Scuola Media Statale di Carmagnola
Classe III B
Anno scolastico 2005-2006
La storia di GIUSEPPE GIACOMARRA
ex dipendente GHISA
Sono Giuseppe Giacomarra nato a Polizzi Generosa, un paesino in provincia
di Palermo, il 29 ottobre del 1941.
Fin da piccolo la mia vita non è stata né facile né molto felice, per noi
ragazzini, era addirittura un calvario, altro che coccole e giochi! ... già a
otto anni eravamo costretti a lavorare dentro e fuori casa.
Mio padre è morto il 7 settembre 1952 ed io non avevo ancora 11 anni, a
casa nostra ci fu un vero terremoto non solo affettivo, ma anche, e
soprattutto, economico.
Il comune di Polizzi Generosa, da quel momento, in quanto primogenito
maschio, mi nominò “capo famiglia”, divenendo, in tal modo, per tutti
l’unico responsabile per il sostentamento della mia famiglia composta da
mia madre Giuseppina, mio fratello di sei anni e mia sorella di undici.
Un ruolo molto difficile, oltre che gravoso, poiché nessuno voleva
assumere dei ragazzi così giovani, sebbene disposti a svolgere qualunque
attività.
All’inizio fui assunto come garzone dal barbiere, poi dal calzolaio, ma
anche dal fabbro e dal falegname e da tutti, indistintamente, si lavorava
molto, si prendevano moltissimi ceffoni e si guadagnava poco.
Successivamente venni assunto come cameriere dalla famiglia dell’avvocato Aiosa, una delle più in vista del paese.
Il mio lavoro non consisteva solo nel servire i piatti in tavola, dovevo
occuparmi di tutto, come una perfetta massaia. Mi alzavo alle 5.00 del
mattino per preparare i bracieri con la carbonella da mettere in tutte le
stanze, facevo la spesa, rifacevo i letti compreso quello matrimoniale, allo
stesso tempo ero tata e inserviente.
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Di solito per questo tipo di lavoro preferivano assumere delle ragazze,
ritenute più responsabili e più adatte ai lavori di casa, mentre io fui molto
fortunato perché la famiglia Aiosa, avendo due figli maschi, preferì
assumere un ragazzo …per evitare guai sentimentali con i figli.
Il lavoro si faceva più gravoso, quando gli Aiosa invitavano, a cena o a
pranzo, personaggi importanti, come il direttore principale del Banco di
Sicilia: il signor Dominici.
In queste occasioni si sfoggiava l’argenteria e la cristalleria, alla fine
dovevo lavare tutto, facendo molta attenzione a non rompere nulla,
quando accadeva, venivo punito duramente.
Guadagnavo 100 lire al giorno che venivano consegnati a mia madre, alla
fine del mese. In questa famiglia, rimasi due anni il 1953 e il 1954.
A 14 anni, nel 1955, ebbi il mio primo libretto di lavoro, così con sollievo
lasciai la casa del signor Aiosa per andare a lavorare, come manovale in
una ditta milanese, che costruiva strade, la ditta del sig. Viganò Anselmo.
Il cantiere si trovava circa a 20 km dal mio paese, lo raggiungevo a piedi
insieme ad un mio amico e, oltre a percorrere la lunga strada, dovevamo
anche portare con noi le provviste per tutta la settimana: pasta,
bottigliette di conserva, marmellata ecc…ecc…, d’altra parte non potevo
tornare a casa tutte le sere, era davvero troppo distante.
Vicino allo stabilimento c’era una piccola baracca, in cui dormivamo noi
manovali, il nostro letto era formato da un sacco di yuta riempito di
paglia.
Il mio salario era di 223lire al giorno.
Il mio lavoro consisteva nello spostare le carriole cariche di materiale, i
sacchi di sabbia o cemento da 40/50 kg.
Partivamo circa a mezzanotte e, passando per delle scorciatoie in mezzo
ai campi, arrivavamo sul posto alle 7.30 per incominciare a lavorare alle
8,00.
Conclusa l’esperienza del cantiere lavorai come carbonaio, il lavoro del
carbonaio consiste nell’ottenere il carbone attraverso vari procedimenti
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della combustione del legno. Si metteva un ceppo di faggio dell’altezza di
120/150 cm al centro e poi tutto intorno, a circolo, si appoggiavano dei
piccoli pezzi di legna formando così, una camera d’aria e poi si dava fuoco
cercando di non bruciare il ceppo in centro, finalmente si otteneva il
carbone.
Proprio per questo, io ed il mio amico più esperto di me, non dormivamo la
notte per controllare che non bruciasse il ceppo in centro; per ogni kg di
carbone guadagnavamo 30/40 lire.
Ogni mese portavo a casa circa 1000/2000 lire e li consegnavo a mia
madre, che non lavorava e aveva solo la pensione di reversibilità di mio
padre.
Durante l’anno mi davo sempre da fare, non stavo mai fermo, ad esempio
andavo a raccogliere le verdure selvatiche, come i finocchietti, e poi
confezionati a piccoli mazzetti li vendevo a 10 lire ogni uno, ai dottori,
alle suore... insomma a chiunque ne avesse avuto bisogno.
Vedendo i miei amici che andavano al Nord e tornavano in ferie giù con la
moto, il giubbotto e i guanti, li guardavo con una certa invidia, finché, quel
fatidico venerdì 7 Marzo del 1961 non decisi di partire anch’io per il
Piemonte.
I soldi per il viaggio non li avevo, me li prestò mio cugino Dolce,
esattamente mi diede 10’000 lire, il biglietto costava 7’400 lire e 2'600
lire li avrei usati per vivere a Torino i primi tempi.
Arrivato a Torino mi venne a prendere mio zio, il fratello di mio padre,
che gentilmente mi ospitò a casa sua, ma dopo i primi quindici giorni, visto
che ancora non avevo trovato la casa, mi “consigliò” di tornarmene in
Sicilia.
Appena arrivato a Torino incominciai subito a lavorare con la Sinet Recchi
un’impresa edile molto grossa a livello mondiale, il capo cantiere era un
Calabrese, il signor Estini, che mi diede una grossa mano.
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Il giorno dopo andai a lavorare, come manovale per la costruzione di un
edificio in Corso Regina.
Quando mio zio non mi volle più ospitare, anzi, mi aveva consigliato di
tornare giù a Polizzi Generosa, io lasciai la casa dicendo che sarei tornato
in Sicilia, ma in realtà venni ospitato dal sig. Estini nel refettorio del
cantiere.
Dopo alcuni mesi mi fu consigliato di andare a lavorare nel cantiere di
Grugliasco perché avevano bisogno di un manovale, inoltre la mia
sistemazione sarebbe stata più stabile e comoda nel senso che avrei
avuto di che mangiare e dove dormire… Accettai volentieri la loro
proposta, per me sarebbe stata una doppia sconfitta tornare in Sicilia
senza aver concluso nulla, piuttosto trovavo meno umiliante affrontare e
subire i disagi dell’emigrante.
Ero pagato ad ore, e ricevevo 203 lire all’ora.
In seguito, sempre per la stessa ditta e in
compagnia di cottimisti, lavorai per la
costruzione
dell’edificio
Teksid
a
Carmagnola.
Con la Sinet Recchi lavorai fino a quando
nell’ottobre del 1961 non subentrò la
Genaral montaggi di Milano con la quale
guadagnavo molto di più.
Per non viaggiare mi trasferii a Carmagnola, più precisamente in via
Marconi, nell’edificio, in cui oggi c’è la scuola media, gestito allora dalla
ditta che accoglieva gli operai bisognosi di casa provenienti da tutta
Italia.
Dormivamo tutti in una camerata unica, ognuno sulla propria brandina,
questa casa non era molto confortevole, ma cosa non trascurabile non si
pagava l’affitto.
In questo periodo a Carmagnola arrivarono molti ragazzi, che venivano
assorbiti nella costruzione della Teksid, c’era lavoro per manovali,
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muratori, piastrellisti e quasi tutti arrivavano da fuori, Carmagnola era un
paese agricolo quindi del luogo solo qualche artigiano lavorava con noi.
Ultimata la costruzione dell’ultimo capannone, nel 1963 feci domanda di
assunzione per lavorare alla Teksid e fui subito assunto.
Per essere assunti bastava la domanda e risultare sani come pesci alla
visita medica, perciò eseguii i miei primi esami del sangue e delle urine.
Dopo l’assunzione alla Teksid mi trasferii in un’altra casa dietro la chiesa
di San Bernardo. Era una cascina molto vecchia, con un grande cortile ed
era abitata da molti emigrati come me, soprattutto meridionali.
Io ed il mio amico riuscimmo ad occupare una piccola stanzetta molto
umida e senza finestre, le uniche finestre presenti nella casa erano
piccole e senza vetri.
Nella casa i servizi erano in cortile e non c’era il riscaldamento.
Al mattino la doccia la facevamo con una gomma che buttava acqua fredda
in casa, dentro ad una bacinella. Nonostante non avesse i requisiti di una
vera casa ognuno di noi, ed eravamo una decina, pagava 3000/4000 lire al
mese.
Vicino alla fabbrica, dove adesso c’è il bar San Domingo, c’era una baracca
adibita a mensa, così dalla Teksid, ogni giorno, raggiungevamo la mensa a
piedi passando per via Fratelli Vercelli.
Al mattino prima di andare a lavorare passavamo dalla panetteria vicino
alla farmacia Ferrari e ognuno comprava mezzo chilo di pane che divorava
prima di arrivare in fabbrica, quella era la colazione.
Ci pagavano 300 lire l’ora, la domenica lavoravamo solo se avevamo qualche
lavoro a cottimo di 14 ore, e questo capitava spesso.
Ho lavorato vicino ai forni, un posto molto polveroso e caldo, un vero
inferno.
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La nostra divisa era composta da una tuta, un paio di occhiali ed infine un
paio di guanti.
Per la mansione affidatami ero costretto ad entrare in uno stretto
cunicolo, per rompere con un martello la ghisa fusa, l’unico problema era
la sua incandescenza, poiché i ventilatori, che servivano per il suo
raffreddamento, venivano lasciati accesi solo per poco tempo.
L’ambiente, sia interno che esterno ai forni, non era salutare, gli operai,
respiravano tutta la polvere sollevata sia dai carrelli, che trasportavano
la ghisa, sia dai martelli pneumatici.
Questo lavoro non mi piaceva, mi soffocava, non era facile lavorare in un
ambiente chiuso oltre che caldo e freddo allo stesso tempo, e sì che in
passato di lavori duri ne avevo conosciuti!...ma questo era davvero il
peggiore. Certo, non possiamo negare che la Teksid, per chi
disperatamente cercava un lavoro, era un vero punto di riferimento,
grazie al cielo c’era e, seppur con molto sacrificio, chi aveva bisogno di un
lavoro lo trovava.
Quasi tutti gli operai della fabbrica erano Siciliani e Calabresi, ma non
mancavano i Piemontesi e i Veneti.
Nel 1962 arrivò a sorpresa mio fratello, che aveva 16 anni. Lo ospitai
nella casa di San Bernardo ed in un secondo tempo iniziò anche lui a
lavorare alla Teksid.
Successivamente presi in affitto un’altra casa, sempre a San Bernardo,
dal Sig. Genero, e insieme a mio fratello, il mio amico, mia madre e mia
sorella, che intanto ci avevano raggiunti, ci stabilimmo finalmente in una
vera casa con il riscaldamento, i servizi all’interno e l’acqua calda.
Il 12 Marzo 1963 stanco e avvilito del mio lavoro mi licenziai dalla Teksid
e andai a lavorare di nuovo come muratore. Intanto presi la qualifica che
mi consentiva di essere pagato meglio di un manovale e con il Sig.
Contestabile Mario, capo dell’ impresa, costruivamo edifici, soprattutto,
nella zona di Salsasio.
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In questo periodo comprai la mia prima macchina una Topolino Giardinetta
e conobbi mia moglie, Raffaella, dopo un breve fidanzamento, il 13
dicembre del 1964 ci sposammo.
Il 15 agosto del 1965 nacque mia figlia Concetta, l’anno dopo il mio
secondo figlio, Gandolfo, all’epoca mia moglie aveva 18 anni.
Il 18 maggio del 1966, a causa di una crisi nell’edilizia tornai a lavorare
alla Teksid, sempre con una semplice domanda di assunzione, ma fui
assunto a Torino perché avevano più bisogno lì e vi rimasi per circa un
anno e mezzo.
Dopo di che venni trasferito a Carmagnola e destinato in “Corea”: cioè
dove si rifinivano i pezzi di ghisa usciti dai macchinari con pesanti
martelli.
I diritti del lavoratore venivano rispettati al 50%, ma ci furono molte
proteste perché venissero migliorate le condizione di salute e di
sicurezza in cui eravamo costretti a lavorare.
A Carmagnola non partecipai a nessuno
sciopero poiché andai via prima che
iniziassero le proteste; invece a Torino sì,
soprattutto si protestava per la poca
sicurezza dell’operaio.
Infatti l’operaio non era molto tutelato, io
personalmente non posso testimoniare
nessun incidente grave, ma qualche
infortunio sì.
Anch’io mi sono infortunato, mentre lavoravo mi cadde addosso un enorme
cerchione in ghisa colpendomi violentemente la gamba. Fui accompagnato
in infermeria dove l’infermiera mi fece tenere per tutta la notte la gamba
in una grossa bacinella di acqua fredda.
Il mattino dopo, ancora zoppicante, uscii dall’infermeria per andare a
bollare e la sicurezza mi si scagliò contro rimproverandomi per non aver
lavorato durante la notte.
Il nostro rapporto con i capi gruppo non era basato né sulla stima né
tanto meno sul rispetto, tant’è che venivamo spesso
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umiliati e maltrattati palesando, con una certa tracotanza, potere e
superiorità, forse perché loro erano Piemontesi e qualcuno era andato a
scuola fino all’avviamento e ciò li faceva sentire migliori di noi, che con
tanto amaro in bocca avevamo lasciato tutto ciò che avevamo per lavorare
onestamente.
Il capo reparto si riteneva più saggio degli altri operai perché più vecchio,
inoltre si arrogava il diritto di minacciare e “picchiare” tutti gli altri
operai che si rifiutavano di prendere ordini da lui oppure se
accidentalmente sbagliavano nel loro lavoro.
La nostra divisa non prevedeva alcuna mascherina, un privilegio riservato
solo a coloro che lavoravano a stretto contatto con i forni.
La Teksid è stata sicuramente una grande risorsa per lo sviluppo
economico, sociale ed urbanistico del paese, ma purtroppo ha anche
determinato numerose malattie professionali, ad esempio, mio cognato
Dovigo Salvatore che ha iniziato a lavorare nel 1963 alla Teksid è morto
nel 1997 per un tumore ai polmoni, causato, probabilmente, dalle polveri o
sostanze respirate durante la lavorazione della ghisa.
La divisa non era obbligatoria, ma era composta da una giacca molto
comoda, un cappello e delle scarpe antinfortunistica.
Per il pranzo ci riunivamo tutti nel refettorio ed ognuno mangiava quello
che si portava nel “baracchino” durante la pausa pranzo di 20/30 minuti.
Non erano previste altre pause e per andare in bagno bisognava chiamare
il jolly, un operaio come tutti gli altri solo che sapeva fare un po’ tutti i
lavori.
Il pagamento veniva effettuato puntualmente ogni settimana dal
ragioniere, il signor Elia, che si fermava in ogni reparto, ci chiamava per
nome e ci porgeva la busta paga con 7000 lire d’acconto.
In futuro ci pagavano ogni 15 giorni.
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La mia giornata di lavoro era organizzata in questo modo, controllavo che
nei sifoni non mancasse la terra refrattaria e se mancava la integravo con
una cazzuola, oppure dovevo rompere o aggiustare i forni.
Io preferivo lavorare di giorno perché la notte era fatta per dormire, ma
lavorare di notte mi serviva perchè pagavano un po’ di più e poi di giorno
potevo arrangiarmi con un secondo lavoro.
Dopo la fabbrica avevo sempre un secondo lavoro, giusto per guadagnare
un po’ di più, facevo l’autista di carri attrezzi, evidentemente era vietato
e un giorno mentre stavo guidando un carro attrezzi arrivò a sorpresa il
mio capo reparto, lì per lì non mi disse niente scosse solo la testa, ma il
giorno dopo mi comunicò che ero stato licenziato.
Senza perdermi d’animo andai in ufficio e chiesi se avessi potuto dare le
dimissioni, visto che non ero mai stato licenziato volevo mantenere la mia
reputazione, il signor Ramaglia accettò e mi licenziai diventando autista di
carri attrezzi a tempo pieno.
Per guadagnare qualcosa in più, visto che dovevo mantenere una famiglia,
mi dedicai ad altri lavori, nelle 24 ore lavoravo alla Stars di Villastellone,
vendevo frutta e verdura e infine portavo i miei bambini e i loro amici in
piscina ed a scuola.
Per fare tutto ciò dovetti vendere la macchina e comprare un furgone,
così al mattino portavo i 9 bambini a scuola e guadagnavo 300 lire a
viaggio, poi toglievo i sedili per caricare la frutta e la verdura da vendere
ed andavo al mercato, al pomeriggio verso le 14 tornavo a casa scaricavo
la merce e prendevo i bambini per portarli in piscina alla Teksid, alla fine
della giornata facevo il turno di notte alla Stars.
Tornai a Carmagnola nel 1975, dopo aver concluso la mia carriera alla
Stars, durata 7 anni. Smisi di lavorare perché non ritenevo giusto
prendere ordini da persone, talvolta, inferiori a me e quindi senza alcun
rimpianto mi licenziai.
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Arrivato a Carmagnola, con i soldi della liquidazione, miei e di mia moglie,
anche lei dipendente della Stars, comprai il mio primo bar: il Bar Rossi.
Continuai la mia carriera lavorativa sempre in questo campo anche dopo la
chiusura del Bar Rossi, comprando successivamente il Bar Bric e il
Paradise.
Trovo che in questi 40 anni Carmagnola sia cambiata tantissimo, da molto
piccola e con pochissimi condomini, si è urbanizzata tantissimo fino a
congiungersi con le borgate di San Giovanni e San Bernardo.
Nel 1961 la cittadina era molto diversa da ora, ad esempio c’erano le
mucche che passeggiavano in via Valobra, attorno al centro storico
c’erano campi coltivati, tutta la periferia industriale di Carmagnola non
esisteva, era proprio e solo una città agricola.
Le piazze e le strade non erano asfaltate, ad esempio piazza Martiri era
sterrata e piazza Italia non esisteva, infatti fu costruita nel 1975.
Concludendo io adesso sono contento di aver lavorato alla Teksid perché,
anche se non mi piaceva il mio lavoro, è stata comunque una bella
esperienza.
ERIKA ANDREETTA E FRANCESCA BECCHIO - 3° B
S.M.S di Carmagnola Classe
Insegnante Piera Sellaro
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Intervista a Giuseppe Giacomarra