Rivista dell’Istituzione
dei Servizi Culturali
Paolo Borsellino
di Crevalcore
Comune di Crevalcore
Rassegna storica
crevalcorese
Dicembre 2011
❦
Istituto dei Servizi Culturali Paolo Borsellino
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Rassegna storica crevalcorese
Rivista dell'Istituzione dei Servizi Culturali Paolo Borsellino di Crevalcore
COMITATO di REDAZIONE
Paolo Cassoli
Magda Abbati
Roberto Tommasini
Carla Righi
DIRETTORE RESPONSABILE
Magda Abbati
Progetto Grafico
Ufficio comunicazione Comune di Crevalcore
Stampa
Gruppo Sigem di Modena
Informazioni e comunicazioni
Istituzione dei Servizi Culturali Paolo Borsellino
Via Persicetana 226 - 40014 Crevalcore (Bo);
tel. 051.0981594, fax 051.6803580
e mail: [email protected]
Ottavo numero, distribuzione gratuita
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Sommario
Abbreviazioni
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Introduzione
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STUDI E RICERCHE
Anna Natali
Patente, libretto e gallici malori
La prostituzione a Bologna e nel bolognese
nel XIX secolo
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Roberto Tommasini
I moti del 1831
35
Galeazzo Gamberini
Per una storia del risorgimento nell’alta padusa
51
Roberto Tommasini
I 685 giorni di Buoncuore
87
Magda Abbati
Alla vigilia dell’Unità, Ferraresi per caso
105
6
Abbreviazioni
Accademia Indifferenti Risoluti di Crevalcore: AIRC
Anno accademico: a a
Archivio Storico Comunale di Crevalcore: ASCC
Biblioteca Comunale di Crevalcore: BCC
Busta: b
Carteggio Amministrativo: CA
Opera citata: cit
Fascicolo: fasc
Manoscritto: ms
Museo del I e II Risorgimento di Bologna: MRB
Registro: reg
Rubrica: rubr
Avvertenze e ringraziamenti
Le immagini proposte in questo numero provengono dall’Archivio Storico
Comunale di Crevalcore e dalla Collezione privata di Roberto Tommasini che,
come sempre, ci regala tantissima disponibilità e le sue bellissime immagini.
Un altro ringraziamento va a Eugenio Menghini che pazientemente contribuisce alla raccolta ordinata del materiale che vedete qui pubblicato.
Un grazie speciale a Lucio, al suo “tocco” fortunato e alla sua ostinazione.
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Introduzione
Raccontare e ricordare la storia dell’Italia attraverso episodi locali o eventi in
ogni modo legati al territorio, penso sia un bel modo per rendere omaggio alla
nostra Patria, ai suoi 150 anni e alla sua Unità.
Credo sia anche un modo per attraversarli questi 150 anni e oltre, visto che
alcuni contributi raccontano di vicende antecedenti il 1861, un modo per sentirle
ancora nostre e non consegnarle definitivamente alla storia passata.
Si dice molto spesso che l’Italia è il paese dei mille campanili, e questo è sicuramente uno dei suoi tratti distintivi. La diversità, il patrimonio locale, le singole
territorialità, la frammentazione, i tanti dialetti, le tradizioni popolari, che si fanno
paese, per costruire l’Italia unita.
Un’Italia che ci ha messo 85 anni per diventare repubblica, e due in più per
avere una carta dei valori, la Costituzione.
Un’Italia che in 150 anni è stata attraversata da eserciti conquistatori e da eserciti liberatori.
Un’Italia che ha visto la sua gente emigrare in cerca di lavoro e fortuna, e che
ha visto le genti di altri paesi immigrare in cerca di lavoro e fortuna.
Chissà se Mazzini, Mameli, Ugo Bassi, Garibaldi, Cavour, avevano in mente
quest’Italia quando hanno messo la loro stessa vita a disposizione della patria.
Ma chissà soprattutto se la gente comune, i contadini, i poveracci, i giovani di
quell’epoca che combatterono al fianco di questi personaggi avevano una vaga
idea del loro eroismo e di quale pagina di storia stavano scrivendo.
Anche Crevalcore si distinse in quegli anni, per diversi cittadini che combatterono a fianco di Garibaldi nelle guerre risorgimentali. Oggi, grazie soprattutto
alla tenacia di Passarini Annibale (Lucio), si è costituito a Crevalcore, un gruppo
di rievocazione storica di garibaldini, che sta portando in giro per l’Italia la rivisitazione di quei momenti.
E’ per me motivo di orgoglio sapere che, attraverso questo gruppo di ragazzi
giovani e meno giovani, il nome di Crevalcore è portato in tutto il Paese.
Così come è stato motivo di orgoglio la visita al sacrario del Gianicolo a Roma,
dove diverse lapidi di garibaldini crevalcoresi sono presenti in mezzo a tanti altri
morti provenienti da ogni parte d’Italia. Da ogni parte d’Italia, da ogni campanile.
Sì è così, genti di ogni angolo d’Italia che lasciarono il proprio paesino per
combattere e costruire l’Italia. Quell’Italia che a noi oggi sembra così familiare e
che addirittura c’è chi snobba o ripudia in nome di una fantomatica autodeterminazione dei popoli, offendendo la memoria dei loro stessi antenati, dei loro
padri.
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Per questo il mio ringraziamento è profondo e forte verso tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa rivista e che attraverso la loro tenacia
tengono viva la memoria della nostra storia locale, al servizio dell’Italia Unita.
Claudio Broglia
Sindaco di Crevalcore
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“Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po’ da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare”
F. Battiato “Povera Patria”
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11
Anna Natali
Patente, libretto e gallici malori.
La prostituzione a Bologna e nel bolognese
nel XIX secolo
La ricerca che ha dato origine al presente testo (il quale propone una
parte del materiale molto più ampio esposto nel volume Salariate dell’amore.
Storie e faccende di meretrici nell’Ottocento bolognese, di Sara Accorsi e Anna
Natali, Maglio editore, 2010) ha avuto origine dalla scoperta da parte
mia, non esperta di storia e di tutt’altro mestiere, della possibilità che le
carte sedimentate nei secoli dalle burocrazie potessero fornirci non solo
freddi dati specialistici, ma, se letti nella luce di uno sguardo percettivo,
trasmetterci chiaroscuri, prospettive, dinamismi, sensazioni, linguaggi
della vita vissuta dai soggetti, intrappolando nei documenti amministrativi
un “cast” di figure vere che si muovevano nel territorio bolognese attorno
al tema, scabroso e meschino, doloroso e divertente, della prostituzione
locale nella seconda metà dell’Ottocento, subito dopo l’Unità d’Italia.
Dalle carte personalmente consultate nell’archivio storico di Persiceto
e nell’archivio di Stato di Bologna e dai testi letti sull’argomento ho
tratto spunto per una descrizione del fenomeno prostituzionale e della
sua regolamentazione, sia spaziando con uno sguardo generale su luoghi
e tempi diversi, sia focalizzando più distintamente la realtà locale,
emiliana, bolognese e persicetana, quale aspetto del mio interesse per i
comportamenti sessuali delle persone non sposate.
I materiali archivistici consultati per il presente argomento consistono
prevalentemente in corrispondenze amministrative sotto i titoli di “Ufficio
di Pubblica Sicurezza di San Giovanni in Persiceto -Prostituzione”,
“Polizia - Meretrici”, “Polizia - Parti illegittimi”, “Beneficenza pubblica Case per Esposti ed Esposti”: ho ritrovato anche alcuni verbali di processi
per stupro del Tribunale di Bologna che hanno costituito l’argomento di
un precedente volume, Amori illeciti, di Maurizio Garuti e Anna Natali.,
Pendragon, 2007.
La scelta del periodo di riferimento, la seconda metà del XIX secolo,
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viene dal fatto che i documenti iniziano nel 1859, quando al termine
della II guerra di Indipendenza ha luogo il plebiscito per l’annessione
dell’Emilia al Piemonte e cessano verso la fine del secolo nel momento in
cui, dopo la sostituzione del primo Regolamento del 1860 con un nuovo
Regolamento del 1888, il controllo della prostituzione verrà registrato
sotto intestazioni e capitoli diversi, che non ho inteso approfondire per
mantenere il lavoro circoscritto alla realtà locale.
Il materiale raccolto si configura come una copiosa sequenza di
corrispondenze amministrative, moduli da compilare o compilati, fogli di
ricevute, trascrizioni di verbali di delibere, fogli di via, lettere di reclamo
o di petizione, verbali di arresto e di traduzione in carcere, certificati
medici e bolle di accettazione in ospedale, fogli statistici e comunicazioni
anche personali di protesta, di dissenso o di giustificazione. Nonostante
la forma “burocratica” l’essere umano non può evitare di trasmettere,
sia pure involontariamente, alcuni aspetti del suo modo di essere e della
sua personalità, di modo che dalle carte si profilano dei personaggi che
possono considerarsi figure e attori di storie di un teatro “ di piazza”.
Nello scorrere quelle carte mi hanno guidato sia il desiderio di conoscenza
dei vecchi fatti del costume e della realtà storica locale sia la curiosità
per la verifica della reale efficacia delle misure di regolamentazione del
comportamento prostituzionale.
Non è estranea all’intento anche l’aspirazione a fornire strumenti e
chiavi di lettura per coloro che si interessano, per riflessione personale
e per compiti professionali, al tema della prostituzione, per evitare che
lo si tratti come un banale soggetto di sarcastiche o licenziose battute o,
all’opposto, come un semplice, pericoloso fenomeno di ordine pubblico
e di pubblica moralità.
Morigerate o discrete le donne crevalcoresi ?
Patente o libretto: oggi li richiede la Polizia Stradale, ma nell’Italia del
1860 erano documenti ufficiali che identificavano le pubbliche meretrici.
C’era però chi non aveva la patente ed erano le meretrici clandestine.
Per ottenere la patente era sufficiente che la “voce pubblica”, confermata
dalle informazioni del Comune, indicasse una donna come dedita alla
prostituzione perché la Pubblica Sicurezza la iscrivesse nell’elenco di
quelle sottoposte alla visita sanitaria obbligatoria. Se dalla visita risultava
infetta da malattia venerea veniva deportata, anche in carcere, per il
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trattamento obbligatorio “fino a guarigione”.
Tuttavia, nonostante il controllo, le meretrici, sia pubbliche che
clandestine, creavano disordine, schiamazzi, scandalo e qualcuno
indirizzava dei reclami alle autorità.
In più vi erano le “straniere”, che allora potevano provenire anche
solo da un altro comune della stessa provincia: esse pure costituivano un
problema!
E c’era pure un problema etico: perché il Comune doveva pagare le
loro cure con i soldi pubblici, destinati alla beneficenza, visto che le loro
malattie se le andavano in qualche modo a cercare con una condotta
riprovevole?
Notizie di questo genere sono registrate nei documenti del carteggio
amministrativo degli Archivi Storici di San Giovanni in Persiceto e di
Bologna.
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Purtroppo, nonostante una lunga e minuziosa ricerca nell’Archivio
Storico del Comune di Crevalcore, non è stato possibile ritrovare alcun
documento sull’argomento.
Ora, la documentazione deriva da una precisa legge, di cui dirò più
avanti, che obbligava al controllo del meretricio tutte le Delegazioni di
Polizia e a Crevalcore una Delegazione è documentata almeno dal 1861
al 1865. Inoltre nell’archivio di Crevalcore tutte le attività di Pubblica
Sicurezza sono registrate in centinaia di carte negli anni successivi. Vi si
trovano tutti i tipi di reati che venivano compiuti, denunciati, sottoposti a
condanna; vi si trovano i certificati rilasciati per buona o cattiva condotta;
vi sono registrate le nascite illegittime, gli stupri, le ingiurie e le liti fra
comari.
Ma in nessun documento ho trovato, nel periodo di interesse della
ricerca, un accenno, una dichiarazione, una accusa, una condanna, un
certificato che facesse riferimento a prostitute e alla loro attività.
Ho chiesto a chi conosce la storia crevalcorese e non ne ho ricavato
nulla. Il solo Roberto Tommasini, che ringrazio, mi ha fatto sapere di
documenti relativi al Seicento e Settecento e di “voci” del periodo fra le
due Guerre, che riferivano della presenza, in quasi ogni vicolo del paese, di
signore locali o di più o meno avvenenti signorine provenienti dalla città,
presso affittacamere o cameriere in alcune osterie, che si prostituivano
per miseria a cifre molto contenute.
Con le responsabili dell’Archivio ci siamo interrogate su questo silenzio.
Qualcuno, puritano, ha fatto sparire le carte “immorali” o qualcuno,
immorale, se le è accaparrate? Non c’erano prostitute a Crevalcore?
Almeno per la presenza di truppe impegnate nelle guerre risorgimentali,
che scorazzavano nel bolognese, sembrerebbe poco credibile. C’erano
prostitute, ma erano tanto discrete nel loro esercizio da rimanere oscure
e disperse nei vari quartieri e borghi che costituivano il territorio? Non
lo sappiamo. Resta il fatto che ciò di cui narrerò in questo intervento, le
regole e le azioni descritte, si riferiscono a normative dello Stato unitario
italiano valide ovunque: è attestato però solo da documenti di Bologna e
di Persiceto.
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Definizioni e note sulla storia della prostituzione
Prima di addentrarmi nell’esame della documentazione ritengo utili
alcune precisazioni terminologiche e una breve premessa storica, per
comprendere il significato del tema e la sua evoluzione nel tempo.
Nella sua opera “I sette peccati capitali” F. Savater riferisce una frase
di A. Goldman: “Qual è la differenza fra l’uomo e l’animale? Non la
facoltà razionale, semmai il fatto di prostituirsi. L’animale non ha questa
capacità, che consiste nell’ottenere attraverso il corpo un beneficio che
non è il piacere sessuale, ma qualcosa di diverso dal sesso”.
Che cos’è allora la prostituzione? Essa consiste nell’ abituale o transitoria
prestazione di atti sessuali nei confronti di un numero indeterminato di
persone in cambio di denaro. Si tratta di una definizione corretta ma
del tutto parziale, poiché in concreto la prostituzione è un fenomeno
sociale complesso, diffuso in ogni tempo e in ogni luogo, che le intricate
dinamiche della società hanno via via ripudiato con scandalo, tollerato
con ipocrisia, favorito con sotterfugi interessati e loschi.
Per essa intervengono almeno due, ma più spesso tre personaggi: chi
presta il servizio, chi lo richiede e ne usufruisce, chi lo organizza e vi
specula. Difatti gli uomini che prendono parte al “commercio” e se ne
avvalgono non sono certamente “innocenti” sul piano civile e sanitario e
non sempre gli utili della prostituzione vanno alla persona che la esercita,
poiché comunemente ad essa si accostano intermediari, protettori e
sfruttatori. Tuttavia nelle storie, nei libri, nei documenti, nei resoconti
giornalistici, nei lavori parlamentari e nel linguaggio comune una sola
è l’interprete, la prostituta, colei che è immagine di tutto il male per i
benpensanti e di tutto il bene nelle fantasie di chi a lei ricorre o sogna di
ricorrervi. E nei documenti consultati solo loro, le “meretrici”, venivano
schedate, controllate, patentate, vessate, schiavizzate, aiutate, protette,
visitate, curate, recluse, ammonite, redente.
Prostituta è la donna che esercita la prostituzione, ossia il “commercio
di prestazioni sessuali”; il termine deriva da prostituire, nel senso di
statuere, mettere, porre, e pro, davanti, cioè “mettere in vendita”, come
fa il mercante che pone le sue merci davanti a sé, al suo negozio, al suo
banchetto, per venderle. Un altro termine, più usato in passato, era meretrice,
da merere, guadagnare, colei che si fa pagare. E’ stata detta lupa, insaziabile,
da cui il nome del luogo di lavoro, lupanare. Più frequentemente, in modo
spregiativo, è usato il termine puttana, derivato dal francese antico putain, a
sua volta tratto da pute, la putta, la prostituta, femminile dell’aggettivo put,
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che significa puzzolente (diverso quindi da putta, femminile di putto, che nel
nostro passato indicava la fanciulla, la ragazzetta).
Vedremo in seguito quali fatti, quali condizioni, quali contesti hanno
connotato la vita delle “donne pubbliche” del nostro territorio. Se oggi
nuovi fermenti sociali, in presenza di un notevole incremento della
prostituzione, associato anche agli estesi fenomeni immigratori dai paesi
più poveri e all’intreccio con la criminalità, la tossicodipendenza, il
business turistico, premono sui legislatori perchè si ritorni ad un regime
di regolamentazione, chi è attento alla storia, al di là di romantiche ed
ipocrite reminiscenze delle allegre atmosfere delle “case chiuse”, non può
dimenticare la brutalità, la miseria, la prevaricazione, la perdita di dignità,
i contagi infettivi che connotavano la prostituzione tollerata.
“La prostituzione è antica come il mondo perché nacque coi primi
uomini che adunaronsi in società e si sentirono sospinti a cercare
l’amplesso carnale, non solo nelle legittime unioni matrimoniali, ma
ovunque sorridevan loro le gioie d’amore, strappate con brutali violenze
nello stato selvaggio, ogni qualvolta non trovavano il libero consenso”.
Questa affermazione si trova in un testo giuridico del 1888 che accompagna
il nuovo regolamento sulla prostituzione e mi pare sia pertinente con
quanto qui descritto. Continua l’anonimo autore: “Ma ben diversi furono
i criteri coi quali la prostituzione venne giudicata nelle diverse età e dai
diversi popoli. Ciò che a noi appare estrema ignominia, fu ritenuta da altri
onor singolare ed ambita gloria”.
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Le prime tracce di prostituzione riguardano la prostituzione sacra o
templare o rituale, che si riferiva ad una serie di tradizioni differenti, in cui
gli atti sessuali erano eseguiti nell’ambito di un rito religioso o con persone
considerate sacre o associate ad un luogo sacro. Nel mito i fondatori
stessi di Roma, Romolo e Remo, erano stati adottati da una lupa e Acca
Larentia, la moglie del pastore che li aveva trovati ai piedi del Palatino, era
una “lupa”, cioè una prostituta.
I Babilonesi poi, secondo Erodoto, avevano una legge che obbligava
tutte le donne del paese a prostituirsi almeno una volta all’anno ad un
forestiero e questo può considerarsi l’inizio della prostituzione ospitale,
che venne in seguito estendendosi fra gli altri popoli fino ad offrire la
moglie, la sorella, la figlia al viandante che chiedeva asilo per una notte.
Ancora Erodoto afferma che nelle colonie fenicie e in Lidia la
prostituzione sacra presentava già le pratiche del lucro e del traffico,
mentre in Egitto essa era già legale o politica perché governata da speciali
norme, in genere analoghe a quelle del commercio.
Gli Ebrei non ignoravano la prostituzione ma Mosè la vietò per le ebree,
perché la razza giudaica non avesse ad imbastardirsi e a degenerare.
Nella Grecia antica, il soddisfacimento sessuale a pagamento si svolgeva
con modalità relativamente confrontabili con quelle della società borghese
di oggi, e nelle città-stato la prostituzione era una necessità poiché erano
proibiti per le fanciulle i rapporti prima del matrimonio, alle mogli legittime
la legge consentiva di prestarsi ai soli “doveri” ed occorreva “distrarre” i
giovani dalle pratiche omosessuali. Solone istituì per primo il dicterium, la
“casa” da cui ebbe inizio la schiavitù delle donne dedite alla prostituzione
venale, che venivano comprate per esservi immesse; le etére, invece, erano
in qualche modo paragonabili alle cortigiane del Rinascimento europeo o
dei salotti parigini, o alle geishe del Giappone feudale: colte, raffinate,
esigenti, esperte nell’arte della seduzione, disputavano con i filosofi,
proteggevano le arti , erano sottoposte ad apposite leggi, ma libere.
A Roma la pòrne greca (denominazione da cui deriva la parola pornografia)
diviene meretrix, colei che guadagna col proprio corpo: il realismo e il
materialismo di Roma ponevano subito in primo piano il “guadagno”!
Narra Seneca il Retore che una schiava venduta come prostituta “stava
nuda all’approdo a disposizione dei compratori; ogni parte del suo corpo
[veniva] esaminata e palpata”. Un passatempo degli sfaccendati giovani
romani consisteva nell’andare al mercato a palpeggiare le ragazze in
vendita. Ma esercitavano la prostituzione anche straniere rapite dai pirati
o ragazze più o meno tacitamente cedute dalle famiglie. Giovenale afferma
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che perfino Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, uscisse camuffata
durante la notte per recarsi in un ”caldo lupanare” dove si concedeva per
denaro con il falso nome di Lisisca. Fu la Legge Giulia la prima che si occupò
del fenomeno, definendo i vari tipi di prostituzione, ai quali poi venivano
riferite le diverse norme, fra cui l’iscrizione in registri che consentivano
di ottenere una lista autentica di tutte le femmine che dovevano pagare
la tassa di prostituzione. I Romani apprezzavano l’amore mercenario,
che veniva praticato da tutte le classi sociali, patrizi, cavalieri, mercanti,
plebei, soldati e anche schiavi e gli illustri sostenitori del patriarcato
Seneca, Catone, Cicerone non solo tolleravano la prostituzione, ma la
consideravano la più valida difesa del matrimonio, pur non esimendosi
dall’esprimere disprezzo per la meretrice.
L’irruzione dal Nord dei Popoli Barbari, forse meno proclivi per
temperamento ai piaceri del sesso, e l’affermazione del Cristianesimo
operarono una rigenerazione del costume. La prostituzione non
scomparve ma assunse nuove forme e andamenti, invano repressa da
disposizioni tanto rigide quanto irragionevoli e inefficaci, con alternanza
di periodi di divieto ad altri di regolamentazione, allo scopo di tenerne
sotto controllo l’incidenza nel tessuto sociale. Fino al tardo Ottocento
ha prevalso il modello disciplinare, ufficiale o di fatto, e solo in tempi
relativamente recenti l’opinione pubblica ha chiesto e ottenuto l’abolizione
dei regolamenti, in modo che, dimostratasi impossibile l’eliminazione
del fenomeno o una sua incisiva riduzione, venisse a cessare almeno la
connivenza dello Stato nella sua gestione.
Dopo i secoli del primo Medioevo, in cui si manifestò una crescente
tolleranza, e dopo gli anni in cui diverse città istituirono un proprio
postribolo municipale, non raramente per iniziativa di sovrani o di
ecclesiastici, un decisivo cambiamento si avviò nel corso del Cinquecento,
quando intervennero due evenienze di rilevante importanza: la dirompente
espansione della sifilide (in relazione tanto con la recente scoperta
dell’America quanto con la campagna di Carlo VIII di Francia contro il
Regno di Napoli) e l’affermazione di una morale e di una religiosità più
rigide all’interno della Riforma protestante e della Controriforma cattolica.
Periodiche disposizioni e ordinanze vietarono con pene severissime sia la
prostituzione organizzata che quella libera, senza però che si giungesse,
ancora una volta, ad una reale repressione. E’ solo alla fine del ‘700,
soprattutto in epoca napoleonica, che si fecero strada norme più evolute
ed efficaci. Non si trattava solamente di provvedimenti di ordine pubblico
e di polizia, ma di un vero controllo statale, rivolto più verso la prostituta
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che verso la prostituzione. In numerose città e stati d’Europa le donne
pubbliche vennero relegate in case di tolleranza, dove erano schedate con
una accuratezza ed una pedanteria sconosciute negli elenchi stilati in
precedenza. Esse venivano inoltre obbligate a visite mediche periodiche,
anche bisettimanali, e veniva loro imposto, come ulteriore forma di
controllo, l’obbligo della “patente”, il libretto sanitario che attestava il
loro stato di salute e la loro regolare condotta civile. Medici e poliziotti del
buoncostume vennero così a configurare di fatto una regolamentazione di
stato mai affermata e anzi ufficialmente negata.
Lo scopo esplicito di tali umilianti provvedimenti era il contrasto
alla diffusione delle malattie veneree, sebbene l’opera di prevenzione si
concentrasse irragionevolmente sulle sole donne, mentre liberi da ispezioni
e incolpevoli per la legge erano gli altri veicoli del contagio, gli uomini.
Un simile sistema di controllo venne a provocare, alla fine
dell’Ottocento, un crescente moto di reazione in diversi gruppi sociali
e in diversi paesi, confluito in gran parte nel 1875 nella “Federazione
internazionale per l’abolizione della regolamentazione statale del vizio”.
Il dibattito, lo scontro, la lotta fra “abolizionisti” e “regolamentisti” si
configurò a partire da quel momento con “vittorie” alterne, fino a che, tra
fine Ottocento e primi decenni del Novecento il movimento abolizionista
venne consolidato dall’emergere dei movimenti per i diritti delle donne e
dal diffondersi dei partiti socialisti, fermamente contrari alla prostituzione
istituzionalizzata.
L’Italia, che ancora nel 1931 aveva stabilito una sorta di cogestione
statale delle case di tolleranza, si collocò fra le ultime nazioni occidentali
a “liberalizzare” il fenomeno, poiché solamente nel 1958 si concluse l’iter
decennale della legge conosciuta come Legge Merlin, che aboliva ogni
forma di riconoscimento legale del meretricio, chiudeva le cosiddette “case
chiuse”, rafforzava le norme penali contro l’istigazione, la coercizione, lo
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sfruttamento e la “tratta”, senza alcuna penalizzazione per la prostituta, e
demandava ad un apposito regolamento le norme per la prevenzione e la
cura delle malattie veneree.
Cenni sulla prostituzione nel bolognese
Con una certa frequenza nei film, nelle rappresentazioni o nei libri
compare, insieme alla “venesiana”, la prostituta “bolognéeesce”, connotata
da un forte accento regionale. Se per Venezia la presenza di un numero
elevato di prostitute poteva essere spiegata con il suo ruolo di porto
internazionale e interculturale, da che cosa può aver avuto origine un tale
stereotipo per Bologna, che Casanova definisce “città del piacere”?
Solitamente la prostituzione, essendo un commercio, si addensa dove
esiste il mercato. E per tale tipo di commercio il mercato è rappresentato
dalla presenza di un numero elevato di uomini, specialmente giovani,
specialmente celibi.
Bologna aveva ed ha una famosa università e numerose testimonianze
indicano una forte espansione delle presenze studentesche nei decenni
fra il XVI e il XVII secolo, di giovani vaganti da un’università all’altra,
spesso provenienti dal Nord-Europa e seguiti da compagni e servi.
Un altro serbatoio di giovani uomini esuberanti e soli è quello degli
eserciti e delle caserme. Bologna nella sua storia ha molto spesso
alloggiato truppe occupanti o assedianti o di passaggio e dopo l’Unità
d’Italia è rimasta a lungo una città fortificata ed ha ospitato fino a pochi
anni fa numerose caserme. Gli eserciti avevano spesso le proprie meretrici
al seguito, ma pare che sia stato Napoleone ad esigere che nei territori
occupati si istituissero case di piacere regolamentate, per poter sbarazzare
le sue forze armate dai seguiti femminili, “necessari” ma scomodi da
gestire nei suoi rapidi spostamenti e per limitare possibilmente le “perdite”
temporanee di soldati a causa delle infezioni veneree trasmesse dalle
clandestine. Fu con la leva obbligatoria ed in particolare con la prima
Guerra Mondiale che le numerose caserme di Bologna ebbero la necessità
di trovare modi di “sfogo” per i tanti giovani che vi stazionavano o che
tornavano dal fronte.
Infine Bologna è ed è sempre stata un importantissimo nodo di vie
di comunicazione, con strade e ferrovie che collegano Nord e Sud,
tanto dell’Italia che dell’Europa, e quindi luogo di convergenza di affari,
commerci e fiere, e sede di grandi opere infrastrutturali, che richiamavano
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ed ancora richiamano uomini viaggianti, maestranze e, quindi, prostitute.
A Bologna il distretto industriale della seta ha costituito a lungo un
esteso serbatoio sia di operai addetti ai setifici, sia di donne migranti
stagionali che nel periodo della maturazione dei bozzoli affluivano in
città, provenienti in gran parte dalle poverissime montagne bolognesi
e modenesi; esse potevano lavorare per due-tre mesi, dopo di che si
trovavano disoccupate e centinaia di esse non avevano altra via che
prostituirsi per fame.
Dunque una presenza costante e numerosa quella delle prostitute a
Bologna, che hanno costituito una fascia sociale vera e propria, presente
sotto ogni tipo di governo ed in ogni tempo, una realtà combattuta e
tollerata al tempo stesso, perché alimentata da interessi concreti ma anche
scomoda e “vergognosa” per il buon decoro della città.
Nel corso dei secoli, pubblici amministratori, clero, magistrati si
applicarono costantemente nella lotta alla prostituzione: bandi, editti,
disposizioni disciplinari, furono numerosissimi e assai frequenti, a prova
dell’entità del fenomeno e del nesso, piuttosto stretto e ricco di complicità,
fra economia cittadina e prostituzione. E’ in genere da tali bandi che si
hanno le notizie più significative.
A Bologna nel 1563 fu fondata l’Opera dei Mendicanti ed al suo
interno vennero anche costituite case di correzione femminile, come la
casa di S. Gregorio, nel tentativo di allontanare “delle povere femmine
dalle pubbliche strade dove con continuo scandalo pernottavano”.
Un editto nel ‘700 faceva divieto alle prostitute di mettere piede nella
Basilica di S. Stefano ed il cardinal Lambertini nel 1708 lo estese al divieto
di seguire la processione della Madonna di S. Luca e di uscire di casa nella
notte del Giovedì santo, quando aveva luogo la visita al Santo Sepolcro.
In proposito, un tempo nella Chiesa di S. Stefano, nel giorno di Pasqua,
di primissima mattina, donne vestite di nero e velate si trascinavano in
ginocchio dall’ingresso della basilica fino al Sepolcro, vi entravano e vi
recitavano una loro preghiera segretissima: erano le “marie maddalene”
di Bologna, le prostitute che fino a circa trenta anni fa svolgevano ancora
questo loro particolarissimo rito.
Nel Settecento le prostitute erano ancora centinaia e “davansi con
tutta libertà in braccio ad ogni più sfrenata sensualità”, mentre altre “a
briglie sciolte e senza ritegno correvano al precipizio”.
Il controllo sanitario obbligatorio per le prostitute fu imposto dalle
norme igieniche emesse dopo la Rivoluzione Francese, che aveva liberato
il meretricio dalle imposizioni morali per sottoporlo a regolamentazione
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statale di Polizia.
Il papa Pio IX si era sempre mantenuto oppositore di qualunque sistema
di regolamentazione, che giudicava “non cristiano”: durante i ventuno anni
di occupazione francese (dal 1849 al 1870) si era opposto alle pressioni
dei generali francesi per ottenere, nell’interesse delle loro truppe, le case
di tolleranza, l’iscrizione delle prostitute, le visite periodiche e le cure
coercitive. Quando nel 1860 il Governo italiano promulgò il Regolamento
voluto dal Cavour, il papa inviò una lettera al re Vittorio Emanuele,
scongiurandolo di risparmiare una tale vergogna alla città di Roma.
La regolamentazione ottocentesca nell’Italia postunitaria
Si è gia accennato che fu nel 1860, al momento dell’Unificazione
d’Italia, che venne promulgata una regolamentazione generale della
prostituzione. Il Regolamento sulla prostituzione del ministro Cavour entrò in
vigore il 1° aprile 1860, così che poté essere applicato sia alle prostitute
del Piemonte, della Liguria e della Lombardia che a quelle dell’Emilia,
annessa col plebiscito di marzo. Esso abrogava tutti i precedenti e
dichiarava lo scopo primario di controllare la propagazione delle malattie
veneree, assai diffuse in particolare fra le truppe che in quei turbinosi
momenti del Risorgimento stazionavano e circolavano costantemente nei
diversi territori dell’Italia, e fu il primo di una serie che giunse infine a
regolamentare stabilmente la materia.
Rappresentando una sorta di “meretricio di Stato”, il suddetto
Regolamento si occupò di case deputate al servizio nella città, di licenze,
di “patenti”, di orari di apertura, di tariffe, di controlli pubblici e di
conseguente pagamento di tasse all’erario. Esso impose anche relazioni
annuali da parte dell’Ispettore Igienico, che a Bologna fu il dottor Pietro
Gamberini, primario del Sifilocomio del Sant’Orsola, il quale, con
diligente precisione, ha lasciato scritti i Rapporti politico-amministrativi-clinici
per tutti gli anni dal 1863 al 1887. Assieme ai documenti di archivio di
Prefettura e Questura essi rappresentano un’ incomparabile prospettiva
per osservare i rapporti quotidiani tra prostitute, polizia e medici fiscali,
mentre la “voce” delle prostitute ci giunge quasi solamente dai molti casi
di ribellione contro il Regolamento stesso .
Esso era composto da ben 98 articoli, conteneva una trattazione
minuziosa di tutte le questioni relative al meretricio ed era caratterizzato
da una grande durezza nei confronti delle prostitute. I promulgatori e i
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promotori lo consideravano progressista perché non puniva le donne per
il loro mestiere ma solo quando lo esercitavano fuori dal controllo dello
Stato. Era però assai repressivo e manteneva le prostitute registrate sotto
la stretta sorveglianza della polizia e dei medici d’ufficio. E non solo,
ma molte donne di classe sociale inferiore che non si sottomettevano
al tradizionale ruolo femminile, spesso disoccupate, immigrate dalla
campagna, senzatetto, sole, prive del controllo di mariti o parenti maschili,
non potevano che essere considerate “puttane” e arrestate come tali anche
senza ragione.
L’analisi del Regolamento Cavour consente di rilevare che i suoi punti
cruciali erano l’art. 17: “sono considerate meretrici le donne che esercitano
notoriamente la prostituzione»”; l’art. 20: “le prostitute non iscritte
saranno chiamate all’Ufficio Sanitario o… vi saranno tradotte per essere
registrate”; e l’art. 31: “l’arresto di meretrici….sarà notificato all’Ufficio
Sanitario. In tale caso le meretrici arrestate dovranno essere sottoposte
ad una visita straordinaria”. Con tali regole alla Polizia venivano assegnati
poteri altamente discrezionali nel fermo delle donne colte in flagranza,
vera o presunta, o denunciate come “sospette”, anche a mezzo di lettere
anonime. Poiché il Regolamento era tecnicamente un atto di natura
amministrativa e non penale, essa non era sottoposta a controlli da parte
del potere giudiziario.
i sigg. CLIENTI
SONO PREGATI DI ORINARE
ALL'INTERNO DELLA CASA
ONDE EVITARE DI LORDARE
LA PUBBLICA VIA
ANNI 1929 (VII) EF.
Osservando per grandi linee le regole prescritte è possibile individuare
in sei momenti nodali il percorso del rapporto obbligato delle meretrici
con le autorità previste dal Regolamento: l’arresto, l’esame vaginale,
l’iscrizione sui registri della polizia con l’induzione all’ingresso nelle case
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di tolleranza, l’ammissione al sifilocomio, il permesso di trasferimento
residenziale e la cancellazione dai registri della Polizia.
Dopo l’arresto e la visita coattiva alcune donne, sebbene risultate sane,
venivano riconosciute come “notoriamente prostitute” clandestine e
iscritte d’ufficio nel registro. Altre che risultavano affette da mali venerei
venivano tradotte al Sifilocomio destinato alle prostitute anche quando
tali non erano. Altre, infine, che erano sane e prive di “notorietà” come
prostitute venivano rimesse in libertà con un ammonimento (“sane ma
redarguite” era la dicitura nei rapporti statistici) che risultava carico
di umiliante prevaricazione. Le donne provenienti da un altro comune
venivano munite di foglio di via con l’obbligo di lasciare al più presto il
territorio.
Le donne locali che erano considerate irrecuperabili e pericolose
venivano iscritte d’ufficio, registrando in qualcuno degli otto tipi di
schede i loro dati esteriori (altezza, colore della pelle, capelli, naso, bocca,
occhi e così via) e le informazioni personali che avrebbero consentito
di riconoscerle sempre anche in futuro. Esse dovevano lasciare i loro
documenti nell’Ufficio che le dotava di un apposito libretto, da portare
sempre con sé, contenente i dati utili per la loro identificazione e i risultati
delle visite bisettimanali effettuate o nell’Ufficio o nel postribolo, in
mancanza delle quali erano soggette ad arresto.
Se alla visita venivano trovate infette erano inizialmente tradotte e
curate in un locale collegato alla prigione di S. Ludovico in via del
Pratello poi, dal 1861, inviate al Sifilocomio di S. Orsola.
Qualunque cambiamento di residenza di una pubblica meretrice da
una città all’altra era sottoposto al permesso della Polizia, così come
l’assentarsi per più di tre giorni dal bordello e anche il ricoverarsi in
ospedale per malattie non veneree.
In ultimo il Regolamento riconosceva alle patentate la facoltà di
uscire dalla professione e di essere cancellate dal registro, circostanza
che avveniva in genere abbastanza presto, poco dopo i 30 anni (vi erano
entrate in genere fra i 16 e i 21 anni). Per cancellarsi dovevano ottenere il
nullaosta statale, ma la polizia era sospettosa (tra il 1863 e il 1886 accettò
solo l’8% delle domande) e dovevano riuscire a dimostrare alla Polizia
di aver trovato un lavoro, per lo più come domestica, o un protettore, di
solito un operaio e comunque un uomo di semplice condizione, che si
impegnava a mantenerle, a proteggerle e a garantire per loro.
Per completezza si accennerà alle regole riguardanti i postriboli o
bordelli, sebbene non ve ne fosse alcuno né a Persiceto né a Crevalcore,
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ma ve ne era uno a Cento. Si poteva aprire un postribolo con una
concessione da parte dell’Autorità di Pubblica Sicurezza e poteva essere
o del tipo in cui le meretrici avevano domicilio fisso o di quello in cui
le meretrici isolate si recavano per motivo di prostituzione. I postriboli
erano suddivisi in categorie e classi a seconda dei requisiti e dei prezzi
praticati, non dovevano essere ubicati nelle vie frequentate delle città, né
vicino a scuole, pubblici uffici ed edifici di culto.
Il complesso e farraginoso apparato della regolamentazione
prostituzionale era stato costruito, si è detto, per la necessità di frenare il
diffondersi delle malattie veneree, in particolare della più grave di esse, la
sifilide. I “mali di Venere” sono malattie che prendono il nome dal fatto
che, secondo l’esperienza comune fin dai tempi antichi, si contraggono
tramite il “commercio con le donne”, ancelle della dea dell’amore. Oggi, per
correttezza scientifica ed anche per eliminare un’ulteriore attribuzione di
colpevolezza al genere femminile, vengono dette “malattie a trasmissione
sessuale”, poiché riguardano in ugual misura sia uomini che donne. Poiché
però i risultati sanitari del Regolamento erano molto limitati, ci furono
in diverse circostanze degli interventi parlamentari contro di esso, finché
nel 1888 il ministro Crispi emanò due nuovi decreti, che applicavano
il principio della separazione dei due aspetti del problema, l’ordine
pubblico e la salute. Le “tolleranze”, in quanto esercizi pubblici, e non le
“tollerate”, erano sottoposte alla sorveglianza igienica e amministrativa,
ancora piuttosto rigida, mentre le visite e le cure mediche ed ospedaliere
venivano garantite, su loro spontanea richiesta, sia ad uomini che a donne.
Con la chiusura dei sifilocomi e la soppressione degli Uffici Sanitari
presso le Questure veniva a concludersi quella odiosa fase della disciplina
statale sulle condotte prostituzionali, che era stata introdotta dalla prima
regolamentazione. Tuttavia la disciplina, con qualche successiva modifica,
si protrasse, come si è detto, fino alla legge Merlin del 1958.
La prostituzione nei documenti di San Giovanni in Persiceto
I primi documenti rinvenuti e utilizzati per il presente lavoro sono
quelli presenti nell’Archivio Storico di Bologna sotto la voce “Ufficio
di Pubblica Sicurezza di San Giovanni in Persiceto - Prostituzione” e
riportano la data del giugno 1859, quando la città si era appena liberata
dal governo pontificio ed erano in vigore le norme delle Istruzioni
sulla Prostituzione e del successivo Regolamento sulla Prostituzione per la
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città di Torino, che attribuivano il potere di sorveglianza alla Questura e
introducevano l’istituzione di un apposito Ufficio Sanitario operante in
diretta relazione con essa. Il carteggio conservato nell’Archivio Storico
di Persiceto, alla voce “Polizia - Meretrici”, (quello che non si è trovato,
come detto più sopra, a Crevalcore) inizia invece nel maggio 1863, dopo
che le istituzioni regie si erano già stabilmente installate ed era già attiva
la “Regia Delegazione Mandamentale di S. Giovanni in Persiceto” della
Polizia, cui spettava, fra gli altri, anche il compito di applicare il Regolamento
Cavour. Da quel momento i mittenti e i destinatari delle corrispondenze
relative alla prostituzione diventarono stabilmente il Delegato di Pubblica
Sicurezza, l’Ufficio Sanitario, la Questura e i Direttori medici dell’Ufficio
Sanitario e del Sifilocomio di Bologna, il Sindaco, oltre al Comando dei
Regi Carabinieri.
Quali erano i contesti e le persone che determinavano i diversi aspetti
del controllo della prostituzione locale?
Nel primo momento di applicazione dei regolamenti il compito
principale delle autorità consisteva nell’individuare le presunte prostitute,
così da poterle assoggettare alla visita sanitaria coatta. Poiché i
regolamenti affermavano che erano da considerarsi meretrici le donne
che esercitavano notoriamente la prostituzione, il criterio di accertamento
si fondava sulle voci della “pubblica fama”. Non tutte le voci giungevano
ad essere svelate e registrate nelle pubbliche carte, bensì solo quelle che
riguardavano gli ambienti più poveri, “miserabili”, in quanto era la miseria
che conduceva i casi alle autorità, tenute ad occuparsi di chi non aveva
mezzi per sostenersi. Coloro che i mezzi li avevano contavano su riguardo
e riservatezza e gestivano le loro faccende in un modo più discreto! In ogni
caso, all’inizio gli sconcertati impiegati del decaduto governo pontificio
si trovarono a dover affrontare un compito imbarazzante e scabroso e si
dovettero improvvisamente occupare di malattie vergognose e di oscure
parti anatomiche femminili. Nella pratica amministrativa tuttavia, tranne
che nei certificati medici, praticamente “pornografici” nella crudezza del
loro linguaggio, per nascondere l’imbarazzo, si cercava di usare eufemismi
e giri di parole, quali “mal francese” o “male attaccaticcio”, “parti
pudende”, “tributi mensili”, “arte meretricia” o “ turpe mestiere”.
Sebbene constatasse con un certo rammarico che era stato “impossibile
in questa città fondare una casa di tolleranza”, il Delegato segnalava che
esistevano non poche prostitute, in particolare nella zona attorno a Porta
Ferrara e al canale, dove frequenti clamori notturni suscitavano i reclami
dei cittadini e delle autorità. Tuttavia l’esame della documentazione mostra
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che un imponente apparato organizzativo, che oltre alle già citate autorità,
comprendeva ambulatori, medici condotti, comandanti delle truppe,
levatrici, guardie municipali, custodi delle carceri, messi, consiglieri
comunali, economi, personale del Ricovero, direttore dell’ospedale
dei Bastardini, istituti correzionali, birocciai, e così via, riguardava
annualmente una popolazione locale di non più di una decina di donne
dedite alla prostituzione. Tale numero si rileva da una lettera del Delegato
di Pubblica Sicurezza che nel 1866 richiedeva alla Questura di Bologna,
oltre a un registro per le iscritte, a uno per le infette e a un bollettario
per le tasse prescritte, una dotazione di dieci libretti da rilasciare alle
meretrici! Riflettendo su quanto è stato detto in precedenza sull’efficacia
finale della regolamentazione nei confronti dello scopo istituzionale, ossia
il contrasto alla diffusione della sifilide, di nuovo occorre rilevare quanto
spesso gli apparati burocratici eccedano rispetto ai risultati, in particolare
quando i provvedimenti legislativi vengono elaborati in funzione di una
pretesa ragione di “emergenza”.
Nei fatti l’origine dell’emergenza era costituita dai “presidi di truppa”,
ossia battaglioni militari stazionanti nel territorio durante le fasi più decisive
delle guerre risorgimentali. Dal Ministero giungeva la sollecitazione a far
praticare visite straordinarie alle donne dedite alla prostituzione “onde
preservare [le truppe] dal pericolo di contrarre infezioni”. Successero
anche dei disordini ed un Generale segnalò che alcuni militari si
recavano nelle case di prostitute e pretendevano con minacce che esse
si prestassero senza mercede o la restituissero dopo la consumazione.
Addirittura, due prostitute che stavano all’Osteria della Stella erano
state costrette a scappare a Bologna. Il Generale ammoniva però che “la
mancanza o la deficienza di meretrici dove dimora molta truppa potrebbe
arrecare grandi inconvenienti”, per cui occorreva prendere provvedimenti
per rimediare alla carenza!
I primi elenchi di “sospette” comprendono i nomi delle coniugate
Rosa Novellini, Maria Cavallini, Giuseppina Vignoli, che aveva appena
partorito, Domenica Degli Esposti, Teresa Re, Teresa Balugani, Leonilde
Martignoli, Carlotta Cocchi, Carlotta Morisi, Carolina Guizzardi, Rosa
Morisi e le nubili Virginia Cotti, giovinetta, Virginia Piccinini, Ottavia
Pedini. Qualcuna era già stata visitata, altre avrebbero dovuto esserlo
al più presto. Alcune risultarono ammalate, per cui due di esse vennero
spedite al carcere correzionale della Badia a Bologna, altre furono ammesse
al Ricovero di Persiceto, una fu affidata al marito con l’intimazione
di sorvegliarla e curarla, e per la “infelice traviata” Virginia Piccinini
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“essendo… molto giovane e da marito” si fece un tentativo di curarla in
paese per non infamarla inviandola al carcere correzionale.
Quando nel 1869 si avviò la regolare pratica della visita bisettimanale
l’Ospedale civile aveva messo a disposizione un locale al piano terreno del
palazzo SS. Salvatore, sede dell’Ospedale omonimo, con accesso dal lato
Sud, dove fino a non molti anni fa era ubicato l’Ufficio Postale. Poiché il
corridoio su cui affacciava tale camera era direttamente collegato da un
lato all’ingresso principale e alla scala per i reparti di infermeria del piano
superiore, dall’altro alla Piazza oggi detta Sassoli, si venivano a ingenerare
incresciosi incontri o scontri fra i malati di ogni età e sesso, i dipendenti
e le donne pubbliche che trascendevano in scostumate condotte. Esse
davano spesso motivo di disturbo con il loro linguaggio, il loro berciare, il
loro sconcio comportamento ed abbigliamento e per di più non mancava
l’indecoroso sollazzo dei giovanotti e dei perditempo che nei giorni e
orari di visita sfilavano su e giù per la piazza per vedere e irridere le
prostitute che vi convenivano. Con una specie di “blitz” la presidenza
dell’Ospedale revocò di punto in bianco la concessione della camera, e
ne scaturì una polemica col Comune e una denuncia alla Prefettura,
fino a che si giunse ad una ricucitura dello strappo quando l’Ospedale
concesse dapprima un altro locale al piano superiore dello stabilimento,
più appartato e riguardato (forse quello subito a destra dello scalone di
accesso in fondo agli attuali uffici della Biblioteca Comunale) e in seguito
due locali nella Pia Casa di Ricovero, a pianterreno nella via del portico
di S. Francesco (quello del vecchio Ospedale), con accesso da una porta
che dava sull’angolo con via Borletto, più defilati e più adatti allo scopo.
Abitualmente venivano obbligate a visita tutte le donne sospette di
“darsi in braccio al meretricio” anche se non erano iscritte nel registro e
non erano in possesso del libretto. Le donne trovate affette da “celtico
malore” venivano inviate a cura coatta, ma i medici erano piuttosto
approssimativi nel decidere di quale malattia si trattasse e per lo più si
limitavano a descrivere i sintomi e le lesioni, tanto che la Questura
ancora nel 1870 doveva ribadire che al Sifilocomio dovevano essere inviate
solo donne affette da “vera lue”.
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Per quanto concerne il livello sociale e “professionale” delle prostitute
persicetane si rileva che esse non erano “di qualità”: nel foglio statistico
del 1872 sono classificate “tutte di terza classe”. In un elenco del 1868
sono indicate ventotto donne fra maritate, vedove e nubili e ciascuna di
esse viene qualificata dal solerte impiegato come “sospetta”, “puttana” o
“puttanissima”.
Una parte di donne è rappresentata dalle coniugate, per legge “soggette
a maritale potestà”, condizione che attribuiva al marito precisi doveri
e poteri nei confronti della moglie, tanto che potevano essere a loro
affidate perché le sorvegliassero: al marito di Teresa Re, Alessandro Rossi,
veniva “intimato il precetto” di vigilare diligentemente la condotta della
moglie affinché non si desse alla prostituzione e di provvedere alla cura
della sua lue venerea; in caso di inobbedienza la moglie sarebbe stata
arrestata e tradotta alle carceri dell’Abbadia a Bologna, mentre a lui non
era minacciata alcuna sanzione.
Cruciale era poi la condizione delle minorenni, giovinette di quindicidiciotto anni, una addirittura di undici, che erano affette da malattie
veneree e che dovevano essere curate. Erano da considerarsi prostitute?
E dove inviarle per la cura? Il Delegato di Polizia si poneva il problema,
sebbene vivessero in ambienti già degradati ed avessero una pessima
fama, di non disonorarle col mandarle in posti dove i nomi stessi erano
marchi d’ignominia e dove avrebbero dovuto restare a contatto con le più
svergognate e sordide meretrici, compromettendo la possibilità di maritarsi.
Diversi sono i nomi che compaiono: Virginia Piccinini, Enrica Vignoli,
Giovanna Rossi, Amalia Piccinini, Alfonsina e Amalia Borghi, Marianna
Guizzardi, Maria Stefani. Esse erano considerate, più che “naturalmente
disposte”, vittime di disperate situazioni familiari, in cui mancavano
uno o entrambi i genitori, ma soprattutto della turpitudine di qualche
sorella maggiore o di qualche madre che speculava sulla loro giovane età.
Maria Stefani aveva circa diciassette anni quando era fuggita dall’osteria
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di Carpi, nella quale era andata a servizio, per seguire la Compagnia di
Operette De Angelis. I genitori che la cercavano e non la trovavano da
nessuna parte, si rivolsero alla Polizia ma c’era il sospetto che la madre,
donna di pessimi costumi, fosse interessata a far “rimpatriare la figlia …
per mercanteggiare sulla sua gioventù”. Poi venne ritrovata, fu più volte
fatta curare perché infetta, venne rimpatriata da Carpi e da Cento con
foglio di via, stazionò anche alcuni giorni nel postribolo di Cento tenuto
da Enrica Salvi ed alla fine, nel 1893, accettò di farsi curare a domicilio.
I luoghi più consueti di prostituzione tollerata, ma anche clandestina,
erano alcune abitazioni private e alcune osterie, in cui si riservavano una o
più camere appartate nelle quali le donne ricevevano i “signori” o i soldati
o comunque i frequentatori del mercato e delle fiere. Sono citate più volte
le osterie Del Leoncino, Del Giubagino, Della Stella, di Via S. Apollinare.
Nel 1867 si trova un’istanza al Questore di Bologna da parte degli osti
Dionigio Scagliarini e Margherita Michelini che, dichiarandosi carichi
di numerosa famiglia e di vita assai stentata, chiedevano in occasione
della fiera, per una settimana, “la grazia di consentire che l’uno e l’altra
[potessero] tenere due prostitute per ciascuno per vedere di guadagnare
qualche cosa”. La risposta fu perentoria: la Questura ha l’incarico di
tutelare la pubblica moralità e non darà mai il suo assenso a che pubblici
esercenti si facciano strumento di corruzione e non asseconderà.“la turpe
speculazione che i due osti vorrebbero intraprendere” .
Alcune delle donne compaiono nei documenti in una sola o poche
circostanze, mentre altre saranno presenti per diversi anni, protagoniste
di visite, malattie, ricoveri, prescrizioni, carcerazioni, espulsioni, ribellioni,
trasferimenti, fughe, gravidanze clandestine, provvedimenti diversi,
mentre nuove figure si faranno presenti di anno in anno sulla scena, citate
oltre che con i loro nomi anagrafici anche con i loro soprannomi, a volte
curiosi, a volte storpiati o usati addirittura come cognomi.
Virginia Piccinini, alias Luzzi o Luzì o Luzy o la Luzzi, nel 1859
venne trovata affetta da mal francese ed arrestata perché dedita “all’arte
meretricia”. In seguito venne trovata ripetutamente malata, poi autorizzata
a curarsi sotto il controllo del padre e dei fratelli perché “non si d[esse] a
uomo” fino alla guarigione. Dopo ulteriori reclami da parte di Carabinieri
contagiati fu internata nel Ricovero, da cui fuggì con una compagna
calandosi da una finestra e attraversando il canale in secca. Fu fatta ricercare
e per mezzo dei connotati registrati sappiamo che aveva “20 anni circa,
occhi neri, capelli neri, naso e mento regolari, carnagione olivastra, statura
giusta” e indossava “una vesta di cambriule scura e sudicia”. Ritrovata a
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Bologna per mezzo di un suo biglietto fatto recapitare al padre, dovette
restituire degli indumenti rubati durante le fuga. Fu poi nuovamente
ricoverata e dopo la guarigione rinchiusa in carcere per scontare nove
giorni di punizione. Qualche tempo dopo richiese un libretto di servizio
per recarsi a lavorare a Bologna nel tentativo di “ritornare nella via
dell’onestà” ma presto la troviamo a farsi medicare dal dott. Sacenti
per lesioni al viso prodotte da uno “scaldino” lanciatole contro in una
bottega. da Maria Magoni che si era lamentata con una vicina di non aver
nulla da mangiare perché suo marito aveva consumato tutto il suo denaro
trattenendosi due giorni a S. Agata con Virginia. Dopo ulteriori ricoveri
per le stesse malattie, Virginia faceva sapere di trovarsi a Firenze, dove era
stata abbandonata da un “buon giovane”, che era partito senza avvertirla
con un distaccamento militare, e dove si nascondeva presso una signora
per il timore di essere arrestata. Con una pietosa lettera fatta recapitare al
Delegato di Persiceto chiedeva che egli le inviasse, presso un soldato dei
Granatieri di Sardegna, le sue “carte di sicurezza” allo scopo di rientrare
in paese. Rientrò e qualche anno dopo, nel 1866, ricompare in un elenco
di meretrici, nel quale di lei si dice: “fu puttana, ora ha marito e non ha
del tutto smesso”.
Enrica Vignoli, detta Bellaparola, per la sua “proclività al malcostume”
ottenne ben presto il “libretto” da lei ripetutamente richiesto. Era
un’irrequieta, non stava agli ordini, nel gennaio del 1869 era iscritta
nell’elenco degli arrestati per la rivolta e le violenze insorte in paese a
seguito della tassa sul macinato. Più volte ricoverata al Sifilocomio e
nel Ricovero, più volte incarcerata o rimandata in patria con foglio di
via, nel 1869 rimase incinta e scandalosamente non si faceva scrupolo
di andare in giro a “portare in trionfo la vergogna della prostituzione”,
tanto da procurare l’intervento del Parroco per “togliere l’offesa”. Negli
anni successivi, fino al 1879, subì ancora ricoveri, ammonizioni a recedere
dalla prostituzione e ad osservare la legge, ed arresti perché trovata
a girovagare per le vie principali di sera, anche dopo l’Ave Maria, e a
provocare schiamazzi addirittura nella pubblica piazza.
Per concludere, esprimo l’opinione che dalle storie e dai fatti fin qui
riportati sia possibile ricavare riflessioni e modelli attorno ad un argomento
che tuttora ci costringe a confrontarci con la miseria, lo sfruttamento e la
tratta delle donne, la prevenzione di gravi malattie, la vigilanza sull’ordine
pubblico, il contrasto alla delinquenza ed anche, non secondariamente,
l’analfabetismo e la pochezza sessuale di troppi uomini. Con la speranza
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che tale riflessione possa indirizzare il dibattito pubblico e le decisioni
politiche al superamento degli inefficaci e rovinosi schemi del passato, per
progettare interventi capaci di frenare l’ignoranza, il disordine, la violenza
e l’abuso senza compromettere la dignità, la sensibilità e la responsabilità
personale dei soggetti coinvolti nel fenomeno del sesso a pagamento.
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Roberto Tommasini
I moti del 1831
“Qui l’ordine pubblico è quieto e lo spirito pubblico non patisce veruna alterazione.”
Era la frase con cui il 4 Febbraio 1831 Petronio Vecchi, Priore di Crevalcore,
chiudeva il suo settimanale bollettino politico indirizzato alla Polizia Provinciale
di Bologna.
Il bollettino era un elenco dei crimini, degli illeciti e dei conseguenti interventi
di polizia accaduti in territorio crevalcorese.
I reati indicati erano prevalentemente i furti, le aggressioni e le offese, ma
quella settimana, oltre all’arresto di un tale Giuseppe Lodi di Caselle, detto il Cristo, reo di insulti e strapazzi verso il Rettore della Chiesa di Caselle, il bollettino
trattò anche di un Dragone modenese venuto a Palata per fare incetta di armi da
fuoco e dell’eco di cannonate provenienti dal modenese la notte precedente.
Effettivamente, anche a forza di cannonate, la notte del 3 Febbraio, Francesco
IV Duca di Modena stroncò sul nascere l’insurrezione organizzata da Ciro Menotti. L’insurrezione, repressa a Modena, si propagò comunque nei giorni successivi alle altre città emiliane e in seguito a quelle romagnole e delle Marche.
A Bologna il rifiuto di Polizia e Milizia di sparare sul popolo costrinse il prolegato ad autorizzare la costituzione di una Commissione di governo provvisoria formata dai conti Carlo Pepoli, Alessandro Agucchi, Cesare Bianchetti, dal
professor Francesco Orioli, dagli avvocati Antonio Zanolini e Antonio Silvani e
presieduta dal marchese Francesco Bevilacqua.
Il primo atto del nuovo organo di governo fu quello di istituire una Guardia
Nazionale, seguito poi dalla formalizzazione del Governo Provvisorio della città
e della provincia di Bologna.
Don Angelo Frabetti, Cappellano nella chiesa di San Silvestro di Crevalcore,
così descrisse quell’evento, una decina di anni dopo, in una sua cronaca manoscritta:
“… e questo fu il giorno cinque Febbraio dove a Bologna furono levati i stemmi del Papa,
e furono inalzate alcune bandiere a tre colori bianco, verde e rosso, e fu comandato che tutti
portassero nel Castello la Cocarda tricolorata e isituirono una guardia nazionale colla montura a tre colori .
Questo governo Liberale si diramò nei Castelli soggetti alla Città di Bologna dove si videro proclami e Notificazioni detto Governo Liberale. Crevalcore in si fatta circostanza mostrò
gran fanatismo al governo Liberale per essere suddito a Bologna, e ai confini del Modenese
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che innalzò una bandiera a tre colori che fu fatta a bella posta dalla Sig. ra Carolina Fangarezzi in Rossi fanatica per liberalismo e la regalò alla Comune e fu attaccata alla Casa
Comunale” .
L’esposizione del vessillo coincise probabilmente con la proclamazione dello statuto costituzionale approvato a Bologna il 4 di Marzo dall’Assemblea
dei deputati delle Province Unite. Qualche giorno prima, sempre a Bologna,
diventata il centro decisionale dell’Assemblea delle Province Unite, era stata pianificata una spedizione armata contro Roma, ed era stato adottato come stemma
dell’Unione un’aquila nera in campo d’oro sovrapposta al fascio consolare annodato con nastri tricolori.
Il tricolore era il simbolo che univa tutte le province insorte, la prova di
una strategia unica nell’insurrezione di città di stati differenti, la testimonianza
dell’ambizione all’ unità nazionale degli insorti.
A parte un gruppo di giovani corsi a dar man forte agli insorti Modenesi che
erano agli ordini di un certo Giuseppe Manicardi, ufficiale estense pensionato,
fino a quel momento i Crevalcoresi non furono particolarmente coinvolti nei
moti rivoluzionari. In paese non c’erano presidi militari da conquistare, simboli
del potere da abbattere, governanti da mettere in fuga.
La pubblica amministrazione continuò ad essere gestita dal Priore Petronio
Vecchi, eletto sotto il legato pontificio, mentre la guardia civica locale si era sciolta da sola un anno prima, dopo aver perso il proprio comandante in un conflitto
a fuoco con un malvivente.
Il primo momento collettivo di partecipazione all’insurrezione fu l’organizzazione della Guardia Nazionale locale.
Il 5 Febbraio, giorno della costituzione del Governo provvisorio, era stato
divulgato a Bologna un editto sulla partecipazione obbligatoria di tutti i cittadini
maggiori di 18 anni alla Guardia Nazionale. Ogni comune doveva costituire la
propria: “ con le armi di cui sono in possesso, dividendosi in sedentari e mobili, portando la
coccarda tricolore” .
A Crevalcore la formazione della Guardia nazionale avvenne una domenica
di Marzo dalle sei del mattino all’una pomeridiana. Davanti alle fosse del castello
a levante, si riunirono in assemblea tutti gli uomini dai diciotto ai cinquant’anni
delle parrocchie di Crevalcore, Sammartini e Caselle.
Durante l’assemblea vennero eletti capitani, tenenti, sergenti e formati i reparti, detti centurie, che costituirono la Guardia Nazionale Crevalcorese. Gli
ufficiali furono scelti fra i possidenti del paese, sicuramente più abituati a comandare ( e un po’ istruiti ), mentre i reparti vennero composti in base alla statura
dei volontari. Definiti i ruoli, il nuovo contingente militare, entrò trionfante nel
castello e, dopo aver sfilato in formazione di battaglia, si schierò nella piazza del
paese, dove fra le acclamazioni venne portata la bandiera tricolore.
Nei locali situati fra la Casa del Comune e la sconsacrata Chiesa dei Battuti, già
Febbraio 1831, Crevalcore - Esposizione del tricolore dal Palazzo Comunale
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utilizzati come quartiere dalla Guardia Nazionale in Epoca Napoleonica, venne
organizzata la caserma della nuova forza militare, subito posta sotto la sorveglianza di sentinelle. Comandante in capo della Guardia Nazionale Crevalcorese
fu eletto il sig. Giuseppe Michelini.
La strategia militare a difesa del governo e della nuova costituzione era suggerita da un volantino diffuso a Bologna il 7 Febbraio, intitolato “ Nuovo catechismo pel 1831” che predicava:
“Chi non potrà avere uno schioppo, prenderà una forca, un badile, la falce del fieno dirizzata, un bastone con una punta di ferro.
Quando il nemico minaccia le frontiere, bisogna subito ritirare i viveri, i bestiami, e le munizioni nei borghi, nelle castella, e nelle città; e là, all’imboccatura di tutte le strade, coprirsi di
barricate, alte cinque piedi, e ripetute anche nell’interno, a cento passi distanti uno dall’altra.
Bisogna inoltre preparare nelle case dei sassi e delle pietre. Quando il nemico si presenterà, gli
uomini armati si difenderanno dietro le barricate, e le donne, i vecchj, ed i ragazzi, dalle finestre
e dai tetti getteranno sul nemico i sassi, le pietre, i tegoli stessi.
Il paese che sarà minacciato farà subito suonare la campana a martello; ed i paesi circonvicini, che non avranno il nemico in vista, invieranno immediatamente tutti gli uomini armati in
soccorso del paese attaccato.
In questo modo nessun nemico, per forte che sia, potrà sottomettere il popolo”.
Il nemico possente, addestrato ed equipaggiato, era già arrivato in soccorso
della Duchessa di Parma e del Duca di Modena. Si trattava dell’esercito Austriaco che a Fiorenzuola d’Arda il 2 Marzo sconfisse gli insorti parmensi e tre giorni
dopo a Novi quelli modenesi. Il 6 di Marzo, giorno successivo alla battaglia, la
notizia della sconfitta degli insorti modenesi giunse e si diffuse in paese per
opera di un certo Petronio Accorsi, crevalcorese e volontario nei Dragoni della
provincia di Modena, corpo militare in cui era corso ad arruolarsi nei giorni
successivi all’insurrezione.
Petronio Vecchi, Priore di Crevalcore, per evitare allarmismi fra la popolazione pose il reduce sotto la custodia del corpo di guardia e informò immediatamente il Governo provvisorio della Città e Provincia di Bologna, della vittoria
austriaca:
“il battaglione dell’arciduca di Modena arrivò jeri a Carpi dirigendosi verso Modena ma
che dimostratosi coi liberali e venuto alla zuffa con questi fosse prima sconfitto, ma che dippoi
rinforzato da truppa tedesca furono i liberali respinti”;
e del conseguente sviluppo della situazione :
“diversi modenesi di Bomporto che hanno confirmata la avanti detta Notizia, dicendo di
dirigersi a Castelfranco per raggiungervi i liberali modenesi ivi dovuti ritirarsi per l’urto dè
tedeschi “.
Le notizie trasmesse al Governo Bolognese furono integrate ancora dal Priore, verso sera, da un secondo dispaccio che riportava:
“6 marzo 1831.
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All’eccelsa Commissione governativa della Città e Provincia di Bologna .
In aggiunta alla mia d’oggi segnata antecedente n° 96, sono a partecipare a codesta Eccelsa Commissione, che ulteriori notizie ricevute da n° 18 Mirandolesi qui giunti questa
sera armati di fucili ( …) portano che l’incursione nelli Stati di Modena è operata dal solo
Battaglione che seguì il Duca nella sua ritirata, e da alquanti insorgenti vestiti in varie foggie,
ed in particolare aventi in testa un capello alla Tirolese .
Si ha poi di certo che Corpi di liberali Modenesi, sonsi ritirati da què stati e stanziano oggi
l’uno a Castelfranco, l’altro a San Giovanni in Persiceto .
Qui tutto è quieto e tranquillo ed al giungere di qualche interessante notizia mi farò dovere
ragguagliarne codesta Eccelsa Commissione .
Le rinnovo i sentimenti dell’alta mia stima ed ossequio .
Il Priore P.Vecchi “
Quello stesso giorno, il legato Pontificio riprendeva il governo della città di
Ferrara grazie all’azione dell’esercito asburgico, intervenuto su richiesta del Pontefice per ripristinare la situazione precedente all’insurrezione.
Il giorno seguente da Bologna giunsero le istruzioni, richieste dal Priore in
merito all’assistenza da fornire ai 18 insorti Mirandolesi: l’intestazione era stata
modificata a mano, trasformando “Governo provvisorio della città e provincia di
Bologna” in “Governo Provvisorio delle province libere d’Italia”.
Scrupolosamente il Priore di Crevalcore continuò a trasmettere a Bologna le
notizie che giungevano da oltre confine, comunicando l’11 di Marzo:
“Preso del dovere d’informare approssimativamente codesto Eccellentissimo Governo sulla
parte delle cose attuali, ed eccone il dettaglio.
La sera delli 8 correnti il battaglione del Duca di Modena giunse a Bomporto luogo distante
da questo castello circa cinque miglia. Dopo aver ivi bivaccato per tutta la notte la mattina del
giorno susseguente q.d. partì detta truppa alla volta di Modena e dicesi per certo che alle ore 8
Antimeridiane di detto giorno entrasse in detta città senza seguisse alcun fatto d’armi, anche
ivi trovasi tutt’ora.
I liberali Modenesi all’avvicinarsi del Battaglione suindicato finirono a Castelfranco, e di là
partirono ieri mattina alla volta di Codesta Città.
Nulla di più preciso posso dire sul loro proposito.
Qui è tutto quieto e tranquillo e questa Guardia Nazionale prosegue il suo servizio con
zelo, ed attività.
Se in seguito avrò altre notizie mi farò premura d’informare codesto Eccel.mo Governo al
quale protesto la sincera mia stima, ed ossequio.
Il Priore P. Vecchi”
Il 19 di Marzo gli Austriaci lanciarono l’assalto alle province insorte dello Stato della Chiesa e in quel giorno il Priore di Crevalcore informò la Commissione
Provinciale di Polizia di Bologna della presenza di un reparto austriaco alle porte
del paese:
“Circa le ore nove di questa mattina sono sconfinati per questo Paese n° 35 tedeschi armati
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condotti da un suo ufficiale proveniente da Cento.
All’arrivo di questi che sonsi fermati alla porta del paese che conduce a Modena osservando
una carta Geografica, questo Sig. Luigi Rossi comandante questa Guardia Nazionale gli si è
presentato chiedendogli a che fossero venuti, e dal ufficiale tedesco le è stato risposto, per nulla,
e che era stato uno sbaglio di strada dovendosi pasare a Bomporto, ove effettivamente sonsi
incamminati, e passato il confine .
Nulla hanno richiesto e molestato e le cose sono restate nel piede di prima, come pure questa
guardia Nazionale .
Questa è la trista notizia che vengo sollecitamente a partecipare a Codesta Commissione, ed
attenendomi frattanto alle prescrizioni della circolare di codesto Governo n° delli 8 detto messe,
ho l’onore di rassegnarmi colla dovuta stima il massimo esequio.
Il Priore
Facendomi dovere di partecipare a codesta Commissione ulteriori notizie di quanto potesse
accadere
Spedita al destino per espresso” .
Dell’arrivo degli Austriaci a Crevalcore, la mattina del 19 Marzo 1831, esiste
anche la versione del già citato Don Angelo Frabetti che, rimasto fedele al governo Pontificio, così descrive il fatto nella sua cronaca manoscritta:
“ Oh che bel vedere allor quando al comparire sulla piazza dopo il Campanile quel Corpo
di soldati, che la Guardia di Crevalcore al vederli tutti se ne fuggirono, e il Capo posto che era
quel giorno il Sig. Pietro Golinelli che depose la spada che aveva nel cinto dopo una Colonna
del Quartiere, e gridare a suoi soldati e compagni che nascondessero i fucili che erano nel
Quartiere, e difatti li nascosero nel granaio del Teatro, e fu subito cambiata la nuova Bandiera
in una vecchia tutta logora e la nuova mai più si vide comparire in pubblico cosi andò a termine
il fanatismo Crevalcorese perché pochi giorni dopo vennero a Bologna tredici milla Tedeschi a
sedare il tumulto dei Rivoluzionari, e a ristabilire il Governo Pontificio” .
Il comportamento degli insorti Bolognesi non differì molto da quello dei
Crevalcoresi e Bologna si consegnò, senza combattimenti, il 21 di Marzo nelle
mani dell’esercito Austriaco.
Il giorno prima il Governo delle Provincie Unite si era trasferito ad Ancona
dove tentò di organizzare la difesa. In quel giorno il Priore di Crevalcore riprese a
compilare il proprio bollettino politico, ancora trasmesso al Governo Provvisorio
delle Provincie Unite Italiane.
Seguiva tre giorni dopo un’informativa alla Commissione Provinciale di Polizia, in cui oltre alla notizia di un furto, era descritta la situazione locale successiva
al ripristino del governo Pontificio:
“23 Marzo 1831.
Con mio rammarico, e più grande dispiacere vengo a partecipare a codesta Polizia una
rapina accaduta la scorsa notte alla Casa di Geremia Lodi Colono del Quartiere Albero in
distanza da questo Castello circa due miglia dalla parte di Camposanto Stato Estense, per
opera di undici malvaggi sconosciuti armati di grandi bastoni, ed uno di una pistola, parte
Marzo 1831, Crevalcore - Costituzione della Guardia Nazionale
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tinti in faccia, parte con fazzoletti tenevansi coperti fino agli occhi; quali dapprima tentarono
introdursi in casa del suddetto Lodi col mentire nome di pattuglia della Guardia del Comune, e
dippoi entraronsi con violenza derubandolo di diversi Capi, arnesi e carni, il tutto come appare
qui dalla mia denuncia del derubato stesso.
Dalle interrogazioni fatte verbalmente al denunciante può sospettarsi che i malvaggi siano
della villa di Camposanto sopradetto unito a quel Serafino Accorsi fuggiasco da queste carceri,
e partecipato a codesta Polizia al n° 2 dello stesso bolettino R.le. delli 20 stante; avvalorando
i sospetti suddetti le denuncie avutisi, che i malfattori colla refurtiva sonsi diretti al Modenese.
Vedesi purtroppo che i male intenzionati, dopo che le truppe Austriache sonsi ritirate dal
posto di Camposanto, e che questa guardia Comunale che invigila al buon ordine da qualche
giorno non si aggira per la Comune per prudenziale vista e massima che si agirano le forze
austriache, sonsi detti malviventi fatti più arditi, per cui sono anche con la presente a consultare
codesta Polizia come debbasi regolarsi il servizio di questa Guardia in appresso, molto necessitando una costante vigilanza a scanso di disordini.
Non tralascio pure di notificare a codesto Uffizio essersi qui levati i segnali tre colorati e
che tutti sonsi levati le cocarde, e sono state pubblicate le stampe innoltrate da Sua Eminenza
Reverendissima il Cardinale e Arcivescovo di Bologna e Legato a Latere delle quattro Legazioni, tutto proseguendo col massimo buon ordine e tranquillità.
In attenzione quindi di grazioso riscontro che valga a contenermi in appresso, ho l’onore di
firmarmi col massimo ossequio e subordinazione.
Il Priore Petronio Vecchi”.
Il 25 Marzo la retroguardia dell’esercito degli insorti era sconfitta a Rimini
dalle preponderanti forze austriache.
Il 26 Marzo in Ancona il Governo delle province unite italiane, consapevole
dell’impari lotta e per evitare inutili spargimenti di sangue, dopo aver ottenuto
promessa di amnistia per i coinvolti nell’insurrezione, sottoscriveva la propria
capitolazione. A Bologna il Cardinale Legato dichiarò nulli tutti gli atti compiuti
dal governo rivoluzionario in città e nelle Legazioni.
Lo Stato Pontificio cercò di mettere in sicurezza il riacquisito potere, emanando editti che intimavano alla popolazione la consegna delle armi detenute e
ordinando ai Priori di ricostituire un nuovo corpo di guardia chiamato Guardia
Civica Forense.
La guardia venne formata anche a Crevalcore e da subito si trovò a collaborare
con il Brigadiere e le quattro guardie provinciali giunte il 24 Marzo in paese, in
risposta all’aiuto chiesto dal Priore Petronio Vecchi, preoccupato per la pubblica
sicurezza.
Più dura fu la repressione attuata nel Ducato di Modena, culminata il 26 Maggio successivo con l’impiccagione di Ciro Menotti e di Vincenzo Borrelli.
Con un editto il Duca di Modena esiliò dal suo territorio, pena la decapitazione, tutti i rivoltosi.
In tanti si rifugiarono nel confinante stato. Alcuni trovarono asilo in territorio
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crevalcorese, dove, a detta di Don Angelo Frabetti, “ portarono la peste dei vizi e
la totale rovina della gioventù locale”. A disturbare il cappellano della chiesa di San
Silvestro era probabilmente la diffusione degli ideali legati all’insurrezione che
continuavano a minacciare il potere temporale dello Stato Pontificio.
Nei mesi seguenti furti e rapine si intensificarono, ma più che alla presenza
degli esiliati estensi nel nostro territorio, erano da attribuire alla scarsità di mezzi
di sostentamento della popolazione.
Nei Bollettini politici inviati al Governo sono continue le richieste, presentate
dal Priore Vecchi, di interventi per favorire l’occupazione fra i braccianti:
“- 8 Aprile Manca ad una gran parte di questi numerosi Braccianti il lavoro nell’attuale
stagione, e mancano pure i mezzi ed i lavori anche a questa Magistratura onde poter impiegare
un numero si grande di operai ascendenti a circa al n° 400.
Ieri l’altro 6 corr. Si attrupparono in numero di centotrenta e più di costoro, e vennero in
quest’ufficio chiedendo voler lavorare per guadagnarsi il vivere ed a stento si poterono dissipare
col dargli baj cinque per ciascuno.
Questa carica si è pur adoperata presso i pochi proprietari di risaie, onde impieghino questa
gente sfacendata, il che si è ottenuto per un certo numero, e per pochi giorni, stante i pochi lavori
delle risaje, che sono ormai terminati.
-15 Aprile, continua il bisogno di trovare lavoro alli Braccianti, ma non si sa il modo d’impiegarli, ed il bisogno e lagnanze cresceranno, mentre in breve cessano le vangature e la semina
delle risaie, ed in proporzione della moltitudine pochi sono quelli che passeranno a lavorare nel
Veronese.
-22 Aprile, Fuori dè furti su descritti che suppongonsi commessi purtroppo da tanta gente
priva di mezzi di sussistenza, uniti a male intenzionati, la popolazione sarebbe quieta e tranquilla, stante che lo spirito pubblico non soffre alterazione veruna.
-29 Aprile, L’impegno di dare pane, o lavoro a molti Braccianti ha recato molto imbarazzo. Ora però pare cessato dacchè parte partono pel Veronese, a parte maggiore sono spediti alli
lavori dell’Argine di Reno alla Bastia.
Si è dovuto però far arrestare, e tradurre al Governo di S.Giovanni certo Luigi Allegretti,
che oltre a farsi capo è più ardimentoso degli altri usava parole insolenti”.
Per favorire l’occupazione dei braccianti vennero inoltre intrapresi lavori di
allargamento della strada per Bologna e di acciottolamento della strada maestra
del paese.
Al fine di allontanare le insidie rivoluzionare dal proprio territorio, il governo Pontificio iniziò una lenta e progressiva repressione dei coinvolti nell’insurrezione.
In territorio crevalcorese, confinante con lo stato estense, si intensificarono le
perlustrazioni delle guardie locali, prima forense e poi rurale, e dei Carabinieri, in
qualche occasione affiancati a reparti mobili di Carabinieri e guardie pontificie.
Anche alcuni Crevalcoresi che parteciparono alla rivolta ritennero più prudente emigrare, fra questi Rebigiani Don Achille, parroco a Palata, emigrato in Fran-
Maggio 1832, Crevalcore - Dragoni Estensi in perlustrazione
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cia nel 1831; Tommasini Angelo di Bomporto, ma residente a Palata, emigrato
nel 1832. La polizia indagò i comportamenti del parroco accusato della distribuzione di coccarde tricolore dall’altare e della partecipazione alle bande armate
dei rivoltosi. Il Priore Petronio Vecchi affermò che Don Achille, scoppiati gli
sconvolgimenti del 31, mentre era rettore a Palata, partì per Bologna da dove
si trasferì a Molinella per predicare tutta la Quaresima e che, all’avvicinarsi degli
Austriaci, si era detto che si fosse unito alle orde dei ribelli dirette ad Ancona
e che, disperse queste, fosse emigrato in Francia. Poi non fece ritorno a Palata
fino al Giugno 1832. Dal giorno del suo rientro fino a quello della sua partenza
definitiva dalla parrocchia, cui aveva rinunziato per controversia con i Pepoli,
nulla poteva dirsi contro di lui.
Nel Maggio 1832 reparti dell’esercito modenese entrarono nel nostro territorio per eseguire, in unione ad un battaglione di cacciatori e Carabinieri pontifici,
operazioni di rastrellamento degli insorti.
Alle truppe modenesi in transito per il nostro comune venne concesso, dal
Priore Petronio Vecchi, di alloggiare nell’edificio dell’ospedale.
Una settimana prima, in uno scontro a fuoco avvenuto sulle rive del Panaro,
fra Crevalcore e Camposanto, militari e profughi modenesi si erano dati battaglia, causando la morte di un dragone e il ferimento di un profugo, che venne
ricoverato all’osteria San Marco di Crevalcore.
L’episodio venne citato su alcuni notiziari dell’epoca con versioni differenti.
Di seguito l’articolo riportato il 9 Giugno 1832 sulla modenese Gazzetta dell’Italia Centrale che criticava in particolare la versione dei fatti fornita dal filo rivoluzionario Corriere Francese : “Si legge nel Corriere francese del 1° giugno n. 153 . «Un
distaccamento di Dragoni del Duca di Modena viene di violare il territorio Pontificio, portandosi nel Comune di Crevalcore per arrestarvi taluni modenesi rifuggiti. Questi, non avendo
alcun mezzo di fuggire si sono difesi, ed hanno fatto fuoco di fucileria contro tali briganti. Un
maresciallo d’ alloggio è stato ucciso, due dragoni sono stati feriti, e gli altri hanno preso la fuga.
I contadini hanno perseguitato lungo tempo i dragoni, tra le più alte grida. Uno dei modenesi
ha ricevuto una palla, che 1’ ha passato da parte a parte. Costui ha detto cadendo, che amava
meglio morire, che essere rimesso al potere del Duca ». Oh bella! I soldati onorati di un legittimo
Sovrano, stimato da tutte le Corti Europee, i Dragoni Estensi sono dunque briganti agli occhi
del Corriere francese, perchè, fedeli al proprio dovere, sono affezionati al loro Augusto Principe,
fanno rispettare le leggi, e perseguitano i pubblici delinquenti? Or che dire d’un tale vilissimo
detrattore, che riguarda per ragione inversa come Eroi i disperati fuorusciti e gli esecrandi assassini? Siccome la sfrontata meretrice chiama sempre impudica la casta ed onesta donna, e il pubblico ladrone saluta sempre col nome di ladro la vittima innocente che a mano armata assalisce
in pubblico cammino per rubarla e spogliarla, così il Corriere francese è in carattere naturale , e
conserva il linguaggio proprio di lui, e di tutta la infamissima razza dei birbanti.
Noi però poco curandoci dei falsi epiteti, rettificheremo soltanto il fatto, poiché il nostro scopo
è quello di far conoscere, che i giornalisti rivoluzionari, ancorché volessero, non sanno dire mai
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una verità.
Non è vero che i Reali Dragoni Estensi violassero il territorio Pontificio. Forse se si fossero risoluti a ciò fare, i buoni clienti del Corriere francese non avrebbero potuto sottrarsi alle
conseguenze de’ loro malefici. Ecco come sono le cose. I Dragoni passeggiavano inermi fuori
dell’abitato di Camposanto.
Diversi profughi modenesi, scacciati dal territorio Bolognese, trovandosi girovaghi nella campagna di Crevalcore, si misero in agguato per commettere un assassinio sui Soldati Estensi.
Essi fecero all’ improvviso una scarica di fucileria sui Dragoni, dalla quale niuno rimase
offeso.
I Dragoni corsero allora ad armarsi in Caserma e volarono all’attacco. Uno di questi essendosi troppo inoltrato per inseguire gli assassini aggressori, cadde vittima del suo coraggio, ed
uno dei fuorusciti per nome Antonio Rizzi di S. Felice (soggetto della stessa pravità di cuore
del Corriere francese) rimase mortalmente ferito. I contadini corsero ancor essi per perseguitare
i fuorusciti e sostenere la pubblica forza protettrice delle loro sostanze; ed i bravi Dragoni ottennero dovuta ricompensa ai loro distinti servizi. Or può darsi maggior impudenza di questo
sfrontato giornale rivoluzionario, dedito a travisare i fatti più pubblici, e più notori”.
Le notizie pubblicate sono contraddittorie anche sul comportamento dei crevalcoresi, certamente l’ atteggiamento delle autorità Pontificie non era condiviso
da tutti i paesani che in parte continuarono ad aiutare i rivoluzionari.
Fra questi anche il parroco di San Silvestro don Ignazio Venturoli e il cappellano alla Guisa don Paolo Francia, che vennero poi multati per aver fornito rifugio
ad alcuni giovani modenesi. Lo stesso Venturoli e il PrioreVecchi garantirono per
l’insegnante e storico crevalcorese Gaetano Atti che in un rapporto della Polizia
Pontificia era così descritto: “Soggetto erudito che con attività ammaestra pochi scolari,
poco curandosi di insinuare in essi massime morali e religiose. Tiene poi una condotta apparentemente regolare, ma nelle trascorse vicende si mostrò aderente alle innovate cose”.
Ambigua apparve la posizione di Petronio Vecchi, Priore del Comune prima,
durante e dopo l’insurrezione, che segnalava, anche per dovere di carica, alcuni
compaesani coinvolti nella rivolta, dei quali tendeva comunque a sminuire l’operato.
Così ne parla Lorenzo Meletti nei suoi manoscritti:
“Di un certo Giuseppe Manicardi diceva che all’epoca degli indicati torbidi si portò a
Modena ove prese servizio nelle truppe ribelli seco conducendo alcuni giovinastri del basso volgo,
sfaccendati e poco riflessivi di questo paese, mossi piuttosto dal bisogno di guadagnare che da
spirito di partito, al primo sentore dell’avvicinarsi delle truppe austriache alcuni di questi disertarono riconducendosi ai loro focolari e gli altri, dopo i fatti di Ancona fecero lo stesso, come
pure il Manicardi che pure di presente qui dimora!
Il Vecchi aggiungeva: Le critiche circostanze di quei tempi forzarono alcuni a non mostrarsi
avversi alla novità della cosa, ma tutti però si contennero nei limiti del dovere e dell’onesto. Posso
poi con osservanza accertarle o Ill.mo Governatore, che passati li pochi giorni di quei trambusti,
tutto rientrò nel primero ordine e che da quell’epoca in poi nessuno si è sbilanciato con fatti e
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sentimenti”.
Negli anni seguenti continuarono gli sforzi di Governo e Polizia per identificare ed emarginare i coinvolti nell’insurrezione; per i sospettati c’era l’esclusione
dagli incarichi nella pubblica amministrazione e limitazioni negli spostamenti.
Nei passaporti rilasciati, spesso sulla base di raccomandazioni fornite dai parroci, il mancato coinvolgimento nei moti era indicato come referenza. Ecco un
passaporto rilasciato il 10 Aprile 1831 dal parroco di Galeazza:
“ A chiunque, certifico io sottoscritto Parroco di Santa Maria della Galeazza che Luigi
Ragazzi, abitante in questa mia Parrocchia in qualità di servitore nella Fabbreria Pepoli nella
Palazzina presso di Luigi Paltrinieri, dalla festa di tutti li Santi sino ad oggi; e che mai si è
intromesso nelle cose spettanti al governo, e precisamente nel tempo della rivoluzione non essersi
mai partito dalla propria officina, e né presa arma contro il Sovrano Regnante, ma sempre ha
atteso al suo lavoro. Sto per la verità.
In fede Don Domenico Pistani” .
Forse non è casuale che nell’Archivio Storico Comunale manchino le liste dei
comandanti e dei volontari iscritti nella Guardia Nazionale Crevalcorese o notizie sull’esposizione del tricolore dalla finestra del palazzo comunale.
L’azione repressiva riuscì a contenere gli ideali unitari per altri 15 anni.
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Fonti archivistiche e documentali
Archivio Storico del Comune di Crevalcore
Carteggio Amministrativo, Polizia n. LV Rubrica 11°
Passaporti (1815-1834), b1
CA, Legislazione n. XIV, Rubr 1° Provvidenze Generali (1825-1832), b1
CA, Erario n. XVII, Rubr 6° Spese Comunali (1830-1856), b1
CA, Guerra e Milizia n.VIII, Rubr1° Provvidenze Generali (1816-1858), b1
CA, Polizia n. XXXVIII, Rubr 4° Denuncie e Querele, 5 Furti e truffe
dal 1830 al 1832, b1
CA, Polizia n. LXXIII, Rubr 13° Bollettini Politici dal 1827 al 1838, b1
CA, Consigli n. XX Rubr 5° Sedute dal 1831 al 1835, b1
Lorenzo Meletti, Crevalcore, manoscritti presso BCC
Parte III, Note e Memorie, Dal 1801, fascicolo I, n.19 (ms 17)
Parte IV, Edifici Dal 1801,Volume II, n.27 (ms 20 C)
Parte I, Crevalcoresi Illustri e Benemeriti secolo XVIII e XIX, fasc II, n3 (ms 2)
Parte II, Annali, Dal 1801, fasc I , n10 (ms 9 )
Gaetano Frabetti, Memorie patrie, ms presso Accademia Indifferenti Risoluti di
Crevalcore
Angelo Frabetti, Storia di Crevalcore; antichità del territorio crevalcorese compilata dal sig.
dottore Gaetano Atti pubblico maestro di latinità, coll’aggiunta d’alcuni fatti ed avvenimenti
accaduti nell’antichità fino al presente colla venuta dei Francesi racolti di don Angelo Frabetti,
sacerdote crevalcorese, e sue note in fine, ms. presso AIRC
Bibliografia
Paolo Cassoli, La scuola di “Umanità e Rettorica di Gaetano Atti”, in Notiziario di
Crevalcore, n. 2, Maggio 1985
Angela De Benetictis, «Militari apparenti». La guardia civica di Bologna per lo Statuto
fondamentale fra monarchia pontificia e cittadinanza, Bologna 2010
50
Roma 1849. Il teatro di operazioni sul colle Gianicolo dall’aprile al giugno.
51
Galeazzo Gamberini
Per una storia del risorgimento nell’alta padusa
Esistono innumerevoli e spesso ottimi testi che trattano degli avvenimenti
connessi al Risorgimento italiano e più specificamente delle operazioni militari specie di quella che viene chiamata Prima guerra di indipendenza (18481849). In questa fase del processo unitario politico militare si raccolsero,
dopo iniziali effimeri successi, soltanto finali disastrose sconfitte.
Sempre da un punto di vista tecnico militare pochissimi gli studi dettagliati
degli uomini e dei reparti del territorio originati, per quanto riguarda lo Stato pontificio, nei Comuni della pianura bolognese nord-occidentale, quella
confinante sia con lo stato austro-estense di Modena sia con la Legazione
(provincia), sempre pontificia, di Ferrara. Quindi le presenti note riguardano
sia gli uomini sia gli avvenimenti che coinvolsero i Reparti militari da questi
stessi uomini formati che si portarono a combattere in ambiti più lontani
(Lombardo-Veneto nel 1848 e Roma nel 1849, con le dolorose conseguenze
che le conclusero, almeno provvisoriamente).
Circa poi la storiografia ufficiale e riconosciuta, abbondantissima come si
diceva, non poca parte di questa è viziata, inevitabilmente, da una visione di
tipo nazionalistico, da contestualizzare opportunamente anche con altre parti
del continente europeo; va cioè tenuto ben presente che nella storiografia
contemporanea o immediatamente successiva agli avvenimenti trattati, la retorica ebbe una sua parte che era, potremmo dire,inevitabile data la natura
degli obiettivi da raggiungere: insomma gli spiriti andavano mobilitati.
Dopo il raggiungimento dell’Unità della Nazione questo spirito si trasformò rapidamente in strumento del costituendo apparato politico e militarindustriale che sfociò nelle guerre di conquista coloniali e, massima delle
sciagure concepibili, portò alla grande e “inutile strage”1 della sanguinosa
I Guerra mondiale (1914-18) e quindi alla strettamente collegata dittatura
fascista e alla successiva II Guerra mondiale voluta dal regime con “provinciale” irresponsabile ignoranza.
Il fascismo, al suo criminale epilogo con la R.S.I. (Salò), succube della
potenza germanica, tradizionalmente nemica della libertà italiana, per eredità
ricevuta dal cessato impero asburgico, chiuse, o quasi, il ciclo iniziato con il
Risorgimento e fu certo un’amara beffa che il regime agonizzante riesumasse
molti simboli della Repubblica romana. Un altro frutto distorto dell’ideologia
1
Benedetto XV, Messaggio di Natale 1917.
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risorgimentale fu l’espansionismo adriatico patrocinato da gruppi finanziari,
industriali e bancari come quello del Volpi di Misurata, ovvero la spinta verso
i Balcani foriera di guai per i successivi cent’anni e non certo facile da sopire
ancora oggi.
Le antiche radici del Territorio
Potrà apparire abbastanza innaturale una unità territoriale formata da alcuni comuni del contado bolognese e altri del ferrarese, ma esiste, ignorata dai
più, un’unità culturale di questa area che deriva dalla comune origine vescovile
e/o abbaziale nonantolana e quindi certamente ecclesiastica (vescovile e non
pontificia), formata letteralmente da divisioni e scambi territoriali intervenuti
fin dalle origini del vescovato e del comune cittadino dominante (Bologna).
Traccia inconfondibile di questo passato che unisce culturalmente i comuni
di Cento, Crevalcore, Persiceto, Pieve di Cento e S. Agata è l’Istituzione delle
Partecipanze Agrarie, per la maggior parte ancora esistenti e vitali. Quindi
si tratta di un “unicum” subordinato fin dal medioevo al comune o al vescovato bolognesi e soltanto gli incidenti della storia hanno portato alla rottura
formale di questa appartenenza come quello, macroscopico, della cessione di
Cento e della Pieve da parte di Papa Alessandro VI Borgia alla Casa d’Este,
come dote della di lui figlia Lucrezia che andava in sposa nel 1501 all’ormai
prossimo Duca Alfonso I.
Del resto, lo stesso ducato estense era, escluse le imperiali Modena e Reggio, un feudo della Chiesa di Roma sempre più consolidantesi in vero e proprio Stato pontificio o, come sostiene qualcuno, come un vero impero feudale non troppo diverso dall’impero germanico, spesso suo fiero antagonista,
per un lunghissimo tempo.
Alla cessazione della dominazione estense su Ferrara (Patto di Cesena,1598),
Cento e Pieve rimasero, per decisione papale (Clemente VIII Aldobrandini),
nel territorio sottoposto alla neonata Legazione ferrarese, senza ritornare al
suo vescovile signore bolognese, che conservò soltanto diritti dominicali di
decima.2
Secoli dopo anche il Comune di Crevalcore, da altri attori e per brevissimo tempo, entrò nella Legazione ferrarese: del resto ancora oggi importanti
frazioni di confine di questo Comune, come Palata Pepoli, Galeazza Pepoli
e Bevilacqua, fanno parte del Plebanato foraneo di Cento dal punto di vista
ecclesiastico, solamente.
Questo sedimentato stato di cose conobbe una improvvisa scossa con la
rivoluzione francese del 1789 le cui armate, guidate dal giovane generale Buonaparte (prossimo imperatore...) invasero e conquistarono gran parte degli
Stati italiani, nel 1796, combattendo la prima di una serie di guerre contro
l’Impero d’Austria. Ad ogni modo la scossa e il cambiamento di clima poli-
2
Dando così inizio ad una disputa secolare con la Comunità centese.
53
tico furono veramente rivoluzionari e in questi avvenimenti ci sono sempre
vincitori e vinti: lo Stato pontificio fu certamente perdente, sotto l’aspetto
politico ed economico, con la scomparsa della sua sovranità, la soppressione
degli ordini religiosi “regolari” e la conseguente confisca dei loro beni fondiari.
La riorganizzazione politica territoriale portò alla nascita della Repubblica
confederale cispadana, la prima ad inalberare il tricolore bianco-rosso-verde
(ma la prima bandiera ebbe i tre colori francesi, disposti orizzontalmente).
Venne suddivisa territorialmente, alla francese, in dipartimenti nominati da
fiumi o specchi d’acqua.
Cento divenne il capoluogo del Dipartimento dell’ “Alta Padusa” (antico
specchio vallivo che si estendeva per tutto il territorio di interesse). Successivamente la Repubblica cispadana confluì in quella Cisalpina e quindi nel
Regno d’Italia, con Milano capitale.
Nonostante certe durezze ed egoismi francesi3 era stato fatto un grande
passo avanti verso un nuovo stato di cose anche se la finale sconfitta napoleonica di Waterloo spense, almeno per il momento, il grande sogno delle classi
italiane più evolute culturalmente.
La Restaurazione
Così come è stato necessario esaminare le “radici napoleoniche” del Risorgimento italiano è giocoforza delineare il quadro della cosiddetta Restaurazione, ossia della riorganizzazione dei territori e delle relative sovranità secondo
le imposizioni delle Potenze vincitrici che avevano sconfitto Napoleone.
La risistemazione dell’Europa tendeva innanzitutto a rimettere o, appunto,
a restaurare gli antichi Stati pre-napoleonici tenendo però conto delle mutazioni irreversibili intervenute nel quasi ventennio “francese” e ciò riuscì molto bene sotto la direzione abile del Ministro degli esteri austriaco Metternich,
accorto diplomatico (specie nella cura degli interessi particolari austriaci).
Se in qualche modo si erano restaurati stati e sovrani era però opera impossibile rimettere indietro cultura e mentalità delle popolazioni che avevano
assaporato il gusto della libertà e della cittadinanza anche se ciò non avvenne sempre nell’ampiezza teorizzata dagli intellettuali: dopotutto era stato un
ventennio in larga parte passato in stato di guerra e la mano di Parigi si era
fatta sentire pesantemente. Le varie classi della popolazione avevano partecipato alle vicende in modo diverso a seconda dei casi. La nobiltà, per convinzione o per convenienza, si era schierata con gli stati francofili. La borghesia
degli affari era stata la maggiore beneficiaria della situazione anche per la
costituzione di una sorta di ampio mercato comune “ante litteram” che aveva
soppiantato le tante frontiere (e relative dogane) vigenti nell’antico regime.
Gli intellettuali avevano goduto di un clima insperato, una integrale realizzaNon secondaria la colossale razzia di opere d'arte ordinata dal Generale in capo per costituire il
grande museo nazionale di Parigi.
3
54
zione o quasi degli ideali dell’Illuminismo settecentesco.
Per quanto riguarda l’Italia in particolare (espressione, al tempo, soltanto geografica) va chiarito che la popolazione delle campagne, in larghissima
parte analfabeta (90% o più), era rimasta come fuori della storia, pur avendo
sopportato con il nuovo ordine il peso della coscrizione obbligatoria (leva
militare), prima sconosciuta e aveva pagato uno scotto di fame ed epidemie
molto maggiore della plebe delle città; sarebbe questa la classe più perdente
se non fosse essa superata, per danni morali e materiali, da quella ecclesiastica che vide la perdita di privilegi e beni materiali, come più sopra riferito.
I parroci e le diocesi, che non vennero toccati minimamente da un punto
di vista religioso, ebbero diminuite le loro funzioni “civili”, come la tenuta
delle registrazioni anagrafiche demandate ai Comuni e comunque si videro
abbastanza spesso preti e monsignori di vario livello, riottosi nei confronti
delle nuove leggi laiche, con le manette ai polsi e anche papi, come Pio VI
Braschi che nel 1798 venne deportato in Francia dove morì, e un altro (Pio
VII Chiaramonti) che venne esiliato a Fontainebleau nel 1809, per fare ritorno a Roma soltanto nel 1814.
I religiosi si sarebbero comunque presto rifatti da un punto di vista del
potere anche se i beni confiscati, ormai venduti sul mercato (ai borghesi),
erano irrecuperabili4.
Per le popolazioni contadine il miglioramento culturale ed economico si
sarebbe fatto attendere ancora, incredibilmente, per oltre un secolo e cioè
fino al consolidarsi dei vari movimenti politici e sindacali che esordirono
proprio nel fatale 1848 con il famoso “Manifesto”.
La preparazione
Proceduto all’indispensabile inquadramento storico delle radici è necessario abbandonare la situazione generale e focalizzare gli avvenimenti che
interessano più da vicino il territorio che costituiva la parte nord-occidentale
dell’ex Dipartimento del Reno, tornato a far parte dello Stato pontificio e
precisamente delle Legazioni (Province) di Bologna e Ferrara, relativamente
tranquille, al contrario della due altre, Ravenna e Forlì, perennemente in agitazione assieme a quella di Ancona (città atipica, nelle papaline Marche).
Il controllo e la repressione del governo pontificio erano esercitati mediante birri e carabinieri, un diffuso sistema di spionaggio esplicato da non piccola parte del clero e infine dal piccolo e, non sempre ben organizzato, esercito
pontificio in cui brillavano i due efficienti reggimenti di fanteria svizzeri che,
non per niente, erano stanziati a Bologna e a Forlì.
Sul tutto vigilava strategicamente l’armata austriaca che teneva guarnigioni
nella fortezza di Ferrara e a Comacchio; questi presidi erano del resto autorizzati dagli accordi del Congresso di Vienna del 1815. Il movimento naLa gigantesca operazione di liquidazione avvenne tramite l' “Agenzia dei beni
nazionali”costituita appositamente.
4
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zionale vero e proprio ha un momento di origine che può essere individuato
convenzionalmente con la partecipazione entusiastica di molti reduci delle
formazioni napoleoniche e di giovani idealisti al tentativo dell’ex re di Napoli
Gioacchino Murat (ex Maresciallo di Napoleone) di costituire, con la forza
delle armi, un regno d’Italia: il tentativo fallì però, schiacciato dalle forze austriache proprio fra Ferrara, Cento e le Legazioni romagnole (1815).
Circa poi la situazione nelle Legazioni bisogna dire che la parte a occidente
della linea congiungente Bologna a Ferrara non era particolarmente riottosa
in senso politico, ma che anzi certe importanti zone del centese (Renazzo/
Malafitto) avevano visto massicci movimenti di “insorgenza” del tipo dei clericali “Viva Maria” con l’occupazione della città e l’attacco al ghetto israelitico, ancora in periodo napoleonico.
Anche a oriente di Bologna, del resto, nella Legazione di Ravenna, e precisamente a Faenza, era esistito contemporaneamente un forte movimento
reazionario.Quello che accomunava tutto il territorio in quei decenni era l’esistenza di un forte brigantaggio, non organizzato, che martoriava gli abitanti
delle campagne e la viabilità.
I ceti colti (che spesso ovviamente coincidevano con gli abbienti) intanto
si organizzavano attraverso associazioni di tipo massonico come la “carboneria” e poi la mazziniana “Giovane Italia” con riferimenti e riti cospirativi i
quali, quando scoperti dalle varie polizie, portavano ad arresti che si concludevano anche con esecuzioni capitali e pesanti condanne, quando i coinvolti
non riuscivano a fuggire all’estero.
Questi movimenti portavano ad una serie di sollevazioni come quelle del
1821 con esecuzioni capitali in Piemonte (Stato allora estremamente conservatore) e quella delle Province Unite (parte settentrionale dello Stato pontificio) che riconobbe Bologna come propria capitale (1831)5, con immediato
relativo arrivo delle truppe austriache per la repressione, chiamate dal pontefice.
Nel territorio bolognese ferveva una intensa attività patriottica mediante
associazioni culturali e giornali, come quello degli illuminati studiosi delle novità scientifiche tipo il “Felsineo” del Berti-Pichat (e non era poco, dato che
ai docenti era proibito partecipare a convegni scientifici all’estero).
Era già iniziata la missione sacerdotale e politica di un personaggio di
grande levatura come il padre barnabita Giuseppe “Ugo” Bassi (Cento 1801Bologna 1849).
Ovviamente in questo periodo anche l’area bolognese occidentale conobbe turbamenti dell’ordine costituito di una certa entità, come quello dei moti
di Savigno6.
Dalle effimere Province Unite, Bologna derivò il suo attuale stemma comunale, con tutti i simboli inseriti nello scudo, in aggiunta alla preesistente croce.
6
A Savigno, nella valle del Samoggia, quindi sul limitare della zona oggetto della nostra particolare
attenzione, nel 1833 (regnante Papa Gregorio XVI) un gruppo di patrioti penetrò nel borgo ove
5
56
Nella Romagna orientale ( Legazione di Ravenna) si ebbe il massimo della
reazione con un processo “monstre”, promosso dal famigerato card. Rivarola, che vide centinaia di imputati e di condannati anche all’obbligo della
confessione annuale (sic) e che guastò irrimediabilmente i rapporti fra la popolazione e il governo pontificio, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno.
Anche nella vicina Modena, retta dal duca austro-estense Francesco IV,
scorse del sangue a partire dal 1821 quando venne ghigliottinato un prete,
per supposta propaganda massonica fra alcuni allievi7. Da ricordare anche il
complotto e l’esecuzione successiva, mediante impiccagione, di Ciro Menotti
e del suo compagno V. Borelli, nel 1831.
Tale situazione, durata oltre un ventennio, vide l’azione sempre più intensa
dei patrioti come, “in primis”, Giuseppe Mazzini (1805-1872 ), un genovese
instancabile, e Giuseppe Garibaldi, pretto uomo d’azione, che era in quel
tempo esule in Sudamerica dove con una sua legione italiana combatteva per
la libertà dell’Uruguay.
Come già detto, fra i primi era anche il padre barnabita Giuseppe “Ugo”
Bassi che percorse l’Italia in lungo e in largo, ricevuto dal pontefice e da
sovrani e che infiammava le folle con discorsi patriottici a forte contenuto
sociale.8
si trovavano detenuti alcuni cospiratori in attesa di processo. Sulle prime l'impresa riuscì, ottenendo la liberazione dei detenuti. Forze pontificie partite da Bologna però raggiunsero e circondarono i patrioti nella zona di Monghidoro. Catturati e processati, ventuno di essi vennero condannati
a morte, ma le esecuzioni furono però “solamente” sette ed eseguite contro il muro posteriore
del monastero del Corpus Domini a Bologna (via Castelfidardo) il 7 maggio 1844.
7
Si trattava di don G. Andreoli, sottoposto ad inumani interrogatori alla fine dei quali ammise i
fatti contestati.
La domanda di grazia presentata venne respinta sulla base del fatto che l'imputato aveva inizialmente negato. Processo ed esecuzione ebbero luogo a Rubiera di Reggio.
8
Subì, il Bassi, innumerevoli persecuzioni sia da parte di superiori sia di vari ordini religiosi. Dopo
un periodo di esilio nelle Marche, venne espulso dallo Stato pontificio e si rifugiò nel Regno di
Napoli dove beneficiò della protezione di quell'arcivescovo. Rientrò dopo l'amnistia per i reati politici concessa dal neo eletto Papa Pio IX Mastai- Ferretti (precedentemente vescovo di Imola) nel
1846. Il Bassi continuò, sempre fra mille contrasti con il mondo ecclesiastico, nelle affollatissime
predicazioni. Nonostante la ricchezza dell'Ordine, era costretto all'umiliazione della richiesta di
mezzi per l'acquisto di tonaca e scarpe. Nulla gli venne risparmiato, comprese insinuazioni circa
rapporti risultati solo epistolari con la concittadina marchesina Carolina Rusconi (Cento 1807Bologna 1892). Il Nostro, all'inizio delle ostilità contro l'Austria (1848), si unì ai volontari pontifici
che assistette fraternamente nella battaglia di Treviso, durante la quale rimase ferito seriamente al
petto e poi partecipò alla difesa di Venezia. Assai triste che, proprio in quei giorni, il suo superiore
barnabita ottenesse dal Papa la firma dell'atto di riduzione allo stato secolare e quindi egli diventasse dipendente dal cardinale arcivescovo di Bologna Oppizzoni: il tutto a sua insaputa. Rientrato
con il Battaglione “Alto Reno” del marchese Zambeccari, al di qua del Po, a seguito del cambiamento subentrato nella condotta di Pio IX (e il sabotaggio del filoaustriaco Segretario di stato card.
Antonelli e della sua cerchia di prelati conservatori), seguì con entusiasmo le truppe trasformatesi,
con l'evento del febbraio 1849, da pontificie a repubblicane. Queste forze si stavano concentrando
57
Rivoluzioni, guerra e battaglione “Basso Reno”.E’ evidente che una situazione pre-rivoluzionaria diffusa in pressochè tutta l’Europa non sorge per
caso e all’improvviso. Le aspirazioni alla libertà e all’indipendenza dei popoli
europei era stata scatenata dalla Rivoluzione francese del 1789 ed “esportata
sulle baionette de l’Armée” comandata quasi da subito da Napoleone Buonaparte9
Il primo scossone, almeno per gli italiani o, meglio, per gli abitanti della
penisola italiana, fu l’elezione al soglio papale del cardinale Mastai-Ferretti,
vescovo di Imola, con il nome di Pio IX nel 1846, alla morte di Gregorio
XVI Cappellari (Belluno1765- 1846), il Papa massimamente reazionario. La
posizione iniziale del nuovo Papa fu ritenuta molto liberale per la concessione di un’amnistia a tutti i detenuti politici o ai ricercati esuli, sia pure con
giuramento di pentimento e fedeltà. Ed erano molti, a causa della rigida
politica del suo predecessore Gregorio XVI e del di lui Segretario di stato card. Lambruschini. Concesse, Pio IX, una sorta di statuto che, se non
la democrazia, permetteva un’assemblea (non elettiva) e un governo misto
composto cioè non più di soli ecclesiastici. Nel ribollire politico fra gli Stati
italiani si mostrò proclive, in un primo tempo, ad accettare la proposta di una
presidenza in una confederazione italiana, avanzata da diversi intellettuali fra
i quali Carlo Cattaneo (Milano 1801-1869). 10 Accettò anche trattative riservate con il Piemonte sabaudo, cosa questa non certo gradita alla sua Segreteria
a Roma per difenderla dai francesi, che si proponevano di rimettere sul perduto trono Pio IX. Il
Bassi si comportò eroicamente nel Lazio e sul Gianicolo, assistendo i feriti di ambo le parti. Seguì
Garibaldi al momento della caduta di Roma nella ritirata verso il nord lungo il tormentato cammino
appenninico fino allo scioglimento a S. Marino.
Rimase nel gruppetto dei fedelissimi e si imbarcò a Cesenatico per dirigere su Venezia che ancora
resisteva, ma le navi del blocco navale austriaco costrinsero i fuggiaschi a sbarcare a Magnavacca sul
litorale ferrarese (attuale Porto Garibaldi). Scoperto dai carabinieri pontifici, venne arrestato con
il suo compagno cap. Giovanni Livraghi, entrambi completamente disarmati (come da rapporti di
polizia conservati in A.S. Bo , Legazione, Atti Ris.b.8 e M.RIS.Bo. Ad nomen ) furono trasportati a
Bologna, dove a villa Spada il gen. Gorzkowsky, dopo la detenzione di una nottata al carcere della
Carità, ne ordinò la fucilazione, nonostante il suo proprio bando prevedesse tale pena solamente
per i prigionieri catturati armati. Oscure le trame dei vari poteri austriaci e soprattutto pontifici,
in questa triste vicenda. La scarica mortale li colpì il giorno 8 agosto 1849, alle ore 13:15, sotto il
portico che conduce alla Certosa di Bologna ( oggi piazza della Pace), dopo che il parroco titolare
aveva declinato la somministrazione dei sacramenti, demandandola ad un cappellano, causa precedenti impegni assunti. E' sepolto alla Certosa di Bologna, in un sarcofago sito nella cripta dei
caduti della I Guerra mondiale.
9
Preferiamo scrivere il suo nome all'italiana anziché nella forma francesizzata in Bonaparte: almeno per gli anni iniziali, visto che il grande Corso nasceva in una famiglia di origini toscane.
10
Federalista e repubblicano anti sabaudo. Capeggiò il consiglio di guerra durante la rivoluzione
delle Cinque giornate di Milano. Dopo l'Unità, eletto deputato del Regno, si rifiutò di entrare in
parlamento per non giurare fedeltà alla monarchia.
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di stato che fece di tutto per sabotarle. Parte per compiacere la borghesia e
i grandi proprietari dominanti e parte per oggettive necessità pubbliche, nel
1846 concesse la costituzione di una Guardia Civica come già era avvenuto,
temporaneamente, nel 1831 al tempo delle Province Unite.
La barriera si era ormai abbassata e la concessione venne accolta come
se si trattasse della Guardia nazionale napoleonica. C’è da dire, a proposito
di statuti o di costituzioni, che tutti gli Stati italiani ed esteri erano costretti,
nell’anno 1848, a far concessioni e a Parigi cadde addirittura la monarchia.
Fra il 1847 e il 1848 tutti gli Stati italiani fecero la massima concessione
compreso Napoli (sic), ma ciò però non avvenne nell’austriaco dominio del
Lombardo-Veneto, nonostante la rivoluzione avesse interessato la stessa capitale, Vienna, il che provocò l’allontanamento dal governo dello stesso vecchio principe di Metternich, quello del trattato del 1815.
Ciò avveniva contemporaneamente alla cruenta rivoluzione chiamata delle
Cinque giornate di Milano, che vedeva la cacciata del Feld-Maresciallo conte
Radetzky che si trovò costretto a rifugiarsi al riparo delle fortezze del “Quadrilatero”, in pratica sulla sinistra del fiume Mincio.
Aveva bisogno di rinforzi dall’Istria e dalla Croazia per sedare i rivoluzionari milanesi e anche gli insorti veneti che via via aumentavano di numero,
egli cedeva quindi spazio per guadagnare tempo.
Il Piemonte di Carlo Alberto era titubante( e Stato reazionario sempre
rimaneva).
E’ in questo clima che si svilupparono le trattative con lo stato pontificio
di cui si è già detto.
Molto difficile stringere accordi con i ducati emiliani retti da dinastie
asburgiche, quindi la limitata libertà ricevuta dai popoli dello Stato pontificio
li spinse, sotto la pressione delle associazioni patriottiche, con forza irrefrenabile, alla guerra contro l’Austria a fianco del Piemonte.
Carlo Alberto finalmente si mosse, forse per soli fini espansionistici, verso
la sempre desiderata Milano e poi il fiume Mincio, dove le forze pontificie in
affluenza andavano a costituire l’ala destra del suo schieramento, con punto
di congiunzione nella zona di Governolo-Ostiglia sul Po, dove avrebbe incontrato anche i pontifici del “Basso Reno” e del fratello “Alto Reno”.
Ma chi erano i civici del “Basso Reno”? Erano volontari offertisi ed usciti
dai ranghi della Guardia Civica “stanziale”, che volontaria non era, ma sudditi
fra i 21 e i 60 anni, sostanzialmente coscritti, che a turno prestavano servizio
di sorveglianza armata nei centri abitati e nelle campagne, in pattuglie più o
meno bene armate e con poco o punto addestramento.
Erano comandati da ufficiali e bassi ufficiali (sottufficiali) di nessuna esperienza (nei casi fortunati erano vecchi reduci napoleonici, nel qual caso facevano gli istruttori).
Mentre gli ufficiali avevano a loro carico uniformi e armi (sciabola), alla
truppa provvedeva il Comune di appartenenza così come avveniva per lo
stipendio degli ufficiali e il “soldo” della truppa. La spesa per l’armamento
59
veniva, ma non sempre, rimborsata dal governo.
Naturalmente sia l’equipaggiamento sia l’armamento ed addestramento
erano direttamente proporzionali all’organizzazione e alla capacità dei Comuni.
I fucili erano a “scaglia” (ossia a pietra focaia o acciarino) con baionetta ad
innesto, di sezione triangolare; inesistenti le pistole e presenti sporadicamente nelle dotazioni le “daghe” (sorta di gladio romano).
Non erano ancora diffuse le trombe e per i segnali si usava il rullare dei
tamburi presenti presso ogni Compagnia. Le uniformi spesso erano ridotte,
per mancanza di mezzi specialmente nei Comuni più piccoli, al minimo indispensabile per non fare apparire i reparti come bande di briganti e questo
minimo era il berretto semirigido di colore blu detto bonetto (dal francese
bonnet), e una “blouse”(blusa o giubbotto) dello stesso colore. Grosso problema era la fabbricazione del cappotto con cappuccio di colore marrone,
indispensabile anche nella stagione estiva per via dei frequenti pernottamenti
all’addiaccio. Problema non risolto spesso era quello delle introvabili e comunque rapidamente usurabili calzature. Si deve considerare il fatto che, dovendo provvedere al tutto ogni singolo Comune, indipendentemente o quasi
dagli altri vicini (anche per necessarie ragioni economiche), si doveva affidare
ad artigiani locali la fabbricazione dei capi di abbigliamento, il tutto in regime
di urgenza, ma non si pensi che costituisse ragione per una lavorazione in
serie: era troppo presto per i tempi.
Ufficiali e sottufficiali, quanto a preparazione militare, erano o quasi al
livello della truppa dalla quale venivano eletti con un sistema di terne, ossia
in una rosa di tre nomi, votati dagli uomini, dalle quali erano scelti e nominati dall’autorità superiore (dal Papa i gradi superiori al tenente colonnello,
almeno in teoria, mentre sicuramente di nomina papale erano i colonnelli
comandanti di Legione (Unità di due o tre battaglioni equivalenti a un reggimento).
La forza combattente quindi, espressa dalla Guardia Civica stanziale, era
soprattutto armata di entusiasmo per la causa nazionale (e qualche volta dalla
sola necessità di mantenere le famiglie con il modesto, ma sicuro, “soldo”
pagato dai Comuni).
In definitiva lo spirito dei reparti dipendeva in buona misura dalla capacità
di comando del Capo e dei suoi ufficiali che tutto lascia pensare buona , se
non ottima, vista la scarsità dello stesso addestramento ed equipaggiamento.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che il futuro comandante del “Basso
Reno”, maggiore Tommaso Rossi, ancora alle prime chiamate per addestramento
nella Civica stanziale di Crevalcore, andasse a compiere gli esercizi previsti fuori
dei rampari di mezzogiorno, alla pari di tutti gli altri “comuni” 11.Sostanzialmente
Maggiore e poi ten.col. Tommaso Rossi (Palata Pepoli 1809-Crevalcore 1855?).
Graduato delle Pattuglie cittadine confluite nella Guardia Civica nel 1847. Ottenne onorevoli risultati
al comando del battaglione del “Basso Reno” nel Mantovano e nel Veneto e soprattutto nella battagli
11
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quello che faceva la differenza in tale situazione era la generica preparazione scolastica e il prestigio naturale degli ufficiali possidenti sui borghigiani popolani. Le
classi più basse, come i braccianti nullatenenti, erano esclusi dalla Civica come pure
i necrofori ed i macellai, considerati, ai tempi, mestieri infamanti....
Non esisteva, al tempo, specie nei piccoli Comuni, un sistema di caserme, ma
gli uomini convocati a domicilio, si presentavano alla residenza del comandante
il battaglione o la compagnia, per prendere ordini o iniziare movimenti. Soltanto
nei maggiori centri dove esistevano conventi vuoti ancora disponibili dall’epoca
napoleonica, era possibile accantonare reparti e ciò era quello che avveniva a Cento
(casermone ex monastero dei frati MM.OO. e anche la sconsacrata chiesa del Rosario vecchio, sul ramparo di settentrione) e, quando giunse il momento, a Bologna
l’accantonamento si effettuò all’ ex monastero di S.Margherita (attuale via Cesare
Battisti) e al convento dei Servi in strada Maggiore e a Ferrara, vicina alla zona naturale di operazioni, pure gli alloggiamenti erano situati presso conventi. La stessa
Ferrara era sul fronte delle operazioni militari in quanto nella vecchia, ma sempre
temibile fortezza, era stanziata da decenni (1815) una forte guarnigione austriaca
con reparti solitamente di nazionalità croata e ungherese e la conseguente minaccia continua, del resto più volte materializzatasi, come base per l’invasione delle
Legazioni, costituiva una spina nel fianco non soltanto della città, ma dell’intero
territorio delle Quattro legazioni (assieme al minore complesso, pure austriaco, di
Comacchio).
Quando le truppe austriache compirono alcuni movimenti ritenuti provocatori non fu più possibile all’allora debole pontefice arginare la valanga: il modesto
esercito, rafforzato dal complesso dei reparti civici già in posto, si mosse lentamente per via ordinaria (ossia a piedi) lungo la via Flaminia-passo del Furlo- Ferrara.
Naturalmente i più vicini alla zona di operazioni erano i reparti che arruolavano i
volontari dai reparti di guardia civica stanziale e che formarono delle “colonne” di
di Vicenza del 10/6/1848, in cui si dimostrò capace comandante, fatto notevole questo, considerata
la nessuna esperienza o istruzione militare classica posseduta. Egli era però un illuminato proprietario
terriero del crevalcorese, ben istruito ed evidentemente possedeva grande ascendente sui suoi uomini.
Certamente la nomina era dovuta alla posizione sociale con relativa appartenenza ai circoli progressisti bolognesi, come quello del Berti-Pichat e, probabilmente, alla familiarità col vicino, nelle proprietà
terriere, conte Carlo Pepoli, figura del Risorgimento bolognese. Il Nostro era figlio del Priore di
Crevalcore Fu sempre seguito nelle varie spedizioni dalla moglie Clotilde Maccaferri di Massumatico
(S.Pietro in Casale). La coppia ebbe una sola figlia, Elisabetta (Crevalcore 1833?- Bologna fine '800),
custode per molti anni delle memorie familiari. Nel battaglione “Basso Reno” e poi nel reggimento
“ L'Unione” era presente, come capitano comandante di una delle compagnie, Pietro Maccaferri da
Massumatico (la cui famiglia era amministratrice del banchiere De Ferrari nel c.d. Principato del Poggetto), cognato del Rossi. Dopo un onorevole servizio al comando interinale del reggimento, durante
un'ispezione notturna alle difese avanzate a porta S.Pancrazio sul Gianicolo, a Roma, nel giugno del
1849, il Rossi venne catturato dai francesi e rinchiuso nel forte di Santa Margherita a Cannes e successivamente a Bastia, in Corsica, assieme al cognato. Non ebbe mai riconosciuto il suo grado come
effettivo, causa la fine della Repubblica. Morì a Crevalcore durante la grande epidemia di colera del
1855.
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forza fra di loro variabile che marciarono verso Bondeno/Stellata e Ferrara onde
riunirsi così da formare battaglioni di civici mobili il cui comando doveva essere
assunto dal gen. Ferrari (mentre l’esercito regolare era affidato al piemontese gen.
G. Durando che, “fuori quadro” (aveva combattuto in Spagna nelle guerre carliste),
aveva assunto servizio nell’esercito pontificio. Alla Stellata di Bondeno confluirono
le colonne di Cento, Crevalcore, Persiceto e S.Agata B. che andarono a costituire
sei Compagnie di un centinaio di uomini ciascuna, formando così un battaglione di
Guardia civica mobile che si volle chiamare “di Cento”, con forti reazioni contrarie
da parte dei volontari delle altre Comunità (figurarsi il campanilismo dell’epoca...).
Sentendo montare lo scontento si dovette interessare della questione lo stesso
gen. Durando che decise per il nome di “Basso Reno”, di assonanza napoleonica,
essendo il comandante dei corpi non regolari, ossia non permanenti, gen. Ferrari,
ancora lontano.
Il battaglione composto di sei Compagnie, dove la 1.a e la 2.a erano di Cento
e Pieve, la 3.a di Crevalcore, la 4.a di Persiceto, la 5.a mista e la 6.a di S.Agata B.,
mentre successivamente si aggregarono altre due Compagnie di Castel Bolognese,
la 7.a e la 8.a del cap. Budini, in seguito concentratesi in una sola, per questione di
personale.
Il comandante il battaglione “Basso Reno” era il vecchio comandante della
guardia civica stanziale di Cento ten. col. Vito Diana che doveva la sua nomina ai
maneggi dell’arcivescovo di Ferrara mons. Cadolini e all’alto funzionario centese,
in servizio nel governo di Roma, avv. Francesco Borgatti (destinato ad un brillante
avvenire nel parlamento del futuro Regno d’Italia)12. Ciò è la riprova del sistema
delle nomine pontificie.
Il Diana aveva in sott’ordine i maggiori Berselli di Cento e Rossi di Crevalcore e decise di passare il Po, il che avvenne puntualmente con traghettamento13 nella zona di Sermide il giorno 5 di aprile del 1848, primo dei reparti
pontifici, se non fosse che il futuro medico centese Didaco Facchini rivendiFranceso Borgatti (Renazzo1818-Firenze 1885). Cattolico conservatore, apertosi, sempre con
molta cautela, alle nuove istanze dei tempi. In stretti rapporti personali con l'arcivescovo di Ferrara Cadolini, su suggerimento o in accordo con questi, fu all'origine della (infelice) scelta di Vito
Diana al comando prima della Guardia civica centese e poi del battaglione civico mobile del “Basso
Reno”, nell'avanzata su Ostiglia. Il Borgatti, laureatosi in Legge a Bologna, si trasferì nella papalina
Roma (in gran fermento) ottenendo subito una serie di alti incarichi nei ministeri pontifici. Diresse
il giornale “La speranza”. Segretario generale del ministero degli esteri, snodo cruciale nei rapporti
fra i vari Stati italiani e segnatamente col Piemonte. Ebbe subdolamente contraria la Segreteria di
stato vaticana. Dopo l'Unità fu più volte eletto dai centesi deputato alla Camera italiana e, più tardi,
nominato dal Re senatore (allora carica a vita). Successivamente divenne, del Senato, vicepresidente
reggente.
Ebbe ruolo di primo piano nel giudizio per alto tradimento contro l'Ammiraglio Pellion di Persano,
celebrato dal Senato del regno, sedente in Alta corte di giustizia, per la vergognosa sconfitta subita
dalla flotta nel mare di Lissa (1866). Fu inoltre Ministro di Grazia e giustizia e dei culti dal 1866 al
1867 nel Gabinetto di Bettino Ricasoli.
13
Non esistevano ancora ponti galleggianti e tanto meno fissi, nella zona.
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62
cò il primato al suo battaglione “Alto Reno”14.
Questo battaglione bolognese ebbe scontri con gli austriaci alla Bevilacqua
(Castello) di Ostiglia prima di andare a combattere a Treviso una dura lotta
per sbarrare il passo ai rinforzi austriaci per il Radetzky, guidati dal ten.maresciallo Nugent.
Il comandante era il famoso col. Zambeccari, nobile bolognese, che con
il suo Reparto si era spinto anche fino a Modena, da Castelfranco E., per
appoggiare il cambio di regime in quella città e questo senza nessuna autorizzazione o copertura da parte governativa pontificia.
L’afflusso dei Reparti, specie volontari - oltre ai battaglioni civici c’erano
i Legionari, i Crociati e altri - era complicato dall’arrivo dell’esercito napoletano quasi al completo, giunto via mare fino ad Ancona, che però, proprio
al giungere delle sue avanguardie in vista del Po, ricevette dal Re di Napoli
l’ordine di rimpatrio, abbandonando la lotta per la causa italiana e fu questo
un altro duro colpo che rafforzò nel tentennante Pio IX , che non voleva fare
la guerra contro la maggiore potenza cattolica, ed era anche scoraggiato dalla
Segreteria di stato filoaustriaca, la volontà nel desistere a proseguire nella
lotta. A Roma si studiò una soluzione sottile e ipocrita per coprire l’avanzata
e cioè si dichiararono i battaglioni civici mobili “corpi franchi”, ossia corpi
irregolari senza status militare, ma questo declassamento (che esponeva a seri
rischi, in caso di cattura da parte del nemico) non venne accettato facilmente
da tutti i volontari che, come nel caso degli uomini del Quartiere Guisa di
Crevalcore, se ne ritornarono a casa.
Si dovette provvedere a richiederne altri che per fortuna arrivarono in
numero sufficiente.
Proprio in questo momento scoppiò nel comando del “Basso Reno” un
grosso problema: il ten.col. Diana abbandonò il suo posto, portandosi via
tutti i documenti, e dovette intervenire personalmente il gen. Durando che,
fra i due Maggiori in forza al battaglione, scelse per la sostituzione il Rossi e
lo promosse tenente colonnello seduta stante. E fu questa una scelta felice
perché egli era amato da ufficiali e soldati. Il battaglione, dopo aver operato
fra Ostiglia e Governolo, all’estrema sinistra dello schieramento pontificio,
quasi a contatto con l’ala destra piemontese, venne spostato, via Rovigo e
Padova verso Vicenza (nell’ultimo tratto a mezzo ferrovia: novità assoluta)
dove si schierò nella zona di porta S. Lucia assieme alle Compagnie del 2.o
reggimento svizzeri. La battaglia ebbe effettivamente luogo il 10 giugno 1849
e non riuscì a bloccare l’avanzata del ten. maresciallo Nugent, in arrivo da
Castelfranco V., dopo aver sconfitto i pontifici a Treviso e attraversato il
Piave. La resa delle forze pontificie, stipulata a Vicenza, prevedeva la neutralizzazione delle forze che avevano capitolato, per il tempo di tre mesi (per
Il futuro primario dottor Didaco Facchini aveva, al tempo, per comandante di Compagnia il
cap. Felice Orsini, l'attentatore di Napoleone III . Questo gesto, che era stato deciso per vendicare
la Repubblica Romana del 1849, lo condusse alla ghigliottina, a Parigi, nel 1858.
14
63
questi mesi, in altre parole, non avrebbero potuto riprendere il combattimento e inoltre tutti i corpi non facenti parte dell’esercito pontificio permanente
dovevano essere sciolti).
Pena di morte per gli inadempienti
Il Papa, che di certo non aveva incoraggiato la guerra, ma nemmeno si era
decisamente opposto, ordinò al Durando di ritirare tutte le forze al di qua del
Po e di allontanarle da Bologna e Ferrara, verso la Romagna orientale (Forlì
e Cesena).
Diretta conseguenza della capitolazione di Vicenza fu l’avanzata degli austriaci su Bondeno-Cento per Bologna dove poi si venne alla sollevazione
e alla cacciata degli stessi, con gli scontri della Montagnola e non solo, l’8
agosto 1848.15
La difesa di Roma repubblicana
L’autunno del 1848 si annunciava piuttosto tetro dal punto di vista politico
e militare. Le sconfitte delle forze dei diversi stati italiani erano state nette
e non certo per mancanza di valore dei combattenti quanto per l’ambiguità
nel collegamento fra le diverse forze italiane schierate in campo e quindi per
carenze politiche (basti pensare alle ambiguità e ai complotti del governo
pontificio e specialmente della filoaustriaca Segreteria di stato).
Certamente, da parte pontificia, erano pesate le forti carenze militari in fatto di numero e mezzi, carenze aggravate dalla pressochè assoluta mancanza di
addestramento dei reparti regolari (professionali) utilizzati in epoca pontificia
soprattutto spezzettati in piccoli distaccamenti (e quindi incapaci di manovre
d’assieme sul campo di battaglia) impiegati per servizio di ordine pubblico e
presidio: e tutto ciò in contrapposizione al potente esercito austriaco che da
mezzo secolo ormai si muoveva e spadroneggiava nella penisola spesso chiamato dagli stessi stati (Pontificio, di Napoli, Toscana) con la pur notevole
eccezione dell’organizzato stato sardo- piemontese.
Purtroppo tutti quanti gli eserciti italiani, senza eccezione, avevano in comune una caratteristica: la scarsa qualità degli ufficiali, specie di quelli di grado elevato, e ciò era l’assoluto contrario di quello che avveniva negli altri stati europei più
importanti, dove erano gli elementi più studiosi e intelligenti a entrare nella carriera
delle armi e progredire nei gradi.
Circa i luoghi comuni sugli italiani, la guerra e soprattutto le rivoluzioni popolari,
Durante le scorrerie delle colonne nemiche per i territori ferrarese e bolognese fece parlare di
sé , ancora una volta, il ten.col. Diana il quale, avendo ripreso dopo il suo “abbandono di posto”
ad Ostiglia, il comodo comando della “stanziale” centese, offrì i suoi servigi, per l'ordine pubblico, al ten. maresciallo Welden che li accettò:ma non accettarono la cosa ufficiali e militi centesi
che costrinsero il traditore ad abbandonare il Reparto e la città, per ignota destinazione. Il fellone
non fu mai più rivisto. I preziosi documenti in suo possesso pare rimanessero nelle mani del
Quartiermastro Cristani e della sua famiglia fino alla seconda metà dell'Ottocento.
15
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avevano provato che non esistevano caratteristiche antropologiche negative negli
italiani stessi, ma soltanto, in quel momento, difetti di addestramento e di preparazione politica.
Si potrebbe sostenere l’essere meglio lavoratori che guerrieri, ma la storia, almeno fino ad oggi, ha dimostrato che la cosa non è sempre vera; senza lotta il nostro
Paese non si sarebbe costituito e certo non sarebbe libero.La lotta nella pianura padana e l’ondivago Pontefice regnante avevano molto stimolato lo spirito dei sudditi
che sentivano fortemente il peso del malgoverno ecclesiastico portante fatalmente
a depressione economica e quindi alla miseria di vaste plaghe del territorio.
Il ribollire degli spiriti era particolarmente accentuato nelle sempre riottose Romagne e nella città di Roma e suoi castelli. Proprio a Roma, nel turbato autunno del
1848, nel corso di una riunione della consulta al palazzo della Cancelleria, venne ucciso da sconosciuti il primo ministro incaricato del Papa, Pellegrino Rossi,un avvocato moderato, mezzo bolognese, e si ebbero concomitanti atti di ribellione contro
le istituzioni pontificie, specialmente da parte di reduci dei Reparti volontari
ex combattenti nel Veneto. Non sentendosi al sicuro, Pio IX abbandonò,travestito,
il palazzo del Quirinale il 13 novembre 1848 e si rifugiò nella fortezza di Gaeta,
ospitato dal Re di Napoli.
Da quel momento prese gradualmente forma, durante un governo provvisorio
pontificio che attuò qualche riforma nell’organizzazione statale, una nuova forma
di struttura statale che il 9 febbraio 1849 portò alla proclamazione della Repubblica
romana (“Dio e Patria”) che si era ispirata alla repubblica del 1798 (detta Giacobina).
Con la secolarizzazione di molte cariche prima rette da religiosi con elementi
laici (borghesi o aristocratici) nelle Romagne le legazioni vennero eliminate e sostituite dalle Province che vennero rette da Presidi ( a Bologna venne nominato Carlo
Berti Pichat).
Con la Repubblica tutti i tribunali ecclesiastici vennero soppressi e prese forma
un nuovo tipo di organizzazione giudiziaria e di polizia. Venne costituita una Giunta suprema di governo formata dai rappresentanti delle tre maggiori città dello stato
(Roma, Bologna e Ancona).
Il 13 dicembre 1848 a Forlì i Circoli popolari richiesero la convocazione dell’Assemblea costituente. Con lo scioglimento di diversi battaglioni civici mobili nelle
Legazioni e il licenziamento in massa dei mercenari svizzeri, in questo territorio
stanziati che, forse non sicuri del nuovo stato di cose, dubitavano del loro soldo, si
venne a creare l’impellente necessità di nuovi reparti, ma la cosa non era facile, date
le emergenze che si profilavano all’orizzonte dello Stato.
Venne quindi decisa la costituzione di un nuovo reggimento regolare (ossia rientrante in pieno nell’“ordine di battaglia” dell’esercito) denominato “L’Unione” cui
venne anche assegnato un numero, come agli altri reggimenti, che era il 9.o di linea
(fanteria) costituito su due battaglioni ( I e II) dove il II non era altro che il vecchio
battaglione “Basso Reno” i cui uomini erano stati richiamati in servizio dopo essere stati inviati in congedo provvisorio alle loro abitazioni.
Il I battaglione venne costituito con elementi bolognesi, ma soprattutto con
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uomini della parte orientale della provincia e anche delle Legazioni di Forlì e di
Ravenna.
In un primo tempo i due Reparti, assommanti in totale a circa 1700 uomini (800
il I e 900 circa il II) vennero impiegati separatamente e cioè il II accantonato in
S. Margherita e ai Servi (oggi via dei Bersaglieri, attuale caserma dei carabinieri) in
mezzo a mille difficoltà di carattere logistico come mancanza di effetti letterecci e
addirittura usando lenzuola e coperte infestate da parassiti e sporcate da precedenti
reparti. Questo stato di cose perdurò fino a quando il comandante Rossi non intervenne per l’ennesima volta nei confronti della Intendenza della 3.a Divisione
Militare (Direzione degli alloggiamenti militari, Sovrintendente Fabbri).
Operativamente il battaglione ebbe distaccamenti a Castel S. Pietro Bolognese
(oggi Terme) e Budrio, con un servizio di presidio degli abitati e delle strade, specie
la via Emilia.
Più oscure e tormentate le vicende del I battaglione che aveva ancora uomini a
Venezia che poi rientrarono, via mare, sbarcando a Ravenna. Complessivamente
il reggimento ebbe tre Depositi, oltre a quelli, già menzionati di Bologna, uno a
Cento (ex palazzo del Commisssario Arcivescovile) e un altro a Ferrara. Trattandosi
di un reggimento con tutti i crismi della regolarità e quindi con ben altro prestigio
di quello dei Corpi Franchi, ossia civici mobili, ci fu una sorda lotta per ottenere
il comando e perciò lavorio personale fra alcuni Colonnelli “pieni” (per usare una
definizione militaresca che serve a distinguere colonnelli da tenenti-colonnelli chiamando tutti “colonnello”) ed è chiaro che il livello del reparto comandato tendeva
a fare grado.
Il comando alla fine venne affidato al col. Angelo Pichi con i due tenenti- colonnelli Ferrara e Rossi, comandanti i battaglioni, ovviamente in sottordine.
Con l’avvicinarsi quindi della stretta finale ed essendo chiaro che gli austriaci,
entro breve, avrebbero schiacciato le Legazioni di Romagna occupando per cominciare Ferrara e Bologna, praticamente indifendibili, venne deciso il movimento dei
due battaglioni verso il Lazio e Roma..
La congiunzione dei due battaglioni avvenne ad Ancona, essendo partiti il I da
Ravenna e il II da Bologna. Il col. Pichi era intanto passato al comando della 3.a
Divisione Militare di Bologna (situazione ambigua: non perse mai il comando del
reggimento e ad Ancona si ebbe la frizione finale fra i due tenenti-colonnelli. Tommaso Rossi ebbe il sopravvento e il comando di fatto).
Il reggimento marciò verso Roma con una forza di circa 1400 uomini, avendone
lasciati ai depositi e ad Ancona circa 400.
A Roma andava sempre più avvicinandosi il punto critico e si può fissare il momento del radicale cambiamento della situazione nell’assassinio di Pellegrino Rossi,
il primo ministro conservatore designato da Pio IX, e la fuga a Gaeta dello stesso
Pontefice, il 24 novembre 1848 che diede inizio ad un esaltante periodo fatto di
realizzazione di tanti ideali da lungo tempo sognati e sempre repressi. Anche altre
grosse e nere nuvole si andavano addensando sul futuro immediato.
Tutte le potenze d’ Europa disprezzavano l’arretrato ed oscurantista Stato clericale romano, ma guardavano , ovviamente, soprattutto ai loro interessi politico-
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strategici. Mentre gli austriaci si preparavano ad invadere le solite Romagne fino
ad Ancona (quasi una coazione a ripetere!) e si pensi che si sussurrava perfino di
una cessione territoriale a loro favore della parte padana dello Stato pontificio, ossia
della sua parte più ricca e popolosa...., il presidente francese Bonaparte (nipote di
Napoleone Bonaparte, il grande imperatore) che aveva ambizioni imperiali a sua
volta, da ottenere per via parlamentare con l’aiuto dei non pochi parlamentari cattolici francesi,mirava a muoversi in soccorso del Papa e pensava già ad una spedizione militare a Roma, spedizione però osteggiata dalle forze radicali del parlamento
francese stesso.
Dopo la sua fuga a Gaeta il pontefice aveva lasciato in comando a Roma una
commissione straordinaria di Governo che doveva controllare le città dello Stato
sempre più agitate dai radicali e dai reduci dei corpi volontari che avevano combattuto in Veneto (le campagne, reazionarie, contavano pressoché zero). Si arrivò
presto a parlare di repubblica e Pio IX da Gaeta lanciò la scomunica ai filo-repubblicani e comunque a tutti coloro che si fossero lasciati coinvolgere, in modo attivo
o passivo, nelle novità prossime venture. Non emise però bolle di scomunica ed
applicò nientemeno che gli articoli dei dettati del Concilio di Trento, ossia della
Controriforma del XVI secolo, i quali prevedevano appunto la scomunica a coloro
che avessero messo in pericolo l’integrità del cosiddetto patrimonio di S. Pietro.
La cosa ebbe effetto in modo diverso a seconda delle zone e anche a seconda
dei personaggi.
A Bologna l’anziano Arcivescovo non diffuse la decisione del Papa e tantomeno
applicò le disposizioni.16
Intanto che il 9° fanteria (“L’Unione”) si riuniva ad Ancona e marciava
verso Roma per la via Salaria (una passeggiata di 14 giorni), a Roma maturavano eventi di portata storica.
Venivano indette le elezioni per l’Assemblea costituente che prevedeva 200
deputati eletti dal popolo ed in tutto lo Stato ferveva un grande lavoro di orgaMons. Oppizzoni (1768-1855). Arcivescovo di Bologna a 35 anni e cardinale a 36, era stato anche
imprigionato in periodo napoleonico fra il 1811 e il 1813. Sarebbe diventato il superiore di Ugo
Bassi e Alessandro Gavazzi, i barnabiti espulsi dall'ordine a loro insaputa, nel 1848. Tutto lascia
pensare che lasciasse nelle mani del commissario straordinario Bedini l'oscuro affare Ugo Bassi e si
limitasse a curare la sistemazione della salma.
Fu il Bedini certamente l'anima nera della ennesima restaurazione pontificia nelle Legazioni. Perfetto prototipo del curiale, aduso ad ogni intrigo politico, e si pensi alla sua presenza al campo
austriaco di Castelfranco E. , a fianco degli stranieri che assediavano, bombardandola, la seconda
città del suo Stato. Molti elementi dimostrano il ruolo oscuro da questi avuto nella triste vicenda
assolutamente illegale, anche nell'orrendo codice di guerra, dell'assassinio dei patrioti Ugo Bassi e
Giovanni Livraghi alla Certosa di Bologna: ne avrebbe ricevuto in premio, anni dopo, una tunica
porpora. Mons. Bedini (Senigallia 1803-Viterbo 1864) era concittadino del Papa e certamente fra
i Suoi preferiti. Se il nostro giudizio dovesse oggi suonare eccessivo per la sensibilità, legittima, di
una parte del pubblico, si ricordino le richieste di perdono, nei confronti del popolo italiano, da
parte di un recente Pontefice per i comportamenti della Chiesa nei Suoi tentativi di conservare un
ingombrante e anticristiano potere temporale.
16
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nizzazione.
I parroci erano costretti a consegnare i libri parrocchiali per la formazione dei
ruoli e delle liste.
Nei giorni fra il 21 e il 24 gennaio 1849 si svolsero liberamente le elezioni con
i seggi vigilati dagli uomini della Guardia civica. I votanti furono 250.000 ossia il
30% degli aventi diritto: dato ottimo considerata l’opposizione di larga parte del
clero e l’assenza della maggioranza delle arretrate campagne. Risultarono eletti
200 deputati che si insediarono il 5 febbraio 1849 e circa 120 di questi risultarono
a favore di una Repubblica ( l’8 febbraio 1848), il cui decreto di proclamazione
(9 febbraio 1849) venne redatto dal budriese Quirico Filopanti (soltanto 20
votarono per il già dimostrato impossibile stato costituzionale clericale).
Il 18 marzo 1849 si emise il decreto che cambiava la denominazione della
Guardia civica in Guardia nazionale. Alla fine dello stesso mese un corpo di 7mila
francesi sbarcava a Civitavecchia e si spostava verso Roma, percorrendo la via
Aurelia con quartier generale a Castel di Guido.
I francesi, che contavano su di una favorevole accoglienza della popolazione,
rimasero delusi.
Non avevano forze sufficienti per porre un assedio classico alla città, ovvero
circondarla nel suo perimetro di oltre 30 km, per cui puntarono alla posizione
migliore e cioè alla più elevata: il colle Gianicolo da dove le loro artiglierie potevano battere con il fuoco tutta intera (o quasi) la città e specie il centro storico.
Lo schieramento francese quindi andava da monte Mario sull’ala sinistra alla
Basilica di S. Paolo sulla destra, a cavallo del Tevere, dove lanciarono un ponte
galleggiante.
Tentarono di impadronirsi nella zona di monte Mario dell’antico ponte Rotto
(p. Milvio), che però venne valorosamente difeso. Per tutto il resto delle malandate mura Aureliane si limitarono ad effettuare perlustrazioni con pattuglie di
cavalleria. I francesi attaccarono il giorno 30 di aprile sulla direttrice di porta
Cavalleggeri- porta Angelica, ma con una errata valutazione nei confronti dei
difensori, vennero clamorosamente respinti, soffrendo centinaia di perdite.
A quel punto subentrò una pausa con il comandante francese Audinot installato a villa Doria-Pamphili fuori di porta S. Pancrazio. Si iniziò una strana tregua
fatta di messaggi fra il generale francese e il Triumvirato che teneva il potere
governativo di Roma, ma che aveva il chiaro scopo di fare arrivare dalla Francia
a Civitavecchia grossi rinforzi di truppe (e soprattutto di artiglierie). Quindi considerato l’enorme vantaggio in fatto di addestramento ed equipaggiamento dei
francesi sui repubblicani e l’arrivo del corpo di rinforzo, non c’erano più dubbi
sull’esito della lotta. Se ai vantaggi sopra descritti si aggiungeva pure l’attacco
dei napoletani verso i colli Albani e la provincia di Frosinone ed era annunciato
anche l’arrivo di truppe spagnole che avrebbero, poi si vide, scorrazzato nel Lazio
senza però mai costituire un grosso problema militare, la Repubblica era finita.
Garibaldi pure era arrivato a Roma con la sua Legione denominata “italiana”
e si mise a disposizione della Repubblica. Venne subito impiegato a respingere i
napoletani, che sconfisse a Velletri. I francesi attaccarono villa Corsini (detta dei
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Quattro Venti) che costituiva con le altre (Valentini, Vascello ecc..) una linea di
difesa antemurale rispetto ai bastioni rinascimentali che erano sulla sommità del
Gianicolo. Fu un combattimento sanguinoso, per ben due volte il 33° Regg.to
Granatieri francese attaccò, se ne impadronì, e la riperse (assieme a centinaia di
caduti).
La terza volta riuscì a conservarla e così gli avamposti romani si ridussero alla
villa detta del Vascello, giusto a pochi metri dalla debolissima porta S. Pancrazio.
In breve tutto il terreno, coltivato a vigne, davanti ai bastioni, si ricoprì di trincee di difesa e anche di attacco. Erano trincee scavate nel terreno, ove possibile,
se no in rilevato con le protezioni di gabbioni, ossia di grossi cesti di vimini.
Le mosse de “L’Unione”
Arrivato nel Lazio il Reggimento pattugliò vaste zone a nord di Roma e poi
ebbe l’incarico di vigilare tutto l’arco delle mura Aureliane da porta Portese a
porta Salaria e, date le forze disponibili, voleva dire eseguire effettivamente solo
una sorveglianza con posti di controllo presso le porte della città che erano state
protette da barricate.
Poi il reggimento venne spostato sul Gianicolo ove dovette agire militarmente
in combattimenti (soprattutto il II battaglione) e in scavi notturni di trincee e
altre opere di difesa, cosa estremamente logorante. Il reggimento ebbe il posto di
comando e l’accantonamento degli uomini in palazzo Corsini alla Lungara (Trastevere). In quel periodo venne organizzato un sistema di ambulanze, ossia posti
di medicazione per i feriti nei vari ospedali e ospizi della città, ma indipendenti
dalla direzione di questi, il che permise anche alle donne di cooperare e si distinse
fra tutte la milanese principessa di Belgioioso. Anche la moglie del comandante
Rossi cooperò in diverse ambulanze. Sul fronte dei combattimenti si impegnò
soprattutto l’ex “Basso Reno” sotto i bastioni a sinistra della porta. Mentre si
avvicinava l’ora fatale della crisi finale.
Il 12 giugno il reparto venne impegnato in una serie di combattimenti quando,
nella zona del Vascello cadde, colpito a morte, l’anziano tenente Giovanni Timoteo Giordani (Cento 1799!) al quale soltanto la caduta della Repubblica impedì un
grande riconoscimento al valor militare.
Finirono forse in quel combattimento il ten. Francesco Lenzi, il serg. Calliope
Lodi, cinque militi tutti centesi e il crevalcorese Cremonini, valorosissimo17.
Il fatto d’arme certamente più glorioso fu la difesa ad oltranza della villa del
Vascello (massacrata dalla artiglieria francese e mai più ricostruita, ancora oggi
Tutti i caduti della Repubblica romana sia del 1849 sia degli altri scontri fino al 1870 (breccia di
p.ta Pia) riposano dal 1941 in un monumento ossario eretto sul luogo ove nel 1849 era piazzata la
batteria romana detta “del Pino”.
Comprende quindi non solo i caduti del Gianicolo in no. di 942 (di cui 230 romagnoli delle ex
legazioni/ province), ma anche un paio di centinaia di altri, caduti sempre sotto Roma come
Mentana, villa Glori, Tivoli e altre località fino alla citata p.ta Pia, atto finale della grande avventura romana.
Si noti che nella Campagna di Roma si ebbero più caduti della intera guerra in valle Padana.
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mantenuta nella condizione di fine lotta, come monumento). Sul Gianicolo, il cui
fronte, dopo il rientro dagli scontri sui Castelli, era stato affidato al gen. Garibaldi, esercitò la sua missione con un coraggio quasi suicida padre Ugo Bassi che
giunse a disinnescare anche le spolette delle granate francesi inesplose.
Ma è sul Vascello che bisogna sempre fermare l’attenzione: era comandato dal
col. Medici ed era stato formato il Reparto di questi, inizialmente, da volontari
toscani rafforzato via via da altri di varie provenienze. Si coprirono di gloria i
lombardi del battaglione di Luciano Manara (400 perdite su 800 effettivi!). Proprio l’ultimo giorno di guerra morì all’ospedale di S. Maria dei Pellegrini il poeta
ventenne Goffredo Mameli (autore dei versi del nostro Inno nazionale), che era
stato ferito ad un piede e morì di cancrena. Lo stesso Luciano Manara, ferito
al capo l’ultimo giorno di battaglia (30 giugno 49), assistito da Ugo Bassi, morì
al posto di medicazione di S. Maria della Scala in Trastevere. Al suo funerale
in S.Lorenzo in Lucina ancora Ugo Bassi pronunciò l’orazione funebre, molto
commovente, vestito della camicia rossa dei garibaldini. Il 3 luglio 1849 Garibaldi lasciò Roma per il nord e il 6° Regg.to di linea (“L’Unione”), consegnato in
Castel S. Angelo, venne sciolto non essendo fra le forze permanenti dello Stato
pontificio. Il ten.col. T. Rossi non si vide concesso il grado militare permanente
e tornò in patria con gli altri reduci e finì, ancora giovane, per una allora e spesso
mortale epidemia di colera.
Per un giudizio finale sulle operazioni e sulla condotta dei Reparti composti
da sudditi, poi divenuti per loro volontà cittadini, della nostra sub-regione, storicamente Romagna occidentale e che per la massima precisione ci è piaciuto
chiamare Padusa, non si può fare altro che inchinarsi al loro valore, in qualche
caso eccezionale, sia nella campagna del Veneto (1848) sia soprattutto nella difesa
della loro Repubblica romana (1849), che anche oggi sentiamo più che mai come
nostra.
Essi erano borghesi, intellettuali e popolani delle città e dei borghi che per la
prima volta si trovavano ad affrontare un nemico agguerrito e baldanzoso per
le molte vittorie, scarsamente armati e per niente addestrati. Fecero essi tutto il
possibile. Da sottolineare che la Costituzione della Repubblica romana del 1849
votata, in Campidoglio, giusto l’ultimo giorno di guerra, avanzatissima, può essere ben considerata la progenitrice della nostra Carta Costituzionale del 1948,
proclamata praticamente cent’anni dopo.
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Guida ragionata alle fonti
Il materiale archivistico è disponibile in relativa abbondanza, anche se disperso in sedi diverse e anche disagiate. Trattandosi di svolgere una ricerca focalizzata ad avvenimenti o personaggi appartenenti ad una precisa e limitata
realtà geografica è stato ritenuto conveniente partire dal livello degli archivi
storici comunali insistenti sul territorio di interesse e cioè:
A. S. C. Cento. La sede di studio odierna è confortevole e molto ben seguita, ma il materiale è conservato in un ex stabilimento (non di proprietà
comunale) soggetto a temperature non certo ottimali, ai fini della conservazione, per i fondi custoditi. Scarsissimo e frammentario il materiale di interesse specifico disponibile. Forse il fondo è stato saccheggiato durante qualche
periodo, magari durante i diversi trasferimenti di sede avvenuti negli ultimi
venticinque anni (Rocca, Ex Molino Valentini ed ex Canapificio Buracci).
In almeno una sede provvisoria, quella dell’ ex Molino, i fondi dell’archivio
sono stati oggetto sicuramente di furto, con effrazione della porta d’accesso.
Caratteristica forse unica dei fondi centesi è quella di essere stati depauperati
anche dal prelievo selettivo eseguito dall’archivista stesso negli anni di fine
Ottocento per essere consegnati ad altro ente, fino ad allarmare i responsabili
del tempo del Museo beneficiario (A.M.S.RIS.Bo.).
A.S. C. S.Giovanni in Persiceto. I fondi conservati furono oggetto delle
“attenzioni” dei rivoltosi della “Tassa sul macinato” nel 1869. E’ difficile dire
quanto sia il materiale perduto nell’incendio, mai abbastanza deprecato, presso questo grosso comune. Anche qui i documenti hanno subito traslochi. La
sede attuale, per quanto ottimamente ordinata, è penalizzata da limitatissimi
orari di apertura e da temperature ambientali con punte estreme durante le
stagioni.
A.S.C. Crevalcore. E’ la perla degli archivi da noi utilizzati. Moderno edificio con agevole disposizione del materiale, che gode di impianto di climatizzazione, ottimo per la conservazione.
In questo quadro, confortevolissimo, si trova molto materiale, perfettamente ordinato, del periodo risorgimentale e in particolare molto della documentazione prodotta dai reparti del battaglione “Basso Reno” durante il
comando del crevalcorese ten. col. Tommaso Rossi e, all’atto della smobilitazione del Reparto, versato agli archivi del comune dal quale dipendeva
amministrativamente il battaglione.
A.S.C. Bologna. E’ ben organizzato, dispone di interessante documentazione ed è a tutti gli effetti al livello di un archivio di stato. Sala di studio
confortevole con personale competente, ma con i depositi però non troppo
felici per la conservazione dell’abbondante materiale: è l’adattamento di un
precedente impianto comunale che venne destinato ad accogliere i fondi archivistici depositati fra l’Archivio di Stato di Bologna e i magazzini della Sala
Borsa (ante-restauro).
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A. Museo del Risorgimento- Bologna. Giacimento di fondi preziosi per
gli studiosi, sia di tipo bibliografico sia documentario. Ha due sedi, una museale (piazza Carducci) con depositi accessibili soltanto al personale e quella
propriamente archivistico-bibliografica specializzata di via dei Musei, dove
si trova la sala studio. Anche questa istituzione ha subito gli insulti della II
guerra mondiale quando il materiale esposto nelle vetrine del Museo venne
raccolto nei depositi, creando così difficoltà di collocazione per via del cambiamento dei riferimenti che avevano la loro origine nella sala Risorgimentale
dell’Esposizione di Bologna. Le trasformazioni ebbero luogo nel 1943.
A.S.C. S.Agata B. Archivio ben ordinato anche se non abbondantissimo
nel materiale.
D’altra parte è il più piccolo dei comuni di interesse. Orari di consultazione molto limitati.
A.S. Bologna. Si tratta di uno dei più forniti archivi italiani, oggetto di
relativamente recente restauro, dotato di accogliente sede di studio e con
ottimo personale. E’ sede di scuola archivistica e pubblica ed espone con una
certa frequenza. Vi si trovano i fondi della Legazione/provincia pontificia di
Bologna, in modo sistematico. Proprio per l’organicità dei fondi depositati,
si differenzia dal Museo del Risorgimento ove si possono reperire essenzialmente “pezzi” rari e selezionati, dovuti assai spesso a donazioni e lasciti di
vecchi patrioti o delle famiglie di questi.
E’ presente la documentazione relativa ai fatti del 1848-49 (Ugo Bassi,
Legazione, Atti Riservati 1849 e Legazione, Guardia Civica 1848).
A.S. Roma. ( da non confondere con l’ Archivio centrale dello stato situato
al quartiere EUR).
I fondi di interesse, parte degli archivi ministeriali pontifici, sono divisi
fra la sede storica di Corso Rinascimento e quella staccata presso il “solito”
vecchio stabilimento dismesso, disagevole da raggiungere, oltre la stazione
Tiburtina. Nella sezione staccata si conserva la maggior parte del materiale archivistico ante1870: la ricerca va comunque svolta presso entrambe le
sedi.
Museo Centrale del Risorgimento presso il complesso del Vittoriano: conserva soltanto materiale per esposizione (parzialmente esposto).
72
LEGENDA
A.S.Bo.
A.S.Rm.
A.M.S.RIS. Bo.
gna
B.C.A.Bo.
A.S.C.Bo.
A.S.C.Ce.
A.S.C.Cr.
A.S.C.Pe.
A.S.C.S.A
Archivio di Stato di Bologna
Archivio di Stato di Roma
Archivio del Museo storico del Risorgimento di BoloBiblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna
Archivio storico comunale di Bologna
Archivio storico comunale di Cento
Archivio storico comunale di Crevalcore
Archivio storico comunale di S.G..Persiceto
Archivio storico comunale di S.Agata Bolognese
L’autore delle presenti note approfitta della circostanza per ringraziare i Funzionari
e i loro Collaboratori per il cortese aiuto prestato; ringrazia, inoltre, la Direzione del
Museo del Risorgimento di Bologna per la concessione delle immagini.
73
Il piemontese gen. G. Durando comandante i pontifici nella campagna del Veneto: molto discusse
le sue decisioni strategiche durante quella campagna.
Ostiglia, aprile 1848. La posizione del batt.ne “Basso Reno” oltre il Po. Detto reparto si era costituito
fra Bondeno e Revere con le “colonne” civiche volontarie provenienti da Cento, Crevalcore,
Persiceto, S.Agata B. cui si aggiunsero le due compagnie di Castelbolognese del valoroso cap.
Budini. Il primato nell’attraversamento del fiume venne rivendicato anche dai bolognesi del batt.ne
“Alto Reno” (ten. col. Zambeccari).
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1848. Il ten. col. Tommaso Rossi ( Palata Pepoli 1809- Crevalcore 1855 ). Il crevalcorese venne
nominato comandante del “Basso Reno” dal gen. Durando che tolse dal comando il centese ten.
col. Vito Diana, primo comandante, per pecche caratteriali. Il Rossi tenne anche il comando del
regg.to “L’Unione” alla difesa di Roma nel 1849. Venne catturato dai francesi sul bastione n. 6 nel
giugno del 1849. Venne da questi internato in Corsica
75
1848. “Guidone” di combattimento del batt.ne “Basso Reno”. Mentre la bandiera del battaglione era
quella pontificia questa insegna, molto scolorita dal tempo, parrebbe tricolore, ma con disposizione
orizzontale delle strisce colorate.
1848. Borsa-giberna porta munizioni del “Basso Reno”. Conteneva palle di piombo, cariche e
inneschi (capsule o fulminanti) per i fucili in dotazione (prevalentemente di fabbricazione francese
o trasformati da pietra focaia).
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Vicenza 10/6/1848. Schieramento degli eserciti contrapposti nella battaglia (in nero i reparti
austriaci).
Il “Basso Reno” è schierato dietro il cimitero al centro delle Compagnie del 2° regg.to estero
(Svizzeri pontifici).
Il combattimento principale, il battaglione lo sostenne a Borgo S.Lucia e palazzo Scroffa.
giugno 1848. Pianta di Vicenza di proprietà del T.Col. Rossi. A sud visibile il Monte Berico teatro
di furiosi combattimenti.
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Aprile-Giugno 1849. Carta militare delle difese romane attorno a porta S.Pancrazio, sul Gianicolo.
In alto, fuori porta , visibili le ville del Vascello, dei Quattro Venti e Valentini. Notare la trincea
esterna ai bastioni rinascimentali.
All’interno delle mura le ville Spada e Savorelli, luogo dell’ultima resistenza a fine giugno 1849.
In basso il complesso di S.Pietro in Montorio, posto di primo soccorso. Le doppie linee sinuose
(a tratteggio fine) fuori dei bastioni sono trincee (scavate o in rilevato gabbionato) costruite
prevalentemente dagli uomini del regg.to “L’Unione”.
Roma 1849. Tabella delle tipologie dei lavori di fortificazione eseguiti principalmente del I e II
battaglione de “L’Unione”. I reparti lavoravano, specie di notte, di pala e piccone, autoproteggendosi
dagli attacchi delle pattuglie francesi. In tale situazione subirono forte logoramento.
Roma 1849. Vista della zona, dopo i combattimenti sul Gianicolo, fuori porta S.Pancrazio.
Da destra a sinistrVascello e fino al Casino dei Quattro Venti.
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79
Roma, luglio 1849. La villa del Vascello. Evidente l’effetto del violento fuoco dell’artiglieria
francese.
La villa era, con la Valentini e i Quattro venti, un avamposto dei bastioni di porta S. Pancrazio. La
resistenza di questo caposaldo divenne leggendaria: vi presero parte parecchi uomini de “L’Unione”
(II battaglione!).
Roma 1849. Il Casino dei Quattro Venti, al centro dei combattimenti manovrati, fu più volte perduto
e ripreso con violentissimi scontri all’arma bianca. Famosa la carica di cavalleria dei bolognesi del
cap. Masini. Ben visibile l’effetto dell’artiglieria. Oggi sorge sul luogo un arco monumentale, a
ricordo.
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Roma 1849. Pezzo d’artiglieria romana smantellato dal fuoco nemico sul retro dei bastioni.
Roma, luglio 1849. Batteria di pezzi romani, dopo la fine delle ostilità. Visibile la mancanza
di standardizzazione dei pezzi schierati alle spalle di porta S. Pancrazio, in zona Pino (odierno
Ossario).
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1849. Padre Ugo Bassi (Cento 1801- Bologna 1849) ritratto in un’incisione con la folta barba che
caratterizzò i suoi ultimi mesi di vita. Era religioso barnabita con molti nemici nel suo ambiente.
Fucilato illegalmente con il suo compagno cap. Giovanni Livraghi, vicino alla Certosa di Bologna
l’8 agosto 1849 e sepolto in terra sconsacrata, in segno di disprezzo.
1849. Mons. Gaetano Bedini (Senigallia 1803- Viterbo 1864). Concittadino di Pio IX, venne
nominato Commissario straordinario per le Quattro legazioni dal papa e partecipò all’attacco,
partito da Castelfranco E., per la conquista di Bologna nel maggio del 1849 a fianco degli Austriaci
con i quali collaborò strettamente. Coinvolto nella oscura situazione che portò alla morte di Ugo
Bassi.
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1849. Copia del manifestino che incitava all’odio o anche all’uccisione di Ugo Bassi, diffuso dai
reazionari bolognesi.
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1849. In una stampa del Lanfranchi una ricostruzione della fucilazione di Bassi e Livraghi fra il
Meloncello e la Certosa di Bologna (oggi piazza della Pace). Rimangono molti punti oscuri negli
avvenimenti che portarono a queste illegali esecuzioni.
1849-1866. Tale l’arco di tempo in cui combatterono questi volontari. Nella foto di gruppo
garibaldini centesi, ormai attempati, ripresi durante una celebrazione. Da un elenco superstite si
rileva che i combattenti persicetani (quelli ancora in vita durante il Cinquantenario, almeno) erano
59 del “Basso Reno” (1848), 13 de “L’Unione”(1849) e 14 garibaldini (1849-1870).
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1848. Foto del dott. Didaco Facchini, ormai anziano Direttore sanitario dell’ospedale di Cento.
Aveva partecipato alla campagna nel Veneto come tenente in una Compagnia, comandata dal cap.
Felice Orsini, nel batt.ne ”Alto Reno”, dello Zambeccari. Fu attento biografo di Ugo Bassi.
1849. Sbiadito dagherrotipo dell’ormai anziano tenente Giovanni Timoteo Giordani (n. 1799),
centese, caduto a porta S. Pancrazio in Roma, mentre comandava un contrassalto, spada in pugno,
alla testa del suo plotone. Soltanto il crollo della Repubblica romana e il rivolgimento politico
relativo impedìrono il riconoscimento ufficiale del fatto glorioso, con adeguata decorazione.
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Bologna, maggio 1849. Avvicinandosi l’attacco austriaco alla
città, il Preside della provincia O. Biancoli invita le Comunità
locali a predisporre per una ferma resistenza anche ricorrendo
a forme di guerriglia (lotta partigiana).
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Fig.1 – Santino della B.V. delle Grazie venerata nella parrocchia di San Silvestro*
87
Roberto Tommasini
I 685 giorni di Buoncuore
In data 7 Ottobre 1857 un dispaccio legatizio informava il Consiglio Comunale
della decisione del Pontefice di sostituire il nome di Crevalcore con la nuova denominazione di Buoncuore .
La comunicazione lasciò sbigottiti cittadini e pubblici amministratori che nel
primo Consiglio Comunale utile, il seguente 23 Ottobre, presero ufficialmente
atto del cambiamento.
L’informazione fornita nell’occasione dal segretario comunale Giulio Cesare
Badini fu la seguente:
“ Rapporto al primo Oggetto, che riguarda l’inaspettato cambiamento di nome che la Santità di Nostro Signore si è degnata di dare a questo Comune non posso a meno di attestare la
compiacenza che ognuno di noi deve provare nel pensare che il Sommo Gerarca Sovrano ottimo
e di Clemenza massima nel tempo in cui andava consolando della sua Augusta presenza le
popolazioni della Provincia Bolognese volgeva benigno pensiero a questo Castello e lo chiamava
Buoncuore; ad un tale contrassegno di paterno affetto i nostri cuori restano profondamente penetrati e da quest’ultimo confine dello stato mandano alla Sacra Persona sentimenti i più sinceri ,
i più puri di umile riconoscenza , di sommo ringraziamento, di ossequiosa devozione “.
I consiglieri comunali di fronte ad un provvedimento che cancellava l’identità della loro comunità non opposero alcuna obiezione. Del resto sarebbe stata
un’ardua impresa contestare la decisione personale del sovrano amministratore
dei poteri temporale e spirituale.
Qualche perplessità sull’inatteso cambiamento affiorò comunque nella successiva votazione, chiesta dal Priore comunale Vincenzo Rossi, sui ringraziamenti da
estendere all’Eccellenza Reverendissima Monsignor Commissario e Prolegato di
Bologna, che ottenne 13 voti favorevoli e quattro contrari .
Responsabile della sorpresa era stato Pio IX, entrato in contatto con la delegazione crevalcorese durante la visita effettuata il 24 di Agosto a San Giovanni
in Persiceto.
Tre mesi prima, il 14 di Maggio, il territorio crevalcorese era stato colpito da
una furiosa tempesta che aveva danneggiato gran parte delle coltivazioni e costretto numerosi agricoltori locali a chiedere, come forma di sostegno, l’esonero
dal pagamento delle tasse (focatico).
Pur riconoscendo le critiche condizioni delle famiglie, alle quali si sarebbe dovuto ridurre almeno i due terzi delle imposte, i nostri governanti decisero di non
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accogliere la richiesta, valutando l’esenzione “ meschino sollievo di fronte alla immensa
calamità generalmente sentita”.
Con le colture, erano andate perdute buona parte delle opportunità di lavoro
per i numerosi braccianti e il successivo 14 Luglio, il Consiglio comunale si era
dovuto riunire per individuare forme alternative di occupazione.
Non è comunque assodato se ad influire sulla decisione del Pontefice fossero
stati i danni causati dal maltempo o più semplicemente i nomi evocanti la malasorte di Malalbergo e Crevalcore (Crevalcore era riportato nei documenti ufficiali
come Crepalcore).
Resta il fatto che il Pontefice dispose per la nuova beneaugurante denominazione, trasformando Crevalcore in Buoncuore .
In un suo manoscritto lo storico locale Lorenzo Meletti, commentò così l’avvenimento:
“ Invero dovette essere di grande conforto ai buoni Crevalcoresi, che versavano in sì misere
condizioni, il sapere che il loro Sovrano erasi occupato di loro....cambiando nome al Paese!......”
Il nuovo nome cominciò ad essere utilizzato negli atti consiliari a partire dal
23 Ottobre 1857, anche se la notizia del cambiamento era stata inoltrata dal Ministero dell’Interno dal giorno 2 Ottobre, come riporta la circolare legatizia del
9 di Novembre, di seguito riportata, che forniva al Priore Comunale, istruzioni
sull’argomento:
“Molto illustre Signore
Per le relazioni che codesto Magistrato potesse avere colle Comuni di Crevalcore, e di Malalbergo in questa Provincia, si rende noto che in seguito di benigno Sovrano Rescritto comunicato,
dal Ministero dell’Interno con Dispaccio N 61.696 del 2 ottobre p.s.é stato sostituito il nome
di Buoncuore a quello di Crevalcore, e di Buonalbergo a quello di Malalbergo: per cui le corrispondenze e gli atti relativi a dette due Comuni si debbono intestare quind’innanzi coi nuovi
nomi preaccennati.
Tanto serva di norma a V.S. per le disposizioni interne d’uffizio e per le comunicazioni ai
dipendenti dalla di Lei giurisdizione, le confermo la mia Stima
Bologna 9 novembre 1857
Il commissario Straordinario e Pro Legato
Camillo Amici “.
Primo e unico Priore di Buoncuore fu Vincenzo Rossi. In carica al momento della ridenominazione, venne riconfermato nel mandato nel Dicembre del
1857.
Le novità che contraddistinsero l’epoca di Buoncuore furono:
-l’installazione, lungo la via maestra e i crocevia, di un nuovo impianto di illuminazione,
- un sommario restauro alla cappella maggiore della chiesa Parrocchiale,
-la costruzione di un serbatoio per i rifiuti del macello pubblico,
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-lo stanziamento di un fondo per la realizzazione di una pesa pubblica,
-il potenziamento dell’argine della fossa Rangona.
L’intervento di maggior rilevanza fu comunque la parziale ristrutturazione del
Palazzo Comunale.
L’antico tetto di debole struttura venne ricostruito, ridimensionato, alzato e
variato nelle pendenze .
I lavori eseguiti nel 1858, nella sola ala di levante, non riuscirono perfettamente
a causa della debolezza dei vecchi muri e delle fondazioni.
Probabilmente alla ristrutturazione del palazzo comunale fu legato il riordino
dell’archivio storico comunale, effettuato dal segretario comunale Giulio Cesare
Badini, assistito da Gaetano Atti, all’epoca segretario amministrativo dell’Ospedale di Santa Maria dei Poveri.
All’epoca di Buoncuore fece pure qualche passo avanti il progetto di collegamento stradale con la città di Cento.
Dopo aver valutato i progetti dell’ingegnere comunale Luigi Ceschi, che prevedeva il percorso Via Signata, Mulino del Secco, Passo del Guazzaloca, Riga
Bassa e Filippina e quello risalente al 1848, degli ingegneri Raffaele Stagni e Luigi
Gamberini, che proponeva il percorso di via di Mezzo Levante e Chiesa nuova, il
Consiglio Comunale optò per un terzo studio che abbreviava il tracciato proposto dal Ceschi, deviando il tratto successivo al ponte del Guazzaloca, sul percorso
Arginone dè Conti, Via dè Fabbri.
Alla scelta del progetto, seguì la delibera per la costruzione del tratto di strada
con cui collegare il Mulino del Secco al Ponte del Guazzaloca, ma i lavori vennero
rimandati in attesa di adeguate coperture finanziarie.
Il cambio di denominazione non era, infatti, bastato ad incrementare le scarse
risorse pubbliche e neppure era riuscito ad imprimere particolari accelerazioni
allo sviluppo del paese. Tutto continuò secondo consuetudine. Irrilevanti furono
pure gli entusiasmi suscitati dal nuovo nome fra la popolazione, che non degnò
l’evento di alcuna forma di festeggiamento.
Principali occasioni di divertimento rimasero le tradizionali Fiera di Luglio e il
Fierone di Settembre: La principale novità per le due ricorrenze dell’anno 1858
fu la stampa del nuovo nome del paese sugli avvisi che annunciavano le manifestazioni .
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Fig.2 – Avviso della fiera del 1858*
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Il Fierone di Settembre venne fatto coincidere con le celebrazioni del dogma
dell’Immacolata Concezione, del quale ricorreva quell’anno il 5° anniversario.
In quell’occasione l’immagine della Madonna della Concezione venne trasportata con un’imponente processione nella chiesa di San Silvestro, dove rimase
esposta per cinque giorni all’attenzione dei fedeli.
La coincidenza dei due eventi contribuì ad arricchire il programma della manifestazione, annunciata nel modo seguente:
IN BUONCUORE
Avviso
Per la Domenica 5 settembre 1858
Nella ricorrenza che viene solennizzato il Dogma dell’ Immacolata Concezione,
avranno luogo, dietro graziosa Superiore annuenza, i divertimenti che seguono:
TOMBOLA
ASSICURATA IN NAPOLEONI 50 EFFETTIVI D’ARGENTO
divisa nei seguenti premi:
Cinquina Napoleoni n°10
Tombola Napoleoni n° 40
Le cartelle di 10 numeri si venderanno al prezzo di Bai 10 l’una.
Al primo che coprirà 5 numeri, anche sparsi, nella propria Cartella verrà aggiudicato
il premio della Cinquina.
Al primo che segnerà i 10 numeri e chiamerà la Tombola, toccherà in sorte il premio
dei Napoleoni 40:
Il possessore della Cartella che vincerà la tombola dei Napoleoni 40 quando essa
Cartella sia stata giocata non più tardi delle ore 12 meridiane dello stesso giorno di
Domenica.
5 Settembre, conseguirà un altro premio di Napoleoni d’argento N. 10 nel qual caso
la Tombola verrebbe portata a Napoleoni 50 d’argento.
Non si garantiscono gli errori i quali fossero per verificarsi nelle giuocate dal momento che sono stati ritirati i Registri.
I Registri delle Cartelle resteranno aperti a comodo di tutti fino alle ore 4 e mezzo
pomeridiane del suddetto giorno, se ne farà quindi il ritiro, e ne avrà consegna la
pubblica Autorità che presiederà l’estrazione. E questa avrà luogo immancabilmente
alle ore 5pom.
Nel caso di pioggia, l’estrazione verrà protratta ad altro giorno da stabilirsi e notificarsi con apposito Manifesto.
Nella sera della domenica vi saranno FUOCHI DI GIOIA
La BANDA MUSICALE del paese nel corso della giornata ed in ispecial modo nelle
ore della sera, adunata nel centro del Castello e mentre durerà la pubblica illuminazione, eseguirà scelti pezzi di musica.
Buoncuore il 30 Agosto 1858
L’IMPRESA
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Fig.3 – Avviso del “fierone”, 1858
La banda musicale che si esibì nell’occasione si era costituita da poco tempo. Il
corpo bandistico precedente era stato sciolto nel Luglio dell’anno prima a causa
della grande indisciplina regnante fra i musicanti .
Ad inizio 1859, il Consiglio Comunale si rinnovò nella metà dei suoi componenti, risultando così composto:
Rossi Vincenzo Priore
Maccaferri Alessandro 1° Anziano
Busi Luigi 2° Anziano
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Gelati Luigi 3° Anziano
Breveglieri Angelo 4° Anziano
Cremonini Giulio 5° Anziano
Rigosi Giacomo Sindaco di Palata
Stagni Camillo 1° Aggiunto
Donati Domenico 2° Aggiunto
Michelini Dott. Antonio
Pepoli March. Antonio
Mattioli Giuseppe
Dinelli Don Francesco
Rossi Dott. Federico
Rossi Alessandro mandatario del conte Marco Antonio Malvasia
Veronesi Domenico
Fanti Antonio
Piccioli Francesco
Sita Serafino
Ricciardi Carlo
Landuzzi Raffaele
Lamma Giuseppe, espatriato e sostituito dal consigliere Scannavini Pietro.
Francia Carlo
Zani Gaetano
Deputati Ecclesiastici: Don Angelo Salvatori arciprete di S. Silvestro e Don
Andrea Nicoli rettore di Caselle.
Fig.4 – Timbro del Comune di Buoncuore**
Il tentativo di imprimere un’accelerazione al progetto della strada per Cento fu
un’altra delle iniziative del nuovo Consiglio Comunale che, dopo aver riconsiderato i progetti scartati, affidò i lavori all’imprenditore Raffaele Rossi, ma l’opera
rimase ancora bloccata a causa di controversie insorte con la casa Torlonia.
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Le attenzioni dei consiglieri e di buona parte della popolazione vennero presto
distratte dalle manovre politiche e militari dello Stato Sabaudo, dal quale erano
attese iniziative favorevoli all’unità d’Italia.
Il 19 Aprile l’Austria, sentendosi minacciata dalle manovre e dai rafforzamenti
militari del regno di Sardegna, intimò con un ultimatum ai Piemontesi la smobilitazione dell’esercito. Questi, alla ricerca di un pretesto per iniziare il conflitto,
ignorarono l’ultimatum degli Austriaci che il 24 Aprile cominciarono le ostilità.
Le aspirazioni all’unità nazionale erano diffuse e consolidate nel crevalcorese
e in gran parte degli stati italiani dove l’inizio del conflitto venne interpretato
come un appello all’insurrezione. Il Granducato di Toscana fu il primo a sollevarsi, il 27 Aprile, e il governo provvisorio che si instaurò offrì ai Savoia la dittatura
dello stato.
Il 5 di Maggio, grazie al lavoro diplomatico di Cavour, i Francesi entrarono nel
conflitto a fianco dei Piemontesi, costituendo una forza militare che risultò vittoriosa il 20 Maggio a Montebello, il 30 Maggio a Palestro, il 4 Giugno a Magenta,
occupando poi Milano fra il 6 e l’8 di Giugno.
Il 9 e l’11 Giugno a Parma e a Modena, abbandonate dai rispettivi sovrani, si
instaurarono governi filo piemontesi .
Il 12 Giugno i Bolognesi, affiancati anche dalla guarnigione pontificia, si ribellarono, costringendo il Cardinal Legato Giuseppe Milesi-Ferretti e le truppe
Austriache a lasciare la città.
Così la descrizione di quel giorno, nelle memorie del crevalcorese Gaetano
Frabetti:
“Li 12 Ditto Giugnio 1859 Subito che fu partiti li Tedeschi da Bologna Li Bolonesi misero
su la Bandiera di tre Colori Biancha Rossa è verde con una croce in mezzo.
E subito montò la guardia Nazionale al Palazzo e fu ritirata giù l’arma del Papa e tutti
si misero la Cocharda nel capello sempre tutti quel giorno Festegiarono con delli Eviva a suon
di Banda”.
Fra i prigionieri politici liberati dalle carceri bolognesi anche il crevalcorese
Antonio Delbuontromboni da tre anni detenuto con l’accusa di cospirazione
politica.
Fra le prime iniziative del Governo provvisorio instauratosi a Bologna, l’invio
di un’ambasciata a Torino per offrire la dittatura della città ai Savoia, azione che
venne immediatamente imitata dalle numerose città insorte della Romagna, delle
Marche, dell’Umbria.
Il 13 Giugno, il Consiglio comunale di Crevalcore trasmise alla Giunta provvisoria di Bologna la seguente dichiarazione di sottomissione e di obbedienza:
“In seguito delle più vive dimostrazioni date dall’intera popolazione di questo Comune la
Rappresentanza Comunale dopo aver innalzato la bandiera Nazionale , si è costituita in
straordinaria seduta ed ha ad unanimi voti dichiarato di riconoscere la nuova forma di Governo
sotto la Dittatura del Re Vittorio Emanuele in oggi rappresentato dalle SS.VV.
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Illustrissime in qualità di Giunta Provvisoria di Governo” .
L’evento si festeggiò in paese con musiche, concerti e con l’innalzamento del
vessillo tricolore.
Nella comunicazione di adesione al nuovo governo risaltava il nuovo timbro
comunale, di forma circolare con al centro un leone portante l’insegna “liberta”
e circondato dalla dicitura “Comune di Crevalcore”.
L’abbandono dei simboli Pontifici era stata una delle richieste del governo
provvisorio, ma nel nuovo sigillo l’amministrazione comunale aveva inserito il
dismesso nome del paese. Si trattava di una presa posizione contro l’autorità del
Pontefice che rafforzava la volontà di indipendenza dallo Stato della Chiesa e che
annunciava una ferma determinazione a riappropriarsi della propria identità.
Il 15 Giugno dal nuovo governo bolognese giunse la seguente risposta:
“La Giunta di Governo è lieta dell’adesione che il Comune di Crevalcore ha fatto al nuovo
stato di cose, che ci darà miglior avvenire .
Il Governo li invita a curare innanzi tutto il mantenimento dell’ordine , e della quiete pubblica e a zelare con tutto il calore il disimpegno delle proprie funzioni amministrative” .
Il 16 Giugno l’Amministrazione Comunale inoltrò al “Nobil Uomo Conte Annibale Ranuzzi “ Intendente della Città e Provincia di Bologna la comunicazione
di presentazione del nuovo timbro comunale, riportante la dicitura “Comune di
Crevalcore”.
Fig.5 – Timbro del Comune di Crevalcore**
Il 17 Giugno il priore Vincenzo Rossi raccomandò, tramite lettera, i gendarmi
di stanza a Crevalcore dell’ex brigata pontificia del Tenente Colonnello Veliti,
perché venissero presi al servizio del nuovo governo.
In quei giorni, per garantire la sicurezza della popolazione, vennero costituite
pattuglie civiche, impegnate principalmente in ronde notturne.
Come dalle altre province insorte, anche da Crevalcore, numerosi giovani partirono per arruolarsi volontari nelle truppe piemontesi o nei Cacciatori delle Alpi
di Garibaldi. Nell’archivio storico sono presenti numerosi certificati di buona
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condotta rilasciati dall’autorità comunale ai cittadini intenzionati ad arruolarsi
nella causa nazionale italiana o per la guerra d’indipendenza d’Italia; fra questi: Antonio Delbuontromboni, Ferdinando Albertini, Lamberti Felice, Andrea
Golinelli, Federici Giuseppe, Guidotti Luigi. Alcuni volontari, come Albertini
Emidio, Poppi Francesco, Fregni Luigi, combatterono nelle file del regio esercito,
altri, come Breveglieri Valerio, al comando di Garibaldi. Secondo le testimonianze raccolte da Lorenzo Meletti, Fregni Luigi e Breveglieri Valerio rimasero feriti
negli scontri armati.
Il 20 di Giugno Pio IX, nel tentativo di arrestare la frantumazione dello Stato
Pontificio, scomunicò tutti gli insorti.
Il 24 Giugno le armate franco- piemontesi si imposero nelle battaglie di Solferino e San Martino. La notizia della vittoria venne accolta a Crevalcore con
calorosi festeggiamenti la sera seguente.
Il primo di Luglio, al termine della messa, tutti i sacerdoti crevalcoresi si unirono in preghiera a favore della pace.
Il 4 Luglio a Crevalcore si riunì il primo Consiglio Comunale sotto la Giunta
Provvisoria di Governo per le Romagne: era ancora composto dai consiglieri
eletti sotto lo Stato Pontificio e presieduto dal Priore Vincenzo Rossi.
Fig.6 Intestazione presente nelle comunicazioni del priore di Buoncuore
Nel verbale delle delibere di quella giornata faceva la ricomparsa il nome di
Crevalcore e, dopo una prima seduta relativa alla riclassificazione di alcuni contribuenti e alla nomina di un consigliere anziano, se ne tenne una seconda, a carattere straordinario che aveva per oggetto il ripristino ufficiale dell’antico nome .
Con 13 voti favorevoli e uno contrario venne deliberato il ritorno alla denominazione di Crevalcore e l’abbandono del nome imposto dal Pontefice.
Il Consiglio comunale si rivolse quindi al Governatore di Persiceto, con la
seguente richiesta, per ottenere l’approvazione della Giunta Provvisoria di Governo al ripristino dell’antico nome:
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“In nome della Giunta Provvisoria di Governo –Intendenza di Bologna –Comune di Crevalcore .
Oggi lì 4 Luglio del giorno di Lunedì nell’Anno di Nostra Salute mille ed ottocento cinquanta nove. Il Comunale Consiglio di Crevalcore dopo di aver esauriti gli Oggetti superiormente accennati nella seduta medesima N° 53 annuale, si è intrattenuto nel locale stesso di
Residenza Municipale per deliberare in via straordinaria quanto si viene abbasso descrivendo;
e quantunque sappia che un tal nuovo oggetto non sia stato partecipato all’Eccelsa Intendenza
Provinciale mediante apposito foglio in conformità del D.44 dell’editto 24 Novembre 1850 tuttavolta il consiglio si ritiene abbastanza giustificato dalla spontaneità della cosa e dalla naturale
circostanza di questo nuovo oggetto che vuole sottoporre a determinazione della Rappresentanza intera Municipale, con atto straordinario distinto e separato ma che però va in appendice
dell’antecedente seduta: sono quindi rimasti presenti alla definizione dell’oggetto in discussione
i seguenti Signori Consiglieri:
Rossi Vincenzo Priore Comunale e Presidente
Macaferri Alessandro 1° Anziano
Busi Luigi 2° Anziano
Cremonini Giulio 5° Anziano
Rigosi Giacomo dell’appodiato di Palata
Stagni Camillo, aggiunto alla Sindacatura Medesima
Donati Domenico, aggiunto come sopra
Piccioli Francesco, Consigliere
Landuzzi Raffaele, Consigliere
Scanavini Pietro, Consigliere
Sita Serafino, Consigliere
Fanti Antonio, Consigliere
Michelini D. Antonio Consigliere
Veronesi Lorenzo Consigliere
D. Giulio Cesare Badini Segretario .
Presiede l’adunanza l’Ill.mo Sig. Priore Comunale Rossi Vincenzo; i votanti sono in numero legale 14; si tengono fermi per la firma del presente atto in appendice i medesimi Consiglieri
che hanno firmato la redazione dell’atto in antecedenza esteso; e stantechè e sortito il M° Reverendo Sig. D. Francesco Dinelli con assentimento del Sig. Presidente così rimangono tre firme
soltanto a convalidare la regolarità di questo verbale .
Il Comunale Consiglio preliminarmente dichiara e vuole che l’oggetto che s’imprende a trattazione venga per esteso descritto fra queste Comunicazioni Municipali e nel presente libro delle
sedute quantunque come si disse in via eccezionale a perpetua memoria. Poscia il Sig. Priore
valendosi della facoltà accordategli dall’Ill.mo. ed Ecc.mo Signor Commissario Straordinario
Av.Clemente Taveggi nella sua visita che fece a questa Residenza Comunale nel giorno 27
Giugno p.s. di cui al Dispaccio n° 29 Rubrica Funzionari Pubblici che si conserva agli Atti
d’Archivio, e valendosi dette istruzioni in simile circostanza ottenute proclama l’oggetto in
discorso qual si è = Cambiamento del nome di Buoncuore in quello di Crevalcore da ridonarsi
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a questo Comune.
Proposto così l’oggetto dal Sig. Priore e Presidente vengano uno per uno interpellati i Consiglieri presenti ed anziani onde sentire se alcuna deduzione abbiano da esporre in proposito:
e nessuna avendo presa la parola a confutare o ad opporsi alla fatta proposta e all’oggetto in
discussione; anzi si riscontrano in ogni Rappresentante del Municipio segni affermativi e di
approvazione perché venga ridato l’antico nome storico di Crevalcore alla patria: fatte le debite
riflessioni, di unanime assentimento dal Consiglio, e con spontanea adesione = Considerando
che Fin da quando il Sommo Pontefice Pio IX recavasi nel 1857 a visitare queste Provincie,
e nella circostanza precisamente della sua venuta alla Città di San Giovanni in Persiceto compiacevasi di dare un nuovo nome a questo Comune sostituendo quello di Buoncuore all’antico e
storico di Crevalcore .
Un tal cambiamento di nome seguiva senza che veruna causa o circostanza straordinaria si
verificasse in proposito, e molto più senza che verun Comunista a rappresentanza Municipale
ve lo invocasse o ne facesse proposta veruna .
Dai Paesani e Terrazzani il nuovo nome venne accolto generalmente con freddezza giacchè
loro era di qualche rincrescimento il dovere abbandonare, lasciare un nome che richiama alla
mente fatti gloriosi di letteratura e di storia, e tenuto caro da ogni Compaesano che nutra sentimenti generosi come lo si ama per istinto naturale e ragionevole il nome della propria patria e
gelosamente si desidera di mantenerlo e conservarlo .
Ritenuto che la maggior parte dei privati tanto amore portano all’antico nome del Comune
che non hanno finora avuto forza bastante di abbandonarlo e che anzi sene servono tutto giorno
nelle loro corrispondenze private e nei loro negozi.
Ritenuto e considerato quanto altro si doveva considerare e ritenere: per bocca del Signor
Presidente si è formulato il seguente partito segreto .
Quel Consigliere cui pare e piace che venga ridato al Comune l’antico nome di Crevalcore
ponga nell’urna il voto bianco, e quel consigliere cui pare e piace diversamente che venga conservato quello di Buoncuore ponga nell’urna il voto nero, e raccolte poscia le fave in giro consumata
la legale ballottazione, e riscontrate voti si si rinvengono bianche e favorevoli N° 13 e neri e
contrari N° 1 (uno) cosicchè è passato il partito a maggioranza assoluta di suffragi .
Il Comunale Consiglio in seguito di che ha data facoltà alla Magistratura perché pel Canale
dell’ Ill.mo Sig. Governatore Giurisdizionario venga portato alla considerazione della Giunta
Provvisoria di Governo quanto in oggi è stato operato ; officiando in pari tempo il sullodato
Signor Governatore di S.Giovanni in Persiceto affinché s’interessi presso la superiorità Governativa ed ottenga la sanzione, approvazione e legalizzazione dell’atto presente e di ciò che la
Rappresentanza Municipale ha decretato” .
Dei 14 consiglieri votanti il ripristino della denominazione di Crevalcore, 10
erano in carica al momento dell’imposizione del nome di Buoncuore .
Il 10 Luglio si formò in paese una commissione incaricata di raccogliere offerte per finanziare la guerra di indipendenza, che cessò il giorno dopo in seguito
all’armistizio di Villafranca. Napoleone III su pressione degli altri sovrani europei
aveva preferito disimpegnarsi dall’alleanza con i Piemontesi che si trovarono così
99
costretti ad accettare l’armistizio.
Nello stesso giorno, giungeva a Bologna il Marchese Massimo d’Azeglio, commissario straordinario piemontese, nelle cui mani il 14 di Luglio la Giunta Centrale di Governo rassegnava la propria autorità.
Il 16 Luglio il Governo Provvisorio Bolognese decretò lo scioglimento dei
Consigli e delle Magistrature comunali, create dal Governo pontificio, sostituite
nei singoli Comuni da Commissioni municipali provvisorie.
Luigi Busi, presidente, Zani Gaetano e Maccaferri Alessandro formarono
quella di Crevalcore, che nel manifesto informativo stampato dall’Intendenza
della città e provincia di Bologna era ancora indicata con Buoncuore.
Il nome imposto da Pio IX , ripudiato dall’Amministrazione da oltre un mese,
risultava ancora la denominazione ufficiale
Il 17 Luglio, su richiesta del governo del distretto di San Giovanni in Persiceto,
erano tolte le insegne arcivescovili dalle scuole comunali .
Il 20 di Luglio morì di colera il Priore Vincenzo Rossi.
Il 27 Luglio il Consiglio Comunale tornava a riunirsi, sotto il Commissariato
Straordinario per le Romagne.
Nelle delibere di quella seduta il comune era identificato col nome di Crevalcore.
Il 3 di Agosto l’Amministrazione comunale sollecitò l’Intendenza della città e
provincia di Bologna per la riattivazione dell’antico nome.
Nei giorni seguenti erano compilate le liste elettorali per le elezioni del deputato all’Assemblea Nazionale; le liste crevalcoresi contavano 333 elettori,
vennero pubblicate il 12 Agosto per le elezioni fissate il 28.
Il 18 di Agosto dal governo provvisorio bolognese giunse finalmente l’autorizzazione al ripristino dell’antica denominazione, un ritorno frutto degli
avvenimenti di quel periodo che legavano il nome di Crevalcore alle lotte per
l’indipendenza e l’unità d’Italia.
100
Fig.7 - Notificazione del 21 Luglio 1859 in cui appare ancora la denominazione di Buoncuore **
101
Fig.8 - Particolare notificazione del 21 Luglio 1859 in cui appare ancora la denominazione di
Buoncuore**
“Illustrissimi Signori
Con molta compiacenza alle S.S. VV. , dietro incarico ricevuto dal Superiore Governo
S.E. il Sig. Governatore Generale delle Romagne con Decreto del giorno 17 corrente ha
restituito l’antico e storico nome di Crevalcore a codesto Comune, il quale dovrà d’ora
innanzi appellarsi con tal nome sì negli atti pubblici che nei privati, e come fu lungamente appellato prima che si pensasse a portarsi un cambiamento da riputarsi per lo meno
inutile.
Di tal guisa il Governatore ha fatto ragione ai giusti e lodevoli desideri di codesti
abitanti sanzionati con Atto Consigliare del 5 luglio 1859 ad una quasi unanimità di
102
voti .
Mi è grato in questa occasione di confermarmi.
Bologna 18 Agosto 1859”.
La denominazione di Buoncuore, simbolo della rinnegata appartenenza
allo Stato Pontificio, spariva definitivamente. Era durato 685 giorni, dal 2
Ottobre 1857 al 18 Agosto 1859.
La notizia non suscitò particolari clamori, le attenzioni dei Crevalcoresi
erano ormai rivolte alle imminenti elezioni che il 28 di Agosto, con 229 voti
su 234, designarono deputato all’Assemblea Nazionale l’avv. Luigi Maccaferri, di Persiceto. Nel manifesto pubblicato il 20 Agosto 1859 in cui erano elencati i candidati proposti nei diversi collegi della città e provincia di Bologna
compariva finalmente il nome di Crevalcore.
L’armistizio di Villafranca e il successivo trattato di pace di Zurigo sancirono l’unione della Lombardia al Piemonte, ma disposero per gli altri paesi
insorti il ritorno alla situazione precedente il conflitto.
Per scongiurare tale eventualità i governi provvisori favorevoli all’annessione al Regno Sabaudo dichiararono decaduto lo Stato Pontificio e formarono una lega militare in difesa dei loro territori.
A Crevalcore nella mattina del 2 di Ottobre, un tocco della campana maggiore dava inizio alle votazioni del nuovo Consiglio Comunale. Le elezioni si
svolsero presso il primo piano della casa del Comune; era richiesta ad ogni
elettore l’indicazione di 30 nominativi, 23 per Crevalcore e 7 per l’Appodiato
di Palata.
Il 9 Ottobre lo stemma dei Savoia era innalzato nel palazzo comunale fra
inni patriottici e al Re Vittorio Emanuele, in un paese con l’illuminazione
delle feste e rallegrato dalla musica della banda.
Il 24 Ottobre il nuovo Consiglio Comunale nomina Priore Luigi Busi e anziani il Dott. Michelini, Gaetano Zani, Fanti Antonio e Galeotti Giuseppe e
viene verbalizzato in apertura con “ Regnando Sua Maestà Vittorio Emanuele
II Re di Sardegna, Governo delle Romagne…”.
A spegnere l’esultanza dei Crevalcoresi arrivò il 27 Dicembre la poco gradita notizia che nell’ambito di un riordino delle province effettuato dal nuovo
governo, il comune di Crevalcore era stato associato alla provincia di Ferrara,
non era più in quella di Bologna.
103
Fonti archivistiche e documentali
Archivio Storico del Comune di Crevalcore:
Deliberazioni del Consiglio Comunale di Buoncuore 1854 - 1858, reg 1
Deliberazioni del Consiglio Comunale di Crevalcore 1858 - 1860, reg 1
CA, Legislazione, Magistratura, Popolazione 1859, b 1
CA, Guerra e Milizia, Rubrica VIII, fascicolo 1° Provvidenze Generali
(1816-1858) , b 1
Gaetano Frabetti, Memorie patrie, ms presso l’Accademia Indifferenti Risoluti di
Crevalcore
Lorenzo Meletti , Crevalcore, manoscritti presso la BCC
Parte II, Annali, Dal 1801, fascicolo II, n 11 (ms 10)
Parte III, Note e Memorie, Dal 1801, fascicolo II, n 18 ( ms 20)
Parte IV, Edifici Dal 1801, Volume II, n 27 ( ms 20 C )
Bibliografia
Sergio Morselli, Crevalcore: una palude. Vicende e abitanti, Edizioni del Circolo Artistico Culturale Pigozzi.
Paolo Cassoli, Crevalcore, in: Dal Santerno al Panaro, Bologna e i comuni della provincia
nella storia, nell’arte e nella tradizione, a cura di Cesare Bianchi, vol. I, Da Bologna a
Modena, Ed. Proposta.
Erminio Furlotti e Maria Logiudice, L’archivio storico Comunale di Crevalcore, in Notiziario di Crevalcore, n. 3, Settembre 1988
Immagini
* Collezione privata dell’autore
** Archivio Storico Comunale
104
Fig. 1 – Ritorno alla Deputazione di Bologna
105
Magda Abbati
Alla vigilia dell’Unità, Ferraresi per caso
Alla metà dell’Ottocento, nel 1859, Crevalcore gioì per il fatto di essere riuscito
a rigettare il nuovo e imposto nome “Buoncuore”, recuperando quello antico
e sentito come proprio. Purtroppo, però, quasi contemporaneamente, perse la
provincia d’appartenenza storica, quella di Bologna.
E’ sicuramente vero che il territorio comunale da sempre si è presentato
incuneato fra stati e\o province diverse, ma i Crevalcoresi si sentivano ( e si
sentono anche oggi) Bolognesi dentro.
Dalla fine del 1859, dunque, il nostro Comune dovette fare riferimento
all’Intendenza di Cento, nella provincia di Ferrara.
Certamente le vicende politiche e militari della penisola, tesa fra l’unità d’Italia
e la restaurazione della Legazione Pontificia e degli antichi stati, rendevano
estremamente risibile la piccola “querelle” crevalcorese.
Resta il fatto che questo passaggio venne apertamente contestato, in quanto
di natura prettamente burocratica, non sentito e non voluto dai cittadini. In quel
preciso momento storico, in effetti, si era creato un tale risveglio politico, una
più generale attenzione alla politica alta, intesa come azione modificatrice, si era
aperta una riflessione intorno ai diritti e ai doveri della cittadinanza, per cui un
atto così unilaterale non poteva essere accolto nell’indifferenza. I Crevalcoresi
avevano contribuito e contribuivano nei fatti e nei pensieri alle lotte per arrivare
a costruire uno stato unito, arruolandosi nell’esercito regio, nel Battaglione Basso
Reno poi Unione, fra i Garibaldini, pagando un prezzo di patimenti e di sangue
come tutti i patrioti1.
Fig. 2 – Crevalcore nel periodo ferrarese
1
Lorenzo Meletti , Crevalcore, Parte II, Annali, Dal 1801, fascicolo II, n 11 (ms 10) presso BCC
106
Il 1860 si caratterizzò sicuramente per altre e più importanti vicende, ma la
testardaggine dei “ranocchi” di allora riportò il Paese nella provincia di Bologna
già a partire dal 1° Gennaio 1861, quando lo storico locale Lorenzo Meletti
ricordò nei suoi Annali che “ai Crevalcoresi non garbava (…) per la incomodità e i danni
che ne soffrivano gli interessi”2.
Considerando le lungaggini della burocrazia (e, si sa, quella italica è
direttamente discesa da quelle degli stati di ancien regime) il risultato fu ottenuto
in tempi piuttosto brevi dal primo sindaco del Comune di Crevalcore. Pietro
Biavati era un cosiddetto “possidente”, abitava nel quartiere San Martino al civico
154, si era sposato con una donna modenese, Rosalia Colombo Quattrofrati, da
cui in quegli anni aveva avuto tre figli, Carlo, Rosa e Isabella. Nel 1859 ricoprì
l’incarico di capitano della Guardia Nazionale in Paese. Si era dunque dedicato
alle questioni dei Crevalcoresi pur essendo di origine cittadina, bolognese; degli
“affari” domestici si occupava la moglie, coadiuvata dalla servitù: tre domestici ,
un uomo e due sorelle, vivevano presso la famiglia del sindaco, come risulta da
un censimento della popolazione di quell’anno3 .
Alla vigilia della dichiarazione dell’unità d’Italia, Biavati aveva dovuto comporre
un anelito libertario di ben altro genere. I cittadini di Palata Pepoli cercarono con
atti legali di ottenere il distacco dal capoluogo, per diventare “ comune autonomo”.
La distanza indubbia da Crevalcore, particolarmente pesante e faticosa in anni
in cui ci si poteva spostare a piedi o a cavallo, il desiderio di indipendenza e di
autonomia che in quel periodo infiammava facilmente gli animi, avevano spinto
i Palatini a questa rivendicazione. Il nostro storico locale nella sua cronaca non
entra nel merito della circostanza; sottolinea solo che i rappresentanti dei Palatini
in Consiglio non pareva fossero a conoscenza della richiesta che venne, però,
ricusata4.
La scelta di mantenere l’appodiato palatino nel territorio comunale seguiva di
pochi mesi quella che potrebbe essere definita come la prima azione elettorale
dell’Italia unita. Tutti i “comunisti”, i cittadini con diritto di voto, erano stati
chiamati a scegliere fra l’annessione al Regno Sabaudo o il mantenimento di un
regno separato.
Le elezioni furono indette per l’11 e il 12 Marzo 1860 nelle province emiliane
e in Toscana. Si votò dalle 8 alle 17 , ma già alle 4 del pomeriggio del secondo
giorno arrivò l’urna coi voti di Palata. Insieme a quelli di Crevalcore, furono
scortati da uomini della Guardia Nazionale e della Sicurezza Pubblica fino a
Persiceto per lo spoglio. Dev’essere stato un momento emozionante: un corteo
di sei carrozze, parate a gala, annunciate dalla banda musicale e seguite dalle
guardie crevalcoresi.
Nel Comune i votanti furono 2.755, compresi i 657 di Palata. I voti per
l’adesione al Regno Sabaudo furono 2.555, un vero e proprio plebiscito. Palata e
L. Meletti, ibidem
ASCC, CA, Popolazione 1858-59 b1
4
L. Meletti, Crevalcore, Parte III, Note e Memorie, Dal 1801, fasc II, n18 (ms 20).
2
3
107
Crevalcore scelsero, dunque, senza dubbio alcuno la via della costruzione di uno
stato unitario.
Meletti nei suoi Annali riporta per l’Emilia i seguenti dati:
Popolazione
Iscritti
Votanti
Annessione
Regno separato
Voti nulli
2.127.105
526.218
427.512
426.006
756
750
Anche in quei territori che cent’anni dopo andranno a costituire la regione
emiliana, il risultato fu molto netto e a favore dello stato unico.
Con l’aiuto delle cronache manoscritte redatte dallo studioso locale Lorenzo
Meletti, è possibile seguire per sommi capi le vicende del Consiglio post-unitario.
Risulta così che la classe politica praticamente non mutò dopo il plebiscito; si
modificarono i titoli - non più Priore e Anziani, ma Sindaco e Assessori - però gli
uomini a capo dell’amministrazione sostanzialmente non cambiarono. Si trattava
dei possidenti, dei professionisti, i “notabili” del paese che si autodefinivano”
costituzionali” o “costituzionalisti”, fedeli all’ideale monarchico coniugato al culto
della famiglia reale e ad una visione “agrarista” della vita economica e sociale5.
Il 18 Marzo 1860 le province emiliane e la Toscana entrarono quindi a far
parte del Regno di Sardegna con un formale atto pubblico, il voto, per dimostrare
anche all’Europa che la strada intrapresa era condivisa dal popolo.
Occorre restringere il campo quando si parla di “popolo” rispetto alle elezioni:
in realtà gli aventi diritto al voto erano esclusivamente i cittadini maschi, maggiori
di 21 anni e con una certa disponibilità di censo, sia per il voto amministrativo
che politico.
Il 3 Febbraio 1861 ebbe inizio la prima legislatura del parlamento italiano. Fu
eletta da 239.583 elettori, la metà circa del corpo elettorale che rappresentava
a sua volta l’1,9 % degli abitanti del regno che ammontavano a 21.700.000
cittadini. Il suffragio era rigidamente censitario: il requisito minimo per accedervi
era il pagamento di almeno quaranta lire annue di imposte indirette. Nel 1882
verrà “allargato” al 7% della popolazione. La via della partecipazione politica
ampiamente democratica era ancora molto in salita.
Non bisogna però pensare che, essendo escluse dal voto, le donne italiane
fossero completamente estranee alle lotte e alle rivendicazioni. Molte mogli,
fidanzate, amanti e donne libere da legami sentimentali, appoggiarono e discussero
le scelte risorgimentali, fossero esse mazziniane, cavouriane, costituzionaliste…
Magda Abbati, Un comune Emiliano fra 1800 e 1900: Crevalcore , Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Bologna, Corso di Storia Contemporanea, a. a. 1987-1988
5
108
Nel carteggio epistolare conservato presso il Museo del Risorgimento di Bologna
è possibile trovare le lettere che Clotilde Maccaferri, moglie del crevalcorese
Tommaso Rossi, capitano del Battaglione Basso Reno e poi Unione, e che la
figlia Elisabetta scrissero rispettivamente al marito e al padre6.
Fig. 3 – Clotilde Maccaferri, ritratto
In esse si può cogliere un’esplicita adesione agli ideali risorgimentali, ma si
racconta anche del sostegno concreto, nelle retrovie, ai combattenti. Le due
donne seguirono il capitano sui luoghi di battaglia: gli scontri avvenivano in zone
precise a cui i civili potevano con cautela avvicinarsi, in una sorta di surreale
contiguità fra la lotta militare e la vita quotidiana.
L’11 Ottobre 1860 il Comune ringraziò sia Elisabetta sia Clotilde Rossi perché
erano riuscite a conservare il tricolore che il Battaglione Unione aveva fatto
sventolare a Vicenza durante gli scontri per l’indipendenza italiana nel 1848.
Elisabetta Rossi avrà nel tempo l’accortezza e l’attenzione di conservare anche
la documentazione di quei giorni che videro in primo piano il padre, morto nel
1855 a causa di un’epidemia di colera, e che ci restituiscono uno spaccato delle lotte
risorgimentali attraverso le vicende di un crevalcorese. Ora tale documentazione
si trova a Bologna nel già citato Museo del Risorgimento.
Dopo l’esito del plebiscito, il 22 Marzo in segno di festa il Castello, il centro
del paese, venne illuminato.
Il 25 Marzo, pochi giorni dopo, nel Collegio di Crevalcore e Finale i Crevalcoresi
elessero il loro primo deputato al Parlamento sabaudo: il conte Carlo Pepoli .
Per cominciare a conoscere uomini e terre appena annesse, il primo Maggio il
re Vittorio Emanuele II arrivò in visita a Bologna. A riprova del fatto che il paese
6
Fondo “ Tommaso Rossi”, MRB
109
aveva espresso una scelta pro-unità, il sindaco vi si recò per consegnare al re un
contributo volontario di 10.000£ per sostenere “la guerra per l’indipendenza”:
così era indicata nei documenti.
Come si può notare, non solo la Legazione era stata abbandonata, ma anche
la moneta antica. Il 1860 portò progressivamente il passaggio dagli scudi, dai baj
alle lire.
Altri cambiamenti entravano nella vita dei cittadini. Infatti il primo Gennaio
1861, oltre a tornare Bolognesi, i Crevalcoresi adottarono il sistema metrico
decimale per i pesi e le misure, in base ad un Decreto del Governo Generale delle
Romagne del 18597 .
Il 13 Maggio 1860 fu festeggiata l’adozione dello Statuto Sabaudo, la carta
costituzionale che apriva spiragli di partecipazione democratica. Nella festa
organizzata, però, “i preti delle legazioni”rifiutarono di cantare nella Chiesa
Parrocchiale; il Te Deum fu eseguito da tre (preti) modenesi8.
Erano passati pochi mesi dai festeggiamenti seguiti alla nomina del deputato
all’Assemblea Nazionale dell’Ottobre 1859. In quell’occasione invece le votazioni
furono aperte dai rintocchi del campanile e le celebrazioni avvennero fra inni,
grida come “Viva Vittorio Emanuele” e grazie rese in Chiesa, per cui sembrava
che si potesse comporre la laicità del momento e la religiosità paesana, come
spesso accadeva nei comuni più o meno grandi della “bassa”.
Il 17 Luglio morì a Milazzo Petronio Setti, un giovane crevalcorese che si
era arruolato al seguito delle camicie rosse di Garibaldi, sbarcate in Sicilia l’11
Maggio per rendere ancora più veloce il processo di annessione del Sud Italia
che non intraprese la via dei plebisciti9.
Oltre a Setti, altri moriranno sotto la bandiera italiana: Barbieri Aurelio,
Bergamaschi Luigi, Malaguti Giovanni, Malavasi Enrico, caduti a Custoza nel
1866.
Meletti scrive che molti furono i volontari pronti a combattere per
l’indipendenza: chi combattè nel regio esercito come Albertini Emidio, Poppi
Francesco, Fregni Luigi, il dottor Federico Rossi che si arruolò come soldato
semplice, chi nei garibaldini come Breveglieri Valerio10.
E’ il caso di ricordare che in territorio veneto e romano erano morti nel 1848
e nel 1849 il capitano Cremonini Domenico, Bellinelli Luigi, Cremonini Luigi,
Grenzi Pietro, Paltrinieri Gaetano, Righi Luigi, Rondelli Giovanni, i cui nomi
sono oggi sulle lapidi affisse nell’ingresso del nostro palazzo comunale.
Elisabetta Rossi, figlia come si è già detto del capitano Tommaso Rossi, in
un manoscritto presumibilmente redatto dopo il 1849, racconta di episodi legati
al proprio soggiorno a Roma durante gli scontri per difendere la costituzione
della Repubblica Romana. In queste memorie scrisse di un eroico episodio in
L. Meletti, cit, Parte III, ibidem
L. Meletti, cit, Parte II, ibidem
9
L. Meletti, cit,Parte II, idem
10
L. Meletti, cit, Parte III, ibidem
7
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cui furono protagonisti due giovani fratelli, pare crevalcoresi. “ Nel combattimento
a Porta San Pancrazio del 12 Giugno i nostri furono costretti a ritirarsi da una posizione e
i francesi s’inoltrarono: i due tamburini del nostro reggimento, chiamati Zittini di Crevalcore,
coraggiosamente dal loro posto battevano la ritirata, quando il maggiore di essi fu colpito a
morte. Il minore per nome Cesare d’anni tredici, difendeva il corpo del fratello a sassate e, se il
Capitano Francesco Magrini non l’avesse portato fuori del combattimento, sarebbe forse stato
anch’egli vittima del suo coraggio. Il Magrini a Imola tenne poi sempre presso di sé il ragazzo
come servitore e vi rimase per molti anni”.
Tali memorie, che si trovano nel Fondo “Tommaso Rossi” del Museo del
Risorgimento, ci appaiono estremamente interessanti. Innanzitutto finora non
si sapeva di questo episodio e di questo caduto. Purtroppo non risultano in quel
periodo famiglie con quel nome; d’altra parte è possibile che si trattasse anche di
un soprannome dato ai giovani o alla loro famiglia o al loro ruolo di tamburini. Si
resta comunque toccati dal gesto coraggioso e dalla giovane età del sopravvissuto
che presumibilmente doveva essere di origini umili se successivamente andrà a
servizio in casa del Capitano Magrini11.
L’impegno di chi scrive e di chi si accosta curioso agli avvenimenti di quegli
anni non deve cadere nel desiderio di indagare per trovare e provare l’importanza
di Crevalcore e dei Crevalcoresi nelle vicende legate all’unificazione, rimanendo
ancorati ad un piccolo e stretto localismo. E’ importante invece scoprire e
verificare che l’adesione agli ideali unitari era una realtà anche molto popolare,
al di là del genere, delle possibilità di censo e di voto. Donne e uomini di origini
molto lontane tra di loro cominciarono ad unirsi intorno a valori comuni nella
speranza di costruire un nuovo e più rappresentativo stato, quello Italiano.
Fig. 4 – Memorie di Elisabetta Rossi sulla Repubblica Romana
In realtà, grazie a Lucio (Annibale Passarini) sappiamo di chi si tratta: è uno degli uomini ricordati
nelle lapidi che si trovano in Comune. Gaetano Paltrinieri era un giovane crevalcorese, arruolatosi
nel reggimento Unione, come tamburino. Morì a 17 anni e la notizia è giustamente raccontata da
Elisabetta Rossi. Il suo nome si trova inciso in una lapide nel Museo Ossario del Gianicolo insieme
ai caduti per la Repubblica Romana.
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Fig. 5 - Lapide dell’Ossario del Gianicolo a Roma
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Rassegna Storica Crevalcorese - Dicembre 2011