La flessibilità in entrata alla luce del
Libro Bianco sul mercato del lavoro
G. Ferraro
.
1. Le molte sfaccettature della flessibilità.
Il dibattito suscitato dal Libro Bianco sul mercato del lavoro e dalle successive proposte di
delega (v. in particolare disegno di legge delega n. 848/2001), dopo le prime analisi di insieme,
fortemente connotate sul piano politico ed ideologico, richiede trattazioni settoriali sui principali
aspetti attorno ai quali si sviluppa la proposta governativa.
In questo lavoro si intende concentrare l’attenzione sulla cd. flessibilità in entrata, relativa
cioè alle varie misure promozionali connotate da un duplice obiettivo: di adeguare il
reclutamento della manodopera alle esigenze aziendali e di allargare le possibilità di accesso
all’occupazione. Tale indagine sarà sviluppata sia in relazione all’assetto attualmente vigente
(peraltro frutto di recenti innovazioni), sia in relazione alle proposte evolutive.
La scelta di tale problematica si giustifica per un verso in relazione al peso determinante
degli istituti implicati nelle complesse dinamiche del mercato del lavoro, per altro verso per i
riflessi che presentano su altri profili correlati ampiamente considerati nel Libro Bianco, tra cui
in primo luogo quello della c.d. flessibilità in uscita (ruotante sulla riforma dell’art. 18 St.), su
cui è maggiormente concentrato lo scontro politico e sociale1.
Le tipologie di lavoro flessibile costituiscono un capitolo importante del più ampio processo
di flessibilizzazione o di adattabilità delle prestazioni lavorative alle esigenze del sistema
economico-produttivo in un contesto di forte concorrenza a livello internazionale.
Un tale processo, diffusamente analizzato dalle prospettive più eterogenee, si esprime,
com’è noto, in innumerevoli manifestazioni particolarmente significative per l’indagine
lavoristica: si parla di una flessibilità “in entrata” e di una “in uscita”, per alludere alle
1
È appena il caso di ricordare che la delega interviene sulle varie forme di flessibilità. Anzitutto quelle interne al rapporto di
lavoro subordinato. In questa direzione si dilatano le possibilità di ricorso al lavoro a termine ed a quello a tempo parziale, si
rivede il rapporto di concorrenza e di integrazione tra i lavori subordinati e le collaborazioni coordinate e continuative, si
interviene sul regime dell’orario di lavoro sia giornaliero sia multi-periodale, si legittimano forme più accentuate di
esternalizzazione anche di mere attività lavorative, si interviene sull’area di protezione dell’art. 18 della legge n. 300/1970, si
ampliano sensibilmente le possibilità di fornitura di manodopera. Altri interventi legislativi sono prefigurati con riferimento alle
dinamiche organizzative del mercato del lavoro, in particolare per quanto concerne la riforma dei servizi per l’impiego e gli
ammortizzatori sociali.
1
procedure di reclutamento e di espulsione della manodopera (a quest’ultima viene collegata
anche la c.d. flessibilità numerica); di una flessibilità organizzativa e/o funzionale, per riferirsi
alle operazioni di adeguamento delle professionalità alle trasformazioni produttive ovvero, sotto
altro profilo, alla variabilità del regime degli orari di lavoro; di una flessibilità salariale, per
comprendere le esigenze di diversificazione dei livelli salariali in relazione ai tassi di produttività
aziendali e territoriali, del tutto assorbente nelle politiche di emersione e di riallineamento del
lavoro sommerso. E persino di flessibilità previdenziale, per riferirsi alle tecniche di
rimodulazione delle varie forme di assicurazione obbligatoria necessarie a garantire adeguati
standard di tutela ad un mercato del lavoro sempre più frammentato e diversificato.
Su un piano distinto il discorso investe le diverse tecniche regolative dei processi sociali
e la loro reciproca interazione: da quella imperniata sull’intervento categorico della normativa
inderogabile in funzione protettiva del soggetto economicamente e giuridicamente più debole,
che può subire, a seconda delle circostanze, progressive attenuazioni (c.d. flessibilità normata); a
quelle fondate su un complesso dosaggio tra l’intervento legislativo e quello sindacale, che
suggerisce le espressioni di una flessibilità concertata o delegata o addirittura “mite”; a quelle
che rinviano essenzialmente all’intervento di organi amministrativi con funzioni di mediazione e
di composizione dei conflitti e degli interessi del mondo del lavoro; a quelle fondate su
adempimenti procedurali o formali, che possono giungere fino alla recente proposta di una
“certificazione” preventiva dei contratti di lavoro e della loro qualificazione giuridica (art. 9,
d.l.d. n. 848/2001).
Peraltro la problematica sulla flessibilità ha alimentato negli ultimi anni analisi
economiche e sociologiche, molto sofisticate e suggestive, sugli interessi tutelati, sulle
implicazioni economiche e sociali, e persino sui costi umani e familiari della flessibilità nella
vita sociale e di relazione.
Sotto tale profilo, quando si affronta il tema in esame, non si può fare a meno di
incrociare alcune valutazioni o preoccupazioni, che, benché ormai rituali, meritano di essere
sommariamente evocate.
La prima si connette ai giudizi di valore sui costi della flessibilità, su cui opportunamente
insiste un’ampia letteratura sociologica2. Costi di certo molto elevati, non ancora adeguatamente
quantificati, specie in una prospettiva di lungo periodo, per gli effetti drammatici che ne
potrebbero derivare sia sulle condizioni di vita di ampie masse di cittadini, sia sui corrispondenti
trattamenti di quiescenza e di sicurezza sociale.
2
Per tutti v. L. GALLINO, 2001; U. BECK, 2000a; A. ACCORNERO, 2001)
2
La seconda considerazione si sintetizza nel rischio concreto, da molti avvertito, di un
impoverimento complessivo del mercato del lavoro e della stessa qualità della produzione a
causa di un continuo turnover di manodopera che determina la mera sostituzione di dipendenti
stabili con dipendenti flessibili senza che ciò realizzi un autentico surplus occupazionale.
La terza considerazione è collegata al rilievo, particolarmente caro alla lettura
giuslavoristica, sugli effetti sperequativi determinati da un mercato del lavoro così articolato,
stratificato ed eterogeneo. Effetti preoccupanti, specie in prospettiva, non adeguatamente
compensati dalle garanzie introdotte dalla più recente legislazione, anche comunitaria, che
riconosce una parità di trattamento destinata ad esaurirsi nell’ambito del singolo rapporto di
lavoro, e tali da far temere sulla “tenuta” del sistema di valori codificati nel testo costituzionale.
In una dimensione più strettamente macroeconomica, la flessibilità è venuta ad assumere un
ruolo di principio ordinatore nel funzionamento del mercato del lavoro quale fattore decisivo di
incentivazione e redistribuzione delle possibilità occupazionali e di allargamento dei soggetti
coinvolti: in tale versione ha trovato ampio credito a livello internazionale, sia pure con
gradazioni e tecniche alquanto diversificate3.
Nella vulgata neoliberista la flessibilità invocata si fonda sulla premessa che le rigidità
regolamentari nell’impiego del fattore lavoro ed i conseguenti costi economici del sistema di
sicurezza sociale – che dilata progressivamente la platea dei soggetti protetti e l’intensità delle
tutele –
costituirebbero un ostacolo decisivo alla crescita economica ed allo sviluppo
dell’occupazione, e pertanto si propugna una deregolamentazione generalizzata delle relazioni di
lavoro ed una riforma del welfare in senso minimalista, quale ricetta privilegiata per competere
sui mercati internazionali e sconfiggere la disoccupazione di massa. Solo eliminando le rigidità
normative che impediscono alle imprese di variare liberamente le condizioni di impiego in
aderenza alle fluttuazioni del mercato, sarebbe insomma possibile acquisire nuove quote di
produzione, ristabilire un equilibrio positivo nel mercato del lavoro e realizzare un adeguato
contemperamento degli interessi complessivi del mondo del lavoro.
A questa impostazione si oppone una concezione antitetica dello sviluppo economico e
sociale, da taluni definitiva di stampo neo-istituzionalista, che, oltre a contestare le premesse
teoriche su cui si fondano le teorie neoclassiche o neoliberiste sul mercato del lavoro,
clamorosamente smentite da verifiche empiriche4, si fonda invece sull’insostituibile ruolo
ordinatore delle istituzioni e dei soggetti pubblici nel contemperare la complessità degli interessi
in un’economia integrata a livello globale – di cui un capitolo decisivo è rappresentato proprio
dalla legislazione sociale e del lavoro - e sulla necessaria valorizzazione del capitale umano,
3
Per tale dibattito v. R. DEL PUNTA, 2002; A. FUMAGALLI, 2001; P. LOI, 2000; M. SALVATI, 2001; DEAKIN S. – F. WILKINSON,
1999; DEAKIN S. – F. WILKINSON, 2000.
4
Una critica serrata ad alcune “osservazioni” del Libro Bianco si trova in L. COSTABILE, 2001; ma v. pure F. MAZZIOTTI, 2001.
3
quali fattori imprescindibili per uno sviluppo competitivo e di qualità del sistema produttivo che
consenta al contempo una maggiore espansione e la massima integrazione sociale. Questo modo
di declinare la flessibilità rifiuta decisamente l’idea di un insanabile conflitto tra gli interessi
degli insiders e quello degli outsiders, ed una visione corporativa del ruolo dei sindacati, ed anzi
fa leva proprio sulla concertazione e sui sistemi di protezione sociale per favorire una
generalizzata emancipazione5.
Per questa valenza proteiforme del concetto in esame, si comprende allora una certa
insofferenza che il termine istintivamente suscita per avere assunto un significato così ampio,
allusivo ed indifferenziato da perdere qualunque efficacia qualificatoria e da richiedere pertanto
analitiche specificazioni e persino terminologie più pertinenti.
2. Classificazione della flessibilità in entrata in tre categorie
Tra le varie forme di flessibilità quella “in entrata”, relativa al momento genetico di
costituzione dei rapporti di lavoro, è senza dubbio quella più incisiva, ed anche di più ampia
realizzazione, probabilmente perché l’interesse aziendale a scegliere le condizioni contrattuali
si coniuga con l’obiettivo più generale di allargare la base occupazionale e di promuovere
opportunità aggiuntive per fasce sociali ed aree geografiche più deboli ed emarginate. Del
resto tale forma di flessibilità è suscettibile di riverberarsi su tutti gli altri processi di
adeguamento
delle
prestazioni
lavorative
alle
esigenze
del
ciclo
produttivo
e
dell’organizzazione aziendale.
L’attuale quadro normativo può essere convenzionalmente ricondotto in una triplice
classificazione: a) la prima comprende quelle tipologie flessibili riconducibili alla matrice tipica
del rapporto di lavoro subordinato, quale tuttora definita dall’art. 2094 del codice civile ed
arricchita dall’intensa legislazione speciale che ha raggiunto il culmine con lo Statuto dei
lavoratori del maggio 1970; b) la seconda comprende quelle fattispecie che scaturiscono dalla
matrice originaria del contratto di lavoro autonomo, ovvero da figure ad esso assimilabile; c)
infine la terza categoria si riferisce a quelle realtà normative che esprimono istanze innovative
5
Dalle premesse teoriche il discorso si sviluppa simmetricamente sulle ricette da adottare: il primo orientamento propugna una
deregolamentazione radicale del mercato del lavoro e delle relazioni industriali attuata attraverso una esaltazione dell’autorità
imprenditoriale che implica una sostanziale sterilizzazione delle sedi di formazione del consenso ed un decentramento dei
meccanismi decisionali. È questa definita la low-road alla competitività, basata su un low-wage, low-skill, low-worker
involvement, low-product quality equilibrium. Il secondo orientamento è invece basato su una ri-regolazione gradualistica e
consensuale mirata al coordinamento salariale ed all’investimento in formazione, e cioè al modello fondato su una high road, che
comporta invece alti salari, elevata qualificazione, alto grado di cooperazione e produzione diversificata di qualità. Nelle
esperienze concrete è chiaro che nessuna strada viene seguita in via esclusiva ma si integrano con diverse gradazioni (su ciò v. M.
REGINI, 2002).
4
che spesso forzano gli schemi negoziali tradizionali in relazione a nuove esigenze sociali e
produttive.
3. Flessibilità e lavoro subordinato – In particolare, il contratto di lavoro a tempo
parziale. –
Iniziando dalla prima categoria, vengono subito in esame i due modelli, ormai classici, di
contratti di lavoro a tempo parziale ed a tempo determinato, la cui attuale legislazione
sintetizza un travagliato processo di adattamento e di modularizzazione del contratto standard
agli stravolgimenti, interni ed internazionali, del sistema produttivo. Ma un peso non
trascurabile deve essere altresì riconosciuto a quelle tipologie negoziali connotate da finalità
formative, quali il contratto di formazione e lavoro e l’apprendistato, dalle quali scaturiscono
tipologie di impiego sempre più inusitate.
Il contratto di lavoro a tempo parziale, attualmente regolato dal d.lgs. n. 61/2000, che ha
recepito la direttiva comunitaria n. 97/81, emanata a seguito di un avviso comune siglato dalle
parti sociali (Unice, Ceep e Ces) a livello europeo, risulta tradizionalmente connotato da una
varietà di funzioni ed obiettivi: favorire un’adeguata elasticità del lavoro rispetto al sistema
produttivo, segnatamente sul versante della disponibilità dei tempi di lavoro; assecondare un
allargamento della base occupazionale venendo incontro ad istanze particolareggiate di alcune
categorie sociali (giovani, donne, prepensionati); assicurare una tutela specialistica e condizioni
di parità di trattamento ai lavoratori implicati, anche nella prospettiva di una trasformazione del
part time in rapporto ad orario pieno. Tuttavia, il dosaggio tra queste esigenze può essere
variamente calibrato, come insegna il confronto internazionale.
Nell’attuale esperienza italiana, sulla scorta delle indicazioni europee, è stato ampiamente
privilegiato l’obiettivo garantista di tutela del lavoratore. Ciò nondimeno, come da molti rilevato,
la traduzione normativa della direttiva comunitaria, sin troppo analitica, ha finito per imbrigliare
le originarie indicazioni comunitarie in un reticolato di prescrizioni formali e procedurali, con
l’effetto di contenere le potenzialità dell’istituto, il cui tasso di utilizzazione rimane tuttora nel
nostro paese notevolmente inferiore rispetto a quello rilevabile negli altri paesi europei.
La matrice ideologica di ispirazione si manifesta in maniera particolarmente significativa
nei due punti più qualificanti del testo normativo – che avevano dato luogo ad un ampio dibattito
dottrinale e giurisprudenziale – relativi rispettivamente alle c.d. clausole elastiche ed al lavoro
supplementare. In entrambi i casi la possibilità di ottenere un ulteriore tasso di flessibilità (oltre
quello strutturalmente connesso all’impiego del lavoro a tempo parziale nelle sue diverse
espressioni), sia modificando le fasce orarie di utilizzazione del lavoratore, sia richiedendo
5
prestazioni aggiuntive rispetto a quelle programmate, è assoggettata ad un procedimento sin
troppo sofisticato in cui interagiscono le prescrizioni della legge, le clausole autorizzatorie della
contrattazione collettiva e l’autonomia decisionale del singolo lavoratore (per non parlare del
ruolo di assistenza di alcuni organi amministrativi).
Da questo punto di vista può condividersi l’opinione che la legge presenti un tasso di
rigidità incompatibile con la sua più ampia divulgazione, quanto meno su alcuni aspetti cruciali
del rapporto, mentre più evasivo si presenta il dettato normativo sia nel garantire un vero e
proprio diritto al lavoro a tempo parziale, espressamente riconosciuto in altri ordinamenti (ad es.
in Olanda ed in Germania), sia nel favorire i processi di trasformazione in orario a tempo pieno.
Tutto ciò alimenta le richieste di modifica della disciplina vigente, di cui si è reso fedele
interprete il disegno di legge delega n. 848/2001, in materia di occupazione e mercato del lavoro
(art. 7), in una direzione tuttavia ritenuta unilaterale in quanto esalterebbe indiscriminatamente il
potere di articolazione dei tempi di lavoro da parte dell’imprenditore, specie in materia di lavoro
supplementare e di forme elastiche d’impiego, riducendo sensibilmente gli spazi d’intervento
della contrattazione collettiva (che sembra assumere una portata meramente sussidiaria).
4.Il contratto di lavoro a tempo determinato.
–Discorso diverso deve invece formularsi sulla legge in materia di lavoro a tempo determinato
(d.lgs. n. 368/2001), anch’essa recettiva di una direttiva comunitaria (n. 1999/70/UE), preceduta
da un accordo quadro concluso il 18.3.1999 dalle parti sociali (Unice, Ceep e Ces) a livello
europeo, che pure sottintende la stessa promiscuità di interessi. In questo caso, tuttavia, mentre la
legge comunitaria è prioritariamente protesa a tutelare il lavoratore a termine garantendo una
parità di diritti rispetto al lavoratore stabile “comparabile”, la normativa italiana recettiva sembra
alquanto sensibile a favorire una maggiore discrezionalità delle imprese nell’adozione di tale
modulo negoziale.
Il confronto tra i diversi interessi implicati ha dato luogo ad un testo normativo molto
articolato, in parte contraddittorio, che rende ragione delle divergenti ricostruzioni prospettate in
dottrina su punti qualificanti: quali l’interpretazione della causale generale giustificatrice del
contratto a termine, gli effetti della violazione delle prescrizioni legali, il meccanismo delle
proroghe e dei rinnovi, il regime sanzionatorio. In ogni caso, al di là delle differenti
interpretazioni, resta indiscutibile la svolta concettuale rappresentata dall’adozione di una
causale generale di giustificazione del contratto a termine (l’apposizione di un termine è
consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”), che
può contenere esigenze molto variegate, rispetto al metodo della rigida tipizzazione legale delle
ipotesi ammesse, che aveva contraddistinto il precedente regime giuridico.
6
Sotto altro profilo, mentre la disciplina sul contratto a tempo parziale è proiettata ad
esaltare il ruolo delle OO.SS. sia nella funzione regolativa, sia in quella amministrativa,
viceversa nel contratto a tempo determinato si registra un declassamento o una derubricazione di
tali funzioni contestualmente ad una valorizzazione dell’autonomia negoziale a livello
interindividuale che si può ampiamente dispiegare in un quadro legale in grado di offrire
numerose alterative.
Se è vero infatti che la legge prevede una sorta di contingentamento delle percentuali del
contratto a termine affidato alle disposizioni della contrattazione collettiva, è anche vero che tale
limite è travalicato in numerose occasioni al punto da consentire una lievitazione incontrollabile
dei contratti a termine, quanto meno in alcune realtà aziendali6.
5- I contratti con finalità formativa.
–
Meno controversa si presenta invece la normativa in materia di contratti con finalità
formative, la cui disciplina, ormai risalente, si è alquanto assestata nel tempo ed è stata
ampiamente sperimentata sul piano operativo. In una valutazione di sintesi si può ritenere che
tali contratti abbiano svolto un ruolo fondamentale nel favorire processi di adattamento delle
professionalità lavorative alle esigenze delle imprese ed anche di riduzione dei costi di lavoro,
per effetto del sottoinquadramento esplicitamente consentito, oltre ad avere realizzato anche una
finalità sussidiaria, non del tutto ortodossa, ponendosi quali strumenti negoziali idonei a
consentire la selezione mirata della manodopera in presenza di un sistema pubblico di
mediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro del tutto inefficiente (pure una volta superato il
monopolio pubblico di collocamento e legittimata la presenza di agenzie private di mediazione).
Tuttavia il ruolo sino ad ora esercitato dai contratti formativi viene oggi messo fortemente
in discussione da una molteplicità di fattori: da una parte per effetto di una più incisiva riforma
dei servizi dell’impiego, anche in virtù degli spazi di legislazione esclusiva o concorrente
conferiti alle Regioni dalla recente riforma del titolo V della Costituzione (legge Cost. n.
3/2001); da un’altra parte a causa delle continue oscillazioni giurisprudenziali sul peso da
riconoscere all’attività formativa nell’equilibrio complessivo del contratto di lavoro e sulle
conseguenze della sua parziale o totale evasione; da un’altra parte ancora a seguito degli
incalzanti interventi dell’Unione Europea che, anche di recente, con un’importante sentenza della
Corte di Giustizia (sent. 7 marzo 2002, n. C-310/99), ha ribadito la qualificazione di aiuti di stato
dei benefici concessi alle imprese per l’assunzione dei lavoratori con contratto di formazione e
6
La legge infatti esclude limiti quantitativi per le imprese di nuova costituzione, per le lavorazioni stagionali, per le punte di
attività, per i contratti non superiori a sette mesi, e per le assunzioni in determinate aree geografiche.
7
lavoro, come tali vietati ai sensi dell’art. 87 del Trattato della Comunità Europea. Tutto ciò
prelude ad una integrale risistemazione della materia, esplicitamente preannunziata nel Libro
Bianco sul mercato del lavoro ed abbozzata nel disegno di legge delega n. 848/2001 (art. 5) in
materia di occupazione e mercato del lavoro.
6. Flessibilità e lavoro autonomo – In particolare, le collaborazioni coordinate e
continuative. –
Un secondo blocco normativo è rappresentato dalle varie forme di collaborazione lavorativa
genericamente riconducibili nell’area del lavoro autonomo e/o parasubordinato. La diffusione di
tali forme di impiego ha registrato una vera e propria esplosione negli anni passati a causa di
notevoli fattori promozionali, tra i quali: le esigenze di contenimento dei costi del lavoro in
presenza di un ciclo economico incerto e sostanzialmente sfavorevole; i vari processi di
esternalizzazione e di outsourcing di importanti attività aziendali, che hanno favorito la delega
ed il trasferimento di competenze a soggetti esterni all’organizzazione produttiva, il cui impegno
è più facilmente modulabile con il ciclo della produzione; l’emergere di nuove professionalità
correlate allo sviluppo informatico e tecnologico, più autonome ed indipendenti, frequentemente
resistenti ad essere inquadrate in un vincolante rapporto di dipendenza. Sotto altro profilo il
fenomeno è venuto a convergere con modalità più autonome di organizzazione (dei fattori
produttivi e quindi) del lavoro dipendente, che hanno non solo determinato situazioni
imbarazzanti in presenza di modalità di lavoro spesso completamente coincidenti con quelle di
lavoro autonomo, benché diversamente inquadrate e regolate, ma che hanno altresì suscitato
delicati interrogativi teorici sulla inadeguatezza o la crisi della fattispecie tipica di lavoro
subordinato e sulla sua idoneità a selezionare e filtrare i trattamenti di tutela.
Nell’ambito di tale processo sommariamente evocato, un peso preminente è stato assunto
dalle c.d. collaborazioni coordinate e continuative, che hanno alimentato un ampio dibattito,
specie in dottrina, anche per la mancanza di un sistema regolativo essendo del tutto inadeguata la
regolamentazione codicistica (relativamente ai lavori autonomi da cui la fattispecie scaturisce),
in quanto non considera affatto la situazione peculiare del lavoro autonomo prestato in via
continuativa a favore di un unico (o eventualmente più) committente. Di qui l’emersione di una
categoria in qualche modo artificiosa, costruita su un piano prevalentemente dottrinale, con
confini molto vaghi ed estesi, e quindi suscettibile di comprendere situazioni lavorative alquanto
eterogenee dal punto di vista economico, sociale e del potere negoziale.
Una qualche regolamentazione di tale fenomeno è venuta dalla legislazione previdenziale
e fiscale la quale, in un primo momento, ha istituito una specifica gestione previdenziale, la c.d.
8
quarta gestione INPS (legge n. 335/1995, art. 2, 26° comma), alla quale iscrivere
obbligatoriamente tale categoria di lavoratori; successivamente ha esteso alla stessa categoria
alcune tutele previdenziali di carattere minimale (quali la tutela della malattia, della maternità e
contro gli infortuni sul lavoro); da ultimo ha apportato una certa chiarificazione, anche di
carattere descrittivo e qualificatorio, con l’art. 34 della Finanziaria del 2001 delimitando la
categoria ed assimilandola, quanto ai redditi prodotti, a quella di lavoro dipendente (mentre
prima era assimilata al lavoro autonomo).
A seguito di tale processo è diventato assolutamente chiaro che nell’ambito dei lavori
coordinati e continuativi occorre differenziare quanto meno due condizioni sociali
completamente diverse: a) quella dei lavoratori economicamente e socialmente deboli, collegati
organicamente ad un determinato processo produttivo, eppure mantenuti all’esterno del sistema
impresa, o addirittura dalla stessa espulsi nell’ambito dei periodici processi di riorganizzazione
aziendale. Tali lavoratori esprimono una situazione di accentuata subalternità e precarietà, forse
più marcata di quella dei lavoratori in senso proprio, tale da imporre un intervento di tutela nel
solco della disciplina protettiva del lavoro dipendente, a nulla rilevando il margine di maggiore
autonomia organizzativa, spesso solo fittizia, ed il mancato inquadramento formale nell’ambito
della gerarchia aziendale. b) Tutt’altra valenza assumono invece quelle figure professionali
autenticamente autonome, di antica o recente emersione (ancorché coordinate o collegate con
un’attività di impresa), con una propria indipendenza economica ed organizzativa, assistite da un
codice protettivo di matrice corporativa, spesso limitrofe ad attività organizzate di stampo
imprenditoriale.
Di una tale distinzione radicale non sembra del tutto consapevole il richiamato disegno di
legge delega, che vorrebbe ricondurre le collaborazioni coordinate e continuative nell’ambito di
uno o più progetti o programmi di lavoro (art. 8, d.l.d. cit.) avendo evidentemente presente il
segmento alto delle collaborazioni professionali. Sicché è comprensibile il dubbio che l’obiettivo
prioritario sia quello di scorporare dall’area della subordinazione tutte quelle attività
contraddistinte da una notevole autonomia organizzativa e di risultato ancorché inserite
organicamente in un ciclo produttivo aziendale7.
7. Flessibilità e nuove forme di impiego – In particolare, il lavoro interinale. –
Nella terza categoria dei lavori flessibili possono essere convenzionalmente comprese
tutte quelle attività lavorative maggiormente innovative, accomunate sostanzialmente dal fatto
che il relativo statuto protettivo corrode i canoni ed i paradigmi tradizionali di inquadramento e
7
V. per tutti A. ANDREONI, 2002; P.G. ALLEVA – A. ANDREONI – V. ANGIOLINI – F. COCCIA – G. NACCARI, 2001.
9
di utilizzazione dei lavoratori per proiettarsi verso diversi modelli relazionali che tengono conto
dei processi di trasformazione della società e dell’economia contemporanea.
Vi rientra pertanto, in primo luogo, il lavoro interinale contraddistinto da un’anomala
scissione tra la figura del datore di lavoro, fornitore delle prestazioni, e quella del soggetto
utilizzatore della prestazione medesima, nel quadro di una relazione trilaterale che si sviluppa
attorno a due contratti tipici (il contratto di lavoro temporaneo ed il contratto di fornitura di
manodopera temporanea).
La legge istitutiva (artt. 1-11, legge n. 196/1997), introdotta in Italia relativamente da poco,
con notevole ritardo rispetto ad analoghe esperienze straniere, consente una forma avanzata di
flessibilità pur nel quadro di sistema di garanzie che rende meno odiosa questa forma di cessione
di manodopera. Tanto più che le iniziali incertezze sono state progressivamente rimosse anche
per effetto della contrattazione collettiva che, da una parte, ha aggregato e garantito
adeguatamente i lavoratori del settore, da un’altra parte, ha progressivamente esteso le figure
professionali suscettibili di essere implicate.
L’effetto positivo sul piano delle dinamiche del mercato del lavoro viene ampiamente
evidenziato da indagini sul campo, anche se occorre rilevare che l’istituto ha finito per svolgere
sovente una serie di funzioni ultronee o eterodosse rispetto a quelle programmate, essendo stato
ampiamente utilizzato per consentire alle aziende il reclutamento e la selezione del personale8.
Tant’è che oggi nel Libro Bianco e nella successiva delega si parla esplicitamente di ampliare
l’oggetto sociale esclusivo delle agenzie di lavoro interinale e di rivedere alcuni obblighi a carico
delle agenzie mal tollerate in ambito comunitario9. Nonostante le modifiche via via introdotte, la
normativa attualmente vigente rimane sotto il segno di una controllata deroga rispetto ai canoni
del contratto tradizionale di lavoro, deroga giustificata da esigenze ed obiettivi del tutto peculiari
e quindi transitori.
Ben altro discorso sarebbe invece da farsi nell’ipotesi in cui dovesse trovare
accoglimento la proposta governativa sul “leasing di manodopera”, ovvero sulla fornitura a
tempo indeterminato di lavoro altrui, come previsto dall’art. 1, 2° comma, lett. h, n. 2 del disegno
di delega n. 848/2001. In questo caso, sia pure in presenza di ragioni tecniche, organizzative e
produttive, il lavoro interinale verrebbe a costituire una forma parallela di utilizzazione del
8
V. T. TREU, 2001.
Una recente sentenza della Corte di Giustizia UE n. C-279/00 del 7 febbraio 2002 ha infatti ritenuto che: “La Repubblica
Italiana ha violato gli obblighi che derivano dal Trattato Ce per avere imposto alle imprese stabilite in altro Stato membro, ai
fini dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di fornitura di lavoro temporaneo in Italia, l’obbligo di avere la sede o una
dipendenza in territorio italiano”; che “La legge n. 196/1997 è incompatibile con il Trattato Ce nella parte in cui non prevede la
possibilità di tenere in considerazione, ai fini del soddisfacimento del requisito del versamento di una cauzione da parte delle
imprese di fornitura di lavoro temporaneo per ottenere l’autorizzazione all’esercizio in Italia, la prestazione di garanzie
comparabili, in rapporto alla loro finalità, nello Stato membro in cui l’impresa è stabilita”; infine che “La Repubblica Italiana
ha violato gli obblighi che derivano dal Trattato Ce per aver imposto che la cauzione, cui sono soggette le imprese fornitrici di
lavoro temporaneo stabilite in altro Stato membro ai fini dell’esercizio dell’attività in Italia, debba essere depositata presso un
istituto di credito avente la sede o una dipendenza in territorio italiano”.
9
10
lavoro dipendente e verrebbe definitivamente a legittimare la possibilità di una scissione tra il
datore di lavoro e colui che ne utilizza stabilmente le prestazioni lavorative.
8. I lavori di utilità sociale.
–
Nella stessa ampia categoria vanno ricondotti anche i lavori di utilità sociale che
fuoriescono, per esplicita previsione normativa, dallo schema del contratto di lavoro subordinato
benché presentino modalità organizzative ed esplicative sostanzialmente affini. La diffusione di
tali forme di impiego si riallaccia essenzialmente alla necessità di reperire occupazione
supplementare in aree geografiche particolarmente travagliate, ma riflette spesso anche istanze
più complesse, evidenziate da indagini sociologiche e persino filosofiche che teorizzano, con
toni talora apocalittici, la crisi o la fine del lavoro dipendente, e quindi la necessità di passare a
forme più incisive di politica attiva del lavoro (il c.d. workfare misto o promozionale) e di equa
redistribuzione del lavoro esistente10.
In questi casi la flessibilità è tutta “schiacciata” sulle istanze di promozione
occupazionale al punto da giustificare un accantonamento dello schema contrattuale classico di
utilizzazione del lavoro con tutto il bagaglio protettivo che vi è connesso per garantire una
maggiore occupazione. Ma occorre anche dire che questi rimedi hanno carattere intrinsecamente
temporaneo e transitorio in quanto ineluttabilmente protesi a favorire una stabilizzazione dei
rapporti di lavoro nel settore privato o prevalentemente nel settore pubblico.
In questa rassegna sui lavori flessibili si trascurano una serie di fenomeni a volte limitrofi a
quelli elencati eppure alquanto significativi che esprimono l’incredibile complessità del mondo
del lavoro. Ci si riferisce in particolare al lavoro nelle organizzazioni di volontariato e non profit,
a quello prestato nell’ambito delle cooperative, in particolare quelle sociali e di produzione e
lavoro (peraltro recentemente regolato dalla legge n. 142/2001), nonché alle varie forme di
lavoro associativo, da molto tempo regolate ed il cui impiego presenta un andamento discontinuo
in relazione alla variabilità del ciclo economico. In realtà le forme di lavoro richiamate non
hanno attinenza diretta con la problematica della flessibilità anche se, sul piano operativo,
rappresentano delle varianti organizzative, a volte persino fraudolente, nell’impiego della
manodopera.
9. Riflessioni sulle prospettive –: Le proposte di nuove tipologie di lavoro flessibile
10
V. G. LUNGHINI – G. MAZZETTI – B. MORANTI – J. O’CONNOR, 1995; W. STREECK, 2000; A. SUPIOT, 1999.
11
.Al termine di questa rapida rassegna è consentito trarre alcune rapide considerazioni in grado
di riallacciarci ad una problematica più ampia ormai al centro del dibattito economico, giuridico
e sindacale. L’esame sinottico delle diverse tipologie di lavoro flessibile, ed i margini di
elasticità conferiti da ciascuna di esse, fanno emergere un quadro ampio ed articolato, che
smentisce nettamente le affermazioni su una presunta rigidità del nostro ordinamento del lavoro
ed anzi segnalano un elevato polimorfismo degli schemi negoziali di reclutamento ed impiego
della manodopera11.
Le opzioni che oggi si offrono all’imprenditore nell’organizzazione delle attività produttive
sono sufficientemente variegate da potere determinare un serio imbarazzo nella scelta delle
soluzioni preferibili nella difficile ponderazione costi-benefici.
Ciò rende incomprensibile la proposta di ulteriori tipologie di lavoro flessibile, quali quelle
prefigurate nel Libro Bianco sul mercato del lavoro e nella successiva proposta di delega, che
vorrebbero introdurre ulteriori forme di impiego attraverso lavori definiti “a chiamata”,
temporaneo, occasionale, a prestazioni ripartite, etc. (v. in particolare art. 8 della delega), le quali
finirebbero per accentuare il rapporto di subalternità del fattore lavoro rispetto alle esigenze della
produzione12.
Piuttosto si pone un serio problema, da una parte, di razionalizzare l’attuale quadro
legislativo disorganico e frammentario (o, come si dice, piecemeal), da un’altra parte, di
approfondire gli effetti di sovrapposizione dei vari modelli, ed anche di assecondare una sorta di
specializzazione funzionale degli stessi. Ad esempio, è ancora da verificare l’effetto di
spiazzamento determinato dalla nuova versione di lavoro a termine rispetto al lavoro interinale
che, benché contenga dei vantaggi non trascurabili in termini di selezione e di qualificazione del
personale nonché di parziale deresponsabilizzazione delle imprese utilizzatrici, presenta tuttavia
dei costi sensibilmente superiori. Non a caso le proposte innovative sono orientate ad ampliare
l’oggetto sociale, aggiungendovi una funzione collocativa, ed a specializzarne l’utilizzazione con
11
Il livello complessivo dei lavori atipici resta tuttavia più basso rispetto a quello degli altri paesi europei. Come si rileva da
recenti indagini di ampia divulgazione tra il 1995 e il 2000, il numero di occupati dipendenti con contratto di lavoro “atipico”
(part time o a tempo determinato) è cresciuto in Italia di circa 788 mila unità, con un incremento medio annuo dell’8,4%. Il peso
dei lavoratori atipici sul totale dell’occupazione dipendente resta tuttavia basso nel confronto con i principali paesi europei. Nel
2000, la quota di lavoratori dipendenti con contratto a tempo parziale in Italia si è portata al 9,2%, contro una media dell’area
dell’euro del 17%. L’Olanda ha continuato a registrare l’incidenza più alta (44,5%), mentre Francia e Germania si collocano
rispettivamente al 17,7 e 19,9%. Differenze meno accentuate si riscontrano anche nel ricorso ai contratti a termine, la cui
incidenza in Italia ha raggiunto nel 2000 il 10,1%, rispetto ad una media dell’area dell’euro del 14,9% (in cui spicca la Spagna,
con un peso del 32%).
12
In particolare viene previsto: a) “il lavoro a chiamata” che comporterebbe la possibilità di utilizzare “prestazioni di carattere
discontinuo o intermittente” a fronte del riconoscimento di una indennità di disponibilità (art. 8); b) “il lavoro occasionale e
accessorio” che viene così descritto nella relazione governativa: “prestazioni di lavoro occasionale ed accessorio, in generale e
con particolare riferimento ad opportunità di assistenza sociale rese a favore di famiglie e di enti con e senza fine di lucro, da
disoccupati di lungo periodo, altri soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro,
ovvero in procinto di uscirne. Tali prestazioni potranno essere regolarizzate attraverso la tecnica di voucher o buoni
corrispondenti ad un certo ammontare di attività lavorativa, ricorrendo ad adeguati meccanismi di certificazione dei rapporti de
quibus”; c) oltre ad una incisiva revisione della disciplina sul lavoro a tempo parziale, che verrebbe a legittimare sinanche il
lavoro a chiamata o job-on-call.
12
riferimento a determinate qualifiche professionali di tipo medio-alto. Alla stessa stregua il boom
dei lavori coordinati e continuativi registrato negli anni passati, specie a ridosso della riforma
delle pensioni del 1995,
spesso in sostituzione di regolari rapporti di lavoro dipendente,
potrebbe essere destinato ad inaridirsi per effetto, da una parte, della lievitazione progressiva dei
costi contributivi e fiscali, e da un’altra parte, della liberalizzazione di altre forme elastiche di
impiego della manodopera che consentono maggiori margini di controllo e di integrazione. La
stessa riforma dei servizi pubblici all’impiego e l’evoluzione della disciplina di mediazione e
selezione della manodopera, affidata anche a soggetti privati (v. art. 10, d.lgs. 23.12.1997, n.
469, ed art. 17, 3° comma, d.lgs. 23.12.2000, n. 388), potrebbe determinare un effetto
redistributivo tra i vari modelli negoziali di lavoro flessibile, che in qualche modo già si
intravede con il regresso dei contratti formativi.
Tutto ciò conferma che le varie forme di flessibilità operano come vasi comunicanti e
pertanto vanno ricostruite in maniera globale e non per singoli “pezzi”13; il che vale in modo
particolare nel delicato rapporto tra la flessibilità “in entrata” e quella “in uscita”, che vanno
attentamente graduate per non determinare effetti sconvolgenti in termini di liberalizzazione e di
frammentazione del mercato del lavoro.
10. Le interazioni tra flessibilità in entrata e quella in uscita (o numerica).
Soffermandosi in particolare su quest’ultimo aspetto, non sembra invero compatibile un
elevato livello di flessibilità in entrata con una maggiore flessibilità in uscita (quale quella
ipotizzata nell’art. 10 del d.l.d. cit.), in aggiunta a quella attualmente consentita dalla legislazione
sui licenziamenti individuali, in relazione all’ampia fattispecie del giustificato motivo oggettivo
(art. 3, legge n. 604/1966 e succ. int.), e da quella sui licenziamenti collettivi per riduzione di
personale (legge n. 223/1991), che hanno consentito negli anni 1980 e 1990 periodici, e spesso
intensi, processi di ristrutturazione aziendale e di ridimensionamento occupazionale, sia pure nel
rispetto di procedure e adempimenti niente affatto paralizzanti.
Come si è potuto costatare la diffusione di un’ampia gamma di rapporti elastici di lavoro,
quali quelli innanzi esaminati, consente già da una parte di modulare l’occupazione (specie
quella congiunturale) in relazione alle esigenze aziendali ed alle situazioni di mercato, da
un’altra parte di programmare persino i tempi e le modalità delle risoluzioni dei rapporti di
lavoro.
13
Si è da molti osservato che in Italia, come nelle altre esperienze europee, i settori produttivi a maggiore propensione
innovativa, e quindi con maggiore flessibilità funzionale, sono caratterizzati da minore flessibilità numerica intesa come
variabilità e mobilità del fattore lavoro (su cui v. R. DEL PUNTA, 2001; A. ANDREONI, 2002, 2). Negli Stati Uniti, per contro,
un’elevata flessibilità salariale numerica si combina ad una scarsa flessibilità funzionale (U. BECK, 2001; B. CONTINI, 2000).
13
Un’ulteriore tasso di liberalizzazione sui due fronti opposti del rapporto di lavoro
finirebbe effettivamente per indebolire fortemente la posizione del lavoratore in azienda e
mettere in discussione il ruolo e la funzione fino ad oggi esercitata dalle OO.SS., con effetti
peraltro del tutto ipotetici sul piano della espansione delle prospettive occupazionali14.
È pur vero che le proposte governative contenute nell’art. 10 del disegno di legge delega
hanno una portata sostanzialmente circoscritta e si riferiscono prevalentemente a soggetti
attualmente privi di un’effettiva stabilità occupazionale15. Tuttavia è credibile quanto da molti
osservato e cioè che la portata effettiva dell’innovazione è molto più accentuata di quanto possa
apparire. Infatti, proprio in ragione dell’ampia flessibilità riconosciuta in entrata, è prevedibile
che si metta in moto un generalizzato processo di ricambio o turnover della manodopera con un
maggior reclutamento di giovani generazioni ed un’accentuazione delle procedure espulsive dei
lavoratori più maturi; processo del resto ampiamente favorito dalle numerose agevolazioni
riconosciute nei confronti del lavoro atipico che autonomamente possono giustificare un tale
ricambio generazionale16.
La preoccupazione principale che ne può derivare
è non soltanto quella tipicamente
giuslavoristica di un’ulteriore frammentazione e stratificazione dei rapporti di lavoro con
un’ampia tipologia di rapporti diversamente strutturati e con variabili forme di tutela,
incompatibili con livelli tollerabili di equità e di eguaglianza17, ma è anche quella di un
decadimento complessivo del sistema produttivo per uno scarso investimento sull’innovazione e
la formazione professionale dei lavoratori e dunque sulla qualità della produzione18.
14
È opportuno il rilievo che l’art. 18 non ha ostacolato il determinarsi di una situazione di pieno impiego in molte aree del nord e
non è certo una causa significativa dello scarso sviluppo occupazionale delle aree meridionali. Anche se è corretto riconoscere
che la norma può avere disincentivato gli imprenditori dall’offrire il lavoro nelle forme classiche del contratto di lavoro a tempo
indeterminato ed ha costituito una delle cause, neppure secondaria, della diffusione di forme alternative di impiego, tra cui in
primo luogo delle collaborazioni coordinate e continuative (su cui v. F. LISO, 2001).
15
L’art. 10 infatti delega il Governo ad emanare sperimentalmente norme in deroga all’art. 18 ai fini di sostegno sia della
“crescita dimensionale delle imprese minori non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte
per il primo biennio”, sia della riemersione del lavoro sommerso, nonché in funzione promozionale della “stabilizzazione dei
rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato”. Quest’ultimo rimedio è concepito
“al fine di incrementare l’occupazione, in particolar modo giovanile, nelle regioni del mezzogiorno” e pertanto “sarà limitata ai
datori di lavoro privati ed agli enti pubblici economici operanti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise,
Puglia, Sardegna e Sicilia”.
16
Occorre peraltro aggiungere che il disegno complessivo in materia di licenziamenti si completa con la previsione dell’arbitrato
alla stregua di quanto prevede l’art. 12 secondo il quale il Governo è delegato ad emanare norme che consentano la
“compromettibilità in arbitri delle controversie individuali di lavoro avente ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da norme
inderogabili di legge e di contratto collettivo”, con la possibilità per gli arbitri di emettere un lodo secondo equità e di scegliere
alternativamente, nei casi di licenziamento individuale illegittimo, tra “risarcimento del danno con quantificazione interamente
rimessa al Collegio arbitrale e reintegrazione nel posto di lavoro”.
17
È opportuno evidenziare che il dibattito sull’art. 18 avviene nel momento in cui l’esigenza di protezione dei lavoratori contro i
licenziamenti è maggiormente avvertita nell’Europa sociale, come si desume dalla Carta sociale europea e dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, che riconoscono la protezione dei lavoratori contro i licenziamenti ingiustificati. Ciò non vuol
dire che esista un unico modello di tutela, ma certamente quello vigente in Italia è in linea con le istanze protettive del posto di
lavoro di provenienza comunitaria (v. M. NAPOLI, 2002, 165).
18
Tutto ciò non vuol dire che l’art. 18 non richieda alcuni ritocchi essendo evidenti “rughe” e disfunzioni, eccezionalmente
amplificate dalla crisi drammatica della giustizia del lavoro, che può dare luogo ad incredibili risarcimenti, a volte sproporzionati
in relazione alle responsabilità degli interessati, e dovuti esclusivamente alla lungaggine dei processi (su questi profili v. F. LISO,
2001).
14
11– Lo statuto protettivo dei lavori atipici.
Quanto innanzi precisato ripropone il dibattito sull’opportunità di uno Statuto sui lavori
atipici o di uno Statuto del lavoro in genere, che ha appassionato la cultura giuslavoristica nel
corso della precedente legislatura, con esiti concreti incredibilmente deludenti19, e che, in ben
altra versione, rischia di catalizzare l’attenzione anche nel corso di quella attuale. Al di là delle
molte versioni che si possono concepire di un tale Statuto20, il tratto unificante è rappresentato
dall’esigenza di una protezione minimale o di base estesa a tutte le attività lavorative a favore di
terzi, indipendentemente dalle qualificazioni giuridiche dei singoli rapporti, salvo poi a
prevedere differenze regolamentari e di tutela a seconda del più o meno elevato collegamento
organico e di dipendenza rispetto all’attività di impresa21.
In questa prospettiva un nucleo primordiale di tutela trasversale già si è venuto a
realizzare empiricamente nell’ambito delle tutele e dei diritti previdenziali che hanno finito per
costituire oggi una base comune al mondo dei lavori – subordinati, autonomi o coordinati che
siano – con differenziazioni per lo più di carattere quantitativo ma non della tipologia delle
prestazioni. Tant’è che oggi sono molti coloro che ritengono che le nuove frontiere della tutela
del diritto del lavoro debbano essere orientate in una riforma radicale del sistema di sicurezza
sociale in modo tale da introdurre un livello elevato di flessibilità previdenziale che consenta di
unificare le complesse esperienze lavorative che sempre più contraddistingueranno la condizione
esistenziale delle generazioni future22.
19
Per un’efficace ricostruzione dei lavori parlamentari v. M. SALVATI, 2001.
La produzione dottrinale sul tema è ormai sconfinata: si veda per tutti L. MENGONI, 2000a; L. MENGONI 2000b; L.
MONTUSCHI, 1998; R. SCOGNAMIGLIO, 1999; P.G. ALLEVA, 2000; C. SMURAGLIA, 2001.
21
È questo un punto cruciale del progetto governativo, che ripropone uno Statuto dei lavori orientato ad affrontare la riforma dal
lato delle tutele e della loro rimodulazione piuttosto che da quello delle definizioni formali e concettuali. In questa prospettiva si
auspica un percorso di tendenziale riduzione delle differenze di trattamento normativo, e soprattutto contributivo, segnatamente
tra i rapporti di lavoro autonomo e quelli di lavoro subordinato, e si prefigura altresì un meccanismo di certificazione che
dovrebbe contribuire a deflazionare le controversie di lavoro (su tale impostazione v. per tutti M. BIAGI, 2002). In altri termini,
come illustrato nel Libro Bianco (pag. 38 e 39), ciò significa individuare uno “zoccolo duro ed inderogabile di diritti
fondamentali” il quale andrebbe applicato a tutte le forme di lavoro a favore di terzi, al di là della qualificazione giuridica del
rapporto. Il sistema di tutele sarebbe quindi “a geometria variabile”: alcune norme valide per tutti assolutamente inderogabili, ed
altre norme ed istituti articolati in relazione alle specifiche esigenze di tutela. Inoltre, fatta eccezione per quei diritti facenti parte
del cd. “zoccolo duro”, si dovrebbe lasciare la possibilità di derogare e di disporre dei diritti, sia a livello collettivo sia a livello
individuale. Insomma, il nuovo diritto del lavoro sarebbe composto: a) da un nucleo di diritti fondamentali assolutamente
inderogabili; b) da alcune norme-cornice; c) infine, in larga misura, da una disciplina variabile e soprattutto tendenzialmente
derogabile. Ciò significa che nel Libro Bianco ad una flessibilità dei tipi si accompagnerebbe una flessibilità delle fonti che
verrebbe a toccare la tecnica essenziale della “inderogabilità delle regole” che storicamente contraddistingue lo statuto
scientifico del diritto del lavoro (su tali profili v. M. RUSCIANO, 2002).
22
Come si rileva efficacemente nella letteratura sociologica: “Una vita lavorativa flessibile non può spezzarsi quando si passa
da un impiego all’altro, oppure da un lavoro dipendente ad un lavoro autonomo, o viceversa. Rischi e opportunità presenti in
questo scenario vanno affrontati con norme che offrano delle coperture in un quadro di sostegno sociale. Serve infatti una
“circolazione solidaristica delle risorse” per evitare che chi è più mobile sia meno tutelato o più penalizzato, nell’anzianità di
servizio come nell’indennità di disoccupazione. Quando le discontinuità temporali e le transizioni professionali si avviano a
diventare meno eccezionali, diventa necessaria una rete di protezione leggera ed universalistica che assista il lavoratore nella
transizione di posto o di carriera, aiutandolo a valutare il proprio potenziale ed a ricollocarsi in modo adeguato; che certifichi i
passaggi compiuti negli itinerari di lavoro e di formazione; che accompagni i periodi di mobilità con attività di formazione o di
“tutoraggio” in vista del reimpiego; che riconosca l’anzianità maturata negli impieghi temporanei presso la medesima impresa;
che ricomponga i vari spezzoni di occupazione dipendente o autonoma agli effetti della carriera assicurativa, aiutando a
20
15
Ma il discorso così prospettato presenta anche dei margini non trascurabili di ambiguità:
sia perché finisce per assecondare un’operazione di flessibilizzazione ad oltranza del mondo del
lavoro, sia perché tende a generalizzare delle esperienze che restano tuttora marginali, sia perché
favorisce una sostanziale deresponsabilizzazione delle imprese rispetto ai costi umani e sociali
che provocano, sia infine perché prescinde da un’attenta analisi delle disponibilità finanziarie in
una fase storica in cui tutti invocano una riduzione dell’imposizione fiscale.
D’altra parte non occorre trascurare l’ammonimento che viene da un settore prestigioso della
cultura giuridica23 secondo il quale un’eccessiva assimilazione del lavoro subordinato e di quello
autonomo non ha basi storiche e scientifiche condivisibili, sicché la pretesa di una tutela
indifferenziata del “lavoro senza aggettivi” potrebbe rappresentare una formula letteraria
sostanzialmente evasiva rispetto ai complessi processi del mondo del lavoro.
In questa prospettiva il lavoro autonomo in quanto tale deve mantenere distinti i meccanismi
regolativi ed autoregolativi per la peculiarità degli interessi implicati senza subire gli effetti
egemonizzanti delle tecniche e della cultura lavoristica.
Altro e differente problema è quello di estendere alcune tutele al lavoro parasubordinato,
o pseudo-autonomo, oggi sintetizzato nella formula del “lavoro coordinato e continuativo”, in
quanto attività strutturalmente correlata ad un’attività d’impresa e sostanzialmente priva di un
adeguato statuto regolativo.
–
12. Le tecniche e le procedure di flessibilizzazione. –
–
–
Un ulteriore profilo di riflessione riguarda le tecniche e le procedure adoperate nella
legislazione sul lavoro atipico per attenuare alcuni vincoli del sistema preesistente. Tali
tecniche registrano una significativa evoluzione negli ultimi tempi che merita di essere
segnalata per le implicazioni che ne scaturiscono.
La prima questione riguarda il sistema delle relazioni industriali. Com’è noto la
flessibilità si lega essenzialmente ad una attenuazione del valore imperativo della normativa
inderogabile attraverso tecniche e procedure che consentono una parziale deroga in particolari
situazioni. Tradizionalmente questo processo di attenuazione di alcune rigidità è delegato alla
contrattazione collettiva nel quadro di un complesso processo interattivo della legge e
dell’autonomia collettiva che può assumere molte conformazioni (ad esempio, norma di legge
semi-imperativa, bilateralmente derogabile, ecc.). Una tale impostazione, ancorché non del tutto
ricoprire o consentendo di riscattare i vuoti. A questo scopo sembra necessario che i passaggi da un impiego all’altro con i quali
i singoli costruiscono la propria indennità socio-professionale lascino una traccia: una traccia di cittadinanza che potrebbe
consistere in un’anagrafe generale del lavoro o in un libretto elettronico del lavoratore” (A. ACCORNERO, 2001, ma v. pure M.
FERRERA – M. RHODES, 2000). In una prospettiva più strettamente giuridica v. M. CINELLI, 2000b; S. GIUBBONI, 1999;
23
V. L. MENGONI, 2000a; L. MENGONI, 2000b.
16
abbandonata, risulta sensibilmente attenuata nelle più recenti manifestazioni della legislazione
del lavoro nella quale è trasparente il tentativo di una revisione del ruolo dei sindacati e della
contrattazione collettiva, contestualmente ad una valorizzazione dell’autonomia negoziale
individuale (più o meno assistita). Ciò è particolarmente evidente nella più recente disciplina sul
lavoro temporaneo che preannunzia soluzioni – ed una filosofia complessiva – che diverranno
più esplicite nel successivo Libro Bianco.
L’altra direttrice che emerge è connessa ad un’esigenza di stabilità e di certezza giuridica
che si estrinseca in una serie di dettami e prescrizioni di carattere formale e procedurale, che
vanno dall’onere della forma scritta (a seconda dei casi richiesta ad substantiam o ad
probationem), alla procedimentalizzazione dei processi decisionali, alla prefigurazione di una
serie di adempimenti dinanzi ad organi amministrativi per la convalida delle decisioni assunte,
sino all’ultima proposta, contenuta nel disegno di delega, in materia di certificazione dei rapporti
di lavoro, che vorrebbe accentuare il valore della qualificazione originaria del rapporto di lavoro
(quello che tradizionalmente si chiama il nomen iuris) condizionandone lo svolgimento
successivo e la stessa discrezionalità qualificatoria istituzionalmente riconosciuta all’autorità
giudiziaria.
Una terza direttrice di evoluzione si manifesta attraverso una sensibile revisione dei
rimedi sanzionatori prefigurati per la trasgressione della normativa protettiva. Rispetto ad una
tendenza molto marcata nella precedente legislazione che prevedeva come sanzione tipica quella
della conversione automatica del contratto di lavoro atipico in un contratto a tempo pieno ed
indeterminato, la più recente legislazione offre un quadro di soluzioni molto variegato, che
contempla, a volte, conseguenze di natura meramente economica (ad esempio nei contratti di
durata temporalmente protratti dopo la scadenza), a volte, una sanzione ad efficacia
temporalmente limitata (ad esempio in materia di irregolarità connesse al lavoro interinale), a
volte ancora, non prevede alcuna effettiva reazione (almeno esplicitamente, come nel caso della
violazione delle clausole contrattuali di contingentamento del lavoro temporaneo).
13. Lavori flessibili e modello standard.
Un’ultima riflessione riguarda infine il rapporto tra il modello standard, rappresentato dal
contratto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, ed i vari modelli flessibili o atipici che si
sono venuti a rappresentare. Nonostante le modifiche riscontrabili nella più recente legislazione,
sulla scorta del resto di indicazioni unificanti a livello europeo, il modello tipo di contratto di
lavoro rimane quello stabile ed a tempo pieno, sia dal punto di vista statistico-quantitativo, sia
quale modello ideale a cui sono rapportati, e verso cui sono protesi, tutti gli altri schemi
17
negoziali24. Da questa prospettiva i contratti flessibili, ed in specie quelli che orbitano nell’area
della subordinazione, rappresentano delle mere varianti regolamentari su aspetti accessori della
prestazione (l’orario, la durata, la funzione formativa) che non ne alterano sensibilmente la
struttura causale. Essi hanno tuttora un carattere derogatorio rispetto al modello tipo e come tale
hanno un peso marginale e complementare, che giustifica una regolamentazione particolarmente
analitica, e contraddistinta da un reticolato di rimedi protettivi di carattere formale e sostanziale.
Lo stesso contratto di lavoro interinale, che rappresenta la deroga più marcata rispetto al lavoro
standard, non solo è strutturalmente contraddistinto da un elemento intrinseco di temporaneità,
ma le deroghe più significative incidono sulle modalità esecutive della prestazione più che sullo
schema causale e sui corrispondenti livelli di tutela.
Nonostante tutti gli sconvolgimenti immaginabili nella società futura, il contratto di
lavoro del terzo millennio è destinato a mantenere la struttura basica del contratto di lavoro
subordinato quale attualmente vigente, più o meno aggiornato, rivisitato o semplificato sulla
scorta del diritto comunitario, ma con quegli elementi di sicurezza e di stabilità che ha
progressivamente acquisito negli ultimi decenni del secolo scorso. Le stesse tutele di mercato,
esterne al rapporto di lavoro, tanto esaltate in questo periodo, eppure indispensabili per
dinamizzare il sistema produttivo, non potranno certamente assumere un valore sostitutivo o
alternativo rispetto a quelle incorporate nella struttura binaria del contratto di lavoro dipendente.
Esse sono destinate a ruotare prevalentemente attorno a tale schema negoziale di base, ed a
mantenere pertanto una funzione complementare o subalterna, particolarmente significativa nel
processo di adeguamento dei rapporti di lavoro anomali, precari, instabili, o se si vuole flessibili,
al modello giuridico statisticamente e socialmente dominante.
24
L’esigenza di stabilità dei rapporti è frequentemente avvertita anche dal lato delle imprese nei limiti di compatibilità con la
competizione economica (v. M. NAPOLI, 2002; A. ACCORNERO, 2001).
18
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Abstract
The author reconstructs in a methodical approach all different contractual models of
workers employment, subordinate and self-employed, in the scope of the broader issue of work
flexibility, as well as of the government proposals in the White Book on labour market.
The considerable diffusion of the flexibility “at entrance” observed in the recent years, by
one side makes the introduction of new more elastic forms of employment poorly justifiable,
while on the other side suggests an overall analysis of all the expressions of the flexibility in
work relationships, both those operating inside labour contracts and those projected on the
labour market and on the social security system.
Particularly,
a
marked
flexibility
“at
entrance” seems to be not compatible with other forms of flexibility “at exit”, unless it is
considered in the framework of a radical reform of the social security system, which is difficult
to realize, at the moment.
The really possible objective consists in defining a better balance
23
between cyclical needs of the production system and the needs of stability of work relationships,
as a key factor for a qualitative and dynamic development.
JEL Classification: E24, E42, J31, J60
Università degli studi di Napoli “Federico II”
(Testo definitivo pervenuto nel settembre 2002)
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