n.8
2
The Godfather
Nathaniel Hawthorne
di FILIPPO PENACCHIO
A
ssieme a Herman Melville e a Mark Twain, Nathaniel Hawthorne è solitamente considerato il padre fondatore della moderna letteratura americana. Come i suoi colleghi, anch’egli diede alle stampe per lo meno un libro «infernale», stando alle sue parole: idealmente riponiamo La lettera scarlatta a fianco
di Moby Dick, un romanzo “formativo” che oltre al «sacro vincolo matrimoniale
tra maschi» e agli effetti deleteri di una dieta a base di fagioli celebra la vita come
dannazione eterna, e a Le Avventure di Huckleberry Finn, altro romanzetto “divertente” il cui protagonista ammette candidamente che sì, andrà all’inferno.
Hawthorne non era certo il tipo dello scrittore virile, né tantomeno bohémien,
ci mancherebbe: visse fino a quarant’anni morbosamente coccolato da madre
e sorelle, si sposò in età adulta con una pallida zitella ipocondriaca, tentò con
scarsissimi risultati di vivere in una comunità trascendentalista – roba di hippies
ante-litteram (vedi Il romanzo di Valgioiosa) – costringendosi infine a trascorrere
una «penosa schiavitù» presso la dogana di Salem, MA, pesando sale e carbone.
Era però, questo poco ma sicuro, un uomo tormentato ed esacerbato (e magari
pure impotente e predestinato), che concepiva la scrittura come ossessivo atto di
espiazione, che ritraeva se stesso in un certo personaggio (Oberon) triste e malinconico, che esordì ricomprando tutte le copie del suo primo romanzo e dando
loro fuoco nella convinzione che «gli scrittori sono poveri diavoli e perciò Satana
li uncina a suo piacere».
Il fatto che i suoi antenati perseguitarono e mandarono al rogo una buona quota di streghe deve aver pesato non poco sulla sua coscienza e anzitutto deve avergli instillato un paio di idee quantomeno malsane: che la dannazione eterna sia
un destino plausibile (La casa dei sette abbaini) e che l’(oscena) essenza del reale
risieda nell’indicibile o nell’inattingibile (Il velo nero del pastore o Il giovane buon
Brown).
Oggi lo ricordiamo soprattutto per quel «testamento di un uomo spiritualmente suicida» che è La lettera scarlatta, in cui si racconta di una giovane donzella
che per avere avuto un figlio al di fuori del matrimonio (e da un prete, per giunta)
viene fisicamente taggata con la A di “adultera”, ritenuta demoniaca e per questo condannata a morire da peccatrice. Ovviamente Hawthorne è troppo pavido
per raccontarci nel dettaglio la morbosità del suddetto patto faustiano: e infatti
questo romanzo che ci insegna che l’inferno, in fin dei conti, esiste per davvero,
oggi lo leggiamo superficialmente, senza prestare fede alle parole di biasimo per
il genere umano – e per il sesso femminile in particolare – spese dal suo autore.
Indi per cui mi prenderò io l’onere di esplicitare alle donne adultere che stessero
leggendo queste righe le parole con cui Hawthorne condannò la sua corrotta eroina: «Io vi battezzo non nel nome del Padre, ma nel nome del Demonio». Amen.
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Sommario
La citazione del mese
Le vite ortogonali
Libri (quasi) mai letti
Letterature Involontarie
Nobel minori
Punizioni!
Biografie Edulcorate
Me lo copre il prezzo?
Le città letterarie
Oh, Scena!
5
6
7
8
10
11
12
13
13
14
Viaggi
La lettera che muore
Mattoni
L'angolo del cinematografo
Pillole di Scienza
I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Metaletterari di carta
Ghost World
Iperboloser
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16
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21
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24
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Editoriale
Benvenuti a Finzioni numero otto. Si avvicina il primo
compleanno del progetto di lettura creativa e, per festeggiarlo, abbiamo preparato un numero bellissimo e un’offerta da far impallidire la renna di Babbo Natale, quella
col naso rosso.
massimi livelli. Noi, infatti, pensiamo anche ai problemi
di tutti i giorni come “cosa regalare per Natale a chi voglio
bene?”
Semplice, regala Finzioni! Sei mesi di abbonamento
da gennaio a giugno al costo di una stecca di carbone.
Tutti quelli che aderiranno all’offerta, per non rimanere a
mani vuote il 25, riceveranno via mail un pdf da stampare con la conferma del regalo, giusto giusto per metterla
nella busta dove di solito la nonna mette i soldi, così la
sorpresa sarà doppia!
Torna il grande cinema su Finzioni, con Amici Miei
(fonte inesauribile di idee e supercazzole) e Where the
wild things are, tratto dal libro illustrato di Maurice Sendak e sceneggiato da Dave Eggers.
Inizia poi una rubrica, curata da Licia Ambu, dove finalmente ci si mette nei panni del povero libraio che vende
una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown
e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cercavo un libro ma non ricordo né il titolo né l’autore.
Tutti i dettagli su finzionimagazine.it e finzioni.bigcartel.com.
Finzioni però non è solo intrattenimento culturale ai
La Redazione
4
C
os'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità di esecuzione.
Philippe Noiret alias Giorgio Perozzi, Amici miei.
La citazione del mese
Il genio & Opera struggente di un formidabile genio
di JACOPO CIRILLO
P
remessa: chi non ha mai visto
Amici miei lo guardi, per carità di Dio, lo guardi!
Il Perozzi, ammirato dalla fantasia dell’amico Necchi e dalla sua
- diciamolo - cacca, si interroga su
cosa sia il genio. Non a caso proprio
a lui viene affidato questo ragionamento, visto che il personaggio del
goliardico giornalista rappresenta
l’inizio e la fine del film, il suo nume
tutelare. Il genio stesso, insomma.
Ma allora, cos’è il genio. Molti
hanno provato a spiegarlo. Iniziamo da quel nume tutelare di Harlod Bloom che, nel suo didascalico
libro Il genio, ne parla come senso
d’eccellenza. E parla dell’eccellere
come l’aspirazione allo straordinario e al trascendente. Mmmm,
trascendente. Dunque al di là di se
stessi, fuori da sé.
Ma Orazio, il poeta, diceva che il
genio “è il dio della natura umana,
il dio che abbiamo dentro di noi”.
Allora il genio è qualcosa che abbiamo dentro e che per esprimersi
ci trascende, cioè diventa oltre noi
e, per questo, ci resiste nel tempo e
nello spazio. L’opera di Leonardo da
Vinci in effetti lo ha di certo superato in longevità. Per un tal Censorino
poi (nato nel 238 d.C.) è anche l’angelo custode che protegge e mette
sulla retta via.
Adesso la cosa si fa interessante:
nella cultura araba, ove noi infedeli tendiamo sempre ad associare
il genio alla lampada, il jinn deriva
dalla lingua aramaica e significa
“nascondersi, occultarsi”. Dentro
di noi evidentemente. E quando il
jinn esce di solito è cattivo e dunque, uccidendoci, ci sopravvive.
Romani, arabi, supercazzole e
vecchi critici letterari ricalcano più
o meno la stessa dinamica: il genio,
qualunque cosa sia, è nascosto dentro di noi ma esce fuori (trascende)
e, buono o cattivo che sia, vive anche dopo di noi. Non a caso Philip-
5
pe Noiret è morto tre anni fa ma la
sua idea ci fa ancora da spunto.
Ed ecco che arriva il personaggione: Dave Eggers. Nella sua Opera
struggente di un formidabile genio
ci sono due brani incredibili, uno
da pagina 166 e l’altro a pagina 271,
in cui Eggers, che si trova a essere,
per tutto il libro, autore, narratore
e personaggio, entra letteralmente con la sua voce fuori campo nei
discorsi che i protagonisti, lui compreso, stanno facendo nella narrazione, redarguendoli - addirittura
dice al suo fratellino che sta uscendo troppo dal personaggio (!) - e
quindi rimettendoli sulla retta via.
Ecco il genio dei romani, degli arabi
e di Monicelli. E’ dentro, nascosto,
poi esce, trascende, è cattivo, redarguisce e mette sulla retta via.
Dave Eggers è letteralmente il
genio del suo libro e il libro è la sua
lampada. Ecco, l’ho detto.
Le vite ortogonali
Kugelmass vs Alexei Ivanovich
di JACOPO DONATI
P
lutarco scrisse una serie di 24
biografie che prese il nome
di Vite parallele. Per ognuna prese
una figura greca ed una romana, le
mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla
di finzione, mica di realtà!, e così i
miei grandi saranno i personaggi
d’inchiostro dei libri. Lavoro ben
più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di
questi personaggi, ne sottolineerà
le differenze.
amore.
Bastano poche settimane perché
la lezione imparata svanisca. Kugelmass ci riprova ma qualcosa va
storto. Una volta entrato nel libro il
marchingegno prende fuoco e Persky muore. Kugelmass non si ritrova nel romanzo che credeva ma in
un manuale di spagnolo in cui finirà i suoi giorni inseguito dal verbo
irregolare tener.
Kugelmass
Alexei Ivanovich
Alexei è una pedina nelle mani
delle donne. È proprio una donna
che gli fa assaporare il suo errore: il
gioco d’azzardo. Una dama francese lo distruggerà quando sarà ricco
e una vecchia sarà lì ad assillarlo
con le giocate, ma Polina, la donna
di cui si innamora, sarà la sua rovina dall’inizio alla fine.
Dostoevskij metterà Alexei in
mezzo a ricconi senza scrupoli,
dove finirà per credere che l’unico
modo per ottenere il cuore di Polina
sia diventare ricco. E ci riesce!, ma è
tutto inutile, e Polina parte disprezzandolo più di prima.
Alexei e Polina non si vedranno
per molto tempo. Un giorno Alexei
riceverà dei soldi da un amico perché possa farsi una carriera. Questo amico gli rivelerà che Polina lo
ama e i sogni del giocatore, subito
andranno a lei e al gioco d’azzardo. Ancora convinto di poterla raggiungere con i soldi, andrà fantasticando grandi vincite e altrettanto
Kugelmass è professore di lettere
universitario. Ha due figli, una moglie-balenottera e una montagna
di alimenti da pagare alla prima
moglie. La vita ristagna monotona
nel suo petto peloso e ha bisogno
dir provare emozioni nuove. Cosa
fareste se vi fosse data la possibilità
di entrare in un romanzo a vostra
scelta?
Woody Allen, che dirige Kugelmass da dietro la pagina, sceglie
la tresca con Emma Bovary. Quale
miglior opzione di una storia letteraria per non essere colti in flagrante? Grazie a un tale di nome Persky,
Kugelmass entra nel libro e si abbandona all’amore. Commette però
commette l’errore di portare Emma
fuori dal romanzo in cui non riuscirà a rientrare. “O mi riporti nel romanzo o mi sposi!” e quella che era
una semplice scappatella si tramuta
in incubo. Un collega di Kugelmass
lo riconosce e minaccia di dire tutto alla moglie, ma tutto si rimette a
posto e il professore di lettere impara la lezione: non tradirà più.
6
Cosa c’è di ortogonale tra la vita
di Kugelmass e quella di Ivanovich?
Una cosa li distingue nei loro errori:
Alexei sogna di recuperare le perdite alla roulette per essere accettato da Polina, mentre Kugelmass
è guidato più dagli ormoni che dal
cuore. Per Alexei l’errore, il gioco
d’azzardo, è solo un mezzo, per l’altro è il fine. Meglio tenerlo a mente
se non si vuole finire i propri giorni
inseguiti da mostri ben peggiori di
un verbo irregolare.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij Il giocatore.
Woody Allen - Il caso Kugelmass
in Effetti collaterali.
Libri (quasi) mai letti
Fenomenologia dei libri quasi mai letti
di Maria Giovanna Ziccardi
M
i permetto, questa volta,
una variazione sul tema:
la fenomenologia dei libri quasi
mai letti. Il dove e il come stanno
nel mondo. Perché capita, sapete,
di iniziarli e non finirli, ma anche
di incontrarli. E vederli lì, proprio
come libri quasi mai letti, in molti
casi, mi mette una grandissima tristezza.
Uno di questi casi capita qualche
giorno fa, quando ho avuto modo
di soffermarmi sull’elegante libreria di una laureatissima famiglia
benestante. Mi piace osservare le
librerie di tutte le case, curiosarci dentro, rapirne idee. Ma sono le
suddette scansie che meritano tutto
il mio spazio, questo mese.
Ebbene, davanti al design ultra
moderno di questi discreti scaffali
borghesi, la prima cosa che penso
è: questa libreria è falsa. Nulla che
sia fuori posto, nulla che non ci si
aspetti, nulla che non si conosca
già. L’insieme dei libri sta lì davanti
a te a dirti: “ecco! Guardami e giudica”. Ogni volume è ordinato per
casa editrice: ma non trapela l’amore fisico per il libro quanto piuttosto
una mania estetica fine a se stessa.
O all’armonia del salotto.
didi soli, Paula, Via col vento, vari
titoli di Grisham, molti cataloghi
illustrati di Raffaello o Leonardo,
la serie completa dell’enciclopedia
della filosofia, una dozzina di libri della collana della Repubblica
(libro+giornale, di qualche anno
fa). Nessuna edizione economica,
nemmeno di Feltrinelli. Nessun
libro più vecchio di 10 anni. Nessun mattone, nessuna stramberia,
nessuna biografia astrusa, nessun
guizzo imprevisto. Nessun autore
che non avesse venduto almeno un
best seller. Niente che assomigliasse al singhiozzante, naturale, accumulo di una famiglia che studia,
che guarda, che sceglie cosa leggere
perché il piacere di leggere comincia proprio da questa scelta (economica, personale, intellettuale,
stupida, morale, irrazionale, pregiudicata, impregiudicata, spregiudicata). Una libreria, invece, senza
aggettivi. Orfana di imprecisione.
Una messa in scena, dove la scena
è la perfezione che più si cerca e più
sfugge. E stona. Possibile che anche
i libri possano diventare artificio?
E poi si capisce, la bella libreria è anche una brava libreria. Ed
ecco sciorinati e mescolati tutti
i titoli della migliore o peggiore
(non so), ma comunque più ovvia,
tradizione letteraria: Il nome della
rosa, Io uccido, Il giardino dei Finzi
Contini, La mia Africa, Il codice da
Vinci, La metamorfosi, Mille splen-
7
Libri quasi mai letti. Perché meritavano di non essere letti e non lo
sono stati o perché meritavano di
essere letti ma sono stati trasformati in oggetti di arredo. Chiamati, in qualche modo, a fare status.
E in effetti lo fanno: sterilizzati di
qualsiasi fascino, non chiamano,
non vibrano, ma veicolano un’idea
assolutamente precisa. Quella appunto di un’esposizione che cerca
approvazione, e non della tua biblioteca che sfogli e sfoggi anche,
sì, ma con commozione, con entusiasmo, o magari rammaricandoti
che “è tutta lì”. Una libreria per gli
invitati.
L’abbandono dei libri quasi mai
letti è anche questo. E vorrei sottolineare il quasi. Perché una libreria congegnata in quel modo non
segnala tanto un’assenza, quanto
piuttosto un disinteresse. Un interesse che arriva fino a “lì”, perché
comunque ha gli strumenti per arrivarci, ma non si spreca oltre. E a
quel punto i libri vanno benissimo
per fare bello (e bravo) il salotto.
Letterature
involontarie
La memoria fra il cretto e
la palude. Cose non false
da dire in coda.
di EDOARDO LUCATTI
L
e memorie si danno alle carte, se si ha tempo e penna per
scriverne. Diventano best seller e
in qualche modo si maiuscolano,
scaffalano, scontrinano. Altre volte rimangono semplici diari e altre
volte ancora - molte per la verità - finiscono nella spazzatura, scambiate per qualcos’altro da tua madre
o da una domestica d’improvvida
latitudine. Ma sono sempre memorie, memorie che sanno di banana,
di sangue mestruale, di marcio, di
niente, di tutto, di quello che finisce nei cassonetti, insomma. Ci
sono anche altre memorie, certo.
Memorie date alle fiamme, arse
su pire, fuochi, roghi, memorie di
popoli che hanno voglia e fretta di
essere altro, senza sapere – per altro - che non ce la faranno mai. C’è
memoria da confidare, memoria da
falsare, memoria da nascondere,
memoria da esaltare. C’è memoria
e, più spesso, non ce n’è. Non ce
n’è, punto. Non c’è traccia di traccia né orma di orma, niente. Peti
senza metano. E per come la vedo
io, anche se svariati e saggi maestri
in velluto a coste sono soliti dire il
contrario, non è detto che sia sempre un male. Perché si può anche
ricordare alla René Ferretti, cioè –
fuor di metafora – ricordare ‘a caz-
zo di cane’ e a quel punto, quando
il passato proprio e altrui è reso alla
caricatura di se stesso, incancrenito nella sintassi ebete di un pensiero sconcio e meschino, a quel punto
– voglio dire – anche l’Alzheimer fa
la sua porca figura nel carnet delle
possibili alternative.
Ora: non serviva la quantistica
per spiegarci che non si può mai
dire il Vero, perché IL vero è sempre
UN vero ed è l’osservatore che decide e bla bla bla. Serve però l’esperienza di uomini con le palle ancorate al mondo per spiegarci che si
può, e si può davvero, dire cose non
false. La verità è inattingibile (grazie e Graziella) ma non per questo
è d’obbligo la menzogna. Quando
parlate del vostro passato, quando lo raccontate all’orecchio del
povero stronzo che nella fila vi sta
davanti (perché le generazioni, se
non lo sapeste, sono ferme in coda
aspettando che un impiegato dica
loro chi sono), quando fate questo,
insomma, nulla vi vieta di essere
onesti. Mi sono informato, ho fatto
una coda e un impiegato me l’ha
detto: si può! E mi piace pensare
che quel medico chirurgo di nome
Alberto Burri, avendo visto i resti
di Gibellina dopo il terremoto del
8
Belice, abbia pensato qualcosa di
simile. Gibellina è un paese siciliano in provincia di Trapani, che il
noto sisma del 1968 rase completamente al suolo, senza risparmiare
nemmeno ciò che il caso, a volte,
mantiene in piedi. Il terremoto, a
Gibellina, è stato piuttosto preciso. Ed è proprio di quella lutulenta
precisione che Burri ha recato, onestamente, memoria. Non l’ha fatto
scrivendo un carme, scolpendo una
stele, o innalzando un monumento,
con cui un po’ – per forza – avrebbe
mentito. No. Ha preso tonnellate,
tonnellate e tonnellate di cemento e
le ha colate sopra l’intera pianta del
Paese, un unico blocco omogeneo
spezzato solo dall’impianto viario originale, conservato e tutt’ora
percorribile. Forse il Cretto di Burri
non dice il vero, ma certamente dice
cose non false. Visto dall’alto, fornisce la prospettiva che un osservato-
re irreale avrebbe avuto se durante
il terremoto fosse stato sottoterra e
avesse visto la stessa aprirsi. Vedi
strade come faglie, spaccature, e le
vedi dall’alto anche se sono il panorama impossibile di un uomo irreale che sottoterra, quando il sisma
colpì Gibellina, non c’è mai stato.
Non è la verità. Sono solo cose non
false. Memorie oneste adese a opere
d’arte il cui genio, nella grandezza
che sconti se ci passi davanti, è annichilente.
Ai traumi che furono si aggiungono poi i traumi che potrebbero. La
pianura bolognese, con i suoi 1.600
canali ormai incapaci di far defluire
i carichi attuali di pioggia, potrebbe
tornare a essere la palude che era.
Così, da un momento all’altro. Basterebbe solo che si verificasse una
certa congiuntura metereologica,
per altro in tendenziale avvicina-
mento, e nel giro di sei mesi chi vi
scrive continuerebbe a farlo da una
zattera o da una palafitta, punzecchiando con un remo il cadavere
galleggiante di Gianni Morandi. La
memoria dell’acqua è un po’ diversa da quella del cemento. Ricordare con la testa sott’acqua, se mai vi
fosse capitato, non è poi così male:
ti senti nuovo, inedito, suscettibile
di infinite nascite, sul punto di lanciare la palla del secolo nella più
clamorosa delle partite di baseball,
quando tutto il casino dello stadio
si rapprende in un boato indistinto
e ti fodera le orecchie di ovatta. E allora sei solo sblub e sbloab. O crack,
ma allora sei tornato sulla terra che
trema, a Gibellina. Sblub. Sblub e
crack.
Verboso
metro
20
Cose non false.
15
10
5
0
Ritaglia il verbosometro
e attaccalo sulla schiena
del tuo amico verboso
9
Nobel minori
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
"Le amanti" di E. Jelinek
di VIVIANA LISANTI
C
i si immagina i membri dell’
Accademia Svedese come una
commissione composta da vecchi
professori austeri, dai rigorosi gusti
letterari, cultori del purismo linguistico e un po’ propensi al politically
correct, soprattutto se si tratta di
assegnare l’onorificenza più ambita
al mondo. Poi si scopre che la Jelinek ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2004 e ci si deve ricredere:
i vegliardi hanno decisamente il
gusto della provocazione .
Innanzitutto Elfriede Jelinek è la
donna più odiata dal governo austriaco, e anche nel resto dell’Europa non se la cava niente male:
sarà perché non perde occasione di
criticare politica e società viennese
sostenendo che l’unico lato innocente che l’Austria mostra al mondo di sé è quello turistico, quello
delle cartoline con Alpi innevate e
piste da sci, dietro al quale però si
nasconderebbe una realtà fatta di
autoritarismo, “monocultura dei
pareri”, disprezzo per arte e artisti;
sarà perché inquina quelle immagini idilliache di verdi boschi e placide vacche al pascolo, che tutti noi
abbiamo in mente, ambientandoci
sconcerie di ogni tipo.
L’arte della Jelinek, però, è lontana
dall’essere pornografia, oscenità
fine a se stessa. Semplicemente la
scrittrice non si risparmia né sul
piano linguistico, né su quello del
contenuto quando si tratta di scavare nella quotidianità per metterne a nudo i meccanismi sociali più
profondi: svelare ipocrisie, false
convenzioni, smascherare la strut-
10
tura patriarcale e maschilista della
società viennese. Il sesso quindi diventa una sorta di indicatore dello
stato della società: se è onnipresente nelle forme più violente e malate,
beh, evidentemente “c’è del marcio
in Austria”…
Ne Le amanti (Sperling&Kupfer,
178 p., € 10,50) Jelinek ci racconta
degli “oggetti Brigitte e Paula”, alternando capitoli che, per strade
divise ma parallele, seguono la vita
di due donne diverse ma uguali nel
loro percorso: entrambe trascorrono un’esistenza priva di prospettive
per il futuro; entrambe affidano la
propria felicità ad un uomo, ambiscono al matrimonio per ragioni
economiche e per realizzarsi socialmente in un ambiente, quello
piccolo-borghese austriaco, che
le vuole imprigionate nel ruolo di
mogli-madri-casalinghe.
Il sesso violento, brutale, sia dal
punto di vista fisico che psicologico, che ci viene raccontato nel romanzo, è vissuto come strumento
nel rapporto di forza che si crea tra
le due coppie di amanti: le donne lo
usano per legare l’uomo a sé e assicurarsi un futuro; gli uomini per
soggiogare la donna. In ogni caso
che si presenti, è sempre quest’ultima a risultare vittima, prima
dell’amante e poi, ancor peggio, di
se stessa, non avendo la forza interiore, tanto meno l’appoggio esterno, per reagire all’abuso di potere
perpetrato ai suoi danni. “Se qualcuno ha un destino, è un uomo. Se
qualcuno riceve un destino, è una
donna”
Punizioni!
“Chi ha spostato il mio formaggio?”
di Spencer Johnson
di MICHELE MARCON
Q
uesta punizione mi fu inflitta
molto tempo fa, quando mio
padre, forse accortosi della mia irriducibile esitazione nell’affrontare
la vita, o, molto più probabilmente,
cominciando ad abbracciare la prospettiva che il proprio primogenito
fosse lanciato verso una luminosa
carriera manageriale, mi diede da
leggere un piccolo libro che avrebbe dovuto, a parer suo, rappresentare lo strumento per prepararmi a
diventare un “leader di me stesso”
(cit.).
Spesso negli anni a seguire mi sono
chiesto come mai non mi avesse
dato da leggere i grandi romanzi di
formazione come il Wilhelm Meister, Il rosso e il nero o I turbamenti
del giovane Törless, piuttosto che
una favoletta costruita attorno ad
una metafora alquanto sempliciotta tirata avanti a fatica da quattro
personaggi che sembrano usciti direttamente dal mondo lobotomizzato e lobotomizzante de L’Albero
Azzurro: Nasofino, Trottolino, Tentenna e Ridolino.
Ah, quasi dimenticavo, questo piccolo libro si chiama Chi ha spostato
il mio formaggio?, ed è stato scritto
dallo stesso autore del leggendario
(l’aggettivo non è mio) One Minute
Manager. L’edizione italiana presenta un sottotitolo quanto mai
edificante: cambiare se stessi in un
mondo che cambia, in azienda, a
casa, nella vita di tutti i giorni.
E così ho recuperato dalla libreria
impolverata l’odiato libercolo, in
primis per scrivere questo pezzo per Punizioni!, ma anche per
scoprire se col passare degli anni
qualcosa è cambiato. La quarta di
copertina recita: “Questo è un libro
scritto per tutte le età, la storia si
legge in un’ora, ma il suo messaggio
dura tutta la vita”, perciò mi sono
voluto fidare (… e per fortuna che
si legge in un’ora, perché io, dopo
quasi dieci anni, mi ero dimenticato sia la storia che il messaggio e me
lo sono riletto tutto!).
L’idea è, come detto, semplicissima.
All’interno di un Labirinto vivono 2
Topolini e 2 Gnomi che passano le
giornate alla ricerca del Formaggio.
Il Formaggio è ovviamente quello
che gli psicologi chiamano oggetto
del desiderio, mentre i 4 personaggi, mi duole dirlo, siamo noi, o meglio, sono quattro attitudini comportamentali aberranti.
Fortunatamente già nelle prime
pagine mi sono imbattuto in una
chicca sfiziosa che ha stimolato la
mia curiosità: la narrazione si fa
metanarrazione nel momento stesso in cui il narratore confida che la
storia che sta per narrare non è altro che una storiella ovvia e banale,
ma che può nascondere un significato profondo. Mi son detto: “Stai
a vedere che ci trovo qualcosa di
profondo”.
A dire il vero non ho trovato molto
11
di più. Il vero problema è che per
proseguire la lettura è necessario
sorpassare uno scoglio quasi insormontabile: il libro è scritto male.
Ma male forte. È imbalsamato, epidittico, posticcio e straziante. E se
me n’ero accorto già a 16 anni, figuratevi ora!
Nonostante ciò ho tenuto duro e ho
finito di leggerlo in meno di un’ora.
Devo dire che, in fin dei conti, Chi
ha rubato il mio formaggio? avrebbe pure una lezione molto importante da insegnare, che potremmo
riassumere così: se vuoi mangiare
il tuo Formaggio devi imparare a
cambiare. Bello, sì, ma… se solo
non fosse scritto così male! Insomma, ho letto libri che avevano molto
meno da dire, ma, dicendolo meglio, mi sono rimasti impressi più
a lungo. Le più grandi lezioni della
mia vita (tralasciando gli scappellotti) le ho sempre apprese dai libri
che ho amato, i libri scritti bene.
L’adolescente, Dedalus, Il giovane
Holden, e potrei citarne molti altri.
Ma ciò non toglie che un’oretta gliela possiamo dedicare. Non si sa mai
che se ne esca qualcosa di buono.
In fondo, in questi 10 anni qualcosa
è cambiato. Sono cambiato io. Magari anche perché ho cominciato a
mangiare il formaggio, che fino a
qualche tempo fa proprio non potevo sopportare.
Biografie Edulcorate
Henry Charles Bukowski
di ANDREA MEREGALLI
“P
resi la bottiglia e andai in camera mia. Mi spogliai, tenni
le mutande e andai a letto. Era un
gran casino. La gente si aggrappava
ciecamente a tutto quello che trovava: comunismo, macrobiotica,
zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie
di gruppo, orge, ciclismo, erbe aromatiche, cattolicesimo, sollevamento pesi, viaggi, solitudine, dieta
vegetariana, India, pittura, scrittura, scultura, composizione, direzione d'orchestra, campeggio, yoga,
copula, gioco d'azzardo, alcool,
ozio, gelato di yogurt, Beethoven,
Bach, Budda, Cristo, meditazione
trascendentale, succo di carota,
suicidio, vestiti fatti a mano, viaggi aerei, New York City, e poi tutte
queste cose sfumavano e non restava niente. La gente doveva trovare
qualcosa da fare mentre aspettava
di morire. Era bello avere una scelta. Io l'avevo fatta da un pezzo, la
mia scelta. Alzai la bottiglia di vodka e la bevvi liscia. I russi sapevano
il fatto loro”.
Questo è un sunto, amico. Io non
è che ho 10.000 battute. Proprio
no. Diciamo che veleggio, ti piace
la parola veleggio?, tra le 2.000 e le
3.000 battute. Spazi inclusi. Questo
è quanto. Quindi. Non mi metterò a
elencare i tuoi titoli. I tuoi libri. Che
noia, perdiana. Ma, facciamo, tipo,
che improvvisiamo.
Sì, lo so. Lo so Henry Charles Bukowski che sei morto. Ma, come ho
già specificato, potremmo fare finta
che. Ok?
Io, a te, mi sono avvicinato grazie
al mentore. A John. Grazie a John
“idolo” Fante. Pare che sulla cresta
dell’onda, e, dimmi, cos’è che si
vede dalla cresta, Hank?, ne hai curato delle prefazioni o delle postfazioni e via dicendo. E insomma, che
diventi Bukowski. Insomma che la
tua vita da sfigato-folle-alcolizzato
che, ti dirò, ha un po’ rotto il cazzo,
diventa, d’un tratto, affascinante.
scritto migliaia di poesie. Cazzo, ho
pensato, questo mi garba. Questo
ha stile.
E, in effetti.
Cioè, originalità zero. Da James
Dean a Fabrizio Corona, sempre la
stessa solfa. Sigarette, vino, donne.
Nel 1994, quando te ne sei andato,
74 anni ma ci pensi Hank?, io avevo
dieci anni. Maledetto e inesorabile
e ineluttabile tempo. Quante cose,
quante, avrei voluto sapere. Sull’urgenza in particolare. Su quella
cosa che tu hai definito “urgenza”.
L’urgenza di scrivere che, per dirla
Sì, certo, tu ci hai messo del tuo.
Le parole. Le poesie. I racconti. I
romanzi. Hai scritto come un dannato. Roba che io ho letto. Roba che
mi ha indotto a pensare. Roba che
si avvicina alla mia incapacità cronica di concentrazione. Roba corta,
roba breve, roba buona.
come te, se non ce l’hai è inutile, è
inutile battere sui tasti, è inutile
sforzarsi. Meglio andare a lavorare. A lavorare, come hai fatto tu. E
il postino e il manovale e l’operaio
e l’impiegato, tutti quei lavori che ti
capitano tra capo e collo, con centinaia di domande annesse.
Sì. Il fatto che hai pubblicato con
case editrici minuscole. Il fatto che
sei figlio di immigrati. Il fatto che
hai avuto un acne che neanche un
nerd di quindici anni. Il fatto che
hai bevuto un paio di oceani di
vino. Il fatto che hai schiacciato con
gusto donne obese. Il fatto che hai
Cioè, questo concetto del poeta finalmente, dico io, non filosofo. Che
tu con una poesia ci hai raccontato
della scopata della sera prima. E
con un’altra della giornata alle corse. E con un’altra del licenziamento
alle pompe funebri. E con un’altra ci hai chiarito tuo padre. E con
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bondantemente citato. Ma a me citare piace di brutto,
mi pare elegante ma, in realtà, è una pacchianata mastodontica. Cosa riportare, ora, Hank?
un’altra ci hai illuminato sull’amore, che è un cane che
viene dall’inferno. E che queste poesie, di fuoco, forse,
appunto, infernale, ne avanzano. E così i racconti. E così
i romanzi.
L’imbarazzo della scelta. L’inutilità, pure, probabilmente. O forse no.
Beh, oltre sessanta (60) libri. Io li tengo in camera e la
sezione “Bukowski”, mi viene caldo solo a guardarla.
“Agli scrittori piace soltanto la puzza dei propri stronzi”.
Fantastico.
Anche qui, come faccio a citare. Lo so che ti ho già ab-
Me lo copre il prezzo?
Sociologia del libraio
di LICIA AMBU
L
avorare in una libreria significa passare l’intera giornata tra
scaffali. Topos fascinoso, non c’è
che dire, avvolto da quell’aura semantica per cui il libraio non può
che essere un individuo felice. Una
questione sociologica in pratica.
In effetti è così per buona parte del
tempo. Chi lavora in una libreria,
con passione, crede nei comandamenti della cultura per osmosi,
sniffa l’odore delle pagine nuove
e/o vecchie e ha tutte le nevrosi da
comprovato o provetto biblio tossico. Il must è che si legge gratis e
per lavoro. Ma è più complesso di
così. Verrebbe quasi da dire che la
mappatura strategica del mestiere
include una sinergia ben più ampia
di fattori: un mix tra prossemica,
qualche nozione di carattere generale e molto spirito d’avventura, tra
le altre cose. In effetti si va a braccio, non si sa mai cosa aspettarsi,
dalla richiesta di un libro nascono
un sacco di considerazioni barra
conversazioni interessanti, anche
quando si parte da basi apparentemente disastrose:
- Buongiorno, cercavo un libro, dice
E fino qui, pensi
- Però non mi ricordo né il titolo né
l’autore
Classico
Innegabile, a volte capitano anche
situazioni imbarazzanti, buffe o
terribilmente infauste per la pazienza, ma sono in minoranza, va
detto, il più delle volte è divertente,
non sai mai cosa ne viene fuori e finisce sempre che impari un sacco
di cose. Un altro aspetto molto interessante è che i libri dicono tanto
su chi li acquista. Certo la scelta di
un titolo dipende da molti fattori: il
momento storico (macro e micro),
l’autore, il titolo, la copertina (come
l’hanno capito gli editori…), la pubblicità, il passaparola (la pubblicità micro in sostanza) e cose così.
Proprio per questo forse, la cosa
interessante è capire quale aspetto
prevale sull’altro. Poi, con il tempo,
nascono un sacco di legami letterari, pettegolezzi culturali e confronti
a prova di club del libro o neofiti te-
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ste per ultime fatiche di penne più o
meno eccelse.
Alle spalle di tutto ciò, lo sporco
lavoro dietro le quinte: il rifornimento, la vetrina con scenari da
apriti cielo, l’organizzazione, i conti
da far quadrare, gli scaffali da rimettere in ordine, il Natale, dover
spiegare perché un libro prenotato
da giorni non è ancora arrivato, che
il fuori catalogo è una dura realtà
ma esiste e che se un autore non ha
ancora pubblicato un nuovo libro
noi non sappiamo il perché esattamente come tutti gli altri adepti del
suddetto. Dulcis in fundo qualche
richiesta seriamente interessante,
se non altro per l’eventuale possibilità di esaudirla:
- Buongiorno signorina.
- Buongiorno a lei, mi dica
- Oh, che bei libri. Devo fare un regalo per un anniversario di matrimonio… avete dei tovaglioli con scritto
sopra 25 anni?
- Perfetto
Oh, Scena!
Oh, Reading!
di SIMONE ROSSI
Testi che tra l'altro vorrebbero essere
incitamenti a resistere spudoratamente e invece porcaputtana fanno
venire da piangere.
V
asco Brondi scrive così: “e il
nostro senno è in una bottiglia
di moretti accatastata sulla luna,
l'anello resterà per poco sulla spiaggia. quando a forza di ferirci siamo
diventati cosanguinei. e tu risparmi
sul riscaldamento e sulle arance. e
mi distraggo mentre mi parli delle
tue giornate perché non compaio
più tra i titoli di coda. e mettevamo
i capelli tagliati male sul davanzale
perché alle rondini potevano tornare utili. rassicurare le madri, che
se ne fregano che se ne fregano. Mi
sa che troveremo una strada mi sa
sara, come quando davanti al muro
del pianto siamo caduti per terra
dal ridere sommesso. come quando
dentro piove e alla stazione di Mestre sembra sempre di essere in un
film che devono ancora fare”.
La prima botta sono le lettere minuscole, e sara che ci spunta in
mezzo come un fiore, o come un
brufolo. La seconda è il citazionismo e il respiro stretto delle frasi:
direi che sembra un po' il jump cut
di Godard, ma mi sa che non c'entra
niente. Passano i cavi della tensione
tra un punto e il punto successivo,
il senso appare dall'alto come una
specie di tempesta elettrostatica,
non c'è bisogno di capire tutto, ci
sono solo dei luoghi poco comuni, luoghi scomunicati da andare
a illuminare a petrolio finché non
muoiono i canarini segnaletici. La
terza botta è la più forte, e la fanno
solo certi libri con certi lettori: io,
io lettore, quando leggo la distrazione di chi si sente scomparire
dai titoli di coda o i capelli tagliati
male sul davanzale o le madri “che
se ne fregano che se ne fregano”, io
capisco. Non mi identifico in Vasco
Brondi. Lo ripeto: non mi identifico
in Vasco Brondi, come non mi identifico in Salinger né in Sheldon né
in Shiva. Lo scrittore è una figura
mitologica inventata dai critici, non
ci interessa lo scrittore: ci interessa
lo scritto. Capisco questo scritto,
mi arriva la tempesta, capisco perché ci sono scritte quelle cose lì e
capisco perché sono scritte in quel
modo lì, con le ripetizioni ripetute
e la citazione di A rose is a rose is a
rose di Gertrute Stein (era Gertrude
Stein, vero?). Sento che funziona.
Gli credo.
“Secondo me, gli autori del nuovo
cinema non muoiono abbastanza
dentro le loro opere: vi si agitano, vi
si contorcono, o meglio vi agonizzano, ma non vi muoiono: perciò le
loro opere restano testimonianze
di una sofferenza del fenomeno assurdo del tempo". Ah, il fenomeno
assurdo del tempo, aveva ragione
Pasolini, come al solito, avete ragione tutti, e noi non siamo riusciti
nemmeno a sederci dalla parte del
torto: i posti erano tutti occupati,
anche lì. Cellacci e ciellini ci scrivono lettere aperte per incoraggiarci
a scoraggiarci, ad andarcene, a essere felici altrove: ce lo meritiamo,
con tutti i soldi che hanno speso
per mandarci a scuola. E noi chissà
quando troveremo un vero lavoro, e
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quando la finiremo di giustificarci
con il solito Jeff Buckley: maybe I'm
just too young / to keep good love
from going wrong. Ci siamo passati
tutti, ci stiamo passando tutti. Poi
ogni tanto succede che qualcuno
trovi il modo di raccontarla, di raccontarci, e subito ci smarchiamo e
diciamo che no, quelli non siamo
noi, le etichette non ci piacciono,
nemmeno quelle discografiche,
e meno male che stanno finendo,
questi cazzo di anni zero. Si può accusare Vasco Brondi di non morire
abbastanza dentro le sue opere, di
fare il bello con le nostre disgrazie,
ma poi lo guardi e non è bello, e non
siamo belli nemmeno noi, è bella
solo sara, e accusiamo il colpo, e
basta.
Vasco Brondi l'ho visto a teatro e
questa rubrica parla di testi teatrali: il libro si chiama Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero,
il reading pure. Ho pensato che un
libro con la parola “cazzo” nel titolo potesse andare bene per Oh,
Scena!, solo che Oh, Scena! parla di
testi teatrali. Poi quel libro è diventato uno spettacolo teatrale, cioè
un reading, in realtà fondamentalmente è un reading, c'è lui che legge
mentre suona, e ogni tanto canta.
Allora questa puntata s'intitola Oh,
reading!, che probabilmente sarà
il nuovo titolo di Oh, Scena!, o la
seconda serie, o che ne so. Oh, reading! si legge òrriding.
A
pro Wikipedia e cerco snob.
Dal latino sine nobilitate,
designa «una categoria di persone
che imitano i modi ed il modo di
vivere di classi sociali superiori,
atteggiandosi in maniera raffinata
e altezzosa». Aspirare ad essere altro, come Firmino. Nel libro da ombrellone di Sam Savage il topo che
sopravvive cibandosi di libri si sente un pervertito desiderando sessualmente le donne che vede sugli
schermi del cinema. Guarda il proprio corpo di ratto e sogna di essere
umano. La corsa all’oro, la lotteria
milionaria, la gente che conta,
i prestigiosi club di filantropi.
Una cieca corsa al potere che
evidenzia solo la pochezza di
chi non si accorge di essere un
pesce nell’acquario, perso in
una estenuante ed infruttuosa
corsa di topi. Sarebbe bastato
ascoltare Rat race di Bob Marley o leggere Charles Baudelaire, secondo il quale «questa
vita è un ospedale dove ogni
malato è ossessionato dalla
brama di cambiar letto», magari accanto ad uno che conta,
un letto sì da malato, ma da
malato prestigioso.
Ho pranzato accanto a snob filantropi o presunti tali. Io fuggivo
peripatetico in cerca di sole, loro
patetici e soli si studiavano a vicenda. In tre ore di conversazione non
ho mai sentito nominare un libro,
un disco, un film, un quadro, un
viaggio. Solo commenti su chi era
in sala e su come abbinare camicia
e gioielli. Questa cosa mi ha turbato
tanto da farmi riprendere in mano
I vagabondi del Dharma per rileggere il pensiero semplice e netto
di Japhy: «hanno tutti gabinetti a
mattonelle bianche e fanno sporchi
stronzi grossi come quelli degli orsi
di montagna, ma tutto vien spazzato via in razionali fogne supercontrollate e nessuno pensa più agli
stronzi né si rende conto che la sua
origine è merda e fetore e rifiuto del
mare. Passano tutta la giornata a
lavarsi le mani con saponi cremosi
che sognano in segreto di mangiare
nel bagno». Meglio José Saramago:
«come tutti i figli degli uomini, il
figlio di Giuseppe e Maria nacque
sporco del sangue di sua madre,
vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio».
«Che cosa vieta di dire la verità
ridendo?» si domanda Orazio nelle
Satire. Viccavdo, ricco bambino di
otto anni immaginato da Pulsatilla, con fare snob chiede a Babbo
Natale di non ricevere più gli innumerevoli regali e, se possibile,
Viaggi
Snob
di ALESSANDRO POLLINI
di accettare i resi dei regali inutili.
Gli si rivolge con una lettera dove
scrive: «il pvoblema non é solo di
natuva logistica; il dvamma é che
con questi affavini, poi, sono in doveve di giocavci pev non dave un
dolove a chi me li ha vegalati. Visto
che il tempo è quello che è, ho cominciato a impovmi degli ovavi. La
mattina mi costvingo a mezz’ova
di pista. Tovnato da scuola ho due
ove di puzzle» e così elencando il
programma di giochi cui si sottopone quotidianamente con lo stacanovismo degno di un precario.
Problema che non tange il bambino
povero de Il giocattolo del povero,
citando nuovamente Lo Spleen di
Parigi di Charles Baudelaire, che
si diverte, invidiato da un bambino ricco che ignora un giocattolo
nuovo e costoso, con un topo vivo
chiuso in una scatola. Come dicevo
prima, pesci in un acquario, giacché «i due ragazzi se la ridevano
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fraternamente tra loro con i denti di
una uguale bianchezza».
Insegna Epicuro che «l’avvezzarsi a un regime di vita semplice
e non ricercato sia è assolutamente
salutare, sia rende l’uomo sollecito
verso le necessarie occupazioni del
vivere quotidiano, sia ci dispone
meglio alle raffinatezze che di tanto
in tanto ci toccano e ci rende impavidi di fronte alla sorte». Alla faccia
dello snobismo e degli atteggiamenti di finta raffinatezza, e pure
scritto in latino! Certo, gli snob di
cui sopra guarderanno il dito
mentre gli si indica la luna, ma
in fin dei conti se i denti brillano di una uguale bianchezza,
mi dico sia meglio leggere un
buon libro dimentichi della
necessità di sembrare ciò che
non si è. In fondo, citando
ancora Epicuro, «non bisogna fingere di filosofare, ma
filosofare davvero; infatti non
abbiamo bisogno di sembrare
star bene, ma di stare bene per
davvero».
Mi sono venuti in mente in questo articolo: Sam Savage - Firmino
(Einaudi, 179 pp. 14,00 euro); Charles Baudelaire - Lo Spleen di Parigi
(Mondadori, 216 pp. 8 euro); Jack
Kerouac - I vagabondi del Dharma
(Mondadori, 272 pp. 8,50 euro); José
Saramago - Il vangelo secondo Gesù
Cristo (Einaudi, 410 pp. 12,50 euro);
Orazio Quinto Flacco - Satire (Garzanti, 290 pp. 9,90 euro); Pulsatilla
- Quest'anno ti ha detto male. Lettere a Babbo Natale cestinate da lui
medesimo e casualmente ritrovate.
(Bompiani, 120 pp. 8,90 euro); Epicuro - La felicità e il piacere (Barbera, 59 pp. 6,90 euro)
La lettera che muore
Verso la twitteratura?
di MICHELE MARCON
B
entornati a La lettera che muore, la rubrica di Finzioni che
ha tante domande e nemmeno una
risposta, e che, proprio per questo
motivo, è sempre al passo coi tempi.
La storia dell’umanità è segnata
da invenzioni che hanno cambiato
radicalmente i nostri rapporti col
mondo e con gli altri. Pensate alla
ruota, un mondo post-industriale
senza di essa sarebbe oggi inconcepibile. Pensate al preservativo, fino
al 1960 era fatto col budello animale (bleah), ma ha sempre permesso
di avere rapporti sessuali con frequenza e sicurezza. Oppure pensate alla carta, senza la quale per voi
sarebbe impossibile leggere Finzioni. Nonostante ciò, all’epoca c’era
molto scetticismo di fronte a questi
oggetti geniali. Ve lo immaginate?
“Infilare il mio pene nel budello di
un maiale?! Non sia mai!” Oppure:
“Scrivere su questi straccetti bianchi? Meglio la pietra che è più solida
e duratura”. In fin dei conti è prerogativa dell’uomo essere diffidente
di fronte alle novità. Poi, come sempre, è la storia a mettere l’ultima
parola.
Oggi ci troviamo di fronte ad un altro di questi momenti epocali. C’è
un’invenzione che potrebbe nuovamente cambiare il nostro modo
di vedere le cose. E, vista la portata
dell’avvenimento, l’argomento è più
o meno sulla bocca di tutti. Sto parlando dalla nuova alfabetizzazione
veicolata dal web in generale, e, in
particolare, vorrei fare riferimento
a Twitter, social network che per-
mette di postare segmenti testuali
non più lunghi di 140 caratteri.
Ultimamente si sente parlare spesso della sua applicazione alla “letteratura” (con gli ormai famosi,
per chi segue questa rubrica, empi
diacritici). È convinzione comune
che si possano scrivere romanzi in
140 caratteri. Certo, dicono gli integrati, bisogna andarci coi piedi
di piombo, ma il futuro della letteratura è la brevità. Non c’è più
tempo per spararsi dei pistolotti
come la Recherche o come L’uomo
senza qualità. E se non c’è tempo
per leggerli, figuriamoci per scriverli! Perciò proliferano concorsi
per scrivere mini-romanzi su Twitter; se ne possono contare a decine, centinaia, e l’entusiasmo è alle
stelle, perché diventare romanziere
sembra finalmente essere alla portata di tutti.
Ma a me piace soffermarmi a riflettere su come cambiano le cose
e credo che piaccia anche a voi.
Allora è giusto dire che questa cosa
della brevità non è mica nuova.
Un certo Hemingway agli inizi del
‘900 scrisse quello che fu definito
il romanzo più breve del mondo:
“Vendesi: scarpine per neonato, mai indossate”. A
parte l’amarezza celata nelle poche parole dello scrittore americano, possiamo
ritrovare la stessa brevità
in contesti più vicini alla
nostra cultura: i proverbi e
i detti popolari. Questo ritorno al passato vuole forse
dire che la letteratura sta
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diventando una cosa più popolare,
quindi più aperta a tutti, quindi
più giusta? Ben venga, ma io questo
proprio non ve lo so dire. Però posso
fare un’altra domanda.
Dove andremo a finire? Forse il romanzo diventerà una forma letteraria polisintetica, un po’ come la
lingua eschimese, per cui una sola
parola esprime una moltitudine
di relazioni, sia grammaticali che
semantiche? Ve lo potete immaginare? Una parola, un romanzo. Insomma, uno scrive “casa”, e ha praticamente scritto un libro, magari
pure un best seller. Se l’opera è così
aperta come si dice, poi spetterà
al lettore ricostruire la storia sulla
base delle proprie connessioni inferenziali. Casa: 5 milioni di copie
vendute. Sarebbe incredibile, no?
Non ci credete? Forse non ci credo
più di tanto nemmeno io. Ma chi
avrebbe mai pensato che l’uomo
avrebbe messo piede sulla luna? E
chi, quindici anni fa, si sarebbe potuto aspettare tutti i cambiamenti
degli ultimi cinque anni?
Staremo a vedere. Io per sicurezza
mi tengo in serbo un bel po’ di parole pronte a diventare best seller.
Mattoni
"Pierre o delle ambiguità"
di Herman Melville
Peso: 4,05 kg
di FILIPPO PENNACCHIO
I
l lettore addentro, come il sottoscritto, alla programmazione pomeridiana di Canale 5, saprà bene
che appena dopo Beautiful, ma subito prima di Uomini e Donne, va in
onda Centovetrine, soap opera che
racconta delle sorti – tragiche – di
una dinastia imprenditoriale torinese, funestata da continue lotte
intestine per la successione al vertice della holding, turbata da rivolgimenti amorosi tra i suoi vari membri, devastata da una sorte infausta
e – esattamente come nei grandi cicli romanzeschi del XIX secolo – da
un determinismo sociale dilagante.
Tra i suoi protagonisti, Centovetrine
annovera un giovane e bell’avvocato – interpretato da un attore a suo
modo grandioso, una sorta di genio
tragico letteralmente incapace di
plasmare il proprio volto se non in
un’unica, abbacchiatissima espressione – le cui giornate sono scandite da ritmi lavorativi pazzeschi e da
ripetute simulazioni di trasporto
amoroso per la frigidissima e perennemente incazzata figlia del defunto patriarca-ex-presidente della
holding di cui sopra. È però, invero,
profondamente innamorato di una
giovane collega avvocatessa: una
bionda acqua-e-sapone sessualmente inservibile, irreprensibile
in quanto a etica professionale, inconsapevole (fino a un mesetto fa)
sorellastra della summenzionata,
mestruatissima figlia-del-papi.
Come un po’ a tutti noi, anche a
questo personaggio cui, suo malgrado, spetta anzitutto il compito
di ritrarre l’impoverimento sessuale dell’uomo italiano, capita talvolta di giocare sporco sul lavoro, di
mentire alla propria donna – per
altro confinata (sempre fino a un
mesetto fa) su una sedia a rotelle:
allegria! –, di confessare all’amata
avvocatessa la propria viscerale
passione. Eppure, puntualmente,
succede che chiunque – persino la
domestica – ne biasimi le scelte, gli
paventi un destino disgraziato, lo
ponga di fronte a terribili decisioni.
Addirittura la polizia, sospettandolo a capo di una per altro innocua
truffa, si mette a rompere i coglioni. Bella merda, insomma. E infatti questo personaggio la cui vita è
diventata nient’altro che un’estenuante sequela di ricatti morali,
decide – come biasimarlo? – di fuggire (a Cuba, per altro). Nell’ultima
puntata, poco prima del definitivo
addio, un bel primo piano del suo
volto ci mostra un uomo distrutto
– una «decalcomania attanziale»,
diciamo –, il cui sguardo arreso
sembra dirci: «perché tutto questo?
Sono solo un uomo».
Pierre, il protagonista di Pierre o
delle ambiguità di Herman Melville, è in fondo assai simile a un
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attore di Centovetrine – ma anche,
suvvia, a un provincialotto come il
sottoscritto la cui Bildung, ahimè, si
svolge in quel di Milano, a contatto con coglioni micidiali che, dato
che scrivono su Vice / frequentano
presunte gallerie d’arte / conoscono un sacco di “persone giuste”,
quindi ridicole, si autoeleggono a
crema intellettual-sarcazzo della
città. Anche per Pierre, difatti, la
vita è un’estenuante sequela di delusioni: si innamora di una donna
che poi scopre essere sua sorella,
viene cacciato di casa in tenera
età, cerca inutilmente fortuna nel
mercato editoriale, uccide, perché
vi è costretto, un poveretto, in ultimo viene condotto alle «Tombe»,
un carcere nel cui nome non c’è
alcuna facile ironia. Manco a dirlo,
la sua fine sarà tragica. Come per
l’eroico avvocato di Centovetrine, il
consorzio umano si rivela infine la
più grossa delle delusioni esperibili
su terra ferma: già il buon Ismaele
(ma pure il capitano Achab), d’altronde, lo aveva intuito, comprendendo come il mare aperto fornisse
il rimedio più sicuro per gli umori
malinconici e un rifugio dalle delusioni terrestri, ritrovandosi a sentenziare bene: «I quietly take to the
ship».
Certo per noi lettori il problema
risiede, ancora una volta, nelle
dimensioni (o, come sempre, nel
peso): certi dialoghi grotteschi con
i redattori di Zero durano al massimo il tempo di una sigaretta e la
visione di una puntata di Centovetrine, con pubblicità annessa, non
richiede più di venti minuti, mentre
i “mattoni”, per raccontarci quanto
l’umanità, in genere, faccia cacare,
impiegano un numero spropositato
di pagine, richiedono pomeriggi interi di fedele dedizione, annoiano,
alle volte, tantissimo: in due parole,
a volerne dire meglio, somigliano
più alla vita vissuta, la quale d’altra
parte, si sa, è ben peggiore di una
soap opera. Che tragedia.
L'angolo del
cinematografo
“Where The Wild Things
Are” di Spike Jonze
di MARINA PIERRI
D
a noi è arrivato con il titolo Nel paese delle creature
selvagge e, a meno che non foste
estremamente determinati a vederlo e dunque l’abbiate fatto, la programmazione nelle sale è stata così
pressappochista da farlo passare
del tutto inosservato. Esatto: dalla
seconda settimana, è stato spostato al pomeriggio perché creduto un
film per bambini; dalla terza, visto
che neanche presso il pubblico giovanissimo tirava granché, l’hanno
levato proprio di mezzo. Adesso vi
state chiedendo come sia possibile.
Ma come, il film di Spike Jonze basato sul bestseller di Maurice Sendak Where The Wild Things Are, sceneggiato niente meno che da Dave
Eggers, realizzato interamente in
analogico con veri pupazzi di pelo e
stoffa? Quello attesissimo che aveva
pure Wake Up degli Arcade Fire nel
trailer? Proprio quello. E adesso vi
spiego perché è successo, o, almeno, vi do la mia versione.
WTWTA non è un film per adulti
e non è un film per ragazzini. È un
film destinato a chi conosce il libro, lo sceneggiatore, il regista, gli
attori, la gente che ne ha creato la
colonna sonora (Karen O degli Yeah
Yeah Yeahs con un coretto stile Antoniano) e, dulcis in fundo, ha voglia di cooperare nella costruzione
della storia. In una parola: è un film
di nicchia. Molto di nicchia. E pure
per quella nicchia, il primo tempo è
una palla mai vista. Giuro: quando
l’ho visto io, alle cinque del pomeriggio, i genitori che accompagnavano i pargoli (muti) non hanno
fatto che parlare ad alta voce tutto il
tempo e almeno tre o quattro dopo
i primi trenta minuti se ne sono andati. Non so dargli torto: Jonze, in
effetti, commette una scorrettezza
fondamentale. Per tutta la prima
parte della pellicola, non scatena
nessun sentimento per il piccolo
protagonista che non sia antipatia
o, peggio, incomprensione (insomma “buca” l’identificazione). Non
si capisce chi sia questo piccolo
scassamaroni, perché se la prenda
con la madre e pianga tanto, perché
guardi uno strano plastico con dedica – quella del padre – con il muso
lungo e, poi, per quale ragione si
sposti nella terra dei mostri, questi
strani, strani mostri, che non sono
teneri, anzi, sono violenti, brutti,
quasi spaventosi, mentre dicono e
fanno cose senza senso.
Eppure, come si dice, la pazienza premia: nella seconda parte
di WTWTA tutto va al suo posto
e quello che era un film noioso e
scucito diventa un lavoro meraviglioso sul dolore e la solitudine di
un bambino che da poco ha perso il
padre. Jonze ed Eggers, che hanno
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trasformato un classico di fantasia
in una specie di bizzarro lavoro
sull’autismo infantile o almeno in
un’esegesi della separazione, riescono – non senza difficoltà – a
fare intuire, solo intuire l’antefatto
grazie al potere dell’allegoria. Così,
lentamente, emerge l’assiologia, il
mondo di valori del piccolo Max. Il
mostro Carol "è" suo padre: un padre che, immaginiamo, è stato violento e incontrollato, che ha scosso
le fondamenta della famiglia con la
sua impulsività e, in ultima analisi,
per colpa della sua stessa insicurezza. E una madre, KW, che custodisce il piccolo nella sua pancia e lo
nasconde alle ire del maschio, ire
che nascono dall’allontanamento,
dalla sensazione di mancanza di
controllo.
Il percorso di Max, che avviene
tutto nella fantasia, è un percorso di crescita che è superamento
dell’identificazione sghemba con il
padre. O qualcosa del genere. Fatto
sta che, al suo ritorno, “la cena era
ancora calda” e lui può finalmente
essere sé stesso, un bambino, un
semplice bambino che veglia sulla
mamma e su cui la mamma veglia.
Q
ualche anno fa una importante rivista scientifica di
fisica chiese ai lettori di giudicare l’esperimento più bello di tutti
i tempi. Con italica soddisfazione
l’esperimento più bello fu giudicato “interferenza dell’elettrone singolo”. Già il titolo spacca! Questo
esperimento, pensato nel 1920, fu
realizzato dopo aver superato difficoltà pratiche enormi per la prima volta nel 1976 nei laboratori del
CNR di Bologna. Olé!
Brevemente: prendiamo uno
schermo con un paio di fori vicini
rettangolari, stretti e lunghi (doppia fenditura) e pensiamo di avere
dietro una pellicola in grado di registrare cosa succede dietro allo
schermo stesso. Se noi tiriamo tante palline sullo schermo solo quelle
Tipici comportamenti di onde e
particelle, due categorie distinte e
contrapposte. Però la meccanica
quantistica ci dice che nell’infinitamente piccolo queste due categorie
si fondono, per dare vita a quello
che viene definito un dualismo onda-particella. Ovvero: le particelle
subatomiche (es: elettroni) sono
nel contempo onde e particelle. Un
concetto non tanto più semplice da
comprendere della natura contemporaneamente umana e divina di
Gesù, giusto per fare un esempio
triviale. Bene, se noi prendiamo
una fenditura piccolissima (di dimensioni paragonabili a quelle degli atomi) e ci facciamo passare un
elettrone alla volta otteniamo una
figura sbalorditiva (lo sbalordimento compare dopo averla guardata
per un po’). Gli elettroni sono par-
per la prima volta fu possibile vedere il dualismo onda-particella.
È un po’ complicato, lo so. Ecco
quindi un bell’invito a guardarvi
un sito che spiega per bene l’esperimento (http://l-esperimento-piubello-della-fisica.bo.imm.cnr.it/).
Ma perché è stato giudicato il più
bello? Dov’è l’estetica nella scienza? Cominciamo con l’estetica di
questo esperimento: la possibilità di vedere, sensorialmente, un
concetto incredibilmente astratto, esprimibile chiaramente con
complicate formule matematiche
ma che, per sua natura, trascende
l’esperienza sensoriale. E con questo esperimento è possibile tenere
in mano una fotografia che contiene l’essenza della meccanica quan-
Pillole di scienza
L’esperimento più bello (ed è italiano!)
di FABIO PARIS
con la giusta direzione potranno
attraversare i buchi e, colpendo la
pellicola, andranno a formare una
coppia di strisce dietro alla fenditura stessa. Una pallina (particella)
può passare a sinistra o a destra.
Punto. Se invece è un’onda a colpire
la fenditura avremo un fenomeno
detto interferenza (pensiamo alle
barriere di scogli al mare con le
onde che le attravesano e tutte le
figure geometriche che disegnano
sull’acqua, ecco a voi l’interferenza): le onde aggirano gli ostacoli,
attraverseranno la fenditura e andranno a formare tantissime righe
parallele dietro alla fenditura stessa colpendo lo schermo non solo
dietro alle due fenditure, ma anche
altrove.
ticelle, vengono fatte passare uno
alla volta attraverso la fenditura, e
all’inizio si concentrano dietro alle
due strisce, disengando dei punti
nella nostra pellicola come delle
palline nell’esperimento di sopra.
Ma ben presto si vede
che le palline non si
concentrano solo dietro alle fenditure, ma
si distribuiscono a formare una figura di diffrazione, come le onde.
Un elettrone passa a
destra o a sinistra della
fenditura! E con cosa
interferirebbe
poi?
Con se stesso!!! Onde
o particelle? Entrambe
le cose, che strippo! E
19
tistica. E anche abbastanza semplice da capire, nonostante i suoi
risultati siano rivoluzionari. Eccone la bellezza, un po’ come tenere
in mano, per un credente, la prova
della trinità. E non è poco.
I ferri del mestiere
…a che fare con i libri?
di AGNESE GUALDRINI
M
otivo di prestigio per molti dei nostri autori è essere tradotti all’estero. Non appena
vengono informati che un editore
straniero è interessato al loro libro
e che ci sono buone probabilità
che venga tradotto una patina di
orgoglio inizia ad avvolgere le loro
voci. Lì per lì è una cosa che in effetti dà una certa soddisfazione: io
sono contenta perché ho fatto bene
il mio lavoro (sono riuscita a vendere il libro all’estero), la casa editrice
è contenta perché guadagnerà un
utile, l’autore è contento perché la
sua opera sarà divulgata al di fuori
dell’Italia. Si preparano i contratti,
si mandano le reading copies agli
editori, si monitora che i 18 mesi
che devono decorrere dalla data
di stipula del contratto all’effettiva
pubblicazione non diventino 4 anni
e via discorrendo.
Fin qui, con tutti che sono felici
e contenti, sembra tutto chiaro e
semplice. In realtà, come in tutte le
cose, l’idillio dura poco e improvvisamente iniziano a spuntare mille
insidie.
Una delle prime trappole (e una
delle più irritanti) consiste nella
preparazione dei moduli delle tasse. Uno pensa di lavorare in una
casa editrice e di avere a che fare
tutto il giorno con i libri (e tutti
quando dici che lavori in una casa
editrice ti ammirano e pensano a
quanto sei fortunato, sì proprio tu,
che tutto il giorno hai a che fare con
i libri). In realtà il più delle volte finisce che i libri te li porti a casa la
sera perché la maggior parte del
tempo in casa editrice la passi a fare
altro. Oltre alle e-mail, alle schede
libro, e a rispondere al telefono, in
questo altro rientrano gli odiosi
moduli delle tasse. Non che ci voglia la scala per farli, ma sono di
una noia mortale e in più c’è sempre
qualcosa che non va bene. La Corea
li vuole fronte/retro, la Polonia ha
solo le voci in polacco senza traduzioni in inglese, la Grecia invece
di un foglio a4 normale usa delle
specie di lenzuoli, la Francia ha dei
moduli tutti suoi (figuriamoci, sono
francesi), gli USA richiedono password e username, codici PIN PUK
(e io francamente non ho ancora
ben capito a cosa corrispondano
tutti questi codici. Li inserisco e basta sperando ogni volta che sia tutto
corretto perché il sol pensiero di vedermi recapitare lo stesso tax form
da rifare perché errato mi provoca
un certo malessere …e certe volte
è accaduto). Può poi capitare che
gli editori che si dicono interessati
e che sono lì, pronti a firmare, per
una qualche ragione cambino idea:
il libro non lo vogliono più tradurre. Ora, la cosa in sé non ha nulla
di drammatico. Certo dispiace, ma
ce ne facciamo presto una ragione.
La situazione diventa però una vera
tragedia agli occhi dell’autore che,
ormai con la voce canterina e gli
occhi illuminati, vede la sua gioia
sbriciolarsi improvvisamente. Non
si capacita del rifiuto, in alcuni casi
si offre di occuparsi lui della traduzione, che ha giusto un amico croato che tradurrebbe molto volentieri
il libro a costo zero. In questi casi
si rassicura l’autore, spiegandogli
che sono cose che succedono, che
20
ci saranno altri editori interessati (e
mentre lo dici sai già che hai parlato
troppo presto e che da quel momento in poi non avrai pace…finché un
altro editore non si convincerà davvero a comprare i diritti del libro in
questione).
Anche quando arrivano finalmente le copie tradotte in casa editrice (e la trafila pare conclusa) le
insidie sono ancora in agguato. A
parte il fatto che a volte il copyright
è sbagliato (e se uno volesse potrebbe montare una querelle burocratica di non poco conto), in alcuni casi
arrivano davvero dei libri assurdi:
tipo l’edizione portoghese della
storia del diritto con una copertina rosa big babol, o un’edizione
francese di un libro divertente seminarrativo che pare l’agenda della
banca.
Un po’ stupita, un po’ divertita,
già ti prepari al commento dell’autore. Ascolti e prendi nota. Nel migliore dei casi riesci a dire la tua. Sai
che fa parte del gioco.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
C
aro Bettoli, le scrivo da Wanegooga, Hawaii. Ebbene
sì, pure qua in mezzo al Pacifico
leggiamo Finzioni. Leggiamo...
insomma, io lo leggo. Ogni tanto.
Perché ci scrive pure il nipote di
un mio caro amico d'infanzia, che
mi ha detto “dai fagli sto piacere,
che sennò Jacopo mi si scoraggia”.
Non è malaccio. Abito alle Hawaii
dagli anni 60: a chi mi diceva “don't
give up on your dreams, buddy” ho
replicato “ci mancherebbe” e sono
venuto a trafficare gemme preziose in questo paradiso. Chi me lo
faceva fare di stare nella bassa padana? Ma veniamo al motivo della
lettera. E' uscita da poco una biografia di J.F.Kroninger sulla vita
di Markessen, consigliere di una
buona metà del presidentame democratico post-kennedista. Ed un
capitolo è interamente dedicato a
Morandi, Gianni Morandi.
SpiritoLibero68, Wanegooga
M
arkessen, una vita a cento
all'ora (13 euri su edizioni Jerry P Roman) è l'incendiario
volume voluto da William Clinton
alla fine del suo secondo mandato
presidenziale per celebrare l'amico
e collaboratore Markessen, il cui
nome di battesimo -come per i calciatori brasiliani- è sempre passato
in secondo piano. Lei accennava a
Markessen e Gianni Morandi, un
connubio improbabile nato per
caso quando, durante una visita
diplomatica nel belpaese del Presidente Lyndon B. Johnson nel 1965,
il consigliere venne a contatto con
la Morandi-mania italiana. Fu
amore. Ciò che sbalordisce è che da
quel viaggio in poi Markessen cominciò zitto-zitto ad inserire versi
delle canzoni del Gianni nazionale
in numerosi discorsi presidenziali,
slogan elettorali ed interventi nelle
università. Un pazzo, o un burlone. Se Johnson nel 1968 davanti al
Congresso dichiarava qualcosa che
in inglese assomigliava pericolosamente a “il soldato americano
non suona la chitarra ma uno strumento che sempre fa la stessa nota
rattatatà” (cfr. C'era un ragazzo che
come me amava i Beatles e i Rolling Stones, 1966), appare ancora
più inquietante che Jimmy Carter
nel 1977, parlando della questione
petroldollari, dichiarasse davanti
ad una platea di accademici assopita “fatevi mandare dalla mamma
a prendere un gallone di benza”.
Corrispondenze morandiane di
questo tipo, nelle partecipazioni di
Markessen, sono frequentissime.
Neanche William Clinton fu risparmiato: in un suo discorso seguente
alla bufera causata dalla Monicona
Lewinsky, dichiarò “non ho barato
né bluffato mai, e questa sera ho
messo a nudo la mia anima. ho perso tutto ma ho ritrovato me... uno su
mille ce la fa”.
•
A
rrivare alla bellezza interiore è più facile in presenza
di una decenza esteriore. Questo il
titolo che il celebre professore di
Estetica Ludwig Roiterski ha dato
alla sua opera manifesto dell'idratantismo estone. Ludwig Roiterski ha aperto la diga e spianato la
21
strada per un botto di correnti che
mettono i puntini sulle “i” e frenano gli entusiasmi degli aspettononcontisti. L'aspetto conta, dice
Roiterski, e “deve saper contare
almeno fino a 5” (cit.) pena la marginalizzazione in un mondo di
idratati. Ed è qui la caratteristica
forse più interessante dell'idratantismo roiterskiano: chi non si idrata è destinato a perdere dal punto
di vista sociale, lavorativo e spirituale. “Poche storie” dice Roiterski
“in ascensore, quando sono faccia
a faccia con sconosciuti, voglio vedere visi idratati”. Tangente al discorso spirituale, l'idea che l'idratazione innalzi. Che ne pensa?
Gastone Fortunato,
Costantinopoli
N
on disprezzo chi consiglia
una buona crema idratante.
Roiterski quando dice che Arrivare
alla bellezza interiore è più facile in
presenza di una decenza esteriore
scoperchia il vaso del Pandoro proprio ora che è Natale. E lo fa in coscienza. Perchè l'aspettononcontismo non riscalda più i cuori di chi è
sempre in cerca di nuove baggianate a cui dedicarsi? Scelte sbagliate
della dirigenza, per così dire. Lisandra Rosk, celebre autrice di Trasandatezza e di Tutti si ricordano solo
dell'Elvis grasso, ha scatenato l'ira
di molti perbenisti mangiando
-prima del ballo delle debuttanti di
Toronto- il pollo con le mani, mani
che ha successivamente strisciato
sulla tovaglia e con cui ha infine
stretto affettuosamente il faccione
della première dame canadese Liza
Alcindor. Resta il dubbio che dietro
l'idratantismo ci siano le industrie
cosmetiche e che Roiterski non sia
altro che un burattino di glicerina.
Mi sembra *un po' una forzatura*
dire poi che l'idratantismo innalzi
verso più alte forme di conoscenza:
a una storia del genere ci può credere giusto quel fritto di Tom Cruise e
quella sciroccata di sua moglie.
•
C
aro Bettoli, ho appena finito di leggere Non posso
credere che pure lei avesse uno
strippo talmente consistente da
risultare fatalmente non ignorabile, volume agreste che rispolvera
la fascinazione per i titoli lunghi
di Lina Wertmüller per proporci
una sag(r)a sui lupi mannari con
fattezze da adolescenti che ci stanno dentro un casino. Con questa
sag(r)a le edizioni Maringa hanno
fatto il botto e hanno scoperto un
nervo già scoperto di suo: i vampiri
hanno rotto i coglioni, ARIDATECE i lupi mannari pelosoni. Magari
in una location contadina, perchè
no. L'intuizione di Caspare Mas-
simo Caselli, guardiano di museo
con la passione per la scrittura, ha
colto nel segno e oramai l'Italia è
celebre in tutto il mondo per le sue
novelle sui lupi mannari contadini. Io mi sento partecipe di questo
evento e ne sono entusiasta, era
ora che all'impero Romano e al Rinascimento facessimo seguire un
po' di popolarità fondata sui lupi
mannari con le fattezze di adolescenti bellocci.
Danilo Mannaro, Bellinzona
Non so, effettivamente è difficile
rimanere impassibili e tenere a bada
l'eccitazione mentre l'Italia sale sul
tetto del mondo grazie ai lupi mannari. Caspare Massimo Caselli ha
capito che una combinazione tra
lupi mannari e adolescenti poteva
funzionare ed ha deciso di provare,
costruendo una storia improbabile
su un diciottenne sfigato, Luciano,
che scopre che la diciottenne che
sembra finalmente starci in realtà
è una lupa mannara. Diversamente
da quanto si potrebbe pensare, la
storia non si incanala sui binari del
racconto fantastico alla Salgari o
alla Verne (averne di scrittori come
22
Verne) quindi qua niente tesori,
cacce al lupo o buchi nei vulcani
che arrivi fino al centro del mondo.
Come al solito si svolta nel moccismo esasperato di un diciottenne
già sfigato di suo che si scontra con
l'irsutismo mannaro della diciottenne di cui si è innamorato. La
location contadina sembra messa lì
apposta per vendere casolari lucani
agli americani post-reaganiani e le
battute crasse si sprecano (“è vero
che tira più un pelo di +-+- che un
carro di buoi, ma la mia vita è sempre stata guidata dai carri di buoi”,
dice Luciano sconfortato ma anche
un po' orgoglioso). Insomma: gli ingredienti ci sono tutti e sarebbero
di ottima qualità (i lupi mannari, i
carri di buoi, le turbe tardoadolescenziali, l'irsutismo) ma la storia
è esile e non ci convince. Però tutto
il mondo ci guarda, grazie ai lupi
mannari. E non è poco.
scrivete a:
[email protected]
Metaletterari di carta
I sessanta centimetri di Perec
di LICIA AMBU
C
’è il sole. Fanno trentacinque
gradi e vogliamo, all’unanimità, andare in vacanza. A livello
spirituale in modo prepotente, tra
l’altro. Ovvero, non ci va di fare
niente. Possiamo andare al mare.
O al fiume. Insomma, da qualche
parte, in qualche spazio. Appunto.
Lo spazio. Entità. Luogo. Uno spazio vicino, che so, il litorale o il lago
a un’ora da casa. Spazi che esistono
in quanto abitati. (Esisterebbero
lo stesso, ma questo è un altro discorso…) Per esempio, dice Perec
(Specie di spazi, Bollati boringhieri
1989, pp.111): le città, le campagne
o un giardino pubblico, sono spazi vicini. E vivere è passare da uno
spazio all’altro, continua. Sopravvivere al caldo è passare dalla città
ad altro spazio, dico. E mi porto un
libro: uno spazio occupato da parole. Spazio scritto. In sé e per sé nulla
di sconosciuto. Lo spazio, diamine,
che si può dire? Invece no! Metti
che per caso ti porti proprio il libro
di Perec, ad esempio. Un soggetto
che per una quisquilia del genere è
capace che ti genera l’universo. In
quella specie di superlativo attimo
che compone la sua creazione: ti
prende, ti sbatte davanti ad una pagina e tira fuori lo scibile.
role e arrivano deserti, isole, anche
l’arcipelago, perdinci! Diamoci il
tempo di coordinare le riflessioni
metafisiche, perché poi è l’ora di
Borges. Poteva mai mancare in un
momento così Borges? Quell’Aleph (Feltrinelli 2003, pp.188), che è
tutti i luoghi? E full optional anche:
da ogni prospettiva! Metaluogo
per la memoria ciclica e cumulativa, un alfabeto con dentro tutto,
dice Perec, scrive Perec, quindi è
un po’ come se dicesse (no?). L’abc
del mondo. Il mondo in un abc. In
60 cm quadrati (vedi sopra). Guida sempre Perec e tu, nel mentre,
L
o spazio inventario e quello inventato, dice, comincia
sulla carta. Eccolo a rispolverare
vecchie letture come il Petit Larousse Illustré, una roba che in 60
cm quadrati ci racchiudeva 65 termini geografici, ricorda. Cioè, tu
apri la pagina di questo volume e
strabordano oasi, ruscelli, sorgenti,
foce estuario. Bastano semplici pa-
23
puoi scrivere le tue annotazioni a
margine del suddetto libro, occupandone spazio libero, (ulteriori
specifiche in merito, alcune pagine
dopo) o leggere Perec che scrive di
Borges mentre guardi un fiume che
è disegnato, solcato, scritto nel Petit Larousse, che Perec ha letto e poi
citato appena vicino Borges. Rovine circolari. Un’infinità a portata
potenziale. Borges e Perec… senza
parole. Horror vacui, dannazione!
Graphic Novel
“Exit Wounds”
di Rutu Modan
di MARINA PIERRI
Se leggete questa paginetta almeno di tanto in tanto, saprete che
mi piace cominciare la rubrica con
una riflessione sul titolo della graphic novel che ho appena letto. Beh,
non ci vuole un genio per capire che
l’inglese è una lingua speciale, misteriosa, capace di mantenere il suo
fascino discreto nonostante tutto il
mondo ormai la usi, la maltratti e la
spiattelli. Personalmente, sono
attratta dalle locuzioni: a volte mi
sembra che all’italiano manchi la
stessa forza di catacresi, lo stesso
slancio nel congelare i concetti in
una, o due sole, semplici parole.
sua morte è la meno dolorosa delle
molte altre che seguiranno e che,
pure, verranno tanto inseguite. Il
romanzo, non a caso, è un romanzo
di viaggio: Numi cerca Koby, figlio
dell’uomo che ha amato e che potrebbe essere defunto in un attentato, nonostante sia coetanea dell’uno
e inevitabilmente molto più giovane dell’altro; i due finiscono per
È ovviamente il caso di Exit
Wounds, che designa un avvenimento preciso e piuttosto
prolisso a spiegarsi: è la maniera inglese di descrivere la ferita
provocata dall’uscita del proiettile, che è molto più ampia di
quella in cui entra; la pallottola,
infatti, si deforma nella carne e,
attraversandola, crea uno squarcio più ampio di quello da cui è
penetrata. Complicato, no? Eppure quando lo si vede scritto
sulla copertina del libro d’esordio dell’israeliana Rutu Modan
(tradotto in italiano Unknown/
Sconosciuto ed edito dalla mitica
Coconino, come la maggior parte
delle graphic novel di cui leggete
qui) sembra semplicissimo.
Il titolo, così come deve essere,
riassume il racconto: un uomo
muore – forse - ma la notizia della
24
conoscersi, in maniera complessa
e ritrosa, con rabbia e nostalgia da
entrambe le parti, mentre scoprono un’intimità casuale e scomoda.
I protagonisti hanno in comune un
fantasma che resta sempre tale: il
padre, Gabriel, non lo vedremo mai
e non sapremo mai cos’avrebbe voluto da dire, se mai qualcosa ci fosse stato. Ma come succede nei film
di Hitchcock, o in certi court drama
in cui non si sa mai cos’è successo
veramente, a rincorrersi sono le assenze e le mancanze. Solo queste,
in Exit Wounds contano e solo da
queste la storia si sviluppa. Nel loro
percorso alla ricerca dell’introvabile, Numi e Koby sono impegnati in
una caccia al tesoro speciale: quella
dei ricordi reciproci. E dai loro ricordi – ancora, assenze – il lettore
indovina la fisionomia morale di un
uomo che non c’è, mai, per nessuno.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione
dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o
iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva
che fare una caricatura non è altro
che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il
tutto, creando dunque, dico io, una
sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa
pensare, perché non è regolare,
dunque buffa, e va messa a posto
gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata,
segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare.
Ci sono poi due ruoli che si al-
ternano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e
niente altro. L’eroe ha vinto perché
è buono, la soluzione più semplice è
che vinca. Non si scappa.
non fuori, come Karate Kid. Solo
che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più
soggettivo, si guardano dentro non
potendo ovviamente aggrapparsi
alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era
Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione
della verità in termini esistenziali.
La verità per me.
Iperboloser
William Henry Harrison
di JACOPO CIRILLO
W
illiam Henry Harrison,
nono presidente degli Stati
Uniti d’America, un predestinato.
Suo padre era uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza,
lui, arruolatosi nell’esercito a soli 18
anni per le guerre contro gli indiani, diventò generale a 24 anni, poi
Segretario per i Territori del Nord
Ovest a 25 e Vice Governatore poco
dopo. A questo punto, il giovane
Will comincia a montarsi un po’ la
testa: senatore, ambasciatore in Colombia, cancelliere. E poi, nel 1840,
decide di concorrere alle elezioni
presidenziali, inventando il “populismo”.
Si presentò come il rappresentante degli uomini duri, schernen-
do durante i comizi il rivale Martin
Van Buren e dandogli dell’effemminato perché si lavava in una vasca
da bagno, cosa che, notoriamente,
gli uomini duri aborrono. Fu un
successo stratosferico, Harrison
vinse in scioltezza, ma qui cominciarono i problemi. Infatti, nonostante le sue promesse, lui non era
più da tempo un uomo duro: viveva
in un villone, si faceva il bagno in
vasche grandi come barche, fonti
attendibili dicono che fu lui a inventare la manicure maschile.
Il giorno dell’insediamento alla
Casa Bianca, il 4 marzo 1841, il cielo era leggermente rannuvolato e
spirava un’antipatica brezzolina da
ponente. Tutti i suoi assistenti gli
25
dicevano: ma presidente su, si copra un po’, è così cagionevole e qua
mi sa che viene a piovere. Ma Bill,
altero, si proclamò "l'uomo della
capanna di tronchi e del sidro forte"
("Log cabin and hard cider candidate") e tenne il discorso – diventato
famoso come il più lungo discorso
di insediamento della storia americana – in camicetta e basta.
Le nuvolette si trasformarono in
nuvoloni, la brezzolina in uragano
e, com’è come non è, William Hanry Harrison si beccò una polmonite
fulminante che se lo portò via nel
giro di un mese. Insegnando a tutti
una lezione importante: se vuoi fare
lo sburo e non lo sei, lascia stare che
tanto alla fine ti sgamano.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato
questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per
poter dire quello che gli pare sui libri che legge.
leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo
più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia
sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”.
Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani
segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi
per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto,
quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare
una laurea a detta di molti “inutile”.
Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia
uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco
di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità.
Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui
gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa:
3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e
la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora
di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles
dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere
da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una
certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo
scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di
suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non
pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a
n. 8 / Dicembre 2009
[email protected]
www.finzionimagazine.it
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tale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling
Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di
tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film
e serie televisive americane.
uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un
abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove
ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di
notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in
Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe
e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere
sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus
nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare
che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la
sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto
di nanotecnologie.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni.
Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri
nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo.
Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini.
Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del
non voler dire nulla.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha
una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa
che la matematica sia alla base del declino della civiltà
moderna e crede che chi è capace di fare la conversione
euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere
e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.
Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non
legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai
andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed
é bellissimo.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci
gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare
la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del por-
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