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Genesi
Fuori, nella città, il caos impazzava. I più, richiusi al sicuro nei
loro appartamenti, scrutavano in strada dalle finestre, velati da
una tenda appena discosta, appannando il vetro con il fiato
ansante.
Lungo i viali e le strade vi erano autobus in fiamme, auto
capovolte o con i vetri infranti; e i cassonetti dell’immondizia
– scombussolati e ribaltati sull’asfalto – avevano riversato a
terra il loro mefitico contenuto.
Un po’ dappertutto vi erano schegge di vetro, carcasse di
piccioni, e bandiere strappate e bruciacchiato.
Otto persone – scampate alle misteriose orde di guerrieri che,
da giorni, avevano invaso la città – avevano trovato riparo
all’interno di una vecchia autorimessa.
Questi pochi superstiti avevano tutta l’aria di essere persone
comuni e – chi con ancora le cuffie nelle orecchie (un
ragazzetto), chi con ancora la busta della spesa (una massaia),
o la ventiquattrore (un uomo d’affari, o un professore) –
avevano tutti l’aspetto di chi è stato colto alla sprovvista da un
evento del quale ignora la causa, la natura, e l’entità.
Unicamente quando si fu richiuso, alle loro spalle, il pesante
portellone metallico – simile in tutto e per tutto ad una
palpebra cigolante e rugginosa – gli otto uomini poterono
considerarsi al sicuro.
Solo a quel punto un uomo di mezza età, col viso segnato e
gli occhi languidi – fece per parlare e, dal modo in cui lo fece,
sembrò che volesse fare il punto della situazione, o che
semplicemente bramasse di cercare consolazione nell’unico
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strumento che – in una simile situazione – potesse ispirare la
sicurezza della condivisione, ed il piacere della condivisione: il
linguaggio.
Non appena l’uomo aprì la bocca per parlare, tuttavia, si
scoperse muto. E così pure gli altri…
Gli otto rifugiati, divenuti muti per il terrore suscitato in loro
dal feroce disordine che pareva aver sottratto il senno alle
persone, si fissarono negli occhi a lungo, tutti con la
medesima espressione interrogativa negli occhi. Pareva
volessero chiedersi, reciprocamente, una spiegazione
plausibile per quell’inferno che aveva invaso la città, come
riemerso dal sottosuolo attraverso i tombini ed i pozzetti di
scolo, alla ricerca di quella luce che, prima di allora, gli era
sempre stata negata.
D’improvviso, l’uomo dal volto segnato – forse il più
intraprendente del gruppo, forse semplicemente quello che,
più degli altri, riusciva ancora a mantenere i nervi saldi – dopo
aver frugato nell’immondizia che era ammonticchiata un po’
ovunque, in quel luogo, trasse fuori da un vecchio
portadocumenti un libretto. E, per la precisione, il libretto di
istruzioni di un’automobile.
Il manuale, roso dall’umido e bruciato in più punti,
conservava intatta una minima parte del suo contenuto.
Dopo che l’uomo intraprendente l’ebbe sfogliato a lungo, alla
ricerca di ciò che potesse fare al caso suo, ecco che lo rivolse
verso gli altri membri del gruppo, indicando tre simboli. Essi
altro non erano i disegni adoperati per indicare, sul cruscotto
delle auto, il funzionamento dei segnalatori di direzione, del
triangolo, delle luci abbaglianti…
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Quei segni erano tra i pochi che erano sopravvissuti alla
grande estinzione tipografica che aveva portato alla
scomparsa delle frasi troppo lunghe ed arzigogolate,
all’estinzione delle parole difficili e desuete, e all’oblio delle
lettere troppo complesse e di dubbio utilizzo, come la q, la y,
e l’h.
Ormai – rese analfabete dall’assunzione in dosi massicce di
reality show, fiction televisive, e chi più ne ha più ne metta –
le persone non sapevano più leggere…
Le icone del cruscotto dell’auto erano tra i pochi, pochissimi
glifi che ancora potevano suscitare delle emozioni nella
gente… per quanto le sensazioni da esse indotte fossero
alquanto semplici e primitive.
Al simbolo
era infatti attribuito il senso di “io girare”.
Alle terne semaforiche, di qualunque colore fosse la luce
accesa in quel momento, era attribuito il generico senso di
“alt”. Senso che, per reazione, suscitava nei più
l’interpretazione opposta: “io andare… e sperare che nessun
altro andare, oppure grande botto”.
All’icona...
... era attribuito il concetto di “home page”, poi traslato e
declinato in vari ambiti con il significato di “casa”, “inizio”,
“principio ontologico del reale” e – perché no – “scaturigine
cosmica di ogni evento”…
Per farla breve, insomma, a sempre meno segni veniva
richiesto di dire sempre di più. Tuttavia, o per l’incapacità che
avevano quagli emblemi di sobbarcarsi troppi significati, o
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forse per la pigrizia della gente, che non aveva più voglia di
perdersi in sfumature di senso, bensì abbisognava soltanto di
certezze, ecco che quei pochi segni finirono con l’esprimere
ancor meno di quanto potessero dire in origine.
E l’eredità delle parole scomparse fu dimenticata…
Eppure, quello che l’uomo volle far dire ai simboli fu altro da
ciò che essi già dicevano. Egli – mosso forse dalla paura, forse
dalla stupidità dei suoi simili – avvertì fortissima, in sé,
l’esigenza di produrre un racconto…
L’uomo mostrò dunque l’emblema che solitamente era
adoperato per indicare il funzionamento delle quattro frecce.
Trascorsi alcuni istanti nella più totale immobilità – come a
voler sottolineare un momento di stacco, una sottolineatura
nel senso di quella sua pantomima, o semplicemente una
subordinata – pose il suo dito su un altro simbolo:
Questa volta, però, le frecce sembravano voler dire davvero
qualcosa di più del solito “io girare”.
Subito dopo, il dito di questo insolito narratore zitto andò a
posarsi sul logo:
Il narratore, tuttavia, tenne particolarmente a sottolineare che
quel disegnetto andava interpretato solo a seguito di una
rotazione di novanta gradi... come a volergli attribuire, non il
senso di una luce emanata da un fanale, bensì quella di un
grosso oggetto che cade dal cielo...
Infine fu la volta del simbolo:
.
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Gli occhi attoniti degli osservatori di quella storia muta
impiegarono pochissimi istanti a decifrare la serie dei simboli
e, dunque, a scoprire il mistero che stava dietro alla guerra
civile che, da giorni, straziava la città, deturpava le vie, e
divorava con gli incendi le case di persone innocenti:
Dio – raffigurato dal simbolo della trinità – al fine di porci
dinanzi ad una scelta fondamentale (quella che avrebbe
potuto fare di noi degli esseri umani o delle bestie) aveva
deciso di aprirci gli occhi. E per far sì che le nostre coscienze
si destassero dall’ipnosi che le attanagliava da tempo, il
signore aveva bombardato gli stadi, ponendo fine al
Campionato di Calcio.
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Senza titolo - Spy Muddle: un intrico di spie