nuvolose
E presto tutti apriranno l’ombrellone.
La pioggia scende piano piano
Formando un acquitrino.
C’è acqua su un fiorellino
Che si asciuga con un fazzolettino.
La pioggia smette, è tutto sereno
E in cielo c’è l’arcobaleno.
NATALE
Il Natale è bello e buono
E in ognuno di noi c’è qualcosa di buono.
C’è una stella bella e gialla
Sopra la capanna.
C’è il bue e l’asinello
Che riscaldano il Bambinello.
In ogni casa c’è qualcosa di bello
Un bell’ alberello
132
RUBINO CHIARA :
Rubino Chiara è nata a Nola (NA) il 31.05.1994 e vive a Cerda. Ha frequentato
nell’anno 2004-2005 la 5^ elementare – sez B – istituto comprensivo di Cerda.
Hobby preferiti: Leggere, scrivere poesie e racconti, e disegnare; Materie scolastiche
preferite: Italiano, storia ed educazione all’immagine
NATALE
Festeggiamo insieme,
quando arriva
il Natale,
con canti, canzoni
e preghiere.
Festeggiamolo insieme
Per stare felici
Con parenti, persone care e amici
133
SEZ C “NARRATIVA”
1° CLASSIFICATA ALLA SEZ C “NARRATIVA BAMBINI”
RUBINO CHIARA:
Rubino Chiara è nata a Nola (NA) il 31.05.1994 e vive a Cerda. Ha frequentato
nell’anno 2004-2005 la 5^ elementare – sez B – istituto comprensivo di Cerda.
Hobby preferiti: Leggere, scrivere poesie e racconti, e disegnare; Materie scolastiche
preferite: Italiano, storia ed educazione all’immagine
NERINA
C’era una volta una strega che si chiamava Nerina ed era molto distratta. Ella, infatti,
dimenticava ogni cosa. Una volta fece una pozione per trasformare la principessa
Rosa in una rana; ci riuscì, ma solo per un giorno, perché si era dimenticata le ali di
pipistrello. Un’altra volta cadde dalla scopa proprio in un campo di aglio e ci volle
l’aiuto di una sua amica per tirarla fuori dal campo, perché l’aglio l’aveva indebolita.
Un giorno decise di fare una passeggiata nel bosco, per concentrarsi sul suo prossimo
incantesimo. Mentre passeggiava fu attirata da una rosa nera che aveva il potere di
trasformare una strega allieva in una strega superiore cioè quella con poteri maggiori.
Allora lei non resistette alla tentazione e raccolse la rosa; a quel punto si trasformò in
una strega potentissima. Da quel momento tutti ebbero paura di lei e restò da sola. La
solitudine però la rese sempre più triste e Nerina pensava che forse era meglio se non
avesse raccolto la rosa nera. Un giorno, durante un incantesimo, apprese che nel
bosco esisteva la rosa bianca che poteva farla ritornare buona anche se avesse perso
tutti i suoi poteri. Andò nel bosco a cercare la rosa bianca e dopo un po’ la trovò. A
quel punto, raccolse la rosa preferendo di non restare mai più da sola e visse da allora
in compagnia delle sue amiche di un tempo, passando le giornate a ridere e scherzare
anche dei guai che combinava.
134
LO NERO ROSSELLA:
Lo Nero Rossella
è nata a Termini Imerese il 03.08.1994, abita a Cerda e
frequenta nell’anno scolastico 2004-2005 la 5° elementare nell’istituto di Cerda.
IL SOGNO DI UNA PICCOLA BALLERINA
Tanto tempo fa in un paesino sulle montagne delle Madonie viveva una bambina di
nome Rossella. Aveva un grande sogno, quello di fare la ballerina di danza classica.
Rossella quando non era a scuola, ballava sempre, anche la notte, quando dormiva
sognava di ballare e la sua mamma la trovava in piedi sul letto. Rossella viveva in
una casetta molto piccola e così quando doveva ballare si metteva in una piccola
piazzetta vicino casa. Quando lei ballava sembrava una farfalla che volava e cosi le
persone che passavano si fermavano a guardarla e rimanevano incantate. Un giorno
in quel paesino arrivò un circo. Un acrobata girava per le vie del paesino, la vide
ballare e rimase incantato dalla sua bravura. L’acrobata andò a dirlo al proprietario
del circo. Rossella accettò. Il giorno della sua esibizione, il circo era pieno zeppo di
persone. Quella giornata per Rossella fu un grande successo. Da quel giorno Rossella
insieme a quelli del circo girò il mondo: così il sogno di Rossella si avverò e divenne
la ballerina più brava e famosa del mondo.
II° brano presentato al concorso:
LA PICCOLA PRINCIPESSA
C’era una volta una bambina di nome Karima ed era la figlia della regina Carolina e
del Re Calimero. Per il compleanno della principessa Karima, il Re e la Regina
organizzarono una grande festa e invitarono tutte le persone più ricche del Reame. La
piccola principessa il giorno del suo compleanno era felice, ma quando cominciarono
ad arrivare gli invitati si accorse che erano tutte persone grandi, non c’era neanche un
bambino, e il suo viso si rattristò. La Regina le chiese: “ che hai? Non sei contenta
della sorpresa”. “ Si mamma, sono contenta, ma avrei preferito una festa con tanti
bambini come me” rispose la principessa. La festa però continuò lo stesso, e quando
portarono la torta si spensero le luci. Al momento di spegnere le candeline, il Re le
disse: “prima di esprimere le candeline esprimi un desiderio, e tutto quello che
vorrai, io te lo darò.” La principessa disse: “il mio desiderio è quello di volere alla
mia festa tutti i bambini del regno, ricchi e poveri, e voglio mangiare la torta con
loro”. Allora il Re fece chiamare al castello tutti i bambini del regno e sul viso della
principessa spuntò il sorriso: Karima fu felice e vissero tutti felici e contenti.
Questa favola ci vuole fare capire che tutti siamo uguali sia ricchi che poveri.
135
JLENIA MARIA MARRAFFINO:
Marraffino Jlenia Maria ,di Francesco Antonio e Tuso Concetta è nata a Cefalù (PA)
il 24.12.1994 è residente in Via G.Cascino n°58 – 90010 Cerda(PA). Frequenta il I°
anno della scuola secondaria di I° grado dell’Istituto Comprensivo “ L. Pirandello ”
di Cerda (PA).
UNA RAGAZZA CORAGGIOSA
C’era una volta un leone scappato dal circo e andava girolonzolando per le strade
della città facendo paura a tutte le persone che incontrava. La notizia arrivò
all’orecchio di una bambina che si chiamava Luisa e che parlava con gli animali, ma
nessuno le credeva. Il suo sogno era di essere creduta da tutti. Così la bambina si
mise subito in cerca del leone. Trovatolo si misero a parlare e il leone le disse che lui
era scappato dalla sua gabbia perché lo frustavano e, per quel motivo, noin ci sarebbe
più tornato. Luisa rispose che se lui fosse ritornato a lavorare al circolo, i suoi
padroni non gli avrebbero dato più frustate. Il leone si convinse a tornare al circolo, e
le disse di rimanere con lui e i suoi padroni per lo spettacolo. Luisa accettò e così lei
il leone e i suoi padroni fecero un grande spettacolo e diventarono tanto amici da
stare tutti insieme a fare tanti altri spettacoli maestosi. Tutti i bambini vedendo quegli
spettacoli bellissimi, rimanevano tutti incantati. Luisa suscitava tanto stupore che
continuò a lavorare al circo con i suoi amici migliori: il leone e i padroni del circo.
Da quel giorno il leone non ebbe più frustate, e rimasero tutti insieme felici e
contenti. Luisa realizzò il suo sogno di far credere a tutti che lei veramente parlava
con gli animali.
La morale di questa favola è che¨” Con le buone maniere si ottiene tutto”
136
INDICE DEGLI AUTORI
BARBERA PIETRO è nato a Trapani nel 1959 dove risiede.Testo a pag. 65
BATTAGLIA GIUSEPPE è nato a Paleremo nel 1929 e vive a Sciara dedicandosi
alla poesia e alla lettura. Testo a pag. 66-106
BONAFEDE GIOVANNA è nata a Paleremo nel 1963. Abita a Cefalù. Testi pag.
57
CALI ROSARIO vive a Cerda dedicandosi agli studi.Testo a pag. 67
CAMPILUNGO LOREDANA è nata a Colonia nel 1980 e vive a Cariano (LE).
Testo a pag. 68
CAPPADONIA EMANUELE nato a Paleremo il 15.10.1990, abita a Cerda. Testo a
pag. 69
CAPPADONIA LO DATO FRANCECA è nata a Montemaggiore Belsito il
19.05.1940, abita a Cerda coltivando l’amore per la Poesia. Testi pag. 28 – 84 - 115
CARTA SALVATORE Nativo di Paleremo nel 1939 dove abita Testi pag..
22 - 70
CASALE ANGELA nata ad Alia nel 1957 vi abita coltivando l’amore della famiglia
e della poesia.Testi pag 71 - 107
CASTAGNA GIORGIO , Nato a Milano il 11.01.1974, abita a Cerda (PA).
Studente universitario laureando in scienze geologiche. Ha partecipato a diversi
concorsi letterari. Testo pag. 72
CAVALLO CARLA è nata a Modica (RG) il 12.07.1962 dove risiede. Testo pag.
63
COSTANTINI DANIELA
ha un grande amore per la poesia e nel suo sito web raccoglie i suoi scritti carichi di
emozioni e ricordi. Proprio per questo il suo sito si chiama “Nostalgia e Tenerezza”
(www.nostalgiaetenerezza.it). Ha 47 anni e lavora presso il Ministero per i beni e le
attività culturali. Vive nella splendida città di Roma ed ha due figlie, Elisa e Valeria
Rimasta vedova dopo una tremenda malattia del marito, è, in questo momento della
sua esistenza, una delle poche cose che la tiene saldamente attaccata alla vita è
proprio il conforto della poesia. Ha conseguito diverse vittorie e segnalazioni speciali
in concorsi letterari nazionali ed internazionali tra cui
“Un Messaggio in bottiglia”
“Premio Poesia d’Amore 2004” indetto dall’A.I.A. Poesie della vita
Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Creatività Itinerante città di Bari”
Premio Letterario Internazionale di Narrativa e Poesia “Tra le Parole e l’Infinito”.
137
È stato inoltre pubblicato un suo racconto intitolato “La forza della vita” nell’ambito
della raccolta intitolata “Le donne. La storia, le storie” a cura della Dott.ssa Silvia
Pezzoli e della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, prof. Giovanni
Bechelloni. Ha conseguito inoltre una MENZIONE D'ONORE nella II edizione del
Premio Nazionale di Poesia "SAN PRIMO" con il patrocinio del Comune di
Leggiuno - Provincia di Varese .
Ha partecipato inoltre al Premio Autore dell’anno 2005 “Renato Milleri – REMIL "
ottenendo ottimi risultati.
Tra le ultime vittorie, ha avuto una MENZIONE D'ONORE nella VI edizione del
Premio Poesia Itinerante Città di Bari, una Poesia Selezionata nell’ambito del
Concorso Letterario “Scriviamo insieme il CD dell'Amore” ed un attestato di
partecipazione alla 3° Edizione Premio Internazionale di Poesia "TRABIA" Giuseppe Sanseri -Maggio 2005. Testo a pag. 64
CURCIO VALERIA è nato a Paleremo nel 1986 e abita a Cfalù. Testo pag. 73
DATTOLA PIETRO
Laureando in Giurisprudenza, lavora in qualità di traduttore dall’inglese presso la
Synthesis International, per la quale cura la localizzazione e l’adattamento in lingua
italiana di videogiochi per PC e console. Da tre anni è anche impegnato nello studio
della lingua giapponese, non saprebbe spiegare neanche lui bene perché.
Nel 2004 scrive il suo primo dramma, L’attesa, con il quale vince la IX edizione del
premio Oddone Cappellino. Nello stesso anno, con il monologo L’uomo senza
abitudini rientra nella rosa dei semifinalisti della IV edizione del premio Napoli
Drammaturgia in Festival e vince e viene segnalato in diversi concorsi letterari per
narrativa breve, tra cui quello intitolato al prof. Rasa con il racconto Lo Scontro. Il
suo secondo dramma, Il signor Cugino, vince la XXXII edizione del premio Flaiano
per il teatro (sezione under 30). Testo pag. 12
DAVANZO SILVIA è nata a Vercelli nel 1985 e abita a Lignina Vercelli (VC).
Testo pag. 75
DI GAETANO ENZO Nativo di Termini Imerese nel 1942 ove risiede. Pensionato
della Fiat, da qualche anno si dedica alla poesia.Testi pag. 74 - 108
DI GIOVANNI PIETRO Nato a Seeheim-Jugenheim (Germania) nel 1978, risiede
a Cerda. Studente Universitario.Testo pag 109
DI GREGORIO ANTONINA è nata a Cerda il 10.02.1955 e risiede a Novi Ligure,
anche se ritorna spesso nel suo paese d’origine. Si dedica nella scrittura di racconti.
Ha scritto diversi libri fra i quali “Il Bottone Nero” Testo pag. 29
DI LORENZO MICHELANGELO è nativo di Bagheria nel 1942 dove vi abita.
Testi pag. 76-110
DI PASQUALE ENRICO è nato a Paleremo il 06.05.1987, abita a Cerda. Testo pa.
77
138
ELIA RITA Nativa di Termini Imerese vi abita dedicandosi alla poesia. Testi pag
102
GAGLIO LEONARDO Nativo di Palermo , frequenta il liceo di Partitico . Si è
classificato 2° alla 7° edizione del concorso di narrativa presso la scuola media
Ettore Romagnoli di Gela. testi pag 33 - 78
GALIOTO GRISANTI PAOLA Residente a BagheriaTesti pag. 79 -111
GERACI SALVATRICE PIETRA Nativa di Petraia Sottana nel 1978 e residente a
Sclafani Bagni. Testo pag. 63
GIOJA PIETRO è nato a Paleremo nel 1958 e residente sempre a Paleremo. Testo
a pag. 80
GIURDANELLA ENZA è nata a Modica (Ragusa) nel 1969 dove abita. Testi pag.
82 -112
GULLO SERAFINA MARIA è nata a Cerda nel 1963, abita a Cerda. Studente
universitaria.Testo pag. 113
IMBURGIA SALVATORE Nato a Cerda nel 1946 vi abita fin dalla nascita.
Occupa la carica di vice comandante la Polizia Municipale. E’ Presidente
dell’associazione La Nuova Compagnia città di Cerda gruppo folk i Carrettieri con i
quali ha girato quasi tutta l’Europa. Testo pag. 114
INZERAUTO SALVO Nato a Paleremo nel 1949, risiede a Santa Flavia (PA).
Testi pag 83 -104
LO PIPARO ANTONINO nativo di Bagheria dove abita dedicandosi alla poesia
dialettale. Testi pag. 116
MAMO RANZINO LILIANA è nata a Nardò (LE) il 04.09.1934. Risiede a Cefalù
dove ha insegnato alle scuole elementari, ora in pensione. Ha pubblicato diversi libri
tra i quali: QUEL CHE RESTA, ed ETERNA CONTEMPLAZIONE. Ha vinto
innumerevoli concorsi di poesie. Testi pag. 36 – 85 - 118
MANNINO GIOVANNI è nato a Carini nel 1937 dove risiede dedicandosi alla
Poesia. Testi pag 86-117
MARZANO ROBERTO Nativo di Genova nel 1959 e residente a Chaivari (GE)
Testi a pag. 59
MOSCATO AGOSTINO è nato a Termi Imerese nel 1959 dove risiede. Diplomato
ISEF si specializzato per l’insegnamento del sostegno, si è sempre occupato a scuola
degli alunni diversamente abili. Dal 1992 è presidente del circolo “L’Acquilone”. Ha
partecipato a innumerevoli corsi. Ha pubblicato un libro dal titolo “Quattro temi per
l’ambiente”. Testo pag. 39
139
NOVELLI FABIO vive a San Benedetto del Tronto(AP) . Testo a pag. 87
OLIVIERI KATIA è nata ad Avellano nel 1973, vive a Tivoli Terme. Testi pag. 42
- 88
PAGANO VALERIA
È nata a Torre del Greco il 2 aprile 1981. Attualmente vive a Milano dove studia
Lettere Moderne e si occupa da qualche anno prevalentemente di letteratura e
giornalismo.
Ha curato un mini saggio sulla grammaticografia italiana per il sito internet
“Letteratour.it” , scrive per alcune testate online e per il giornale Ephemerides di
Torre del Greco.
Nel dicembre 2004 vince il secondo premio del concorso indetto dalla città di Cerda
“Maestro Calogero Rasa”, mentre nel marzo 2005 arriva finalista al concorso
“Miglior incipit libidinoso” indetto dalla Scipioni Editore.
In futuro spera di continuare ad occuparsi di giornalismo (sua grande passione oltre
la fotografia) e di avere la possibilità di far sentire la sua voce attraverso quello che
scrive. Testo pa. 15
RENDA GIUSY è nata a Paleremo nel 1957 dove risiede dedicandosi alla poesia.
Vincitrice della Sez. “A” Testo pag. 100
RUNFOLA LUCIANO E’ nato ad Aliminusa il 22.04.1967 Vive a Cerda dove
insegna Lettere alla scuola Media di Cerda .Vincitore del Concorso Maestro Rasa
Calogero sez “B”. Testo a pag. 54
ROMANO MARIA ANGELA è nata a Paleremo il 01.09.1985e e abita a Cerda.
Testo a pag. 89
ROSSI RODOLFO nato a Sinalunga (SI) nel 1957 è residente a Roma. Testo a pag
18
SAVINO MARIO nativo di Tricarico(MT) nel 1976 vive a Potenza. Testo a pag. 91
SETTEMBRE GIUSEPPE Vive a Termini Imerese dove si dedica con passion e
alla poesia. Testo pag. 44 - 92
SICLARI CATERINA nativa di Messina nel 1952 dove abita. Testo a pag. 93
SCORSONE LUIGI SALVATORE è nato a Cerda dove vive dedicandosi alla
lettura e alla poesia. Studente universitario. Testi a Pag. 47 – 90
SUNSERI SALVATORE è nato a Paleremo il 30.09.1979 e risiede a Cerda
dedicandosi a molteplice attività come sunare nella Banda musicale di Cerda e nel
gruppo folk I Carrettieri- Testo a pag. 94
TOMASELLO MARIA ROSA risiede a Bagheria coltivando l’amore per la
poesia.Testi pag 95-119
140
VALLATI LENIO Testo a pag. 50
VENTURINI GLORIA
ha ideato e organizzato la prima, seconda e terza edizione del Concorso
Internazionale di Poesia e Prosa, “L’arcobaleno della vita” della Città di Lendinara,
di cui è anche il Presidente della giuria.
Collabora con il Centro Studio di Torino, come giurata nei concorsi letterari. Le sue
opere sono state pubblicate in varie antologie, su siti internet, dove ha ottenuto
l’interesse dei lettori.
Gloria è stata ospite del programma televisivo “Guglielmo Tell”, trasmesso da
Telestense, in qualità di autrice di poesie. - Pubblica la sua prima raccolta di poesie
nel febbraio 2003: Camminando tra i giardini dell’anima.
La giuria del premio letterario “I Fiori 2002” (Edizioni fiori di campo – Londriano
PV) ha giudicato la sua poesia Luce svelata meritevole del quarto posto.
La commissione della XX° Edizione Internazionale “Premio per la pace” a cura
dell’Associazione Cultura e Società di Torino, le ha conferito una segnalazione di
merito per l’opera Rimasero solo anime.
A Gloria viene assegnato il terzo premio nella sezione poesia del Concorso San
Giacomo (FE) con l’opera Perdonami. - Nel giugno 2003 pubblica la seconda
edizione integrata della sua raccolta di poesie Camminando tra i giardini dell’anima
e la prima edizione della raccolta di racconti: L’arcobaleno della vita.
Concorso “Finalmente poesia” di Procida (NA) viene selzionata la sua poesia “Orme
che scompaiono”,
Conquista il 3° posto al Concorso nazionale L’arca dei sentimenti di Tradate (VA)
nella sezione narrativa con il racconto Ai bordi della vita,
3° posto al Concorso “Mario Mambretti” indetto dall’Associazione Anno Zero di
Senago (MI) con la poesia Scrittore di silenzi.
Si classifica al primo posto assoluto al Premio del Triveneto Città di Lonigo con la
poesia “Coriandoli di ricordi”;
con una trilogia di poesie il 3° posto alla V Edizione del Premio Ungaretti di Acerra
Napoli.
Vince il Premio unico per la sezione C al concorso Internazionale I Colori delle
Donne di Ascoli Piceno con la poesia Tra le mani stringevi ancora cotone.
Primo premio per la sezione narrativa alla 3° Edizione del concorso i Fiori 2003
Edizioni I Fiori di Campo (PV) con il racconto Ai bordi della vita; (Pubblicazione
del libro di racconti con ’omonimo titolo)
Segnalazione di merito alla XV Edizione del premio Biennale di poesia “Città di
Solfora” Acerra (NA) ;
Nomina di Accademico dall’Accademia Internazionale Il Convivio di Castiglione di
Sicilia;
4° posto con il racconto “Ai bordi della vita” al concorso letterario del Comune di
Crispano di Napoli.
Primo premio sezione narrativa al Concorso Letterario Parrocchia di San Giacomo di
Ferrara.
Terzo premio per la sezione silloge alla XXVI^ Edizione del Concorso Letterario
Internazionale Città di Avellino con la raccolta di poesia Petali d’ambrosia.
Vince il Concorso Don Lelio Podestà di Chiavari (GE) nella sezione narrativa,
segnalazione nella sezione poesia.
141
Pubblica il terzo libro di poesie Coriandoli di ricordi edito dalla casa Editrice e
Società Culturale I Nuovi Poeti (MI);
3° premio alla quarta edizione del premio nazionale di poesia Il Nodo di Taranto, con
la poesia La quinta stagione.
2° posto sezione poesia inedita al Premio Internazionale IL CONVIO 2004. Giuria
presieduta dal Prof. Giorgio Barberi Squarotti, la scelta è stata effettuata dal rinomato
scrittore.
2° posto sezione poesia premio internazionale ALIAS Consolato di MelburneAustralia 2004.
3° premio alla nona edizione del premio nazionale di poesia La quintastagione di
Lama Polesine (Ro)
Primo premio al Concorso del Triveneto Città di Lonigo con la poesia “Come una
quercia”.
Secondo premio all’ Ungaretti di Acerra Napoli. Testi pag. 19 – 101
Testo a pag 21- 96
ZAMPIERI LUANA vive a Quagliuzzo (Torino).Testo a pag. 97
142
Un ringraziamento particolare va alla commissione giudicatrice che per
diversi giorni si è impegnata nella lettura delle opere e poterle giudicare
e alle ragazze che hanno coadiuvato i giudici nelle operazioni per la
buona riuscita del lavoro.
LA COMMISSIONE GIUDICATRICE
DOTT. MICHELE LA TONA
PRESIDENTE
PROF.SSA DANIELA CAPPADONIA
GIURATO
PROF. SALVATORE LUZIO
GIURATO
PROF.SSA ROSANNA CICERO
GIURATO
PROF.SSA MONICA ALBANESE
GIURATO
SEGRETARIA DELLA COMMISSIONE
GIUSY MUSCARELLA
COLLABORATRICE
FRANCESCA IMBURGIA – CICERO ROSITA
143
Un ringraziamento particolare al Presidente dell’A.R.S. che ha voluto
onorarci del Patrocino
Un ringraziamento all’A.A.P.I.T. che ha fornito le coppe.
Al C.N.A. che ha voluto contribuire con un sostegno economico.
A tutte le ragazze e ragazzi che si sono impegnati per la buona riuscita
della manifestazione di premiazione.
Per la realizzazione di questo volume hanno collaborato:
Francesca Castagna
Maria Assunta D’Avolio
Francesco Dioguardi
Ermelinda Imburgia
Gaetana Leone
Loredana Mangano
144
Indice
Un illustre saggio poeta
pag. 4
Breve storia e curriculum
pag. 5
Presentazione
pag. 10
Narrativa
pag. 11
Poesia in italiano
pag. 53
Poesia dialettale
pag. 101
Categoria bambini
pag. 125
Indice degli autori
pag. 140
Commissione
pag. 146
Ringraziamenti
pag. 147
145
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Antologia 2004