SUN
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali
Corso di Laurea in Beni Culturali
Anno accademico 2013-2014
LETTERATURA ITALIANA
Prof. Luca Frassineti
Materiali Didattici
2
Francesco d’Assisi (Assisi 1182-ivi 1226)
Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum
(da Poeti del Duecento, a c. di Gianfranco Contini)
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu omo ène dignu te mentovare.
5 Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
10 Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
15 Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua,
la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
20 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
25 Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
30 beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande umilitate.
3
Giacomo da Lentini (sec. XIII)
(Dalle Poesie, a c. di Roberto Antonelli)
I
Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso,
inver’ lo grande orgoglio
che voi bella mostrate, e no m’aita.
5 Oi lasso, lo meo core,
che ’n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita.
Dunque mor’e viv’eo?
10 No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che no faria di morte – naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
15 e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra ’mistate – vidi male.
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Lo meo ’namoramento
non pò parire in detto,
ma sì com’eo lo sento
cor no lo penseria né diria lingua;
e zo ch’eo dico è nente
inver’ ch’eo son distretto
tanto coralemente:
foc’aio al cor non credo mai si stingua;
anzi si pur alluma:
perché non mi consuma?
La salamandra audivi
che ’nfra lo foco vivi – stando sana;
eo sì fo per long’uso,
vivo ’n foc’amoroso
e non saccio ch’eo dica:
lo meo lavoro spica – e non ingrana.
Madonna, sì m’avene
ch’eo non posso avenire
com’eo dicesse bene
la propia cosa ch’eo sento d’amore;
sì com’omo in prudito
lo cor mi fa sentire,
che già mai no ’nd’è quito
mentre non pò toccar lo suo sentore.
Lo non-poter mi turba,
com’on che pinge e sturba,
e pure li dispiace
lo pingere che face, – e sé riprende,
che non fa per natura
la propia pintura;
e non è da blasmare
omo che cade in mare – a che s’aprende.
Lo vostr’amor che m’ave
in mare tempestoso,
è sì como la nave
c’a la fortuna getta ogni pesanti,
e campan per lo getto
di loco periglioso;
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similemente eo getto
a voi, bella, li mei sospiri e pianti.
Che s’eo no li gittasse
parria che soffondasse,
e bene soffondara,
lo cor tanto gravara – in suo disio;
che tanto frange a terra
tempesta, che s’aterra,
ed eo così rinfrango,
quando sospiro e piango – posar crio.
Assai mi son mostrato
a voi, donna spietata,
com’eo so’ innamorato,
ma creio ch’e’ dispiaceria voi pinto.
Poi c’a me solo, lasso,
cotal ventura è data,
perché no mi ’nde lasso?
Non posso, di tal guisa Amor m’à vinto.
Vorria c’or avenisse
che lo meo core ’scisse
come ’ncarnato tutto,
e non facesse motto – a vo’, isdegnosa;
c’Amore a tal l’adusse
ca, se vipera i fusse,
natura perderia:
a tal lo vederia, – fora pietosa.
5
Cecco Angiolieri (Siena 1255/60-ivi 1311/13)
(Dalle Rime, a c. di Antonio Lanza)
LXXIV
Tre cose solamente mi so’ in grado,
le quali posso non ben ben fornire:
ciò è la donna, la taverna e ’l dado;
4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.
Ma sì me le conven usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’al mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
8 ch’i’ perdo per moneta ’l mie desire.
11
E dico: “Dato li sia d’una lancia!
ciò a mi’ padre, che mi tien magro
che tornare’ senza logro di Francia.
14
Trarl’un denai di man seria più agro,
la man di pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
LXXXII
S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
4 s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ’ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
8 a tutti mozzarei lo capo a tondo.
11
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre.
14
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
6
Guido Guinizzelli (Bologna, sec. XIII)
(dalle Poesie, a c. di Edoardo Sanguineti)
V
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
5 ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
10 come calore in clarità di foco.
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Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.
Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: “Gentil per sclatta torno”;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.
Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo
Deo crïator più che ’n nostr’occhi ’l sole:
quella intende suo fattor oltra cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento:
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che ’n gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.
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Donna, Deo mi dirà: “Che presomisti?”,
sïando l’alma mia a Lui davanti.
“Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude”.
Dir Li porò: “Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’eo li posi amanza”.
(Da Poeti del Duecento, a c. di Gianfranco Contini)
X
Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
4 e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
Verde river’a lei rasembro e l’âre,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
8 medesmo Amor per lei rafina meglio.
11
Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra fé se non la crede;
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e no·lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.
8
Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321)
(Dalla Vita nuova, a c. di Guglielmo Gorni)
I
In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una
rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio
intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia.
Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto
quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente,
la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. Ella era già in questa vita
stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una
d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio
nono. Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla
sua giovanissima etade si convenia. In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale
dimora nella secretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi
polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur
michi!». In quel puncto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera nella quale tutti li spiriti
sensitivi portano le loro perceptioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spetialmente alli spiriti
del viso, disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra!». In quel puncto lo spirito naturale, lo quale
dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste
parole: «Heu, miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!». D’allora innanzi, dico che Amore
segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a·llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta
sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia ymaginatione, che me convenia fare tutti li suoi
piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola
giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili
portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: «Ella non parea figliuola d’uomo
mortale, ma di Dio». E avegna che la sua ymagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza
d’Amore a signoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse che Amore mi
reggesse sanza lo fedele consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile a udire.
E però che soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da
esse, e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre dello exemplo onde nascono queste, verrò a
quelle parole le quali sono scripte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi.
Poi che fuoro passati tanti dì che apuncto erano compiuti li nove anni apresso l’apparimento soprascripto
di questa gentilissima, nell’ultimo di questi dì avenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di
colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una
via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è
oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini
della beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno. E
però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta
dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a
pensare di questa cortesissima. E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, nel quale m’apparve
una maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla
quale io discernea una figura d’uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse; e pareami con tanta
letitia quanto a·ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se
non poche, tra le quali io intendea queste: «Ego Dominus tuus». Nelle sue braccia mi parea vedere una
persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente; la quale io
riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna della salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi
degnato di salutare. E nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e
pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum!». E quando elli era stato alquanto, pareami che
disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che
in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Apresso ciò poco dimorava che la sua letitia si
convertia in amarissimo pianto; e così piangendo si ricogliea questa donna nelle sue braccia, e con essa mi
parea che si ne gisse verso lo cielo. Onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non
poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E immantanente cominciai a pensare, e trovai che l’ora
nella quale m’era questa visione apparita era stata la quarta della nocte, sì che appare manifestamente
ch’ella fue la prima ora delle nove ultime ore della nocte. E pensando io a·cciò che m’era apparuto,
propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quel tempo: e con ciò fosse cosa che io
avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, nel quale
9
io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a·lloro ciò che io
avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia A ciascun’alma presa.
A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospecto ven lo dir presente,
in ciò che mi riscriva ’n suo parvente,
4 salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che aterzate l’ore
del tempo che omne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
8 cui essenza membrar mi dà orrore.
11
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e nelle braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
14
Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea.
Apresso gir lo ne vedea piangendo.
Questo sonetto si divide in due parti, che nella prima parte saluto e domando risponsione, nella seconda
significo a che si dêe rispondere. La seconda parte comincia quivi Già erano.
[...]
XVII
Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che
quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel
cuore. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestà giugnea nel cuore di quello, che non ardia di
levare gli occhi, né di rispondere al suo saluto. E di questo molti, sì come esperti, mi potrebbono
testimoniare a chi no·llo credesse. Ella coronata e vestita d’umiltà s’andava, nulla gloria mostrando di ciò
ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli
del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedecto sia lo Signore, che sì mirabilemente
sa operare!». Io dico che ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano
comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no·llo sapeano; né alcuno era lo quale
potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da·llei
procedeano virtuosamente. Onde io pensando a·cciò, volendo ripigliare lo stilo della sua loda, propuosi di
dicere parole nelle quali io dessi ad intendere delle sue mirabili ed excellenti operationi, acciò che non pur
coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che le parole ne possono
fare intendere. Allora dissi questo sonetto Tanto gentile.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta
4 e gli occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
8 da cielo in terra a miracol mostrare.
11
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per gli occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no·lla può chi no·lla prova;
14
e par che della sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.
Questo sonetto è sì piano ad intendere per quello che narrato è dinanzi, che non abisogna d’alcuna
divisione. E però, lasciando lui, dico che questa mia donna venne in tanta gratia, che non solamente ella
era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Onde io, veggendo ciò e volendo
manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole nelle quali ciò fosse significato; e dissi
10
allora questo altro sonetto che comincia Vede perfectamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua
virtute adoperava nell’altre, sì come appare nella sua divisione.
(Dalla Divina Commedia, a c. di Giorgio Petrocchi)
Inferno, canto II
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
3 da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
6 che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
9 qui si parrà la tua nobilitate.
12
Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
15
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
18
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
21
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
24
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
27
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
30
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
33
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
36
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono”.
39
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
42
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
11
45
“S’i’ ho ben la parola tua intesa”,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
“l’anima tua è da viltade offesa;
48
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.
51
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
54
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
57
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
60
“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
63
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
66
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
69
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
72
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
75
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:
78
“O donna di virtù, sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
81
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
84
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.
87
“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’i’ non temo di venir qua entro.
90
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
12
93
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
96
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
99
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
102 che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
105 ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
108 su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
111 com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
114 ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
117 per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
120 che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
123 perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
126 e ’l mio parlar tanto ben ti promette?”.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
132 ch’i’ cominciai come persona franca:
“Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
135 a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
138 ch’i’ son tornato nel primo proposto.
13
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro”.
141 Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
14
Francesco Petrarca (Arezzo 1304-Arquà, Padova 1374)
(Dal Canzoniere, a c. di Gianfranco Contini)
I
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nutriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
4 quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
8 spero trovar pietà, nonché perdono.
11
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
14
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
II
Per fare una leggiadra sua vendetta,
et punire in un dì ben mille offese,
celatamente Amor l’ arco riprese,
4 come huom ch’ a nocer luogo et tempo aspetta.
Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi et negli occhi sue difese,
quando ’l colpo mortal là giù discese
8 ove solea spuntarsi ogni saetta.
11
Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l’arme,
14
overo al poggio faticoso et alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme.
III
Era il giorno ch’ al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
4 ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
8 nel commune dolor s’incomminciaro.
11
Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco:
14
però al mio parer non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l’arco.
15
IV
Que’ ch’infinita providentia et arte
mostrò nel suo mirabil magistero,
che crïò questo et quell’altro hemispero,
4 et mansüeto più Giove che Marte,
vegnendo in terra a ’lluminar le carte
ch’avean molt’anni già celato il vero,
tolse Giovanni da la rete et Piero,
8 et nel regno del ciel fece lor parte.
11
Di sé nascendo a Roma non fe’ gratia,
a Giudea sì, tanto sovr’ogni stato
humiltate exaltar sempre gli piacque;
14
ed or di picciol borgo un sol n’à dato,
tal che natura e ’l luogo si ringratia
onde sì bella donna al mondo nacque.
V
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e ’l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s’incomincia udir di fore
4 il suon de’ primi dolci accenti suoi.
Vostro stato REal, che ’ncontro poi,
raddoppia a l’alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, ché farle honore
8 è d’altri homeri soma che da’ tuoi.
11
Così LAUdare et REverire insegna
la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,
o d’ ogni reverenza et d’onor degna:
14
se non che forse Apollo si disdegna
ch’ a parlar de’ suoi sempre verdi rami
lingua morTAl presumptüosa vegna.
XI
Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io
poi che in me conosceste il gran desio
4 ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.
Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,
ch’ànno la mente desïando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
8 ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
11
fuor i biondi capelli allor velati,
et l’amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch’i’ più desïava in voi m’è tolto:
14
sì mi governa il velo
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.
16
XXII
A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch’ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è ’l giorno;
ma poi che ’l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s’anida in selva
6 per aver posa almeno infin a l’alba.
12
Et io, da che comincia la bella alba
a scuoter l’ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir’ col sole;
poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disïando il giorno.
18
Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m’ànno facto di sensibil terra;
et maledico il dì ch'i’ vidi ’l sole,
che mi fa in vista un huom nudrito in selva.
24
Non credo che pascesse mai per selva
sì aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch’i’ piango a l’ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench’i’ sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.
30
Prima ch’io torni a voi, lucenti stelle,
o tomi giù ne l’amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno
può ristorar molt’anni, e ’nanzi l’alba
puommi arichir dal tramontar del sole.
36
Con lei foss’io da che si parte il sole,
et non ci vedess’altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l’alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch’Apollo la seguia qua giù per terra.
Ma io sarò sotterra in secca selva
e ’l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole.
XXIX
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi
non vestì donna unquancho
né d’òr capelli in bionda treccia attorse,
sì bella com’è questa che mi spoglia
5 d’arbitrio, et dal camin de libertade
seco mi tira, sì ch’io non sostegno
alcun giogo men grave.
10
Et se pur s’arma talor a dolersi
l’anima a cui vien mancho
consiglio, ove ’l martir l’adduce in forse,
rappella lei da la sfrenata voglia
súbita vista, ché del cor mi rade
17
ogni delira impresa, et ogni sdegno
fa ’l veder lei soave.
15
20
25
30
35
40
45
50
55
Di quanto per Amor già mai soffersi,
et aggio a soffrir ancho,
fin che mi sani ’l cor colei che ’l morse,
rubella di mercé, che pur l’envoglia,
vendetta fia, sol che contra Humiltade
Orgoglio et Ira il bel passo ond’io vegno
non chiuda, et non inchiave.
Ma l’ora e ’l giorno ch’io le luci apersi
nel bel nero et nel biancho
che mi scacciâr di là dove Amor corse,
novella d’esta vita che m’addoglia
furon radice, et quella in cui l’etade
nostra si mira, la qual piombo o legno
vedendo è chi non pave.
Lagrima dunque che dagli occhi versi
per quelle, che nel mancho
lato mi bagna chi primier s’accorse,
quadrella, dal voler mio non mi svoglia,
ché ’n giusta parte la sententia cade:
per lei sospira l’alma, et ella è degno
che le sue piaghe lave.
Da me son fatti i miei pensier’ diversi:
tal già, qual io mi stancho,
l’amata spada in se stessa contorse;
né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt’altre strade,
et non s’aspira al glorïoso regno
certo in piú salda nave.
Benigne stelle che compagne fersi
al fortunato fiancho
quando ’l bel parto giù nel mondo scòrse!
ch’è stella in terra, et come in lauro foglia
conserva verde il pregio d’onestade,
ove non spira folgore, né indegno
vento mai che l’aggrave.
So io ben ch’a voler chiuder in versi
suo laudi, fôra stancho
chi più degna la mano a scriver porse:
qual cella è di memoria in cui s’accoglia
quanta vede vertù, quanta beltade
chi gli occhi mira d’ogni valor segno,
dolce del mio cor chiave?
Quanto il sol gira, Amor più caro pegno,
donna, di voi non ave.
18
Giovanni Boccaccio (Firenze 1313-Certaldo, Firenze 1375)
(Dal Decamerone, a c. di Vittore Branca)
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE
GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE IN DIECE DÌ DETTE
DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.
[Proemio]
Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è
massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra’ quali,
se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che,
dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile
amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque
appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato,
nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per
soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole
termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella
qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli
consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto. Ma sì
come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose
mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di
consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare,
per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente
lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi
navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici già ricevuti, datimi
da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come
io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è
sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto
di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e
se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non
abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio
sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi
quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì
ancora perché più vi fia caro avuto.
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini
convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme
nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò,
ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del
tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non
volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno
allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle
conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto
men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo
apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da
alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder
molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza
di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di
tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di
forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di
quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento
novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata
di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette
dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri
fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già
dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile
consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente
da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene,
19
che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha
conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.
COMINCIA LA PRIMA GIORNATA DEL DECAMERON, NELLA QUALE, DOPO LA
DIMOSTRAZIONE FATTA DALL’AUTORE PER CHE CAGIONE AVVENISSE DI
DOVERSI QUELLE PERSONE, CHE APPRESSO SI MOSTRANO, RAGUNARE A
RAGIONARE INSIEME, SOTTO IL REGGIMENTO DI PAMPINEA SI RAGIONA DI
QUELLO CHE PIÙ AGGRADA A CIASCHEDUNO
[Introduzione]
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete
pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la
dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o
altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che questo di più
avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra’ sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo
orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla
quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore
è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa,
così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto in
poche lettere si contiene) seguita prestamente la dolcezza e il piacere il quale io v’ho davanti promesso e
che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi
onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo,
io l’avrei volentier fatto: ma per ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno
avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle
mi conduco.
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica
bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre
inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle
parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un
luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non
valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da
officiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a
conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate,
in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto
orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente
aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma
nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella
certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più
e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra
brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a
nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in
macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a
molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora
era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. [...]
A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo: per che, volendo omai lasciare
star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che, stando in questi termini la nostra
città, d’abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile
chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini
ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l’una
all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno
passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di
costumi e di leggiadra onestà. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da
dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che
seguono, e per l’ascoltate nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi
alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età
ma a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia agl’invidiosi, presti a mordere ogni laudevole
vita, di diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che quello
che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualità di ciascuna
convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di più età era,
20
Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta
diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo.
Le quali, non già da alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa
adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il dir de’ paternostri, seco della
qualità del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare.
[...] Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per
ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro. Ne’ quali né
perversità di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor non che
spegnere ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo,
assai piacevole e costumato ciascuno: e andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta
turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tralle predette sette, come
che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro.
Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea
allor cominciò sorridendo: – Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti
posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a questo
oficio non schiferemo.–
Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia per ciò che l’una era di quelle che
dall’un de’ giovani era amata, disse: – Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai
apertamente niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’uno di costoro, e credogli a
troppo maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona compagnia e onesta
dover tenere non che a noi ma a molto più belle e più care che noi non siamo. Ma, per ciò che assai
manifesta cosa è loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza
nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo.–
Disse allora Filomena: – Questo non monta niente; là dove io onestamente viva né mi rimorda
d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Idio e la verità l’arme per me prenderanno. Ora,
fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire la fortuna
essere alla nostra andata favoreggiante.
L’altre, udendo costei così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento
concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione e pregassersi che
dovesse lor piacere in così fatta andata lor tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi
in piè, la quale a alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle
si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fé manifesta e pregogli per parte di tutte che
con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero
primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, rispuosero lietamente sé
essere apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine
a ciò che a fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa oportuna apparecchiare e prima
mandato là dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno,
le donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si misero in via:
né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente
ordinato.
Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade,
di varii arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era
un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di
sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e
con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e
oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori quali nella stagione si
potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane
e pieno di motti: – Donne, il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello
che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io
con voi poco fa me ne usci’ fuori: e per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi
disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei
pensier mi ritorni e steami nella città tribolata.–
A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta
rispose: – Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha
fatte fuggire. Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io, che
cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa così bella compagnia è stata fatta, pensando al
continuar della nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale
noi e onoriamo e ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente vivere
disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza e,
per conseguente da una parte e d’altra tratti, non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che a
ciascuno per un giorno s’attribuisca e il peso e l’onore; e chi il primo di noi esser debba nella elezion di
noi tutti sia: di quegli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avicinerà, quegli o quella che a colui o a
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colei piacerà che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che
la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.–
Queste parole sommamente piacquero, e a una voce lei prima del primo giorno elessero; e
Filomena, corsa prestamente a uno alloro (per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le
frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato), di quello
alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole e apparente; la quale, messale sopra la testa, fu poi
mentre durò la loro compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.
Pampinea, fatta reina, comandò che ogn’uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de’ tre giovani e
le loro fanti, ch’eran quatro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: – Acciò che io prima essemplo
dea a tutti voi, per lo quale di bene in meglio procedendo la nostra compagnia con ordine e con piacere e
senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente constituisco Parmeno,
famigliare di Dioneo, mio siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto
e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e
tesoriere e di Parmeno seguiti i comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda
nelle camere loro, qualora gli altri, intorno alli loro ufici impediti, attender non vi potessero. Misia, mia
fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente
apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta,
al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de’ luoghi dove staremo.
E ciascun generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi,
dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o vegga, niuna novella altra che lieta ci rechi di
fuori.–
E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè disse:–
Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer
sollazzando si vada; e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.–
Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme con le belle donne,
ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi
faccendosi e amorosamente cantando. E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina
avuto aveano, a casa tornati trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo ufficio, per ciò
che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che
d’ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque
alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero
e finissimi vini fur presti: e senza più, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per
ciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate le
tavole con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro
ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei,
Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare; per che la
reina con l’altre donne insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a
mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in
questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire: per che, data a tutti la
licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben
fatti e così di fiori piene come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro: per che, spogliatesi,
s’andarono a riposare.
Non era di molto spazio sonata nona, che la reina levatasi tutte l’altre fece levare e similmente i
giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno: e così se ne andarono in un pratello nel
quale l’erba era verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole; e quivi, sentendo un soave venticello
venire, sì come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere, a’ quali ella disse
così: – Come voi vedete, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s’ode che le cicale su per gli ulivi, per
che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e
hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all’animo gli è più di
piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una
delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che
può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno
trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il
caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto: e per ciò, quando questo che
io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, faccianlo; e dove non vi piacesse,
ciascuno infino all’ora del vespro quello faccia che più gli piace.–
Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare.
– Adunque, – disse la reina – se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a
ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.–
E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue
novelle all’altre desse principio.
[...]
22
FINISCE LA QUINTA GIORNATA DEL “DECAMERON”; E INCOMINCIA LA SESTA,
NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO D’ELISSA, SI RAGIONA DI CHI CON
ALCUNO LEGGIADRO MOTTO, TENTATO, SI RISCOSSE, O CON PRONTA RISPOSTA
O AVVEDIMENTO FUGGÌ PERDITA O PERICOLO O SCORNO.
[Introduzione]
Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già per la nuova luce vegnente ogni
parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con
lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s’allontanarono, d’una e d’altra cosa varii
ragionamenti tegnendo e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando e ancora de’
varii casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi
a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare: per che, voltati i passi, là se ne vennero. E quivi,
essendo già le tavole messe e ogni cosa d’erbucce odorose e di be’ fiori seminata, avanti che il caldo
surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con festa fornito, avanti che
altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi
e chi a tavole; e Dioneo insieme con Lauretta di Troilo e di Criseida cominciarono a cantare.
E già l’ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano
dintorno alla fonte si posero a sedere; e volendo già la reina comandare la prima novella, avvenne cosa
che ancora adivenuta non v’era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito che per le fanti e’
famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco e domandato qual gridasse e qual fosse
del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro ma la cagione egli non sapea, sì
come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al
quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti,
domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore.
Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no e in
sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse: – Vedi bestia d’uom che ardisce, là dove io
sia, a parlare prima di me! Lascia dir me –, e alla reina rivolta disse: – Madonna, costui mi vuol far
conoscere la moglie di Sicofante e, né più né meno come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a
vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e
con ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacer di quei
d’entro. E è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno sì sciocche, che elle
stieno a perdere il tempo loro stando alla bada del padre e de’ fratelli, che delle sette volte le sei
soprastanno tre o quatro anni più che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono se elle
s’indugiasser tanto! Alla fé di Cristo, ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro: io non ho
vicina che pulcella ne sia andata a marito, e anche delle maritate so io ben quante e quali beffe elle fanno
a’ mariti: e questo pecorone mi vuol far conoscer le femine, come se io fossi nata ieri! –
Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti
trarre, e la reina l’aveva ben sei volte imposto silenzio ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto
che ella ebbe detto ciò che ella volle.
Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse:–Dioneo, questa è
quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle, che tu sopr’essa dei sentenzia finale.–
Alla qual Dioneo prestamente rispose: – Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro: e dico che
la Licisca ha ragione, e credo che così sia come ella dice, e Tindaro è una bestia.–
La qual cosa la Licisca udendo cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta disse: – Ben lo diceva io: vatti
con Dio, credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé, non ci son vivuta
invano io, no–; e, se non fosse che la reina con un mal viso le ’mpose silenzio e comandolle che più parola
né romor facesse se esser non volesse scopata e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta
a fare in tutto quel giorno che attendere a lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena
che alle novelle desse principio; la quale lietamente così cominciò.
23
[1]
Un cavalier dice a madonna Oretta di portarla con una novella: e, mal compostamente dicendola, è da
lei pregato che a piè la ponga.
– Giovani donne, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’
verdi prati e de’ colli i rivestiti albuscelli, così de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti belli sono i
leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini quanto più
alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. E il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del
nostro ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna
donna rimasa ci è la qual ne sappia ne’ tempi oportuni dire alcuno o, se detto l’è, intenderlo come si
conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu
detto, più oltre non intendo di dirne; ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza a’ tempi detti,
un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna a un cavaliere mi piace di raccontarvi.
Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari
che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo
nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per
avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo a un altro andando per via di diporto
insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti aveva a desinare, e essendo forse la via
lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d’andare intendevano, disse uno de’ cavalieri della
brigata: “Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che a andare abbiamo, a
cavallo con una delle belle novelle del mondo.”
Al quale la donna rispuose: “Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo.”
Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che ‘l novellar nella lingua,
udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quatro e sei
volte replicando una medesima parola e ora indietro tornando e talvolta dicendo: “Io non dissi bene” e
spesso ne’ nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava: senza che egli pessimamente,
secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva.
Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come
se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non poté, conoscendo che il cavaliere
era entrato nel pecoreccio né era per riuscirne, piacevolemente disse: “Messer, questo vostro cavallo ha
troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè.”
Il cavaliere, il quale per avventura era molto migliore intenditor che novellatore, inteso il motto e
quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle e quella che cominciata aveva e mal seguita
senza finita lasciò stare.–
24
Angelo Ambrogini detto Poliziano (Montepulciano, Siena 1454-Firenze 1494)
(Dalle Stanze cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici,
a c. di Saverio Orlando)
Canto I
1
Le gloriose pompe e’ fieri ludi
della città che ’l freno allenta e stringe
a magnanimi Toschi, e i regni crudi
di quella dea che ’l terzo ciel dipinge,
e i premi degni alli onorati studi,
la mente audace a celebrar mi spinge,
sì che i gran nomi e i fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
2
O bello idio ch'al cor per gli occhi inspiri
dolce disir d'amaro pensier pieno,
e pasciti di pianto e di sospiri,
nudrisci l'alme d'un dolce veleno,
gentil fai divenir ciò che tu miri,
né può star cosa vil drento al suo seno;
Amor, del quale i' son sempre suggetto,
porgi or la mano al mio basso intelletto.
3
Sostien tu el fascio ch’a me tanto pesa,
reggi la lingua, Amor, reggi la mano;
tu principio, tu fin dell'alta impresa,
tuo fia l’onor, s’io già non prego invano;
di’, signor, con che lacci a te presa
fu l’alta mente del baron toscano
più gioven figlio della etrusca Leda,
che reti furno ordite a tanta preda.
4
E tu, ben nato Laur, sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa,
né teme i venti o minacciar del celo
o Giove irato in vista più crucciosa,
accogli all’ombra del tuo santo stelo
la voce umil, tremante e paurosa;
o causa, o fin di tutte le mie voglie,
che sol vivon d’odor delle tue foglie.
5
Deh, sarà mai che con più alte note,
se non contasti al mio volar fortuna,
lo spirto della membra, che devote
ti fuor da’ fati insin già dalla cuna,
risuoni te dai Numidi a Boote,
agl’Indi al mar che ’l nostro celo imbruna,
e posto il nido in tuo felice ligno,
di roco augel diventi un bianco cigno?
25
6
Ma fin ch’all’alta impresa tremo e bramo,
e son tarpati i vanni al mio disio,
lo glorioso tuo fratel cantiamo,
che di nuovo trofeo rende giulio
il chiaro sangue e di secondo ramo:
convien ch’i’ sudi in questa polver io.
Or muovi prima tu mie’ versi, Amore,
ch’ad alto volo impenni ogni vil core.
7
E se qua su la fama el ver rimbomba
che la figlia di Leda, o sacro Achille,
poi che ’l corpo lasciasti intro la tomba,
t’accenda ancor d’amorose faville,
lascia tacere un po’ tuo maggior tromba
ch’i’ fo squillar per l’italiche ville,
e tempra tu la cetra a nuovi carmi,
mentr’io canto l'amor di Iulio e l’armi.
26
Ludovico Ariosto (Reggio Emilia 1474-Ferrara 1533)
(Dall’Orlando Furioso di Messer Ludovico Ariosto allo Illustrissimo e Reverendissimo
Cardinale Donno Hippolyto da Este suo Signore, a c. di Lanfranco Caretti)
Canto I
1
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
3
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte, e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono;
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
4
Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.
5
Orlando, che gran tempo inamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti et immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,
27
6
per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d’esservi giunto;
7
che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperii ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer vòlse
un grave incendio, fu che gli la tolse.
8
Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo;
che ambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse, e diè in mano al duca di Bavera;
9
in premio promettendola a quel d’essi
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degli infideli più copia uccidessi,
e di sua man prestassi opra più grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.
10-31: Angelica in fuga, a cavallo, s’imbatte in Rinaldo e quindi nel pagano Ferraù: essi si
affrontano in duello e si danno poi all’inseguimento della donna, seppure per strade diverse, la
prima delle quali riporta Ferraù al punto di partenza.
32
Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce:
– Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
che l’esser senza te troppo mi nuoce. –
Per questo il destrier sordo a lui non riede,
anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
33
Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
28
34
Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura triema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.
35
Quel dì e la notte e mezzo l’altro giorno
s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fine in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.
36
Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
e quel va errando intorno alle chiare onde,
che di fresca erba avean piene le sponde.
37
Ecco non lungi un bel cespuglio vede
di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l’alte quercie ombrose;
così vòto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre più nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.
38
Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch’invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette;
ivi si corca, et ivi s’addormenta.
Ma non per lungo spazio così stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva, e appresso alla riviera
vede ch’armato un cavallier giunt’era.
39
Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cuor le scuote;
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le gote;
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.
29
40
Pensoso più d’un’ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì soavemente,
ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirando piangea, tal ch’un ruscello
parean le guancie, e ’l petto un Mongibello.
41
– Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci et ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
e ch’altri a côrre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
et altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affliger per lei mi vuo’ più il core?
42
La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
43
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ’l fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.
44
Sia vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.
Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah, più tosto oggi manchino i dì miei,
ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –
45
Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch’egli è il re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
e pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.
30
46
Appresso ove il sol cade, per suo amore
venuto era dal capo d’Oriente;
che seppe in India con suo gran dolore,
come ella Orlando sequitò in Ponente:
poi seppe in Francia che l’imperatore
sequestrata l’avea da l’altra gente,
per darla all’un de’ duo che contra il Moro
più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.
47
Stato era in campo, e inteso avea di quella
rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:
cercò vestigio d’Angelica bella,
né potuto avea ancora ritrovarlo.
Questa è dunque la trista e ria novella
che d’amorosa doglia fa penarlo,
affligger, lamentare e dir parole
che di pietà potrian fermare il sole.
48
Mentre costui così s’affligge e duole,
e fa degli occhi suoi tepida fonte,
e dice queste e molte altre parole,
che non mi par bisogno esser racconte;
l’aventurosa sua fortuna vuole
ch’alle orecchie d’Angelica sian conte:
e così quel ne viene a un’ora, a un punto,
ch’in mille anni o mai più non è raggiunto.
49
Con molta attenzion la bella donna
al pianto, alle parole, al modo attende
di colui ch’in amarla non assonna;
né questo è il primo dì ch’ella l’intende:
ma dura e fredda più d’una colonna,
ad averne pietà non però scende;
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,
e non le par ch’alcun sia di lei degno.
50
Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola
le fa pensar di tor costui per guida;
che chi ne l’acqua sta fin alla gola,
ben è ostinato se mercé non grida.
Se questa occasione or se l’invola,
non troverà mai più scorta sì fida;
ch’a lunga prova conosciuto inante
s’avea quel re fedel sopra ogni amante.
51
Ma non però disegna de l’affanno
che lo distrugge alleggierir chi l’ama,
e ristorar d’ogni passato danno
con quel piacer ch’ogni amator più brama:
ma alcuna finzione, alcuno inganno
di tenerlo in speranza ordisce e trama;
tanto ch’a quel bisogno se ne serva,
poi torni all’uso suo dura e proterva.
31
52
E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
fa di sé bella et improvisa mostra,
come di selva o fuor d’ombroso speco
Diana in scena o Citerea si mostra;
e dice all’apparir: – Pace sia teco;
teco difenda Dio la fama nostra,
e non comporti, contra ogni ragione,
ch’abbi di me sì falsa opinione. –
53
Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
ch’avea per morto sospirato e pianto,
poi che senza esso udì tornar le squadre;
con quanto gaudio il Saracin, con quanto
stupor l’alta presenza e le leggiadre
maniere e il vero angelico sembiante,
improviso apparir si vide inante.
54
Pieno di dolce e d’amoroso affetto,
alla sua donna, alla sua diva corse,
che con le braccia al collo il tenne stretto,
quel ch’al Catai non avria fatto forse.
Al patrio regno, al suo natio ricetto,
seco avendo costui, l’animo torse:
subito in lei s’avviva la speranza
di tosto riveder sua ricca stanza.
55
Ella gli rende conto pienamente
dal giorno che mandato fu da lei
a domandar soccorso in Oriente
al re de’ Sericani e Nabatei;
e come Orlando la guardò sovente
da morte, da disnor, da casi rei;
e che ’l fior virginal così avea salvo,
come se lo portò del materno alvo.
56
Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via più grave errore.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che ’l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
57
– Se mal si seppe il cavallier d’Anglante
pigliar per sua sciochezza il tempo buono,
il danno se ne avrà; che da qui inante
nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
(tra sé tacito parla Sacripante):
ma io per imitarlo già non sono,
che lasci tanto ben che m’è concesso,
e ch’a doler poi m’abbia di me stesso.
32
58
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno. –
59
Così dice egli; e mentre s’apparecchia
al dolce assalto, un gran rumor che suona
dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,
sì che mal grado l’impresa abbandona:
e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia
di portar sempre armata la persona),
viene al destriero e gli ripon la briglia,
rimonta in sella e la sua lancia piglia.
60
Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
candido come nieve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero.
Re Sacripante, che non può patire
che quel con l’importuno suo sentiero
gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,
con vista il guarda disdegnosa e rea.
61-71 Sacripante muove a battaglia ma è abbattuto dal cavaliere misterioso, che subito si allontana:
un messaggero rivelerà trattarsi della femmina guerriera Bradamante..
72-79 Posta Angelica in groppa al suo stesso ronzino, Sacripante s’imbatte in un cavallo sciolto: è
Baiardo, il gran destriero di Rinaldo, il quale sopraggiunge di lì a poco, a piedi. Angelica, che odia il
cavaliere cristiano anche a causa di un sortilegio, scongiura Sacripante di darsi alla fuga.
80
- Son dunque (disse il Saracino), sono
dunque in sì poco credito con vui,
che mi stimiate inutile, e non buono
da potervi difender da costui?
Le battaglie d’Albracca già vi sono
di mente uscite, e la notte ch’io fui
per la salute vostra, solo e nudo,
contra Agricane e tutto il campo, scudo? –
81
Non risponde ella, e non sa che si faccia,
perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso,
che da lontano al Saracin minaccia,
come vide il cavallo e conobbe esso,
e riconobbe l’angelica faccia
che l’amoroso incendio in cor gli ha messo.
Quel che seguì tra questi duo superbi
vo’ che per l’altro canto si riserbi.
33
Nicolò Machiavelli (Firenze 1469-ivi 1527)
(Dalle Lettere, a c. di Mario Bonfantini)
X. Magnifico oratori Florentino Francisco Vectori apud Summum Pontificem et benefactori suo.
Romae
(A Francesco Vettori, Magnifico ambasciatore fiorentino presso il Sommo Pontefice, proprio
benefattore. In Roma)
Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva haver perduta
no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi
nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella
quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon
massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le
haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra de’ 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere
quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così,
perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E
poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar
tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più
le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in
questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò
contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dì a
Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dì, impaniavo, andavone oltre
con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di
Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E così stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco,
ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la
mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del
giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra
loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con
Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste
senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni
sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare
el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose
d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella
tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda’ne una a Tommaso, la
quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el
Gaburra quando el giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era
guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie
Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o
Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni,
e quelli loro amori ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla
strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro; intendo varie cose,
e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la
mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che
ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi
io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti
dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco
gridare da San Casciano. Così, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa
malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne
vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste
cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle
antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che
solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione
delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna
noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in
loro.
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di che per
la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo
quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie
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sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio
ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo,
doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha
visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta
volta io l’ingrasso e ripulisco.
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io
lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte.
Quello che mi fa star dubbio è, che sono costì quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costì, visitarli
e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello;
perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per
questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto,
e lascierebbono el pensiero a me. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a
trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo,
se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da
Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia
fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare
così che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi
cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli
guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che
io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno
haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si
doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e
chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà
mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra
questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.
Die 10 Decembris 1513.
(Dal Principe, a c. di Giorgio Inglese)
[Dedica]
NICOLAUS MACLAVELLUS MAGNIFICO LAURENTIO MEDICI IUNIORI SALUTEM
Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno principe farsegli incontro
con quelle cose che in fra le loro abbino più care o delle quali vegghino lui più dilettarsi; donde si vede
molte volte essere loro presentati cavagli, arme, drappi d’oro, prete preziose e simili ornamenti degni della
grandezza di quelli. Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone
della servitù mia verso di quella, non ho trovato, in tra la mia supellettile, cosa quale io abbia più cara o
tanto esistimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga
esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche; le quali avendo io con gran diligenzia
lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia
vostra. E benché io iudichi questa opera indegna della presenza di quella, tamen confido assai che per sua
umanità gli debba essere accetta, considerato come da me non gli possa essere fatto maggiore dono che
darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io, in tanti anni e con tanti mia disagi
e periculi, ho conosciuto e inteso. La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample o di parole
ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono
le loro cose descrivere e ordinare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la
varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia imputata prosunzione se uno
uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi; perché così come coloro
che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, per
considerare quella de’ luoghi bassi, si pongono alto sopra ’ monti, similmente, a conoscere bene la natura
de’ populi, bisogna essere principe, e, a conoscere bene quella de’ principi, conviene essere populare.
Pigli adunque vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando; il quale se da
quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio che lei
pervenga a quella grandezza che la fortuna e l’altre sua qualità le promettono.
E se vostra Magnificenzia da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi
bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna.
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Cap. I - QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR
Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o
republiche o principati. E’ principati sono o ereditari, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto
lungo tempo principe, o sono nuovi. E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o
sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli al
re di Spagna. Sono questi dominii così acquistati o consueti a vivere sotto uno principe o usi a essere
liberi; e acquistonsi o con l’arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.
[...]
Cap. XVIII - QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno
lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che
della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e
alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà.
Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la
forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non
basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo
uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono
come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua
disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo,
se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile.
Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il
lione: perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere
golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non
se ne intendono. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale
osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino
tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu
etiam non l’hai a osservare a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la
inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace, quante
promisse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la
golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e
dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che
inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro sesto non fece mai altro, non pensò mai ad
altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi
maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno;
nondimeno sempre gli succederno gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario
parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e,
parendo di averle, sono utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in
modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario. E hassi
a intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose
per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare
contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia
uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano;
e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato.
Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle
soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità,
tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in
universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi: ognuno
vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla
opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e
massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine.
Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da
ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel
mondo non è se non vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno
principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e
dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto
e la riputazione e lo stato.
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Francesco Guicciardini (Firenze 1483-Santa Margherita in Montici, Firenze 1540)
(Dalla Storia d’Italia, a c. di Silvana Seidel Menchi)
Libro primo. Cap. I
Proposito e fine dell’opera. Prosperità d’Italia intorno al 1490. La politica di Lorenzo de’ Medici ed il
desiderio di pace de’ prìncipi italiani. La confederazione de’ prìncipi e l’ambizione de’ veneziani.
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi,
chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia,
per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni
Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla
empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto
gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per
innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’
venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’
popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o
errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in
detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa
ambizione, autori di nuove turbazioni.
Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle
quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi
degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi
che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già
sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era
salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era
quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni
che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata
non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a
altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di
ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte
nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella
amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte
preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti,
meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall’altre, di
consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù di Lorenzo de’ Medici,
cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le
cose di quella republica, potente più per l’opportunità del sito, per gli ingegni degli uomini e per la
prontezza de’ danari, che per grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con
parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era
per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo
che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati
ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si
mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della
pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva.
Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli,
principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte volte per l’addietro
avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace, e in questo tempo fusse molto
stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan
Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto
incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio:
il quale, avendo più di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna
Bona, presa la tutela di lui e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le
genti d’arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo; né come tutore o
governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E
nondimeno Ferdinando, avendo più innanzi agli occhi l’utilità presente che l’antica inclinazione o la
indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si alterasse; o perché, avendo provato
pochi anni prima, con gravissimo pericolo, l’odio contro a sé de’ baroni e de’ popoli suoi, e sapendo
l’affezione che per la memoria delle cose passate molti de’ sudditi avevano al nome della casa di Francia,
dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a’ franzesi di assaltare il reame di Napoli; o
perché, per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere
necessaria l’unione sua con gli altri, e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze. Né a Lodovico
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Sforza, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione, soprastando non manco
a quegli che dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano, e perché gli era più facile
conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra l’autorità usurpata. E se bene gli
fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso d’Aragona, nondimeno, essendogli nota la
disposizione di Lorenzo de’ Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente aveva della
grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversità degli animi e antichi odii tra Ferdinando e i viniziani,
fusse vano il temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si riputava assai sicuro che gli Aragonesi
non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere.
Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la
medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di
Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione
de’ loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata
nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per
venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare più potenti i viniziani; i quali,
maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati ma molto minori di tutti insieme, procedevano con
consigli separati da’ consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli, stavano
attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia: al
quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa
occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte duca di Milano, tentorono, sotto colore di difendere la
libertà del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e più frescamente quando, con guerra
manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono. Raffrenava facilmente questa confederazione la
cupidità del senato viniziano, ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e fedele:
conciossiacosaché, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare
assiduamente gli andamenti l’uno dell’altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a
qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione: il che non rendeva manco stabile la pace,
anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville che
origine di nuovo incendio essere potessino.
(Dai Ricordi, a c. di Raffaele Spongano)
I
Quello che dicono le persone spirituali, che chi ha fede conduce cose grandi e, come dice lo evangelio, chi
ha fede può comandare a’ monti ecc., procede perché la fede fa ostinazione. Fede non è altro che credere
con openione ferma e quasi certezza le cose che non sono ragionevole, o se sono ragionevole, crederle
con più resoluzione che non persuadono le ragione. Chi adunche ha fede diventa ostinato in quello che
crede, e procede al cammino suo intrepido e resoluto, sprezzando le difficultà e pericoli, e mettendosi a
soportare ogni estremità: donde nasce che, essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti,
può nascere per molti versi nella lunghezza del tempo aiuto insperato a chi ha perseverato nella
ostinazione, la quale essendo causata dalla fede, si dice meritamente: chi ha fede ecc. Essemplo a dì nostri
ne è grandissimo questa ostinazione de’ Fiorentini che, essendosi contro a ogni ragione del mondo messi a
aspettare la guerra del papa e imperadore sanza speranza di alcuno soccorso di altri, disuniti e con mille
difficultà, hanno sostenuto in sulle mura già sette mesi gli esserciti, e quali non si sarebbe creduto che
avessino sostenuti sette dì, e condotto le cose in luogo che, se vincessino, nessuno più se ne
maraviglierebbe, dove prima da tutti erano giudicati perduti: e questa ostinazione ha causata in gran parte
la fede di non potere perire, secondo le predizione di fra Ieronimo da Ferrara.
VI
È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola;
perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono
fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma
bisogna le insegni la discrezione.
X
Non crediate a coloro che fanno professione d'avere lasciato le faccende e le grandezze volontariamente e
per amore della quiete, perché quasi sempre ne è stata cagione o leggerezza o necessità: però si vede per
esperienza che quasi tutti, come se gli offerisce uno spiraglio di potere tornare alla vita di prima, lasciata
la tanto lodata quiete, vi si gettano con quella furia che fa el fuoco alle cose bene unte e secche.
38
Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547)
(Dalle Rime, a c. di Carlo Dionisotti)
XCIX
4
I chiari giorni miei passâr volando,
che fur sì pochi, e tosto aperser l’ale;
poi piacque al ciel, cui contrastar non vale,
pormi di pace e di me stesso in bando.
8
Così molt’anni ho già varcato; e, quando
mancar devea la fiamma del tuo strale,
Amor, che questo incarco stanco e frale
tutto dentro e di fuor si va lentando,
sento un novo piacer possente e forte
giugner ne l’alma al grave antico foco,
11 tal ch’a doppio ardo e par che non m’incresca.
Lasso, ben son vicino a la mia morte:
ché pote omai l’infermo durar poco,
14 in cui scema virtù, febre rinfresca.
Gaspara Stampa (Padova 1523-Venezia 1554)
(Dalle Rime, a c. di Abdelkader Salza)
4
I
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,
8
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
11
E spero ancor che debba dir qualcuna:
– Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
14
Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?
39
Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547)
(Dalle Rime, a c. di Carlo Dionisotti)
V
4
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che ’l sole,
da far giorno seren la notte oscura,
8
riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond’escono parole
sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,
man d’avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d’armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
11 leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade,
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
14 grazie, ch’a poche il ciel largo destina.
Francesco Berni (Lamporecchio, Pistoia 1497/98-Firenze 1535)
(Dalle Rime, a c. di Danilo Romei)
XXXI [Sonetto alla sua donna]
4
Chiome d’argento fino, irte e attorte
senz’arte intorno ad un bel viso d’oro;
fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;
8
occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve e quelle, ond’io m’accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;
11
labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d’ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;
costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d’Amor, palese fo che queste
14 son le bellezze della donna mia.
40
Torquato Tasso (Sorrento, Napoli 1544-Roma 1595)
(Dalle Rime, a c. di Bruno Maier)
[Si duole de la propria fortuna e confida nel duca d’Urbino. – Canzone al Metauro]
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O del grand’Apennino
figlio picciolo sì, ma glorioso
e di nome più chiaro assai che d’onde,
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al più denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o’n valle,
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.
Oimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sassel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se’n portar l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.
In aspro esiglio e’n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni:
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime e le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
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60
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.
(Dalla Gerusalemme liberata, poema eroico del Signor Torquato Tasso al Serenissimo Signore
il Signor Donno Alfonso II D'este Duca di Ferrara, a c. di Lanfranco Caretti)
Canto I
1
Canto l’arme pietose e ‘l capitano
Che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.
2
O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi le carte.
3
Sai che là corre il mondo ove più versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i più schivi allettando ha persuaso.
Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
4
Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dì fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
5
E’ ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
42
6
Già ’l sesto anno volgea, ch’in oriente
passò il campo cristiano, a l’alta impresa;
e Nicea per assalto, e la potente
Antiochia con arte avea già presa.
L’avea poscia in battaglia incontra gente
di Persia innumerabile difesa,
e Tortosa espugnata; indi a la rea
stagion diè loco, e ’l novo anno attendea.
7
E ’l fine omai di quel piovoso inverno
che fea l’arme cessar, lunge non era;
quando da l’alto soglio il Padre eterno,
ch’è ne la parte più del ciel sincera,
e quanto è da le stelle al basso inferno,
tanto è più in su de la stellata spera,
gli occhi in giù volse, e in un sol punto e in una
vista mirò ciò ch’in sé il mondo aduna.
8
Mirò tutte le cose, ed in Soria
s’affisò poi ne’ principi cristiani;
e con quel guardo suo ch’a dentro spia
nel più segreto lor gli affetti umani,
vide Goffredo che scacciar desia
de la santa città gli empi pagani,
e pien di fé, di zelo, ogni mortale
gloria, imperio, tesor mette in non cale.
9-10 Dio scruta le anime e i pensieri dei maggiori prìncipi cristiani
11
Ma poi ch’ebbe di questi e d’altri cori
scòrti gl’intimi sensi il Re del mondo,
chiama a sè da gli angelici splendori
Gabriel, che ne’ primi era secondo.
E’ tra Dio questi e l’anime migliori
interprete fedel, nunzio giocondo:
giù i decreti del Ciel porta, ed al Cielo
riporta de’ mortali i preghi e ’l zelo.
12
Disse al suo nunzio Dio: – Goffredo trova,
e in mio nome di’ lui: perché si cessa?
perché la guerra omai non si rinova
a liberar Gierusalemme oppressa?
Chiami i duci a consiglio, e i tardi mova
a l’alta impresa: ei capitan fia d’essa.
Io qui l’eleggo; e ’l faran gli altri in terra,
già suoi compagni, or suoi ministri in guerra. –
13
Così parlogli, e Gabriel s’accinse
veloce ad esseguir l’imposte cose:
la sua forma invisibil d’aria cinse
ed al senso mortal la sottopose.
Umane membra, aspetto uman si finse,
ma di celeste maestà il compose;
tra giovene e fanciullo età confine
prese, ed ornò di raggi il biondo crine.
43
14
Ali bianche vestì, ch’han d’or le cime,
infaticabilmente agili e preste.
Fende i venti e le nubi, e va sublime
sovra la terra e sovra il mar con queste.
Così vestito, indirizzossi a l’ime
parti del mondo il messaggier celeste:
pria sul Libano monte ei si ritenne,
e si librò su l’adeguate penne;
15
e vèr le piaggie di Tortosa poi
drizzò precipitando il volo in giuso.
Sorgeva il novo sol da i lidi eoi,
parte già fuor, ma ’l più ne l’onde chiuso;
e porgea matutini i preghi suoi
Goffredo a Dio, come egli avea per uso;
quando a paro co ’l sol, ma più lucente,
l’angelo gli apparì da l’oriente;
16
e gli disse: – Goffredo, ecco opportuna
già la stagion ch’al guerreggiar s’aspetta;
perché dunque trapor dimora alcuna
a liberar Gierusalem soggetta?
Tu i principi a consiglio omai raguna,
tu al fin de l’opra i neghittosi affretta.
Dio per lor duce già t’elegge, ed essi
sopporran volontari a te se stessi.
17
Dio messaggier mi manda: io ti rivelo
la sua mente in suo nome. Oh quanta spene
aver d’alta vittoria, oh quanto zelo
de l’oste a te commessa or ti conviene! –
Tacque; e, sparito, rivolò del cielo
a le parti più eccelse e più serene.
Resta Goffredo a i detti, a lo splendore,
d’occhi abbagliato, attonito di core.
18
Ma poi che si riscote, e che discorre
chi venne, chi mandò, che gli fu detto,
se già bramava, or tutto arde d’imporre
fine a la guerra ond’egli è duce eletto.
Non che ’l vedersi a gli altri in Ciel preporre
d’aura d’ambizion gli gonfi il petto,
ma il suo voler più nel voler s’infiamma
del suo Signor, come favilla in fiamma.
19
Dunque gli eroi compagni, i quai non lunge
erano sparsi, a ragunarsi invita;
lettere a lettre, e messi a messi aggiunge,
sempre al consiglio è la preghiera unita;
ciò ch’alma generosa alletta e punge,
ciò che può risvegliar virtù sopita,
tutto par che ritrovi, e in efficace
modo l’adorna sì che sforza e piace.
44
20
Vennero i duci, e gli altri anco seguiro,
e Boemondo sol qui non convenne.
Parte fuor s’attendò, parte nel giro
e tra gli alberghi suoi Tortosa tenne.
I grandi de l’essercito s’uniro
(glorioso senato) in dì solenne.
Qui il pio Goffredo incominciò tra loro,
augusto in volto ed in sermon sonoro:
21
– Guerrier di Dio, ch’a ristorar i danni
de la sua fede il Re del Cielo elesse,
e securi fra l’arme e fra gl’inganni
de la terra e del mar vi scòrse e resse,
sì ch’abbiam tante e tante in sì pochi anni
ribellanti provincie a lui sommesse,
e fra le genti debellate e dome
stese l’insegne sue vittrici e ’l nome,
22
già non lasciammo i dolci pegni e ’l nido
nativo noi (se ’l creder mio non erra),
né la vita esponemmo al mare infido
ed a i perigli di lontana guerra,
per acquistar di breve suono un grido
vulgare e posseder barbara terra,
ché proposto ci avremmo angusto e scarso
premio, e in danno de l’alme il sangue sparso.
23
Ma fu de’ pensier nostri ultimo segno
espugnar di Sion le nobil mura,
e sottrarre ai cristiani al giogo indegno
di servitù così spiacente e dura,
fondando in Palestina un novo regno,
ov’abbia la pietà sede secura;
né sia chi neghi al peregrin devoto
d’adorar la gran tomba e sciòrre il voto.
24
Dunque il fatto sin ora al rischio è molto,
più che molto al travaglio, a l’onor poco,
nulla al disegno, ove o si fermi o vòlto
sia l’impeto de l’armi in altro loco.
Che gioverà l’aver d’Europa accolto
sì grande sforzo, e posto in Asia il foco,
quando sia poi di sì gran moti il fine
non fabriche di regni, ma ruine?
25
Non edifica quei che vuol gl’imperi
su fondamenti fabricar mondani,
ove ha pochi di patria e fé stranieri
fra gl’infiniti popoli pagani,
ove ne’ Greci non conven che speri,
e i favor d’Occidente ha sì lontani;
ma ben move ruine, ond’egli oppresso
sol costrutto un sepolcro abbia a se stesso.
45
26
Turchi, Persi, Antiochia (illustre suono
e di nome magnifico e di cose)
opre nostre non già, ma del Ciel dono
furo, e vittorie fur meravigliose.
Or se da noi rivolte e torte sono
contra quel fin che ’l donator dispose,
temo ce ’n privi, e favola a le genti
quel sì chiaro rimbombo al fin diventi.
27
Ah non sia alcun, per Dio, che sì graditi
doni in uso sì reo perda e diffonda!
A quei che sono alti princìpi orditi
di tutta l’opra il filo e ’l fin risponda.
Ora che i passi liberi e spediti,
ora che la stagion abbiam seconda,
ché non corriamo a la città ch’è mèta
d’ogni nostra vittoria? e che più ’l vieta?
28
Principi, io vi protesto (i miei protesti
udrà il mondo presente, udrà il futuro,
l’odono or su nel Cielo anco i Celesti):
il tempo de l’impresa è già maturo;
men diviene opportun più che si resti,
incertissimo fia quel ch’è securo.
Presago son, s’è lento il nostro corso,
avrà d’Egitto il Palestin soccorso. –
29
Disse, e a i detti seguì breve bisbiglio;
ma sorse poscia il solitario Piero,
che privato fra’ principi a consiglio
sedea, del gran passaggio autor primiero:
– Ciò ch’essorta Goffredo, ed io consiglio,
né loco a dubbio v’ha, sì certo è il vero
e per sé noto: ei dimostrollo a lungo,
voi l’approvate, io questo sol v’aggiungo:
30
se ben raccolgo le discordie e l’onte
quasi a prova da voi fatte e patite,
i ritrosi pareri, e le non pronte
e in mezzo a l’esseguire opre impedite,
reco ad un’altra originaria fonte
la cagion d’ogni indugio e d’ogni lite,
a quella autorità che, in molti e vari
d’opinion quasi librata, è pari.
31
Ove un sol non impera, onde i giudìci
pendano poi de’ premi e de le pene,
onde sian compartite opre ed uffici,
ivi errante il governo esser conviene.
Deh! fate un corpo sol de’ membri amici,
fate un capo che gli altri indrizzi e frene,
date ad un sol lo scettro e la possanza,
e sostenga di re vece e sembianza. –
46
32
Qui tacque il veglio. Or quai pensier, quai petti
son chiusi a te, sant’Aura e divo Ardore?
Inspiri tu de l’Eremita i detti,
e tu gl’imprimi a i cavalier nel core;
sgombri gl’inserti, anzi gl’innati affetti
di sovrastar, di libertà, d’onore,
sì che Guglielmo e Guelfo, i più sublimi,
chiamàr Goffredo per lor duce i primi.
33
L’appovàr gli altri: esser sue parti denno
deliberar e comandar altrui.
Imponga ai vinti legge egli a suo senno,
porti la guerra e quando vòle e a cui;
gli altri, già pari, ubidienti al cenno
siano or ministri de gl’imperii sui.
Concluso ciò, fama ne vola, e grande
per le lingue de gli uomini si spande.
34
Ei si mostra a i soldati, e ben lor pare
degno de l’alto grado ove l’han posto,
e riceve i saluti e ’l militare
applauso, in volto placido e composto.
Poi ch’a le dimostranze umili e care
d’amor, d’ubidienza ebbe risposto,
impon che ’l dì seguente in un gran campo
tutto si mostri a lui schierato il campo.
35
Facea ne l’oriente il sol ritorno,
sereno e luminoso oltre l’usato,
quando co’ raggi uscì del novo giorno
sotto l’insegne ogni guerriero armato,
e si mostrò quanto poté più adorno
al pio Buglion, girando il largo prato.
S’era egli fermo, e si vedea davanti
passar distinti i cavalieri e i fanti.
36-70 Rassegna degli eserciti cristiani.
71
Il dì seguente, allor ch’aperte sono
del lucido oriente al sol le porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond’al camino ogni guerrier s’essorte.
Non è sì grato a i caldi giorni il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come fu caro a le feroci genti
l’altero suon de’ bellici instrumenti.
72
Tosto ciascun, da gran desio compunto,
veste le membra de l’usate spoglie,
e tosto appar di tutte l’arme in punto,
tosto sotto i suoi duci ogn’uom s’accoglie,
e l’ordinato essercito congiunto
tutte le sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
47
73
Intanto il sol, che de’ celesti campi
va più sempre avanzando e in alto ascende,
l’arme percote e ne trae fiamme e lampi
tremuli e chiari, onde le viste offende:
L’aria par di faville intorno avampi,
e quasi d’alto incendio in forma splende,
e co’ feri nitriti il suono accorda
del ferro scosso e le campagne assorda.
74-80 Trionfale marcia di avvicinamento dei crociati a Gerusalemme.
81
Ma precorsa è la fama, apportatrice
de’ veraci romori e de’ bugiardi,
ch’unito è il campo vincitor felice,
che già s’è mosso e che non è chi ’l tardi;
quante e quai sian le squadre ella ridice,
narra il nome e ’ valor de’ più gagliardi,
narra i lor vanti, e con terribil faccia
gli usurpatori di Sion minaccia.
82
E l’aspettar del male è mal peggiore,
forse, che non parrebbe il mal presente;
pende ad ogn’aura incerta di romore
ogni orecchia sospesa ed ogni mente;
e un confuso bisbiglio entro e di fore
trascorre i campi e la città dolente.
Ma il vecchio re ne’ già vicin perigli
volge nel dubbio cor feri consigli.
83
Aladin detto è il re, che, di quel regno
novo signor, vive in continua cura:
uom già crudel, ma ’l suo feroce ingegno
pur mitigato avea l’età matura.
Egli, che de’ Latini udì il disegno
c’han d’assalir di sua città le mura,
giunge al vecchio timor novi sospetti,
e de’ nemici pave e de’ soggetti.
84
Però che dentro a una città commisto
popolo alberga di contraria fede:
la debil parte e la minore in Cristo,
la grande e forte in Macometto crede.
Ma quando il re fe’ di Sion l’acquisto,
e vi cercò di stabilir la sede,
scemò i publici pesi a’ suoi pagani,
ma più gravonne i miseri cristiani.
85
Questo pensier la ferità nativa,
che da gli anni sopita e fredda langue,
irritando inasprisce, e la ravviva
sì ch’assetata è più che mai di sangue.
Tal fero torna a la stagion estiva
quel che parve nel gel piacevol angue,
così leon domestico riprende
l’innato suo furor, s’altri l’offende.
48
86
“Veggio” dicea “de la letizia nova
veraci segni in questa turba infida;
il danno universal solo a lei giova,
sol nel pianto comun par ch’ella rida;
e forse insidie e tradimenti or cova,
rivolgendo fra sé come m’uccida,
o come al mio nemico, e suo consorte
popolo, occultamente apra le porte.
87
Ma no ’l farà: prevenirò questi empi
disegni lor, e sfogherommi a pieno.
Gli ucciderò, faronne acerbi scempi,
svenerò i figli a le lor madri in seno,
arderò loro alberghi e insieme i tèmpi,
questi i debiti roghi a i morti fièno;
e su quel lor sepolcro in mezzo a i voti
vittime pria farò de’ sacerdoti.”
88
Così l’iniquo fra suo cor ragiona,
pur non segue pensier sì mal concetto;
ma s’a quegli innocenti egli perdona,
è di viltà, non di pietade effetto,
ché s’un timor a incrudelir lo sprona,
il ritien più potente altro sospetto:
troncar le vie d’accordo, e de’ nemici
troppo teme irritar l’arme vittrici.
89
Tempra dunque il fellon la rabbia insana,
anzi altrove pur cerca ove la sfoghi;
i rustici edifici abbatte e spiana,
e dà in preda a le fiamme i culti luoghi;
parte alcuna non lascia integra o sana
ove il Franco vi pasca, ove s’alloghi;
turba le fonti e i rivi, e le pure onde
di veneni mortiferi confonde.
90
Spietatamente è cauto, e non oblia
di rinforzar Gierusalem fra tanto.
Da tre lati fortissima era pria,
sol verso Borea è men secura alquanto,
ma da’ primi sospetti ei le munia
d’alti ripari il suo men forte canto,
e v’accogliea gran quantitade in fretta
di gente mercenaria e di soggetta.
49
Giovambattista Marino (Napoli 1569-ivi 1625)
(Dalla Lira, a c. di Giovanni Getto)
4
A l’aura il crin ch’a l’auro il pregio ha tolto,
sorgendo il mio bel sol del suo orïente,
per doppiar forse luce al dì nascente,
da’ suoi biondi volumi avea disciolto.
8
Parte, scherzando in ricco nembo e folto,
piovea sovra i begli omeri cadente,
parte con globi d’or sen gìa serpente
tra’ fiori, or del bel seno or del bel volto.
11
Amor vid’io, che fra’ lucenti rami
de l’aurea selva sua, pur come sòle,
tendea mille al mio cor lacciuoli ed ami;
14
e, nel sol de le luci uniche e sole,
intento, e preso dagli aurati stami,
volgersi quasi un girasole il sole!
4
Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori prezïosi e quelli;
8
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
11
Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
14
Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poich’almen fûr, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro!
(Dall’Adone, a c. di Giovanni Pozzi)
[Dedica]
ALLA MAESTÀ CRISTIANISSIMA DI MARIA DE' MEDICI REINA DI FRANCIA E DI NAVARRA
La Grecia, di tutte le bell’arti inventrice, laqual sotto velo di favolose fizzioni soleva ricoprire la maggior
parte de’ suoi misteri, non senza allegorico sentimento chiamava Ercole musagete, quasi duce e capitano
delle Muse. Ilche non con altra significazione, s’io non m’inganno, hassi da interpretare che per la
vicendevole corrispondenza che passa tra la forza e l’ingegno, tra ’l valore e ’l sapere, tra l’armi e le
lettere, e per la reciproca scambievolezza che lega insieme i prencipi e i poeti, gli scettri e le penne, le
corone dell’oro e quelle dell’alloro. Percioché sicome alla quiete degli studi è necessario il patrocinio de’
grandi, perché gli conservi nella loro tranquillità, così allo ’ncontro la gloria delle operazioni inclite ha
bisogno dell’aiuto degli scrittori, perché le sottraggano alla oblivione. E sicome questi offrono versi e
componimenti, che possono a quelli recare insieme col diletto l’immortalità, così ancora quelli donano
ricompense di favori e premi di ricchezze, con cui possono questi menare commodamente la vita. Quinci
senza alcun dubbio è nato ne’ signori il nobilissimo costume del nutrire i cigni famosi, accioché,
50
illustrando essi col canto la memoria de’ loro onori, la rapiscano alla voracità del tempo. Quinci d’altra
parte parimente si è derivata in coloro che scrivono l’antica usanza del dedicare i libri a’ gran maestri,
aquali non per altra cagione sogliono indirizzargli se non per procacciarsi, sotto il ricovero di tale scudo,
sicura difesa dell’altrui malignità e della propria necessità. Questi rispetti mossero Virgilio ad intitolare il
suo poema a Cesare, Lucano a Nerone, Claudiano ad Onorio, ed a’ tempi nostri l’Ariosto e ’l Tasso alla
serenissima casa da Este. [...] Non mossero già, per mio credere, questi rispetti la maestà cristianissima di
Lodovico il tredicesimo, quando con tante dimostrazioni di generosità prese a trattener me nella sua corte,
sì perché all’edificio della sua gloria non fa mestieri di sì fatti puntelli, sì anche perch’io non son tale che
basti a sostenere con la debolezza del mio stile il grave peso del suo nome. Né muovono ora similmente
me a consacrare a S.M. il mio Adone, come fo, sì perché l’animo mio è tanto lontano dall’interesse quanto
il suo dall’ambizione, sì anche perché sono stato prevenuto co’ benefici ed ho ricevuti guiderdoni
maggiori del disiderio e della speranza, nonché del merito. Ma quantunque i fini principali della sua
protezzione e della mia dedicazione non sieno questi, con tutto ciò, tanto per la parte che concerne i debiti
della obligazion mia quanto per quella che s’appartiene ai meriti della grandezza sua, con ragione parmi
che si debba il presente libro al nostro re e che da me al nostro re sia, buon tempo fa, giustamente dovuto.
Devesi a lui come degno di qualsivoglia onore, e devesi da me come onorato, benché indegnamente, del
titolo della regia servitù. Per quelche tocca a S.M. dico ch’è proporzionato questo tributo, essendosi già
col sopraccennato essempio d’Ercole dimostrato ch’a’ prencipi grandi non disconvengono poesie. E mi
vaglio della somiglianza d’Ercole, meritando egli appunto ad esso Ercole d’essere per le sue azioni
paragonato. Poiché se l’uno ne’ princìpi della sua infanzia ebbe forza di strangolare due fieri dragoni,
ilche fu preso per infallibile indizio dell’altre prove future, l’altro ne’ primordi e della sua età e del suo
governo conculcò, né più né meno, due ferocissime e velenosissime serpi: dico le guerre intestine di
Francia e le straniere d’Italia, superate l’una con la mano del valore, l’altra con quella dell’autorità: dal
qual atto si può far certissimo giudicio dell’altre imprese segnalate che ci promettono gli anni suoi più
fermi. Havvi però di più tanto di differenza, che quelche l’uno operò già adulto e robusto, l’altro ha
operato ancor tenero e fanciullo, estirpando dal suo regno un mostro così pestifero com’era l’idra della
discordia civile, le cui teste pareva che d’ora in ora moltiplicassero in infinito. [...] Così la somma pietà di
quel Dio, ilquale lo regge ed ilquale egli difende, guardi la sua vita ed allontani dalla sua sacra persona la
violenza del ferro, la fraude del veleno e la perfidia del tradimento, come in lui si adempiranno appieno
tutte le condizioni di perfezzione che mancarono negli antichi cesari. E trattandosi in questa guerra santa
dell’interesse pur di Dio, non mancheranno a quella infinita sapienza modi da terminarla a gloria sua e con
riputazione d’un re sì giusto.
Quanto poi alla parte che tocca a me, debita ancora non che ragionevole stimo io questa dedicatura,
accioché se nell’uno abonda cortesia, nell’altro non manchi gratitudine. Ma con qual cambio o con qual
effetto condegno corrisponderò io a tanti eccessi d’umanità, i quali soprafanno tanto di gran lunga ogni
mio potere? Certo, non so con altro pagargli che con parole e con lodi, in quella guisa istessa che si
pagano le divine grazie. Ben vorrei che la mia virtù fusse pari alla sua bontà, per potere altrettanto
celebrar lui quanto egli giova a me. Percioché sì come i suoi gesti egregi, quasi stelle del ciel della gloria,
influiscono al mio ingegno suggetti degni d’eterna loda, così i favori ch’io ne ricevo, quasi rivoli del fonte
della magnificenza, innaffiano l’aridità della mia fortuna con tanta larghezza che fanno arrossire la mia
viltà, onde rimango confuso di non aver fin qui fatta opera alcuna per laquale appaia il merito di sì fatta
mercede. Potevano peraventura da questa oblazione distormi due circostanze, cioè la bassezza della
offerta dal canto mio e l’eminenza del personaggio dal canto suo. [...] Queste ragioni scusano in parte il
mancamento del donatore. Ma per appagare la grandezza di colui a cui si dona, dirò solo che quell’istesso
Ercole di cui parliamo, per dar alle sue lunghe fatiche qualche sollazzevole intervallo, deposta talvolta la
clava, soleva pure scherzando favoleggiare con gli amori. Achille, mentreché nella sua prima età viveva
tra le selve del monte Pelia sotto la disciplina di Chirone, soleva, secondoché scrive Omero, dilettarsi del
suono della cetera, né sdegnava di toccar talvolta l’umil plettro e di tasteggiar le tenere corde con quella
mano istessa che doveva poi con somma prodezza vibrar la lancia, trattar la spada, domare destrieri
indomiti e vincere guerrieri invincibili. Per laqualcosa io non dubito punto che fra l’altre eroiche virtù
ch’adornano gli anni giovanili di S.M., in tanta sublimità di stato, in tanta vivacità di spirito ed in tanta
severità d’educazione, non debba anche aver luogo l’onesto e piacevole trastullo della poesia. E se il
medesimo eroe pargoletto [...] quando ritornava dall’essercizio della caccia, stanco per la uccisione delle
fiere, non prendeva a schifo d’accettare dal suo maestro le poma e i favi in premio della fatica con quello
istesso animo grande con cui poi aveva da ricevere le palme e le spoglie delle sue vittorie; perché non
debbo io sperare che S.M., non dico dopo le cacce, nellequali suole alle volte nobilmente essercitarsi, ma
dopo le guerre, lequali con troppo dure distrazzioni l’incominciano ad occupare, abbia con benignità a
gradire questo picciolo e povero dono, presentato da un suo devoto, ilquale appunto altro non è che frutto
di rozzo intelletto e miele composto di fiori poetici, quasi lieto e sicuro presagio de’ ricchi tributi e de’
trionfali onori, che in più maturo tempo saranno al suo valore offerti? Parmi veramente la figura biforme
di quel misterioso semicavallo ben confacevole al mio suggetto, come molto espressiva delle due
necessarie e principali condizioni del principe, dinotando per la parte umana il reggimento della pace e
per la ferina l’amministrazione della guerra. Laqual significanza si attende che debba perfettamente
51
verificarsi in S.M., come degno figlio di sì gran padre ed erede non meno delle paterne virtù che de’ regni,
la cui generosa indole precorre l’età e o vince l’altrui speranze. E già gli effetti ne fanno fede, poiché non
così tosto prese in mano le redine dell’imperio che stabilì per sempre la devozione ne’ popoli; ed appena
assunto al possesso dello scettro, gli fu commesso l’arbitrio del mondo. Egli è ben vero che se il centauro,
[...] per rendersi uguale alla statura del giovanotto, quando le dette cose nel grembo gli sporgeva,
piegando le gambe dinanzi si chinava; chiunque volesse con dono conforme pareggiare gli eccelsi pregi di
S.M., ch’ancor crescente si solleva a pensieri tanto sublimi, bisognerebbe per contrario in vece
d’abbassarsi, inalzar più tosto sestesso a quel grado d’eccellenza che nella mia persona e nel mio ingegno
manca del tutto. Per riparare adunque alla disconvenevolezza di cotale sproporzione, io mi sono ingegnato
di ritrovare un mezzo potente, e questo si è introdurre il mio dono per la porta del favore di V.M., anzi
all’una ed all’altra maestà farlo commune, accioché sicome ella è per tutti una fontana, anzi un mare, onde
scaturiscono agli altri l’acqua della vena regia, così sia per me una miniera, onde passando quelle del mio
tributario ruscello, piglino altro sapore e qualità che non dispiaccia a gusto sì nobile. E sì come ella è
fatta, si può dire, lo spirito assistente del regno suo, avendolo tanto tempo governato con sì giusto e
provido reggimento, così si faccia anche il genio custode dell’opera mia, rendendola in virtù del suo
glorioso nome e della sua favorevole autorità più cara e più dilettevole. Veramente che la madre abbia a
partecipare delle glorie e delle lodi che si danno al figlio è dovere di legge umana e divina, e che in
particolare debba ella aver parte in quelle che si contengono in questo volume è cosa giusta sì per rispetto
suo, come per rispetto mio. Per rispetto suo, poich’essendo V.M. la terra che ha prodotta sì bella pianta e
la pianta che ha partorito sì nobil frutto, si debbono tutti gli onori attribuire non meno a lei, come a
cagione, che a lui, come ad effetto. Per rispetto mio, percioché essendo io sua fattura e dependendo tutto il
mio presente stato da lei, per la cui ufficiosa bontà mi ritrovo collocato nell’attual servigio di questa corte,
sicome dalla sua protezzione riconosco gli accrescimenti della mia fortuna, così mi sento tenuto a
riconoscere le ricevute cortesie con tutti quegli ossequi di grata devozione che possono nascere dalla mia
bassezza. Oltre che, pel essere il componimento ch’io le reco quasi un registro delle sue opere
magnanime, delle quali una parte, ancorché minima, mi sono ingegnato d’esprimere in esso, e per avere io
ridotto il suggetto che tratta, come pel l’allegorie si dimostra, ad un segno di moralità la maggiore che
peraventura si ritrovi fra tutte l’antiche favole, contro l’opinione di coloro che il contrario si
persuadevano, giudico che ben si confaccia alla modesta gravità d’una prencipessa tanto discreta. Or
piaccia a V.M. con quella benignità istessa con cui si compiacque di farmi degno della sua buona grazia,
accettare e far accettare la presente fatica; onde si vegga che sebene il mio ingegno è mendico ed
infecondo, ed il poema che porta è tardo frutto della sua sterilità, vorrei pur almeno in qualche parte pagar
con gli scritti quelche non mi è possibile sodisfar con le forze. [...] E senza più, augurando a V.M. il
colmo d’ogni felicità, le inchino con reverenza la fronte e le sollevo con devozione il cuore.
Di Parigi, adì 30 d’agosto 1622.
Canto I – La Fortuna
Allegoria
Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non
giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente
Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In
Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la
gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. [...].
ARGOMENTO
Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.
Amor gli turba intorno i venti e l’acque,
Clizio pastor l’accoglie in sua magione.
1
Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella dea d’Amatunta e di Citera;
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
dela notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il cielo ed innamora il mondo,
52
2
tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno;
poiché lo dio del’armi e dela guerra
spesso suol prigionier languirti in seno
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace ed è steccato il letto.
3
Dettami tu del giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe;
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe
e le dolci querele e ’l dolce pianto;
e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.
4
Ma mentr’io tento pur, diva cortese,
d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati e poi sì gravi affanni,
Amor, con grazie almen pari al’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni
e con la face sua, s’io ne son degno,
dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.
5
E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,
di beltà vinci e di splendore abbagli
e, seguendo ancor tenero i vestigi
del morto genitor, quasi l’agguagli,
per cui suda Vulcano, a cui Parigi
convien che palme colga e statue intagli,
prego intanto m’ascolti e sostien ch’io
intrecci il giglio tuo col lauro mio.
6
Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto
col favor che mi regge ed aure ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme al’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.
7
Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna
per domar la superbia e la possanza
del tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’nsu ’l fiore a maturar si vegna,
allor, con spada al fianco e cetra al collo,
l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo.
53
8
Così la dea del sempreverde alloro,
parca immortal de’ nomi e degli stili,
ale fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
9
La donna che dal mare il nome ha tolto
dove nacque la dea ch’adombro in carte,
quella che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte,
quella che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe nel’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’amor penna lasciva.
10
Ombreggia il ver Parnaso e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela,
quasi in rozzo Silen, celesti arcani.
Però dal vel che tesse or la mia tela
in molli versi e favolosi e vani
questo senso verace altri raccoglia:
smoderato piacer termina in doglia.
[...]
54
Pietro Metastasio (Piero Trapassi, detto: Roma 1698-Vienna [Austria] 1782)
(Da La Clemenza di Tito*, a c. di Bruno Brunelli)
ARGOMENTO
Non ha conosciuto l’antichità né migliore né più amabile principe di Tito Vespasiano. Le sue virtù lo
resero a tutti sì caro, che fu chiamato «la delizia del genere umano». E pure due giovani patrizi, uno de’
quali era suo favorito, cospirarono contro di lui. Scoperta però la congiura, furono dal senato condannati a
morire. Ma il clementissimo Cesare, contento d’averli paternamente ammoniti, concesse loro ed a’ loro
complici un generoso perdono.
INTERLOCUTORI
TITO VESPASIANO
imperator di Roma.
VITELLIA
figlia dell’imperator Vitellio.
SERVILIA
sorella di Sesto, amante d’Annio.
SESTO
amico di Tito, amante di Vitellia.
ANNIO
amico di Sesto, amante di Servilia.
PUBLIO
prefetto del pretorio.
ATTO I. Scena 1.
Logge a vista del Tevere negli appartamenti di Vitellia.
VITELLIA e SESTO
5
10
15
VIT.
Ma che! sempre l’istesso,
Sesto, a dir mi verrai? So che sedotto
fu Lentulo da te; che i suoi seguaci
son pronti già; che il Campidoglio acceso
darà moto a un tumulto, e sarà il segno
onde possiate uniti
Tito assalir; che i congiurati avranno
vermiglio nastro al destro braccio appeso,
per conoscersi insieme. Io tutto questo
già mille volte udii: la mia vendetta
mai non veggo però. S’aspetta forse
che Tito a Berenice in faccia mia
offra, d’amore insano,
l’usurpato mio soglio e la sua mano?
Parla! di’! che s’attende?
SES.
Oh Dio!
VIT.
20
Sospiri?
Intenderti vorrei. Pronto all’impresa
sempre parti da me; sempre ritorni
confuso, irresoluto. Onde in te nasce
questa vicenda eterna
d’ardire e di viltà?
SES.
Vitellia, ascolta:
ecco, io t’apro il mio cor. Quando mi trovo
presente a te, non so pensar, non posso
*
Dramma rappresentato con musica del Caldara la prima volta in Vienna nell’interno gran teatro della corte cesarea
alla presenza degli augustissimi sovrani, il dì 4 novembre 1734, per festeggiare il nome dell’imperator Carlo VI,
d’ordine dell’imperatrice Elisabetta.
55
25
voler che a voglia tua; rapir mi sento
tutto nel tuo furor; fremo a’ tuoi torti;
Tito mi sembra reo di mille morti.
quando a lui son presente,
Tito, non ti sdegnar, parmi innocente.
VIT.
Dunque...
SES.
30
35
40
Pria di sgridarmi,
ch’io ti spieghi il mio stato almen concedi.
Tu vendetta mi chiedi;
Tito vuol fedeltà. Di tua mano
con l’offerta mi sproni; ei mi raffrena
co’ benefizi suoi. Per te l’amore,
per lui parla il dover. Se a te ritorno,
sempre ti trovo in volto
qualche nuova beltà; se torno a lui,
sempre gli scopro in seno
qualche nuova virtù. Vorrei servirti;
tradirlo non vorrei. Viver non posso,
se ti perdo, mia vita; e, se t’acquisto,
vengo in odio a me stesso.
Questo è lo stato mio: sgridami adesso.
VIT.
No, non meriti, ingrato,
l’onor dell’ire mie.
SES.
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50
55
Pensaci, o cara,
pensaci meglio. Ah! non togliamo, in Tito,
la sua delizia al mondo, il padre a Roma,
l’amico a noi. Fra le memorie antiche
trova l’egual, se puoi. Fingiti in mente
eroe più generoso o più clemente.
Parlagli di premiar: poveri a lui
sembran gli erari sui.
Parlagli di punir: scuse al delitto
cerca in ognun. Chi all’inesperta ei dona,
chi alla canuta età. Risparmia in uno
l’onor del sangue illustre; il basso stato
compatisce nell’altro. Inutil chiama,
perduto il giorno ei dice,
in cui fatto non ha qualcun felice.
VIT.
Ma regna.
SES.
60
65
Ei regna, è ver; ma vuol da noi
sol tanta servitù quanto impedisca
di perir di licenza. Ei regna, è vero;
ma di sì vasto impero,
tolto l’alloro e l’ostro,
suo tutto il peso, e tutto il frutto è nostro.
VIT.
Dunque a vantarmi in faccia
venisti il mio nemico; e più non pensi
che questo eroe clemente un soglio usurpa
del suo tolto al mio padre?
56
70
75
Che m’ingannò, che mi ridusse (e questo
è il suo fallo maggior) quasi ad amarlo?
E poi, perfido! e poi di nuovo al Tebro
richiamar Berenice! Una rivale
avesse scelta almeno
degna di me fra le beltà di Roma:
ma, una barbara, o Sesto,
un’esule antepormi! una regina!
SES.
Sai pur che Berenice
volontaria tornò.
VIT.
80
Narra a’ fanciulli
codeste fole. Io so gli antichi amori;
so le lagrime sparse allor che quindi
l’altra volta partì; so come adesso
l’accolse e l’onorò. Chi non lo vede?
Il perfido adora.
SES.
Ah! principessa,
Tu sei gelosa.
VIT.
Io!
SES.
Sì.
VIT.
Gelosa io sono,
85
se non soffro un disprezzo?
SES.
E pure...
VIT.
E pure
Non hai cor d’acquistarmi.
SES.
Io son..
VIT.
Tu sei
sciolto d’ogni promessa. A me non manca
più degno esecutor dell’odio mio.
SES.
Sentimi!
VIT.
Intesi assai.
SES.
Fermati!
VIT.
Addio.
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90
95
SES.
Ah, Vitellia! ah, mio nume,
non partir. Dove vai?
Perdonami, ti credo: io m’ingannai.
Tutto, tutto farò. Prescrivi, imponi,
regola i moti miei:
tu la mia sorte, il mio destin tu sei.
VIT.
Prima che il sol tramonti,
voglio Tito svenato, e voglio...
Scena 2.
ANNIO e detti.
ANN.
Amico,
Cesare a sé ti chiama.
VIT.
100
Ah! non perdete
questi brevi momenti. A Berenice
Tito gli usurpa.
ANN.
Ingiustamente oltraggi,
Vitellia, il nostro eroe: Tito ha l’impero
e del mondo e di sé. Già per suo cenno
Berenice partì.
SES.
Come!
VIT.
105
Che dici!
ANN.
Voi stupite a ragion. Roma ne piange
di meraviglia e di piacere. Io stesso
quasi nol credo; ed io
fui presente, o Vitellia, al grande addio.
VIT.
(Oh speranze!)
SES.
Oh virtù!
VIT.
Quella superba
110
oh, come volentieri udita avrei
esclamar contro Tito!
ANN.
Anzi giammai
più tenera non fu. Partì; ma vide
che adorata partiva, e che al suo caro
men che a lei non costava il colpo amaro.
VIT.
Ognun può lusingarsi.
ANN.
Eh si conobbe
58
115
120
che bisognava a Tito
tutto l’eroe per superar l’amante.
Vinse, ma combatté. Non era oppresso,
ma tranquillo non era; ed in quel volto,
dicasi per sua gloria,
si vedea la battaglia e la vittoria.
VIT.
(E pur forse con me,quando credei,
Tito ingrato non è). Sesto, sospendi (a parte a Sesto)
d’eseguire i miei cenni. Il colpo ancora
Non è maturo.
SES.
125
E tu non vuoi ch’io vegga...
ch’io mi lagni, o crudele... (con isdegno)
VIT.
Or che vedesti?
Di che ti puoi lagnar? (con isdegno)
SES.
Di nulla. (con sommissione) (Oh Dio!
Chi provò mai tormento eguale al mio?)
130
135
VIT.
Deh! se piacer mi vuoi,
lascia i sospetti tuoi;
non mi stancar con questo
molesto dubitar.
Chi ciecamente crede,
impegna a serbar fede;
chi sempre inganni aspetta,
alletta ad ingannar. (parte)
59
Carlo Goldoni (Venezia 1707-Parigi [Francia] 1793)
(Dalla Prefazione alle Commedie, ed. Bettinelli, 1750)
Cedendo alle persuasioni e agli amorevoli desideri de’ miei Padroni e de’ miei Amici, di molti de’ quali è
non men venerabile il giudizio, che rispettabile l’autorità, do alle stampe le Commedie che ho scritte
finora, e che tuttavia vo scrivendo ad uso de’ Teatri d’Italia.
Molti si aspetteran forse, ch’io ponga in fronte una Prefazione erudita e compiuta, in cui ragionando
dell’Arte comica sui principi degli antichi e moderni buoni Maestri, venga a render poi conto della mia
esatta ubbidienza a’ loro precetti nella composizione delle Teatrali mie Opere. Ma di gran lunga s’inganna
chi da me attende una così inutil fatica. [...]
Io pertanto intendo unicamente di supplire a questo rispettoso dovere col render conto al Pubblico di ciò
che mi ha impegnato in questa sorta di applicazione, e de’ mezzi che ho tenuti e che tengo per abilitarmi a
servire, il meglio che per me si può, a’ generosi spettatori delle mie Commedie.
Bisogna confessare, che gli uomini tutti traggono fin dalla nascita un certo particolar loro Genio, che gli
spigne più ad uno che ad un altro genere di professione e di studio, al qual chi si appiglia, suole riuscirvi
con mirabile facilità. Io certamente mi sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli
studi Teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza. Cadendomi fra le mani Commedie o Drammi, io vi
trovava le mie delizie; e’ mi sovviene, che sul solo esemplare di quelle del Cicognini in età di ott’anni in
circa, una Commedia, qual ella si fosse, composi, prima d’averne veduto rappresentar alcuna in sulle
Scene, di che può render testimonianza ancora il mio carissimo amico Signor Abate Don Jacopo Valle.
Crebbe in me vieppiù questo genio, quando cominciai ad andare spesso a’ Teatri; né mai mi abbandonò
esso ne’ vari miei giri per diverse Città dell’Italia, dove m’è convenuto successivamente passare, o a
cagione di studio, o di seguir mio Padre secondo le differenti direzioni della medica sua professione. In
Perugia, in Rimini, in Milano, in Pavia, in mezzo alla disgustosa occupazione di quelle applicazioni che a
viva forza mi si volevan far gustare, come la Medicina prima, e poi la Giurisprudenza, si andò sempre in
qualche maniera sfogando il mio trasporto per la Drammatica Poesia, or con Dialoghi, or con Commedie,
or con rappresentar nelle nobili Accademie un qualche Teatral Personaggio.
Finalmente ritornato in Venezia mia Patria, fui obbligato a darmi all’esercizio del Foro, per provvedere,
mancato di vita mio Padre, alla mia sussistenza, dopo, d’essere stato già in Padova onorato della laurea
Dottorale, e di aver qualche tempo servito nelle assessorie di alcuni ragguardevoli Reggimenti di questa
Serenissima Repubblica in Terraferma. Ma chiamavami al Teatro il mio Genio, e con ripugnanza penosa
adempiva i doveri d’ogni altro, comecché onorevolissimo Uffizio. [...] Non è perciò maraviglia se in tutti i
miei viaggi, le mie dimore, in tutti gli accidenti della mia vita, in tutte le mie osservazioni, e fin ne’ miei
passatempi medesimi, tenendo sempre rivolto l’animo e fisso a questa sorta di applicazione, m’abbia fatta
un’abbondante provvisione di materia atta a lavorarsi pel Teatro, la quale riconoscer debbo come una
inesausta miniera d’argomenti per le Teatrali mie Composizioni; ed ecco come insensibilmente mi sono
andato impegnando nella presente mia professione di Scrittor di Commedie. E per verità come mai
lusingar alcuno, senza di questo particolar Genio dalla Natura stessa donato, di poter riuscire fecondo e
felice Inventore e Scrittor di Commedie? [...]
Ora fu in me questo Genio medesimo, che rendendomi osservator attentissimo delle Commedie, che sui
vari Teatri d’Italia da diciotto o venti anni in qua rappresentavansi, me ne fece conoscere e compiangere il
gusto corrotto, comprendendo nel tempo stesso, che non poco utile ne sarebbe potuto derivare al
Pubblico, e non iscarsa lode a chi vi riuscisse, se qualche talento animato dallo spirito comico tentasse di
rialzare l’abbattuto Teatro Italiano. Questa lusinga di gloria fini di determinarmi all’impresa.
Era in fatti corrotto a segno da più di un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, che si era reso
abominevole oggetto di disprezzo alle Oltramontane Nazioni. Non correvano sulle pubbliche Scene se
non sconce Arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole mal inventate, e peggio
condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico
e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla
gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene,
le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano strascinate dall’ozio, molto ben si
guardavano dal condurvi la famigliuola innocente [...]; quindi a ragione i Sacri Oratori fulminavano da’
Pulpiti così corrotte Commedie, ch’erano in fatti oggetto ben giusto dell’abominazione de’ Saggi. [...]
Io frattanto ne piangea fra me stesso, ma non avea ancora acquistati lumi sufficienti per tentarne il
risorgimento. Aveva per verità di quando in quando osservato, che nelle stesse cattive Commedie eravi
qualche cosa ch’eccitava l’applauso comune e l’approvazion de’ migliori, e mi accorsi che ciò per lo più
accadeva all’occasione d’alcuni gravi ragionamenti ed istruttivi, d’alcun dilicato scherzo, d’un accidente
ben collocato, di una qualche viva pennellata, di alcun osservabil carattere, o di una dilicata critica di
qualche moderno correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra del maraviglioso, la vince nel
cuor dell’uomo il semplice e il naturale.
Al barlume di queste scoperte mi diedi immediate a comporre alcune Commedie. Ma prima di poter farne
delle passabili o delle buone, anch’io ne feci delle cattive. Quando si studia sul libro della Natura e del
60
Mondo, e su quello della sperienza, non si può per verità divenire Maestro tutto d’un colpo; ma egli è ben
certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri [...]. Avvedutomi che le Commedie di
carattere più sicuramente di tutte le altre colpivano, composi il Momolo sulla Brenta [cui] venne pur fatta
una cortesissima accoglienza. Pensai allora, che se tanto eran riuscite Commedie nelle quali era vestito de’
suoi convenienti costumi, parole e sali il solo principal Personaggio, lasciati in libertà gli altri di parlar a
soggetto, dacché procedeva ch’elle riuscivano ineguali e di pericolosa condotta, pensai, dico, che
agevolmente si avrebbe potuto render la Commedia migliore, più sicura e di ancor più felice riuscita,
scrivendo la parte di tutti i Personaggi, introducendovi vari caratteri, e tutti lavorandoli al tornio della
Natura, e sul gusto del Paese nel quale dovean recitarsi le mie Commedie.
Nell’anno adunque 1742, seguendo questo pensamento, diedi alle Scene la Donna di garbo, la qual io
chiamo mia prima Commedia, e che prima delle altre comparirà in questa raccolta, giacché in fatti è la
prima ch’io abbia interamente scritta. Ritrovò essa, dappertutto ove fu rappresentata, e principalmente in
Venezia e in Firenze, ottimi giudici del buono, una gentilissima accoglienza; benché molte di quelle grazie
per avventura le manchino, che a mio parere adornan le altre posteriormente fatte, dappoi che
abbandonata affatto ogni altra professione, come quella di Avvocato Civile e Criminale, che in Pisa allora
esercitava, mi son tutto consagrato alla Comica Poesia scrivendo a profitto dell’onoratissimo Girolamo
Medebach, il quale alla testa di valorosi Comici va da’ più celebri Teatri d’Italia spargendo ne’ popoli, col
mezzo di costumate Commedie, l’istruzione e il diletto. I due Gemelli Veneziani, l’Uomo Prudente, la
Vedova Scaltra, furono in seguito tre fortunatissime Commedie, e dopo di esse la Putta Onorata,la Buona
Moglie, il Cavaliere e la Dama, l’Avvocato, e la Suocera e la Nuora, replicate con indicibile applauso
moltissime sere in varie Città, fecero molto ben l’interesse del benemerito sudetto Comico, e ricolmarono
me di consolazione, dandomi a conoscere che non affatto inutili sono state le mie applicazioni, per
ricondurre sul Teatro Italiano il buon costume e ’l buon gusto della Commedia. Mi va poi di giorno in
giorno raffermando in questa opinione la fortuna che incontrano comunemente le altre Opere mie, che in
questo genere si van recitando, secondo ch’io le vo componendo.
Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo
di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e
recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma
dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali,
come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’
quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo
mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta
per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i
segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’
correnti costumi: m’intruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra
Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ Saggi; e nel tempo stesso mi addita in
qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro
raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi,
quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia
professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con
quali colori si debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del
Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte,
che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò
ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico
nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e
posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi in chi continuamente si
pratica, in modo però che non urti troppo offendendo. [...]
Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono
principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati
scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia,
e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte. La natura è una universale e sicura
maestra a chi l’osserva. [...] Trattati di Poetica, Tragedie, Drammi, Commedie d’ogni sorta ne ho lette
anch’io in quantità, ma dopo d’avermi già formato il mio particolare sistema, o mentre me lo andava
formando dietro ai lumi che mi somministravano i miei due sovrallodati gran libri, Mondo e Teatro; e
solamente dopo mi sono avveduto d’essermi in gran parte confermato a’ più essenziali precetti dell’Arte
raccomandati dai gran Maestri, ed eseguiti dagli eccellenti Poeti, senza aver di proposito studiati né gli
uni, né gli altri; a guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una salutevole
medicina, applicandovi poi la ragione dell’Arte, la conosce regolare e metodica.
Non pensi alcuno però ch’io abbia la temerità di creder le mie Commedie esenti da ogni difetto. Tanto son
io lontano da una tal presunzione, quanto mi vo ogni giorno affaticando per migliorar in esse il mio gusto.
Parmi solamente di esser giunto a segno di non aver da vergognarmi d’averle fatte, e di poter arrischiarmi
di darle alle stampe con isperanza di qualche compatimento.
61
Io le lascio correre candidamente quali esse furono dapprima scritte e rappresentate. Non voglio che si
dica ch’io correggendole abbia cercato di accrescere il merito delle mie prime fatiche oltre alla verità;
anzi desidero che il mondo conosca nella differenza che si ravvisa tra le prime e le ultime, come
gradatamente, a forza di osservazione e di sperienza, mi sono andato avanzando. A questo fine,
stampandole nell’ordine stesso con cui furon composte, rinunzio anche al maggior credito che potrei
procurar al mio libro, se io facessi preceder alle prime più deboli, le ultime a mio parere manco
imperfette, e specialmente Il cavaliere e La dama, che superò le altre tutte in aver applauso, e nella quale
veramente ho posto più studio e fatica. [...]
Le composizioni di niun valore non sono nemmeno oggetto degno di critica. Che se alle mie Commedie
ne sono state fatte, o se ne faran tuttavia in avvenire, io trarrò quindi un sicuro argomento che degne sieno
di osservazione, e però fornite di qualche merito. In fatti, se quelli che o due o tre anni fa sofferivano sul
Teatro improprietà, inezie, Arlicchinate da mover nausea agli stomachi più grossolani, son divenuti al
presente così dilicati, che ogn’ombra d’inverisimile, ogni picciolo neo, ogni frase o parola men che
toscana li turba e travaglia, io posso senza arroganza attribuirmi il merito d’aver il primo loro ispirata una
tal dilicatezza col mezzo di quelle stesse Commedie che alcuni di essi indiscretamente, ingratamente, e
fors’anche talvolta senza ragione si sono messi, o si metteranno a lacerare.
Quanto alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde, giacché
ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde Città
dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni idiotismi Veneziani, ed a quelle di esse che ho
scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far sentire le
grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in Lingua
Bolognese, parla qui nella volgare Italiana.
Lo stile poi l’ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od
elevato. Questa è la grand’Arte del Comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene
giammai. I sentimenti debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti [...].
(Da La Locandiera, a c. di Marzia Pieri)
L’AUTORE A CHI LEGGE
Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la
più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere
della Locandiera, e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di
questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della
presunzione avvilita, ed una scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute.
Mirandolina fa altrui vedere come s’innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator
delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed
eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l’avversione che aveva il Cavaliere per
essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo
obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui
veggendo scemare la ruvidezza, in lei s’aumenta l’ardire. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi,
e senza ch’ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover’uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe
fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l’arresta, e con uno svenimento l’atterra, lo precipita,
l’avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo,
aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente
egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti loro, e dove fondino la
speranza de’ loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il
petto ignudo ai colpi dell’inimico.
Io medesimo diffidava quasi a principio di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della Commedia,
e pure, condotto dalla natura, di passo in passo, come nel la Commedia si vede, mi è riuscito di darlo vinto
al fine dell’Atto secondo.
Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne,
quando vedono ne’ loro lacci gli amanti, asprarmente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara
crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in
orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene. La
Scena dello stirare allora quando la Locandiera si burla del Cavaliere che languisce, non muove gli animi
a sdegno contro colei, che dopo averlo innamorato l’insulta? Oh bello specchio agli occhi della gioventù!
Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio
pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!...
Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle mie debolezze. Bastami che
alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le donne che oneste sono, giubileranno anch’esse che si
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smentiscano codeste simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere arrossiranno in
guardarmi, e non m’importa che mi dicano nell’incontrarmi: che tu sia maledetto!
Personaggi
Il Cavaliere di Ripafratta
Il Marchese di Forlipopoli
Il Conte d’Albafiorita
Mirandolina, locandiera
Ortensia, comica
Dejanira, comica
Fabrizio, cameriere di locanda
Servitore del Cavaliere
Servitore del Conte
ATTO I. Scena I
Sala di locanda
Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d'Albafiorita
MARCHESE
Fra voi, e me vi è qualche differenza.
CONTE
Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESE
Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE
Per qual ragione?
MARCHESE
Io sono il marchese di Forlipopoli.
CONTE
Ed io sono il conte d’Albafiorita.
MARCHESE
Sì, conte! Contea comprata.
CONTE
Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE
Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE
Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando...
MARCHESE
Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane,
che piace a me.
CONTE
Oh quest’è bella! Voi mi vorreste impedire, che io non amassi Mirandolina? Perché credete, ch’io sia in
Firenze? Perché credete, ch’io sia in questa locanda?
MARCHESE
Oh bene. Voi non farete niente.
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CONTE
Io no, e voi sì?
MARCHESE
Io sì, e voi no, io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE
Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE
Denari?... non ne mancano.
CONTE
Io spendo uno zecchino il giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE
Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE
Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE
Non si sa tutto.
CONTE
Sì, caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti, il giorno.
MARCHESE
A proposito di camerieri; vi è quel cameriere, che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi, che la
locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE
Può essere, che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi, che è morto il di lei padre.
Sola una giovane alla testa d'una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso
trecento scudi.
MARCHESE
Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello, che farò.
CONTE
Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE
Quel che io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama)
CONTE
(Spiantato! povero, e superbo!). (da sé)
Scena II
Fabrizio e detti
FABRIZIO
Mi comandi signore? (al Marchese)
MARCHESE
Signore? Chi ti ha insegnato la creanza?
FABRIZIO
La perdoni.
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CONTE
Ditemi: come sta la padroncina? (a Fabrizio)
FABRIZIO
Sta bene, illustrissimo.
MARCHESE
È alzata dal letto?
FABRIZIO
Illustrissimo sì.
MARCHESE
Asino.
FABRIZIO
Perché, illustrissimo signore?
MARCHESE
Che cos’è questo illustrissimo?
FABRIZIO
È il titolo, che ho dato anche a quell’altro cavaliere.
MARCHESE
Tra lui, e me, vi è qualche differenza.
CONTE
Sentite? (a Fabrizio)
FABRIZIO
(Dice la verità. Ci è differenza; me ne accorgo nei conti). (piano al Conte)
MARCHESE
Di’ alla padrona, che venga da me, che le ho da parlare.
FABRIZIO
Eccellenza sì. Ho fallato questa volta?
MARCHESE
Va bene. Sono tre mesi, che lo sai; ma sei un impertinente.
FABRIZIO
Come comanda, Eccellenza.
CONTE
Vuoi vedere la differenza, che passa fra il Marchese, e me?
MARCHESE
Che vorreste dire?
CONTE
Tieni. Ti dono uno zecchino. Fa’, che anch’egli te ne doni un altro.
FABRIZIO
Grazie, illustrissimo. (al Conte)
Eccellenza... (al Marchese)
MARCHESE
Non getto il mio, come i pazzi. Vattene.
65
FABRIZIO
Illustrissimo signore, il Cielo la benedica. (al Conte)
Eccellenza. (Rifinito. Fuor del suo paese non vogliono esser titoli per farsi stimare, vogliono esser
quattrini). (da sé, parte)
Scena III
Il Marchese ed il Conte
MARCHESE
Voi credete di soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre
monete.
CONTE
Io non apprezzo quel che vale, ma quello, che si può spendere.
MARCHESE
Spendete pure a rotta di collo. Mirandolina non fa stima di voi.
CONTE
Con tutta la vostra gran nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser denari.
MARCHESE
Che denari? Vuol esser protezione. Esser buono in un incontro di far un piacere.
CONTE
Sì esser buoni in un incontro di prestar cento doppie.
MARCHESE
Farsi portar rispetto bisogna.
CONTE
Quando non mancano denari tutti rispettano.
MARCHESE
Voi non sapete quel che vi dite.
CONTE
L’intendo meglio di voi.
Scena IV
Il Cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, e detti.
CAVALIERE
Amici, che cos'è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE
Si disputava sopra un bellissimo punto.
MARCHESE
Il Conte disputa meco sul merito della Nobiltà.
CONTE
Io non levo il merito alla Nobiltà; ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser denari.
CAVALIERE
Veramente, Marchese mio...
66
MARCHESE
Orsù, parliamo d’altro.
CAVALIERE
Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE
Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE
Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo.
CONTE
Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza come
un tributo alla sua nobiltà. Io la spero come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi, che la
questione non sia ridicola?
MARCHESE
Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE
Egli la protegge, ed io spendo. (al Cavaliere)
CAVALIERE
In verità non si può contendere per ragione alcuna, che lo meriti meno. Una donna vi altera, vi scompone?
Una donna? che cosa mai mi convien sentire! Una donna? Io certamente non vi è pericolo, che per le
donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto, che
sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE
In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE
Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile.
MARCHESE
Quando l’amo io, potete credere, che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CONTE
Non averei speso più di mille scudi in pochi mesi, se non conoscessi, che sono bene impiegati.
CAVALIERE
In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all’altre donne?
MARCHESE
Ha un tratto nobile, che incatena.
CONTE
È bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE
Tutte cose, che non vagliono un fico. Sono tre giorni, ch’io sono in questa locanda, e non mi ha fatto
specie veruna.
CONTE
Guardatela, e forse ci troverete del buono.
CAVALIERE
Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. È una donna come l’altre.
67
MARCHESE
Non è come l’altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna,
che sappia unire come questa, la gentilezza, e il decoro.
CONTE
Cospetto di bacco! Io era avvezzo con pochi paoli, a battere a tante porte. Ho speso tanto con costei, e
non ho potuto toccarle un dito.
CAVALIERE
Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante
elle sono.
CONTE
Non siete mai stato innamorato?
CAVALIERE
Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l’ho voluta.
MARCHESE
Ma siete unico della vostra casa; non volete pensare alla successione?
CAVALIERE
Ci ho pensato più volte, ma quando considero, che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una donna,
mi passa subito la volontà.
CONTE
Che volete voi fare delle vostre ricchezze?
CAVALIERE
Godermi quel poco, che ho con i miei amici.
MARCHESE
Bravo, Cavaliere, bravo; ci goderemo.
CONTE
E alle donne non volete dar nulla?
CAVALIERE
Niente affatto. A me non ne mangiano sicuramente.
CONTE
Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile.
CAVALIERE
Oh la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
MARCHESE
Se non la stimate voi, la stimo io.
CAVALIERE
Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.
Scena V
Mirandolina e detti.
MIRANDOLINA
M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori?
MARCHESE
Io vi domando, ma non qui.
68
MIRANDOLINA
Dove mi vuole, Eccellenza?
MARCHESE
Nella mia camera.
MIRANDOLINA
Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa, verrà il cameriere a servirla.
MARCHESE
(Che dite di quel contegno?). (al Cavaliere)
CAVALIERE
(Quello, che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza). (al Marchese)
CONTE
Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia camera. Osservate
questi orecchini. Vi piacciono?
MIRANDOLINA
Belli.
CONTE
Sono diamanti, sapete?
MIRANDOLINA
Oh, gli conosco. Me ne intendo anch'io dei diamanti.
CONTE
E sono al vostro comando.
CAVALIERE
(Caro amico, voi li buttate via). (piano al Conte)
MIRANDOLINA
Perché mi vuol ella donare quegli orecchini?
MARCHESE
Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ più belli al doppio.
CONTE
Questi son legati alla moda. Vi prego riceverli per amor mio.
CAVALIERE
(Oh che pazzo!). (da sé)
MIRANDOLINA
No, davvero, signore...
CONTE
Se non gli prendete, mi disgustate.
MIRANDOLINA
Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor
Conte, gli prenderò.
CAVALIERE
(Oh che forca!). (da sé)
CONTE
(Che dite di quella prontezza di spirito?). (al Cavaliere)
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CAVALIERE
(Bella prontezza! Ve gli mangia, e non vi ringrazia nemmeno). (al Conte)
MARCHESE
Veramente, signor Conte, vi siete acquistato un gran merito. Regalare una donna in pubblico per vanità!
Mirandolina, vi ho da parlare a quattr’occhi fra voi, e me; son cavaliere.
MIRANDOLINA
(Che arsura! Non gliene cascano). (da sé)
Se altro non mi comandano, io me n’anderò.
CAVALIERE
Ehi! padrona. La biancheria, che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio mi provvederò.
(con disprezzo)
MIRANDOLINA
Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza.
CAVALIERE
Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti.
CONTE
Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (a Mirandolina)
CAVALIERE
Eh, che non ho bisogno di essere da lei compatito.
MIRANDOLINA
Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere?
CAVALIERE
Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender
pel servitore. Amici vi sono schiavo. (parte)
70
Giuseppe Parini (Bosisio [oggi Bosisio Parini], Como 1729-Milano 1799)
(Dal Giorno, a c. di Dante Isella)
Il Mattino, prima redazione, vv. 1-64
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Giovin Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
purissimo celeste, o in te del sangue
emendino il difetto i compri onori
e le adunate in terra o in mar ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me Precettor d’amabil Rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
giorni di vita, cui sì lungo tedio
e fastidio insoffribile accompagna
or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
esser debban tue cure apprenderai,
se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
fur di tender gli orecchi a’ versi miei.
Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
devotamente hai visitate, e porti
pur anco i segni del tuo zelo impressi:
ora è tempo di posa. In vano Marte
a sé t’invita; che ben folle è quegli
che a rischio de la vita onor si merca,
e tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la Dea Pallade studj
ti son meno odiosi: avverso ad essi
ti feron troppo i queruli ricinti
ove l’arti migliori, e le scienze
cangiate in mostri, e in vane orride larve,
fan le capaci volte echeggiar sempre
di giovanili strida. Or primamente
odi quali il Mattino a te soavi
cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnìa dell’Alba
innanzi al Sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidìr la notte;
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovàr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il piccol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.
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Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
72
Vittorio Alfieri (Asti 1749-Firenze 1803)
(Dal Saul, a c. di Luca Toschi)
[Dedica]
AL NOBIL UOMO IL SIGNOR ABATE TOMMASO VALPERGA DI CALUSO
Da che la morte mi ha privato dell’incomparabile Francesco Gori a voi ben noto, non mi rimane altro
amico del cuore, che voi. Quindi non mi parrebbe avere, per quanto io ’l possa, perfettamente compita
questa mia tragedia, di cui forse a torto io singolarmente mi vo compiacendo, se ella in fronte non
portasse l’amatissimo vostro nome. La dedico dunque a voi; e tanto più volentieri e di cuore, che voi,
dotto in molte altre scienze, da tutti siete conosciuto dottissimo nelle sacre carte, delle quali, per la
profonda vostra intelligenza della lingua ebraica, bevete al fonte.
Il Saulle perciò, più che ogni altra mia tragedia, si aspetta a voi. Che di buon grado siate per accettarlo,
mercé l’amicizia nostra, non dubito: che degno di voi lo stimiate, ardentemente desidero.
Trento, 27 Ottobre 1784.
Personaggi
SAUL
GIONATA
MICOL
DAVID
ABNER
ACHIMELECH
Soldati israeliti
Soldati filistei
SCENA: il campo degli Israeliti, in Gelboè.
ATTO I. Scena I
DAVID
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Qui freno al corso, a cui tua man mi ha spinto,
onnipossente Iddio, tu vuoi ch’io ponga?
Io qui starò. — Di Gelboè son questi
i monti, or campo ad Israèl, che a fronte
sta dell’empia Filiste. Ah! potessi oggi
morte aver qui dall’inimico brando!
Ma, da Saùl deggio aspettarla. Ahi crudo
sconoscente Saùl! che il campion tuo
vai perseguendo per caverne e balze,
senza mai dargli tregua. E David pure
era già un dì il tuo scudo; in me riposto
ogni fidanza avevi; ad onor sommo
tu m’innalzavi; alla tua figlia scelto
io da te sposo... Ma, ben cento e cento
nemiche teste, per maligna dote,
tu mi chiedevi: e doppia messe appunto
io ten recava... Ma Saùl, ben veggio,
non è in se stesso, or da gran tempo: in preda
Iddio lo lascia a un empio spirto: oh cielo!
miseri noi! che siam, se Iddio ci lascia? —
Notte, su, tosto, all’almo sole il campo
cedi; ch’ei sorger testimon debb’oggi
di generosa impresa. Andrai famoso
tu, Gelboè, fra le più tarde etadi,
che diran: David qui se stesso dava
al fier Saulle. — Esci, Israèl, dai queti
tuoi padiglioni; escine, o re: v’invito
oggi a veder, s’io di campal giornata
so l’arti ancora. Esci, Filiste iniqua;
esci, e vedrai, se ancor mio brando uccida.
73
Scena II
GIONATA, DAVID
GIONATA
Oh! qual voce mi suona? odo una voce,
cui del mio cor nota è la via.
DAVID
Chi viene?...
Deh, raggiornasse! Io non vorria mostrarmi,
qual fuggitivo...
GIONATA
35
Olà. Chi sei? che fai
dintorno al regio padiglion? favella.
DAVID
Gionata parmi... Ardir. — Figlio di guerra,
viva Israèl, son io. Me ben conosce
il Filisteo.
GIONATA
Che ascolto? Ah! David solo
così risponder può.
DAVID
Gionata...
GIONATA
Oh cielo!
40
David,... fratello...
DAVID
Oh gioia!... A te...
GIONATA
Fia vero?...
tu in Gelboè? Del padre mio non temi?
Io per te tremo; oimè!...
DAVID
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60
Che vuoi? La morte
in battaglia, da presso, mille volte
vidi, e affrontai: davanti all’ira ingiusta
del tuo padre gran tempo fuggii poscia:
ma il temer solo è morte vera al prode.
Or, più non temo io, no: sta in gran periglio
col suo popolo il re: fia David quegli,
che in securtade stia frattanto in selve?
Ch’io prenda cura del mio viver, mentre
sopra voi sta degli infedeli il brando?
A morir vengo; ma fra l’armi, in campo,
per la patria, da forte; e per l’ingrato
stesso Saùl, che la mia morte or grida.
GIONATA
Oh di David virtù! D’Iddio lo eletto
tu certo sei. Dio, che t’inspira al core
sì sovrumani sensi, al venir scorta
dietti un angiol del cielo. — Eppur, deh! come
or presentarti al re? Fra le nemiche
squadre ei ti crede, o il finge; ei ti dà taccia
di traditor ribelle.
74
DAVID
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70
75
Ah! ch’ei pur troppo,
a ricovrar de’ suoi nemici in seno
ei mi sforzava. Ma, se impugnan essi
contro lui l’armi, ecco per lui le impugno,
finché sian vinti. Il guiderdon mio prisco
men renda ei poscia; odio novello, e morte.
GIONATA
Misero padre! ha chi l’inganna. Il vile
perfid’Abner, gli sta, mentito amico,
intorno sempre. Il rio demon, che fero
gl’invasa il cor, brevi di tregua istanti
lascia a Saulle almen; ma d’Abner l’arte
nol lascia mai. Solo ei l’udito, ei solo,
l’amato egli è: lusingator maligno,
ogni virtù che la sua poca eccede,
ei glie la pinge e mal sicura, e incerta.
Invan tua sposa ed io, col padre...
DAVID
Oh sposa!
oh dolce nome! ov’è Micol mia fida?
M’ama ella ancor, mal grado il padre crudo?...
GIONATA
Oh! s’ella t’ama?... è in campo anch’essa...
DAVID
Oh cielo!
80
vedrolla? oh gioia! Or, come in campo?...
GIONATA
Il padre
85
ne avea pietade; al suo dolor lasciarla
sola ei non volle entro la reggia: e anch’ella
va pur porgendo a lui qualche sollievo,
benché ognor mesta. Ah! la magion del pianto
ella è la nostra, da che tu sei lungi.
[...]
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130
135
DAVID
M’ami e più che nol merto: ami te Dio
così...
GIONATA
Dio giusto, e premiator non tardo
di virtù vera; egli è con te. Tu fosti
da Samuèl morente in Rama accolto;
il sacro labro del sovran profeta,
per cui fu re mio padre, assai gran cose
colà di te vaticinava: il tuo
viver m’è sacro, al par che caro. Ah! soli
per te di corte i rei perigli io temo;
non quei del campo: ma, dintorno a queste
regali tende il tradimento alberga
con morte: e morte, Abner la dà; la invia
spesso Saulle. Ah! David mio, t’ascondi;
fintanto almen che di guerriera tromba
eccheggi il monte. Oggi, a battaglia stimo
venir fia forza.
75
DAVID
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165
Opra di prode vuolsi,
quasi insidia, celar? Saùl vedrammi
pria del nemico. Io, da confonder reco,
da ravveder qual più indurato petto
mai fosse, io reco: e affrontar pria vo’ l’ira
del re, poi quella dei nemici brandi. —
Re, che dirai, s’io, qual tuo servo, piego
a te la fronte? io di tua figlia sposo,
che di non mai commessi falli or chieggo
a te perdono: io difensor tuo prisco,
ch’or nelle fauci di mortal periglio
compagno, scudo, vittima, a te m’offro. —
Il sacro vecchio moribondo in Rama,
vero è, mi accolse; e parlommi, qual padre:
e spirò fra mie braccia. Egli già un tempo
Saulle amava, qual suo proprio figlio:
ma, qual ne avea mercede? — Il veglio sacro,
morendo, al re fede m’ingiunse e amore,
non men che cieca obbedienza a Dio.
Suoi detti estremi, entro il mio cor scolpiti
fino alla tomba in salde note io porto.
«Ahi misero Saùl! se in te non torni,
sovra il tuo capo altissima ira pende».
Ciò Samuèl diceami. — Te salvo
almen vorrei, Gionata mio, te salvo
dallo sdegno celeste: e il sarai, spero:
e il sarem tutti; e in un Saùl, che ancora
può ravvedersi. — Ah! guai, se Iddio dall’etra
il suo rovente folgore sprigiona!
Spesso, tu il sai, nell’alta ira tremenda
ravvolto egli ha coll’innocente il reo.
Impetuoso, irresistibil turbo,
sterpa, trabalza al suol, stritola, annulla
del par la mala infetta pianta, e i fiori,
ed i pomi, e le foglie.
GIONATA
170
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— Assai può David
presso Dio, per Saùl. Te ne’ miei sogni
ho visto io spesso, e in tal sublime aspetto,
ch’io mi ti prostro a’ piedi. — Altro non dico;
né più dei dirmi. Infin ch’io vivo, io giuro
che a ferir te non scenderà mai brando
di Saùl, mai. Ma, dalle insidie vili...
Oh ciel!... come poss’io?... Qui, fra le mense,
fra le delizie, e l’armonia del canto,
si bee talor nell’oro infido morte.
Deh! chi ten guarda?
DAVID
180
D’Israèle il Dio,
se scampar deggio; e non intera un’oste,
se soggiacer. — Ma dimmi: or, pria del padre,
veder poss’io la sposa? Entrar non debbo
là, fin che albeggi...
GIONATA
185
E fra le piume aspetta
fors’ella il giorno? A pianger di te meco
viene ella sempre innanzi l’alba; e preghi
porgiam qui insieme a Dio, per l’egro padre. —
Ecco; non lungi un non so che biancheggia:
76
forse, ch’ella è: scostati alquanto; e l’odi:
ma, se altri fosse, or non mostrarti, prego.
190
DAVID
Così farò.
Scena III
MICOL, GIONATA
MICOL
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200
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Notte abborrita, eterna,
mai non sparisci?... Ma, per me di gioia
risorge forse apportatore il sole?
Ahi lassa me! che in tenebre incessanti
vivo pur sempre! — Oh! fratel mio, più ratto
di me sorgesti? eppur più travagliato,
certo, fu il fianco mio, che mai non posa.
Come posar poss’io fra molli coltri,
mentre il mio ben sovra la ignuda terra,
fuggitivo, sbandito, infra covili
di crude fere, insidiato giace?
Ahi d’ogni fera più inumano padre!
Saùl spietato! alla tua figlia togli
lo sposo, e non la vita? — Odi, fratello;
qui non rimango io più: se meco vieni,
bell’opra fai; ma, se non vieni, andronne
a rintracciarlo io sola: io David voglio
incontrare, o la morte.
GIONATA
Indugia ancora;
e il pianto acqueta: il nostro David forse
in Gelboè verrà...
MICOL
210
Che parli? in loco,
dov’è Saùl, David venirne?...
GIONATA
215
In loco
dov’è Gionata e Micol, tratto a forza
dal suo ben nato cor fia David sempre.
Nol credi tu, che in lui più assai l’amore
che il timor possa? E maraviglia avresti,
s’ei qui venirne ardisse?
MICOL
Oh ciel! Per esso
io tremerei... Ma pure, il sol vederlo
fariami...
220
225
GIONATA
E s’ei nulla or temesse?... E s’anco
l’ardir suo strano ei di ragion vestisse? —
Men terribil Saùl nell’aspra sorte,
che nella destra, sbaldanzito or stassi
in diffidenza di sue forze; il sai:
or, che di David l’invincibil braccio
la via non gli apre infra le ostili squadre,
Saùl diffida; ma, superbo, il tace.
Ciascun di noi nel volto suo ben legge,
che a lui non siede la vittoria in core.
Forse in punto ei verrebbe ora il tuo sposo.
77
MICOL
Sì, forse è ver: ma lungi egli è;... deh! dove?...
e in quale stato?... Oimè!...
GIONATA
Più che nol pensi,
230
ei ti sta presso.
MICOL
Oh cielo!... a che lusinghi?...
Scena IV
DAVID, MICOL, GIONATA
DAVID
Teco è il tuo sposo.
MICOL
Oh voce!... Oh vista! Oh gioia!...
Parlar... non... posso. — Oh maraviglia!... E fia...
ver, ch’io t’abbraccio?...
DAVID
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240
Oh sposa!... Oh dura assenza!...
Morte, s’io debbo oggi incontrarti, almeno
qui sto tra’ miei. Meglio è morir, che trarre
selvaggia vita in solitudin, dove
a niun sei caro, e di nessun ti cale.
Brando assetato di Saùl, ti aspetto;
percuotimi: qui almen dalla pietosa
moglie fien chiusi gli occhi miei; composte,
coperte l’ossa; e di lagrime vere
da lei bagnate.
MICOL
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250
255
Oh David mio!... Tu capo,
termine tu d’ogni mia speme; ah! lieto
il tuo venir mi sia! Dio, che da gravi
perigli tanti sottraeati, invano
oggi te qui non riconduce... Oh quale,
qual mi dà forza il sol tuo aspetto! Io tanto
per te lontan tremava; or per te quasi
non tremo... Ma, che veggo? in qual selvaggio
orrido ammanto a me ti mostra avvolto
l’alba nascente? o prode mio; tu ignudo
d’ogni tuo fregio vai? te più non copre
quella, ch’io già di propria man tessea,
porpora aurata! In tal squallor, chi mai
potria del re genero dirti? All’armi
volgar guerrier sembri, e non altro.
DAVID
260
In campo
noi stiamo: imbelle reggia or non è questa:
qui rozzo saio, ed affilato brando,
son la pompa migliore. Oggi, nel sangue
de’ Filistei, porpora nuova io voglio
tinger per me. Tu meco intanto spera
nel gran Dio d’Israèl, che me sottrarre
può dall’eccidio, s’io morir non merto.
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265
270
275
GIONATA
Ecco, aggiorna del tutto: omai qui troppo
da indugiar più non parmi. Ancor che forse
opportuno tu giunga, assai pur vuolsi
ir cautamente. — Ogni mattina al padre
venirne appunto in quest’ora sogliamo:
noi spierem, come il governi e prema
oggi il suo torbo umore: e a poco a poco
preparando l’andrem, se lieta è l’aura,
alla tua vista; e in un torrem, che primo
null’uomo a lui malignamente narri
la tua tornata. Appartati frattanto;
che alcun potria conoscerti, tradirti;
ed Abner farti anco svenare. Abbassa
la visiera dell’elmo: infra i sorgenti
guerrier ti mesci, e inosservato aspetta,
ch’io per te rieda, o mandi...
[...]
ATTO II. Scena I
SAUL, ABNER
SAUL
Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto
oggi non sorge il sole; un dì felice
prometter parmi. — Oh miei trascorsi tempi!
Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava
5 Saùl nel campo da’ tappeti suoi,
che vincitor la sera ricorcarsi
certo non fosse.
ABNER
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Ed or, perché diffidi,
o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi
la filistea baldanza? A questa pugna
quanto più tardi viensi, Abner tel dice,
tanto ne avrai più intera, e nobil palma.
SAUL
Abner, oh! quanto in rimirar le umane
cose, diverso ha giovinezza il guardo,
dalla canuta età! Quand’io con fermo
braccio la salda noderosa antenna,
ch’or reggo appena, palleggiava; io pure
mal dubitar sapea... Ma, non ho sola
perduta omai la giovinezza... Ah! meco
fosse pur anco la invincibil destra
d’Iddio possente!... o meco fosse almeno
David, mio prode!
ABNER
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E chi siam noi? Senz’esso
più non si vince or forse? Ah! non più mai
snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando,
che per trafigger me. David, ch’è prima,
sola cagion d’ogni sventura tua...
SAUL
Ah! no: deriva ogni sventura mia
da più terribil fonte... E che? celarmi
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l’orror vorresti del mio stato? Ah! s’io
padre non fossi, come il son, pur troppo!
Di cari figli,... or la vittoria, e il regno,
e la vita vorrei? Precipitoso
già mi sarei fra gl’inimici ferri
scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca
così la vita orribile, ch’io vivo.
Quanti anni or son, che sul mio labro il riso
non fu visto spuntare? I figli miei,
ch’amo pur tanto, le più volte all’ira
muovonmi il cor, se mi accarezzan... Fero,
impaziente, torbido, adirato
sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui;
bramo in pace far guerra, in guerra pace:
entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;
scorgo un nemico, in ogni amico; i molli
tappeti assiri, ispidi dumi al fianco
mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni
terror. Che più? chi ‘l crederia? spavento
m’è la tromba di guerra; alto spavento
è la tromba a Saùl. Vedi, se è fatta
vedova omai di suo splendor la casa
di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco.
E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora
a me, qual sei, caldo verace amico,
guerrier, congiunto, e forte duce, e usbergo
di mia gloria tu sembri; e talor, vile
uom menzogner di corte, invido, astuto
nemico, traditore...
ABNER
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85
Or, che in te stesso
appien tu sei, Saulle, al tuo pensiero,
deh, tu richiama ogni passata cosa!
Ogni tumulto del tuo cor (nol vedi?)
dalla magion di que’ profeti tanti,
di Rama egli esce. A te chi ardiva primo
dir, che diviso eri da Dio? l’audace,
torbido, accorto, ambizioso vecchio,
Samuèl sacerdote; a cui fean eco
le sue ipocrite turbe. A te sul capo
ei lampeggiar vedea con livid’occhio
il regal serto, ch’ei credea già suo.
Già sul bianco suo crin posato quasi
ei sel tenea; quand’ecco, alto concorde
voler del popol d’Israello al vento
spersi ha suoi voti, e un re guerriero ha scelto.
Questo, sol questo, è il tuo delitto. Ei quindi
d’appellarti cessò d’Iddio l’eletto,
tosto ch’esser tu ligio a lui cessasti.
Da pria ciò solo a te sturbava il senno:
coll’inspirato suo parlar compieva
David poi l’opra. In armi egli era prode,
nol niego io, no; ma servo appieno ei sempre
di Samuello; e più all’altar, che al campo
propenso assai: guerrier di braccio egli era,
ma di cor, sacerdote. Il ver dispoglia
d’ogni mentito fregio; il ver conosci.
Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro
è d’Abner lustro: ma non può innalzarsi
David, no mai, s’ei pria Saùl non calca.
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SAUL
David?... Io l’odio... Ma, la propria figlia
gli ho pur data in consorte... Ah! tu non sai. —
La voce stessa, la sovrana voce,
che giovanetto mi chiamò più notti,
quand’io, privato, oscuro, e lungi tanto
stava dal trono e da ogni suo pensiero;
or, da più notti, quella voce istessa
fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona
in suon di tempestosa onda mugghiante:
«Esci Saùl; esci Saulle»... Il sacro
venerabile aspetto del profeta,
che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse
manifestato che voleami Dio
re d’Israèl; quel Samuèle, in sogno,
ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo.
Io, da profonda cupa orribil valle,
lui su raggiante monte assiso miro:
sta genuflesso Davide a’ suoi piedi:
il santo veglio sul capo gli spande
l’unguento del Signor; con l’altra mano,
che lunga lunga ben cento gran cubiti
fino al mio capo estendesi, ei mi strappa
la corona dal crine; e al crin di David
cingerla vuol: ma, il crederesti? David
pietoso in atto a lui si prostra, e niega
riceverla; ed accenna, e piange, e grida,
che a me sul capo ei la riponga... — Oh vista!
Oh David mio! tu dunque obbediente
ancor mi sei? genero ancora? e figlio?
e mio suddito fido? e amico?... Oh rabbia!
Tormi dal capo la corona mia?
Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema...
Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera... —
Ahi lasso me! ch’io già vaneggio!...
ABNER
Pera,
120
David sol pera: e svaniran con esso,
sogni, sventure, vision, terrori.
[...]
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Ugo Foscolo (Zante [Grecia] 1778-Londra [Inghilterra] 1827)
(Dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, a c. di Giovanni Gambarin)
AL LETTORE
Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla
memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o
Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci,
darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.
LORENZO ALDERANI
Parte I.
1
Da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797.
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci
resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo
so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? consola mia madre:
vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più
feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio
sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti
sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue
degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto
tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio
nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie
ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
2
13 Ottobre.
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch’io
aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi
perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con l’esilio? Oh quanti de’
nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che potremmo aspettarci noi se
non se indigenza e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite
offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in Italia? terra prostituita premio sempre della
vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere
d’ira? Devastatori de’ popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente
disperando di vendicarmi mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime
strida della mia patria.
E questi altri? — hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l’oro quello che stolidamente e
vilmente hanno perduto con le armi. — Davvero ch’io somiglio un di que’ malavventurati che spacciati
morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi
[di] vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché
farci vedere e sentire la libertà, e poi ritorcela per sempre? e infamemente!
3
16 Ottobre.
Or via, non se ne parli più: la burrasca pare abbonacciata; se tornerà il pericolo, rassicurati, tenterò ogni
via di scamparne. Del resto io vivo tranquillo; per quanto si può tranquillo. Non vedo persona del mondo:
vo sempre vagando per la campagna; ma a dirti il vero penso, e mi rodo. Mandami qualche libro.
Che fa Lauretta? povera fanciulla! io l’ho lasciata fuori di sè. Bella e giovine ancora, ha pur inferma la
ragione; e il cuore infelice infelicissimo. Io non l’ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per
avere ella scelto me solo consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi errori e
i suoi martirj — davvero ch’io l’avrei fatta volentieri compagna di tutta la mia vita. La sorte non ha
voluto; meglio così, forse. Ella amava Eugenio, e l’è morto fra le braccia. Suo padre e i suoi fratelli hanno
dovuto fuggire la loro patria, e quella povera famiglia destituta di ogni umano soccorso è restata a vivere,
chi sa come! di pianto. Eccoti, o Libertà, un’altra vittima. Sai ch’io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come
82
un ragazzo? — pur troppo! ho avuto sempre a che fare con de’ tristi; e se alle volte ho incontrato una
persona dabbene ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio.
4
18 Ottobre.
Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche
altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità
volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante
genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non
avrò assai da lodarmi e né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso — umana razza!
5
23 Ottobre.
Se m’è dato lo sperare mai pace, l’ho trovata, o Lorenzo. Il parroco, il medico, e tutti gli oscuri mortali di
questo cantuccio della terra mi conoscono sin da fanciullo e mi amano. Quantunque io viva fuggiasco, mi
vengono tutti d’intorno quasi volessero mansuefare una fiera generosa e selvatica. Per ora io lascio
correre. Veramente non ho avuto tanto bene dagli uomini da fidarmene così alle prime: ma quel menare la
vita del tiranno che freme e trema d’essere scannato a ogni minuto, mi pare un agonizzare in una morte
lenta, obbrobriosa. Io seggo con essi a mezzodì sotto il platano della chiesa leggendo loro le vite di
Licurgo e di Timoleone. Domenica mi s’erano affollati intorno tutti i contadini, che, quantunque non
comprendessero affatto, stavano ascoltandomi a bocca aperta. Credo che il desiderio di sapere e ridire la
storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe illudersi e prolungare la vita
unendoci agli uomini ed alle cose che non sono più, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la
immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. Con che passione un vecchio
lavoratore mi narrava stamattina la vita de’ parrochi della villa viventi nella sua fanciullezza, e mi
descriveva i danni della tempesta di trentasett’anni addietro, e i tempi dell’abbondanza, e quei della fame,
rompendo il filo ogni tanto, ripigliandolo, e scusandosi dell’infedeltà! Così mi riesce di dimenticarmi
ch’io vivo.
È venuto a visitarmi il signore T. che tu conoscesti a Padova. Mi disse che spesso gli parlavi di me, e che
jer l’altro glien’hai scritto. Anche egli s’è ridotto in campagna per evitare i primi furori del volgo,
quantunque a dir vero non siasi molto ingerito ne’ pubblici affari. Io n’aveva inteso parlare come d’uomo
di colto ingegno e di somma onestà: doti temute in passato, ma adesso non possedute impunemente. Ha
tratto cortese, fisonomia liberale, e parla col cuore. V’era con lui un tale; credo, lo sposo promesso di sua
figlia. Sarà forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buona notte.
6
24 Ottobre.
L’ho pur una volta afferrato nel collo quel ribaldo contadinello che dava il guasto al nostro orto, tagliando
e rompendo tutto quello che non poteva rubare. Egli era sopra un pesco, io sotto una pergola: scavezzava
allegramente i rami ancora verdi perché di frutta non ve ne erano più: appena l’ebbi fra le ugne, cominciò
a gridare: Misericordia! Mi confessò che da più settimane facea quello sciagurato mestiere perché il
fratello dell’ortolano aveva qualche mese addietro rubato un sacco di fave a suo padre. — E tuo padre
t’insegna a rubare? — In fede mia, signor mio, fanno tutti così. — L’ho lasciato andare, e scavalcando una
siepe io gridava: Ecco la società in miniatura; tutti così.
7
26 Ottobre.
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio
ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di
suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a
tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È un amico di Lorenzo,
le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signore T.:
m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo
per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla
stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua
moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo
tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi.
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Io tornava a casa col cuore in festa. — Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in
noi tristi mortali e tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io
sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è tutt’uno?
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28 Ottobre.
Taci, taci: — vi sono de’ giorni ch’io non posso fidarmi di me: un demone mi arde, mi agita, mi divora.
Forse io mi reputo molto; ma e’ mi pare impossibile che la nostra patria sia così conculcata mentre ci resta
ancora una vita. Che facciam noi tutti i giorni vivendo e querelandoci? insomma non parlarmene più, ti
scongiuro. Narrandomi le nostre tante miserie mi rinfacci tu forse perché io mi sto qui neghittoso? e non
t’avvedi che tu mi strazi fra mille martirj? Oh! se il tiranno fosse uno solo, e i servi fossero meno stupidi,
la mia mano basterebbe. Ma chi mi biasima or di viltà, m’accuserebbe allor di delitto; e il savio stesso
compiangerebbe in me, anziché il consiglio del forte, il furore del forsennato. Che vuoi tu imprendere fra
due potenti nazioni che nemiche giurate, feroci, eterne, si collegano soltanto per incepparci? e dove la loro
forza non vale, gli uni c’ingannano con l’entusiasmo di libertà, gli altri col fanatismo di religione: e noi
tutti guasti dall’antico servaggio e dalla nuova licenza, gemiamo vili schiavi, traditi, affamati, e non
provocati mai né dal tradimento, né dalla fame. — Ahi, se potessi, seppellirei la mia casa, i miei più cari e
me stesso per non lasciar nulla nulla che potesse inorgoglire costoro della loro onnipotenza e della mia
servitù! E’ vi furono de’ popoli che per non obbedire a’ Romani ladroni del mondo, diedero all’incendio
le loro case, le loro mogli, i loro figli e sè medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro
patria la lor sacra indipendenza.
[...]
(Dalle Odi e sonetti, a c. di Francesco Pagliai)
[Dedica]
A GIO. BATTISTA NICCOLINI FIORENTINO
A te, giovinetto di belle speranze, io dedico questi versi: non perché ti sieno di esempio, ché né io
professo poesia, né li stampo cercando onore, ma per rifiutare così tutti gli altri da me per vanità giovenile
già divolgati. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia, e sprone, ad onta delle tue disavventure,
alle lettere, veggendo che tu sei caro a chi le coltiva, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E
la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazione gl'ingegni sorgenti
alla gloria.
Milano 2 aprile 1803.
A LUIGIA PALLAVICINI CADUTA DA CAVALLO
6
I balsami beati
per te le Grazie apprestino,
per te i lini odorati
che a Citerea porgeano
quando profano spino
le punse il piè divino,
12
quel dì che insana empiea
il sacro Ida di gemiti,
e col crine tergea
e bagnava di lagrime
il sanguinoso petto
al ciprio giovinetto.
18
Or te piangon gli amori,
te fra le dive Liguri
regina e diva! e fiori
votivi all’ara portano
d’onde il grand’arco suona
del figlio di Latona.
84
24
E te chiama la danza
ove l’aure portavano
insolita fragranza,
allor che a’ nodi indocile
la chioma al roseo braccio
ti fu gentile impaccio.
30
Tal nel lavacro immersa,
che fiori, dall’inachio
clivo cadendo, versa,
Palla i dall’elmo liberi
crin su la man che gronda
contien fuori dell’onda.
36
Armoniosi accenti
dal tuo labbro volavano,
e dagli occhi ridenti
traluceano di Venere
i disdegni e le paci,
la speme, il pianto, e i baci.
42
Deh! perchè hai le gentili
forme e l’ingegno docile
vòlto a studj virili?
Perchè non dell’Aonie
seguivi, incauta, l’arte,
ma ludi aspri di Marte?
48
Invan presaghi i venti
il polveroso agghiacciano
petto e le reni ardenti
dell’inquieto alipede,
ed irritante il morso
accresce impeto al corso.
54
Ardon gli sguardi, fuma
la bocca, agita l’ardua
testa, vola la spuma,
ed i manti volubili
lorda e l’incerto freno,
ed il candido seno;
60
e il sudor piove, e i crini
sul collo irti svolazzano,
suonan gli antri marini
allo incalzato scalpito
della zampa che caccia
polve e sassi in sua traccia.
66
Già dal lito si slancia
sordo ai clamori e al fremito,
già già fino alla pancia
nuota… e ingorde si gonfiano
non più memori l’acque
che una Dea da lor nacque.
72
Se non che il re dell’onde
dolente ancor d’Ippolito
surse per le profonde
vie dal Tirreno talamo,
e respinse il furente
col cenno onnipotente.
85
78
Quei dal flutto arretrosse
ricalcitrando e, orribile!
sovra l’anche rizzosse;
scuote l’arcion, te misera
su la petrosa riva
strascinando mal viva.
84
Pera chi osò primiero
discortese commettere
a infedele corsiero
l’agil fianco femineo,
e aprì con rio consiglio
nuovo a beltà periglio!
90
Chè or non vedrei le rose
del tuo volto sì languide,
non le luci amorose
spiar ne’ guardi medici
speranza lusinghiera
della beltà primiera.
96
Di Cintia il cocchio aurato
le cerve un dì traeano,
ma al ferino ululato
per terrore insanirono,
e dalla rupe etnea
precipitar la Dea.
102
Gioian d’invido riso
le abitatrici olimpie,
perchè l’eterno viso
silenzioso, e pallido
cinto apparia d’un velo
ai conviti del cielo:
108
ma ben piansero il giorno
che dalle danze efesie
lieta facea ritorno
fra le devote vergini,
e al ciel salia più bella
di Febo la sorella.
[1 – Alla sera]
4
Forse perché della fatal quiete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
8
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
11
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
14
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
86
[9 – A Zacinto]
4
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
8
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
11
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
14
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
[10 – In morte del fratello Giovanni]
4
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
8
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
11
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.
14
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
87
Alessandro Manzoni (Milano 1785-ivi 1873)
(Dai Promessi Sposi [ed. 1840])
Frontespizio, Introduzione e Capitolo I.
88
Giacomo Leopardi (Recanati, Macerata 1798-Napoli 1837)
(Dai Canti, a c. di Lucio Felici)
13. LA SERA DEL DÌ DI FESTA
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Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
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(Dalle Operette Morali, a c. Paolo Ruffilli)
2. DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE
Ercole. Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco
di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto
che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante. Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di Giove. Ma il mondo è
fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e se non fosse
che la volontà di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la
porrei sotto l’ascella o in tasca, o me l’attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n’andrei per le
mie faccende.
Ercole. Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata
a uso delle pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia per fare quella
grandissima navigazione cogli Argonauti: ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di
prima.
Atlante. Della causa non so. Ma della leggerezza ch’io dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che
tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.
Ercole. In fe’ d’Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è quest’altra novità
che vi scuopro? L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e
metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un
oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.
Atlante. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch’egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare
ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto,
aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi
seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale
che prima era, si fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si
moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si
abbarbichi.
Ercole. Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di Epimenide, che
durò un mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo, che l’anima gli usciva del corpo ogni volta che
voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli amici per
finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era
disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un’altra a pigione, o andare
all’osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o benefattore, pensando
che egli sia morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante. Bene, ma che modo?
Ercole. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e
che io non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto
assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini,
che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla
percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch’io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla
con questa sferuzza. Mi dispiace ch’io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio
ed io per giocare in casa di Giove o nell’orto: ma le pugna basteranno.
Atlante. Appunto; acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo,
colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.
Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi
anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l’animo di spopolare il cielo e
la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino
all’ultima soffitta del cielo empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare
cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba,
pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe
le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco e di far bene al mondo, e non
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come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio
quando salì sul carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre
belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di
luce confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di
festa. In somma, della collera di mio padre non te ne dare altro pensiero, che io m’obbligo, in ogni caso, a
rifarti i danni; e senza più cavati il cappotto e manda la palla.
Atlante. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei gagliardo e coll’arme, e io
disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri
bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e
l’Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto
che ne nascesse una guerra.
Ercole. Per la parte mia non dubitare.
Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perché l’è guasta la figura.
Ercole. Via dàlle un po’ più sodo, ché le tue non arrivano.
Atlante. Qui la botta non vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch’è leggera.
Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.
Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d’in sul pugno
più che un popone.
Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.
Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei
venuto.
Ercole. Così falsa e terra terra me l’hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m’avessi voluto
fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si
vede muovere un’anima e mostra che tutti dormano come prima.
Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la
clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione.
Ercole. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci
come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si
dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre
una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini
sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso.
Atlante. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a
scolparmi con tuo padre, ché io m’aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante
in Etna.
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