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Marsilio X
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Gianni Solla
Il fiuto dello Squalo
Marsilio
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ESTRATTO PROMOZIONALE NON IN VENDITA
© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Pubblicato in accordo con l’agenzia letteraria Vicolo Cannery
Prima edizione: marzo 2012
ISBN 978-88-317-1180
www.marsilioeditori.it
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IL FIUTO DELLO SQUALO
a Dario
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Cerchiamo di capirci, se hai una pinna da squalo
sulla faccia allora diventi un carnivoro
La prima volta che mio padre mi ha chiamato Squalo
avevo tre settimane. Mi teneva avvolto in un plaid mar­
rone a pochi centimetri dalla stufa a cherosene che ac­
cendeva bruciando un foglio di giornale infilato nel buco
del serbatoio. Aveva paura: adesso che ero nato, era dav­
vero costretto a tornare nel letto di mia madre tutte le
notti? Continuava a guardarmi attraverso gli occhiali a
goccia e non si spiegava quella cosa misteriosa che avevo
sulla faccia.
Mi chiamò Squalo perché gli piaceva che avessi il nome
di una pianta carnivora o di un predatore. Doveva farlo
sentire meno responsabile. Se ero nato con quella pinna al
posto del naso, c’era da aspettarsi che mi sarebbero com­
parse le branchie e in bocca un centinaio di denti triango­
lari. Era convinto che per ognuno di noi esistesse un solo
nome possibile, e lui aveva trovato il mio.
Quarant’anni dopo, sul mio biglietto da visita c’è scritto
LO SQUALO.
Tutti quelli a cui devo dei soldi mi conoscono con que­
sto nome. Quando avevo una casa sul mio citofono c’era
scritto Squalo. La “S” è il tasto più consumato del mio
computer.
Mi chiamano così per la forma del mio naso, ma se a
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chiedermelo sono i miei clienti, allora dico che è per il mio
fiuto negli affari. Sono stato io a mettere in mezzo questa
storia.
Nel mio ambiente, alcuni dicono che sento il sangue a
chilometri di distanza, altri che sono più innocuo di un
pesce gatto. In tutti e due i casi, il mio destino è scritto nella
forma del mio naso.
Chi conosce la stanza dove vivo alla pensione Nuova Li­
bia e sa quanto valgono i vestiti che indosso, capisce perché
lo Squalo ha deciso di cambiare acque. Sono fuori di cen­
totrentaduemila euro con i Santamaria. Hanno in mano il
rione Terzo mondo, Secondigliano e Miano. È il clan più
potente della città.
Cominciamo per gradi. Prima di conoscere le circostan­
ze che mi hanno portato al fallimento, mi toccherà raccon­
tare di come si siano conosciuti i miei genitori, perché la
verità è sempre contenuta nell’inizio di ogni storia.
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L’inizio dell’inizio
Mio padre ha scritto per la prima volta il nome di mia
madre con il sangue di un pollo. Nemmeno era sicuro di
come si scrivesse.
Nella prima versione della storia ha riempito un secchio
con il sangue del pollo e mentre gli altri operai della chicken
farm fanno il tifo per lui, immerge la mano nel secchio e
scrive la frase sulla parete bianca. Nella seconda versione
utilizza direttamente il pollo tenendolo per il collo mentre
gli altri operai urlano il suo nome e battono le mani. In
tutte e due le versioni gli operai tifano per lui e in tutte e
due mia madre gli dice di sì.
Partì per la Svizzera con quattordici sigarette e una
coperta con un ricamo arabo fatto a mano. Prese quattro
treni e camminò due giorni a piedi. Alla stazione di Mi­
lano vendette la coperta a una guardia e comprò una
stecca di sigarette. La guardia lo fregò sui soldi, lui, sul
ricamo arabo. Fu dopo la vendita della coperta che si
fece spiegare la strada per la Svizzera e che camminò i
due giorni a piedi per non spendere i soldi che adesso
aveva in tasca. Era contento, i posti freddi gli erano sem­
pre piaciuti.
In Svizzera si sistemò a casa di Cristiano, un suo amico
partito quattro mesi prima. Si presentò all’indirizzo che la
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madre di Cristiano usava per spedire le lettere alle quali
lui non aveva mai risposto. Perciò mio padre sapeva che
quello era l’indirizzo giusto. Quando gli aprì la porta, mio
padre restò a guardarlo e pensò che non basta cambiare
posto per essere un’altra persona e che la miseria è un de­
stino capace di prendere il treno e di seguirti per migliaia
di chilometri.
Cristiano lo sistemò in una stanza completamente vuo­
ta. Non aveva il materasso, ma una pila di cartoni per le
uova. Mio padre aveva paura delle galline. La parola esatta
era: alectorofobia. Gliela scrisse il medico in stampatello
sul bordo di un foglio di giornale dopo che accompagnò
sua madre a comprare le uova e gli vennero le convulsioni.
Gli ritornò in mente quella parola strana. Si stese sui car­
toni per sentire se erano comodi, doveva averci dormito
qualcuno perché si erano ammorbiditi e avevano preso
una forma capace di contenere una spina dorsale.
Il giorno seguente andò all’ufficio di collocamento.
Arrivò presto, l’ufficio era chiuso, rimase fuori alla porta
a vetri senza fare niente. La gente lo guardava. Poi apri­
rono dall’interno e lui entrò. Restò un’ora su una sedia di
plastica, poi un uomo senza capelli gli disse di entrare.
L’uomo gli fece cenno di non sedersi, era una questione
di pochi minuti. Esaminò la fedina penale e il libretto
sanitario. Gli fece scrivere il suo nome ventisette volte
per controllare come lo scriveva e se sapeva contare, poi
si infilò dei guanti sottili che sembravano una pellicola.
Con una pinza di plastica trasparente si avvicinò per al­
zargli le labbra e verificare lo stato dei denti. Fece due
passi nella sua direzione, mio padre lo fermò e se le tirò
su da solo.
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«Muoviti» gli disse, con il labbro superiore alzato.
Dopo l’ispezione l’uomo ritornò alla scrivania, infilò gli
occhiali bifocali, se li sistemò sul naso e riempì un modu­
lo. Scriveva veloce, conosceva a memoria la posizione di
ogni casella da riempire. Respirava male, doveva avere il
naso chiuso e ogni cinque secondi sbuffava aria dalla boc­
ca. Mio padre restò tutto il tempo senza parlare, ascoltava
quel respiro, poi l’uomo gli disse che per come stavano le
cose, lui poteva lavorare solo all’altoforno. Colpa dei den­
ti pensò mio padre, che da quando era partito non li aveva
più lavati.
«Va bene» disse.
Proprio a lui che piacevano i posti freddi.
Gli consegnarono una tuta e delle scarpe protettive di
una misura più grande. Ogni volta che appoggiava la pun­
ta del piede, il tallone si staccava.
Con una barra meccanica doveva infilare dei blocchi di
metallo in un carrello mobile agganciato a una rotaia. Il
carrello sostava alla sua postazione per quaranta secondi
e poi ripartiva. Prima di cominciare a muoversi, emetteva
per cinque secondi un fischio, fisso nei primi tre secondi,
intermittente negli ultimi due. Una volta ripartito, trasci­
nava nel cuore dell’altoforno i blocchi di metallo e dopo
quattordici secondi ne arrivava un altro.
Quel lavoro non gli piaceva: detestava il caldo e il fi­
schio del carrello.
Il nono giorno svenne. Cadde senza piegarsi sulle gam­
be, come sarebbe caduto un palo della luce. Solo quando
il terzo carrello entrò nel forno senza i blocchi all’interno,
si resero conto che qualcosa non andava. Fermarono l’in­
tera linea aspettando che si riprendesse.
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C’era un magazzino che faceva da infermeria. Lo por­
tarono là i due russi che lavoravano al reparto con lui. I
russi sapevano cosa fare coi blocchi di metallo, ma non
con un uomo svenuto. Inoltre era svenuto in una lingua
che ignoravano.
Il responsabile venne fuori dal suo ufficio e si mise a
sbraitare qualcosa con il caposervizio. Il caposervizio era un
polacco immigrato dieci anni prima, aveva la faccia bianca,
i capelli nerissimi e una macchia a forma di stella sulla fron­
te. Alzò il braccio e puntò mio padre che intanto si stava
riprendendo. Non seppe mai cosa si dissero quei due, però
capì che le cose si stavano mettendo male. Terminato il tur­
no gli dissero di lasciare le scarpe protettive di proprietà
dell’acciaieria e di non presentarsi il giorno seguente.
Ci pensò tutta la notte. Era steso sui cartoni delle uova
appoggiati sul pavimento. Gli piaceva stare vicino alle mat­
tonelle perché questo lo faceva sentire una pianta e ogni
tanto allungava le mani sperando di trovare del terreno
umido. Era la prima volta in vita sua che veniva licenziato.
Buttò giù mezza bottiglia di vodka che gli avevano regala­
to i due russi e il mattino seguente, con lo stomaco in fiam­
me e una bottiglina di Maalox nel taschino della giacca, si
presentò al collocamento spiegando quello che era succes­
so. L’uomo senza capelli lo ascoltò con attenzione, poi gli
chiese in che genere di posto avrebbe voluto lavorare: un
posto freddo, rispose lui. Compilò un altro modulo e gli
trovò lavoro alla chicken farm, una fabbrica che confezio­
nava polli nelle vaschette.
«È l’ultimo lavoro che ti do» disse l’uomo.
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L’intero stabilimento era un’enorme cella frigo. Bastava
un solo grado in più e quintali di pollo in vaschetta sareb­
bero marciti. C’erano pezzi di carne e macchie di sangue
ovunque, la puzza prendeva alla gola. Bisognava indossare
un camice bianco e le cuffiette. Gli venne di nuovo in
mente quella parola strana: alectorofobia. Ma queste galli­
ne erano morte e a lui la morte non gli aveva mai fatto
impressione. Inoltre c’era una cosa buona, il freddo. Lo
faceva ragionare e lavorare forte, in sole due settimane,
dopo che gli ebbero dato un paio di scarpe protettive del­
la misura giusta, divenne il caporeparto alla trinciatura.
Andava piano. Aspettava che tutti quelli che erano alla
catena con lui avessero staccato il pollo dal gancio, tagliato
il collo e buttato via la testa nel circuito centrale, tagliato in
orizzontale il corpo all’altezza delle cosce, tagliato quindi
in due sezioni il petto e in due sezioni le cosce e riposto
tutto in una vaschetta di plastica. Solo a questo punto, an­
che se aveva finito mezzo minuto prima degli altri, schiac­
ciava il pulsante rosso e la catena alta scorreva consegnan­
do a ogni postazione un nuovo pollo. Sembrava che nella
vita non avesse fatto altro che squartare polli al freddo e
premere un pulsante rosso.
Alla fine della terza settimana di lavoro, mio padre ave­
va messo assieme abbastanza soldi per comprarsi un mate­
rasso. Non aveva la macchina né poteva pagare il traspor­
to, allora se lo caricò sulle spalle e attraversò la piccola
cittadina. È stata la prima cosa che ha posseduto. Per que­
sto tutte le volte che si sentiva perduto andava a stendersi
sull’unica cosa al mondo veramente sua.
Il venerdì mio padre e Cristiano andavano a puttane. At­
torno all’area industriale c’erano dei bordelli, erano case
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piccole, su due livelli, con poche stanze da letto al piano
superiore e un divano su cui aspettare in quello inferiore.
Bisognava attendere con discrezione senza dare fastidio alle
ragazze.
La tariffa era calcolata sui salari della fabbrica dei polli,
dell’acciaieria, della fabbrica di plastica e della fabbrica
dei frigoriferi. Se si voleva sapere quale era la media di un
salario svizzero, bastava entrare in un bordello e chiedere
a quanto mettevano un pompino.
Mio padre aspettava il suo turno sul divano recitando
tra i denti un Atto di dolore per farsi perdonare, e quando
una delle ragazze si liberava, lo faceva salire al piano di
sopra. Lui a metà della scala si faceva il segno della croce
senza farsi vedere e pregava l’anima di suo padre che per
primo l’aveva accompagnato in un bordello alla ferrovia.
La ragazza allora prendeva il pollo, lo tagliava in orizzon­
tale e poi in verticale. Poi premeva il pulsante e ne arrivava
un altro.
La vita priva di sensazioni era piacevole. Lavorava in
un frigorifero gigante, non capiva la lingua delle persone
che lo circondavano, andava con una puttana diversa ogni
venerdì per dieci minuti sperando che non avessero au­
mentato lo stipendio alla fabbrica della plastica. Il mondo
delle relazioni e delle passioni non era indispensabile. Era
una massa schiumosa sullo strettamente indispensabile e
se c’era una sola cosa a cui non avrebbe mai rinunciato,
era il bottone rosso della catena alta dei polli. Ogni volta
che lo schiacciava la sua sopravvivenza era garantita per
altri venti minuti. Se lo avesse premuto un milione di vol­
te era fatta.
La Svizzera era in espansione, i suoi abitanti potevano
permettersi di non mangiare soltanto pollo e il costo di un
pompino era aumentato del cinque percento nei due mesi
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successivi. Così alla chicken farm fu introdotto un altro
prodotto: lo stoccafisso.
Lo stabilimento aveva assorbito una piccola azienda a
conduzione familiare che si occupava di importazione di
stoccafisso dalla Svezia. L’ambizione era quella di piazzare
sul mercato vaschette con porzioni di stoccafisso. Dopo
poche ore di formazione, il personale della chicken farm,
trovò sui ganci della catena, oltre ai polli, pezzi di stocca­
fisso da tagliare in forma quadrata e infilare nella vaschetta
secondo le istruzioni che ognuno aveva ricevuto. L’unica
figlia del proprietario dell’azienda di stoccafisso divenne
la responsabile della sezione trinciatura dove lavorava mio
padre, si chiamava Fabienne, e mio padre diceva che la
vedeva meglio in un bordello. Lo diceva con convinzione,
uno, perché aveva una certa pratica, due, perché Fabienne
si era messa con un cronometro in mano a misurare quan­
to tempo impiegasse ogni operaio a sezionare, tagliare e
confezionare sia il pollo che lo stoccafisso.
Fabienne indossava il camice bianco e girava senza cuf­
fietta igienica. Non aveva le scarpe protettive e portava gli
stivaletti di gomma antiscivolo. Aveva un quaderno con i
fogli a quadretti sul quale appuntava i tempi di ogni ope­
raio. Aveva disegnato con il righello una tabella, nella co­
lonna di sinistra c’era il nome dell’operaio, in quella di
destra il tempo impiegato per la trinciatura.
Nel freddo dello stabilimento, il fiato di ognuno aveva
una consistenza vaporosa, ma quello di Fabienne era più
denso di quello di chiunque altro. Si affiancava all’ope­
raio, salutava, schiacciava il pulsante sull’orologio e face­
va partire la lancetta dei secondi. Tutti cominciarono a
chiamare la Puttana, quella che poi sarebbe diventata
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mia madre. Ognuno nella sua lingua. Quando tutte le ca­
selle dello schedario di Fabienne contennero un nome e
un numero, venne fuori che mio padre era la causa del
mancato innalzamento della produttività del suo reparto.
In pratica il vecchio premeva il bottone rosso troppo len­
tamente: per la seconda volta avevano puntato il dito
contro di lui.
Lo tolsero dalla sua postazione e misero uno svizzero
che tutti nel reparto dicevano fosse stato concepito e cre­
sciuto in un bordello.
Mio padre passò tutta la notte sul materasso a fissare il
soffitto e finirsi una bottiglia di rum che aveva comprato
in un supermercato. Vomitò due volte, non era abituato,
per un po’ pensò che gli stava venendo la febbre, poi si
addormentò. La mattina fece la doccia e la barba e ritornò
allo stabilimento.
Lo svizzero lavorava a testa bassa, andava veloce e non
appena aveva finito, contava a voce alta fino a otto e poi
premeva il pulsante.
«Conta fino a dieci» gli dissero gli altri operai.
«Otto» rispose lui.
In questo consisteva la bravura dello svizzero, nell’urla­
re agli altri di sbrigarsi a finire. Sganciava il pezzo, lo sbat­
teva sulla postazione, lo tagliava tenendolo fermo con una
mano, respirava velocemente, non alzava mai la testa, più
veloce andava più l’azienda gli voleva bene, allora non ave­
va altra scelta, doveva tagliare il doppio degli altri, metterli
in difficoltà, aveva sentito le voci che giravano su di lui,
teneva la testa bassa, non voleva amici alla catena di trin­
ciatura, lui li schifava i rumeni, i polacchi, gli egiziani, gli
italiani, i filippini, i marocchini, i napoletani, e quando co­
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minciava a contare, alcune donne stavano ancora taglian­
do la parte esterna del pezzo.
Non tutti riuscivano a tenere il ritmo dello svizzero e
bisognava fermare la catena per aspettare che gli altri
avessero tagliato il pollo. Una mattina la catena di mon­
taggio venne fermata per quattro volte. Fabienne uscì
dal suo ufficio, aveva i capelli biondi, il collo bianchissi­
mo e gli zigomi alti. Il rumore dell’impianto di aerazione
era tremendo, la catena era ferma, i ganci vuoti, lo svizze­
ro alzò il braccio e indicò mio padre, disse che gli operai
erano abituati male, la colpa era la sua se tutti andavano
così lenti.
Mio padre tolse la cuffietta esibendo il principio di cal­
vizie che gli avrebbe portato via i capelli dal centro della
testa, prese lo svizzero per il collo e gli infilò la testa in un
secchio pieno di sangue di pollo.
Gli altri operai restarono immobili, uno di loro comin­
ciò a contare ad alta voce, uno, due, tre, quattro, corsero
due uomini delle pulizie a fargli mollare la presa. Fabienne
restò bloccata a guardare la scena. Quando gli tirarono
fuori la testa, lo svizzero aveva il sangue dei polli in bocca,
nel naso, nelle orecchie, nei capelli. Il sangue era rosso,
intenso, lucido sotto i neon del corridoio trinciatura. Il ca­
mice di mio padre aveva una strisciata di rosso all’altezza
del petto e lui, come ultimo gesto, cercò di appendere lo
svizzero alla catena alta assieme ai polli e agli stoccafissi
ma i ganci erano troppo piccoli.
Il giorno seguente nella fabbrica e per tutti i bordelli del
vicinato non si parlava che dell’episodio di questo italiano
che aveva quasi ammazzato uno svizzero tenendogli la te­
sta in un secchio pieno di sangue di pollo.
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Il fiuto dello Squalo