QUADERNI DI PSICOLOGIA GIURIDICA
PUBBLICAZIONE DELLO
STUDIO DI PSICOLOGIA FORENSE E ASSISTENZA GIUDIZIARIA DI MILANO
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DIRETTORE RESPONSABILE: RENATO VOLTOLIN
AUT. TRIB. MILANO N. 74 DEL 27/1/1999
QUADERNO N. 2
DANNO PSICOLOGICO E ATTIVITA’ GIORNALISTICA
di Renato Voltolin
Introduzione
Come è noto, l’introduzione del concetto di “danno psicologico” in ambito
giuridico e giudiziario, è conseguenza del fatto che la giurisprudenza ha
riconosciuto che un atto lesivo, oltre che produrre un danno patrimoniale o
provocare una sofferenza psicologica (danno morale), può produrre anche un
danno durevole alla salute fisico-psichica (danno biologico) e che tale danno è
risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza patrimoniale. Ha inoltre
ammesso che il danno psicologico possa verificarsi anche in assenza di un danno
organico, come conseguenza cioè di una violenza puramente psicologica. La
componente psichica di tale danno alla salute, è stata definita, appunto, come
“danno psicologico”, che può essere considerato, in rapporto al danno biologico,
come una sorta di sottospecie o elemento complementare.
Si tratta indubbiamente di un segno di civiltà e di progresso sociale: con il
riconoscimento del danno psicologico, la tutela della salute dell’individuo si
realizza veramente come tutela “psico-fisica”, così come si ritiene sia nello spirito
della norma giuridica.
Il riconoscimento riguarda, in concreto, il diritto alla tutela della personalità
con riferimento a quelle che sono le sue esigenze essenziali di sviluppo,
espressione e realizzazione di sé, sentite da ogni essere umano come
irrinunciabili. Sono esigenze che la scienza psicologica più attuale ritiene vengano
soddisfatte, oltre che attraverso il libero esercizio delle proprie capacità creative e
professionali, anche e soprattutto nella realizzazione di una serena vita di
relazione ad ogni livello (individuale, familiare, sociale).
Qualsiasi soggetto che impedisca o faccia venire meno la possibilità di tali
realizzazioni, anche qualora non si tratti di un atto o un comportamento
propriamente illeciti, può produrre una lesione alla integrità e un pregiudizio alla
salute psichica, e come tale può essere condannato al risarcimento.
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Tale premessa era necessaria per definire la natura e lo spirito del
presente lavoro, che va considerato come un contributo alla definizione e alla
trattazione del complicato argomento in questione. Tuttavia esso ha
una
specificità tale da costituire un argomento di riflessione e di disamina che può
essere “estratto” dall’insieme della materia e considerato in qualche modo a sé
stante.
Tratterò infatti,
di un particolare tipo di danno psicologico: quello
imputabile all’attività giornalistica e che si verifica quando quest’ultima travalica
il mero diritto di cronaca, per andare ad intrudere illegittimamente nella sfera
della privacy e dell’intimità del soggetto.
In altri termini, intendo dimostrare che la violazione della intimità e della
privacy di un soggetto, qualora superi quel livello di soglia entro il quale
l’intrusione è in qualche modo accettabile come un “inevitabile sconfinamento
nella sfera privata“, possa provocare un danno psicologico che può essere tale
da produrre gravi turbamenti della vita sia individuale che di relazione con esiti
permanenti spesso rilevanti (stravolgimenti della vita familiare) e, al limite,
financo nefasti .
Distinguerò, rispetto alla attività giornalistica due tipi di danno psicologico,
quello relativo alla violazione in sé e quello conseguente la utilizzazione, la
diffusione di quanto è stato sottratto dalla sfera della privacy, dato che la
violazione perpetrata dal giornalista non è mai fine a se stessa, ma ha lo scopo di
impossessarsi o di ottenere del materiale informativo, “l’informazione”, da
pubblicare.
A dire il vero, non si tratta sempre, (specie riguardo al primo danno), di
una sofferenza così grave e durevole da provocare un “danno psicologico”; per cui
occorre subito precisare che, quando il danno non ha connotazioni di eccessiva
gravità, magari per la rinuncia da parte del giornalista alla diffusione della
informazione, la sofferenza comunque patita dal soggetto può rientrare in quello
che viene definito dalla legge come “danno morale”, e quindi rientrare nelle
situazioni già definite dal diritto in termini di offesa, calunnia, ingiuria,
diffamazione ecc. Qualora però la violenza sia più grave e, soprattutto, quando
provochi un turbamento della vita di relazione del soggetto, coinvolgendo quindi
anche la vita di terzi, in questo caso il danno psicologico diventa l’esito più
frequente e, per la sua natura durevole, può essere considerato un vero e
proprio danno alla salute e come tale risarcibile. Questo significa che il danno da
mera violazione non deve essere sottovalutato, perché un soggetto che venga, ad
esempio, ossessivamente seguito o interrogato su fatti e argomenti intimi che lo
riguardano dolorosamente, può portare all’esasperazione, soprattutto se si
innesta in una personalità dall’equilibrio precario.
Intendo anche dimostrare che si può ravvisare nel comportamento di certi
giornalisti, una sorta di “sindrome del reporter”, a seguito della quale il
comportamento intrusivo del giornalista si configura come un vero e proprio
disturbo della personalità.
Tale sindrome dovrebbe essere evidenziata quando risulta il vero motivo di
un certo accanimento giornalistico e costituire un elemento che permette di
confutare un pretestuoso diritto di informazione.
Tale comportamento giornalistico irresponsabile, dovrebbe comportare un
adeguato intervento degli organi di vigilanza, cosi come fa qualsiasi Ordine
professionale per le indegnità e le violazioni del codice deontologico.
Il concetto di violazione
Per poter però entrare nel merito della questione, dovrò prima di tutto
trattare di un concetto nuovo nel campo psicologico: quello di “violazione”. Tale
concetto sembrerebbe, a prima vista, rientrare nel più ampio concetto di violenza
psichica; vedremo invece come convenga tenerlo distinto, in quanto si presta a
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definire e descrivere egregiamente, proprio quel tipo di comportamento “violento”
che il reporter pone in essere quando travalica i limiti entro i quali la sua attività
professionale dovrebbe essere mantenuta, per non risultare psicologicamente
pregiudizievole.
Quando parlo di “violazione” non intendo riferirmi, ovviamente, alla
connotazione che ne dà l’ordinamento giuridico, ma al significato ad esso
attribuibile nell’ambito psicologico. Non è escluso però che il concetto di
violazione così come io lo descrivo, abbia dei punti di contatto con il modo di
vedere le cose del Diritto e della Giustizia.
Per dovere di gratitudine, debbo precisare che il concetto di violazione è
stato da me mutuato dallo psicoanalista inglese Donald Meltzer, anche se egli ne
fa, rispetto al mio, un uso totalmente diverso.
Un tentativo di definizione
E’ noto che la persona, o meglio la dimensione psico-fisica del sé di
ciascun individuo, non coincide esattamente con il suo limite corporeo. Essa
riguarda una sfera più ampia, che include generalmente (ma non solo) l’area
limitrofa a quella corporea, che viene quindi equiparata al sé corporeo e intracorporeo. (includendo in tale ultimo termine il concetto di spazio mentale o
“mondo interno”).
Potremmo paragonarla ad un’area gravitazionale, superati i limiti della
quale, gli accadimenti esterni sono vissuti dal soggetto come “attratti” nell’ambito
della sua personalità.
Questa area che costituisce, in qualche modo, un prolungamento, una
espansione della persona, può riguardare l’ambito percettivo o la sfera
dell’affettività ; allo stesso modo in cui gli abiti sono considerati non solo come
rappresentativi del soggetto, ma anche parte dello stesso, come una sorta di
seconda pelle. Tale area, con gli elementi in essa compresi, è vissuta come
assolutamente privata, ed ogni intrusione in essa, così come ogni lacerazione
viene vissuta come una vera e propria intrusione o lacerazione del sé.
Questa espansione del soggetto, che include elementi “oggettivamente” a lui
estranei, non è affatto un concetto nuovo. Esso è in qualche modo assimilabile a
quella configurazione personale, o meglio, a quell’insieme di attributi
personologici, che siamo soliti definire in termini di “status” e di “ruolo”. Del
resto anche tali connotati che riguardano questa volta sia il comportamento del
soggetto, sia le aspettative di chi entra in relazione con lui, possono subire dei
danni perpetrati, per quanto ci riguarda, anche a mezzo stampa. In termini
psicologici si dice che “ruolo” è un concetto che viene considerato sia in termini di
atteggiamento (il comportamento del soggetto a cui quel determinato ruolo viene
attribuito) che di aspettativa (il comportamento che ci si aspetta da lui) ; ne faccio
qui accenno perché può rientrare tra il patrimonio psicologico personale
suscettibile di danneggiamento.
Nel nostro caso possiamo più semplicemente parlare di privatezza o
“privacy”, per usare un termine diffuso, e sottolineare che essa è in gran parte
definita e protetta dalle convenzioni sociali condivise ; anche se ogni individuo ha
una sua concezione “soggettiva” di tale spazio privato, che può coincidere o meno,
sovrapporsi in tutto o in parte, a quello definito socialmente.
Per fare un esempio pensiamo all’eventualità che un passante ci fermi per
la strada e ci parli ad una distanza inferiore ai, diciamo, trenta o quaranta
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centimetri; noi proveremo una sorta di “invadenza” e cercheremo subito di
ricuperare la distanza, quando non saremo così irritati da cambiare direzione; a
ciò siamo indotti spontaneamente, come in una sorta di riflesso condizionato e
indipendente dal motivo che ha spinto la persona ad avvicinarci.
Se saremo avvicinati in tal modo ad una festa, vivremo invece questa
vicinanza, come un approccio avente delle connotazioni seduttive o più
specificatamente sessuali. Ma potremo anche considerare “soggettivamente”
intrusivo, un rumore proveniente dall’appartamento attiguo al nostro anche se
rientrasse nel limite della tollerabilità della maggior parte delle persone. Se
entriamo in una discoteca frequentata da adolescenti, accadrà facilmente che ci
sentiremo frastornati e assordati dal volume della musica; mentre questo verrà
considerato dai giovani frequentatori del locale, come perfettamente normale.
Può anche accadere, e l’esempio testé riportato lo dimostra, che un
comportamento possa essere sentito negativamente intrusivo dall’uno e piacevole
ed eccitante dall’altro.
La natura della intrusione è quindi estremamente variabile a seconda della
situazione, del luogo e delle condizioni in cui avviene, oltre che dipendere dalle
modalità con cui viene posta in essere ; ma anche a seconda del soggetto della
cui privacy si tratta e dal particolare stato emotivo in cui in quel momento si
trova. Basti pensare ad un incontro che avvenga nelle ore notturne anziché in
pieno giorno, o mentre siamo soli piuttosto che in compagnia.
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Vediamo ora quali sono i fattori specifici che entrano in gioco nella
determinazione e nel dimensionamento della privacy.
Nello stabilire tali limiti concorre certamente in maniera
primaria
l’apparato sensoriale: il maggiore responsabile della grande variabilità dell’area
privata. L’area tattile, ad esempio, è ovviamente molto diversa dall’area olfattiva o
da quella auditiva. Per sentire violata l’area tattile occorre che il soggetto sia
concretamente toccato, mentre l’intrusione da parte di odori avviene per lo meno
a qualche metro di distanza; l’area visiva è suscettibile di essere violata in
maniera grandemente variabile, nel senso che ci si può sentire vittime di
violazione da parte di uno che origlia o che fruga tra le nostre cose; oppure anche
se questi ci spia da lontano mentre siamo in alto mare, stesi sul fondo di una
barca.
La delimitazione della privacy in termini convenzionali non ha solo una
funzione definitoria, ma serve al tempo stesso come garanzia e protezione. Cioè la
sua natura protettiva viene percepita come tale proprio nella misura in cui la
sentiamo condivisa e quindi consensualmente garantita. Sentiamo, rispetto a
tale consenso, di potercene avvalere per pretenderne la tutela.
Il rispetto di questa definizione convenzionale è importante, perché elimina
il problema di dover ogni volta comunicare all’estraneo, i limiti oltre i quali egli si
troverà a sconfinare nella nostra vita privata. Immaginiamo a quale improba
fatica saremmo sottoposti se ogni volta dovessimo ridefinire, con il nostro
interlocutore, l’area della reciproca privacy.
Del resto questo apre il discorso ad un argomento di grande interesse
sociale, perché riguarda le difficoltà di convivenza tra popolazioni o classi sociali
diverse, difficoltà troppo spesso definite, e quindi sommariamente liquidate, in
termini negativi come “intolleranza razziale” o “razzismo”. Occorre considerare che
la convivenza tra soggetti con norme convenzionali diverse, costituisce un
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problema che va affrontato con metodo e sensibilità, e non come si è fatto nel
passato, allorquando si pensava che bastasse far fare ai giovani il servizio di leva
in località lontane dal proprio paese di origine, pensando di ottenere così una
integrazione interregionale o nord-sud.
Si trattò di un modo semplicistico per ovviare alla complessità del
problema.
La privacy può inoltre, al di là di ogni definizione convenzionale, vale a dire
in dipendenza di una situazione contingente, risultare concretamente protetta o
non protetta; ciò determina una variazione in senso restrittivo e espansivo
dell’area stessa. Se ci troviamo, ad esempio, ad essere nudi, cioè non protetti
dagli abiti, e questo avviene in un luogo non riservato, ci sentiremo violati dallo
sguardo altrui per un buon numero di metri, mentre se siamo vestiti ci sentiamo
protetti anche rispetto ad una certa vicinanza.
Qui entra però in gioco il consenso del soggetto (che spesso si configura
come un vero e proprio “invito”). Nel caso, ad esempio, di una donna dall’ampia
scollatura, la privacy sembrerebbe estendersi fino al limite in cui un uomo
potrebbe gettarvi dentro lo sguardo, ma il problema è qui appunto quello di un
vera e propria sollecitazione alla violazione della privacy (si parla infatti di
scollatura “generosa”) che, come vedremo, costituisce un elemento importante
del mio discorso.
L’importanza della diversità capacità e sensibilità percettiva degli organi di
senso, non è tale solo per colui che sente violata la propria privacy ma anche per
colui che la vìola. Un tale deve avvicinarsi molto al soggetto per violare la sua
sensibilità tattile, mentre può essere intrusivo a grande distanza se si pone in
una posizione strategica (ovviamente illegittima) dalla quale è in grado di gettare
lo sguardo entro l’area privata di un altro, specie se si serve di un supporto
tecnico ( ad esempio un tele-obbiettivo.)
Vi è un altro aspetto importante della privacy, e cioè il fatto che può essere
estesa, per così dire,
tramite “ proiezione”. Vale a dire che accade
immancabilmente che mettiamo in elementi del mondo esterno (cose, luoghi o
spazi) aspetti della nostra personalità. In tal modo le violazioni e le intrusioni e le
violenze ad essi effettuati, le percepiamo come se fossero fatte, rivolte, a noi
stessi.
Del resto accade la stessa cosa per i luoghi sacri la cui profanazione “tocca”
direttamente i fedeli.
Una parte importante della sfera della privacy è costituita, come sappiamo,
dai rapporti interpersonali. Anche nel modo di dire usuale vi è l’idea che quello
delle relazioni sia un “campo”, uno spazio (duale, gruppale ecc.), per cui di una
relazione a tre si parla di “triangolo”; così la famiglia diventa un gruppo dotato di
una estensione spaziale oltre che di strutture di rapporto.
Quanto detto per la privacy suscettibile di essere violata, vale quindi anche
nel caso che la violazione riguardi dei soggetti in relazione tra loro, piuttosto che
un singolo soggetto. In tal caso non è l’area privata del soggetto ad essere violata
quanto il suo campo relazionale. E’ un tipo di violazione definibile anche come
“interferenza”, che consiste nel frapporsi o nell’inserirsi in rapporti che non ci
riguardano direttamente. Il famoso detto “tra moglie e marito.......con quel che
segue, è proprio riferito a questo fatto dell’interferenza.
A volte l’interferenza viene giustificata sostenendo che è dettata da un
interesse terzo ( “il lettore ha il diritto di sapere, di essere informato”). Il più delle
volte si tratta però di una giustificazione pretestuosa che non toglie alla
interferenza la sua natura di violazione.
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Un altro elemento di rilievo è quello della intenzionalità. L’intenzione può
far diventare intrusivo anche ciò che per sua natura non sarebbe classificabile
come tale. Generalmente si tratta dell’utilizzazione strumentale a scopo di
violazione di mezzi o strumenti o situazioni che, per loro natura, non sono
necessariamente tali. Il guardare nella finestra del vicino affacciandosi alla
propria, non costituisce una violazione, ma semmai un atto di indiscrezione; se a
tale scopo viene utilizzato un binocolo la situazione è certo diversa.
Un giornalista, invitato ad una cerimonia, può usare la partecipazione
all’avvenimento, ottenuta a scopo di pubblicizzazione, con intendimenti malevoli.
Del resto tutto ciò è fin troppo noto, ed è anche contemplato nel vigente
Diritto privato quando, a proposito dei rapporti di vicinato, si prevede che una
“luce” può essere murata se il vicino la usa come “veduta”, pur trattandosi, in
quanto luce, di una apertura sul fondo del vicino del tutto legittima.
La violazione può consistere in una azione direttamente intrusiva, ma
anche in una sottrazione di informazioni segrete, che possono essere poi rese
pubbliche.
In fondo è questa la caratteristica della violazione perpetrata dalla attività
giornalistica: essa cioè viene estesa per “ostentazione” per cui assurge alla
condizione di violazione di massa. E’ una violazione molto grave in quanto non si
tratta semplicemente di un soggetto che viola la privacy, ma di una folla di
soggetti. E’ sorprendente, anche se , come vedremo, spiegabile in termini
psicodinamici, che tale gravità non venga sempre percepita, nonostante possa
avere l’effetto di una vera e propria degradazione di status e perfino di un
ostracismo sociale.
Tale appropriazione può anche avvenire senza bisogno di intrusione, ma
questo esula dalla mia trattazione.
E’ evidente che la gravità della violazione è diversa a seconda che sia
considerata nel primo momento della violazione individuale o dopo l’avvenuta
“ostensione” della notizia al pubblico. Il guaio sta nel fatto che spesso il danno
vero e proprio si manifesta a seguito della diffusione dell’informazione, dato che il
momento della intrusione rimane spesso occulto.
Insomma una questione complessa, anche se non per questo impossibile da
esplorare dei suoi significati più profondi; esplorazione del resto indispensabile
per una adeguata regolamentazione della sua tutela.
A questo punto abbiamo a disposizione tutta una serie di elementi che ci
consentono di tentare una prima definizione della violazione, precisando che per
“definizione” intendo una puntualizzazione puramente funzionale al procedere
della mia ricerca.
Possiamo definire come violazione, ogni atto o comportamento che vada
ad intrudere nell’ambito della privacy di uno o anche di più soggetti ( se in
rapporto tra loro), intesa questa come quell’area di interessi e di sensibilità che
viene considerata dal soggetto come proprio esclusivo possesso in funzione del
fatto che rappresenta una sorta di “estensione del Sé, rispetto alla quale egli
sente di poter vantare un legittimo diritto soggettivo di protezione e tutela.
Questa privacy, in genere socialmente condivisa può anche non esserlo “tout
court”, nel senso che spesso la pubblica opinione può
negare tale
riconoscimento oggettivo. In tal caso l’intruso, e il reporter ne è l’emblematico
esempio, diventa di fatto il rappresentante di un desiderio di intrusività collettivo
ritenuto legittimo in funzione appunto, di una ideologia collettiva. In tal caso la
violazione-violenza prima di essere perseguita dalla Legge richiede di essere
argomentata per ottenere una consensualità. Vale a dire che può essere
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necessario che avvenga un mutamento nella sensibilità dell’opinione pubblica.
Un esempio significativo è a mio avviso quello del “concubinato”. In un clima
sociale bigotto e ipermoralistico la diffusione di notizie circostanziate di una
relazione
tra “concubini” giudicata come un fatto scandaloso, non verrebbe
condannata come una violazione della privacy, mentre sarebbe considerata tale in
un contesto sociale di più liberi costumi, che ritenga cioè legittima la convivenza
tra persone non coniugate.
Vedremo come l’atteggiamento della opinione pubblica rispetto alla
intrusione giornalistica oscilli tra due posizioni, quella della solidarietà con la
vittima e quella della solidarietà del giornalista in dipendenza di fattori che
interferiscono con la necessità di stabilire un “sano” quanto opportuno concetto
di privacy quale soggetto di diritto da parte della legge.
La protezione della privacy come esigenza psicologica
Per comprendere la natura del danno psicologico provocato da violazione
occorre, dopo averne definito la natura e l’estensione, considerare come si origini
in ciascuno di noi l’idea di privacy, e la conseguente esigenza di una sua tutela e
protezione.
Saranno a questo scopo necessarie alcune nozioni “essenziali” di psicologia
dello sviluppo, ma credo che si tratti di nozioni che prima o poi dovranno pur
diventare contenuti di aggiornamento connaturali al ruolo di ciascun magistrato!
Le diverse teorie psicologiche a orientamento psicodinamico, oltre ad essere
d’accordo sull’importanza delle relazioni interpersonali per lo sviluppo psichico,
sono altrettanto concordi nell’affermare che, perché tali relazioni possano
assumere una positiva funzione strutturante della personalità ponendola in grado
di far fronte ai problemi di apprendimento e di adattamento, occorre che prima
abbia luogo, all’inizio del processo di crescita, una separazione, una netta
distinzione, tra il Sé (il bambino) e l’oggetto (la madre).
Questa distinzione non deve avvenire solo a livello fisico, vale a dire tra
corpo della madre e corpo del bambino, in funzione del riconoscimento dei
rispettivi perimetri corporei, ma anche e soprattutto a livello personologico; nel
senso che gli affetti, i bisogni, le emozioni, le intenzionalità, insomma tutto
quanto riguarda la personalità del bambino, devono essere da questo riconosciute
e riconoscibili come diverse e distinte da quelle della madre. Questa capacità di
distinzione costituisce la base di ogni percezione realistica dell’altro.
Questa distinzione avviene ovviamente in maniera graduale e naturale, se
non vi sono difficoltà tali da indurre nel bambino reazioni di chiusura alla realtà
esterna (autismo).
Dapprima la distinzione è solo corporea, mentre
manca ancora la
percezione di una identità psicologica separata, non potendo ancora contare il
neonato su di una percezione realistica della madre . La madre poi è
vissuta
psicologicamente ad un livello quasi totalmente fantasmatico. Per il bambino,
cioè, la madre “esiste” all’inizio come oggetto separato da sé, ma non come oggetto
inserito in una esperienza spazio-temporale. Ciò significa da un lato che vi sono
più immagini materne, (la così detta “scissione” della figura materna), a seconda
della natura delle esperienze vissute (madre buona che nutre e madre cattiva che
trascura); dall’altro, che la madre che quand’era presente e soddisfacente era
vissuta come “buona”, quando è assente non è vissuta come tale, ma come se
fosse una presenza cattiva che infligge sofferenza. Non vi è ancora cioè il concetto
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spaziale di assenza-presenza, ma vi è una trasformazione qualitativa dell’oggetto
che comunque viene percepito come presenza (fantasmatica).
Solo quando tale differenziazione tra madre presente e madre “che non
c’è”, sarà stabilmente percepita, il bambino potrà porsi in un vero rapporto di
interrelazione e di scambio.
Egli vive però tale rapporto secondo metafore di scambio metabolico e
catabolico. Il bambino sente cioè che la realtà esterna è qualcosa di cui può
appropriarsi attraverso una modalità incorporativa (come quando si nutre al
seno); oppure che è qualcosa che può invece usare come un “contenitore”, in cui
espellere i pezzi di esperienza negativa e dolorosa con cui ha inevitabilmente a
che fare.
Egli fantasticherà dunque di possedere la realtà esterna “incorporandola”
dentro di sé, così come avviene con il cibo nel processo nutritivo; oppure
fantasticherà di utilizzarla come occasione liberatoria, evacuando in essa le sue
sensazioni spiacevoli, sentite come equivalenti a “cose” da espellere,
da
“evacuare”, come appunto avviene per i contenuti fecali.
Nel medesimo
tempo egli sente che questi rapporti di scambio sono
vicendevoli, reciproci; per cui anche gli oggetti esterni, le persone, possono
prendergli delle cose, appropriarsene, o mettere in lui delle cose negative. In
sintesi, possiamo dire che le relazioni vengono dapprima concepite come un misto
di rapporti positivi, amorevoli, protettivi o, al contrario, “persecutori”.
Del resto tutto ciò non è nulla di diverso da quanto avveniva nella mente
dell’uomo primitivo, quando egli “animava” gli eventi della natura in termini di
intenzionalità buona o cattiva.
E’ dunque nella primissima fase neonatale che il bambino, o meglio, la sua
mente, oltre a concepire questa idea di “interno” ed “esterno”, si costruisce una
barriera protettiva, una membrana (Bion la chiama “barriera di contatto”), che ha
la funzione di operare da corazza protettiva e da filtro, rispetto alle percezioni
sensoriali attraverso le quali avviene il contatto con la realtà. Questa barriera non
ha quindi solo una funzione protettiva ma anche selettiva, evitando così un
indiscriminato “bombardamento” sensoriale.
Ma come il corpo ha delle aperture protette da sfinteri o da membranefiltro, anche il mondo psichico interiore ha simili aperture, attraverso le quali può
essere penetrato, invaso, intruso.
Questo vero e proprio prototipo del concetto di privacy, può essere
quindi considerato come un’idea di spazio, chiuso o aperto, a seconda che la
funzione sia di “accogliere in”, o di “evacuare in”, o ancora di “proteggere da”.
Se , come in effetti sembra che accada, è
su questa base che si
costruisce, per estensione, quell’area del Sé di cui ho parlato nell’introduzione, è
comprensibile quale sia l’importanza e conseguentemente il danno che possono
essere collegati a quest’area . Non si tratta infatti di una esperienza solamente
cognitiva ma anche affettiva, nel senso che serve a distinguere il nemico
dall’amico, il donatore dall’intrusore, ecc.ecc.
Tutti ricorderanno del resto che, quand’erano bambini, in caso di una
paura notturna, era sufficiente rifugiarsi sotto le coperte per sentirsi protetti.
Così come tutti sanno quanto evochi sensazioni sgradevoli il fatto che qualcuno ci
strappi all’improvviso le coperte di dosso, al di là del comprensibile disagio dovuto
all’aspetto materiale dell’azione.
Basta poi osservare il bambino, anche superficialmente, per ritrovare quanto
appena detto: il bambino che prende tutto in bocca o che getta gli oggetti lontano
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da sé, il bambino che si impaurisce alla presenza dell’estraneo, il bambino che si
tura le orecchie e si copre gli occhi perché non vuole sentire, e via dicendo.
Certamente però, il bambino non ha ancora il diritto alla privacy, tranne
che per quanto riguarda la parte intra-corporea, cioè l’interno del suo corpo, che
può essere penetrato dall’adulto solo per motivi di igiene e di cura (clistere,
misurazione della temperatura. somministrazione di medicine ecc.).
A parte queste eccezioni il bambino non ha diritto alla privacy perché essa
richiede che dapprima il soggetto abbia acquisito e assimilato le norme educative.
Il bambino non può andare al bagno da solo perché si teme che si imbratti,
non può ritirarsi a mangiare da solo perché si teme che non riesca a farlo o
addirittura che non si preoccupi di nutrirsi a dovere; non può lavarsi da solo
nella vasca perché si teme che egli si trastulli anziché lavarsi o magari anneghi,
ecc. ecc.
Tutto ciò va sottolineato perché ci consente di spiegare come vi sia sempre
una sorta di invidia mista a curiosità, per la privacy altrui, proprio in funzione di
una esperienza atavica in cui alla privacy dei genitori corrispondeva nel bambino
l’esperienza di essere una vittima indifesa della ingerenza altrui e, per di più,
senza alcuna condizione di reciprocità.
Il bambino dal canto suo, tende infatti a non riconoscere agli adulti il diritto
alla intimità e alla privacy, in quanto vive la sua posizione rispetto ad essa come
una esclusione, mentre sente invece di aver ancora un diritto a “star dentro”, ad
essere incluso, per sentirsi protetto. Egli del resto non si fida molto della sua
area di privacy, e sente che è più sicuro entrare in quella protettiva dei genitori.
Svegliatosi di notte in preda alla paura egli può tirarsi le coperte sopra la testa,
oppure correre nella stanza dei genitori e pretendere di infilarsi nel loro lettone.
Tutto questo discorso potrebbe essere considerato ozioso da chi non accetti
una coesistenza in ciascuno di noi di aspetti adulti e aspetti infantili, sui quali
ultimi i primi sono inevitabilmente edificati.
Ma, purtroppo, la negazione non
impedisce ai fatti di esistere, e il riconoscimento del danno psicologico parte
proprio dal presupposto che esista la possibilità che una lesione psicologica vada
a sconvolgere il delicato equilibrio dinamico e strutturale tra i vari aspetti della
personalità.
Se non tenessimo conto del significato psicologico della violazione, e di
come questa sia aggravata da tutta una serie di significati simbolici, non
esisterebbe nemmeno il concetto stesso di danno psicologico, ma solo quello di
danno biologico misurabile in termini di invalidità fisica permanente.
Tuttavia occorre anche ammettere che un concetto di realtà psichica così
diverso e spesso così divergente dal concetto di realtà così come noi ne abbiamo
coscienza e conoscenza, non è cosa da poco.
Se così non fosse il concetto di danno psicologico sarebbe entrato molto prima
nelle aule dei tribunali.
Il danno psicologico è tale nella misura in cui il soggetto subisce una azione
o un evento che hanno un significato psicologico e non solo fattuale. E il
significato psicologico deriva i suoi effetti dalla commistione di elementi di
fragilità-forza, precarietà-stabilità, maturità-immaturità, aspetti adulti-infantili;
tutti fattori che caratterizzano l’equilibrio strutturale della nostra personalità.
Perché altrimenti un uomo politico di grande potere può arrivare,
all’indomani di uno scandalo, ad un crollo psichico con esiti infausti? Non ci si
può certo riferire ad un presunto “codice d’onore”, dato che fino al giorno prima
questo non gli impediva di operare fraudolentemente!
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Credo che quanto detto finora sia sufficiente per comprendere quale sia il
vissuto di un soggetto che sente la sua privacy svalorizzata, non tenuta in
considerazione, privata di quel rispetto e di quella discrezione che il soggetto
ritiene sia ad essa dovuto.
Del resto noi stessi rimaniamo profondamente colpiti quando la sacralità
dell’intimità e della privacy viene disprezzata e derisa. Così ci ferisce e ci disgusta
colui che fa irriverentemente intrusione in un luogo sacro; o ricordiamo con
indignazione le lunghe file di deportati ebrei derisi e denudati e così crudelmente
privati di ogni diritto di intimità.
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A questo punto possiamo tentare di mettere insieme, di organizzare in un
discorso coerente, gli elementi esposti finora, per entrare decisamente nello
specifico del tema.
In sintesi: sono partito dal concetto di violazione cercando di determinare lo
spazio, l’area, il perimetro superando il quale si effettua una vera e propria
intrusione nella privacy del soggetto. Ho poi considerato i motivi per cui tale
intrusione viene “sofferta” dal soggetto come un attacco, una violenza alla propria
personalità.
Ne è emerso un particolare tipo di sofferenza psichica determinata da un
vissuto di intrusività, di esposizione forzata della propria intimità che può
arrivare ad essere percepito come un vero e proprio “linciaggio psicologico”. Tale
sofferenza “da violazione”, che l’attuale evoluzione giurisprudenziale consente, in
caso di esito durevole o permanete, di definire in termini di danno alla salute
psico-fisica e di rubricare sotto la voce “danno psicologico” imputabile ad un
preciso soggetto-agente, può essere considerato il pregiudizio più tipico
provocato dalla attività giornalistica nella sfera del privato. Tale definizione
potrebbe costituire un contributo alla regolamentazione di quel “diritto ad
informarsi” che non trova esplicita regolamentazione costituzionale. Come è noto
la Costituzione (art.21) dà garanzia al “diritto di informare” mentre il diritto al
reperimento della notizia si ricava solo implicitamente, dato che non è prevista in
tal senso alcuna norma che lo neghi.
Il problema della illegittimità della violazione
Prima di procedere alla analisi delle diverse forme in cui può venire
esercitata, e soprattutto delle intenzioni che le sottendono, occorre stabilire
innanzitutto se si tratti, nel caso della violazione perpetrata dalla attività
giornalistica, di un atto illegittimo o se si tratti di un mero inevitabile
sconfinamento, dovuto al fatto che spesso il diritto del singolo non sempre è
perfettamente coniugabile con il diritto collettivo; specie quando il contrasto è tra
interesse pubblico, inteso come bene assoluto, e interesse privato.
Del resto tale evenienza è già contemplata dal Diritto, e può venire risolta a
scapito della volontà privata, così come accade, ad esempio, nel caso
dell’esproprio per pubblica utilità. Credo che si tratti di un problema nodale, in
quanto diversa è la tutela del soggetto violato, a seconda che si tratti dell’uno o
dell’altro caso. Comunque credo anche, che proprio una disamina psicologica
potrebbe mostrare la illegittimità di azioni-violazioni che un tempo non erano
10
ritenute tali, e quindi portare ad un aggiornamento legislativo o giurisprudenziale
in materia.
A questo proposito è opportuno osservare che ci troviamo, nel caso della
privacy, in un campo la cui regolamentazione non è specifica della norma di
Legge, quanto della Giurisprudenza; così come accade quando la Legge è
suscettibile di interpretazione “storica” o “evolutiva”. Si tratta di uno di quei
campi regolati dalla norma solo a livello di principio, proprio per non incorrere in
anacronismi che costringerebbero ad un laborioso lavoro di continuo
aggiornamento normativo. Basti pensare a concetti come “il comune senso del
pudore” e alla sua relatività storica. Il legislatore si è limitato a porre dei principi
fondamentali, dei concetti “vuoti”,
lasciando alla Società e quindi alla
Giurisprudenza, che rappresenta l’elemento progressista del diritto, il compito di
riempirli di volta in volta del contenuto più adeguato allo spirito del tempo.
Per quanto mi riguarda, penso che molto di quanto concerne la liceità della
attività giornalistica, sia riferibile ad un modo di intendere la privacy
“storicamente datato”; vale a dire
che l’eccessiva e disinvolta permissività
riservata ancor oggi alle modalità di reperimento dell’informazione giornalistica e
al diritto di cronaca, sia in gran parte fondata, come vedremo, su motivazioni
psicologiche collettive, ma sia anche condizionata da quel timore, mai del tutto
esorcizzato, di una censura di Regime, sempre incombente in ogni Democrazia.
In altre parole mi sembra che alla libertà di stampa e al diritto di cronaca si
continui a sacrificare la pienezza della privacy personale, in funzione di un
interesse di libertà democratica ritenuto così prioritario da portare a paradossali
degenerazioni. Questo può comportare, e di fatto comporta, che l’intrusività
della stampa rispetto alla vita privata diventi eccessiva, fino a costituire essa
stessa un abuso di potere e un limite alla libertà personale (il famoso “quarto
potere”), posto in essere, grottescamente, proprio in nome della Libertà e della
Democrazia.
Di contro, lo studio psicologico dell’uomo ci ha insegnato che la volontà di
sopraffazione e di dominio è così radicata negli individui ( correlata alle strutture
narcisistiche del soggetto) che spesso l’individuo tende ad approfittare del suo
potere legittimo per soddisfare esigenze personali di natura velleitaria, per cui vi
sono, in proporzione, più soprusi esercitati in nome della libertà, che in
conseguenza della ideologia repressiva di un regime chiaramente tirannico.
Un esempio è ravvisabile nelle professioni “custodialistiche” (carceri,
manicomi, collegi, istituti di rieducazione ecc.) nelle quali la violenza in nome
della Legge è più la regola che l’eccezione ; al punto che ogni paese a democrazia
avanzata ne richiede un puntuale e stretto controllo.
Concluderei la mia ultima “chiosa”, affermando che la possibilità della
attività giornalistica di farsi continuamente scudo del “diritto alla libera
manifestazione del pensiero”, permette che vengano mimetizzati comportamenti
aggressivi e prevaricatori che rasentano la morbosità. Sotto la pretesa di
esercitare il diritto di cronaca viene posta sistematicamente in essere una
impietosa quanto crudele violazione della privacy individuale, lasciando così
ampio spazio ad una violenza che rischia di diventare istituzionalizzata. Spero
che nel prosieguo del mio lavoro, tutto ciò possa essere ulteriormente chiarificato
e convenientemente dimostrato.
11
L’ordinamento giuridico e il problema della privacy
Due sembra siano i diritti la cui contrapposizione costituisce le ragioni della
limitazione della privacy. Il primo è il diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (nonché
il diritto conseguente da parte della stampa di non essere soggetta ad
autorizzazioni), sanzionato dall’art.21 della costituzione; il secondo è il diritto
alla segretezza che, nell’ambito privato, se si escludono gli interessi economici e
commerciali, altro non è che il diritto alla privacy nelle sue diverse forme dirette e
indirette; laddove, in ambito pubblico ha invece a che vedere con interessi
pubblici quali il segreto di Stato, il segreto istruttorio ecc.
Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e il correlato diritto
all’informazione non possono infatti non tenere conto del diritto alla segretezza,
intesa come il diritto di ciascun individuo a mantenere riservata la propria
intimità affettiva e sessuale. Per cui tale intimità può essere sacrificata solo in
parte (“compressa, come dicono alcuni), ed esclusivamente
per motivi di
interesse generale comprovati e rilevanti.
Che cosa costituisca poi informazione di interesse e di utilità pubblica è
tutto da stabilire. Può riguardare una specifica esigenza di tutela personale o
patrimoniale (informazione sui protesti cambiari, sui precedenti penali, su stati
fallimentari ecc.), o la necessità di formarsi una opinione sui fatti sociali il più
possibile veritiera e completa, il ché non potrebbe avvenire in assenza di adeguate
informazioni. Oppure anche il diritto di verificare o confutare la integrità di un
soggetto al quale abbiamo dato fiducia o mandato di rappresentanza (uomo
politico, rappresentante legale ecc.) e via dicendo.
Ma chi può vantare questo diritto ad informare, che è qualcosa di più che
non esprimere il proprio pensiero la propria opinione?
Una condizione a mio avviso essenziale, pena l’automatico configurarsi
della violazione illegittima, è quella che il giornalista, colui cioè che si propone di
informare e che, di conseguenza, vanta il diritto di informarsi per poter informare,
deve innanzitutto esercitare la sua funzione nell’ambito di un lavoro retribuito .
Poiché la Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro (art.4) e
poiché il compito di informare i cittadini sui fatti e le situazioni che lo riguardano
è, per così dire, un lavoro di pubblica utilità, il giornalista può pretendersi
legittimato ad andare alla ricerca di informazioni, non per “jure proprio” ma in
funzione del suo essere dipendente da un organismo legittimato dalla legge a
fornire informazioni, (non dimentichiamo che lo Stato riconosce spesso tale
funzione ai giornali esplicitamente, ad esempio ogni volta che obbliga un soggetto
a pubblicizzare una notizia nei più diffusi quotidiani di un certo territorio:
rettifiche, smentite, interdizione, elenco dei protesti cambiari, dei fallimenti ecc..
Non si vede perché il giornalista dovrebbe sentirsi investito, “a titolo
personale”, di una funzione informativa che nessuno gli richiede; mentre ne è
invece implicitamente investito il giornale dal quale egli dipende.
Anche quando un giornalista pretende che gli venga consentito il libero
accesso ad una pubblica manifestazione, lo fa in quanto giornalista del tale o del
tal altro giornale o agenzia.
Del resto il diritto generico ad essere informati, non riguarda affatto la
privacy, e può essere considerato sotto la duplice veste del “diritto” e della
“possibilità”.
Il diritto ad essere informati è tale nella misura in cui si avvale della
esistenza di un obbligo che un altro soggetto ha di informare. L’obbligo di
12
informare può riguardare quelle Istituzioni Pubbliche che devono rendere edotti i
cittadini dei loro diritti e dei loro obblighi; o quei privati ai quali la Legge
“impone” di informare, come ad esempio i produttori di beni e servizi che devono
dare le informazioni necessarie a stabilire la qualità o la composizione dei loro
prodotti; oppure i rappresentanti ai loro rappresentati, o gli amministratori
condominiali ai loro condomini. ecc.
Il diritto di avere la possibilità di informarsi riguarda invece il libero
accesso alle fonti di informazione di pubblico interesse, che devono essere note e
accessibili, ma che poi ciascuno ha la facoltà di consultare o meno.
Stando così le cose, mi sembra di poter sostenere che non esiste un diritto
ad informare giustificato in quanto collegato, ipso facto, alla libertà di esprimere
la propria opinione, qualora il contenuto dell’informazione riguardi notizie
relative alla privacy. Questo diritto, riservato agli organi di informazione dovrebbe,
a sua volta, essere condizionato dal fatto che l’informazione sia di pubblico
interesse. Dico “dovrebbe” perché di fatto, come vedremo, l’informazione soddisfa
anche desideri futili e banali spesso affatto rispettosi, per non dire lesivi, della
privacy individuale, anche se cerca di invocare il pubblico interesse.
Una volta fatto il punto sulle condizioni che autorizzano la ricerca di
informazioni , occorre stabilire quindi se la notizia sia di interesse pubblico, e di
interesse pubblico prevalente sul diritto di segretezza dell’interessato. Se non
esistono entrambe le condizioni la violazione della privacy è, a mio avviso, una
azione illegittima.
Sembra che la definizione giuridica di privacy introdotta dal diritto
statunitense e la natura della sua tutela, si possa porre su questa linea in
quanto ritiene che la privacy possa essere “compressa” (termine curioso ma
significativo) solo nei seguenti casi :
a) quando vi è un interesse pubblico
b) quando la diffusione delle notizie relative alla sfera della segretezza privata sia
avvenuta con il consenso esplicito o tacito del diretto interessato
c) quando la violazione della riservatezza sia priva di qualsiasi effetto dannoso
Se non esiste l’una o l’altra delle le tre condizioni, la ricerca e la diffusione della
notizia è illegittima; l’interesse pubblico inoltre deve essere anche di tali rilevanza
da legittimare quella “compressione” della privacy di cui ho più sopra parlato.
Nel nostro ordinamento giuridico tale modo di vedere le cose che potrebbe
essere sostenuto dalla garanzia contenuta nell’art.2 della Costituzione non
sembra però essere tenuto in gran conto, in quanto la privacy nella nostra società
non sarebbe uno specifico diritto bensì una nuova dimensione dei diritti di libertà1
Ciononostante le disposizioni Costituzionali riconoscono e difendono
l’inviolabilità del domicilio e la segretezza della corrispondenza (artt.14 e 15),
esteso al diritto alla segretezza delle comunicazioni telefoniche, telegrafiche o di
qualunque altra trasmissione di suoni, o dati, nonché il diritto a non vedere usare
pubblicamente l’immagine o a vedere diffondere notizie sui sentimenti
dell’individuo. Il problema si prospetta ovviamente non quando tali diffusioni
1
Rosanna Bianco : Il Diritto del giornalismo, Padova 1997
13
provengono dall’interessato ma quando il diritto alla privacy si scontra con il
diritto alla diffusione della notizia per un pubblico interesse.
Alla luce di questo breve excursus e utilizzando comunque quanto detto
finora, come ipotesi di lavoro; possiamo immaginare le seguenti evenienze
riguardo alla violazione :
a) viene accertata l’esistenza di una illegittimità e quindi di un reato di violazione
(qualunque sia la sua rubricazione). Il tal caso la conseguenza dovrebbe essere
una sanzione e il risarcimento dell’eventuale danno psicologico
b) viene riconosciuto che la violazione dipende solo da negligenti modalità di
esercizio di un diritto legittimo. In tal caso dovrebbe essere riconosciuto il
diritto al risarcimento in quanto imputabile ad un evento che, pur non essendo
doloso, è definibile comunque come colposo.
c) viene riconosciuta la legittimità dell’informazione ma anche una conseguente
“sofferenza” del soggetto. Dovrebbe in tal caso essere egualmente riconosciuto
un risarcimento “compensatorio”; per un costo individuale eccessivo, pur se
sofferto a seguito del perseguimento di un interesse collettivo comunque
prevalente
d) viene riconosciuta la legittimità della informazione ma non una sofferenza
eccessiva del soggetto. Il tal caso non dovrebbe essere riconosciuto nessun
risarcimento perché trattasi di un costo subìto sì dal soggetto, ma rientrante
nell’ambito dei sacrifici individuali pretesi in nome della tutela di un diritto
collettivo di più alto grado.
E’ forse superfluo precisare che il danno, pur psicologico, potrebbe
rientrare, qualora non sia rilevante o durevole, nella categoria del danno morale,
anziché in quella del danno biologico a cui il danno psicologico invece appartiene.
Il problema del consenso implicito
Come abbiamo visto, uno degli elementi messi in risalto dal diritto
statunitense, e preso in considerazione per legittimare una “compressione” del
diritto alla privacy è, oltre all’interesse collettivo, quello del
consenso
dell’interessato. Il problema però sta nell’ammettere che tale consenso possa
anche essere “implicito”.
Lo stabilire la effettiva presenza di tale consenso è però irta di difficoltà,
in quanto i due antagonisti della vicenda, vittima e giornalista, tendono “per
principio”, l’uno a negarne e l’altro ad affermarne la presenza, e ciò a dispetto di
qualsiasi evidenza contraria.
Io credo che il consenso implicito abbia però a che vedere con un tipo
particolare di soggetti che sono con la stampa in un rapporto privilegiato, che
riguardi quasi esclusivamente quei soggetti che utilizzano la stampa come uno
strumento per ottenere un successo di immagine, di pubblico, di notorietà . E’
chiaro che in tali casi il giornalista sente una sorta di “ius restituzionis” e si
rifiuta di accettare che questi soggetti rivendichino, ora, quella privacy che,
quando faceva loro comodo, non si erano affatto preoccupati di mantenere
riservata. Vi è invece un’altra forma di consenso che, pur sembrando implicito,
può risultare di fatto “carpito”, con strategie più o meno subdole. Se, ad esempio,
un giornalista trova uno stratagemma per essere ricevuto nella casa di colui che
ha già fatto sapere di non voler rilasciare interviste, non può certo pretendere che
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venga considerata legittima quella intervista che, in qualche modo, tenta di
“costruire” utilizzando le informazioni che in tale frangente è riuscito ad ottenere.
Eppure ciò è quanto di norma succede.
Chi di noi si è trovato a rilasciare una intervista sa bene che, nonostante la
promessa “rassicurante” di riportare fedelmente le dichiarazioni ottenute, i
rimaneggiamenti successivi, le deformazioni, le virgolettature ambigue, che
spesso arrivano a distorcere la verità, sono il minimo che ci si possa aspettare.
In ogni caso la questione è complessa perché se, di fatto, è vero che vi
possono essere situazioni in cui vi può essere davvero una sorta di invito alla
violazione della privacy, e ciò persino
anche in
comportamenti che
sembrerebbero volti a proteggerla, è anche vero che la conseguente violazione
dovrebbe per lo meno essere comunque mantenuta nell’abito dell’invito.
Se , come dice Meltzer, chi pone i cocci di vetro sopra il muro di cinta che
delimita la sua proprietà, da un lato scoraggia l’eventuale malintenzionato, ma
nello stesso tempo aumenta in lui il desiderio di guardare al di là del muro,
figuriamoci quando tale invito è lasciato esplicitamente trasparire. Ma occorre
anche comprendere che spesso l’invito o, al contrario, il non convincente rifiuto
non sono appunto ricercati così coscientemente e consapevolmente come al
giornalista fa comodo affermare.
E’ chiaro che una adolescente che circoli in vertiginose minigonne, può
essere considerata, a prima vista, provocatrice e seduttiva; eppure può anche
trattarsi di un soggetto che neghi la sua paura della sessualità, e che il suo sia
semplicemente un atteggiamento contro-fobico.
Il fatto è che, purtroppo, non si può stabilire come stanno le cose
utilizzando un criterio generale, ma solo considerando caso per caso.
Ritengo però che, comunque, l’invito alla violazione non può dar luogo ad
una azione che sia sproporzionata alla situazione. Un soggetto non può
giustificare la sua violazione alla privacy prendendo a pretesto un comportamento
ambiguo e interpretandolo a suo vantaggio. Occorre che vi sia una proporzione
tra induzione seduttiva e risposta intrusiva.
Per utilizzare una argomentazione ricorrente, possiamo dire che una
giovane donna che circoli in abbigliamento dalla scollatura palesemente e
inequivocabilmente “provocante”, o in qualsivoglia altro abbigliamento
provocatorio, non può lamentarsi degli eventuali apprezzamenti volgari che le
possono venire rivolti per strada. Nello stesso tempo ella ha il diritto di sentirsi
lesa e di pretendere giustizia, se viene invece fatta oggetto di un atto di violenza
sessuale.
Il così detto “diritto di cronaca”
Anche se utili per distinguere, nell’ambito della attività giornalistica, tra
legittimità e illegittimità e tra ingiusta violazione e tollerabile limitazione della
privacy (in caso di interesse collettivo), queste considerazioni però hanno scarsa
pertinenza psicologica per cui le lascerò all’uomo di Legge, riprendendo a
trattare dell’attività giornalistica denominata “cronaca”.
Credo che questo sia uno dei paragrafi più importanti di questo mio lavoro,
poiché è proprio l’attività del cronista quella che è più frequentemente
responsabile della violazione della privacy e che produce i maggiori danni
psicologici (almeno in termini di frequenza). Il mio compito dovrebbe essere quello
di contribuire a svelare gli scopi nascosti, inconsci, dell’attività del fotoreporter
15
per confutare ogni pretesa di razionalizzazione funzionale da parte di quest’ultimo
e, d’altro canto, di aiutare il lettore a effettuare una autocritica per evitare di
cadere in una inconscia quanto inopportuna complicità.
Prima della accettazione del concetto di danno psicologico, la privacy
dell’individuo era, riguardo al cronista, pressoché priva di tutela. L’intervento
della Legge riguardava l’utilizzazione della notizia di cronaca piuttosto che il
comportamento posto in essere per ottenerla. Ma anche il tal caso non solo il
soggetto leso doveva inoltrare querela per diffamazione, calunnia ecc.; ma per
quanto riguarda il risarcimento esso doveva limitarsi al solo eventuale danno
patrimoniale , e semmai a quello morale.
Il cronista poteva provocare impunemente danni psicologici di ogni tipo,
dato appunto che tale danno non era tenuto in considerazione.
Pur essendo ora le cose
sostanzialmente cambiate, tuttavia a tale
cambiamento
non fa riscontro
una altrettanto sostanziale modificazione
dell’atteggiamento della pubblica opinione nei confronti del cronista.
Io credo, invero, che non sia difficile mostrare che nella violazione della
privacy da parte del “cronista”, possono di rado trovare quelle giustificazioni e
quelle condizioni che la magistratura statunitense, a partire dal famoso caso
Warren, ritiene possano giustificare la “compressione” della privacy individuale.
Infatti, le notizie per le quali il cronista avanza un diritto di cronaca, il più
delle volte:
a) non sono affatto di interesse pubblico
b) non sono affatto reperite con il consenso dell’interessato, né esplicito, né
tacito
c) hanno spesso effetti dannosi.
Stando così le cose dobbiamo appunto chiederci come mai la privacy sia di
così ardua tutela. In fondo, l’introduzione del concetto di danno psicologico è
avvenuta ormai da più di una decina di anni.
Sembra che vi sia una sorta di “resistenza” psicologica, di messa in stallo di
ogni iniziativa al riguardo.
Ma entriamo nel merito della questione.
Solitamente, se un soggetto usa violenza ad un altro e tale violenza viene
dimostrata, la pubblica opinione è immancabilmente solidale con la vittima, e si
aspetta o reclama la punizione del responsabile e una sua condanna al
risarcimento (qualora ovviamente questo esista e venga dimostrato).
Nel caso della violazione da attività giornalistica, il pubblico mostra un
atteggiamento sostanzialmente diverso: la sua solidarietà con la vittima non è mai
così scontata e spesso, anzi, esso si schiera in difesa del giornalista. E anche
quando il pubblico si trova di fronte ad una chiara documentazione di un caso di
violazione della privacy, la comprensione per il leso è concessa solo se questi
subisce passivamente la situazione; mentre se questi reagisce violentemente,
magari scagliandosi contro la telecamera che lo sta riprendendo o mettendo
drasticamente il giornalista alla porta, non è insolito che la solidarietà venga
meno, e che tutta la simpatia venga rivolta al giornalista.
Insomma vi è una strana connivenza tra pubblico e stampa, connivenza
della quale il giornalista non manca di farsi scudo ad ogni occasione.
“Il pubblico ha il diritto di essere informato” è infatti la frase più frequente.
Le ragioni di tale anomala solidarietà dipende, come dicevo, da fattori
psicologici, alcuni giustificabili razionalmente altri che trovano la loro ragione
d’essere in dinamiche irrazionali inconsce.
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A livello razionale, vi è certamente un riconoscimento che la stampa ha
una funzione sociale che va al di là di quella meramente informativa. E’ superfluo
elencare tutti gli svantaggi che deriverebbero al cittadino se la stampa fosse
all’improvviso abolita o le emittenti televisive e radiofoniche cadessero nel silenzio.
Solitudine e isolamento sociale sono forse le conseguenze più evidenti; ma anche
altre sono le ansie in gioco. Tra queste il venir meno della possibilità di poter
contare sull’intervento della stampa e di conseguenza sulla solidarietà della
pubblica opinione, qualora accada di essere vittima di un sopruso, provenga esso
da parte privata o da parte dello Stato.
La tolleranza del pubblico e l’atteggiamento assolutorio nei confronti della
violazione della privacy avrebbe natura remuneratoria rispetto al servizio che la
stampa a sua volta fa al pubblico dei lettori, intesi come “categoria” di cui
prendere pubblicamente le parti.
La funzione della stampa avrebbe una funzione di deterrente nei confronti
dell’abuso e del sopruso, specie per di iniziativa Istituzionale.
Ma non sono estranee altre motivazioni meno legittime, questa volta
negative e imputabili alla parte meno nobile della personalità, che approfitta di
questo stato di cose per ottenere i suoi piccoli (ma non per questo innocui) trionfi
Si tratta di tendenze solitamente perverse : quali voyerismo, aggressività,
desiderio di vendetta, desiderio di esercitare un controllo e un condizionamento
altrimenti impossibile.
Tendenze che vengono puntualmente negate ma che trovano invece una
sorta di soddisfazione occulta, che per quanto riguarda il pubblico avviene, per
così dire, “per procura”.
Vi sono certamente anche interessi conservatori, moralistici, classisti ecc.,
ma credo che i desideri inconsci di natura infantile e perversa (nel senso
psicoanalitico del termine) non costituiscano resistenze da poco riguardo alla
effettiva possibilità di ottenere una democratica, legittima tutela della privacy
individuale..
Spesso si tratta di un trionfo dell’intellettuale (il leso spesso manca di
cultura); ma anche, all’opposto, viene realizzata una rivalsa nei confronti di
posizioni di
potere altrimenti inattaccabili. Forse proprio per questo, la
solidarietà al giornalista viene concessa in maniera incondizionata ogniqualvolta
ad essere preso di mira è un personaggio di successo o di potere.
Se così non fosse, i giornali scandalistici avrebbero vita breve e la loro
eliminazione verrebbe accolta con soddisfazione.
I giornalisti dunque possono, nelle loro scorribande intrusive, farsi
facilmente scudo con la pubblica opinione e con il richiamo al diritto di
informazione, giocando sul fatto che il desiderio di una realizzazione inconscia di
moti perversi e alquanto diffuso.
Ma facciamo un ulteriore passo, nella direzione dell’approfondimento del
problema, trattando ora degli aspetti psicologici che entrano “specificamente” nel
comportamento del giornalista, riguardo alle violazioni della privacy ;
sottolineando il fatto che i desideri soddisfatti sono molto primitivi e riguardano le
parti meno mature della personalità.
Possiamo identificare almeno tre tipi di soddisfazione “perversa” :
Il primo tipo riguarda quella soddisfazione che potremmo definire
“voyeristica” che ha a che vedere con la curiosità morbosa (la curiosità, è sempre
traducibile in una curiosità “visiva”). Si tratta di una situazione simile a quella a
cui ci si riferisce con il termine “origliare”. La violazione consiste nell’intrudere in
17
una area intima, privata, con l’obbiettivo di esporre il soggetto allo sguardo del
pubblico. Questa violazione che si basa quindi su di un desiderio voyeristico
infantile, realizza una sorta di vendetta nei confronti della scena primaria (così
definisce la psicoanalisi il rapporto intimo, sessuale, tra i genitori), rispetto alla
quale ogni bambino vive un senso di esclusione. La “crudeltà mentale” con cui
tale violazione viene attuata dipende, o meglio è proporzionale alla intensità della
componente aggressiva del desiderio voyeristico; mentre la scelta del leso dipende
dalla identità del prototipo infantile verso il quale è maggiormente diretta l’ostilità
(la madre piuttosto che il padre o il fratello).
La violazione può andare da una semplice indiscrezione fino all’estremo
attacco alla dignità ed alla onorabilità della persona.
La violazione su base voyeristica ha certamente a che vedere con quella
che noi definiamo “stampa scandalistica”; sembra che il solo scopo del giornalista
sia, in questo caso, quello di cogliere l’interessato, di regola una persona di
successo, in atteggiamento o in condizioni sessuali. L’aspetto voyeristico non
implica affatto che il mezzo utilizzato sia la macchina fotografica; si può anche
descrivere una situazione con le stesse intenzioni di “far vedere”. Può trattarsi di
un soggetto femminile (oggi anche maschile), colto nella sua nudità, oppure in
atteggiamento sessuale (ovviamente limitato alla “fase preliminare”, per non
incorrere in un reato penale), che coinvolge un partner. Se la componente
voyeristica è predominante, l’effetto che si vuole ottenere è solo quello di eccitare
il lettore, se l’effetto che si vuole ottenere è distruttivo allora si tende a mettere in
evidenza l’eventuale aspetto illegittimo della faccenda o l’incongruenza con
l’immagine pubblica dell’interessato.
Il secondo tipo riguarda una soddisfazione essenzialmente aggressiva. Lo
scopo perseguito è quello di denigrare, svalutare, sminuire il soggetto agli occhi
del pubblico, indipendentemente dalla natura sessuale della notizia. Il giornalista
che tenda a perseguire tale tipo di soddisfazione denota una personalità dominata
dall’invidia e dal narcisismo e la sua “perversità” è di natura “fredda” quindi non
necessariamente interessata all’aspetto sessuale. E’ il giornalista utilizzato dal
politico per denigrare e gettar fango sull’avversario, in quanto egli è sempre
disposto a denigrare l’autorità.
Basti pensare agli scandali politici, quando essi sono perpetrati non tanto
per rivelare la struttura sostanzialmente negativa di un candidato politico
altrimenti acclamato (il ché sarebbe legittimo), quanto per favorire un suo
avversario, la cui personalità può oltretutto essere (e spesso accade che lo sia)
ancora più negativa (proprio per fatto che accetta l’uso di questi mezzi
svalutativi).
Il terzo tipo riguarda una violazione che ha lo scopo di controllare il
soggetto. Lo scopo non è tanto quello di soddisfare una curiosità del pubblico, o
la propria aggressività distruttiva, quanto di esercitare una forma di controllo, di
condizionamento. Certamente la persecutorietà implicita in questo tipo di
violazione più essere anche molto grave, assumendo un carattere ossessivo
esasperante (tipico è l’inseguimento del così detto “paparazzo”). Tuttavia nella
maggioranza dei casi può rimanere superficiale. Il danno psicologico in questo
caso deriva più che altro dagli effetti conseguenti il perdurare nel tempo del
comportamento giornalistico. Quello che rende la situazione più grave è che, in
questi casi, non è il singolo reporter a produrre il danno, quanto l’insieme degli
atteggiamenti di tutti i reporter implicati ; il ché rende difficile l’attribuzione della
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responsabilità in quanto indistinguibile dalla co-responsabilità. Può accadere
infatti che un particolare intervento di un reporter funzioni da “ultima goccia che
fa traboccare il vaso”, per cui, nel caso ne consegua un fatto tragico, egli può
diventare il capro espiatorio di tutta la categoria.
Quando parlo di scopo voyeristico, piuttosto che aggressivo o di controllo,
mi riferisco a scopi che possono essere definiti solo “prevalentemente” tali.
Aggressività e voyerismo, controllo e conflitto con l’autorità, infantilismo e
perversione, sono tutti elementi che possono entrare nella fattispecie in
proporzioni alquanto diverse.
L’importante è rendersi conto della natura degli elementi per poterne
evidenziare la presenza e la rilevanza, decretando il reato di violazione immotivata
della privacy. A volte una motivazione può essere apparente e coprirne un’altra di
diversa natura. Basti pensare ad un personaggio fattosi “paladino” di un
processo di moralizzazione sociale che venisse fotografato in rapporto intimo con
una prostituta. La curiosità morbosa sarebbe solo un pretesto, dato che
l’obbiettivo è evidentemente un altro (la denigrazione dell’Ideale dell’Io).
Può anche accadere che lo scopo del giornalista non sia il medesimo di
quello del pubblico. In tal caso il giornalista contrabbanda il suo scopo sotto il
pretesto che si tratta di soddisfare una esigenza dei lettori.
Ritengo che la determinazione dello scopo e quindi delle intenzioni del
giornalista sia importante ; non solo perché a volte lo scopo dichiarato può essere
“pretestuoso”, ma anche perché uno scopo illegittimo può far diventare tale anche
una violazione altrimenti giustificabile.
L’elemento soggettivo ha dunque una grande importanza per valutare
l’esistenza della violazione e anche come vedremo più avanti per valutare l’entità
del danno. La perversione dello scopo rende ragione della trasformazione della
natura di quello che dovrebbe essere il solo scopo legittimo che fa della cronaca
un esercizio di un diritto-dovere, cioè quello di informare per questioni di tutela
del pubblico interesse o a scopo informativo-formativo.
Occorrerebbe ora definire quale siano gli interessi pubblici rispetto ai quali
è legittimo aspettarsi una subordinazione della privacy ; ma questo è un compito
squisitamente giuridico.
Tipologia e quantificazione del danno
Ho già trattato altrove2, dell’opportunità di considerare il danno psicologico,
(una volta accettatane la definizione che lo qualifica come un pregiudizio
all’adattamento e un impedimento alla realizzazione della vita di relazione) in
riferimento a tutta una serie di “aree di funzionalità psichica” di cui fornivo
l’elenco e le principali connotazioni. Di queste farò accenno più avanti.
La verifica delle limitazione subite dal soggetto rispetto a tale aree
funzionali, è valida anche per il danno da attività giornalistica. Tuttavia ritengo
che il danno psicologico connesso alla violazione della privacy da parte della
attività giornalistica abbia anche delle specificità sue proprie. E’ di queste che
vorrei dapprima trattare.
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Renato Voltolin : “Il danno psicologico”, Quaderni, n. 1.
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La differenza tra il danno dovuto ad un atto lesivo o da un incidente e
quello conseguente alla attività giornalista è infatti sostanziale. Mentre cioè un
danno psicologico del primo tipo ha la possibilità di essere dimensionato, vale a
dire che si può prevederne gli effetti. Il danno da stampa è difficile da
circoscrivere sia nello spazio che nel tempo. Vi possono sempre essere danni
aggiuntivi che possono essere subiti in ogni momento futuro; allorquando cioè
nuovi soggetti vengono a conoscenza della notizia lesiva. In poche parole, l’agente
immediato, il giornalista è individuato, ma l’agente futuro è sempre, per così dire,
dietro l’angolo. Una foto scabrosa può inseguire il soggetto per tutta la vita, anche
quando la sua personalità abbia subito dei mutamenti sostanziali; vi è poi una
sorta di effetto “etichetta” che non si è mai certi di poter cambiare. Qualche volta
travalica le generazioni (“con una madre così....... !) Per questo è sorprendente che
non vi sia una Legge severissima a tutela della privacy. Inoltre il giornalista non è
una persona qualsiasi, la calunnia che provenga da lui non ha lo stesso valore di
quella perpetrata da un vicino di casa. Allo stesso modo che è diverso se un
segreto viene tradito da un amico o da un professionista tenuto al “segreto
professionale”.
Anche quando trattasi di reato, questo dovrebbe essere divulgato, solo se è
evidente l’utilità di una sua divulgazione. Un uomo che uccida la moglie e poi si
tolga la vita non dovrebbe andare a finire sui giornali se la coppia lascia dei figli
minori (e non solo minori). Una notizia poi non dovrebbe mai mancare di
circostanzialità: le notizie in genere vengono accolte senza riserve, mentre
sappiamo che una foto, ad esempio, può essere selettiva e deformante rispetto
alla realtà ; così come un fatto apparentemente a carico di un soggetto può
risultare successivamente privo di fondamento.
Molto dipende anche dalla notorietà del soggetto e quindi della possibilità
che la notizia si espanda a macchia d’olio con un aggravamento progressivo del
danno psicologico. Paradossalmente la persona più realizzata e meglio inserita
può essere maggiormente danneggiata della persona sola e sconosciuta. Un po’
come succede nel caso del danno patrimoniale: per quanto ingiusto ciò possa
essere sul piano etico, il povero subisce un danno patrimoniale minore del ricco,
il ché crea una sperequazione in caso di risarcimento. Nel nostro caso però non vi
è una ingiustizia, poiché il danno provocato dalla stampa spesso è davvero un
danno proporzionato alla notorietà del leso.
Il danno poi coinvolge l’entourage familiare ed affettivo più di quanto accada nel
danno psicologico d’altro tipo. In una famiglia, moglie e figli subiscono certamente
danni indiretti non irrilevanti a seguito di notizie denigratorie che riguardano un
genitore. Tutti questi elementi possono essere compresi nella categoria delle
aggravanti.
Uno degli effetti più tipici del danno da attività giornalistica può essere la
strutturazione di un’ansia agorafobica più o meno grave a seconda della
componente paranoide che può contenere.
Certamente una distinzione fondamentale riguarda l’età del soggetto
leso. E’ sostanzialmente diversa la situazione che coinvolga un adulto da quella
che coinvolga un minore.
Non solo l’adulto ha maggiori possibilità di reagire agli effetti di un atto
lesivo, ma la stessa legge gli fornisce una tutela che non è in grado di offrire al
minore. Questa affermazione può sembrare paradossale ma non è così: un
bambino danneggiato direttamente o indirettamente dalla diffusione di una
notizia relativa alla sua famiglia, può subire un danno psicologico da parte dei
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suoi coetanei a scuola, nel quartiere, in termini di dileggio, isolamento,
ostracismo ecc. In tal caso si tratta di comportamenti che riguardano
generalmente soggetti minori (i coetanei) che proprio per essere tali rendono
impossibile un intervento giudiziario. Ad esempio, una calunnia o una
diffamazione perpetrata da un minore su un altro minore, può continuare
impunemente e provocare gravi danni. Si sa bene quanto un bambino possa
rimanere “toccato” permanentemente nelle sue relazioni presenti e future qualora
i suoi coetanei insistano a denigrare (fondandosi su notizie reali) la di lui madre.
Già questo succede sistematicamente e normalmente nel mondo adolescenziale;
figuriamoci se poi tutto ciò si appoggia ad un articolo di giornale.
Quantificazione del danno psicologico secondo l’area della attività o della
vita relazionale pregiudicata
A questo riguardo, le aree, pur con qualche precisazione, sono quelle già da me
evidenziate nel mio citato lavoro sul danno psicologico. Le aree in questione
sono :
Danno all’area della attività lavorativa
Danno all’area della creatività
Danno all’area della attività dell’educazione se trattasi di minore ( scuola,
sviluppo adolescenziale ecc.)
Danno alla vita di relazione (relazioni sociali)
Danno alla vita affettiva (relazioni intime familiari)
Danno alla vita sessuale (relazioni di coppia)
Danno all’equilibrio umorale e del livello di tolleranza della sofferenza. ( aumento
della aggressività o della depressione a seguito stress che incidono sia a livello del
carattere che al livello dell’adattamento sociale)
Rispetto alla trattazione precedente che si riferiva al danno psicologico “tout
court”, nel caso di danno da attività giornalistica si dovrebbe darne una
valutazione in termini di maggiore gravità, per il fatto di quello che chiamo
“effetto moltiplicatore” dovuto alla presenza del pubblico. Inoltre ho posto
l’accento sullo sviluppo del minore dato che si tratta di un’area suscettibile di
subire i maggiori danni strutturali.
Conclusioni
Mi sembra che, a questo punto, possiamo trarre delle conclusioni utili per
la scelta di un criterio operativo.
Ritengo che innanzitutto occorre stabilire un criterio di legittimità. Mi
sembra che la triade interesse pubblico, consenso, effetti dannosi debba
essere considerato il criterio essenziale, indipendente dalla natura del contenuto
della notizia. Anche se la notizia riguarda un illecito non sempre può essere
legittima la sua divulgazione. Al limite la divulgazione può riguardare la notizia e
non le generalità del soggetto.
Uno delle caratteristiche specifiche del danno a seguito della attività
giornalistica è data dal fatto che i soggetti implicati non sono due ma tre : il
giornalista, il leso e il pubblico. Questa particolarità fa di tale tipo di danno una
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categoria del tutto speciale : per cui il criterio del pregiudizio valutabile in
riferimento alle diverse aree di attività e di relazione dovrebbe essere considerato
anche nella prospettiva di un effetto moltiplicatore..
Inoltre una distinzione che ha a che vedere con il livello di gravità del danno
sia quella tra danno diretto e indiretto ed inoltre danni a sé e danni a terzi,
intendendo per terzi coloro che sono legati affettivamente o anche
contrattualmente (rapporti di affari) col soggetto.
Un altro aspetto importante riguarda la circostanzialità della notizia : non
può essere ammessa l’ambiguità e l’allusività che potrebbe lasciare libero corso
alle peggiori interpretazioni.
Infine ho richiamato il concetto di area di attività e della vita di
relazione che continuo a credere costituisca il riferimento più adeguato per la
quantificazione del danno.
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Libretto 2 - Studio di psicologia forense e assistenza giudiziaria