Domenica
La
di
DOMENICA 27 MARZO 2005
Repubblica
il viaggio
Dove nascono le fiabe di Andersen
CONCITA DE GREGORIO e PIERO OTTONE
la memoria
Elezioni, l’arte perduta del comizio
FILIPPO CECCARELLI e GOFFREDO DE MARCHIS
Giovani
per sempre
Hanno “cinquantacinque anni
o meglio”, non si sentono finiti
e vogliono riprendersi il tempo
perduto. In Italia, come in America
FOTO CORBIS
MICHELE SMARGIASSI
«È
VITTORIO ZUCCONI
TRIESTE
vero, gli anziani sono un problema», ammette Annamaria Crisafulli, 64 anni, ex commessa, in pensione da tre. «Per esempio mia suocera, 84 anni,
malata... ». Signora, mi perdoni, io veramente parlavo di lei... «Io? Anziana io?», più che offesa è sbalordita, «io ho appena cominciato a vivere, voglio fare tutto, non mi bastano le ventiquattr’ore». «Anziane noi?», corrono a darle man forte le amiche. Attorno a un tè fumante, nella pausa-merenda delle prove di danza al
circolo anziani Pino Zahardi Trieste, se ne coalizzano una dozzina,
tutte tra i 55 e i 70: guardandole, capisci la gaffe. Come posso chiamarvi, allora? Pausa pensosa. «Signore mature...», «Donne grandi...». Poco convinte anche loro. «Donne di mezza età...». Ridono.
Non ci sono parole, questo è il guaio. Cercansi urgentemente
definizioni appropriate. La vecchiaia giovane è un oggetto sociale non identificato nell’Europa che incanutisce impetuosamente. Senior? Veterani? Nonni? Il vuoto di nomenclatura tradisce un vuoto di percezione sociale.
Segue nella pagina successiva
A
ORLANDO (Florida)
l mercato del tempo perduto, ricomperare la propria
giovinezza di seconda mano costa appena mille euro al
metro quadrato. Mille e cento, via, se proprio volessi
avere anche la vista sul green, l’uso del calesse da golf
con il muso da Rolls Royce e il garage bi-auto, ma in compenso il biliardo, la canasta, la piscina coperta, l’artrosi, le vene varicose e la cellulite sono gratis. Un bargain, un affarone, mi fa notare con tono soffice Mike Yarborough, l’agente immobiliare addestrato a non alzare
mai la voce per evitare che il cliente anziano si ecciti troppo e gli prenda un coccolone prima di entrare nel cocoon, prima di avere firmato il
contratto di acquisto di una casa nel villaggio degli uomini ragno, nel
guscio dei vecchi che raggrinziscono eternamente, senza morire mai.
Comperare una casa nel cocoon alle porte di Orlando è effettivamente uno scherzo rispetto ai prezzi immobiliari nelle città dei vivi.
Duecentomila dollari per 230 metri quadrati di villetta monofamiliare nuova di zecca, protetta dall’alta cinta muraria che fascia tutto il
villaggio, non comprerebbero un monolocale a Manhattan.
Segue nella pagina successiva
cultura
Il film ritrovato di Rodolfo Valentino
DAVIDE CARLUCCI e ANTONIO MONDA
le tendenze
Il trucco per coprire la crisi
NATALIA ASPESI e LAURA LAURENZI
l’incontro
Sean Connery: scrivo le mie memorie
MARIA PIA FUSCO
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
la copertina
Società che cambia
Se li chiami anziani ti guardano
quasi increduli, accusano
la società italiana di ignorarli
e ghettizzarli. Adesso vogliono
riprendersi il tempo perduto.
Con gli interessi
La seconda vita
dei nuovi vecchi
C
MICHELE SMARGIASSI
(segue dalla copertina)
hi sono mai questi vecchi
che non vogliono essere
vecchi (il 72% degli ultrasessantenni dichiarano al Censis di «non sentirsi anziani»),
anzianità attiva che precede
di molto l’anzianità involutiva, terza età
ringiovanita dalla comparsa in scena della quarta (in Italia 18 mila over-65 vivono
coi genitori), adulti dall’aria evergreen,
autosufficienti, che già oggi sono dieci milioni, che nel 2030
sorpasseranno per numero la
generazione lavorativa (i 3059enni), che nel 2040 saranno
oltre un terzo della popolazione italiana? Sono i grandi “Innominati”. Solo gli americani,
geniali inventori di acronimi
sociologici, hanno coniato per
loro un nomignolo da cuccioli,
woof, well-old older folks (più o
meno: vecchietti in gamba).
Nessun gruppo sociale
emergente è mai stato così sottovalutato, anzi ignorato. Eppure esistono. I nuovi vecchi
sono sempre di più, sempre più
renitenti alla rottamazione,
sempre più insofferenti per il
ghetto sociale in cui sono confinati. Almeno in Italia. Due anziani su tre
intervistati a Prato dall’Asel pensano che
la società li consideri «un peso»; un altro
25%, che si «disinteressi completamente» di loro. Hanno voglia di viaggiare (il 10
per cento va in pensione solo per questo),
ma per l’industria del turismo esistono
solo in formato comitiva e come riempitivo per la bassa stagione. Si sentono in
forma (interrogati dal Censis, il 64% si ritengono in buona o ottima salute a 69 anni, il 45% ancora a 79) ma vengono maltrattati dalle assicurazioni sulla vita. Pagano le tasse (quasi un terzo dell’Irpef viene da redditi di pensione) ma per oltre sei
parlamentari su dieci, sondati da Ageing
Society italiana, garantire la loro salute è
un «dovere oneroso». Non c’è convegno
che non li definisca «una risorsa», ma il
massimo che la collettività propone loro
è un po’ di lavoretti socialmente utili.
Come se i pensionati dovessero solo essere aiutati a ingannare il tempo (la parola
passatempo, per un anziano, ha un tono
vagamente menagramo). Ma in Italia, primato europeo, la speranza di vita in salute
supera ormai i 72 anni (e cresce di tre mesi all’anno). L’età media di pensionamento, a dispetto degli sforzi, è salita faticosamente a 58 e mezzo. Dunque chi oggi lascia il lavoro può ragionevolmente contare almeno su una dozzina d’anni di vita
energica, attiva, piena. Ma piena di cosa?
Dodici anni sono un tempo di vita troppo
lungo per spenderlo dirigendo il traffico
davanti alle scuole o guardando passare i
carrelli della spesa nel corridoio condizionatodiuncentrocommerciale.Dodicianni sono un arco di vita autentica, che autorizza, anzi obbliga a fare progetti, che consente di raggiungere obiettivi personali,
magari quelli lasciati nel cassetto in un’esistenza all’insegna del “prima il dovere”;
sonouncapitaleditempodainvestireperfino in nuove stagioni del cuore: nel due
per cento dei matrimoni italiani almeno
uno degli sposi ha oltre sessant’anni.
La realtà e le statistiche
Il contrasto tra la realtà personalmente
vissuta e lo specchio statistico è stridente.
Accanitamente perseguita dalla scienza,
la longevità è una catastrofe se vista dall’oblò dei conti pubblici. «Gli anziani attivi sono un prodotto maturo del welfare,
non la sua patologia», protesta Betty Leone, segretaria nazionale dello Spi-Cgil, il
sindacato pensionati che ha appena festeggiato il tremilionesimo iscritto e il sorpasso sull’ex sindacato più forte d’Europa, il tedesco IG Metall; «ma per godere finalmente del loro segmento di vita libera
sembra quasi che debbano chiedere il
permesso ai giovani».
E se si fossero stufati di chiederlo? Se
stessero diventando intransigenti, rivendicativi, perfino «SPIetati», come grida il
manifesto per il tesseramento allo Spi di
Bologna? In Francia un severo libretto di
Per realizzare
i loro sogni fondano
circoli come il Pino
Zahar di Trieste,
per “non sentirsi
solo dei nonni”
Régis Debray, filosofo, amico di Che Guevara, consigliere di Mitterrand, oggi sessantatreenne, sta sollevando un vespaio
di polemiche: s’intitola Le plan vermeil(il
vermiglio, oltralpe, è il colore degli anziani: da noi si tradurrebbe “Il piano d’argento”), e lancia la «modesta proposta» di
un ammutinamento senile: andiamocene via da questa società futurocentrica,
ossessionata dal corpo giovanile; lasciamo questi eterni ragazzini ai loro miti
adolescenziali, emigriamo tutti in Alvernia e lì fondiamo Bioland, colonia della
nuova vita, gioiosa e intensa, vietata ai minori di sessant’anni.
Provocazione letteraria, stile Swift? Mica tanto. L’Italia in fondo è già piena di piccole Biolandfondate e interamente autogestite da anziani, non per scelta, ma perché non c’è altro modo per non cedere all’emarginazione e alla solitudine. «Tutto
quello che vede l’abbiamo fatto da soli»,
Mario Zancolich fa strada nei quattrocento metri quadri del circolo Zahar, uno dei
1200 circoli associati all’Auser, la più diffusa tra le associazioni ricreative per anziani. Caffè, sale prove, biblioteca, laboratorio informatico, tutto autogestito, tutto
autofinanziato con cappuccini e aperitivi. «Il Comune ci delega la questione anziani, e ci chiede pure tremila euro d’affitto». Eppure anche nella canuta Trieste,
105 mila pensionati su 200 mila abitanti,
eterna duellante con Bologna e Genova ai
vertici delle classifiche di invecchiamento, l’esistenza di un posto così ha del miracoloso. Attorno c’è il mostro di Rozzol
Melara, un quadrilatero grigio di duecento metri di lato per diciassette piani d’altezza ribattezzato Spielberg, labirinto inquietante di corridoi deserti, follia dell’edilizia popolare anni Settanta, 630 famiglie arrivate e invecchiate tutte assieme.
«Quando entrai io, nel ‘78, il problema era
il teppismo dei ragazzini. Ora è la solitudine dei vecchi». Proprio nel cuore del cubo,
doveall’inizioc’eraundoposcuola,inuna
decina di locali senza finestre, cinque anni fa una ventina di anziani «spietati» ha
creato un circolo. «Voi siete matti», dissero in Comune, consegnandogli le chiavi.
Ora sono duecento iscritti che s’affollano
ai corsi di videocamera creativa, recitazione, drammaturgia, danza-terapia,
computer, hanno un paio di compagnie
teatrali che vanno in tournée tra Veneto e
Slovenia, sono l’unica oasi di vitalità nel
deprimente paesaggio del quartiere.
«Vengo per non stare in casa»: Angela Noviella, 56 anni, pensionata Alcatel, smacchina in Internet cercando una colonna
sonora in Mp3 per lo spettacolo di danza,
«chi sta in casa deperisce». Il consumo di
antidepressivi tra gli anziani è raddoppiato in dieci anni: sono il terzo farmaco più
diffuso tra gli over-60. Per non parlare del
sedativo elettronico: «La tivù, grande addormentatrice», solitudine mascherata,
cattiva zia che tutte le teste si porta via. In
una saletta del circolo stanno montando
un distributore automatico di vhs a uso
interno, 50 centesimi ogni prestito: «Almeno decidiamo noi cosa vedere». Ma è
ancora poco. Bisogna uscire di casa, per
non languire. In un altro quartiere periferico e invecchiato di Trieste, Giarrizzole, il
dirigente Spi Giorgio Uboni per tutta la
scorsa estate ha cercato di sottrarre i coetanei all’abbraccio catodico soporifero e
debilitante. «Abbiamo piantato un chiosco in piazza, così, solo per incontrarci,
parlare. Ne abbiamo tirati fuori di casa
una cinquantina: tutte persone sane, in
forze, attive: ma impaurite e diffidenti».
Hanno l’incubo delle malattie, e non
s’accorgono che il cavallo di Troia del decadimento fisico è proprio la solitudine.
«Chi si chiude in casa invecchia
prima»: Pino Sfregola infatti
non ci sta mai. Piuttosto va sottoterra: ci va una volta alla settimana, infila casco e imbragatura e scende nel ventre del
Carso. Può finalmente fare lo
speleologo a tempo pieno, a
settantun anni suonati, da
quando, diciassette anni fa, s’è
pensionato. Come ha passato
tutto questo tempo, Pino?
«Quante ore ha per ascoltarmi?», ride. «Vengono qui per
non sentirsi nonne, per accudire un po’ se stesse dopo aver accudito gli altri per sessant’anni», dice delle sue allieve la
maestra di danza, Silvia Radin,
una ragazzina di 52 anni («ma
ho iniziato a lavorare a 14»).
Una che ha accudito fin troppo è Eliana
Jerman, ex infermiera: «Tutto quel che ci
propongono è fare volontariato… D’accordo, ma con misura. Ora che posso, finché posso, vorrei dedicarmi a me stessa».
Egoisti? No: auto-risarciti. Il mondo
della produzione e del profitto li tratta come vuoti a perdere: «Siamo in coda all’Europa per le politiche di permanenza al
lavoro oltre i cinquant’anni», informa
Maria Luisa Mirabile, direttrice della Rivista delle politiche sociali, «e il motivo
principale è che sono i datori di lavoro a
non volere i senior». Ma hanno poi tanta
voglia, i senior, di sgobbare ancora? La
metà dei lavoratori cinquantenni, ha scoperto un’inchiesta Iress, vuole lasciare il
lavoro prima possibile. Del resto, i nuovi
anziani sono forse la prima generazione
nella storia ad avere trascorso lavorando
meno di metà della propria vita.
Il Maggio dei sessantottenni
Egocentrici per obbligo, per sopravvivenza, più che per orgoglio o ribellione. Ma la
pentola della scontentezza coi capelli
bianchi sta bollendo. «I veri nuovi vecchi
dobbiamo ancora vederli, ma sono già
dietro l’angolo», prevede Costanzo Ranci, sociologo, «e saranno radicalmente diversi. I sessantenni d’oggi, nati negli anni
Quaranta, «leva dell’industrializzazione», hanno conservato un’etica del sacrificio, del lavoro, della sobrietà, della parsimonia, che fa loro accettare una posizione sociale da “invisibili”. Ma fra pochi
anni, anche da noi come già in America,
diventeranno anziani i figli del babyboom, la “leva del benessere”, generazione abituata ai consumi, acculturata, ribelle alle imposizioni. Il rischio è questa
risorsa venga ghettizzata».
Ma i nuovi anziani d’Italia non sono remissivi. Se troveranno le strade sbarrate
dall’incomprensione delle generazioni
più giovani, forse se le apriranno da soli.
La svolta è vicina, forse è già iniziata: i sessantottini sono ormai sessantottenni.
Cova un’epoca di rivolte senili, esploderà
il radioso Maggio dei nonni? «Basterebbe
che facessero valere le carte che hanno in
mano», frena Sebastiano Porcu, sociologo coinvolto nel progetto Sage (Supporting active ageing in Europe), «dimostrando che ciò che danno alla società è più di
quanto ricevono». Che siano i nonni pensionati a mantenere i nipoti precari, ormai è un’ovvietà di massa. Ma oltre a questa tardiva paghetta, cosa possono dare,
gli anziani, ai ragazzini? A Sono, Yane, Zen
e Cosimo (nomi d’arte), il circolo Zahar ha
dato posto, computer e strumenti per
comporre la loro musica. «Hip-hop»,
spiega Zancolich facendo un po’ finta di
sapere cos’è. Sano alza il volume al massimo: «Se a uno piace la musica, gli piace
anche questa». Comunque nessuno viene a protestare. I woof sono generosi e pazienti. Del resto, hanno una vita davanti.
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
CIRCOLO RICREATIVO
Nelle foto di questa pagina i frequentatori
del circolo Pino Zahar di Trieste. Gli iscritti
sono duecento e affollano i corsi di danza,
di videocamera creativa, recitazione e informatica.
Nel circolo poi c’è anche una biblioteca
e i passatempi tradizionali, come le carte
e le bocce. Nella foto qui sotto, anziani americani
su un campo da golf
Nella Disneyland
degli eterni ragazzi
Y
FOTO FABIO CUTTICA/CONTRASTO
(segue dalla copertina)
es sir, sorride complice
Mike l’agente, schiudendo una porta tagliafuoco
che si spalanca sul teatrino
privato, e poi c’è questo.
“Questo” sono le lezioni
settimanali di danza, che un gruppo di
Fred vacillanti e di Ginger cadenti sta
praticando sul palcoscenico. Lei balla?,
s’informa garbato Mike. Solo il tip tap,
mento per non deluderlo. Abbiamo anche un circolo del tip
tap, mi frega lui. Avrei dovuto
immaginarlo e ora sono incastrato. Che faccio, firmo?
Compero e mi seppellisco anche io qui, dentro uno di questi gusci di lusso dove i vecchi
americani vengono per esorcizzare la paura della vita?
Era appena passata una bufera di fine inverno sulla Florida, quando ho bussato alla
porta dello Spruce Creek
Country Club, fingendomi
(fingendomi?) un potenziale
cliente per una di queste cittadelle per “anziani attivi” che
stanno spuntando a migliaia
in America, pronte ad accogliere l’assalto dei 60 milioni di
baby boomer, dei figli del dopoguerra
con abbastanza soldi in tasca e abbastanza complessi da Peter Pan in testa
per non volere arrendersi al tempo. Il
vento del Sud ovest che aveva spinto via
la tempesta sollevava dalla sabbia delle
paludi della Florida disseccate dalle ruspe una nebbiolina gialla sottilissima e
abrasiva sotto i denti, che sfuocava il profilo del villaggio. Lo sprofondava in una
quieta, scolorita malinconia da foto ricordo ingiallita. Non c’erano grida di
bambini, liti di amanti, risa di ragazze eccitate a smuovere la nebbiolina sabbiosa del Country Club, riservato, mi aveva
avvertito la brochure, a coloro che hanno
«55 anni o meglio», nel senso che l’anagrafe dell’illusione deve rovesciare il
tempo e convincere i clienti che la vecchiaia è tanto migliore, quanto più è
avanzata.
Gli anni d’oro
Come altri “gusci” identici a questo, riprodotti a centinaia soprattutto negli
stati della “cintura del sole” dove le ossa
si intiepidiscono, anche questo è stato
costruito da una società fondata da uno
di quei geni del marketing che l’America produce come nessun altra nazione,
dal signor Del E. Webb. Negli anni ’50 e
’60, molto prima che la vecchiaia diventasse l’affare che oggi è, fece per gli anziani quello che il suo contemporaneo
Walt Disney stava facendo per i bambini. Costruire città dei sogni, dal nulla,
completamente artificiali. Non fu un caso se questo signor Del Webb morto nel
1974, l’uomo che inventò la formula dei
golden years, gli anni d’oro per la vecchiezza, era stato l’imprenditore edile
che aveva costruito il primo albergo casinò di Las Vegas, il Flamingo, per il mafioso Bugsy Siegel, e poi l’hotel più famoso nella storia di quell’altra città dell’assurdo, il Sahara. Già 46 anni or sono,
nel 1959, quando i figli del boom anagrafico erano soltanto “baby” , aveva visto quello che nessuno allora aveva
neppure immaginato. Che gli uomini e
le donne di «55 anni o meglio» non vedessero l’ora — dopo avere allevato i figli, smerdato il sederino ai nipoti, sepolto i loro vecchi e finito di pagare mutui e affitti — di mandare tutti a quel
paese e di chiudersi nella ricompensa
dell’egoismo, dopo tanto altruismo.
Quando aprì la sua prima Disneyland
per artritici, in Arizona, promise ai finanziatori che avrebbe avuto 10mila
visitatori e avrebbe impiegato un anno
per vendere le 237 villette progettate.
Arrivarono 100mila visitatori soltanto
nel primo week end. Le villette andarono esaurite prima che il sole della domenica tramontasse dietro i cactus e le
mesas di Phoenix.
Anche qui, a Spruce Creek, il ruscello
della balsa, mi dovrei affrettare, perché,
La vita artificiale
del villaggio di
Orlando, in Florida,
dove sono ammessi
solo quelli che hanno
55 anni o meglio
stronomici tra le signore, con tenzoni di
ethnic cooking, fra ex mamme che a casa
si erano scocciate di cucinare, ma qui affettano, trinciano e friggono con la furia
del rimorso e della nostalgia. Ecco l’abbondanza di piscine, coperte e scoperte,
riscaldate e naturali, in una delle quali si
possono tuffare anche i bambini, quando i genitori, con la promessa di portarli
prima a Disneyworld, riescono a rimorchiarli per una visita ai nonni, ma come
sei cresciuta, ma come sei carina, ma come vai a scuola, ma che palle nonna, prima di tornare ciascuno al proprio guscio.
Possono trascorrere al massimo trenta giorni all’anno, i parenti se non hanno 18 anni
(«diciotto anni o peggio?» tento di scherzare con Mike, senza successo). E se qualcuno volesse tenersi, nella propria villetta, i nipotini per 31 o 32 giorni che succede, convocano un
plotone di esecuzione e giustiziano l’infame a colpi di putter
da golf? «No, purché i vicini
non si lamentino del rumore
che fanno». Dormi piccolino,
dormi, che altrimenti arriva
l’orco con la camicetta di nylon
a fiori e ti mangia.
Non vedo neppure una faccia nera, un uomo o una donna
di colore, nella monotonia dei
pallori sovrastati da permanenti bluette e da oneste calvizie. «È un
caso» si affretta a dirmi Mike, «noi siamo
aperti a tutti». Sarà. Scivoliamo in auto,
dentro il silenzio sabbioso di questo che
sarebbe in fondo il solito, desolante sobborgo americano riprodotto con lo stampino, se soltanto si vedesse ogni tanto un
lampo di vita. E per lo shopping, per la salute, come fanno i 5000 che già vivono
qui? «Vanno fuori, oltre il muro, oltre il
giardino». Sulla statale 27, quella che sale da Orlando, ospedali, cliniche, laboratori, gabinetti medici, pompe funebri (il
signor Bruce) si azzuffano come puttane
fameliche in un angiporto militare per
cercare clienti. Per dieci miglia, sulla statale 27 viaggiando verso l’aeroporto,
conto 74 insegne di dentisti, 22 laboratori radiologici, 18 negozi di ottica e insegne
di ogni specialità medica (ostetricia
esclusa) appresa nelle facoltà e poi mi
stanco di contare.
FOTO CORBIS
VITTORIO ZUCCONI
mi informa con ogni premura per le mie
coronarie Mike l’agente, il 95% dei 4.500
lotti è stato già venduto nei due anni dall’inaugurazione. Resta soltanto un ultimo spicchietto di terra adiacente la “riserva naturale” per gli animali selvatici
lasciato libero per legge, un lembo delle
paludi originarie dove qualche anatroccolo occasionale ancora inciampa e
qualche alligatore giustamente preoccupato osserva con occhi a pelo d’acqua
i nuovi predator umani. Da dove vuole
cominciare la visita? s’informa Mike.
Dalla clubhouse del golf? No grazie, non
gioco. Dalla palestra? No, grazie, non sollevo altri pesi che il mio. Dalla piscina?
No, una piscina é una piscina, vista una,
viste tutte. Cominciamo dalla bacheca,
gli propongo. Mike si stringe nelle spalle.
Il cliente, soprattutto quando ha «55 anni o meglio», è un animale bizzarro.
Ma dalla bacheca, se quel brav’uomo
sapesse che non sono un cliente ma un
ficcanaso, mi terrebbe lontano, perché
su quel lungo rettangolo di sughero al
quale gli uomini e le donne ragno appendono i loro messaggi, è scritta la verità che i dèpliant e i videoclip di coppie
festosamente mature non raccontano,
la storia della fine. Non ci sono annunci
funebri, perché nel villaggio della giovinezza di seconda mano non ci sono ambulatori né cimiteri, è proibito ammalarsi e tanto meno morire, non ci sono
anziani malati, degenti, assistenze sanitarie, tonfi e sibili di macchine per la
respirazione o patologie visibili che
possano inquinare il sogno. Chi se ne
deve proprio andare, essendo “migliorato” troppo oltre i 55 anni, viene discretamente portato via di notte, dalle
lunghe Cadillac nere del temuto signor
Bruce, il più apprezzato dei ben 20 impresari di pompe funebri che si sgomitano sulle pagine gialle locali.
Quello che resta il mattino dopo, è la richiesta di un nuovo “quarto” per il bridge, appesa con la puntina da disegno su
questa bacheca. È l’annuncio della vendita di un cart da golf divenuto “inaspettatamente disponibile”, di automobili
“praticamente nuove” senza più conducente, di piccoli animali, gattini, cagnetti, canarini, pescetti, “rimasti orfani” che
cercano adozione, i surrogati, e dunque
la incolpevole vendetta, di quei figli dimenticati. Obituaries, annunci funebri
per interposto micio, e nessuno più triste
di quello di una certa Linda ottantenne,
che ha appeso alla bacheca la speranza di
trovare un altro dancing partner, ora che
il suo «compagno di ballo per mezzo secolo, danza con gli angeli».
La voce di Mike, un po’ ansioso e forse
insospettito dal tempo che consumo a
leggere i piccoli annunci della tenera tristezza, mi trascina via ad ammirare lo
splendore della palestra, dove un paio di
asciutti vegliardi dai polpacci di ferro
pompano sulla cyclette immobile per
correre via dal tempo. Le attrezzature di
acciaio inossidabile della grande cucina
comune, dove si tengono fieri tornei ga-
Salgono i prezzi
La nuova vecchiaia protetta, curata,
longevizzata dalla medicina, viziata
dalla giovinezza nell’America della prosperità kennedyana e dall’autoindulgenza degli anni ’70, è il lago di Tiberiade che attira i pescatori di ogni business,
dalla ortodonzia ai fabbricanti di quei
carriolini da golf carrozzati sport che
vedo sciamare ovunque. Ai vecchi, ai
vecchi è il grido di battaglia del marketing, delle reti tv, dei pubblicitari delusi
dai giovani e dai teen ager che non hanno soldi da buttare. La terza età è il serbatoio del “disposable income” come
dicono gli economisti, del reddito disponibile, finita l’emorragia dei mutui,
degli studi, di quel racket legalizzato e
specializzato in estorsione di genitori
ansiosi conosciuto come “college”. Per
la finale del campionato di football, il
Superbowl, i ricercatori di mercato costretti a spendere due milioni e mezzo
di dollari per 30 secondi di spot durante
la partita, hanno puntato tutti i loro
messaggi sui «55 anni o meglio», La star
del supershow nell’intervallo, non era
piú una pettoruta signora di colore con
il seno all’aria come Janet Jackson, ma
era il 62enne Paul McCartney.
«Ha tempo fino al 31 marzo per decidersi», mi sollecita Mike seguendomi fino alla macchina a noleggio davanti alla
sorta di castello di Cenerentola che segnala l’ingresso nel paradiso del tempo
perduto, dietro i cancello di ferro battuto che la notte si chiudono per aprirsi
soltanto all’alba (o se deve passare il signor Bruce). «Dal primo aprile aumentiamo i prezzi». Pazienza. Via, via. Scappo con una voglia bruciante di motorini
smarmittanti, metallari rock, bambini
urlanti, pannolini fetidi, baiadere ignude, martelli pneumatici. Anche mille
euro al metro quadro sono troppi, per
vivere in un cimitero di vivi.
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
la memoria
Campagna elettorale
Parlare in pubblico non era una forma di
comunicazione politica, era più semplicemente
la politica. Uno spettacolo che aveva i suoi segreti,
i suoi specialisti, come Fanfani, Nenni, Di Vittorio
e Almirante. Un rito collettivo che adesso è scomparso
Ucciso dalla televisione
L’arte perduta del comizio
Il gesto scurrile di Bossi
Gli oratori, ovvero i “comizianti”. Ha detto una volta Gianfranco Fini che il segreto
di un buon comizio è il microfono. Vero.
Ma un tempo era la voce, che doveva essere tonante. È da qui, forse, da questa necessità vocale, teatrale e primordiale, che
occorre partire per comprendere lo stile
ta casistica, un’amena letteratura a proposito di comizi buffi e infamanti. Il senatore Luigi Angrisani, per dire, alla
metà degli anni cinquanta caudillo di un
partitino che come simbolo recava un
gallo, era noto nelle piazze della Campania per presentarsi ai comizi con un gallo, vero, sulla spalla. La leggenda tramanda che il pennuto facesse chicchirichì a comando — ma c’è anche chi dice
che a comandare il gallo fosse un crudele congegno elettrico. E tuttavia, a parte
l’animale, è sicuro che un bel giorno Angrisani ebbe il cuore di sventolare dal
palco, a mo’ di virile trofeo, gli slip della
moglie di un suo acerrimo rivale, senatore socialista della Valle di Diano.
Così andava, e così forse rischia ancora di andare la politica: ieri sui palchi, oggi in quei luoghi deputati dell’indecenza
che sono i talk-show. Per cui Togliatti, ad
esempio, che sembrava un sorvegliatissimo professore di liceo, arrivò a promet-
Il senatore a vita: rischiai pure di trovare moglie
Andreotti: contro i comunisti
il fascino della Pampanini
GOFFREDO DE MARCHIS
C
Sandro Pertini
aggrediva a freddo
uno dei presenti
per ravvivare una
giornata soporifera.
Il senatore Angrisani
invece si presentava
con un gallo sulla
spalla, che cantava
a comando
LA MORTE DAVANTI ALLA FOLLA
Nelle tre foto sopra, dall’alto in basso: un comizio di Alcide De
Gasperi dal balcone della sede romana della Democrazia cristiana
in piazza del Gesù; Sandro Pertini parla in piazza del Duomo
a Milano il 26 aprile 1945; Giovanni Berlinguer, colpito da malore
in piazza delle Erbe a Padova il 7 giugno 1984, viene portato
a braccia giù dal palco. Morirà quattro giorni dopo
ROMA
on un comizio aveva anche trovato moglie, anzi
due. E se non ne avesse avuta già
una, chissà come sarebbe finita.
«Parlai in un piccolo comune del
Viterbese e i frati cappuccini della
zona mi scrissero una bella lettera.
Avevo fatto una buona impressione e mi avrebbero dato il voto. Aggiunsero una postilla: “Onorevole,
le vorremmo presentare due ragazze in età da marito”. Risposi: “Vi
ringrazio, ma sono
sposato da sette
anni”». Giulio Andreotti ricorda l’epoca dei comizi
«con molta nostalgia. Guardavi la
gente negli occhi,
sentivi l’umore. A
volte partivi in un
modo e poi eri costretto a rettificare il tiro...». Amarcord, c’era una volta. «La televisione ha messo a terra il comizio. Ormai esistono solo le tavole rotonde,
i convegni e naturalmente la tv».
Durante un tour elettorale in
Ciociaria, si portò dietro Silvana
Pampanini e lanciava pagnotte dal
balcone. Era anche quello un buon
sistema per conquistare consensi?
«Mai lanciato pagnotte, è una
leggenda. Lo dissero i comunisti ai
quali rubammo la scena. Era la
campagna per le elezioni del 1953,
un voto infuocato. Il Pci aveva organizzato a Sora un festival di musica leggera con artisti internazionali. Internazionali si fa per dire,
secondo me erano di Frascati...
Noi rispondemmo con la Pampanini. Beh, la Pampanini fu portata
in trionfo, tutti la volevano vedere.
E toccare... Lei smarrì un orecchino e io le feci un regalo quando tornammo a Roma. Fatto sta che la
gente dimenticò il festival organizzato dai comunisti».
La sua prima volta in piazza?
«Poche settimane dopo la Liberazione, nel ‘46, a Lanuvio, un paese vicino Roma. Mi sentivo un
naufrago perché non ero abituato
a intervenire in pubblico. Ed ero
tutto incriccato: io sono già curvo
di natura, ma quel giorno feci un
viaggio di quaranta chilometri su
una di quelle motociclette a tre
ruote, seduto dietro...».
Qual è il segreto di un buon comizio?
«La cosa più importante era rispondere bene alle interruzioni.
La gente partecipava, contestava.
Una volta, dalla folla uno mi gridò:
“Agrario”. Io ribattei: “Non lo sono
perché non possiedo terreni, ma
lo prendo come un augurio”. Era il
giorno in cui mi notarono quei frati cappuccini».
La “piazza” più calda?
«Nel ‘72 parlai a Napoli, piazza
Plebiscito era stracolma. E i napoletani sono molto più caldi dei romani, rimasi impressionato».
Fra i grandi oratori c’erano anche i democristiani?
«Tenevamo bene la piazza. Certo, Nenni era un grande trascinatore. Togliatti meno, era più razionale e il clima che lo circondava era
molto disciplinato. Pajetta era
bravissimo alla radio e mi spiegò
che aveva frequentato una scuola
di dizione. A quell’epoca sembrava
strano, ma aveva
ragione lui».
Lei è diventato
anche un personaggio televisivo.
Significa che non
è molto diverso
parlare in pubblico o davanti a una
telecamera?
«È molto diverso. A un comizio
tu parli con gente che sta ferma lì.
Mi ricordo le vecchiette che venivano con le sedie e io a volte mi arrampicavo su un tavolino per farmi vedere meglio. Un comizio ha
più toni, in tv il messaggio dev’essere semplice e chiaro. Perché
nelle case ti guardano distrattamente: squilla il telefono, bolle il
latte, il ragazzino deve fare la pipì.
Inutile dire che il comizio è più affascinante».
Le regole sono completamente
diverse?
«La battuta pronta ci vuole sia in
tv che in piazza. Feci una tribuna
televisiva da presidente del Consiglio, quelle che andavano in onda
il venerdì sera, ultimo giorno di
campagna elettorale. Pavolini, un
giornalista dell’Unità, mi attaccò:
“Avete fatto poco e quel poco lo
avete fatto solo perché vi abbiamo
spinto noi comunisti”. Gli avrei
dovuto rispondere con i fatti: crescita economica, tasso di disoccupazione... Insomma, ero lì in veste
di presidente del Consiglio, non di
dirigente di partito... Invece usai la
tecnica dei comizi: “Allora potevate spingere un po’ di più”. Una
colpo secco, andò bene. La televisione è uno strumento complicato, sei in diretta e devi stare attentissimo a quello che dici».
Nei comizi, no?
«C’erano più margini di manovra, più tempo per spiegare. Intendiamoci, in pubblico bisogna
stare attenti lo stesso. La scorsa
settimana, per esempio, sono andato a parlare in una scuola elementare di Milano. Qualche domanda dei bambini era suggerita
dai maestri, ma altre erano spontanee. Un fuoco di fila. Mi sono divertito. Quasi come a un comizio».
FOTO PUBLIFOTO
Le manette di Adele Faccio
E per ognuno che abbia più di quarant’anni, c’è almeno un comizio che resta impresso nel cuore. Si pensi all’intensità drammatica dell’ultimo Berlinguer,
a Padova, 7 giugno 1984, piazza piena e
allegra, poi il volto contratto sui maxischermi, «e all’improvviso — ha ricordato lo scultore Elio Armano — l’atmosfera
è virata dal bianco al nero, istantaneamente, come una foto quando la sviluppi». Oppure si pensi ad Adele Faccio che
all’Adriano offre i polsi al commissario di
Ps, brillano le manette mentre Pannella
commenta l’arresto in diretta. O all’esordio di Giorgio Almirante ai funerali di
Mantakas: occhi gelidi, voce metallica:
«Romani — pausa — questo non è un comizio, è un rito!».
Impossibile individuare con precisione l’inizio della crisi rituale, appunto, il
punto di frattura, l’indebolirsi dell’impatto emotivo e persuasivo del comizio
dal vivo. I primi segni, forse, alla metà degli anni settanta; gli sforzi della Dc di
riempire le piazze ai tempi del divorzio;
scenette a loro modo emblematiche come quella che vide l’onorevole Granelli
zittito da una vecchietta, a Trieste: «Ma
che ne vuoi sapere tu di cazzo e fica?»; o il
flop finale di Fanfani a Roma, di cui si parla nel recente Piazza del Gesù di Peppe
Sangiorgi (Mondadori) come di un evento certamente traumatico, ricordando
che per quell’occasione erano state arruolate la bellezza di 35 bande musicali.
E certo che se ne fanno ancora, oggi, di
comizi. Magari con Bocelli e Clarissa Burt
come madrina per l’Usa day. Eppure il raduno cerimoniale appare irrimediabilmente a rischio, o in disuso, per non dire
che è tenuto in dispregio dall’attuale
classe politica. O almeno: appare per lo
meno significativo, se non altro dal punto di vista del linguaggio, che giorni orsono Pierluigi Bersani abbia accusato un
avversario (Tremonti) di tenere «comizi
della domenica». E quando se no? Era
quello il giorno dei comizi, come da poesia di Rocco Scotellaro: «La città si è riunita nelle chiese e nei teatri/ a battere le
mani...». Le mani del pubblico, ma anche
gli occhi ben aperti, le bocche serrate, le
orecchie dritte, ciascuno pronto a scattare nell’applauso, «e le donne preparano
già il grido più forte./ Avviene al nostro
comizio volante/ come quando un uomo cade sui suoi passi/ e i marciapiedi si
svuotano in quel punto./ Noi pure così
protesteremo ai divini potenti/ come la
grandine schiaffeggia la terra».
E c’era in effetti da considerare anche
una valenza climatica, oltre che sensoriale, per il comizio perfetto: da tenersi in
“piazzaiolo”, e quindi semplice, ma al
tempo stesso enfatico, colorito, vibrante,
non di rado cedevole alle lusinghe della
più scoperta demagogia. Roba da uomini, comunque, perché il comizio è irredimibilmente maschio, e tanto lo è che fra i
suoi epigoni merita senz’altro di essere
annoverato Umberto Bossi, l’inventore
dello slogan «la Lega ce l’ha duro», e del
quale qui non si può fare a meno di ricordare la performance, pure con coreografia fallica, tenuta in un caldo e umido capannone della campagna bergamasca, ai
danni della Margherita Boniver. E insomma la sventurata aveva detto qualcosa sul
pericolo che la Lega scegliesse la lotta armata, e allora il senatùrappoggiò il gomito sulla balaustra del palco, e tenendo alzato il braccio nudo prese a roteare il pugno accompagnando il movimento con
voce roca: «Ah, bonassa! Sì, siamo armati,
ma di questo qui!».
E naturalmente c’è tutta una straluna-
ratore rosso. A Napoli, confusi tra la folla
di piazza Plebiscito, poteva capitare che i
missini liberassero centinaia di topolini,
creando il dovuto panico. E se don Camillo, nei romanzi di Guareschi, scioglieva le campane proprio quando Peppone
incominciava a parlare, beh, nel 1953, ai
tempi della campagna elettorale contro i
“forchettoni”, giusto in prossimità dei
comizi dc i comunisti facevano lentamente salire in cielo dei palloncini da cui
pendevano enormi forchette di cartone.
Il pubblico si distraeva; gli oratori non potevano far finta di nulla.
FOTO AP
A
h, chi se li ricorda più i bei
comizi di una volta! Mai
così pochi, in quest’ultima
campagna elettorale, mai
così poco affollati. E allora
tanto vale abbandonarsi
alla nostalgia, e tornare per un attimo sotto i mille e mille balconi delle piazze e
piazzette d’Italia, nei cento e cento cinema Astra e teatri Verdi, sui palchetti e perfino sui camioncini. Perché c’erano comizi all’aperto e al chiuso, “di mercato”,
“di vicolo”, “di caseggiato”, oltre che “volanti”: e a proposito della varietà motorizzata vada un pensiero ai poveri oratori dell’Unione dei comunisti italiani (ml)
che votati alle più assurde tabelle di marcia, andavano famosi per montare gli altoparlanti nei posti sbagliati, nelle ore
sbagliate, e parlavano al nulla.
Non era una forma di comunicazione
politica, il comizio. Era, più semplicemente, la politica. Ma ci si andava come a
uno spettacolo. Nel 1954 Leonardo Sciascia arriva in corriera ad Agrigento per
sentire Fanfani: «Nella piazza della stazione c’era un gran palco; una prora di
nave pareva, tutta fitta di lampade, a due
piani (...) Quando Fanfani apparve sul
palco, e sventolava un fazzoletto bianco,
ci furono cinque minuti di urrà. Poi attaccò: tirò fuori un foglietto, otto domande che i comunisti gli avevano rivolto,
disse che democraticamente avrebbe risposto. Alla prima disse che c’era una sola risposta da dare, il titolo di un’opera di
Leoncavallo: Pagliacci».
Ma i comizi potevano anche ispirare
poesia. Ne Le ceneri di Gramsci Pier Paolo Pasolini descrive una manifestazione
missina: «Una smorta folla empie l’aria/
d’irreali rumori. Un palco sta/ su essa, coperto di bandiere,/ dal cui bianco il bruno lume fa/ un sudario, il verde acceca,
annera/ il rosso come di vecchio sangue.
Arista/ o tetro vegetale guizza cerea/ nel
mezzo la fiammella fascista».
un giorno né troppo caldo, né troppo
freddo, ma soprattutto un giorno senza
pioggia. C’era una tecnica, c’era una sapienza, c’era perfino una scienza, tanto
che il professor Andreatta, prima di fissare una data, consigliava agli organizzatori di riguardarsi il bollettino meteorologico dei sette anni precedenti. Ma c’era anche disincanto, e scaramanzia. Nenni,
per dire, diffidava delle folle eccessive,
mai illudersi: «Piazze piene, urne vuote»
scuoteva la testa con sperimentata e personalissima amarezza.
E comunque tutto poteva succedere,
in piazza. In verità era soprattutto un’arte a rischio, il comizio: ma un’arte, a suo
modo altrettanto fantastica, era pure
quella di disturbare i comizi degli avversari. A Bologna i più anziani ancora ricordano i “frati volanti” che i Comitati civici,
con la benedizione del cardinal Lercaro,
spedivano sotto i palchi con l’obiettivo di
confutare rumorosamente le tesi dell’o-
FOTO OLYCOM
FILIPPO CECCARELLI
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
FOTO REPORTERS ASSOCIATI
“VOTA ANTONIO VOTA ANTONIO”
L’ONOREVOLE TOTÒ
Il film si intitola “Gli onorevoli”, diretto da
Sergio Corbucci, con Totò, Peppino De
Filippo, Walter Chiari, Gino Cervi. Totò è
Antonio La Trippa, che partecipa alle
elezioni come rappresentante del Partito
nazionale della restaurazione,
e che sveglia all'alba i suoi coinquilini
urlando dalla finestra con il megafono:
“Vota Antonio, vota Antonio”
tere calci nel sedere a De Gasperi; mentre
il giovane Andreotti, che nei suoi giri elettorali in Ciociaria si portava dietro la
Pampanini (per l’entusiasmo le sparì un
orecchino) venne accusato dall’Unità di
aver lanciato dal balcone pagnottelle, divertendosi poi a guardare la zuffa che si
sviluppava. Così come, sempre sul piano
dell’inevitabile degenerazione comiziale, altri pure rispettabili padri della Patria
a tal punto recitavano da sciogliersi regolarmente in lacrime, come l’oratore politico di Trilussa: «E lì rimise fora l’ideali,/ li
schiavi, li tiranni, le catene,/ li re, li preti,
l’anticlericali.../ Eppoi parlò de li principi sui:/ e allora pianse: pianse così bene/
che quasi ce rideva puro lui!».
Si contano sulle punte di una mano,
dopo tutto, i grandi del comizio, eleganti
interpreti dei loro stessi personaggi, non
guitti da sceneggiate ed effettacci. Di sicuro era bravo Almirante, non a caso figlio
e nipote di attori. E Pertini, insuperabile
FOTO AGF
I PERSONAGGI
FOTO ANSA
AMINTORE FANFANI
Toscano di Pieve Santo
Stefano, Fanfani è stato uno
dei politici democristiani
più rappresentativi
del dopoguerra. Per cinque
volte presidente del
Consiglio, più volte ministro,
muore nel 1999 a 91 anni
FOTO AGF
GIUSEPPE DI VITTORIO
Nato a Cerignola nel 1892,
dirigente del Pci, è il leader
storico della Cgil che inizia a
guidare in clandestinità negli
anni Trenta. Muore a Lecco
nel 1957, dopo un incontro
con i delegati sindacali
FOTO ANSA
PIETRO NENNI
Nato a Faenza nel 1891,
è uno dei padri storici
della sinistra e del Partito
socialista italiano. Negli anni
del primo centrosinistra
diventa vice premier
e ministro degli Esteri. Muore
il primo gennaio del 1980
GIORGIO ALMIRANTE
Nato a Salsomaggiore
nel 1914, ha aderito alla
Repubblica sociale di Salò
per poi diventare nel
dopoguerra leader della
destra italiana e segretario
del Msi. Muore il 22 maggio
del 1988
nel rianimare il comizio soporifero, come
racconta il giornalista Stefano Scansani
nel suo Politica, brutta bestia (Tre lune,
2001): individuava qualcuno lì presente,
anche dei suoi, e lo aggrediva a freddo;
una sera prese di petto il segretario della
federazione di Mantova che parlottava
alle sue spalle: «Ecco, dimmi tu, compagno, se m’è consentito di proseguire il comizio con te che mi parlotti da tergo, suvvia!». E sempre più rabbioso scattava porgendogli il microfono: «Ecco, vai avanti tu
che hai più lingua, perdio!».
Poi Nenni, la cui oratoria di piazza, secondo lo storico Giuseppe Tamburrano,
aveva al contrario di Pertini la regolarità
ritmica di un esercizio di solfeggio, da potersi addirittura misurare con il metronomo: «Cari compagni — tic toc — ve lo
spiego io — tic toc — cos’è — tic toc — il
socialismo!». Tic toc.
Ma sopra tutti eccelleva nell’arte del
comizio Giuseppe Di Vittorio, l’agitatore
di Cerignola divenuto leader del sindacalismo comunista, capace di suscitare la
più prodigiosa identificazione con le
masse: «Quando parlava — ha scritto Davide Lajolo — stava con te non solo con gli
occhi». Ascoltandolo, chiunque del suo
mondo pensava che avrebbe parlato così, dicendo quelle stesse cose, nello stesso modo, con le stesse parole. È del resto,
il comizio, un’esperienza emotiva quasi
sconvolgente anche da parte dell’oratore, quanto di più simile a uno stato di
trance, o a una rivelazione del numinoso.
Lo fa capire Achille Occhetto nella sua
autobiografia Secondo me (Piemme,
2000), ricordando ciò che provò intervenendo ai funerali di Togliatti, in piazza
San Giovanni, di fronte a un milione di
persone: «All’improvviso il silenzio totale, rotto solo dai singhiozzi, si squarciò in
un boato che sembrava venire dal fondo
della piazza e che come un’immensa onda rotolava maestoso fino a infrangersi
sui rostri del palco. Non proverò mai più
— confessa — una simile impressione.
Quella di aver dato voce, attraverso una
evocazione magica, quasi medianica, a
un sentimento così vasto».
Poi senza che nessuno lo proclamasse, tantomeno in piazza, la politica
smise di affacciarsi dai balconi, staccò i
fili degli altoparlanti, smontò i palchi
nelle piazze, ripose le bandiere. E cominciò a vivere e ancora di più a rispecchiarsi nella televisione, anche se in
realtà, a pensarci bene, ancora una volta il cinema era stato anticipatore.
La lezione di Walter Chiari
È del 1963 Gli onorevoli, film a episodi di
Sergio Corbucci. C’è qui un comizio di
Totò, da una finestra, con un rudimentale megafono di latta: «Vota Antonio, vota
Antonio». Ma c’è anche — e qui la pellicola si fa profetica — un Peppino De Filippo, candidato del Msi, che a Tribuna
politicacomincia a parlare come ha sempre fatto in piazza: «Camerati!». «Alt!» lo
interrompe subito Walter Chiari, nei
panni di un regista un po’ effeminato,
«Alt!». E dice una cosa molto vera: «Guardi che lei qui non parla ai suoi, lei è in televisione, lei parla a tutti».
Non c’è nemmeno bisogno di ricordare la lezione di McLuhan sul mezzo
che è il messaggio. Più che uccidere il comizio, la tecnologia del piccolo schermo
l’ha stravolto, esteso, moltiplicato e triturato fino a renderlo irriconoscibile.
Due anni dopo Gli onorevoli, nel 1965, la
Rai inaugurò un ciclo in cui ciascun partito metteva in onda un proprio comizio. Si videro così Malagodi, il “comandante” Achille Lauro, Pajetta, il missino
Tripodi che se la prendeva con i capelloni, Forlani da una palestra, Nenni al Quirino interrogato da Biagi, Zavoli e Silone
con Sophia Loren fra il pubblico. Si videro, appunto. Ma non scaldavano, erano lontani, immateriali, fantasmatici.
A distanza di quarant’anni il comizio
sopravvive come un residuo di gloriosa
dignità, però adattabile al nuovo. C’è oggi Berlusconi che cammina sul palco
avanti e indietro, microfono in mano, stile convention o scuola quadri d’intrattenimento sulle navi. Può dire tutto e il contrario di tutto, ormai, il Cavaliere. A Olbia,
nel maggio del 2002, ha rifatto le corna,
parlato di supposte, affrontato il tema
della sua vita sessuale. «So che state costruendo un porto per barche da 50 metri — ha concluso sorridendo — Ma la
mia non ci sta». Quindi si è congedato:
«Ora dobbiamo andare tutti a casa. Vorrei dire: a vedere Canale 5. Ma non posso
per via del conflitto d’interesse».
E insomma, tra nostalgia e studi televisivi si comincia con un requiem e si finisce con uno sketch: ah, come è destinato
ancora a cambiare, il comizio.
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
Tempi moderni
FOTO CGE
oro no. Non ce l’hanno. Non
l’hanno mai avuto, non lo vogliono e non lo compreranno.
Se glielo regalano, lo regalano
a loro volta e senza neppure aprire la scatola. Niente protesi dell’onnipotenza.
Niente aggeggio per il controllo universale (non degli altri, ma degli altri su di noi).
Niente moltiplicatore d’ansia. Niente
quadratino pieno di
parole, Mercurio
alato di chissà quali
novità o sventure.
Niente trillo che pare un concerto di orchestre tascabili.
Niente messaggini.
Niente videochiamate. Niente voce
che dice «l’utente
non è raggiungibile,
si prega di riprovare
più tardi». Con loro,
invece, si prega di
non provarci mai
più.
Sono i resistenti
al telefonino. I senzacellulare. MinoLA SCHEDA SEGRETA
ranza silenziosa
che infatti non
squilla, pur possedendo ragioni che
vibrano. Lo fanno,
spiegano, come forma di libertà. Per riprendersi il tempo.
Per non farsi trovaALBERTO ZIPARO
Professore universitario
re. Per non cercare e
non essere cercati.
Per non rispondere
alla fatidica domanda: dove sei? E a
te che ti frega?
Mica facile trovarli, niente comodo chiamarli: non
hanno il cellulare,
dove diavolo li cerchi? Nel mondo ci
sono un miliardo di
telefoni portatili, e
se ne vendono 550
milioni all’anno (in
Europa, solo gli inglesi ne hanno più
di noi). In un paese
come l’Italia, con 48
milioni di telefonini
nel 2004, poco meno di uno e mezzo a
LA MALEDIZIONE
testa esclusi neonati e ottuagenari, i
senzacellulare sono quasi una realtà
da museo del silenzio. Ne abbiamo
scovati e scelti cinque: ascoltiamo la
loro voce, in diretta,
FERDINANDO CANAVESE
Primario pediatria
dal vivo. Al massimo, un po’ gracIl critico letterario
chiante da un telefono fisso.
Giovanni Tesio, italianista, scrive di libri
e insegna letteratura moderna e conIl primario
temporanea all’Università del PiemonFerdinando Canavese è un medico pieno
te Orientale. Gli piace, confessa, non
di lavoro. È responsabile della chirurgia
farsi trovare. «È una forma di libertà, e
pediatrica e della Dea all’ospedale infannon è vero che si perdono occasioni fontile “Regina Margherita” di Torino. «Mai
damentali: quelle, proprio perché hanavuto il cellulare e vivo benissimo, come
no bisogno di più tempo, arrivano lo
benissimo ha vissuto l’umanità per mistesso o non arrivano mai. Il cellulare è
lioni di anni. Si tratta di un oggetto abusaun moltiplicatore d’ansia, me ne accorto, ormai non serve solo per parlare ma io
go osservando chi lo usa: parlano e guarho quasi sessant’anni, e per me il telefono
dano ossessivamente il coso, aspettanè una cosa che trasporta la voce e stop.
do chissà quale messaggino che cambi
Credo che il portatile sia la benedizione di
la vita. Non è un bello spettacolo. Una
chi cerca e la maledizione di chi è cercato.
volta si faceva con l’orologio, che io inVedo queste madame in auto, in centro:
fatti non porto: è anche una forma di liguidano e parlano, ovviamente senza aubertà del corpo, non voglio trasportare
ricolare. Non nego che possa essere cooggetti, non ho la catenina e sopporto a
modo, infatti mia moglie ce l’ha, e io a volfatica il portafoglio. Le novità tecnologite ne approfitto: ma ho dato il numero solo alla fidata caposala. Se avessi anch’io il
che non mi incuriosiscono, avevo detto
“mai dire mail”, poi ho capitolato accorcellulare, immagino che in vacanza mi
gendomi che può servire. Anche il techiamerebbe l’amico dell’amico per dirlefonino, beninteso: infatti scrocco le
mi che il suo bambino è caduto in spiagchiamate, con parsimonia. A me piace
gia e ha picchiato la testa contro l’omnon farmi rintracciare, e lavorare con
brellone, e adesso ha la fronte un po’ roslentezza. Amo mantenere le distanze e
sa, e cosa deve fare... Ho due figli di 26 e 31
non essere invaso, preferisco tenermi
anni, il più grande è senza cellulare, forse
un po’ a lato delle cose. Certo è dura: nei
l’ho contagiato, non so. Chi lo usa non è
bar, i telefoni pubblici non esistono
più sicuro, è solo più preoccupato. Certo
quasi più, ma la resistenza non è mai coè difficile farne senza, visto che le cabine
sono quasi sparite. Il direttore generale
moda. Credo che il telefono portatile
abbia risvolti psicologici e filosofici, un
dell’ospedale prova a convincermi, insipo’ perché l’uso dell’oggetto muta il
ste ma io resisto. E convivo col fastidio di
soggetto, un po’ perché risponde al bisentire gli squilli in treno, tremendi, opsogno di controllo che si riduce all’essepure allo stadio quando un deficiente
re controllati. C’è anche da riderne. Un
chiama l’amico per dirgli che c’è appena
mio amico si stava confessando per la
stato il gol. Mah».
comunione della figlia, era in convento
e durante il sacramento squillò il cellulare del frate, dall’altra parte della grata.
Costui chiese scusa e poi rispose, chiac-
‘‘
A quelli che insistono dico
di avere il telefonino segreto:
cioè la scheda. Parla solo
quando decido io
FOTO ALESSANDRO CONTALDO PHOTONEWS
‘‘
‘‘
Il cellulare è la benedizione
di chi cerca e la maledizione
di chi è cercato: io vivo
benissimo senza
nei vari uffici, e gli spostamenti legati al
mio lavoro forse giustificherebbero il
possesso del cellulare. Invece no: così riesco a filtrare le chiamate, a selezionare.
Ascolto le mie numerose segreterie telefoniche, tutti possiedono i miei numeri, però poi scelgo io con chi riparlare.
Ogni due o tre ore controllo, taglio, richiamo. La rete delle relazioni professionali e umane non ne risente per nulla, anzi: i rapporti veri
si intensificano,
quelli fittizi svaniscono all’istante e senza
scocciature. Le
persone che mi
cercano le richiamo quasi
sempre al cellulare, e non mi
sento incoerente perché non
sono ideologico
rispetto a questo, e neppure
snob. È solo una
comodità, una
forma di protezione contro le
parole vane che
ci stanno invaL’ARTE DEL VIVERE LENTI
LE OCCASIONI IMPORTANTI
dendo. Un fatto
di libertà. E non
credo sia così
vero che nei luoghi pubblici, o
meglio nei nonluoghi che finiamo per frequenLAURA COLOMBO
GIOVANNI TESIO tare spostandoFisioterapista
Critico letterario ci, le stazioni, gli
aeroporti, i telefoni pubblici
siano spariti.
Anzi, è bellissiI NUMERI
mo vedere una
batteria di dodici telefoni liberi
alla stazione
Secondo l’ultima ricerca
Termini: prima
Eurostat, il 91% degli
dell’epoca del
italiani possiede un cellulare
cellulare, era
impensabile.
Mia madre è anziana e insiste, è
rimasta l’unica
ormai, vorrebbe
che mi comSono i telefonini venduti in Italia,
prassi il telefoniquasi uno per ogni residente. Gli
no per potermi
utenti sono 41 milioni
sempre raggiungere, forse
si sentirebbe più
LA PROFEZIA
sicura ma io mica l’abbandono.
E poi mi piace
scherzare, dico
a tutti che posIl 18% degli italiani non ha più
siedo il telefonilinea fissa. Tre milioni le famiglie
no segreto. Cioè
che hanno solo il cellulare
la scheda, ogMARIO CAPANNA getto più comoEx leader politico do da portare,
più sottile e sida suicidio. Come capirete, io non ho
lenzioso. Parla solo quando decido io».
neanche la segreteria telefonica e prediliIl 43,8% delle famiglie italiane
go la voce umana: peraltro è facilissimo
La fisioterapista
possiede più di un cellulare. Un
Laura Colombo è una mamma quarantrovarmi, visto che sto sull’elenco telefoprimato per l’Europa
tenne di due figlie, una piccola e senza celnico dell’Umbria. Il cellulare è un bisogno
lulare, una più grande con. «Il papà le disindotto di questi tempi sciocchi, forse la
se che è come un albero dai tanti rami, e
causa non ultima del rincoglionimento
con i suoi soldi poteva decidere se comgenerale: è provato che le onde magnetiprarsi le scarpe nuove, se pagare la rata deche non fanno benissimo ai neuroni. Un
gli scout oppure acquistare il telefonino.
po’ mi sento un profeta, perché l’avevo
Lei ha scelto il telefonino e mi chiede cosa
capito dall’inizio e me ne vanto: gli amici
La metà di quelli che hanno un
aspetto a comprarmene uno. Non succepossono testimoniare, nessuno di loro
cellulare lo usano per non più di
derà mai. Chi mi vuol bene e mi fa dei remai si sognerebbe di regalarmene uno. Io
10 minuti al giorno
gali, sceglie libri. Io e mio marito Felice non
so che se ti cercano davvero, ti trovano:
vogliamo essere trovati, rintracciati, e la
chi mi conosce, sa quando sono a casa e
sera stacchiamo anche la linea fissa.
quando può telefonarmi, oppure venirQuando vado in pullman, sento squilli inmi a trovare. C’è anche l’altra faccia della
visibili nelle tasche di gente muta. Cominmedaglia, cioè il bisogno di chiamare
chierando tranquillamente. Accadde
ciano a frugare, ansiosi, finché il prescelto
qualcuno sul famigerato cellulare: e vado
due volte nella stessa confessione».
trova il suo oggetto, proprio quello. Dieci
in bestia quando sento la voce della sisecondi dopo, la scena si ripete e le parole
gnorina, quando non c’è campo, quando
Il leader
che seguono sono assurdamente vuote:
cominci a parlare e poi salta la comunicaMario Capanna, voce più ascoltata del
“Ciao, siamo solo a Nichelino, stiamo arrizione per una galleria, una montagna o
‘68 italiano e oggi presidente del consiglio
vando”. Embè? Senza telefonata, non archissà che altro. Non è da mentecatti rendei Diritti genetici contro Ogm e biotecrivavano? E poi quella domanda terribile:
dersi prigionieri di una cosa simile? I ritnologie, risponde da un telefono fisso
dove sei? Io non voglio dirlo, scusate. Facmi dell’uomo devono essere umani, altrinella sua casetta in Umbria. «Senza cellucio la fisioterapista e abito fuori Torino,
menti è finita. Guardo i poveretti che parlare si sta divinamente, perché è una terpuò succedere che si rompa l’auto e che un
lano per strada, o nel pullmino all’aeroribile seccatura dover avere un rapporto
cellulare serva davvero, però rifiuto l’ipoporto, e intuisco una profonda solitudine
minuto per minuto con un aggeggio tectesi: dopo, diventerei prigioniera di quella
interiore che ci si illude di superare così.
nico. Se decidi che ti può essere utile anbreve comodità. Non ho neanche il banPiù chiacchieri e meno pensi, eppure soche solo una volta, cosa che corrisponde
comat, non ho la tessera prepagata del suno ottimista, la gente capirà e tornerà inal vero, sei fregato per sempre: è la carapermarket. Voglio riprendermi il tempo,
dietro, sarà come smettere di fumare».
mella che prepara il veleno. C’è gente che
con lentezza. Scrivo ancora a mano, non
Il professore
se lo porta anche in bagno, c’è chi resta a
ho l’e-mail, scrivo lettere. Immagino la
Alberto Ziparo, cinquantenne, insegna
guardarlo per ore, muto, aspettando la
faccia di chi le troverà nella sua buca, all’ourbanistica e pianificazione ambientale
svolta esistenziale. Ma pensate come mi
dore della carta e dell’inchiostro, alle maall’Università di Firenze, ma vive a Reggio
sentirei se mi trillasse una tasca mentre
ni che l’apriranno. Non c’è paragone».
Calabria. Lavora come docente e consusto qui, adesso, a decidere quale rametto
lente un po’ in tutta Italia, eppure riesce a
potare del melo o dell’ulivo. La crisi psifarlo senza trilli tascabili. «Ammetto di
chica sarebbe letale. Oppure sei lì che stai
avere a disposizione molti telefoni fissi
scrivendo o pensando, e l’affare suona:
Voglio riprendermi il mio
tempo, con lentezza. Scrivo
ancora a mano, scrivo
lettere, non mando mail
FOTO ALESSANDRO CONTALDO PHOTONEWS
L
TORINO
La tribù superstite
dei senzatelefonino
‘‘
Non è vero che si perdono
occasioni: quelle
fondamentali arrivano lo
stesso o non arrivano mai
‘‘
Ho capito sin da subito che
è un oggetto inutile: chi mi
conosce sa come, dove
e quando trovarmi
FOTO FOTOGRAMMA
MAURIZIO CROSETTI
Un primario, un critico letterario, un ex leader
del ’68, un professore universitario e una fisioterapista:
persone normali, con lavori normali che hanno deciso
di fare una cosa speciale: vivere senza cellulare.
Una minoranza, certo, ma molto motivata
e decisa a non arrendersi
FOTO ALESSANDRO CONTALDO PHOTONEWS
le storie/1
DOMENICA 27 MARZO 2005
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DOMENICA 27 MARZO 2005
le storie/2
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
Restauri creativi
Quattro anni fa l’italo-svedese Daniele Kihlgren si è
innamorato dell’aria tersa e delle antiche case di Santo
Stefano di Sessanio, sulle pendici del Gran Sasso. Oggi,
dopo quattro milioni di euro spesi, un borgo dove erano
rimasti solo 70 abitanti sta per diventare un rivoluzionario
“villaggio-albergo” insieme medioevale e modernissimo
L’uomo che rifà i vecchi paesi
ANTONELLO CAPORALE
L’
S. STEFANO DI SESSANIO
uomo che compra i paesi
è giovane, nemmeno
quarant’anni. Biondo, il
padre è svedese, la mamma milanese, ha il passo scapestrato e
le voglie di un figlio di papà. Più che
camminare è come se dondolasse, più
che spiegare, domanda: «Cosa te ne
sembra?». Daniele Kihlgren iniziò
nemmeno quattro anni fa a chiedersi
come spendere i soldi di famiglia, come investirli, tenerli al riparo dalle sue
mani e dalla sua testa votata alla speculazione filosofica più che al mercato immobiliare. Se lo chiedeva senza
sapere cosa rispondersi.
Se lo chiedeva e intanto viaggiava
sulla sua moto tra le montagne dell’Abruzzo remoto e sacro. Capitò per caso, ma nella vita quasi tutto accade per
caso, in un borgo dalla luce abbagliante, costruito sulle pendici del Gran
Sasso, integro nella sua struttura, persino maestoso come villaggio d’altura.
Fermandosi e oziando, come un viaggiatore sfaccendato, vide che a Santo
Stefano di Sessanio le pietre, quelle
pietre, custodivano niente: dei tremila abitanti originari, soltanto settanta
resistevano alla neve dell’inverno.
Nessun gatto, qualche cane sì. Daniele s’infatuò del nulla, di quel paesaggio
dalla luce viva, di quelle case dritte e
fredde, le masserie, le tavole per pavimento, gli attrezzi di montagna. Avendo qualche spicciolo in tasca decise di
acquistare una casetta: «Me la vendettero a sessantamila lire al metro quadrato. Io comprai senza sapere cosa
farne, mi piaceva troppo».
Memoria delle pietre
Piaceva troppo, e questo gli bastò.
Perché prima una, poi un’altra, poi
un’altra ancora, il giovanotto finì per
riempire la busta della spesa e trovarsi in mano un intero quartiere per
qualche milione di lire. Puro e semplice diletto. Aveva optato, in luogo di un
viaggio alle Maldive, per questo condominio abruzzese.
Nella vita a volte si incontrano le
persone giuste. E a questo ragazzo intrigato dalla memoria delle pietre capitò di fare la conoscenza di un architetto pescarese, Lelio Oriano Di Zio,
che aveva battuto l’Abruzzo in cerca
di borghi da restaurare. Li aveva trovati e proposti ad acquirenti sempre
disattenti. L’architetto col pallino del
vecchio capì presto che, se voleva
campare, doveva disegnare il nuovo.
«Solo villette a schiera mi chiedevano.
E io le facevo. A volte venivano belle, a
volte brutte».
Finalmente l’architetto s’imbatte
in Kihlgren, nel milanesone con la
motocicletta e i soldi. Gli spiega cosa
si sarebbe potuto fare, gli dice quanto
avrebbe potuto rendere quella pazzia.
«Mi affascinò subito — ricorda Daniele — e presto dovetti decidere se affidarmi totalmente a lui oppure cambiare strada. Avevo già comprato
qualcosa, l’idea mi elettrizzava e così
decisi presto cosa fare. Presi Lelio e gli
dissi: io mi affido totalmente a te. Tu
pensa a come tirar fuori la vita da queste case, ed io ci metto i soldi».
Quattro anni fa successe questo.
Dopo quattro anni e quattro milioni di
euro spesi, Santo Stefano inaugura in
Italia un modello unico di
restauro conservativo che
punta al recupero completo
dell’integrità
originaria del
patrimonio. Le
pietre rimesse,
i legni ritrovati,
le finestre, i
mattoni. La
conservazione
di tutti gli elementi architettonici identificativi, la demolizione di
ogni superfetazione, alterazione, sovrapposizione, l’eliminazione di
ogni intonaco
o pittura nuova. Indietro negli anni, in una
corsa a ritroso
alla fine dell’Ottocento. Le stanze contadine ritornate a splendere nella loro
illuminata e imperiosa vetustà, nelle
loro forme e condizioni, negli spazi
destinati ad accogliere gli uomini del
secolo scorso.
Ritrovate le stanze, il modello di restauro per essere economicamente
sostenibile doveva avere una destinazione d’uso commercializzabile. E
dunque l’albergo. Non centralizzato
ma diffuso, non consueto ma imprevedibile. Al massimo della conservazione dunque, è stato contrapposto il
massimo della tecnologia nei servizi.
Luci, riscaldamenti, comunicazioni
gestite vie internet, secondo i modelli
abbaglianti di questa nostra modernità nell’era interattiva e globale dei
chip e del computer.
Se la prima industria italiana è il sole, se il futuro dell’industria del turismo sono i borghi e i paesi dell’osso
appenninico, se è vero che Toscana e
Umbria sono ormai sature e San Gi-
“Il modello si può
replicare altrove.
Prima ci siamo
guardati intorno
in Abruzzo, poi siamo
andati in Campania,
domani forse
in Lucania”
BORGO A CINQUE STELLE
In alto, una veduta e, qui
sopra, un particolare di
Santo Stefano di Sessanio,
in Abruzzo. Un rigoroso
restauro lo sta trasformando
in paese-albergo
mignano è sazia di inglesi e americani
che l’hanno conquistata a suon di dollari, allora — si è detto Kihlgren — il
Sud interno resta una prateria tutta da
scoprire, l’osso, la parte più povera e
svantaggiata della penisola, il crinale
di montagne che dall’Abruzzo avanza
giù fino in Campania, poi in Lucania,
quindi in Calabria. Può essere questa
la terra promessa, il domani di un turismo selettivo, colto e danaroso.
Il giovane Kihlgren si è fatto allora
due conti: ha speso quattro milioni di
euro per recuperare un intero borgo e
ha visto che già oggi quei quattro milioni sono divenuti otto. Se lasciasse
tutto e ripartisse in motocicletta,
avrebbe di che sfamarsi. Già oggi, infatti, il mercato immobiliare
di Santo Stefano è così acceso e vivo da
aver fatto decuplicare i valori, portato alle stelle le quotazioni, raccolto portafogli generosi e
appassionati.
Kihlgren
non venderà
però. Non solo
non venderà,
ma continuerà
ad acquistare.
«Il modello di
Santo Stefano
si può replicare. Questo ci
siamo detti e
questo abbiamo fatto. Ci
siamo prima
guardati intorno in Abruzzo,
che è una regione ancora vergine, tutta da scoprire e da amare. Poi siamo
andati in Campania, nella speranza
che si possa avanzare ancora. La Lucania? Chissà».
Occhi puntati e orecchie dritte.
L’uomo compra i paesi, a pezzi o a interi bocconi. Trattative riservate («come mi muovo e chiedo qualcosa, vedo
che i prezzi lievitano fino a deflagrare») e passo felpato. C’è quel borgo
che si chiama Buonanotte, l’altro vicino al lago di Bomba. E la meraviglia di
Rocca Calascio. Poi Monteverde sul
Bello, e ancora in Campania, vicino a
San Felice a Cancello, nella piana deturpata dalle cave e dalla camorra, un
gioiellino nascosto, dimenticato ma
ancora integro. «Ho solo paura degli
autobus. Non voglio farne dei paesi
finti, perciò l’interesse è maggiore dove l’ospitalità diffusa possa coniugarsi a una stanzialità significativa. Voglio la qualità, il mio progetto è innanzitutto culturale, perciò prima di met-
tere mano al restauro di Santo Stefano
abbiamo sottoscritto un’intesa, una
carta dei valori con il Museo delle
Genti d’Abruzzo per la conservazione
e la promozione dei caratteri propri
della cultura materiale, delle merci e
dei mestieri, dell’artigianato storico.
Abbiamo firmato un impegno a fare
tutto nella più completa e fedele ortodossia architettonica, nell’attitudine
— quasi talebana — a lasciare ogni cosa al suo posto, non rubare un metro
quadrato, un sigillo, una porta, uno
scranno di questi posti».
Arredamento d’epoca
Del resto fa molto chic ricreare l’atmosfera. Ma ricreare l’atmosfera costa, e stare dentro una casa contadina,
ogni stanza col suo camino, arredata
con il recupero dei mobili tradizionali fino ai dettagli più minuti, i materassi di lana, le lenzuola degli antichi
corredi, le coperte fatte a mano con i
telai di legno e i colori naturali, ma servita dal teleriscaldamento, con la gestione dell’energia a mezzo di segnali
a bassa tensione per evitare inquinamenti elettromagnetici, e i sanitari extralusso, è un piacere che si paga. Albergo diffuso va bene, cultura povera,
siamo d’accordo, ma le cinque stelle
sono garantite.
I raffinati, dal passo lento e dal portafoglio pingue, avranno quest’altra
meta per stuzzicare i loro pensieri e le
loro opere. E per far sì che i torpedoni
non abbiano mai voglia di lasciare
l’autostrada, Kilghren ha deciso di fare ancora di più: «Dove investiamo, e
qui a Santo Stefano siamo quasi alla fine della realizzazione, vogliamo finanziare gli enti locali che si impegnano a buttar giù le superfetazioni di
cemento, noi li chiamiamo detrattori
architettonici. Credo che sia la prima
volta che un privato spende i suoi soldi per garantirsi un piano regolatore
senza volumi e cubature aggiuntive».
La prima volta, sì. Ed è quasi un mondo capovolto. L’imprenditore Kilhgren, l’immobiliarista Kilhgren non
vuole che si costruisca, e anzi chiede,
dove lui decide di recuperare gli stabili, che si butti giù qualcosa di nuovo. E
pur di vedere le ruspe in azione, paga.
Paga lui, come paga, nel Salento, Coppula Tisa, l’associazione guidata da
Edoardo Winspeare, giovane e promettente regista cinematografico, anch’egli salentino doc, che acquista le
case abusive al solo fine di farne un cumulo di macerie. «Siamo per il bello»,
dice Winspeare. Il sole, il mare.
Il sole, il mare e la montagna, aggiunge Kihlgren.
L’ultima lezione per far soldi: dichiarare guerra all’alluminio anodizzato.
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
il viaggio
Duecento anni fa, il 2 aprile, nasceva Hans Christian
Andersen e Copenaghen sta per celebrare l’anniversario
con feste mirabolanti e testimonial da tutto il mondo.
Siamo andati sui luoghi del grande scrittore, nei suoi
boschi e nelle sue piccole città di legno e cristallo,
per cercare le radici dimenticate di un’arte singolare
Storie da bambini
Alla sorgente delle favole
a sorgente delle favole esiste.
È una casa gialla di legno alta
così, storta e alta che non ci si
sta ritti dentro, e un dolore
nel cuore. È un tavolo da ciabattino e la
paura di essere diversi. È una mamma
troppo alta con un naso troppo grande,
troppi mariti, una mamma triste con un
vestito solo — marrone, a fiori rosa — che
tutti i giorni va giù al fiume a lavare, le mani nell’acqua gelata. È un padre che puzza di colla da scarpe ti costruisce pupazzi di legno e poi muore soldato, un nonno pazzo che gira per strada con un cappello di carta e i bambini che ti canzonano e dicono che sei matto anche tu come
tuo nonno. È il tetto coperto di muschio
il gelo d’inverno e in casa una candela sola, il chiavistello chiuso della prigione all’angolo della strada e il carceriere con
quella cosa legata alla cintura: il mazzo di
tutte le chiavi del mondo, cento chiavi
meravigliose che di sicuro aprono ogni
porta. È il sogno di scappare da qui, di
non esserci mai nato: di essere il figlio del
re, quello che sta nella reggia illuminata
e calda, di certo ha sette materassi per
dormire, essere la regina della neve,
quella che fa diventare tutti di ghiaccio
con lo sguardo così quando sei una statua questo dolore qui che abita dentro
non si sente più. È il sogno di essere il
mercante ricco e furbo, una sirena, un
baccello che fiorisce e diventa una pianta magnifica, un cigno bianco. Di essere
un altro, diventare finalmente l’altro che
da qualche parte sei. Fiorire, trasformarsi. Avere un acciarino che esaudisce i desideri. È l’ago della nonna che si rompe,
è una trottola vecchia per giocarci e una
palla presuntuosa che non vuole parlare
con te che sei un bambino strano: brutto, solitario, lungo e silenzioso. Il pozzo
delle favole sei tu, qui in questo posto in
miniatura dove dopo due secoli tutto
profuma ancora di candele e si sporca di
cenere: sei tu e basta allungare la mano
per prenderne una. Cosa vuoi diventare,
Hans Christian, stasera prima di andare
a dormire sulla tua panca? Vuoi essere il
cane con gli occhi grandi
come la torre rotonda di
Copenaghen, la bambina
alta come un mignolo che
vola via su una rondine, il
baule pieno di tesori, l’usignolo dell’imperatore che
guarisce da ogni male?
C’è una stupenda casa
per bambini qui a Odense,
a dieci metri dalla casa dove nel 1805 è nato Andersen, la madre lavandaia il
padre ciabattino. Si chiama “Scatola di legno”,
“Fyrtojet”. Un posto di betulla e di vetro dove tutti si
tolgono le scarpe, entrando. Hanno in dono una valigetta rossa di cartone, si
apre e dentro c’è un fiocco
di neve di carta, uno spicchio di specchio, un caleidoscopio di legno. Le madri vengono ad allattarci i
figli neonati, bambini bianchi e rosa che
sgusciano dai cappucci delle tute da sci.
La nonne, quasi ragazze anche loro, vengono a portarci i nipoti a giocare. Nessuno piange, nessuno strilla, nessuno rivendica. Ci si dipinge il viso, all’ingresso:
due ragazzi coi pennelli lo fanno. Ci si
maschera con dei mantelli neri di piume, degli abiti di raso bianchi e azzurri, si
mettono cappelli e si impugnano spade
di cartone, bacchette da fata. Poi si corre
dentro la casa e si diventa qualcun altro.
C’è una bambina stamani seduta sul trono della regina della casa dei giochi. Si
chiama Hanna. È una bambina bionda
con gli occhi di ghiaccio, come tante qui.
Guarda gli altri e li gela con lo sguardo,
cattiva. Due servitori vanno ad omaggiarla, due paggi minuscoli. Lei li asseconda condiscendente, un po’ sorpresa
al principio di essere stata riconosciuta
ma poi no perché è ovvio: è lei, oggi, la regina. Torna a fare statue con gli occhi, li
stringe perfida.
La cattiveria dei bambini
I bambini amano Andersen perché possono essere come lui molto cattivi. Cattivi di una cattiveria nitida, utile e senza
colpe. Possono essere egocentrici, anzi
sempre lo sono: esistono loro, poi il
mondo. Possono risentirsi moltissimo
di quel che a un adulto sembra niente.
Possono immaginare quel che poi si dimentica. Indossare un ditale ed essere
Una famiglia
poverissima,
una madre con troppi
uomini intorno,
un fisico sgraziato
e una fisionomia
ripugnante. Per il
piccolo Hans
Christian immaginare
un Altrove, un mondo
incantato, era una
scelta necessaria
tole, corde, giocattoli di latta. No, non
abbiamo la carta di credito, siamo un
negozio molto antico, sa. No, non possiamo spedire niente, no, non facciamo la ricevuta, vede com’è antica la
cassa? Se vuole gliene scrivo una a mano. Ecco, così, con la firma del signor
Krambod in bella calligrafia.
La Danimarca, il mondo intero celebrano i due secoli dalla nascita di Andersen: fuochi d’artificio e spettacoli
mirabolanti in ogni dove, testimoni in
arrivo dai quattro cantoni del globo. Sabato prossimo, il 2 di aprile, sono duecento anni esatti e arrivano a Copenaghen e a Odense per la festa Roger Moore e Suzane Vega, Pelè e Isabel Allende.
Vincenzo Cerami e Paolo Maldini, per
l’Italia, al galà. Celebrano lui perché certo che il luogo dove nascono le favole è
in principio l’animo e la mente di un uomo, di quest’uomo. Hans Christian Andersen era bruttissimo, alto un metro e
85 in un tempo e in un luogo in cui tutti
gli altri erano almeno 25 centimetri più
bassi di lui — illustrano le riproduzioni
d’epoca nel museo della casa natale.
Aveva gli occhi liquidi di cera e una fronte che pareva una montagna, un naso
sterminato, le occhiaie gonfie: era «davvero orrendo», sintetizzano i libri per ragazzi. Nasceva in una famiglia poverissima da una madre che aveva già avuto
una figlia da un padre diverso dal suo e
che avrebbe avuto altri uomini dopo.
Una madre costretta a mendicare, da
bambina. Per la Piccola fiammiferaia,
per il Brutto anatroccolo potrebbe bastare già questo pezzo di storia.
Però poi c’è il luogo: questo posto lindo e minuscolo dove gli orrori sono tutti
chiusi dentro casa, dove fuori sono solo
boschi e castelli, il castello di Amleto e
quello dei conti dei signori, i mulini, le lavandaie, i pazzi, le streghe. «La strega era
ripugnante, col labbro inferiore che
scendeva fino al petto», dice la descrizione all’inizio dell’Acciarinoed è uguale alle vecchie senza denti delle foto di paese
esposte qui. L’ago da rammendo voleva
essere un ago da ricamo, la sirena avere
gambe da donna, il piccolo Claus essere
ricco come il grande Claus. Il soldatino di
stagno voleva essere amato dalla balleri-
na e solo il bambino nel corteo sapeva dire che i vestiti nuovi dell’imperatore erano una truffa, perché tutta quella gente
presuntuosa e stupida, avida del proprio
piccolo potere omaggiava il sovrano assecondando la truffa ma il bambino no.
Il bambino sì che lo vedeva nudo.
Anche adesso, sui giornali danesi — su
tutti — c’è una pagina per i bambini dove i piccoli possono dire ciò che vogliono: che quel parco è mal tenuto e che nella loro scuola la maestra è cattiva. I bambini sono tutti imperatori, qui nella terra
in miniatura. L’industria più importante è ancora quella dei giochi. A Legoland
si celebra Andersen, ovviamente: la nuova linea di mattoncini si chiama Belville
ci si possono fare sirene e stagni. Arrivano piccoli ogni giorno da tutto il mondo
a costruire navi e grattacieli coi mattoncini rossi e gialli: spagnoli, giapponesi,
cileni. Godono del culto della miniatura
che qui è virtù nazionale: nel museo accanto al municipio della Capitale è esposto il più piccolo fenicottero di corallo
mai scolpito, ci vuole un microscopio
per vederlo. Il vanto della città della Lego
è una reggia in scala ridotta di legno e pietre preziose, custodita come un vero tesoro in una stanza ombrosa. Nei bagni
delle case ci sono lavabi piccoli per i piccoli, e sui rubinetti c’è scritto a quanti
gradi uscirà l’acqua perché i bambini
non si brucino. Andersen con le sue forbici enormi (esposte, al museo: grandi
come un coltello da pane) ritagliava miniature di carta velina impalpabili, mostri meravigliosi: un impiccato grande
come l’unghia di un mignolo, un uomo a
tre teste più piccolo di una moneta. Le figurine, riprodotte oggi a centinaia di migliaia, adornano le finestre si illuminano
e fanno ombre con le candele nelle case,
decorano le uova di pasqua, sono sui
tappeti e nelle cartoline. I bambini imparano da piccoli, a scuola, a ricamare
coi pastelli i bordi dei quaderni.
LE MOSTRE IN ITALIA
Qualche cenno sul moltissimo che c’è
in Italia (visitare il sito www. andersen.
it) solo nel mese di aprile. A Roma il 2
alla libreria Mel Giannino Stoppani
prima dello spettacolo «I vestiti nuovi
dell’imperatore» del Teatro Verde. A
Bologna si inaugura il 13, insieme alla
Fiera del libro per ragazzi, la mostra in
due sezioni «Illustrare Andersen». Nella
rassegna «Fieri di leggere» della
Giannino Stoppani di Bologna si
inaugura il 15 una mostra di Beatrice
Alemagna: «Pensieri illustrati di una
bambina di vetro». Ancora a Bologna,
dal 13: «Sirenette di carta e soldatini di
inchiostro» a cura della rivista
Andersen (dal 15 maggio Vittoriale di
Roma). A Milano il 21 (Feltrinelli di corso
Buenos Aires) presentazione del
romanzo «Peer Fortunato».
‘
L’insegnamento della diversità
Di Andersen resta soprattutto il valore
— l’insegnamento — della diversità, in
un paese che oggi vorrebbe chiudere le
frontiere agli immigrati. Era omosessuale, dicono adesso. Anzi, amava uomini e donne ma non ha
mai avuto rapporti in vita
sua: non se ne trova cenno
in nessuna delle molte
biografie, né nei suoi minuti diari. Certo, parlava
molto di sesso, anche —
dicono gli studenti che ci
scrivono tesi di laurea:
perché cosa sarà mai il «seme straniero di orzo» che
la fattucchiera dà alla madre che non può avere figli
e da cui nasce Mignolina?
E cosa ci faceva in casa il
sacrestano che la contadina chiude nella credenza
al ritorno del marito?
È morto ricco, Andersen. Col foulard di seta e il
nastro azzurro al collo.
Senza tornare a Odense a
vedere la madre, è morto
nella villa di campagna dei
Melchior, una delle tante
famiglie che lo hanno infine mantenuto. È morto come voleva essere da piccolo: il figlio del re. Però gli è successo
come nelle sue fiabe: la sfortuna del destino segnato si baratta sempre con
qualcosa. Le gambe per camminare in
cambio della vita, mia piccola sirena.
Due ragazze col chador vogliono metterne uno anche alla statua della Sirenetta, qui al porto stamattina: cercano
di legarglielo al collo, il velo vola in mare, i turisti scattano foto e ridono.
Andersen, anche nelle ville dove ha
viaggiato e vissuto, portava con sè un rotolo di canapa per fuggire dalla finestra
in caso di incendio. Non che ne avesse
mai patito uno: temeva il fuoco, solo. Faceva sogni orribili, non sopportava alcun rumore. Poi di giorno raccontava
storie tristi e bellissime, parabole di
astuzia e di resurrezione. Storie dove si
vince davvero solo quando si muore,
dove gli oggetti si animano e diventano
migliori degli uomini, o peggiori se è il
caso: l’amore passa, se neanche la trottola riconosce più la palla con cui voleva
fidanzarsi, dopo cinque anni passati a
marcire in una grondaia. Storie così tutto il giorno fino alla sera, e poi nei letti finalmente di lino di nuovo i suoi incubi,
gli incendi immaginari. Non si scappa
mai davvero, infine: non c’è un posto
dove scappare da sé. Nemmeno qui in
questo posto incantato. Nemmeno alla
sorgente delle favole.
FOTO CORBIS
L
ODENSE
soldati dentro un’armatura, vedere un
rospo e diventare cicogna per divorarlo.
Duecento anni dopo qui nel posto delle
favole i bambini sono tutti Andersen: sono le sue fiabe, i suoi viaggi fantastici, la
sua vanità e il suo malanimo, la sua voglia di scappare, i suoi travestimenti e le
sue paure. Vivono ancora nei suoi boschi
e nelle sue città piccole di legno e di cristallo, e non importa se al posto della nave per andare da un’isola all’altra ora c’è
il ponte sospeso più lungo d’Europa.
Non importa se nei piatti di ceramica
bianchi e blu — le porcellane danesi, che
prodigio di armonia — invece delle casette sono dipinte le fabbriche, perché i
giovani designer della Royal Copenaghen hanno l’arbitrio di descrivere nei
vassoi di portata ciò che vedono, perciò
le ciminiere, anche.
Non importa quel che è cambiato perché quello che è rimasto uguale è ciò che
conta: il freddo è lo stesso freddo, i cigni
che scivolano goffi camminando sul
ghiaccio sono uguali, i boschi ordinati
come se qualcuno avesse messo gli alberi in fila, le case piccole, le torri minuscole, gli smerli dei castelli, i re nei castelli. Le
candele alle finestre e le tende fatte di ricami, i narcisi che fioriscono nei bulbi
basta appena un po’ di terra che poi non
è neanche terra, per farli crescere: è sabbia. Il caldo dentro le case da gnomi, le
teiere che fumano. Le biciclette al posto
delle carrozze. Il mare, immenso. Uguali sono i poveri e i ricchi, gli orfani e i ragazzi che partono soldati, gli amori infelici, uguale è nel cuore di ciascuno quel
che avrebbe potuto essere e non è: bastava niente, si poteva nascere la principessa amata dal suo principe e invece c’è
stata una strega un errore un ritardo un
sortilegio. È andata così. Non come doveva, nel sogno. Non come nelle fiabe.
C’è un negozio al numero 24 di Nedergade, due strade dietro a quella in
cui viveva lui. Non si sa come stia in piedi, quella casa, sembra disegnata da un
bimbo di tre anni: per salire al primo
piano c’è una scala di legno ripida come quelle delle barche, in tutte le case
ce n’è una così. Ha trecento anni, il negozio: allora era già lì. Vende lanterne e
chiavistelli, pitali e piatti di peltro, trot-
FOTO ROGER VIOLLET
CONCITA DE GREGORIO
Com’era bello, fuori, in campagna! Era estate! Il grano era giallo,
l’avena verde, il fieno era stato raccolto in mucchi nei prati,
dove la cicogna passeggiava con le sue lunghe zampe rosse...
da IL BRUTTO ANATROCCOLO
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
FOTO CORBIS
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA CASA-MUSEO
Qui accanto, un’illustrazione
d’epoca per la fiaba “La regina
della neve” Sotto da sinistra,
“Il brutto anatroccolo”,
“La sirenetta” e “La piccola
fiammiferaia”. Nella pagina
di sinistra, Hans Christian Andersen
e la sua casa natale a Odense,
oggi trasformata in museo
Il paese della convivenza perfetta
Il capolinea
Danimarca
PIERO OTTONE
H
‘
Ecco! Incominciamo. Quando arriveremo alla fine di questa storia,
ne sapremo più di quello che sappiamo ora: sapremo che tutto fu opera
di uno spirito malvagio, uno dei più cattivi, il diavolo in persona!
‘
FOTO CORBIS
FOTOTECA ANDO GILARDI
da LA REGINA DELLA NEVE - tratto da FIABE di Hans Christian Andersen, Einaudi
Lontano, in alto mare, l’acqua è azzurra
come petali di bellissimi fiordalisi
e trasparente come cristallo purissimo...
da LA SIRENETTA
‘
Faceva un freddo tremendo; nevicava,
e saliva la buia notte; era anche l’ultima sera
dell’anno, la vigilia di Capodanno.
da LA PICCOLA FIAMMIFERAIA
o, per così dire, la Danimarca in
casa, avendo sposato una danese,
ma quando sono andato a Copenaghen per la prima volta, mezzo secolo fa o poco più, neanche sapevo che la
mia futura sposa esistesse, e non sospettavo che quel paese relativamente
minuscolo avrebbe acquistato un certo
peso nella mia vita. Ero stato qualche
giorno in Norvegia, a Oslo, a Bergen, fra
i fiordi e le isolette. Poi andai a Stoccolma. La Danimarca concludeva il breve
reportage in Scandinavia. Andai a vedere le solite cose, parlai con un po’ di gente, secondo gli usi del mestiere. E tornai
in Italia con un’immagine chiara nella
testa: la Scandinavia rappresenta il capolinea della civiltà.
All’immagine sono rimasto fedele da
allora, anche attraverso le croci e delizie,
intervenute nel frattempo, della vita coniugale. I danesi, come i cugini scandinavi, hanno alle spalle un passato avventuroso. Hanno combattuto guerre
cruente; conquistato terre straniere, Inghilterra compresa; incrociato le spade
con gli svedesi, con i tedeschi, con i russi.
Hanno fatto fuoco e fiamme, insomma.
Poi si sono ritirati in buon ordine in quel
loro paese che sembra un giocattolo, nelle casette bianche e rosse col tetto di paglia, fra i boschi lussureggianti (piove
spesso) e i prati fioriti, sempre laboriosi,
naturalmente, perché bisogna lavorare
per vivere, ma risoluti a vivere in pace col
mondo, senza dare fastidio a nessuno e
chiedendo che non gli si dia fastidio. Forse Nelson (col bombardamento, 1801, di
Copenaghen) e Bismarck (con la guerra
brutale del 1864) hanno dato una mano.
Quando, dopo l’ultima guerra, i vincitori offrirono alla Danimarca la restituzione di una regione che era stata annessa
nell’altro secolo dai prussiani, i danesi risposero: no, grazie. Meglio vivere tranquilli, evitare le complicazioni. Al momento dell’ultima prepotenza, l’aggressione di Hitler, i soldati in grado di opporre resistenza erano due o trecento.
Perché capolinea della civiltà? Perché i
danesi, in quel loro giardino fiorito, fra
campagne ben coltivate, nelle città ridenti, all’ombra di castelli graziosi che si rispecchiano in laghetti verdazzurri, hanno inventato forme di convivenza quasi
perfette, che non possono essere migliorate: assistenza ai vecchi e ai malati, borse
di studio, giustizia sociale, treni puntuali,
burocrazia efficiente. E dietro le siepi di
quel loro giardino, magico e miracoloso,
raccontano favole. Le favole di Hans Christian Andersen, appunto: il grande favolatore, l’unico grande genio che hanno offerto alla letteratura mondiale.
Che ebbe, per la verità, una vita abbastanza tormentata. Ragazzo povero nato
a Odense all’inizio dell’Ottocento, arrivato a Copenaghen avendo pochi soldi in
tasca e gli zoccoli ai piedi, con la passione del teatro e le idee confuse, brutto e
sgraziato (gli dicevano che somigliava a
una giraffa), fu afflitto per tutta la vita, anche dopo avere raggiunto il successo, da
mille nevrosi e idiosincrasie, un giorno
atterrito all’idea di avere inghiottito uno
spillo, un’altra volta convinto di diventare cieco, perseguitato dal mal di denti,
senza mai capire se fosse omosessuale o
eterosessuale. Ma poi nelle favole sublimava le sue pene. «Mi stavano nella mente come un granello, ci voleva soltanto un
soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d’erba amara, ed esse sbocciavano»:
così lo cita Knud Ferlov, che insegnò danese all’università di Roma, nella prefazione all’ottimo libro con più di cento fiabe, tradotte per Einaudi da Alda Manghi
e Marcella Rinaldi.
Il soffio di vento, il raggio di sole furono spesso procurati dall’Italia, che
scioglieva le sue ansie. Venne varie volte fra di noi. Trovava divertenti anche le
nostre pecche, il vetturino che sbagliava indirizzo e lo imbrogliava, i briganti
che insidiavano le strade («speriamo
che mi facciano fuori, così avrò il piacere di morire in Italia»), i mezzani che
gli offrivano «un ragazzo o una ragazza», a scelta. Alle offerte peccaminose
resisteva: scriveva agli amici che manteneva la sua «innocenza», anche se,
aggiungeva, «nessuno ci crederà». La
pedofilia gli faceva orrore. Ma fra di noi
stava bene: «A Parigi si gela, a Napoli
bolle il sangue». Insomma: i danesi ci
insegnano le regole della convivenza
perfetta, noi offriamo serenità… Ma
qui dovrebbe prendere la parola l’altra
metà del mio ménage, e io mi fermo.
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
Il 6 maggio il latin lover più famoso di tutti i tempi compirebbe centodieci
anni: un anniversario che sta scatenando in giro per il mondo iniziative
e omaggi. Ma l’evento che riporterà alla ribalta la star del muto
è il ritrovamento di una pellicola dimenticata nel magazzino di un collezionista olandese.
L’opera, di cui anticipiamo in esclusiva alcuni fotogrammi, è stata restaurata e sarà
presentata in anteprima mondiale ad Amsterdam il 5 aprile e a maggio al Festival di Cannes
Il film fantasma
del pioniere
dei sex symbol
sta dando nuova linfa alla valentinomania, sindrome che ottant’anni fa trascinò
i suoi fan verso ogni genere di delirio: dai
CASTELLANETA (Taranto)
leggendari suicidi delle ammiratrici alon è rimasto più nessuno,
l’indomani della morte, alle processioni
a Castellaneta, che ricordi
delle dame in nero nel cimitero di Los Anquell’assolato pomeriggio
geles dov’è sepolto; dalle vendite miliodi fine
narie all’asta di ogni
settembre 1923. Rosua reliquia fino ai tendolfo Valentino, già
tativi di colloquiare con
consacrato mito a Hollui nelle sedute spiritilywood, arrivò nel paeche. Oggi il mito risorge
se natale con la sua Buin forme più lucide, nei
gatti blu e — come ritermini di una riconsicorda nel diario privato
derazione degli aspetti
— tutti i ragazzini, ai
meno noti dell’attore,
quali la sua auto doveva
ma con eguale devo«sembrare un drago
zione. Rinasce, non a
sbuffante che scivola
caso, in un ex convento
magicamente lungo la
di clarisse trasformato
strada», si aggrappavain museo dal Comune
no «al paraurti o a quadi Castellaneta, paese
lunque altra sporgenza
di allevatori che finora
per scroccare un pasal suo figliolo più illusaggio». La memoria
stre aveva dedicato bar,
diretta di quel grande
camicerie, villaggi turievento nella piccola
stici; e un monumento
provincia tarantina s’è
che rende così poca
persa con la scomparsa
giustizia all’efebico e
Da
IL
MIO
DIARIO
PRIVATO
della signora Rita, mormuscoloso attore da
Lindau
editore
2004
ta vecchissima tre anni
meritarsi, nel 1961, un
fa, che raccontava a tutposto in Mondo cane, il
ti di aver ospitato il divo
primo documentario
nella sua casa di famiglia, «era così bello»
trash sulle schifezze del pianeta.
e lei era ancora innamorata, a distanza di
L’organizzatore del museo è un attotanti anni.
re-regista romano originario di CastellaI coetanei di Valentino oggi di anni ne
neta, Fabio Salvatore. Per festeggiare il
avrebbero centodieci, età che il più grancompleanno, oltre alla rassegna Il mio
de seduttore del cinema di tutti i tempi
sogno si sta avverando che si chiude il 6
compirà il 6 maggio. Un genetliaco che
maggio a Roma, sta preparando una mo-
DAVIDE CARLUCCI
N
‘‘
Rodolfo Valentino
Le mie ambizioni
volavano molto più
in alto della terra
e abbracciavano
le stelle immortali.
Volevo il successo
Ottanta minuti intitolati Beyond the Rocks,
interpretati insieme a Gloria Swanson:
dovevano servire da lancio per la coppia
stra fotografica (sempre nella Capitale),
un festival cinematografico, uno short
movie, una linea di merchandising con
l’immagine stilizzata di «Rudy» su 110 tshirt diffuse a tiratura limitata.
Il pezzo forte del museo, invece, è un
assaggio dell’evento cinematografico
destinato a rilanciare la fama mondiale
del divo del muto. Un minuto di pellicola, trasposto in un dvd a disposizione dei
visitatori, che vede Rudy gettarsi in acqua per salvare Gloria Swanson sul punto di annegare. È l’unico frammento in
circolazione di un piccolo capolavoro
perduto e ora recuperato: il film, di cui
anticipiamo in questa pagina alcune immagini, è Beyond the Rocks, del 1922. Il
Nederlands filmmuseum ha scoperto tra
il 2002 e il 2004 la pellicola, dimenticata
nell’umido magazzino di un collezionista olandese, e ne ha già ultimato il restauro. Il film sarà presentato ad Amsterdam in anteprima mondiale il 5 aprile e
al festival di Cannes a maggio. «La pellicola — spiega Giovanna Fossati, responsabile dei restauri — si trovava all’interno di un grosso archivio contenente migliaia di pizze. Abbiamo dovuto inventariare tutti i film e, rullo dopo rullo, ricostruire gli ottanta minuti di durata di
Beyond the Rocks».
La Swanson interpreta il ruolo di una
ragazza, Theodora, che deve sposare per
volontà del padre un uomo molto più anziano. Dopo il matrimonio incontra il
rampollo di una ricca famiglia di madre
italiana — dalla quale ha ereditato la bellezza — che l’aveva già stregata, da ragazzina, con il suo fascino: è Lord Hector Bracondale, interpretato da Rodolfo Valenti-
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
DALLA PAGELLA ALLE CANZONI
I CIMELI DEL MUSEO DI CASTELLANETA
A scuola era un disastro: nell’anno scolastico
1904-1905 la pagella di Rodolfo Alfonso Raffaello
Filiberto Guglielmi, esposta nel museo di
Castellaneta, è una sfilza d’insufficienze. Solo in
"calligrafia" il futuro Valentino strappa un sei.
Netta la bocciatura in tutte le altre materie, da
Italiano (5) a Disegno (2). Un dvd a disposizione
dei visitatori del museo propone anche due rare
registrazioni dei dischi incisi da Valentino, El
relicario e The Kashmiri song. Tra le altre
memorabilia, foto inedite, un pezzo della tenda de
Il figlio dello sceicco e immagini del funerale. Nella
foto qui a sinistra, l’estratto dell’atto di nascita di
Rodolfo Valentino; in quella a fianco, la pagella
È stato lui a inventare
la Hollywood dei divi
ANTONIO MONDA
P
IL CAPOLAVORO PERDUTO
Nelle foto in queste pagine, alcune
scene di Beyond the Rocks, il film del
1922, scomparso per decenni e ora
recuperato, che ha come protagonisti
Rodolfo Valentino e Gloria Swanson
no, aitante e ricco playboy che con Gloria,
fatica di Valentino che, per rispettare la
però, scopre il vero amore. Per salvare la
censura statunitense, era costretto a
forma e l’onore, tuttavia, entrambi rinuncontenere la durata dei suoi baci entro i
ciano alla relazione. Sarà poi il marito a
dieci piedi di pellicola. Per il pubblico euscoprirla e a decidere di sacrificarsi per la
ropeo quel limite non valeva e «così — rifelicità della giovane moglie. Con la morcorda la Swanson — la scena di ogni bate del terzo incomodo, l’amore ostacolacio fu girata due volte», una per la versioto della coppia Swanne americana e l’altra
son-Valentino può fiper quella europea». I
nalmente trionfare.
fan di Valentino — proLa trama non è granmette la Milestone, la
ché, ma è normale per
società americana che
un film-veicolo che docurerà la distribuzione
veva servire solo a far
— possono stare tranrecitare insieme due
quilli: il film restaurato
star: la Swanson all’esarà messo in commerpoca era la diva più pacio nella sua versione
gata di Hollywood, con
europea, con i baci in
cachet dieci volte supemisura «extended».
Bravo cantante, ecriori a quelli di Valenticellente danzatore, atno, promettentissimo
tore superbo, Rudy era
emergente ma non anappassionato d’arte e
cora la stella di Sangue e
amava scrivere. Pubarena. Il film, ambienblicò una raccolta di
tato tra l’Inghilterra, la
poesie — Day dreams,
Svizzera e l’Africa, è ricmezzo milione di copie
co di trovate e momenvendute nel 1923 — che
ti spettacolari: lui salva
sosteneva gli fossero
lei in due occasioni (olDa
IL
MIO
DIARIO
PRIVATO
state dettate da grandi
tre che dall’annegaLindau
editore
2004
scrittori del passato nel
mento, mentre sta per
corso di sedute spiritiprecipitare da una rupe
che, attraverso la scritnelle Alpi svizzere) e intura automatica. Una poesia invoca
sieme sognano di trasmigrare verso altre
«pietà, pietà per quelli come loro/che soepoche storiche, per esempio a Versaillo scorgono cieli grigi/da strette finestre
les, alla corte di Re Sole. Espedienti un
di occhi tristi/Quando tutto intorno è glopo’ forzati che, secondo la critica dell’eria celeste». In Money, invece, il denaro è
poca, servivano solo a giustificare un
«Arlecchino nel grande carnevale della vicambio di costume per la Swanson. Nelta./Il segno del dollaro è la tua maschera».
la sua autobiografia, l’attrice ricorda la
‘‘
LA BIOGRAFIA
LA NASCITA
Rodolfo Valentino nasce a
Castellaneta il 6 maggio 1895. Ha un
fratello più grande, Alberto, e una
sorella più piccola, Maria
LA PARTENZA
Il 23 dicembre 1913 Rodolfo
si imbarca alla volta di New York con
un biglietto di seconda classe sul
transatlantico Cleveland
Rodolfo Valentino
Alle volte, in gran
segreto, mi do dei
pizzicotti, alla vecchia
maniera, per essere
certo che non sia
tutto un sogno
IL SUCCESSO
Comincia come ballerino, poi passa
al cinema. La consacrazione nel
1921 con il film “Lo sceicco”. Nella
sua breve vita girerà 37 pellicole
LA MORTE
Rodolfo Valentino muore a New
York, una settimana dopo essere
stato operato per ulcera perforata e
peritonite, il 23 agosto 1926
NEW YORK
uò sembrare un paradosso,
ma il mito retrò di Rodolfo Valentino
poggia le radici nella sua sorprendente, ambigua e seducente modernità. Al di là del fascino spudoratamente latino, l’antica malinconia
dello sguardo, e la naturalezza del
suo “bedroom smile”, ciò che ne ha
fatto la prima e più importante incarnazione del “latin lover”, è stata
l’attenzione spasmodica al culto
della propria immagine ed il modo
in cui ha saputo gestire mediaticamente i pochi talenti e le molte stravaganze, trasformando i capricci, gli
infantilismi e persino le debolezze in
modelli mitici ed inarrivabili.
Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre
Filiberto Guglielmi di Valentina
D’Antonguolla utilizzò per intero il proprio nome fin quando
gli servì a darsi un tono di nobiltà, ma lo
cambiò non appena
si rese conto che era
improponibile per
le esigenze di immediatezza del cinema. Nella propria autobiografia,
scritta quando
aveva solo ventotto anni, confessò
che il suo destino
era segnato dal
fatto di essere
nato nel 1895, lo
stesso anno in
cui fu inventata
la settima arte,
ma l’unico sogno che ebbe
fin quando
visse in Italia
fu quello di
andar via da
Castellaneta ed affermarsi come ballerino. Si trasferì
in America a diciotto
anni, e comprese immediatamente che nel secolo che era iniziato da poco l’immagine sarebbe
stata importante come la sostanza,
e, soprattutto, che le relazioni
avrebbero avuto maggior peso dell’effettiva qualità.
Il suo primo lavoro fu quello di
gigolò, e fu grazie a una signora attempata che non riusciva a resistere alla sua «bellezza all’olio d’oliva»
che riuscì a lavorare come giardiniere presso il miliardario Cornelius Bliss, il quale lo prese in simpatia fin quando non scoprì che si divertiva a guidare di nascosto le sue
motociclette. Utilizzò la carta intestata con l’indirizzo di Bliss per
scrivere alla madre di una inesistente ricchezza raggiunta nel paese delle opportunità, e quando venne licenziato in tronco fu costretto
a dormire per un lungo periodo a
Central Park. Il momento più disperato della sua vita coincise con
l’incontro con Bonnie Glass, che lo
fece debuttare come ballerino al
Maxim’s e seguì i primi passi dell’irresistibile ascesa nel firmamento dello spettacolo.
Sin dai primi passi comprese
che la settima arte aveva bisogno
di una personalità assolutamente
nuova, e contrariamente a quanto
gli suggerivano gli agenti decise
che avrebbe esaltato la propria avvenenza prettamente latina. Il
“Signor Rodolfo”, come si firmò in
quei primi anni, si fece notare per
un’inedita e rivoluzionaria sensualità, che si esprimeva in particolare nelle scene in cui dimostrava il proprio talento di ballerino.
Ma la modernità del personaggio
risiede soprattutto nell’aver intuito immediatamente i meccanismi
fondamentali di una Hollywood
ancora in via di formazione. Dal
momento in cui venne consacrato divo di prima grandezza nei
Quattro cavalieri dell’apocalisse,
nel quale lanciò la moda del tango, Valentino comprese che il lin-
guaggio delle immagini in movimento si ciba di fotogrammi anche nella quotidianità, e che la
sorte di un sex symbol è quella di
eternare in ogni momento il gioco
della seduzione.
La sua sessualità fu incerta come
quella di molti divi contemporanei, dei quali fu un antesignano anche per la capacità di manipolare
scientificamente il proprio look: si
fece crescere la barba ad uso e consumo dei fotografi, e se la tagliò di
fronte allo scatto degli obiettivi per
il sollievo di milioni di fan. Discusse nel dettaglio i costumi, le pettinature e persino la lunghezza delle
basette, e considerò la privacy un
controsenso rispetto alla sua vita
da star. Negoziò con i giornalisti la
possibilità di fotografare la sua
splendida tenuta di Falcon Lair, e
riuscì a far diventare notizia perfino i cambi di arredamento. Il matrimonio di sei ore con Jean Acker
precede di quasi cento anni il gesto
analogo di divi contemporanei,
che riflettono tuttora con i loro publicist su come Valentino abbia fatto a far attribuire le responsabilità
di questo fiasco morale e sentimentale alla sua partner, “colpevole” di non aver rivelato di essere lesbica. Quando sposò Natasha
Rambova senza preoccuparsi di
annullare il matrimonio precedente, venne incarcerato per bigamia,
ma riuscì a trasformare il caso in un
nuovo strumento mediatico, affermandosi come una star al di sopra
delle convenzioni.
Il trionfo sul grande schermo
con Lo Sceicco e L’Aquila gli diedero la forza di sfidare i capi degli studios, che ebbe l’intelligenza di
mettere l’uno contro l’altro, riuscendo sempre a strappare i contratti alle condizioni più favorevoli. L’indipendenza di carattere assolutamente inedita nella Hollywood di quegli anni ingigantì il
suo mito agli occhi dei fan, ma fu
anche il motivo per cui cominciarono a propagarsi le dicerie relative alla sua sessualità, alle quali rispose facendosi vedere perennemente in giro con la moglie Natasha e la sensualissima amante Pola
Negri. Restaurò la propria fama
con un libro di poesie crepuscolari
che divenne un immediato best
seller, e con innato senso dello
spettacolo sfidò a un incontro di
boxe un giornalista che lo aveva definito «un piumino di cipria rosa».
Il giorno in cui crollò al suolo
per un ulcera perforante che lo uccise dopo otto giorni di agonia,
capì immediatamente di essere
arrivato alla fine del suo viaggio.
Aveva compiuto da poco trentun
anni e aveva sentito l’ebbrezza di
aver conquistato un mondo che
voleva considerare reale. Anche il
momento estremo si colorò di una
leggenda che venne amplificata
dalla stampa: c’è chi scrisse che
fosse stato avvelenato dalla gelosissima Natasha o da un’amante
non corrisposta. Quando le sue
condizioni si aggravarono si riunì
fuori dell’ospedale una folla immensa e disperata, e la famiglia
diede disposizione di preparare in
segreto una statua di cera per la
camera ardente. I fan venerarono
senza saperlo l’idolo dell’idolo, e
poi riempirono le strade per due
funerali passati alla storia: se a
New York la bara venne portata a
spalla dal capo della Paramount
Adolph Zukor, a Los Angeles l’onore toccò a Charlie Chaplin e
Douglas Fairbanks.
Lasciò dietro di sé due vedove autentiche ed una infinità di aspiranti
tali, tra cui una misteriosa donna vestita di nero che per molti anni portò
fiori sulla sua tomba nell’anniversario della morte. Fu lo stesso Valentino a dare disposizione di lanciare
delle rose da un aereo durante la cerimonia hollywoodiana per negare
con il gesto spettacolare la realtà degli enormi debiti accumulati negli
ultimi anni. Il mito era già immortale e non riuscì ad offuscarlo neanche
la pubblicazione del testamento,
nel quale lasciò alla moglie soltanto
un dollaro di eredità.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
Esce per la prima volta in italiano “Brother Ray”, l’autobiografia
nella quale l’artista scomparso lo scorso giugno si racconta e si confessa.
Un libro che svela episodi inediti e segreti della sua esistenza e di cui
anticipiamo i brani più significativi. L’infanzia difficile, il dramma della cecità, gli eccessi,
l’amore per le donne e quello, ancora più forte, per la musica: così “The Genius” ha voluto
mettere nero su bianco la storia di una vita spesa con passione all’inseguimento di un sogno
Così il bimbo del ghetto
diventò il genio del soul
te disgrazie, ha avuto la fortuna di possedere un talento unico: saper comunicare
rima di cominciare, facon il mondo attraverso la musica.
temi dire subito che soBrother Ray è un libro affascinante, dino un ragazzo di camvertente, in grado di offrire, a differenza di
pagna. E guardate che
molti altri libri biografici, un ritratto vero
per campagna intendo
e appassionato dell’uomo e della sua muuno di quei posti verdi
sica. Ovvio? Non troppo, perché in linea
alberati lontani da tutto!». Un ragazzo di
di massima le autobiografie degli artisti
campagna. Come se lui, il grande “frateltendono a dipingere ritratti non del tutto
lo Ray”, l’uomo che ha scritveritieri, a glissare sulle vere
to e cantato alcune delle più
motivazioni che hanno
belle pagine della storia delspinto verso alcune scelte
IL MAESTRO
la musica popolare del sepiuttosto che altre, tralasciaNat “King” Cole
colo appena trascorso, che
no i momenti di debolezza, i
«Anche allora sapevo che Nat Cole era il più grande di
era in grado di commuovefallimenti, gli errori, puntansempre», scrive Ray Charles nella sua autobiografia. «I
re fino alle lacrime il proprio
do a far aderire l’immagine
bianchi sapevano accettarlo perché faceva roba che
pubblico, o di travolgerlo
del “divo” a quella idealizzacapivano, e la faceva con grande sentimento. È strano,
nell’estasi del ritmo e della
ta che ne hanno i fan. Ray
ma in tutti quegli anni in cui lo copiavo non ci pensai mai
passione, fosse davvero una
Charles, invece ha provato a
troppo, non mi sentii in colpa perché gli copiavo i trucchi»
persona come tante. Eppuraccontare se stesso con il
re inizia così Brother Ray,
massimo possibile della
l’autobiografia che Ray
onestà. Non c’è tutto, ovviaCharles scrisse alla fine demente, ma c’è molto di
gli anni Settanta con l’aiuto
quanto ci dovrebbe essere,
di David Ritz. Ed è con quedai matrimoni falliti all’esto tono, diretto, colloquiasperienza della droga, dagli
le, che il grande musicista
errori artistici e manageriali
afroamericano racconta la
a quelli personali: «Ho decisua vita, le vicende personaso di raccontare tutto», scrive
li, la sua arte, l’inarrestabile
Charles nell’introduzione.
passione per la musica, gli
«Guardando nel mio passato
L’ALLIEVO
amori, i drammi, i momenti
non sono riuscito a trovare
Joe Cocker
bui e i grandi successi, in un
niente che andasse censura«Oggi sento dei cantanti che secondo me mi
volume che oggi viene proto. Non c’era motivo per non
assomigliano», prosegue “The Genius” nel libro. «Joe
posto, per la prima volta in
essere franchi. Quello che è
Cocker, per dirne uno. Diavolo, lo so che è un tipo che
Italia, aggiornato fino agli
fatto è fatto». Charles è a tratprobabilmente i miei dischi se li porta pure a letto. Ma non
ultimi giorni della sua vita,
ti autoindulgente, come si
mi importa. Sono lusingato; e lo capisco. Io in fin dei conti
dalla casa editrice Miniaddice a chi racconta se stesfacevo la stessa cosa»
mum Fax. Una vita che, per
so in un libro, ma allo stesso
quanto “The Genius” si
tempo, con sapienza, offre
sforzi di ridurre tutto alla
anche alcuni dei suoi lati
semplicità dell’esistenza, non è stata
peggiori, cercando di non nascondere
davvero la vita di un qualsiasi “ragazzo di
troppo i difetti (l’egocentrismo, l’infecampagna”, piuttosto la straordinaria
deltà, l’amore per il denaro) che hanno
avventura di un uomo che, al di là di molcontribuito, al pari dei pregi, a fare di lui
uno dei personaggi più importanti della
musica americana del Novecento.
Il libro è, infatti, anche e soprattutto il
racconto di un eccezionale cammino,
quella di un musicista che ha contribuito
in maniera determinante a definire la
musica popolare moderna. È stato il primo a fondere gospel e rhythm’n’blues, è
stato tra i padri del rock’n’roll, è stato tra
gli “inventori” della soul music, ha predicato la lingua del countrye quella del pop,
ha dimostrato che l’arte dell’interpretazione è una delle arti più difficili e personali del mondo.
E, come hanno sottolineato molti dei
suoi estimatori, ha dimostrato che la soul
musicnon era necessariamente un genere ma un “modo” di interpretare la musica e la vita, una vera e propria predisposizione dagli esiti teoricamente illimitati.
Chi lo ha visto suonare e cantare dal vivo
almeno una volta ha avuto modo di comprendere che per Ray Charles quello della musica non era un mestiere ma, come
diceva lui, “l’essenza”: se era sul palco di
Sanremo a cantare una canzone di Toto
Cutugno, come è accaduto davvero, era
in grado di prendere quella melodia e donargli l’anima, trasformandola profondamente, facendola diventare un gioiello; se era assieme a qualche giovane rampollo della musica nera odierna era capace di dare lezioni non di musica ma di
ERNESTO ASSANTE
«P
“Guardando nel mio
passato non sono
riuscito a trovare
niente che andasse
censurato. Non c’era
motivo per non essere
franchi. Quello che
è fatto è fatto”
stile, muovendo le mani sul pianoforte
con la sicurezza di chi conosce non tanto
la musica quanto la vita.
Ed è la vita che esce forte e inarrestabile dalle pagine di questa autobiografia.
Una vita fatta di tante piccole cose (le torte della Mamma, scritta sempre con la
maiuscola, le monetine del signor Johnson che invece a comprare caramelle
servivano ad alimentare il jukebox del
bar, le liti con le fidanzate e le mogli) e di
grandi momenti (l’incontro con Art Tatum, «non una di quelle cosette tipo il
presidente di una nazione, o un primo
ministro, o un attore di fama internazionale. Era Art Tatum», di canzoni indimenticabili e di momenti difficili, di
donne («Molte di più di quanto sia in gra-
DOMENICA 27 MARZO 2005
do di ricordare»), e di musicisti. Una vita
che avrebbe schiacciato in terra molti, e
che invece Ray Charles ha affrontato
sempre a testa alta, rialzandosi dopo
ogni caduta, salendo sempre un gradino
più in su, senza mai fermarsi, nemmeno
negli ultimi anni, quando la vecchiaia
aveva tolto smalto e superbia al ragazzino d’un tempo, ma non aveva spento la
passione per la musica.
Brother Ray non è soltanto un autobiografia ma anche una fotografia, particolarissima, dell’America, con i suoi
pregi e i suoi difetti, raccontata con semplicità, l’America degli anni Cinquanta e
Sessanta soprattutto, vista con gli occhi
di un afroamericano che doveva combattere ogni giorno contro il razzismo
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
(«Non è che vada tanto a sbandierarlo in
giro, ma sono stato uno dei primi artisti a
beccarsi una denuncia per aver rifiutato
di esibirsi compiacendo i bianchi»).
Un’America nella quale si muove un ragazzino di straordinario talento che suona il pianoforte come un diavolo e canta
come un dio.
C’è tutto Ray Charles, insomma, in
questo libro, c’è il racconto della cecità,
a sei anni, a causa di un glaucoma, e
quello degli esordi nel mondo della musica, alla fine degli anni Quaranta, quello della ribellione alle regole del sistema, quello del successo, arrivato all’inizio degli anni Cinquanta e cresciuto in
maniera esponenziale fino a fare di
Charles uno dei grandi divi della musi-
ca nera, quello della dipendenza dalla
droga, che lo porterà in prigione negli
anni Sessanta e, addirittura, ad abbandonare le scene per più di un anno. Ci
sono molte storie all’interno di questa
affascinante storia, raccontata con il tono del dialogo tra amici, senza pretese
letterarie, senza inutili abbellimenti,
molti aneddoti divertenti e molti tragici, nei quali Charles si presenta spesso
per quello che era, con molti limiti personali e grandi pregi artistici. David Ritz
ha aggiornato il libro, portandolo fino
alla fine con una necessaria appendice,
per chiudere il cerchio e consentire a
Ray di uscire di scena, come è stato per
gran parte della sua vita, con un ultimo,
scrosciante applauso.
‘‘
POVERO CON LA “P” MAIUSCOLA
‘‘
LA MUSICA DENTRO
‘‘
VERSO IL BUIO
‘‘
LA SCELTA DELLA DROGA
‘‘
AMORE E SESSO
Avete presente quelli che dicono
di essere poveri? Sentite me:
quando dico che eravamo poveri,
intendo poveri con la P maiuscola.
Anche rispetto agli altri neri
di Greensville noi eravamo
sul primo piolo della scala
e dovevamo guardare tutti
dal basso. Sotto di noi c’era solo
la terra. Per dire, ero già
abbastanza grandicello quando
ricevetti il mio primo paio
di scarpe. Il bagno dentro casa,
neanche ce lo sognavamo
Sono nato con la musica dentro. È
l’unica spiegazione che so darmi,
visto che nessuno dei miei parenti
sapeva né cantare né suonare uno
strumento. La musica era una delle
parti di cui ero composto. Come le
costole, il fegato, i reni, il cuore.
Come il sangue. [...] Era una
necessità, come il cibo o l’acqua. E
dal momento in cui appresi che sul
pianoforte c’erano dei tasti che
potevo pestare, cominciai a
pestarli, cercando di fabbricare dei
suoni a partire dalle mie emozioni
Diventare ciechi. Suona come un
destino peggiore della morte, no?
Qualcosa che travolgerà un bimbo,
lo spaventerà, lo lascerà mezzo pazzo
e pieno di tristezza. Be’, non è andata
così, almeno per me. Forse perché
ci sono voluti due anni prima che
perdessi la vista completamente. [...]
E credo sia questo il motivo per cui
non ho mai avuto troppa paura. [...]
All’inizio riuscivo ancora
a distinguere le forme più grandi,
poi solamente i colori, e alla fine
nient’altro che il giorno e la notte
Per 16 o 17 anni ho fatto uso
regolare di sostanze varie e non
incoraggerei mai nessuno a fare
il coglione con la droga. Eppure,
forse qualcuno si stupirà, non ho
nessun racconto dell’orrore da
farvi. [...] Per cui non posso vendervi
luoghi comuni. L’argomento è
troppo importante. Posso solo dirvi
quello che è successo a me e dirvelo
chiaro e semplice. Non è colpa di
nessuno. Sono stato io a decidere.
[...] E poi, per quanto suoni folle,
non ho rimpianti
Sono sempre stato senza freni in
fatto di donne, e solo ora riesco a
capire come la mia lunga serie di
avventure abbia finito per
distruggere il mio matrimonio. Le
donne sono la mia ancora. [...] Non
dico di averne amate chissà quante.
Amore è una parola speciale, e io
la uso solo quando la sento
davvero. [...] Ma il sesso è un’altra
cosa . Non credo che di sesso se ne
possa mai fare troppo. Per me è
una delle tante esigenze quotidiane,
come mangiare. Se sto senza per 24
ore di fila, mi viene fame
DOMENICA 27 MARZO 2005
spettacoli
Note politiche
EDMONDO BERSELLI
L
a politica non canta più.
Nei congressi di partito
hanno preso in prestito
qualche cantautore. Si sono ascoltate La canzone
popolare di Ivano Fossati,
che di politico non ha nulla, Viva l’Italia di Francesco De Gregori, addirittura Una vita da mediano di Luciano Ligabue, che dovrebbe evocare una misteriosa analogia fra Oriali e Prodi.
Sono citazioni e allusioni più che
inni, metafore invece che proclami
cantati. Della vecchia musica politica
rimane nella memoria collettiva solo
qualche traccia convenzionale, Bandiera rossa e una strofa dell’Internazionale. Chissà chi ricorda più l’inno
scelto dalla Dc, O biancofiore, composto nel 1907 da don Dario Flori, un seguace di Romolo Murri. Oggi suona
paradossale che nei giorni politicamente bollenti della campagna elettorale del 1948, mentre quelli del
Fronte popolare cantavano «Il 25
aprile / c’è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana», i democristiani potessero mobilitarsi cantando il grottesco aulico
della loro strofa: «Udimmo una voce,
corremmo all’appello. / Avanti la croce del re d’Israello! / Avanti cantiamo
la nostra canzone: / estrema tenzone
ci attende: corriam!».
Per un tuffo in un repertorio generale dei canti politici è dunque utilissimo il nuovo libro di Stefano Pivato,
Bella ciao. Canto e politica nella storia
d’Italia (pagg. XII-362, euro 18), un
volume scritto in collaborazione con
Amoreno Martellini che Laterza
manda in libreria dal 14 aprile. Pivato
insegna storia contemporanea a Urbino ed è avvezzo ad affrontare la vicenda italiana per via laterale: fra i
suoi libri si può ricordare Il nome e la
storia (1999), che trattava l’onomastica in relazione alle fedi politiche del
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
L’Ottocento e il Novecento sono secoli permeati
da musiche di liberazione e disperazione,
di rassegnazione e lotta. Prima la Marsigliese,
poi i canti del risorgimento e delle guerre mondiali
e infine Bella ciao. Un libro adesso riordina
il pentagramma di una tradizione scomparsa
Quando le canzoni
facevano la Storia
nostro paese; e La storia leggera
(2002), un saggio dedicato all’uso pubblico della canzone, che costituisce
l’antecedente diretto di
questo nuovo lavoro.
Oggi la politica non si fa
canzone perché la retorica
dei partiti ha trovato altri
strumenti, e nell’epoca della politica “fredda”, del populismo elettronico, del
riformismo spassionato,
della postpolitica e del disincanto, il sentimento viene
espunto dal circuito politico.
Invece, quando la politica era
calda, nel mondo incantato
delle grandi religioni terrene,
dalla Rivoluzione francese in
poi, gli inni e le canzoni hanno
fuso il sentimento di massa con
le posizioni di parte. Facendo leva sulla matrice di ogni canto politico, La Marsigliese, l’Ottocento
e buona parte del Novecento sono
secoli canori, permeati da note di
liberazione, di riscatto, di disperazione, di rassegnazione e di lotta.
Pivato ha il merito e la capacità di
mettere le mani in un sedimento
culturale di una vastità impressionante, e di una varietà insidiosa.
Perché è vero ad esempio che la rivoluzione nazionale e lo spirito risorgimentale si sono cristallizzati nei più
popolari inni garibaldini, «Si scopron
le tombe, si levano i morti», oppure
nell’irredentismo esaltato di «Morte a
Franz, viva Oberdan!». Ma in parallelo
l’immaginario dell’Ottocento rispecchia anche l’inclinazione borbonica
delle plebi meridionali, «Viva, viva
BELLA CIAO
Sulla canzone politica
il nuovo libro di Stefano
Pivato pubblicato da Laterza,
“Bella ciao. Canto e politica
nella storia d’Italia”
Ferdinando, nostro padre, nostro re»,
fino agli exploit goliardici e reazionari che esaltano la revanche antifrancese all’epoca della Repubblica partenopea: «È venuto lu papa santu /
ch’ha portato li cannoncini / p’
mazzà li giacobini / et voilà et voilà
/ caici in culu a li libbertà». Così come nella Sicilia subito dopo l’Unità, nel clima del Gattopardo, ecco una protesta contro l’amministrazione sabauda, «Governu ‘talianu è vero buttanu / ci suca lu
sangu a lu povir’omu», in quanto
«c’è tassa ppi tuttu: manciari e
biviri, / vigghiari e durmiri,
campari e muriri!».
Insomma, anche nella politica cantata si manifestano linee diversissime, una classicamente di sinistra e altre a
essa estranee se non opposte.
La prima si esprime con gli
inni del movimento operaio,
«Su fratelli, su compagne /
su venite in fitta schiera», e
rievoca lo strazio degli
anarchici cantato da Pietro
Gori, «Addio, Lugano bella
o dolce terra pia». Siamo
nel 1895; poche stagioni
dopo, nel maggio del
1898, la repressione
cruenta operata a Milano dal
generale Bava Beccaris originava un
epicedio disperato: «Alle grida strazianti e dolenti / di una folla che pan
domandava / il feroce monarchico
Bava / gli affamati col piombo sfamò».
Ma accanto agli inni “di classe”, ossia alle canzoni di filanda, ai canti delle mondine, ai lamenti dell’emigrazione, con la Belle Époque prendono
l’aria anche i primi ritornelli nazionalisti: «Avvolta nella bandiera tricolore
— racconta Pivato — la famosa chanteuse Gea della Garisenda infiamma
gli animi degli spettatori dei teatri di
varietà quando intona “Tripoli bel
suol d’amore…”». Intorno alla Grande guerra è un fiorire di canti, ora eroici ora luttuosi, che evocano la parola
patria: simboleggiati dal più famoso
fra tutti, La leggenda del Piave di E. A.
Mario, a cui si riferì Benito Mussolini
parlando di «quel brivido sottile che
percorre le membra quando si sentono le sue note».
Sul fronte fascista c’è la «maschia
gioventù», il «santo manganello», la
«primavera di bellezza», la «bella
morte» dei militi della Rsi. A sinistra i
canti della Resistenza, Pietà l’è morta,
Fischia il vento, infuria la bufera, le
esecrazioni triviali della Badoglieide.
Dopo L’attentato a Togliatti del cantastorie emiliano Marino Piazza, la
canzone politica sarebbe transitata
oltre la prima modernizzazione soprattutto con il Cantacronache di
Fausto Amodei, Sergio Liberovici e
Michele Straniero.
Proprio Per i morti di Reggio Emilia
di Amodei è forse l’ultima grande
“canzone popolare”, una narrazione
fissatasi nella memoria contemporanea (insieme a Contessa di Pietrangeli, ma con ben altra tensione epica).
Dopo di allora, secondo Pivato, per
cercare la politica in musica bisogna
trovarne le tracce in certe suggestioni di Tenco, nelle allegorie di De Andrè e di De Gregori, a cui si deve il rilancio più progettuale della canzone
politica, Il fischio del vapore, un disco
realizzato con Giovanna Marini. Ma
non è più la stessa musica. Anche se
alla fine i movimenti chiudono il cerchio recuperando Bella ciao e trasformando la tradizione in un canto
di protesta “globale”.
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
i sapori
Le ultime cifre Istat danno in crescita sia i consumi
interni che le esportazioni. Ma il mercato globale
è ricco di concorrenti. Così dal 7 all’11 aprile
a Verona produttori, sommelier, degustatori
e semplici curiosi si troveranno per capire dove va
l’Italia delle vigne, delle cantine e dell’enoturismo
Tempo di Vinitaly
itinerari
San Vigilio
Uno dei luoghi più incantevoli
del lago di Garda, con la
passeggiata sul lungolago
e il centro storico dominato
dal colle della Rocca.
Oltre la punta, da vedere
la baia delle Sirene
DORMIRE
LOCANDA SAN VIGILIO
(con cucina)
Punta San Vigilio
Tel. 045 7256688
Camera doppia da 120 euro,
colazione inclusa
Il veronese Giancarlo
Perbellini è uno dei
migliori chef di nuova
generazione. Nella sua
“offelleria”, a pochi
km dal ristorante di
Isola Rizza (www.perbellini.com),
si preparano colombe, offelle
e pandori di qualità eccezionale
acquistabili on line
Soave
Valeggio sul Mincio
Deve il nome ai suoi fondatori
(Svevi). Circondata da una cinta
muraria con 24 torrioni, è adagiata
ai piedi di tre valli, dove le colture
della vite e dell’ulivo hanno
radici millenarie
Imperdibili le fortificazioni
medievali (castello Scaligero,
ponte Visconteo) e il bellissimo
Borghetto, antico villaggio
di mulini sul fiume. E’ zona
d’eccellenza per i tortellini
DORMIRE
DORMIRE
CENTRO SAN FELICE
(con cucina)
Località San Giacometto
Illasi. Tel. 045 6520586
Camera doppia da 70 euro,
colazione inclusa
AGRITURISMO CORTE
Marzago
Località Le Bugne
Tel. 045 7945104
Camera doppia da 60 euro,
colazione inclusa
MANGIARE
MANGIARE
Il PORTICCIOLO
Lungolago Marconi 22
Lazise
Tel. 045 7580254
Chiuso il martedì, menù da 30 euro
LA TERRAZZA
Via Cesari 1
Montecchia di Crosara
Tel. 045 7450940
Chiuso domenica sera e lunedì,
menù da 50 euro
BOTTEGA OSTERIA AL PONTE
Via Michelangelo Buonarroti 24
Località Borghetto
Tel. 045 6370074
Chiuso mercoledì,
menù da 30 euro
COMPRARE
COMPRARE
COMPRARE
ENOTECA ALLA CALLE
Via Calle Dei Sottoportici 5, Garda
Tel. 045.7256485
CANTINA DI SOAVE
viale Vittoria 100
Tel. 045 6139811
PASTIFICIO ARTIGIANO
Via Sala 24
Tel. 045 7951630
MANGIARE
Vino
9 mld
Il settore vinicolo nel 2004
ha fatturato 9 miliardi di euro
LICIA GRANELLO
S
iete tra quelli che se chiudono gli occhi faticano a distinguere un bianco da un
rosso? Oppure avete allestito la vostra cantina come un
piccolo santuario? Il trentanovesimo Vinitaly — in programma
dal 7 all’11 aprile — fa comunque per
voi. Perché non esiste fiera più trasversale, caotica, onnicompensiva, democraticamente divisa tra degustazioni
pateticamente inutili e meravigliosamente imperdibili, tra affaristi trafficoni e produttori specchiati, tra piccole produzioni di alta qualità ed etichette da grandi numeri di mediocrità
imbarazzante (a volte anche il contrario, ma è più difficile), capace di emozionare, annoiare, mettere in ansia,
stupire i suoi frenetici, tantissimi visitatori.
È la tipologia stessa del Vinitaly, ad
attrarre irresistibilmente addetti ai lavori e curiosi, semplici appassionati e
gente che col vino ci campa da generazioni. Esistono le fiere-bomboniera
come il Merano Wine Festival di novembre — i produttori che servono
personalmente i vini, le cene di gala, il
cotè gastronomico in primo piano — o
appuntamenti iperprofessionali come il Vinexpò, in programma a Bordeaux la terza settimana di giugno —
*
Sagrantino
Montefalco
25 anni 2001
Arnaldo Caprai
Un rosso
di grande forza
e ampiezza, ma
senza sbavature.
In enoteca
a 60 euro
Il Made in Italy tutto da bere
stand di studiata bellezza, degustazioni eleganti, la Francia enologica al
gran completo — entrambi pieni di
meriti e di fascino.
Ma il Vinitaly ci appartiene perché è
cresciuto con noi: da occasione per
trangugiare tutto quanto arraffabile
sui banchi — quanti biglietti regalati ai
bar per riempire gli stand… — a luogo
di appuntamenti incrociati per ristoratori ed enotecari, vignaioli e agenti
di vendita, dove le bottiglie diventano
occasione e strumento per agguantare un pezzo di futuro economicamente più stabile. Tutti un poco più
confortati, quest’anno, dalle ultime
analisi Istat, che annunciano una risalita nei consumi familiari (otto milioni
di bottiglie in più), dato rimarcato dal
primato del vino nell’export agroalimentare.
Ma come affrontare la fiera senza
strapazzare troppo il fegato o far
esplodere i palloncini misura-alcol
*
La Top Ten
Qui sotto i migliori 10 vini italiani secondo
il mensile di Milano Finanza "Gentleman",
che ha reso omogenei e poi sommato
i punteggi delle 5 principali guide di settore
(Ais, Espresso, Gambero Rosso/Slow Food,
Luca Maroni, Luigi Veronelli)
Masseto 2001
Ornellaia
Una bella
conferma per
il più prestigioso
tra i Merlot
italiani, fine
e intenso.
In enoteca
a 130 euro
Barbaresco
Rabaja 2001
Bruno Rocca
Un mirabile
assemblaggio di
frutti maturi, dagli
accenti profondi
e fragranti.
In enoteca
a 50 euro
nel raggio di cinque miglia? Il decalogo del buon visitatore prevede che la
giornata cominci con una colazione
abbondante — gli esperti consigliano
anche un paio di cucchiai d’olio per
“foderare” le pareti dello stomaco. Nel
caso, prima di entrare al Vinitaly, passare dagli stand del Sol — che ci si porti appresso una o più bottigliette d’acqua per stemperare la quantità d’alcol
ingoiata, e che non si accettino tutti gli
assaggi proposti.
Se invece gli affollamenti vi inquietano, lasciatevi la Fiera alle spalle e godetevi una passeggiata nel cuore di Verona: al palazzo della Gran Guardia,
ogni giorno dalle 17 alle 22, troverete
centinaia di vini di fascia alta in degustazione (10 euro per tre assaggi di vini, uno di olio, guida e bicchiere compresi). Oppure spostatevi in piazza Zagata e godetevi il bel programma di
Critical Wine-Terra e Libertà, la manifestazione di enologia etica creata da
Luigi Veronelli, alla cui memoria verrà
dedicata l’edizione di quest’anno.
Scoprirete che la terra e il vino sono
molto più inestricabilmente legati di
quanto sembri bevendo certe bottiglie: tanto perfette e algide da somigliare più a un prodotto di catena di
montaggio che a una creatura viva (come dovrebbe essere il vino).
Bolgheri Rosso
Superiore
Ornellaia 2001
Vendemmia
magica per uno
dei Super Tuscans
più famosi
del mondo.
In enoteca
a 85 euro
Barbaresco 2001
Gaja
L’ennesimo
Gran Rosso
del vignaiolo
che ha imposto
il Barbaresco
nel mondo.
In enoteca
a 120 euro
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
54 mln
L’Italia nel 2004 ha prodotto
54 milioni di ettolitri di vino
IL PREMIO “CARTA DEI VINI”
Con uno sponsor astemio
(un’acqua minerale) e il supporto
Ardi, Associazione Internazionale
ristoranti d’Italia, via al concorso
“Migliore carta dei vini”, riservato
ai ristoranti italiani di qualità all’estero.
Diecimila gli invitati, segno che il
mercato estero – qui filtrato dalla
casa-madre Italia – è considerato un
canale privilegiato per lo sviluppo dei
consumi di bottiglie nazionali. Si
premiano: miglior carta dei vini, scelta
più creativa, migliore selezione
italiana, servizio innovativo
Come vincere la scommessa dell’export
Mettete in bottiglia
terra, storia e cultura
ENZO VIZZARI
I
VINI ITALIANI & PIATTI EUROPEI
I piatti dell’alta cucina europea
abbinati alle etichette nazionali. Due
gli appuntamenti quotidiani del
“Wine&Food Paring”, per gustare le
ricette-culto di 4 tra i migliori cuochi
stranieri under 40, membri
dell’associazione Jre, giovani
ristoratori europei. Saranno gli stessi
chef (il francese Jean-Jacques Daumy
di La Cignette, Christian Franz
del Belvedère in Lussemburgo,
Ivan Louer dell’olandese De
Eetkamer e Mario Holtzem del
belga De Boote) a scegliere i vini
1.710 mln
La spesa annua degli italiani
per vini è di 1.710 mln di euro
GLI ENOVIAGGI DI GULLIVER
Non si vive di soli Chardonnay,
Merlot e Cabernet. In linea con l’opera
di salvaguardia dei vitigni autoctoni –
a Napoli dal 3 al 5 giugno il primo
salone nazionale a loro dedicato –
il Vinitaly chiama a raccolta i
produttori che in tutta Europa
hanno privilegiato le tipologie
più legate ai rispettivi territori.
Ad affiancarli, un ventaglio di
guru della sommellerie mondiale
dal campione del mondo,
l’italiano Enrico Bernardo,
al greco Kostas Toloumtzis
50 litri
In Italia è di 50 litri all’anno
il consumo di vino pro capite
I SAPORI DEL “SOL”
Compratori e appassionati da 60
paesi invaderanno l’area della Fiera
dedicata al Sol, Salone internazionale
olio di qualità, per degustazioni
comparate e mini corsi di tecnica di
degustazione. Alla vigilia, il gruppo dei
Verdi presenterà un pdl per obbligare i
ristoranti a mettere in tavola
solo bottiglie d’olio con
etichetta. La sera, saranno
annunciati i vincitori del
concorso “Sol d’Oro”: 300 gli oli
in gara, nelle tre categorie
leggero, medio e intenso
Aglianico
del Vulture
Basilisco 2001
Rosso di spiccata
personalità
mediterranea:
speziato possente
e verace.
In enoteca
a 36 euro
Vino Nobile
di Montepulciano
Asinone 2001
Poliziano
Un rapinoso
vino di carattere,
figlio del
territorio.
In enoteca
a 35 euro
Vino Nobile
di Montepulciano
Vigneto Antica
Chiusina 2001
Fattoria del Cerro
Altro rosso di
“terroir”, dalle
cadenze armoniose.
In enoteca
a 35 euro
dentità, qualità e marketing, sembrano essere le
parole d’ordine dei produttori italiani alla vigilia
del Vinitaly, dove si cercherà di capire che cosa sta
davvero succedendo nell’Italia e soprattutto nel
mondo del vino. Corazzata salda ancorché afflitta da
problemi strutturali e logistici, criticato da operatori
e visitatori, il Vinitaly resta in realtà l’unico vero appuntamento irrinunciabile del mercato fieristico, cui
nessuno che voglia fare affari nel vino in Italia e con
l’Italia può sottrarsi. Tanto per cominciare, dopo fiumi di parole e di pianti spesi per denunciare la gravità
non solo della crisi del mercato interno ma anche delle crescenti difficoltà nell’export, dal Vinitaly uscirà
probabilmente una prima credibile sintesi fra le diverse valutazioni e sulle prospettive, che giorno sì e
giorno no, i produttori esternano, contraddicendosi
l’un l’altro.
«Non si tratta di congiuntura negativa, stiamo vivendo una crisi strutturale dovuta a tre fattori: sovrapproduzione a livello mondiale, drastica caduta
dei consumi interni, minor competitività sui mercati
esteri», tuona Gianni Zonin. Proprio il contrario di
quanto emerge dal sondaggio svolto poche settimane fa da Winenews.it, sito web tematico tra i più seri e
documentati, tra cinquanta grandi imprese del settore, che al settanta per cento hanno dichiarato di aver
aumentato il proprio fatturato nel 2004 e prevedono
un 2005 ancora migliore. E di queste oltre un terzo ha
segnalato una significativa crescita della vendita in
Italia… D’accordo su tale valutazione, pur con diverse sfumature, Marco Caprai, Francesca Planeta, Michele Bernetti di Umani Ronchi, Martino De Rosa del Gruppo Wiish (Contadi
Castaldi capofila), Enrico Viglierchio di
Castello Banfi. Tutti concordi, comunque, sul fatto che il comparto stia attraversando una fase di riflessione nella
quale ogni azienda, se non l’ha già fatto,
deve ridefinire obiettivi, prodotti, strategie e riposizionarsi sul mercato.
Secondo Angelo Gaia, «ha poco senso
ragionare in termini di mercato domestico, perché, diciamolo francamente,
per il vino l’Italia è e resterà un mercato
povero, limitato. In una prospettiva
mondiale la ricetta è che i produttori italiani alzino il
tiro, cioè la qualità, dei propri vini, spostandosi con
decisione dai “vini da tavola”, di prezzo sino a 4 euro
a bottiglia, ai cosiddetti “premium wine”, categoria
che nel lessico adottato dagli americani ricomprende
i “popular premium” (da 4 a 12 euro), i “premium” veri e propri (da 12 a 50), i “super premium” (da 50 a 150)
e gli “ultra premium” (oltre 150 euro)». E in effetti tutte le previsioni convergono sul fatto che da qui al 2008
cresceranno in misura maggiore le vendite di vini di
prezzo superiore ai 4 euro che quelle di vini meno costosi.
La scelta pare quindi obbligata, per tutti: fare più
qualità e fare tanto marketing, molto più meditato e
mirato che in passato. Valorizzando l’identità dei nostri vini, puntando sempre più sui vitigni autoctoni
peculiari dei nostri terroir, lasciando perdere i modelli internazionali e omologati. E naturalmente dandosi una robusta regolata sui prezzi, nei quali quasi
tutti i produttori nostrani hanno esagerato, salvo poi
vedere anche marchi prestigiosi attuare spudoratamente politiche del tipo “prendi tre casse, ne paghi
due” o addirittura “una cassa a prezzo pieno, una cassa regalata”. In ogni caso più aglianico e montepulciano d’Abruzzo, negroamaro e insolia, nebbiolo e ribolla, meno cabernet, merlot e chardonnay.
Una cura particolare va poi dedicata ai mercati più
vasti e a quelli emergenti. Che restano innanzitutto gli
Stati Uniti, sbocco già fondamentale con spazi importanti di crescita, poi la Germania quando la sua
economia riprenderà a tirare, e i nuovi clienti tutti da
conquistare, cioè la Federazione russa, la Cina, l’India (dove i consumi di vino crescono del venticinque
per cento l’anno), i paesi scandinavi. «Vinciamo se
facciamo qualità, certo, dobbiamo però essere più efficaci nel vendere non solo le nostre bottiglie, ma la
nostra storia, la nostra cultura, tutti i prodotti d’eccellenza della filiera agroalimentare, la nostra cucina
che suscita nel mondo una richiesta impressionante
di cuochi, formatori, operatori vari», riassume Enzo
Ercolino di Feudi di San Gregorio.
Bolgheri
Sassicaia 2001
Elegante come
non mai,
il vino-culto
del marchese
Incisa della
Rocchetta.
In enoteca
a 90 euro
Barolo Vursù
Vigneto Campè 2000
La Spinetta
Interpretazione
raffinata e seducente
del cru orginario
di Grinzane
Cavour.
In enoteca
a 100 euro
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
gli stili
Da sempre ci preoccupiamo di fabbricarci un’immagine
capace di piacere agli altri e di assicurarci più potere.
E recitiamo come attori sul “palcoscenico del mondo”.
Adesso un libro in uscita, “Che figura”, ci spiega
le emozioni che questo travestimento pubblico
può dare e come può stimolarci a migliorare
Usi sociali
FOTO CORBIS
La nostra vita in maschera
CARLOTTA MISMETTI CAPUA
Q
ROMA
uando la mattina scegliete un vestito, quando salutate qualcuno
per strada, ogni volta che dite
qualcosa in riunione o raccontate un aneddoto ad una cena tra amici, state facendo quel che si dice “impression management”. La formula, che oggi trovate sulla brochure di un qualunque corso per dirigenti d’azienda, l’inventò negli anni Sessanta Erwin
Goffman, accreditato antropologo americano il quale, prendendo sul serio la battuta di
Shakespeare in As You Like It — «tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne
non recitano che una parte» — , si mise a studiare e misurare i meccanismi di questo mercanteggiare sociale, gli scopi e le sue tecniche.
L’impression management, ovvero l’arte di
mostrare agli altri la nostra immagine migliore o, per dire esattamente, quella utile all’uopo, è quanto racconta Cristiano Castelfranchi, cognitivista del Cnr e docente all’università di Siena, in Che figura, breve trattato di
psicologia sociale pubblicato da Il Mulino.
Quale che sia il nome di questa recita, tra le
più incessanti, defatiganti e necessarie attività dell’uomo, Castelfranchi cerca di indagarne gli scopi: perché teniamo tanto a mostrarci migliori di quel che siamo (considerata la fatica che costa)? Ovvio, il nostro tornaconto: più considerazione, più opportunità e
dunque più potere. E il libro spiega con molte
1
L’ammirazione
L’invidia
3
La derisione
È un attacco diretto
all’immagine dell’altro,
camuffato con l’ironia:
un insieme di riso
e di pena, spesso suscitati
dallo stesso elemento.
Per i Padri della
Chiesa il riso era una
manifestazione diabolica
4
La superbia
La vergogna
Nasce dallo sguardo
dell’altro, che vede o dice
cose che non avremmo
voluto mostrare. Ci si
vergogna anche davanti
ad estranei, di cose di cui
non avremmo ragione
di vergognarci, come
inciampare per strada
La pena
La pena, come la carità,
è un sentimento
socialmente fuori moda
(oggi si preferisce
il mutualismo della
solidarietà). È legata
ad uno stato d’inferiorità
e per questo è dannosa
alla nostra immagine
5
L’ammirazione
è il giusto ed educato
riconoscimento delle
virtù dell’altro. È un
sentimento costruttivo
che favorisce
l’attaccamento di chi
si ammira e ci spinge
all’emulazione
È il più celato,o malcelato,
dei sentimenti ma anche
il più attuale. Scatta su
un confronto di potere,
è spesso gratuito, spesso
ingiusto. La società lo
condanna perché
esprime un’inutile
aggressività
2
complicate formule paralogiche le relazioni
che intercorrono, con tragica prevedibilità,
tra il potere che vogliamo e l’immagine che offriamo. Ma spiega anche — e qui la lettura si fa
più leggera e anche più incoraggiante — che
mostrare è dimostrare e dimostrare è migliorare. «Se l’altro riconosce un mio talento io mi
sentirò motivato a coltivarlo e spenderlo: se
sarò riconosciuto un buon capo sarò un capo
migliore, se sarò valutato un buon padre sarò
un padre migliore», spiega l’autore.
Tra le funzioni più elementari della nostra
faccia, o delle nostre molteplici maschere —
non tutte le amministriamo, sia in pubblico
che in privato alcune sono inconsapevoli e sono quelle a cui più siamo affezionati — ci sarebbe quindi anche quella primaria di stimarci. Alcune emozioni sono inevitabilmente legate a questa strategia perenne della nostra immagine. Sono quattro, e tutte negative,
quelle di cui il libro racconta origini e meccanismi: l’invidia, la vergogna, la pena e la derisione. L’invidia è quella forse più interessante in questi tempi: pare esser diventata una
moda, anzi quasi una misura sociale che ha
sostituito il rispetto e l’ammirazione di un
tempo. «Essere invidiati è diventato improvvisamente bello — spiega Castelfranchi — ed
anche se le società generalmente condannano l’invidia in quanto sentimento anti-sociale, che sollecita le ostilità e boicotta la meritocrazia, oggi l’invidia sembra quasi essere diventata, nell’incertezza delle identità e delle
ragioni che muovono le nostre vite, quasi una
“griffe dell’anima”».
Come difendere il fragile equilibrio tra come ci rappresentiamo e come siamo
Essere o fare, il nuovo dilemma
UMBERTO GALIMBERTI
«T
utto ciò che è profondo ama la maschera» diceva Nietzsche, e perciò: «Dammi ti prego una
maschera ancora, una seconda maschera».
Così parla il pudore che non vuole risolvere l’interiorità
in esteriorità, che non vuole perdere l’anima nel rumore
del mondo. Oggi noi viviamo nel mondo della rappresentazione e perciò siamo assetati di autenticità. Ma
l’autenticità è davvero un valore quando viene identificata con la riservatezza del privato, su cui si buttano i
giornali scandalistici secondo quelle derive della spudoratezza che oggi vengono contrabbandate per sincerità?
Se vogliamo conservare la nostra anima per salvaguardarla dalla rapina del mondo e poterla preservare per gli eventi d’amore, nelle relazioni sociali dobbiamo offrire solo la nostra faccia che è poi la nostra
maschera, perché la “faccia”, dal latino facere, la costruiamo noi.
La faccia, infatti, è il vuoto del nostro corpo che io non
vedo, ma gli altri vedono, per questo la chiamiamo anche
“viso” che vuol dire «visto dagli altri». Un motivo questo
che ritorna anche nell’espressione francese visage e in
quella tedesca Gesicht. La nostra faccia è dunque quella
che noi costruiamo a partire dallo sguardo degli altri,
perché non si dà identità che non sia l’effetto del riconoscimento. Ma nelle relazioni sociali, attraverso quali vie
passa il riconoscimento? Attraverso le nostre funzioni e
prestazioni e, per restare nella metafora teatrale della
maschera, attraverso il nostro “ruolo”, parola che fa riferimento al rotolo di pergamena sul quale l’attore di teatro nell’antichità leggeva la sua parte.
E come nella rappresentazione teatrale interessante non è l’attore in quanto persona privata, ma il “personaggio”, la “maschera” che l’attore in virtù del suo
ruolo rappresenta nel contesto drammatico, così nella società ciò che conta non è l’individuo nella sua specificità, ma il ruolo che svolge, che gli consente di entrare in relazione con gli altri, a loro volta rappresentati dai rispettivi ruoli. Se questo è vero, l’assunzione
di un ruolo che è poi la maschera che garantisce la nostra identità sociale finisce col condizionare anche l’identità personale, che è data dalla coerenza fra i ruoli
rivestiti nei diversi stadi della nostra biografia, di cui il
curriculum traccia il profilo.
Nella nostra epoca noi siamo dei curricula in cui so-
no descritte in successione le nostre risposte alle richieste sociali che, opportunamente interiorizzate,
costituiscono la trama profonda della nostra identità e
lo spazio dischiuso alla nostra libertà, che è dunque libertà di ruolo vasta quanto l’articolazione curriculare.
Mortificante? No, inevitabile. Già Aristotele avvertiva che l’individuo, preso singolarmente, non è riconoscibile direttamente e in se stesso, perché la sua leggibilità passa attraverso quella maschera (la funzione sociale) in cui si evidenzia la natura originariamente associativa dell’uomo (zoon politikon). Nella nostra epoca l’assunto aristotelico non solo rimane valido, ma
l’aumento della complessità delle relazioni e dei criteri di leggibilità lo rende ancora più valido, perché se
l’individuo dovesse proporre la sua identità personale
al di là di quella sociale, in cui si esprime il mondo delle relazioni, apparirebbe folle, e se invece dovesse risolvere la sua identità personale nella funzionalità di
quella sociale apparirebbe insignificante.
Per evitare follia e insignificanza l’individuo deve
giocare quel precario equilibrio che gli consente di
rendere visibile la sua identità sociale unitamente alla
consapevolezza del suo carattere fittizio, e insieme custodire la sua identità personale che gli permette di
avere, nei confronti del suo ruolo, quella giusta distanza che gli consente di non identificarsi con la sua maschera e soprattutto di non confondere la sua maschera col suo vero volto. Questo delicato equilibrio, che è
poi la fatica di essere uomo tra gli uomini, non è uno
spregevole compromesso tra quel che veramente siamo e come ci rappresentiamo, ma è la salvaguardia del
nostro spazio di libertà, perché se in ogni circostanza
volessimo essere quel che davvero siamo non avremmo la libertà di divincolarci dalla nostra natura, così
come se non riuscissimo ad essere altro dal ruolo che
rivestiamo, oltre a dipendere da chi o dalle circostanze
che ci assegnano il ruolo (finché ce lo concedono),
avremmo semplicemente perso noi stessi.
Per questo Nietzsche può dire: «Tutto ciò che è
profondo ama la maschera». La maschera difende la
nostra interiorità e tutela quello spazio tra il nostro fare e il nostro essere in cui è la radice della nostra libertà,
preclusa tanto a chi si identifica col suo fare quanto a
chi si perde nel suo essere.
6
Nasce dal bisogno
di riconoscimento
della propria identità
e del proprio valore,
può essere buona per chi la
prova, ma anche ridicola
e ostile agli occhi
degli altri. Per i cristiani
è un peccato capitale
L’orgoglio
7
In giusta misura
ci permette di difendere
e costruire quello che siamo
con dignità o di raggiungere
i nostri obbiettivi.
Quando travalica può
trasformarsi in
presunzione. Un tempo si
chiamava amor proprio
La vanità
È l’illusione suprema,
credere di poter apparire
migliori di quello
che siamo. “Vanità delle
vanità e tutto è vanità”
è detto al principio de
l’Ecclesiaste: oggi è poco
meno di un vizio
e molto più di una moda
8
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
le tendenze
Bellezza & business
Nella generale flessione delle spese superflue,
la cosmetica aumenta sensibilmente il fatturato
Ecco i make-up sulla cresta dell’onda e quelli
al tramonto, raccontati dagli addetti ai lavori
alla vigilia del Cosmoprof di Bologna, il salone
mondiale in calendario dall’1 al 4 aprile
UN COLORE PER TUTTO
Bohemian Chic è la
linea di Ultima II,
basata su toni
coordinati, dal rossetto
al gloss, all’ombretto,
allo smalto da unghie
ROSSO ASSOLUTO
Idrata le labbra, le protegge dall’eccessiva
aggressività del sole e le modella
allo stesso tempo: il rossetto
Le Rouge Absolu è l’ultima creazione
messa sul mercato da Lancôme
Trucco
ORO E SETA
Fra i suoi
componenti ha
anche oro e seta.
The Lipstick
di Kanebo, vanta
un effetto antiinvecchiamento
Facce lucenti
contro la crisi
LAURA LAURENZI
R
EFFETTO BAGNATO
Un gloss lucidalabbra a effetto
bagnato che non appiccica.
Formula cremosa e idratante.
Si applica attraverso un beccuccio
con la punta obliqua. In dieci
colorazioni, tutte prive di profumo,
Colour Surge Impossibly Glossy di
Clinique è un prodotto
anallergico
inunciamo a un vestito e a un paio di scarpe ma non al rossetto, non al mascara,
non al fondotinta. La donna italiana si
trucca, e spende per farlo. Cerca un look
naturale, ma che è frutto di un laborioso
e sapiente processo fatto di accostamenti e sfumature anche inedite, il risultato di un knowhow reso possibile da una gamma sempre più ampia
di prodotti hi-tech, di ricerca, mirati verso il trucco su
misura.
Nella crisi generalizzata del superfluo, la cosmetica
non soltanto tiene, ma aumenta il suo fatturato, che
nel 2004 è cresciuto del 6 per cento rispetto all’anno
precedente, e del 3,5 per cento per quanto riguarda il
numero dei pezzi venduti. I dati verranno resi noti in
ogni dettaglio al Cosmoprof, il salone mondiale della
cosmetica che si terrà alla fiera di Bologna dall’1 al 4
aprile e cui partecipano 1.795 aziende, 900 delle quali
internazionali.
«Le italiane sono fra le donne che si truccano di più
in Europa, hanno un modo di truccarsi più corretto e
più consapevole, quella che potremmo definire la cultura del trucco, diffusa in tutto il Paese, là dove in Francia, per esempio, è limitata soltanto a Parigi», osserva
Daniele Renica, make-up stylist. Varie sono le tendenze della moda, spesso in contrasto fra loro: «Una è il ritorno a un maquillage molto naturale, ma solo all’apparenza. In realtà è estremamente sofisticato, e si ottiene sovrapponendo diverse tonalità di fondotinta
ottici che catturano la luce in modo multidirezionale.
C’è poi la tendenza che potremmo definire “Vacanze
anni Sessanta”, con il ripescaggio di colori pastello, ma
anche di tonalità grintose e cariche su carnagioni dall’aspetto abbronzato, genere californiano».
Cosa invece non sarà di moda? «L’eyeliner se troppo
definito, le matite scure, i mascara troppo cupi», afferma Daniele Renica. «Sì invece ai kajal colorati o color
carne, sì alle terre con una punta di glitterato, sì al mascara effetto bagnato, sì alle labbra satinate, sì alle sopracciglia dal colore contrastante rispetto a quello dei
capelli».
Riflessi cangianti, colori brillanti e vinilici rubati ai
multipli pop di Andy Warhol, riflessi metallizzati, trasparenze specchiate. Estrema lucentezza, culto della
luminosità, quasi della perlescenza: «Dopo tanto minimalismo reagiamo ai tempi bui nei quali siamo immersi con il desiderio di avere un po’ di allegria e un po’
di luce almeno in faccia», commenta Carla Volontè, responsabile comunicazione dell’italianissima Collistar, che nell’ultimo anno ha visto aumentare le vendite dei suoi cosmetici del 5,1 per cento. «La vera novità è il trucco su misura, sempre più sofisticato, modulato su ogni diverso tipo di pelle», spiega Carla Volontè. «Il fondotinta ad azione guidata, che si assorbe
con differente densità nelle zone più grasse. Il mascara tecnico. Il rossetto personalizzabile, mai uguale a
seconda dei diversi strati di gloss sovrapposti. Le matite multiuso, utilizzabili come kajal, come ombretto,
o per le labbra».
Entrare in una profumeria e comprare un fondotinta può risultare un’impresa, tante sono ormai le varianti, le possibilità e le opzioni che ogni prodotto rivendica. Un’importanza sempre maggiore — che incide sensibilmente sul prezzo — è quella del packaging, degli astucci, delle confezioni: non più soltanto
dei profumi ma anche e soprattutto dei cosmetici.
Racconta Vincent Ditrichstein, responsabile del design per Estée Lauder: «Le influenze più forti ci sono venute dal mondo dell’architettura, del design e della decorazione, forme e strutture pure, precise, ironiche.
Abbiamo guardato e studiato i lavori degli architetti
Frank Lloyd Wright, Le Coirbusier, Eileen Gray, per la
loro sensibilità pionieristica e per l’uso avventuroso e
non ortodosso dei materiali e degli abbinamenti. Infine abbiamo coltivato riferimenti dell’Art Deco, per la
volumetria delle sue linee. E per i colori degli astucci
abbiamo intervistato 17mila donne». Per un rossetto.
‘‘
Bette Davis
Gli uomini diventano molto più attraenti
quando cominciano a sembrare più vecchi.
Ma per le donne non funziona così, sebbene
noi abbiamo un vantaggio: il trucco
LOOK NATURALE
PRIMA DELLA TINTARELLA
FONDOTINTA SPRAY
Garantisce un effetto naturale
Light! di Biotherm, un fondotinta
impalpabile per sembrare
non truccate
Predispone la pelle
all’abbronzatura proteggendola
dal sole. Gel Eclat d’Eté
di Yves Saint Laurent
Addio spugnette: ora
il fondotinta si nebulizza. Diorskin
Airflash è spray e garantisce
un effetto ultranaturale
DOMENICA 27 MARZO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
il rossetto
Ogni donna possiede in media
otto rossetti. Si tratta ancora
oggi del cosmetico più venduto
al mondo (oggi nella versione
lipgloss, più naturale). Le
tonalità più richieste vanno dai
rosa beige ai rosa vivi fino ai
rosa malva, ma il rosso scarlatto
è la tinta che più di ogni altra
resiste alle mode
il mascara
Le donne europee lo usano
in media almeno cinque
volte a settimana. È oggi
sempre più tecnico, dotato
di microscopiche fibre
sintetiche che promettono il
raddoppio delle ciglia, sia in
foltezza sia in lunghezza,
effetto extensions
il fondotinta
LABBRA AL CIOCCOLATO
Oggi è come una seconda
pelle, coprente e naturale
insieme, leggero, ad
assicurare una protezione
dal sole e dallo smog.
Soprattutto è a lunga
durata (anche 16 ore)
È al gusto oltre che al profumo
di cioccolato il balsamo per labbra Lush:
fra gli ingredienti anche miele, vaniglia, arancia,
mandarino, burro di karitè, olio di germe
di grano e olio di mandorle
CIGLIA PIÙ FOLTE
Acacia del Senegal,
proteine della seta,
pantenolo, olio di
avocado e pigmenti
micronizzati sono fra gli
ingredienti di Fabulash
Mascara di Revlon, che
garantisce ciglia più folte
e zero grumi. Spazzolino
brevettato con
setole differenziate
DUE IN UNO
Due prodotti in uno: è l’Eyeliner Duo
di Collistar, uno stilo che da un lato
è un eye-liner, dall’altro un ombretto.
Gli abbinamenti sono nero più
azzurro e nero più rosa
l’ombretto
I nuovi tipi variano se
usati asciutti o bagnati.
Nel primo caso hanno
un effetto più naturale,
nel secondo hanno
un risultato più
luminoso
OMBRETTO HI-TECH
Le polveri
micronizzate
garantiscono la
massima adesività.
In ogni astuccio
quattro ombretti:
è il Graphic Color
Eyeshadow Quad,
di Estée Lauder
AL CARBONE
Ultra-nero effetto ciglia finte agli estratti
di carbone. Cil Architecte Midnight
Black, di L’Oréal, è dotato di uno
speciale applicatore a spirale che
modella le ciglia dalla radice alla punta
MASSIMO VOLUME
Il mascara è, assieme al rossetto,
il cosmetico più utilizzato dalle donne.
Oggi è sempre più hi-tech, a lunga
durata, volumizzante, come il Mascara
Wonder Volume di Clarins
Sui volti dipinti si specchiano fasi storiche e mode sociali
FOTO ZEFA
A
I NASTRI DI COCO
Ispirato ai nastri con cui
Coco Chanel ornava abiti
e cappelli, il nuovo fard/ombretto
Ruban Perlé di Chanel
nche le librerie più dotte hanno ormai un reparto impressionante che riguarda il trucco: pareva già esagerato che si parlasse di cultura della moda, adesso si
sta diffondendo la cultura del makeup, seriamente. Si può scegliere tra
montagne di saggi che vanno dall’archeologia del fondotinta alla storia
della guerra attraverso la decorazione delle facce bellicose, sino agli studi spericolati, magari legati come
Body Visions, a cura del sociologo
Francesco Morace, proprio al Cosmoprof, in cui si sostiene che sono il
corpo, il suo benessere, la sua bellezza e quindi la sua cura e valorizzazione a dirigere il futuro del pianeta.
Quanto ai manuali pratici su come
truccarsi, molto richiesti, ce ne sono
montagne e il più venduto al mondo
si intitola Face forward, autore il celebre inventore di facce Kevyn Aucoin,
prematuramente defunto.
Opera terrorizzante sin dalle prime pagine, ove mostra una quantità
enorme di utensili necessari per raggiungere, dopo ore e ore di impegno,
un risultato si spera soddisfacente.
Per cominciare, almeno undici pennelli di diverso spessore e morbidezza e una tavolozza con un centinaio
di cremine e polveri e liquidi e paste
di vario colore, più matite e altri aggeggi, con cui lavorare accanitamente su una faccia per trasformarla in
un’altra. Una faticaccia che solo le
martiri della bellezza finta, con molto tempo a loro disposizione, possono affrontare. A meno di rivolgersi a
un professionista eccellente, che un
tempo si chiamava truccatore e oggi
viene venerato come make-up artist:
indispensabile figura, appunto di artista, per ogni servizio di moda o di
pubblicità, in grado di prendere come materia prima una faccia grigia e
insipida o assonnata o fatta (purché
giovanissima), e di lavorarci su come
un miniaturista, per farne un’opera
Sopracciglia perdute
da Mina a Costantino
NATALIA ASPESI
d’arte, la raffigurazione di uno stereotipo femminile magari fantasma
ma ancora vivo nell’immaginario dei
nostalgici, nelle soap opera e nei talk
show: fatalona o innocente, seduttrice o sedotta, dominatrice o fiammiferaia; oppure, nel genere preferito
dalle riviste più chic: pazza, ninfomane, drogata, stuprata, annegata, ecc.
Da sempre le donne, ma anche gli
uomini, hanno rifiutato la loro faccia,
anche la più bella, desiderosi di nascondersi dietro una facciata che
esprimesse o negasse
l’edificio retrostante,
cioè il segreto di sé. Con
il trucco, con matite,
pennelli, colori, si cancella e si riscrive la propria pagina, non potendo però sfuggire alle imposizioni del contesto
sociopolitico. E se negli
anni ‘60 i grandi truccatori dipingevano fiori o
ali di farfalla sul volto
della meravigliosa
Twiggy, creando una
facciata giocosa che parafrasava lo
slogan «mettete fiori nei vostri cannoni», oggi in tempi di inquietudine
e di guerra, il make-up serve alle donne per nascondere ogni eventuale
debolezza e preparare al combattimento nella vita: facce dure, aggressive, cattive, per intimidire, che nelle
esagerazioni delle riviste (decine di
pagine sui prodotti di bellezza ad
ogni numero) possono diventare
spaventevoli, con gran battimani degli appassionati dei turbinosi trend.
Quirino Conti, autore del bestseller Mai il mondo saprà, saggio irresi-
stibile sulla moda, ricorda come il
grande costumista Pietro Gherardi
(quello di 8 ½ di Fellini) negli anni ‘60,
quando la televisione era rispettabile, durante il varietà Linea contro linea depilò improvvisamente le sopracciglia di Mina. Togliendole un
elemento legato all’espressività dell’ira, del corruccio, fece di questa ragazza già famosa, dal volto comune,
un’astrazione, una icona impassibile sottomessa alla sua vocalità, una
persona indimenticabile.
Il trucco è tornato anche nella vita degli uomini che usano la propria immagine come
potere. Infatti, se la telestar Costantino non
fosse levigato come una
statuetta di cera, e non
avesse gli occhi blu esaltati da ombretti e mascara e la pelle color
mattone per artifici sapienti, forse non avrebbe sedotto il popolo ambosessi mediasettizzato: perché non basta oggi che un giovane uomo non abbia nulla da dire e
non sappia far altro che stare seduto,
sorridere, portare jeans stracciati e
mostrare muscoloni tatuati, prestandosi a finti litigi e falsi innamoramenti, per diventare un mito mediatico. Bisogna che su di lui cali una maschera che non gli appartiene, inventata con cupa sapienza dai manipolatori di immagini. Massimo intervento di trasformazione dalla natura
all’incultura, è su di lui e sugli altri
giovani maschi inventati dalle mode,
non tanto il trucco quanto la depila-
zione del corpo e soprattutto (in ricordo del gesto di Gherardi) delle sopracciglia, che priva definitivamente
un uomo di ogni aggressività e quindi mascolinità. L’espressione melensa che ne deriva, non per niente promossa da trasmissioni televisive familiari nascostamente perverse,
rende desiderabile la tipologia dell’uomo docile e mercificabile, asessuato e passivo, fintamente arrendevole.
Non è una novità: si depilavano i
giovani di età elisabettiana prima di
accedere sottomessi nei letti principeschi, si depilavano i maschi nell’antica Atene per cancellare dal loro
corpo ogni animalità. Si truccavano
monarchi e damerini settecenteschi
(e se ne sono visti meraviglie e orrori
nel magnifico film di Kubrick Barry
Lyndon) per esprimere grazia, si truccavano i guerrieri barbari per apparire più feroci. Buona parte degli eroi
omerici si massaggiava con oli profumati e si depilava prima di affrontare
sanguinosi scontri, e già che c’erano,
nella promiscuità solo virile, giacevano tra di loro. Il viso innaturale, trasfigurato, non più umano ma quasi
divino, poteva avere il potere di incantare le folle: e infatti Mosè torna
dal monte Sinai raggiante per il suo
incontro con Dio, e quando quella luce si spegne, si copre con un velo per
non deludere il popolo di Israele.
La convinzione di essere in contatto con Dio, unto dal Signore se non
addirittura il Signore stesso, l’idea
che il potere lo si esercita anche nell’immutabilità divina che non conosce la condanna alla decrepitezza
umana, ha consentito al nostro attuale premier la crescita miracolosa
dei capelli, il negromantico distendersi di rughe e flaccidità, il trucco
continuo, sia davanti alle telecamere
che nella quotidianità, perché il popolo non debba mai conoscere il vero volto di chi lo tiene in pugno.
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2005
l’incontro
Miti dello schermo
L’infanzia misera, la madre sempre
troppo stanca per un gesto d’affetto,
la scuola lasciata a tredici anni,
il successo come attore col marchio
di “007”, l’amore e le mogli,
il nazionalismo scozzese
e la nomina a baronetto
da parte della regina
dell’odiata Inghilterra.
L’“uomo più sexy del
mondo” ha cominciato
un doloroso viaggio
nella memoria per
un’autobiografia che sarà pronta a
giugno. “Per la prima volta credo di
essere vicino a conoscere me stesso”
Sean Connery
ean Connery alla ricerca di
Sean Connery. È un percorso
nella memoria quello che da
mesi impegna il «più grande
scozzese contemporaneo» ovvero «il
pensionato più sexy del mondo», che per
rispettare il contratto con la Harper Collins dovrà consegnare le bozze dell’autobiografia entro la fine di giugno. Una bella impresa mettersi lì a ricostruire 75 anni di vita vissuti intensamente solo attraverso i ricordi. «Perché io non conservo
nulla del passato, niente diari, niente lettere, niente appunti. Ho un animo da zingaro, mi piace viaggiare leggero, senza
bagagli pesanti. Per fortuna ci sono le date dei film a dare una cadenza ai momenti essenziali della carriera», dice Connery.
Il segno dei 75 anni — il prossimo 25
agosto — c’è: nella calvizie, nella barba
tutta bianca, nel portamento un po’ meno eretto, nell’ombra di stanchezza che
affiora a tratti nella sua inconfondibile
voce dall’accento fieramente scozzese.
Ma è bello comunque. Il fisico, sia pure
leggermente appesantito, è ancora agile, forte, elegante, grazie all’altezza (un
metro e 91), allo sport e ad una attenzione al corpo che viene da lontano (nel ‘50
il ragazzo Connery, ancora Thomas, fu
terzo a Mr Universo). E il sorriso, tenero
o malandrino, è sempre seduzione. Ancora quattro anni fa nell’inchiesta della
rivista Peoplefu scelto come «l’uomo più
sexy vivente». «Avete mai visto un morto
più sexy di me?», commentò allora.
L’ironia c’è sempre quando parla del
fascino personale e delle donne. «Anni fa
pensavo che le donne fossero attratte non
da me ma da Bond, vissuto come un’icona, imperturbabile, sexy, intelligente, un
vincitore, un uomo ideale a cui tutti, magari in segreto, vorremmo somigliare.
Oggi che il mio Bond potrebbe agire solo
su una sedia a rotelle, penso che le donne
una nuvola di distrazione. Credo che il
tempo modifichi le persone, le aiuti a
crescere, a conoscere la vita. Io ho l’impressione di essere rimasto com’ero
quando avevo 14 anni. Forse perché a 14
anni la vita la conoscevo già».
C’è una commozione sincera nella
voce di Sean Connery che ricorda l’infanzia povera di Edimburgo. «Mio padre lavorava solo saltuariamente, era
mia madre che portava avanti la famiglia e io preferivo guadagnare qualcosa
consegnando il latte la mattina piuttosto che andare a scuola, detestavo lo studio. Però non sento tristezza al pensiero
del freddo e dei disagi di allora, era così
e basta, i poveri non hanno tempo per gli
stati d’animo, per sentirsi allegri o depressi. Ricordo solo la felicità dei momenti liberi passati a giocare a pallone.
A 13 anni ho lasciato definitivamente la
scuola e ho fatto mille lavori con in testa
una sola idea, forse comune ai bambini
di allora: andare in guerra. Sono entrato
in Marina a 16 anni, a guerra finita. La
mia carriera militare è durata tre anni,
stroncata da un’ulcera che mi costrinse
Mi piacciono
le donne, quelle belle
subito e quelle
da scoprire, mi piace
la femminilità da
scovare in un gesto.
Però amo anche
gli uomini, non tutti
e non allo stesso modo
FOTO GAMMA/CONTRASTO
S
ROMA
mi amino con senso materno, con il gusto
un po’ perverso di proteggermi in vecchiaia». Del resto l’amore è ricambiato:
«Mi piacciono le donne, quelle belle subito e quelle da scoprire, mi piace la femminilità da scovare in un gesto, in uno sguardo, nel modo di prendere in mano un bicchiere. Però amo anche gli uomini, non
tutti e non alla stessa maniera».
È facile prevedere che nell’autobiografia il capitolo sulle donne sarà
tutt’altro che piccante e scandaloso, visto che l’attore anche nel momento di
massima gloria è sempre riuscito a proteggere la sua privacy. Da trent’anni è
felicemente sposato con la pittrice
francese di origine tunisina Micheline
Roquebrune che, dice, «non si preoccupa finché le donne che mi girano intorno sono tante. Comincerebbe a
preoccuparsi se fosse una sola».
Nel passato l’unico spunto da cronaca pettegola fu uno schiaffo alla prima
moglie, Diane Cilento, madre del suo
unico figlio Jason; e ci fu un’esplosione
di femminismo indignato per le sue affermazioni maschiliste («non è violenza, uno schiaffo è l’unica cosa che placa certi momenti isterici o capricciosi
di una donna») in seguito ritrattate:
«Sono parole che avrebbe detto Bond,
allora mi divertiva esprimermi come il
personaggio, un grande seduttore, ma
non certo un tipo capace di dolcezza o
di grande amore».
La decisione di scrivere della sua vita
ha sorpreso molti. «Ha sorpreso anche
me, avevo sempre detto che non lo avrei
mai fatto e adesso capisco perché. Non
solo per non ferire qualche persona ma
perché è un’esperienza durissima, forse
terapeutica ma molto dolorosa, che mi
costringe a un’indagine nel passato e
nella memoria. E talvolta affiorano ricordi che non avrei voluto ritrovare. Lo
faccio per amore della verità. Ci sono almeno dieci biografie non autorizzate
che mi riguardano. Non ne ho letto nessuna, ma nelle recensioni dei libri ho visto inesattezze, errori, bugie al limite
della calunnia. Volevo chiedere rettifiche, ne ho parlato con l’avvocato. “Dovrei fare dieci denunce, ti costerei troppo. Meglio se scrivi tu la verità su te stesso. Puoi anche guadagnarci qualcosa”,
mi ha risposto». Per la cronaca «qualcosa» sono due milioni di sterline del contratto con la Harper Collins.
Tra i ricordi che Connery non avrebbe
voluto ritrovare «ci sono volti di persone
che sono uscite dalla mia vita senza che
avessi il modo di dire loro le parole giuste, l’affetto o la stima che provavo, le
scuse non espresse, le scelte inopportune, gli errori stupidamente ripetuti, le assenze da chi aveva bisogno di me. Non so
se il libro farà scoprire agli altri qualcosa
di nuovo di me, ma la vera scoperta l’ho
fatta io. Per la prima volta credo di avvicinarmi alla conoscenza di me stesso, mi
rendo conto di aver dedicato più tempo
ad approfondire i personaggi e a identificarmi con loro piuttosto che a capire
chi ero. Come se avessi vissuto dentro
a una lunga degenza in ospedale».
Ci sono due tatuaggi sulle spalle di
Sean Connery, che riflettono i suoi valori di allora: Mum and Dad e Scotland forever. Valori semplici mai rinnegati, ed è
forse nella forza di questo legame con le
radici l’impressione di freschezza e di
spontaneità che resta da un incontro
con lui. Connery svela l’imbarazzo di chi
non ha studiato: «La mia scuola è stata la
vita». Ricorda senza falsi pudori suo padre «che non è mai venuto a trovarmi in
ospedale, non aveva tempo né soldi, ma
so che mi voleva bene, l’ho capito quando è mancato, è stata una delle poche
volte in cui ho pensato seriamente di lasciare il cinema». Oppure sua madre:
«Mi sono reso conto solo adesso che non
mi ha mai abbracciato, mai un gesto affettuoso. Un po’ per carattere un po’ perché era sempre troppo stanca. Chissà,
forse questo ha influenzato la mia vita affettiva e il mio rapporto con le donne».
Scotland forever. Il nazionalismo di
Sean Connery non ha mai avuto cedimenti. Anzi, di sir Sean Connery, un titolo che lo inorgoglisce, è il segno di un percorso trionfale, dalla povertà di Edimburgo al successo nel mondo, ma è anche un onore attribuito dalla regina di
quell’Inghilterra che «opprime» la Scozia. «Quando me l’hanno proposto ho
chiesto una settimana per riflettere. Poiché non mi hanno imposto di modificare nessuna delle mie opinioni, né artistiche né politiche, alla fine ho accettato il
titolo. E nessuno, finora, me lo ha tolto,
anche se continuo a dire quello che penso». E quello che pensa è che «non tornerò a vivere in Scozia finché non sarà indipendente. Finché anche il suo nuovo
Parlamento — sono andato all’inaugurazione, ed ero felice di esserci — viene
deciso da Downing Street».
Non significa che in Scozia non sia presente: «Ci sono con la fondazione che si
occupa di aiuto ai disabili, di scuole per i
bambini bisognosi, con il progetto di una
scuola di cinema. E insieme all’autobiografia sto collaborando alla stesura di
una storia della Scozia in 14 volumi, che
in parte diventeranno una serie televisiva della Bbc scozzese. Ma non posso vivere nel paese, il mio paese, in cui i media
sono i più feroci nei miei confronti, perché tutti i media sono nelle mani di stranieri, di Rudolph Murdoch soprattutto».
«Perché uno che non paga le tasse e
non vive in Scozia deve dire agli scozzesi per chi votare?»: è uno degli slogan
più perfidi diffusi dai media. «Ho un appartamento a New York ma sono felice
solo quando sto nella casa delle Bahamas, dove trovo la pace di cui ho bisogno, leggo, gioco a golf, un’ora di piscina, guardo il tramonto. Non sopporto
più la follia delle grandi città. Ma le mie
tasse le pago, agli Stati Uniti e all’Inghilterra. Datemi la Scozia libera e non
mi muovo da Edimburgo».
La stessa passione nei toni di Connery c’è solo quando parla del golf che
per lui «è più che una metafora della vita, talvolta è più reale della vita reale,
ma solo chi lo gioca può capire. Anche
se si fa un ottimo punteggio, si continua
a pensare agli errori, ai colpi imprecisi.
Come nelle opportunità che ti offre la
vita. Ma se si è intelligenti bisogna dimenticare le cose cattive o le occasioni
perdute e tenere a mente le cose belle.
Solo così si va avanti. La mia vita è un
misto di casualità e di fortuna».
La fortuna per esempio è che Broccoli
e Saltzman, produttori storici della serie
di Bond, non furono d’accordo con Ian
Fleming che come interprete del suo
eroe voleva Cary Grant o David Niven.
Ma dopo i primi minuti di 007 licenza di
uccidere, alle parole ormai mitiche: «Mi
chiamo Bond, James Bond», lo scrittore
si ricredette, anzi diede al suo eroe la nazionalità scozzese. «Sono legato da odio
e amore per Bond. Gli devo tanto, tutto,
ed è bello sapere che una persona su
quattro nel mondo mi conosca per lui.
Ma mi addolora pensare che, avendo fatto oltre quaranta film — e alcuni mi sono
più cari di altri, come Il nome della rosa o
L’uomo che volle farsi re o Indiana Jones
— sarò ricordato solo per 007».
È anche vero che «Bond ha significato
per me la scoperta del cinema, prima il
mio sogno era di fare il calciatore, avrei
giocato nel Manchester United se non
avessi avuto uno strappo muscolare.
Nella memoria infantile c’è solo un film:
non ricordo il titolo, ma c’era un padre,
un bambino e un cane; il padre era severo, voleva educare il cane all’obbedienza, il bambino voleva solo giocarci, uscii
dalla sala odiando il padre. Ho imparato
ad amare il cinema da adulto. Ma con
moderazione. Seguo l’insegnamento di
Hitchcock, che pur lavorando con pignola professionalità, alla fine della giornata salutava con: «Ricordiamoci che è
solo un film». Amore moderato, ma non
ancora spento: «Ogni tanto dico che sto
per dare l’addio al cinema, anche di recente. Ma poi sono sempre felice di
smentirmi. Datemi un bel copione,
un’offerta che non posso rifiutare, e sono pronto a ricominciare».
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MARIA PIA FUSCO
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