Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Gli “Invadenti”
“INVADENTI” sono i ricordi. Tanto più sono
lontani nel tempo, più si presentano insistenti
e improvvisi. Di giorno come di notte. Talvolta
in sogno, che l’alba non cancella.
... Sono fluttuanti. Emergono, riemergono,
scompaiono, si mischiano, si sovrappongono.
Come carte da gioco.
Il gioco dei ricordi. Subdolo e raffinato
insieme...

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Un flash per una vita

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Un flash per una vita
In quella fine d’anno (si era di novembre) s’andava veloci verso un inverno prevedibilmente
duro e già nelle campagne, e ancor più nelle valli padane, le avvisaglie del gelo avevano
fatto comparsa.
Nelle lunghe serate era il filò nelle stalle a tener banco alla luce fioca della lampada ad olio,
con lo stoppino unto e corto. Chiacchierare di uomini, fatto di pettegolezzi e prospettive,
intrecciando paglia dura per sedie e divani; talvolta spannocchiando del granoturco da
semina, con le donne a dare una mano.
Ai margini di quell’unica fonte di luce, una giovane sposa, bruna di chioma e di pelle,
sferruzzava in silenzio, sostando ogni tanto per accarezzarsi il ventre dove qualcosa scalciava,
avido di movimento e di vita. I lineamenti marcati del viso non tradivano emozioni. Soltanto
gli occhi sfavillavano a tratti, quasi a dar luce alla penombra. Nessuno badava a lei, anche
perché figliare - nella bassa padana - era cosa di ordinaria amministrazione. E il partorire in
casa era altrettanto naturale. Magari sul tavolaccio di cucina, con l’acqua bollente, le fasce
pronte e pulite e la levatrice quando c’era.
... Un debole gemito della sposa fece voltare la testa, per un attimo soltanto, alla “rossa”
che ruminava lentamente, sdraiata sulla posta soffice di paglia. I suoi grandi occhi tondi
parvero inviare un battito di solidarietà, e lo schiocco della coda un incitamento...
§§§
Il nome del dottore, gridato forte dalla strada nella notte novembrina ovattata dalla neve,
sembrò non raggiungere l’obiettivo di un medico ormai non più giovane, che nemmeno da
mezz’ora si era infilato nel letto. E quando la moglie già stava buttandosi addosso qualcosa
per aprire la finestra e rispondere “no, il dottore non c’è”, ben forte s’udì di nuovo il
richiamo dalla strada.
Al dottore fu facile, a finestra socchiusa, capire che quella voce era di Pietro da San Martino
e che qualcosa doveva essere successo. Il “vengo subito” di risposta echeggiò nella stanza
e uscì all’aperto, mentre al buio cercava alla meglio i grossi calzoni di fustagno, con le
mutande di lana lunghe lasciate già incorporate allo spogliarsi.
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Così due figure intabarrate e col respiro forte andarono nella notte, fra la neve fitta e
corposa, sul lungo stradone che da Mirandola porta a San Martino, con Pietro davanti a far
da pista e il dottor Pignatti dietro, badando di non mettere i piedi fuori dalle orme.
... L’alba non era lontana quando, nella grande cucina di una casa rurale, satura di umido
calore, venne posto mano al miracolo eterno della natività. Ma tutto facile non fu se poi si
raccontò in giro che una mamma e “uno schizzo” si erano salvati solo perché - mi spiegarono
- la vita era fatta anche così.
§§§
In verità, la faccenda, così come l’ho sentita, mi fu raccontata per intero a rate da
Sofia già in tarda età, perciò non garantisco che tutto sia uno specchio. D’accordo: agli
avvenimenti partecipai in prima persona, ma era come se non ci fossi.
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§§§
Non erano trascorsi due mesi da quella notte di novembre che - ricordavano in giro - già
alloggiavo in quel di Ravenna in via Gamba. Ci sarei restato con i miei per alcuni anni.
Confusamente i ricordi cominciano quando presi entità di un palazzone in una tranquilla via
della città vecchia: i giochi con i gemelli Pino e Pina, il rincorrersi per le scale e nel cortile,
il chiasso con altri bambini che si chiamavano tutti “burdél”, il transitare alto nel cielo di
un dirigibile; la nauseante somministrazione giornaliera di un cucchiaio di olio di fegato di
merluzzo, il grammofono a tromba, il canto gracchiato di un certo Caruso e la “marcia reale
eseguita dalla banda dei carabinieri”.
La bandiera tricolore con uno stemma rosso e blu in campo bianco esposta al balcone in
talune giornate.
La grande bicicletta del babbo con altrettanto grande manubrio e un coso a leva che
chiamavano freno e che, a tirarlo, si appoggiava sulla ruota davanti bloccandola. Legato sul
manubrio uno scatolotto tondo che, spingendo una levetta, faceva drin drin.
Poi ricordo il mio piccolo lettino di ferro dipinto di bianco, un vaso di terracotta con il
manico sistemato sotto il lettone grande, il cesso in condominio sul pianerottolo della scala
(ideale sede per il gioco a nascondersi tra noi bambini, anche se il vano era piuttosto
piccolo) dove tutti sedevano su una specie di tronetto con un buco tondo nel mezzo e una
ciambella di paglia sopra per rendere confortevole il sostare. Alla bisogna però, quasi tutti
si portavano la “ciambella” propria.
§§§
A pranzo non mancava il bollito di manzo domenicale e alla fine compariva anche la
ciambella dolce con un mezzo bicchiere di albana che facevano assaggiare anche a me. Ma
non mi piaceva.
Sul tardi della giornata, specie nella stagione estiva, si andava ancora nella grande piazza,
tra una marea di piccioni saltellanti che io e altri ragazzi rincorrevamo. Incontravamo anche
carabinieri a coppie con un pennacchio blu e rosso sul cappello. Non di rado si faceva
sosta al chiosco dei gelati, anche se i miei, quasi sempre, ripiegavano sulla granatina: un
bicchiere piccolo alla menta perché “troppo ghiaccio può far male”.
La sera a casa, in cucina, mortadella con la piadina calda. Poi a letto a luce spente perché
le zanzare femmine - a Ravenna - erano grosse e sempre affamate.
Anche d’inverno s’andava a letto subito perché la stufa “mangiava carbone del treno” e non
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si sapeva mai se la scorta sarebbe bastata per tutto l’inverno. Il babbo di mattino presto
doveva andare in un ufficio che si chiamava “Genio Civile”, un titolo che, con quel “genio”
incorporato, a me faceva molta impressione.
Già a primavera era bello andare col vaporetto lungo il Candiano che, dalla darsena di
Ravenna, arrivava a Porto Corsini. Belli i pescatori e le loro barche, con vele colorate e reti
gonfie di sarde, sogliole e cefali. Bella la gente romagnola di quell’epoca, simpaticamente
rumorosa, facile allo scherzo e all’imprecazione classista.
Belli, in piazza d’armi, i soldati a far manovre marciando e gli ufficiali a cavallo con fascia
azzurra a tracolla e la sciabola sguainata che luccicava al sole. Per il loro rientro in caserma
s’accompagnava la banda militare e talvolta eravamo in tanti a seguirla cantando “Tripoli
bel suol d’amore”. Una volta successe che un uomo gridò qualcosa verso i soldati e d’attorno
si accese una zuffa. Domandai al babbo il perché e lui mi disse che erano gli anarchici che
si picchiavano con i nazionalisti.
§§§
Più di tutto mi piaceva giocare con la Pina nella sua casa, che confinava con la mia, perché
era più spaziosa e con tante stanze. E con anche un balcone che guardava sulla via. E mi
piaceva la mamma della Pina perché era alta, piuttosto bionda e formosa. E qualche volta
mi faceva una carezza.
Mi piaceva quando si andava alle feste del “Circolo Unione” perché mangiavamo le paste
alla crema e bevevo la gazzosa. Le coppie, ballando, qualche volta si facevano l’inchino e
la donna una piroetta. Ma più ancora mi piaceva quando qualche signora mi prendeva sulle
ginocchia ed io, guardando oltre la scollatura spesso generosa, sentivo morbido un seno
odoroso di cipria buona dove era bello appoggiarvi il volto e chiudere gli occhi.
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§§§
La sera - quella sera - era serena ma fredda. Nella piazzetta di Ravenna appena alle spalle
di quella grande, ardeva un falò alto di fiamme con faville a spargersi d’attorno e verso il
cielo.
Dalle finestre di un palazzo, alcuni buttavano fuori cartame e sedie ad alimentare il fuoco.
Tutt’attorno era un gran vociare e ridere di gente. Babbo mi teneva stretto in braccio e
mamma piangeva piano. Poi arrivarono dei soldati con un fucile lungo ed uno strano coso in
testa che pareva di ferro. Da qualche parte si sentirono applausi, da altre fischi.
Una tromba squillò e tutti presero a scappare.
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§§§
Qualche mese dopo, finito l’inverno, andammo in campagna dal nonno a San Martino Carano
dove feci nuove amicizie. Presto dimenticai la Pina, Ravenna, il suo fascinoso Candiano e di
quando (in certe sere) con babbo e mamma andavamo davanti al Teatro Alighieri a vedere
la gente che entrava e quelli che a teatro vi arrivavano in carrozza.
In autunno, dopo la vendemmia dell’uva d’oro, con i miei mi trasferii direttamente da
Mirandola a Modena senza passare da Ravenna che rividi più volte soltanto tant’anni dopo
quando all’andare della mia vita non diceva più niente se non fascinosi sentimenti per le
sue antiche bellezze.
Paradossalmente si può dire che così ebbe inizio anche la mia vita notevolmente nomade
che sempre mi ha accompagnato secondo le vicende delle mie attività, delle mie vittorie o
delle mie sconfitte. Un destino come tanti…
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§§§
Si andò presto in campagna dai nonni materni quell’anno perché mamma aveva sofferto
durante l’inverno di non so quale disturbo e il medico Agnini consigliò l’abbandono anticipato
delle pesanti arie di città per quelle e più familiari della campagna mirandolese. Senza
escludere che il pane bianco cotto nel forno a legna dietro la casa, il brodo di cappone
con mano e il lambrusco fatto in casa da zio Giovanni avrebbero potuto giocare un ruolo
piuttosto importante.
Trovai e ritrovai bambini come me che, prima timidi e poi lieti, mi fecero festa. Una modesta
raccolta del “Corriere dei Piccoli “ mi rendeva importante. Intrecciai in breve le conoscenze,
spingendo il campo delle nostre imprese fino alla Madonna della via di Mezzo lungo l’argine
del Diversivo, facendoci notare e non di rado cacciare dai coloni e dai bovai.
Al Gino, all’Elvira, a suo fratello Antonio, a mio cugino Anselmo s’aggiunsero la Santina e
suo fratello più piccolo Renzo e, spesso, la Rosetta con suo fratello Michele, tutti figli di
coltivatori che abitavano nella zona di confine tra San Martino e San Giacomo.
Si andava per i campi caccia di talpe, lungo i fossi a far saltare le rane o a scoprire le
lumache oppure i grilli giganti. Di nascosto andavamo anche alla stazione di monta del
Castello, attenti a non farci scorgere, perché allora erano fughe allegre e pazze in più
direzioni con le donne e gli uomini anziani a urlarci dietro parolacce dialettali.
Ma il più divertente per noi ragazzi era andare di pomeriggio per i fienili a scovar uova, fra
le grida stridule delle vecchie rimaste a “badare la casa” mentre gli altri erano nei campi
a sudare con zappe e falci o con i bovi da tiro all’aratro, mescolando al lavoro sotto il sole
spietato richiami e muggiti e non di rado imprecazioni istintive.
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§§§
La prima “cosa” che mi colpì abitando a Modena, in un piccolo appartamento nella zona
di Sant’Agostino lungo le vecchie mura, fu il vedere dall’alto, nei pomeriggi festivi, molta
gente vociare dentro un recinto poco erboso. In esso, due gruppi di giovanotti, con maglie
diverse e mutande corte. Rincorrevano a calci una grossa palla, cerando di mandarla dentro
uno strano rettangolo delimitato da “pali” verniciati di bianco.
Tra i pali un uomo, che immancabilmente si buttava per terra per acchiappare la palla
quando quella gli arrivava vicino.
Mio padre vicino a me sentenziava che erano “cose da matti che non dureranno”.
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§§§
Verso l’autunno di quell’anno andai per la prima volta a scuola. Un grembiulino nero con
tanti bottoni sul retro e un fiocco bianco al collo a far da bavero. Una borsa di stoffa grigia a
tracolla cucita dalla mamma con dentro un quaderno a righe, il sillabario, una scatoletta di
legno con cannuccia e pennini. Poi un cestino quadrato di paglia e dentro un pezzo di pane,
una mela, talvolta un biscotto. Di rado una caramella.
Nonostante mamma ci tenesse, non feci amicizie. Com’ero esuberante in campagna dai
nonni, così ero solitario e facile al pianto in quella scuola che non mi piaceva. Un mondo
che a me - bambino - non diceva niente.
Senza amicizie, senza entusiasmi, senza curiosità, senza nemmeno quei piccoli litigi facili
fra i bambini, fui a lungo un “isolato”, com’erano chiamati in quei tempi certi corridori in
bicicletta.
Di quel tempo (di quella scuola) ricordo con vivezza una serie di immagini statiche proiettate
in una sala buia su un lenzuolo bianco attraverso le lenti di una lanterna che chiamavano
“magica”. Più avanti nel tempo le figure non erano più statiche ma si muovevano tremolando
e facevano ridere. Spiegarono che quello era il cinematografo. Non mi sforzai per capirne
di più.
Qualche interesse lo provavo solo nel tentare di scrivere le vocali.
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§§§
Babbo e mamma mi hanno dato due fratelli: Dario (che si doveva chiamare Achille) e
Pietro (in famiglia chiamato Piero). Il primo è diventato uomo di legge affermato e di cui
segretamente ne invidio il sapere, il secondo un Eroe. La sua dedizione al dovere, il suo
amore per la Bandiera ne hanno deciso il destino. Nel cielo del Mediterraneo “assalito dice la motivazione ufficiale del bollettino di guerra - da preponderanti forze avversarie,
è stato... “.
Piero ebbe la fortuna di ricevere un grosso dono: quello di saper affrontare con rara forza
d’animo le avversità e il dolore fisico. Lo ricordo bambino: biondo, esuberante, impetuoso,
briccone. Stava sempre - come si dice - nel mezzo. Quelli più grandicelli si mettevano in
qualche impresa spericolata? Lui era con loro. Si buttavano dall’alto sull’ammucchiata di
fieno nel gioco del volo dell’angelo? Lui si buttava. Rimediò una volta una sanguinante
fessura in testa: disse che “non era niente” mentre gli suturavano a freddo la ferita e dagli
occhi gli scendevano lacrime secche. In piscina, mentr’io tra il sì e il no mi bagnavo appena
per vergognosi timori, lui salì sul trampolino più alto e si buttò. Ripescato per il rotto della
cuffia, a chi gli domandava perché l’aveva fatto, rispose candido che “si buttavano tutti”.
Veniva talvolta con me alla dottrina perché così, nel frattempo, mamma “poteva riposarsi”.
Però finiva sempre col disturbare un poco tutti e una volta lo rimproverò perfino don Alfonso
con un “almeno sta fermo in quell’angolo visto che non impari niente”. Ci restò male e lì
per lì lo perdemmo di vista. Poi la campana di mezzo prese a rintoccare prima lenta e poi
allegra come a gioire. Accorremmo e lo trovammo che, avvinghiato alla corda, andava su e
giù con i rintocchi. Perché lo aveva fatto? Semplicemente – disse - perché non era vero che
non sapeva far niente.
Un giorno rientrò a casa inzuppato d’acqua e con un piccolo pesciolino rosso in mano.
Lo aveva “pescato” nella vasca del giardino comunale. “E’ morto” disse mamma e lui,
tranquillo: “Domani ne vado a prendere un’altro”.
Cominciò presto - Piero – a “mettere le ali”. Poco più che ragazzo già si dava da fare a
Pavullo con il “volo a vela” (come si diceva a quei tempi), veleggiando su certi trabiccoli da
sembrare - oggi - impossibili. Certamente emerse, se ebbe gli elogi di Italo Balbo. Ma il suo
destino era l’aereo, quello vero, da cacciatore. Il Macchi col cavallino rampante, che nella
storia dell’ardimento aereo ha lasciato in pace e in guerra tracce profonde, è stata la sua
più importante conquista.
Amava dedicarsi - in contemporanea - al pugilato e nella categoria dei pesi medi molte
furono le sue vittorie anche prima del limite. Fino a quando uscì di casa perché arruolato
dagli aerei, il suo “secondo” fu papà. In un torneo militare, tra pugili di varie nazioni, perse
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l’incontro di finale ai punti solo perché l’ultima ripresa la sostenne soltanto difendendosi
alla meglio, avendo la spalla destra pressoché slogata.
Anche il paracadutismo (con il paracadute ancora agli albori) lo trovò subito ai cimenti. Il
perfezionismo odierno porta di certo anche la sua impronta, attraverso le sue esperienze
vissute in prima persona.
Talune cronache del tempo dicono che “portò l’ala italiana nei cieli di mezza Europa”.
Gareggiò e combatté in Spagna, nelle Afriche, in Germania. Comandante di squadriglia –
recitano le motivazioni - seppe in ogni circostanza superare difficoltà considerate impossibili,
tanta era la perizia, la determinazione, che sapeva mettere nei compiti a lui affidati.
Hanno anche detto che - dall’avversario - ebbe l’onore delle armi. Ma lui, ormai, veleggiava
nel silenzioso mondo degli Eroi. A noi fratelli sono rimaste le sue insegne, le medaglie (alle
quali abbiamo unito le tre al valore guadagnate da nostro padre ai suoi tempi), il frammento
di un’elica. E una foto con dedica particolare di Amedeo d’Aosta.
§§§
Ci è rimasto - incancellabile - il suo sorriso. Aveva ventisei anni quando venne abbattuto nel
cielo di Malta.
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§§§
Per quella piccola città anche “quel funerale” rappresentò l’avvenimento del giorno. C’era
la banda in divisa, gli ottoni ornati di crespo nero e la “catuba” a scandire il passo lento
nella folla in corteo. C’era il prete col mantello nero e, davanti a tutti il Gino, a reggere
il Crocefisso in cima ad una pertica. Al cimitero a voce alta, uno disse che era morto “un
cittadino esemplare” e disse anche altre cose che a me fanciullo sfuggivano.
Qualche occhio rosso di commozione o forse per il tedio di un sole ancora alto, salutò
l’orazione del congedo assieme ad un singhiozzante gemito di donna già canuta, chiusa nel
nero del suo dolore misto a sorpresa per quanto gli accadeva d’attorno. E fu quella - credo
- la prima e forse unica volta che vidi piangere mia nonna Sofia. Il pianto di una vecchia dal
cuore ancora bambino, non tanto crucciata dagli anni quanto da un clamore d’occasione a
lei in gran parte sconosciuto, vissuta come visse all’ombra di un uomo esuberante, franco,
fedele, amico di tutti, fra gente non troppo incline per tradizione a concedere fiducia.
Con la morte di mio nonno non cambiò granché a San Martino, perché se la terra accoglie i
morti pretende anche il continuo amore dei vivi. Ma nella casa ci fu un gran vuoto, anche se
zio Tullio faceva il possibile per non darlo a sentire.
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§§§
Per la salvaguardia di quali tradizioni mio padre mi comandò, non dico a studiare musica,
ma a dedicarmi alla tromba, non l’ho mai capito.
Lo capì invece, e subito, il paziente prof. Torelli, al quale ero stato affidato presso la Scuola
di Musica “Orazio Vecchi”, per farmi intendere la convenienza di passare a qualche altro
strumento quale il corno o il clarino, oppure al flauto, qualora il trombone non fosse di mio
gradimento.
Per me - diretto interessato - rispose mio padre col tono fermo da ex carabiniere di Re
Umberto I, secondo cui “suonatori di cornetta non si nasce: si diventa” che non lasciò
scampo alle alternative.
Eppure la tromba mi fu compagna paziente e stonata per un quindicennio della mia prima
gioventù, puntigliosamente rendendomi protagonista di frane musicali che oggi (ma siamo
verso il 2000) potrebbero apparire di apertura verso nuove prospettive nel campo delle
interpretazioni della musica.
Quello che sovente non riuscivo a capire, nel corso delle esecuzioni di gruppo, era il perché, a
fine esecuzione di un pezzo, io fossi ancora a metà percorso rispetto agli altri orchestrali.
S’andava, quasi sempre il sabato sera e senza preparazione alcuna, in un teatrino
parrocchiale di via Sant’Orsola a due passi dall’Accademia Militare, ad “intrattenere”
durante gli intervalli della recita di una filodrammatica, gli spettatori.
E noi del “Complesso Aurora” offrivamo il contributo delle nostre esecuzioni. Un pianoforte,
un violino, una viola, un violoncello, un oboe (talvolta un flautista che suonava con me
anche nella “Banda della Crocetta”) ed una tromba con sordina: io. Ed anche questo della
“sordina” non mi è mai entrato nella testa perché se la tromba era nata per squillare gioia
o impeti, perché imbavagliarla?
Tanto per dirne una delle mie prestazioni, ricordo che una sera, alla distribuzione degli
spartiti in via Sant’Orsola, quello della tromba mancasse per omissione dell’autore o per
smarrimento. Domando alla Silvestri del pianoforte che cosa debbo fare e lei mi risponde
arcigna: “Ma la musica non sai leggerla? Allora prendine una e arrangiati”.
Diligentemente lo feci, mi misi in posizione per l’attacco ma poi lasciai perdere. Tanto, gli
applausi familiari, alla fine non mancarono. E la Silvestri, con un cenno del capo, mi fece
intendere che - come si direbbe oggi - ero stato OK.
§§§
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Fu nel 1934 - credo - che mio padre, stanco di attendere, vendette la tromba per 15 lire.
E - forse - abbandonò anche taluni sogni per l’avvenire musicale di un figlio traditore.
§§§
Mi piaceva soltanto la musicalità del solfeggio. La composizione un sogno. La fisarmonica
una speranza e tale rimasta. Forse mio nipote Gabriele placherà le ansie di mio padre.
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§§§
In un angolo dei ricordi c’è un bambino estroverso, musone, timoroso di tutti e di tutto.
Fra la gente tiene gli occhi bassi, il pianto è costantemente a fior di labbra. S’aggrappa ai
genitori ad ogni più piccola contrarietà e in casa, se qualcuno viene a far visita, scappa a
nascondersi dietro la porta o sotto il tavolo, sordo ad ogni invito.
Da dove venisse tanta malinconia non saprei. Era gracile - è vero - rifiutava le minestre,
il latte, le carni. Gradiva il pane, i dolciumi, poco la frutta. Non desiderava la compagnia
di altri bambini. All’asilo non erano mai riusciti a fargli recitare una poesiola qualsiasi.
Nelle recite era l’eterna comparsa di contorno, stretto in una tunichetta che si addiceva a
qualsiasi rappresentazione. Adorava, a suo modo, quella tunichetta e nient’altro.
Quando andò alla scuola vera, l’esporre un pensiero, svolgere una “risoluzione” alla lavagna,
era sempre un’impresa dura. Talvolta tragicomica. Nei conversari anche più futili, la sua
voce non entrava mai. Se si sforzava alla partecipazione, la sera – come minimo - presentava
qualche linea di febbre. Per definirlo fate voi …
§§§
Ragazzo o poco più (il ricordo è ancora nitido) e già lasciata la scuola, lavoravo – si fa per dire alle dipendenze di un certo Cav. Arcelli che era anche presidente della filodrammatica “Avia
Pervia”. Intrappolato non so come nella “Compagnia Artistica”, forse più per segreto primo
amore per una certa signorina Isolde che per interesse all’arte, ne seguivo marginalmente
l’attività teatrale.
Commediole brillanti o strappalacrime come “Addio giovinezza”, “Papà eccellenza” o
“Battaglia di dame” formavano il cartellone che veniva portato in giro su palcoscenici
spesso disastrati, all’aperto d’estate o dentro certe sale (d’inverno) di cui oggi per fortuna
si è persa la memoria. Anche perché ormai, di filodrammatiche, ce ne sono meno e poi non
si chiamano neppure così.
Dirigeva la compagnia (oggi si dice regista) un’anziana composta signora che si chiamava
Virginia Reiter e sentii anche citare una certa Laura Adani che non è stata certamente
l’ultima nel grande mondo artistico nazionale. Una cosa seria, insomma, per noi giovani di
quel tempo dove l’unico scontroso (se così si può dire) ero sempre io, addetto a questo o a
quel compito di supporto come addetto al sipario, buttafuori, trovarobe, affissione manifesti
e, in caso di necessità, anche suggeritore dentro la buca normalmente sgangherata.
Fu una sera a Spezzano, con teatro già pieno, che il Silingardi (spalla del prim’attore) mancò
alla recita.
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Si dava “Addio giovinezza” e la parte dell’assente non poteva certo essere tolta dal copione
senza stravolgere tutto. Ci furono affannose proposte di cambiare questo o quello, di
leggere in scena o fuori campo le battute, ci fu un sacramentare boia poi la trovata ritenuta
più logica: io avrei dovuto - dissero proprio così, “dovevo” - sostenere quella parte tanto
più che la conoscevo avendola sentita più e più volte prove comprese. E poi che andasse
come voleva.
Risposi subito di no, minacciando di salutare tutti se avessero insistito. Fui implorato,
blandito, minacciato, baciato dall’Isolde che mai avevo baciato. Fui tacciato di vigliaccheria
verso l’arte. Niente. Sentivo che se anche solo avessi tentato la prova, la voce, il fiato, le
gambe, il battito del cuore mi sarebbero mancati. E così, senza un niente di fatto, la recita
si avviò e buona notte al secchio.
§§§
Fu a metà circa del secondo atto, quando Dorina doveva civettare con Leone per ingelosire
Mario a causa di una sua avventura con Elena, che mi trovai scaraventato in scena. Dapprima
- anche a causa delle luci sceniche - non vidi niente, poi mi apparvero in un bulinare
sfuocato gli spettatori in sala e mi sentii svenire. Non caddi solo perché Dorina, civettando
come la parte imponeva, mi sorresse abbracciandomi sussurrando parole d’amore in un
soffio appassionato.
Sentii il suo profumo di femmina ardente di desiderio, m’incantò come mai la voluttà della
sua voce, persi il lume dell’intelletto e, scena o non scena, dialogo o non dialogo, baciai con
impeto quella bocca che mi si offriva in tanto olocausto d’amore. E fu un delirio di applausi
mentre - più per prudenza che per obbligo di copione - il sipario veniva chiuso.
Sì, lo so. Quel bacio c’entrava poco col testo della commedia, ma questo meriterebbe un
discorso a parte. Fatto è che l’Artioli, che nella realtà della vita era il marito di quella che
faceva la parte di Dorina, mi tolse il saluto guardandomi male; il presidente Cav. Arcelli
bofonchiò che “teatro o non teatro le effusioni debbono sempre avere un limite” e la
signora Dirce madre dell’Artioli mi diede dell’energumeno. Abbandonato da tutti soltanto
Isolde mi rimase accanto e mi sorrise guardandomi negli occhi.
E allora? Allora niente. Il fatto è che quell’episodio operò profondamente sul mio carattere
e via via frequentando quell’ambiente fatto e vissuto in un certo modo un po’ astratto,
contribuì a farmi acquistar e sicurezza, facilità nell’improvvisazione, disinvoltura nella vita.
Un maggiore coraggio – insomma – di vivere la vita. Chi sostiene che il Teatro - in particolare
il teatro minore - è una grande scuola di vita, ha ragione.
§§§
... Poi anche lo “scandalo” della recita di Spezzano si spense. Fui guardato dagli amici con
occhi diversi, l’Artioli si rabbonì e l’Isolde mi rinnovò il suo dolcissimo indulgente sorriso. Un
ricordo di cui ancora ne custodisco il calore, assieme ad una grande mestizia...
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§§§
Alla prima occasione fu festeggiata più di sempre quella recita “comunque riuscita”, con
lambrusco offerto dal sig. Chiarli e la solita ciambella della signora Caliumi. Ci trovammo
addirittura a ricantare in coro la canzone che faceva un poco da cornice ad “Addio giovinezza”,
con quella sua metrica musicale incontaminata e poetica come vollero Giuseppe Blanc e
Nino Oxilia, autori dal purissimo pensiero. Un canto un poco nostro, di noi giovani di un
tempo, nato attorno al 1909 …
Son finiti i giorni lieti
degli studi e degli amori,
o compagni in alto i cuori
e il passato salutiam.
E’ la vita una battaglia
è il cammin irto d’inganni
ma siam forti, abbiam vent’anni
l’avvenire non temiam.
Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza
della vita nell’asprezza
il tuo canto squilla e va!
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§§§
Il signor Belmiro (chiamato così per via di una vistosa benda nera sull’occhio sinistro rimasto
vuoto per un incidente di caccia) era il proprietario di una melonaia largamente invidiata in
quella zona della bassa mirandolese dove la terra è forte e dura da coltivare ma sa fendere
bene chi l’ama.
Come hobby il signor Belmiro aveva quello di amare lo sport: per questo era il presidente
della società “la Fratellanza” di vaga bandiera anarchico-repubblicana di Concordia e
dintorni.
Presidente, segretario, allenatore, accompagnatore e, naturalmente, cassiere e mecenate,
il signor Belmiro era tutto e non disdegnava alcuna specialità: ma per lui quella sovrana era il
podismo. Quello su strada, per intendersi. E non importa su quali distanze. Una passionaccia
cotta seconda soltanto alla sua osannata melonaia. Tutto il resto della vita veniva dopo.
Noi ragazzi formavamo quella che oggi viene definita una comunità e dove tra noi, parla che
ti parla, ecco venir fuori la faccenda della melonaia campionaria e decidere, una sera di
luna tonda, di farvi una spedizione.
Andammo così, chiassosi ed incauti, nell’aperta radura.
Uno spettacolo mai visto di meloni gialli e verdi ci accolse in un’atmosfera quasi irreale al
chiarore intenso della luna. Magnifico e invitante insieme.
Senza passarci parola alcuna ci trovammo d’istinto a “levarne” almeno uno o due a testa
quando – feroce - sentimmo su di noi l’urlo di una rabbia incontenuta mista a parole
irripetibili di sdegno e di un sentito dolore. Da qui la nostra disordinata fuga e dietro a
questo e a quello l’ansimante signor Belmiro a manganellare a vuoto anche perché, lui,
molto veloce non lo era. Ecco: tutto questo per dire che il mio primo incontro con l’atletica
leggera, specialità del mezzofondo, che mi portò fino alle soglie del P.O., avvenne così.
§§§
Nella fuga non feci come gli altri che andarono per fossi e terreni arati. Io scappai per
l’interrata che dalla Concordia porta a San Possidonio e da qui a San Martino che raggiunsi
abbastanza presto per poi sedermi sugli scalini della chiesa ansimando. Stentavo ancora a
riprendermi quando ecco, in bicicletta, arrivare il signor Belmiro. Si ferma, mi scruta e mi
domanda un “Cosa fai qui a quest’ora”. Non risposi. Tornò a squadrarmi in silenzio (un poco
già sapeva chi ero) poi sbottò in un “Come fai ad essere già qui” che diceva tutto.
Ancora non risposi trattenendo il respiro per non far sentire che ansimavo più di lui. Poi
fingendo di guardare la luna mi allontanai pian piano, ma dopo la curva del caseificio ripresi
a correre forte verso casa. A letto senza svestirmi: sfinito più dall’emozione che dalla
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Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
Davis Bonfatti
faticata.
§§§
Vidi qualche giorno dopo il signor Belmiro che parlava con mio nonno e mi tremarono le
gambe. Poi nonno mi chiamò ed a stento resistetti alla fuga; “Senti – mi propose - il signor
Mazzoli ti vorrebbe nella “Fratellanza” per una gara di corsa a Mirandola. Dice che tu vai
forte.” Risposi di sì, che ci sarei andato e scappai via prima che venisse fuori il resto.
Dire adesso che il “Giro della Mirandola” lo vinsi staccando tutti - compreso un certo Mussini
che già due volte aveva vinto la maratona a Modena ed a Bologna - potrebbe sembrare vana
gloria. Aggiungere che avevo vinto anche due capponi quale premio del traguardo volante
dell’Osteria “la Cagnola” e che alla premiazione mi diedero anche una medaglia grossa
come una moneta da dieci centesimi di quel tempo e che luccicava d’argento, può sembrare
vanità. Ma le cose andarono cosi. Poi nel corso della mia vita l’atletica leggera la ritrovai
ancora, ma questo è un altro discorso. Nel cassetto dei ricordi la medaglia, ancora oggi,
luccica come appena coniata.
Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
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Davis Bonfatti
§§§
Climene e Serafino mi erano zii paterni. Lei era sorella di mio padre. Traevano reddito
da alcune biolche di terra dura alla periferia di Mirandola, coltivata ad orticoli a forza di
braccia.
Avevano nove figli ed i maschi erano più delle femmine: 5 a 4 per intenderci. Non ricordo
tutti i loro nomi ma l’importante è che, in questa “truppa”, l’uno era al servizio dell’altro.
Cioè: la più adulta vigilava ed aiutava il più piccolo, il secondo la penultima e così via. Poi
al mattino ad una cert’ora, eccoli a ritrovarsi in fila a dare il buon giorno alla madre ed al
padre ed assieme recitare una preghierina al Signore prima di assaltare il latte con pane
e miele, in grandi tazze decorate, ordinate sulla tavola in cucina con la tovaglia sempre
bianca.
Ho ancora ben chiaro negli occhi il ritmo di quell’andare famigliare, oggi forse impensabile.
Ospite loro per diversi giorni d’estate io - ragazzo di città - non trovai affatto difficile
inserirmi nel quadro legando subito con Giovanni che della brigata era un poco il caporale.
Con lui imparai a distinguere le insalate da altre verdure, il sesso dei pulcini, il perché di
certi frutti già studiati poco e male sui libri di scuola. Appresi a distinguere gli uccelli, come
allevare i conigli, a non disturbare le nidiate ed i pipistrelli. Vinsi il ribrezzo verso i rospi,
tanto che uno me lo feci amico nei giochi. Imparai che il riccio è un grande amico della
natura.
Al tramonto si era già tutti in casa per un’abbondante lavatura prima e la cena subito dopo,
che molto assomigliava alla colazione del mattino. Prima del cibo ancora una preghierina
per ringraziare - diceva la zia - “colui che ci aveva regalato un’altra giornata di vita”. E noi
a rispondere “amen” in coro, ridendo piano e già affondando i denti nel pane un poco duro.
Un pane bianco cotto ogni dieci giorni nel forno a legna dietro la grande casa.
A cena terminata era d’uso non sparecchiare per l’osservanza di una tradizione che sarebbe
tutta da raccontare, in seguito si dava corso al conversare dapprima vivace anche su motivi
futili. Poi, a cominciare dai più piccoli, le teste ciondolavano, gli occhi si chiudevano un
poco, qualcuno sbadigliava magari malamente e subito veniva ripreso da nonna Matilde che
era vecchia - diceva - ma che grazie a Dio ci vedeva ancora.
Poi il rito del mattino riprendeva a ritroso. La più grande a svestire il più piccolo e così via
per gli altri.
Camicioni lunghi di cotone grezzo uguali per tutti nella foggia, sempre puliti di bucato sul
corpo nudo.
Un bacio alla nonna, alla madre, al padre, un segno di croce ginocchioni sul letto e buona
notte. Non passava gran tempo che i sogni già ricamavano le loro storie.
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Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
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§§§
Giù nella grande cucina, alla luce fioca della lucerna (abbassata la fiamma per risparmiare)
zio Serafino e zia Climene traevano, conversando piano (lui tra una tirata e l’altra di un mezzo
toscano) il consuntivo della giornata programmando al contempo quello dell’indomani. A
Dio piacendo.
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Davis Bonfatti
§§§
Di quel libretto non ne conoscevo il costo, ma a forza di appostamenti lo imparai: mezza
lira che giusto giusto avevo. Così un giorno rischiando il rosso fino agli occhi, porsi cinque
monetone da dieci, sfarfugliai il titolo, presi il libretto e via subito a casa e poi sul letto
per la lettura. Fu fortuna che la nonna Sofia non vide il mio rientro perché - altrimenti l’interrogatorio sarebbe arrivato minuzioso e scomodo.
Alla prima pagina il testo (su per giù) diceva: “Questo prezioso libro riporta le più belle e
nobili letture d’amore dell’uomo alla donna amata o della sposa al marito lontano, oppure
di chi ricerca l’anima gemella per riscaldare il cuore e la vita …”. Poi altre cose ancora
che, forse per la fretta, non comprendevo. Ma a pagina sei ecco, finalmente, il titolo atteso:
“Lettera d’amore”.
Mi accomodai meglio e lessi: “Virtuosa signorina, fin dal giorno che l’ho notata il mio cuore,
il mio pensiero, l’anima mia si sono legate a lei perché ammiro nelle sembianze vostre così
dolci agli occhi miei …” e avanti così per almeno altre due pagine fino alla firma con un
“vostro devotissimo servo” che ingigantì a cento i miei interrogativi.
Ma è questo - mi domandai - l’amore? Mi sentii deluso. Per ricredermi lessi ancora altre
pagine tutte su per giù uguali nei sentimenti. Ora era un lui che scriveva ad una lei, ora era
una lei che rispondeva dandogli del “bel giovine dei miei sospiri”. Per farla breve mi parve
che tutto un mondo crollasse. Era questo l’amore? Rimpiansi le monetone spese e buttai
tutto. In fatto “d’amore” ne sapevo meno di prima. Anzi: non mi galoppava nemmeno più
la fantasticheria …
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Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
Davis Bonfatti
§§§
Tony Bragadin - padano ma di ceppo veneto - non ho mai capito come e perché fosse
ricordato come mio sia pur lontano parente. Nella sua vita – dicevano – fece un solo mestiere:
l’imbroglione.
È vero che per le strade non assalì mai nessuno con il mitra di quei tempi ma imbrogli sì, e
tanti e scaltri per chiunque – credulo al suo dire – gli fosse passato a tiro. Imbrogliò perfino
la Cesira, vedova del “Marangon”, che dopo avergli sfornato un paio di gemelli in cambio di
una fantomatica parola d’amore, la lasciò lì a rodersi perché lui, insalutato, il Po ad Ostiglia
lo aveva ormai passato per ridonarsi alle sue antiche contrade venete. Anche se poi si era
fermato alle prime rampe del bellunese in quel di Fonzaso perché – disse - “Le strade che
vanno in salita sono dure”.
Anche Tony Bragadin, di professione imbroglione, un giorno morì come succede a tanti e
quasi subito si trovò, mentre soltanto un frate accompagnava le sue spoglie a cristiana
sepoltura, intruppato in una moltitudine di altra gente in una grande radura senz’alberi.
Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazionalità, razza, colore,
lingua, età, sesso. Tutti in piedi a comporre una lunga fila che pian piano avanzava verso un
grande quadro luminoso troneggiante sopra tre piccole porte bianche dove, or in una ora in
altra, gli inquadrati entravano dopo aver pronunciato, ben chiaro e forte, il loro cognome
e nome.
Con l’avvicinarsi a quel traguardo fu facile a Tony il capire che l’interessato di turno, dopo
aver gridato le proprie generalità, vedeva di lì a poco comparire sul gran quadro la propria
destinazione per l’eternità: Paradiso, Inferno, Purgatorio a seconda delle vicende vissute.
Un affare da niente insomma. Facile e sbrigativo. Ma proprio qui, la sua collaudata scaltrezza
gli suggerì l’ultima prova.
Ad un vecchio che gli era a fianco, Bragadin chiese:
“Chi sono quelli vestiti di bianco che stanno ai lati delle porte?”
“Sono l’esempio dei giusti - rispose il vegliardo - cioè coloro che sono passati attraverso
la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue
dell’Agnello”.
Ma di tutto questo discorso Tony Bragadin non capì niente (o quasi) perso ormai dietro a un
ben altro pensiero.
“Se io dico il mio nome e cognome certamente non ho scampo - si trovò a riflettere il Tony ma se dico che ad esempio mi chiamo Giopin Zavata che è un sant’uomo, forse chissà …”
E così, senza tanti preamboli eccolo, ormai davanti al grande quadro, gridare risoluto e
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Davis Bonfatti
forte:
“Sior, mi me ciamo Giopin Zavata par servirla”.
Ed aspettò.
Al computer anagrafico super elettronico non sfiorò nemmeno l’idea (come talvolta accade
ai burocrati) di verificare la dichiarata identità e così ecco apparire, luminosa, la sentenza:
“Paradiso”, mentre d’attorno un mormorio represso di ammirata invidia saliva dalla folla, a
conferma che, in Paradiso, notoriamente andavano veramente in pochi.
Vergognandosi forse per la prima volta, mentre entrava in un mondo che definire fantastico
non dice niente, Tony Bragadin si trovò a mormorare un “è andata” che la diceva tutta. Ma
proprio allora sentì sulla spalla un tocco lieve e voltandosi appena si vide accanto un Angelo
in tunica nera.
“Tony – disse l’Angelo – io sono stato per una vita (lo sono ancora), il tuo custode. La tua
condotta, come vedi, mi ha tolto le ali e il Padre mi ha vestito di nero, mentre la purezza
è bianca. Come la mettiamo?”.
Rispose Bragadin quasi d’impeto (ma di suo c’era solo la voce):
“Veramente non saprei come metterla, ma so per certo che laddove c’è il perdono dei
peccati, non c’è più bisogno di offerta per essi”.
Parola di Dio.
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Davis Bonfatti
§§§
Qui andiamo molto avanti negli anni perché è un ricordo di guerra - di quella che viene
chiamata ultima, per intenderci, che cominciò nel 1939-40 - dove il protagonista vero è
un cane. Un bastardo bianco di pelo raso, frutto di amori incerti tra il lupo e il pastore.
Intelligente e ladro capitò al mio reparto in zona d’operazioni non ricordo come.
Visto che neanche a calci riuscimmo a mandarlo via l’animale fu dapprima tollerato, poi
assistito, coccolato e ammaestrato. State a sentire.
Ci trovavamo - come ho detto - in “zona operativa”, diciamo fuori dai confini del nostro
paese, un poco come occupanti tollerati per forza di guerra e un poco accettati dai civili
come “male minore” date le circostanze.
Vigilanze, ispezioni, pattugliamenti, appostamenti, accomodamenti vari di vertenze con gli
ospitanti ed altre diavolerie del genere erano i nostri compiti in quel territorio. Incombenze
talora delicate, disagevoli, anche faticose allorché il clima si faceva inclemente e la
montagna metteva paura.
Ma era il minimo che il reparto, autonomo per i compiti che deve assolvere, doveva
affrontare. Poi veniva tutto il resto che con questa storia non c’entra.
“Boby”, così chiamato con scarsa fantasia, divenne in breve parte integrante del reparto
e preso in forza ad ogni effetto, compresa la razione di viveri, mediante apposita proposta
al “Superiore Comando di Zona”, firmata ed inoltrata con palesi quanto disinvolti imbrogli
di termini tutti da dimenticare. Il Boby però fu anche ammaestrato da quel gran figlio di
mamma sua che era un certo Scattolin da Mestre che da civile passava la vita appiccicato
a un circo.
Da qui, l’addestramento del Boby a fare il “pattugliere”. E garantisco che l’idea – per certi
aspetti innovativa – non la copiammo da nessuno. Tanto meno dagli americani o dai russi.
§§§
Pattugliare – lo dico per gli obiettori d’armi – significa far fare al reparto un quasi sempre
maledetto determinato percorso con appostamenti mimetizzati e vigilanze particolari
per “sorprendere l’avversario” che, per suo conto, fa altrettanto per fregarti. Significa
in parole povere procedere con avanguardia e retroguardia, e ali superiori ed inferiori
per il fiancheggiamento. Poi mandare vedette in certe quote ed altre diavolerie tutte da
ridere quando la guerra non c’è. Cose massacranti se poi l’equipaggiamento è quello da
combattimento e nevica o c’è il sole che brucia.
E allora chi più e meglio del Boby poteva assolvere con gran correre a destra e a sinistra, su
e giù per i calanchi, avanti e indietro dall’avanguardia al fiancheggiamento per “fiutare “ le
Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
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eventuali sorprese? Bastava quel suo speciale modo di abbaiare tra l’ululo e il ringhiare per
destare allarme e far prendere le misure.
E - se del caso – fornire tempestive segnalazioni al comando di base attraverso quelle radio
cassette a manovella che, a parte il peso e le complicazioni dei congegni, due volte su tre
non funzionavano neanche a maledirle. Non posso giurarlo, ma sono convinto che il mio
reparto non subì certe avventure proprio perché il Boby aveva raggiunto un tale grado di
addestramento che fosse stato un soldato certamente si sarebbe meritato quanto meno una
promozione.
§§§
Un dannato giorno il Boby sparì dalla nostra organizzazione. I miei bersaglieri nello
svolgimento dei loro compiti andarono sia di giorno che di notte per certe esplorazioni a
cercarlo, ma tutto fu inutile. Niente. Il Boby, forse stanco di fare il militare, forse accasatosi
in qualche più tranquilla sede o forse perché “d’amore rapito” si era auto congedato. Amen.
Come disse il Muccignato, tacciandolo anche di “figlio di cane”.
§§§
Fu una mattina che albeggiava appena quando le sentinelle udirono, prima debolmente e
poi più forte, il suo inconfondibile abbaiare. Non v’era dubbio: era il Boby che era ritornato.
Fu tanta la sorpresa, lo scompiglio, la gioia o l’accidente che si vuole che il Cappelletti da
Marostica sparò addirittura una raffica di mitra.
Così fummo tutti fuori, in disordine ma anche con le rosse “Balilla” a portata di mano come
urlava di fare il sergente Silvestrini da Ancona o giù di lì, perché le sorprese erano sempre
in agguato. E una bomba a mano, anche se di scarsa efficienza offensiva, era pur sempre un
modo spiccio per difendersi.
Era sporco – il Boby – smagrito. Sul collo e sul muso ferite e sangue. La zampa posteriore
destra l’appoggiava appena. Ai primi che lo raggiunsero guaì un poco menando piano la
coda. Poi si stese a terra esausto ad occhi chiusi.
Sul dorso - a catrame nero sul pelo bianco – una scritta: “Duce”.
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Davis Bonfatti
§§§
Raccontano che la donna tornò nella grande cucina dove i familiari stavano avidamente
mangiando in silenzio dopo una giornata di fatiche nei campi e disse: “Sta’ morendo”.
L’alzare delle teste dai piatti untosi e l’immobilizzo generale del moto masticatorio fu – tra
quella gente contadina - uno stop come a comando. L’Argia fu la prima ad accorrere di là
dal vecchio e gli altri, visto che “di là” era già andato qualcuno, non si mossero più di tanto
e chi a bocca chiusa e chi a bocca aperta attesero.
L’Argia rientrò ben presto quasi imprecando: “Macché rantolo e rantolo. Sta’ cantando
quella sua sporca filastrocca di Garibaldi, che Dio lo fulmini. Donne e guerra, donne e vino.
Maialate. Come ha sempre fatto”. E si pulì con energia le mani nel gran grembiule che una
volta - forse - era stato bianco.
Al tavolo ci fu chi ghignò un rutto, chi si attaccò al fiasco bevendo a bocca larga e chi
scappellò un ragazzetto che si era messo a ridere forte. Poi tutti di nuovo ad intingere
polenta nel gran tegame comune, unto di carne di maiale e rosso di conserva, piazzato in
mezzo al tavolo.
§§§
Il vecchio, un tempo che ormai si perdeva lontano, era stato giovane, biondo, gagliardo e
briccone. Senza voglia di dedicarsi alla terra, un giorno era sparito per il mondo in cerca
di fortuna ma in realtà per vivere possibilmente senza responsabilità civica e senza troppo
faticare. E di vita, aggiungevano chi lo ricordava, ne aveva fatta …
C’è ancora chi ricordava (ma forse oggi non c’è più) come ritornò dopo molti anni alla grande
casa di certi suoi parenti nelle valli del mirandolese. Verso sera di una giornata di luglio,
quando la terra di quelle valli crepa d’arsura. Stentarono a riconoscerlo vestito com’era
tra un che di militare e di civile sbrindellato. Una gran testa di capelli ormai grigiastri a far
tutt’uno con la barba folta tra il nero e il rosso e due occhi vivacissimi a sfavillare tra la
foresta pelosa. Fu subito un suo gran menare di pacche agli uomini e al sedere delle donne,
un abbracciare e questo e quella tra gli oh! ed i moh! Ed il fuggire delle più giovani non si
sa bene se per paura o per farsi rincorrere.
Abbaiava anche il cane ma si prese un calcio e tacque.
§§§
Ora di là, sul letto di ferro scalcagnato nella rete e nelle gambe e nei materassi di foglie
secche, quattro candele accese ai lati per creare “barriera al diavolo” come s’usava
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Davis Bonfatti
allorché un cristiano era sulla via della dipartita, il vecchio pian piano moriva. Oppure
ancora cantava, a seconda dei pareri, mugugnando le parole.
“Far l’amor non è peccato
se lo fa anche il Curato.
Vieni vieni bella mora,
vieni vieni a far l’amor.
Garibaldi lo comanda
lo comanda ai suoi soldà”.
§§§
Dal “di là”, all’improvviso, viene l’urlo tra lo strozzato e l’isterico di una donna.
Dalla grande tavola dove il mangiare è ormai al termine, lo scatto di tutti (uomini, ragazzi,
donne) è all’unisono per il precipitarsi nella stanza.
È ormai morto. Gli è accanto la Rosetta (due anni o giù di lì) che gli è quasi cavalcioni e gli
accarezza la gran barba pregna di tutto, stinta più che mai tra il biancore e il giallastro.
Tipico per chi per anni ha masticato tabacco e bevuto vino che - usava dire - “Mandava
sangue al cuore e Garibaldi in guerra”.
§§§
I più sostenevano che mi era prozio. Il suo nome non l’ho mai saputo. Lo chiamavano Garibaldi
e basta. E dicono anche che quando, da poco morto, cercarono di aprirgli una mano chiusa a
pugno, resa ormai rigida dalla morte, per mettergli attorno alle dita un rosario per amorosa
pietà, trovarono che stringeva una medaglia con uno sfilacciato nastrino che un giorno certamente - era stato di colore azzurro.
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Davis Bonfatti
§§§
Nonno e nonna paterni non li ho conosciuti. So che lui si chiamava Celso e lei Aurora e che
ebbero diversi figli da me mai incontrati salvo una che si chiamava Climene e, naturalmente
mio padre.
Di questo mio nonno metterò assieme frammenti di vita raccolti in giro dalla mia curiosità
di ragazzo, uditi per lo più da mio zio Tullio nelle torride serate di agosto quando, seduti
al buio sull’aia i conversari contadini scivolavano rapidi nella notte senza luna e i grilli
tenevano concerto grande.
Nonno Celso era un tipo sull’uno e novanta che a digiuno pesava sui centotrenta e dopo in
proporzione al pasto consumato. Analfabeta, o quasi, la sua grande passione era l’opera
lirica. Raccontavano che gli bastava anche un solo ascolto per carpire i passi salienti delle
romanze e farle sue. Tra Pico della Mirandola e lui forse c’era - dicevano - qualche affinità.
Ma questo non c’entra.
Dotato di una voce tenorile robusta, udibile anche a non breve distanza, mai si faceva
pregare due volte quando allo stuzzicante invito: “Dai Celso, canta la Gioconda”, partiva
per la tangente cercando sempre di offrirsi al meglio. Per lui quell’aria del Ponchielli,
musicalmente vibrante d’amore, che il dalmata canta nel “cielo e mar”, non aveva
incertezze. Poi giù tante altre cantate di questa o di quell’opera, specie se tortellini e
lambrusco facevano d’attorno scenario ed orchestra.
L’amore senza confini per l’opera lirica, le sue folte esibizioni canore, gli inviti innumerevoli
qua e là per feste e festini, non aiutavano certo il lavoro dei campi, per cui era soltanto
l’Aurora a darci dentro visto che assai presto, dei loro figli, nessuno era rimasto in casa.
Ma poi anche la moglie mollò tutto per andare dietro al suo uomo e qui la storia di un
contadino, nato certamente per non farlo, potrebbe anche considerarsi finita. Ma come
sovente avviene per certe opere liriche dove ci sono un prologo e un epilogo, anche nonno
Celso ebbe il suo.
§§§
Chi fu a mettergli in testa che il mestiere del contadino non era fatto per lui non l’ho
saputo. Certo è che vendette alla meglio campagna, bicocca rurale, carro e buoi e si trasferì
a San Possidonio dove aprì un’osteria. E qui il destino di quest’uomo fatto in certo modo si
compì fino in fondo anche perché in meno di tre anni si mangiò tutto.
Intendiamoci: “mangiarsi tutto” non è stato un modo di dire come per i tanti che per
un motivo o per l’altro di avversa fortuna vanno a finire in niente. No, nonno Celso “si
mangiò” materialmente tutto sia perché lui, nell’osteria, era senz’altro il cliente principale
e poi perché - in più - la sua ospitalità era proverbiale. Come sempre bastava il fatale
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invito “Dai Celso: canta!”, che cominciasse l’accorato “Vicino al sol” dell’Aida, la Fedora
con lo struggente “Amor ti vieta” (che una sera fece delirare una sconosciuta straniera
per via di una boccaccesca offerta) e ancora Manon o il Trovatore “A spegnere col sangue
vostro”, per non dire del canagliesco “Questa o quella” del Rigoletto. E tutto il suo
ardore canoro grandinava, conferendo letizia alle comitive sempre più numerose dove lui,
immancabilmente, s’accodava or nell’uno, or nell’altro tavolo nelle mangiate.
Tutto offerto, tutto gratis, perché l’onorato era lui pur di poter mangiare e cantare alla vita
in compagnia lieta e adulante. E nel rifiutare di porgere il conto, lui si sentiva gran sovrano
ed artista. E padrone.
§§§
Raccontavano in giro di lui che ormai verso i centocinquanta di peso ed una gran chioma
bianca a far da cornice ad un volto ancora fresco, una notte se ne andò cantando per
l’ultima volta quel “Celeste Aida” che era il suo cavallo di battaglia.
Si era d’ottobre e polenta calda di paiolo con stracotto di lepre dopo un paio di piatti a
fondo largo di tortellini al sugo, fu la sua “ultima cena”. All’acuto finale ebbe un attimo di
pausa, alzò solenne il bicchiere di lambrusco color rubino vivo, lo guardò da intenditore alla
fiamma alta del camino e stramazzò.
§§§
In eredità non lasciò che il suo nome. Il nome soltanto perché il cognome, da tempo, si
era involato nel nulla, dimenticato anche dagli amici per i quali – negli eventi paesani
del genere - vale soltanto il ricordo di brigate allegrie che segnano una vita e talvolta
(nonostante tutto) la rendono più sugosa.
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Gli "Invadenti" - Un flash per una vita
Davis Bonfatti
80: Una giornata (quasi) qualsiasi
--
Guarda chi si vede - disse l’uomo aprendo gli occhi alla luce ormai alta di un mattino
di novembre – il mio Angelo Custode è venuto a trovarmi.
--
Tu sbagli, uomo, io ti sono sempre accanto. Se oggi sono qui è perché la giornata è
particolare. Sono ormai ottant’anni che siamo assieme.
--
Perché, non ce ne sono più?
--
Non fare lo spiritoso maldestro. Sulla tua vita che verrà non è affar mio.
--
Però ti sei fatto vedere poche volte in questi ultimi anni.
--
Agli appuntamenti importanti non sono mai mancato, a parte le volte che io c’ero e
tu non mi vedevi.
--
E’ vero: ricordo quando suggeristi alla cicogna dove doveva recapitarmi perché la
poveretta, ormai vecchia, aveva dimenticato l’indirizzo. Poi ti rividi al mio battesimo
nella chiesetta di San Martino in Carano in una Val Padana mezza sepolta dalla neve,
poi ancora sul molo di Napoli al salpare per l’Africa mentre noi giovani cantavamo
“Faccetta nera”. E anche quando emigrai verso il Sud per motivi di lavoro: ti rividi
mentre il traghetto lasciava Villa San Giovanni … Che stretta al cuore per quel
continente che si allontanava. Ma eravamo giovani.
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Mi fa piacere che tu l’abbia ricordato. Ma tanti altri sono i ricordi.
--
Tuttavia sempre poche volte ti ho visto.
--
Non è vero. La vecchiaia annebbia il ricordare, specie se scomodo. Fummo fianco
a fianco nel ‘42 fra le bombe franco-americane a Triglav, poi nel rifugio antiaereo
a Padova nel ‘44 e nel pomeriggio di mezza estate del ‘47 sulla riva polesana del
Brenta quando la “rivendicazione sindacale” degenerò. Poi ancora nel ‘61 quando su
un trimotore scassato rientravamo da Praga ed atterrammo fuori pista e ancora nel
‘64 quando ti prese un infarto cattivo e nel ‘72 quando a Feltre ti operarono d’urgenza
senza nemmeno chiederti chi eri. Poi fummo assieme ai funerali dei tuoi genitori e poi
oggi perché è importante, e tante altre volte.
--
E mi pareva che un perché oggi non ci fosse! Fuori le verità, Angelo, che succede?
Gli "Invadenti" - 80: Una giornata (quasi) qualsiasi
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Davis Bonfatti
--
Non succede niente, ma una preghierina al Padre la potresti anche dire se ancora ne
ricordi una. Almeno per dirgli “grazie”. Ti ho mai detto bugie?
--
In verità non mi sembra.
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Bene. La tua vita può benissimo continuare ancora, a Dio piacendo, se è questo che
temi. Ciao.
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Aspetta, Angelo - disse l’uomo da capelli bianchi - ti prego, non andartene. Camminiamo
un poco assieme oggi, come mai abbiamo fatto. C’è anche un poco di sole a farci
festa.
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Bene, uomo, andiamo. Mi sembra giusto. Proprio perché è un giorno particolare.
--
E dàgli, Angelo. Non me lo ricordare troppo. Vuoi sapere che cosa mi sta passando per
la mente?
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Forse lo so già, ma dimmelo lo stesso.
--
Sto immaginando di scrivere una poesia dedicata a questo giorno con tanti ricordi.
--
Il tuo solito scarso peso letterario …
--
Non distruggermi. Lasciami le mie illusioni. Costano così poco … Ascolta:
“Nel trequarti del cammin della mia vita
mi ritrovai sperduto e sconosciuto
guidando un trabiccolo a benzina
mentre la diritta via avea smarrita”.
--
In verità, uomo, qualcosa di simile mi sembra di averla già sentita tanti e tanti anni
fa. Era di uno che ci sapeva fare e il suo Angelo penava assai a stargli dietro.
--
Forse hai ragione Angelo. Troppe letture sono passate dai miei occhi alla mente. Posso
fare confusioni. Lasciamo perdere.
--
Ecco, bravo, lascia perdere. C’è già un mare di gente che scrive per il prossimo. Ora
andiamo.
--
Ben detto; andiamo. Dove andiamo per cominciare?
--
Vedi un po’ tu. Ad esempio: non senti questo scampanellare? Cominciamo da lì.
--
In chiesa ci sono stato anche l’altro giorno.
--
E’ vero, ma ti trovavi a Montepulciano e sei entrato per curiosità. A proposito: perché
quell’insolito sostare davanti alla teca di fra Bartolomeo Franceschi-Guidi?
--
Non mi dire che non lo sai.
--
Non sempre afferro i tuoi sentimenti. Vigilo di più sulle azioni. E allora?
42
Gli "Invadenti" - 80: Una giornata (quasi) qualsiasi
Davis Bonfatti
--
Sinceramente non lo so che cosa mi abbia attratto di quel frate. Forse la storia della
sua vita, forse anche lui, a suo modo, è stato un laico liberale.
--
Ho capito. Lasciamo perdere e andiamo dove abbiamo detto.
--
Andiamo pure, ma non starmi dietro. Stammi al fianco per favore.
--
A Dio piacendo.
--
D’accordo: a Dio piacendo.
Gli "Invadenti" - 80: Una giornata (quasi) qualsiasi
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Davis Bonfatti
Bipedi e Quadrupedi
Documenti
e Commenti inutili
Davis Bonfatti
Personaggi Interpretati Così
Davis Bonfatti
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Gli "Invadenti" - 80: Una giornata (quasi) qualsiasi
Davis Bonfatti
Un “Uomo Qualunque” e dintorni
“Otto milioni di baionette” si sono ormai disciolte come neve a primavera. Eroi, martiri,
sacrifici a migliaia neanche più nel ricordo. Moralità sotto le scarpe, oppure sotto le macerie.
Confini stravolti, dalla Venezia Giulia a Tenda, nell’Istria, nella Dalmazia. L’odio della
dittatura moscovita ha fatto il resto nello spirito di gran parte della gente. Un’Italia allo
sbrindello guarda e s’adegua, intontita dalle propagande e dalle “assistenze” americane. La
mafia, nell’ombra, prepara il conto. Ma questo sarà il senno di poi.
Al “tavolo della pace” sono ben ventuno i Paesi che alzano contro l’Italia la bandiera della
loro vittoria. E si dichiarano creditori, sostenuti da “Quattro Grandi” che, solidali a parole,
sotto il tavolo si scalciano derubandosi a vicenda. Ma questo la storia lo dirà raramente.
Davanti al “Tribunale dei vincitori” nel processo all’Italia, il russo Molotov il 13 agosto del ‘46
così si esprimerà: “ … l’Unione Sovietica sviluppa i suoi rapporti con gli altri paesi soltanto
in base a condizioni che favoriscano la loro rinascita economica e contribuiscono al loro
progresso industriale ed agricolo, nonché a quello dell’intera vita economica nazionale”.
Tutto questo per dire, in parole chiare, che l’Italia - queste cose - le aveva sempre ripudiate
e perciò doveva essere punita.
§§§
Siamo ai primi mesi dalla fine della “Seconda Guerra Mondiale”. Il teatro “Verdi” è gremito,
dopo anni di astinenza, e il pubblico è impaziente. Gli addetti alla claque si sfregano le mani
affinché, rese più calde, diano all’applauso più intensità. Lo spettatore pagante - invece –
accarezza furtivamente una chiave femmina nell’eventualità di dover fischiare. Non si sa
mai .
Si recita l’Amleto. L’ambiguo romantico protagonista è il Parri, già noto nell’anteguerra.
L’Italia è personificata dalla dolce afflitta malinconica Ofelia. Forte Braccio è un certo
Togliatti non del tutto sconosciuto nei paesi dell’Est europeo. Rosencrantz è il Nenni dal
sangue romagnolo da sempre avventuroso con alterne fortune.
Per uno scherzo del signor Destino detto anche “il regista”, la scena piuttosto rattoppata
ha per fondale il Viminale. La domanda della pubblica opinione spettatrice è una e plurima:
penderà il Parri per una recitazione di destra o di sinistra? Si avrà cioè una novella notte di
San Bartolomeo contro gli agrari, gli industriali della catto-liberal-democrazia che contano
Gli "Invadenti" - Un “Uomo Qualunque” e dintorni
49
Davis Bonfatti
o si avrà la deportazione a vita dei vari Pertini, Gullo, Scoccimarro e compagni suoi? Intanto
si fa d’attorno il silenzio: il velario si apre…
Il buio è profondo, sulla scena vagano dei fantasmi, ciò nonostante Amleto fin dalle prime
battute già s’impappina. Il buttafuori fa sbagliare un “attacco” a Forte Braccio che viene
fischiato dai magistrati autorevolmente locati nei palchi di proscenio con la giustificazione
che sono imparziali. Rosencratz cerca di placare le acque mettendosi in mezzo, ma sua
entrata è intempestiva, inciampa fra le quinte dell’Epurazione frettolosamente messa in
piedi e rischia una planata sul palcoscenico non previsto dal copione. Ai fischi di quelli dei
palchi si aggiungono ora quelli del loggione, un popolo notoriamente protestatario in nome
del proletariato.
La claque entra subito in azione per coprire gli svarioni della recita più a soggetto che a
copione, allo scopo di rialzarne il tono. Cerca anche di rialzare il morale dei protagonisti,
ma chi ha pagato si associa a chi fischia e urla che rivuol indietro i soldi del biglietto.
Il Nenni vuol fare da paciere ma si becca un pomodoro maturo sul frac preso a nolo e
che indossa con scarso stile. Gli addetti al ministero dell’Alimentazione che cercano in
sala di calmare i più esagitati, si beccano pomodori anche loro perciò lasciano il campo.
I sottosegretari di Stato, anche se sono in molti a sedersi sulle poltrone, non sanno più
dove voltarsi e corrono chi a destra e chi a manca come azionati da razzi, finché escono
dalla comune. I giornalisti presenti, ognuno secondo il proprio stile casereccio, scrivono la
storia.
§§§
Sei personaggi di un tempo, che ormai hanno fatto il loro tempo, immediatamente si
pongono alla ricerca di un nuovo presidente e, scenicamente, si prendono a calci per dare
maggior peso alle loro ragioni.
Orlando, Bonomi, Nitti ne approfittano per presentarsi alla ribalta in evangeliche vesti
appena ritirate dalla lavanderia di Montecitorio. Il conte Sforza, che nel trambusto ha perso
il monocolo, lascia il campo non vedendo più dove mette i piedi. Un napoletano bizzoso
quanto verace che si chiama De Nicola, appare e scompare dalla scena lasciando capire
che neppure lui sa che cosa vuole. Un nientepopodimeno che maresciallo d’Italia chiamato
Badoglio, che nella locandina figura tra i personaggi della tragicommedia, non lo si vede per
niente. Forse si è auto-annullato.
La forza pubblica di nuova nomina, tenendosi a destra il più possibile, interviene spesso,
sparando fortunatamente a salve, perciò sono in pochi ad avere paura. Ne approfittano i
liberali, seppur non più giovani rampanti come Benedetto Croce, incoraggiati una volta
tanto dal pubblico sollazzo, per darsi allo sport del lancio delle torte in faccia.
Nella bolgia crescente c’è chi saluta a pugno chiuso sognando romanità tramontate e chi
non saluta per niente e se ne va per i fatti propri meditando.
Ferruccio Parri sospinto da azionisti ribelli, ritenta ancora di mantenere in piedi lo
spettacolo, in nome dell’arte se non si vuole quello della democrazia, ma l’addetto al
sipario soprannominato “Pajetta”, perduto l’orientamento ritiene che l’atto sia finito e
abbassa il velario.
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Gli "Invadenti" - Un “Uomo Qualunque” e dintorni
Davis Bonfatti
Il pubblico, che ne ha abbastanza, sfolla tenendosi la pancia. Chi ha pagato si porta dietro
almeno la sedia per rifarsi del biglietto ed i soliti “portoghesi” fanno altrettanto per non
perdere il vizio.
All’indomani ricominceranno le consultazioni luogotenenziali alla ricerca di un governo.
§§§
Nella fretta della cronaca dimenticavamo che, seduto nelle prime file della platea, c’è un
distinto signore chiamato De Gasperi, che non essendo del tutto italiano si è agitato nel
corso della serata con studiata compostezza. Dicono di lui un gran bene specialmente nelle
vaste sale del Vaticano. C’è pure - mingherlino e menomato alle gambe - un certo Einaudi,
anche di lui dicono bene in fatto di scienze economiche e di viticoltura.
Ma fin dall’inizio, in galleria, c’è anche un certo Giannini che non di rado sghignazza
irriverente urlando “fetentoni” a questo ed a quello. E’ - come si dice - un personaggio.
Altri del suo genere verranno di poi nel corso dell’itala storia politica nostrana, ma Giannini,
al momento, è unico nel suo genere. Un misto tra l’attore di teatro e lo scrittore. Lui si
definisce un “uomo qualunque”.
§§§
Secondo le cronache questo Guglielmo Giannini è stato un prodotto tipico di quell’epoca
in formazione, combattuta tra democrazia e dittatura comunista. Piuttosto alto di statura,
biondastro, corposo, caramella all’occhio destro, faccia sorridente e sorniona per natura.
Politicamente sembra per certi aspetti un discendente dei giullari di un tempo come (senza
offesa) ce ne sono in politica anche ai tempi nostri. Solo che lui gioca in proprio. Ha fondato
e dirige un settimanale che ha chiamato “L’Uomo Qualunque” e che in breve raggiunge
le 800.000 copie. Durerà una decina d’anni poi non conterà più niente. Propugna lo Stato
Amministrativo governato da tecnici eletti direttamente dagli elettori. Definisce i politici
“fetentoni, panscrementi, carogne”. Ma poi lui stesso finirà a Montecitorio, perché nel 1946
si è presentato con una lista che a posteriori diremmo di sbandati guadagnando 32 seggi
parlamentari. In qualche santuario rosso o bianco non si ride più.
La sua “avversaria primaria” è la Democrazia Cristiana che definisce “infedele” perciò
non bada al sottile nei suoi sondaggi con i comunisti e – personalmente - con Nenni. I
liberali lo tengono fuori dalla porta e lui, di loro, formula presagi di tramonto. I suoi fan lo
chiamano “il Fondatore”, altri gli danno del fascista catto-monarchico. Come si vede c’è
confusione. Come l’epoca che attraversa. Nei salotti bene gli danno del briccone, in altri
del pagliaccio.
§§§
Nei dintorni degli anni ‘50 circola nel Sud, nei periodi elettorali, un volantino che recita:
“Senza religione, senza il culto della famiglia, senza amore per la Patria, senza onestà, non
Gli "Invadenti" - Un “Uomo Qualunque” e dintorni
51
Davis Bonfatti
è possibile alcuna autentica efficace ricostruzione”
Dicono che le spese della campagna le paghi un certo Achille Lauro, altro “personaggio”
emergente di quei tempi politici. Dicono anche che in certe parrocchie rurali gli venga dato
credito ospitale.
Lauro cerca di “far ragionare” Giannini ma non ci riesce. Si giustifica dicendo che è sempre
difficile far ragionare l’esaltazione e il concetto ha di certo una sua validità. Molto più tardi
verrà detto che a Lauro non restò altro da fare che foraggiare taluni addetti ai lavori di casa
Giannini per favorirne il crollo.
Così inizia, poi si afferma, poi tramonterà anche il fenomeno chiamato “laurismo”.
Similarmente si dissolve un altro indirizzo auto definitosi d’azione, che nel Sud e nelle
Isole sovente va ad affiancare movimenti politici locali. E a guardarci bene inizia anche
- stranamente a dirsi - la decadenza partitica dell’idea liberale. Verosimilmente si attua
la lucida profezia filosofico-politica di Benedetto Croce che nel 1947 a noi giovani appena
emergenti ebbe a ricordare che
“In tempi e in popoli nei quali l’idea liberale è passata in succo e in sangue e vive nelle
leggi, nel costume e nella pratica, non si sente più bisogno o grande bisogno di uno specifico
partito che la rappresenti in proprio”
Nelle meteore politiche che passano forse è proprio il concetto crociano che il partito
liberale deve vivere e patire.
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Gli "Invadenti" - Un “Uomo Qualunque” e dintorni
Davis Bonfatti
Un prete
Lo conobbi, per doveri d’ufficio, che era – si fa per dire - un semplice prete. In meno
di trent’anni divenne Vescovo, poi Patriarca, indi Papa alla “terza fumata” nel 1978. Ma
questo è noto.
Delle vicende dai risvolti interroganti e drammatici che conclusero la vita terrena di questo
sacerdote, non azzarderò una parola perché già troppo ed anche a sproposito è stato
detto.
Piuttosto esile, dalla voce suadente ma incisiva, succedette a Paolo VI aprendo, alquanto
a sorpresa nella storia vaticana, un “casato nuovo” nell’Albo dei papi. Un pontefice, data
l’età, preconizzato a proiettarsi verso il duemila. Invece…
“Humilitas” fu il motto che domandò per il suo stemma, assieme a tre stelline d’argento:
Fede, Speranza, Carità.
§§§
Accompagnato dai miei soli pensieri, al volante di una “600” che non amava la velocità,
sto scendendo dall’agordino verso la città di Belluno. Vedo, dopo una curva, una macchina
ferma e due che armeggiano nel cofano aperto.
Occhieggiando di striscio m’accorgo che uno è “don Albino” perciò mi fermo per offrire un
qualche aiuto pur sapendo che in fatto di meccanica non conosco niente. Alla mia offerta
risponde con un personalissimo sorriso avendomi riconosciuto, aggiungendo un “Veramente
avrei fretta di rientrare”. E così s’accomoda con me e andiamo.
§§§
La strada da percorrere è ancora piuttosto lunga, l’andatura guardinga. Inevitabile che la
conversazione si apra. Sociologo di rara coscienza mi parla della sua gente montanara. Gli
faccio notare che ormai è conosciuto come il prete che i problemi li va a vedere sul posto.
Non mi sembra sorpreso. Sorride alla buona come usava fare aggiustandosi al contempo gli
Gli "Invadenti" - Un prete
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Davis Bonfatti
occhiali a montatura leggera poi (parola più, parola meno) mi fa notare che è idea buona ed
evangelica accordare grande importanza ai problemi sociali distinguendo i veri dai falsi. Che
è dovere religioso il preoccuparsi della promozione delle classi diseredate, della giustizia,
della disoccupazione. Poi tace a lungo come preso da un’ombra. Dico una banalità per
rompere il silenzio ma mi corregge. “Vede cavaliere - mi dice - non si attua il Vangelo se
non ci s’impegna a cambiare radicalmente le strutture, anche di uno Stato, laddove esse
non funzionano. Non si è buoni cattolici se non si da mano a coinvolgere tutta la Chiesa in
quest’azione rivoluzionaria dei sentimenti”. Sì, disse proprio così: “rivoluzionaria”. Non
mossi parola. Non ne avevo il diritto.
Ora siamo arrivati in città nei pressi del Duomo con il suo originale campanile. Scende in
fretta ringraziandomi per il passaggio ed io sento di vergognarmi perché - a ringraziare dovrei essere io testimone dei suoi pensieri sulle grandi vicende della vita.
Oggi si fa facile scrivere di queste cose e di certi principi, ma a quel tempo era, come si
dice, un’altra cosa.
§§§
Oso un peccato di presunzione. A quanti ancora domandano chi fu - in definitiva - Giovanni
Paolo I, mi sembra lecito azzardare che con il suo sia pur breve papato ma con una grande
esperienza umana alle spalle, don Albino Luciani - bellunese da Canale d’Agordo - la Chiesa,
nell’agosto del ‘78, voltò una pagina della sua storia, avviando una riforma proiettata alle
generazioni che verranno.
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Gli "Invadenti" - Un prete
Davis Bonfatti
Adeodato detto “Gustavo”
All’anagrafe, ufficialmente, è iscritto come Adeodato; nella vita pubblica, in casa, fra gli
amici è chiamato Gustavo. Gustavo e basta. Il cognome conta poco.
Piuttosto basso di statura, corposo, l’eterno cappello di feltro in testa, negli ultimi anni
portava a spasso la sua pancia con disinvolta dignità. Spesso zufolando piano. Amava senza
strafare le buone compagnie e la buona tavola come ogni modenese che si rispetti.
Venuto - come dire - dalla gavetta proveniente da Spezzano, si era fatto da solo tirando per
davvero (anche) la carretta, non per modo di dire. Migliorando l’attività aveva aggregato
al veicolo un’asina che con l’andare del tempo viaggiava da sola su certi percorsi. Talvolta
trotterellava ma era soltanto quando imboccava la via del ritorno.
Nutriva - Gustavo - oltre al gusto della vita, due passioni innocenti: il gioco delle bocce
al Dopolavoro “Villa d’Oro” e la partita a briscola. Per una di quelle imponderabilità che
talvolta gioca il destino, io - arcinoto giovane immaturo a tali giochi - fui uno dei pochi che
lo sconfissero mediante una fortuna sfrontata. Non se la prese più di tanto. Zufolò un poco
“a striscio” come usava fare in certi momenti, ma sorrise con franchezza. Forse da lì gli fui
simpatico. E con molto coraggio mi accolse in famiglia.
“Partì” una mattina che albeggiava appena per il viaggio dell’eternità. In punta di piedi,
forse per non disturbare il prossimo. Come sempre aveva fatto nella vita. Durò a lungo chi
domandò di lui. Un modo senza dubbio raro e genuino di dire che in tanti lo stimarono. E
che in quel di Bologna, il ristorante “al Pappagallo”, perse un cliente.
Gli "Invadenti" - Adeodato detto “Gustavo”
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Davis Bonfatti
Al tramonto di un secolo
“Mamma - belò flebile un capretto nato da pochi giorni - perché gli uomini mi hanno
preso a simbolo dell’umiltà, della fraternità, della dolcezza e poi mi uccidono per meglio
nutrirsi?”
“Perché gli uomini e le loro compagne sono ipocriti”, belò mamma capra.
Il capretto un po’ tremante per il freddo mattutino guardò la madre con occhi dolci e prese
a rincorrere un passero che frullava vicino. Poi ritornò presto alla madre e domandò:
“Che significa essere ipocriti?”
“Significa - rispose mamma - parlare bene e razzolare male. Significa il pretendere di
essere i migliori e nella realtà essere i peggiori. Significa nascondere i sentimenti veri e le
malvagità compiute e far pagare agli innocenti le colpe”.
“Ma chi - allora - non è ipocrita”, ribatté l’agnellino con la petulanza dei bambini.
Mamma capra esitò un poco, guardò il cielo e mormorò quasi a se stessa:
“Non è ipocrita chi ha mani innocenti e cuore puro. Chi non pronunzia menzogna, chi non
giura a danno del suo prossimo”.
Belò forte, la pecora, al sole di primavera che stava dipingendo il verde del creato ed i fiori
di campo. Il suo sembrò un canto di vittoria. Era soltanto un’invocazione.
(Pasqua 1990)
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Gli "Invadenti" - Al tramonto di un secolo
Davis Bonfatti
Salmo per l’anno 2000
Non ricordo chi, ma qualcuno disse:
“E’ un giusto l’uomo che retto procede e non entra a consiglio con gli ipocriti e nei convegni
non siede con gli arroganti e non cammina per la stessa via degli ingordi”.
(Primavera 1991)
CP
Gli "Invadenti" - Salmo per l’anno 2000
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Davis Bonfatti
Un Maggiore T.O.
“Ora sono Maggiore” annunciai in famiglia durante il pranzo forse con una mal celata
leggera enfasi.
“Maggiore in dove” interrogò mia moglie con una faccia da dubbio convinto, tipico della sua
razza pedemontana.
“Ma cosa avete capito: parlo della mia avvenuta nomina T.O. al grado di maggiore
dell’Esercito, anzi, maggiore dei bersaglieri”.
“Oddio, hanno richiamato il nonno” sbottò mia nipote Chiara con il tono che in genere
hanno i neolaureati dell’Accademia di Belle Arti, inconfondibilmente teso fra il divertito e
l’ipocrita.
“Ma va” intervenne mia suocera ben decisa a sapere quello che intendeva dire poi
nell’aggiungere un “ma che vuoi che se ne facciano di lui, ormai”.
“Ormai cosa” (tentai di ribattere). “Se le Forze Armate chiamano, evidentemente è…” Ma
poi non trovai la parola e mi fermai lì.
“Il solito guerrafondaio” rincarò mia suocera.
“Un momento” - tentai di argomentare, ma ormai tutto era perduto. Riprendemmo a
mangiare in silenzio rotto soltanto dal masticare.
Un flash, un piccolo flash, attraverso la mia mente sognante: sono in divisa, la ricurva
sciabola sguainata al sole, la fascia azzurra che mi attraversa il petto. Le piume mosse dalla
brezza scendono dal cappello e mi baciano le guance.
Davanti ho un battaglione gagliardo di gioventù che mi presenta le armi. Il mio
battaglione…
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Gli "Invadenti" - Un Maggiore T.O.
Davis Bonfatti
Il millepiedi
Una sera d’estate, siamo in gruppo a discutere sulle iniziative del Governo circa taluni
aggiornamenti costituzionali quando il Giuseppe fa: “A proposito, la sapete la favoletta del
millepiedi?” Dicemmo tutti di no, anche se a qualcuno era già più o meno nota. Così, ecco
il racconto.
Un giorno la lucertola incontrò il millepiedi che piangeva.
“Oh, cos’hai” - domandò premurosa. Ma il millepiedi anziché rispondere continuava a
piangere ancora più forte.
“Ma insomma - si spazientì la lucertola - che ti succede?”. E il millepiedi, calmatosi un poco,
raccontò:
“Ho dolori per tutte le gambe, non ne posso più. Ora morirò di certo”.
La lucertola, che invece era svelta di gambe e conosceva il mondo, ci pensò un poco e poi:
“Senti millepiedi, vai nel bosco, cerca e troverai un vecchio gufo. Dicono che è un fenomeno,
capace di trovare ogni rimedio”.
Il millepiedi ringraziò per il suggerimento ed arrancando al meglio andò nel bosco dove infatti - trovò il gufo che su un ramo sonnecchiava dondolando un poco la testa.
Era vecchio, spelacchiato, ma il millepiedi si disse che nonostante ciò forse era veramente
la Saggezza e l’esperienza in persona. Si sentì rinfrancato e alla prima occasione, allorché
il gufo aprì un occhio, attirò la sua attenzione e gli espose la sua pena.
Il gufo non rispose subito, dapprima strabuzzò gli occhi, si dimenò un poco riaggiustandosi
l’equilibrio e poi, datosi una scrollatina di ali rispose:
“Tutto qui?”
“E ti pare poco?” piagnucolò il millepiedi.
“Non è un problema - insistette il gufo - Non è un problema. Ascolta che cosa devi fare. Devi
diventare un bipede. Quindi vai da un cerusico e fatti tagliare tutte le gambe. Eccetto due,
Gli "Invadenti" - Il millepiedi
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Davis Bonfatti
naturalmente, possibilmente appaiate”.
Il millepiedi ci pensò un poco e convenne che la “trovata” era un capolavoro di accortezza,
perciò ringraziando e rimuginando il suggerimento ricevuto si rimise sulla via di casa. Ma
d’improvviso ecco gli scrupoli, i timori, e tanti nuovi interrogativi. Fece dietrofront ed
eccolo di nuovo davanti al gufo. Senza tanti preamboli ne richiamò l’attenzione e:
“Gufo - cominciò - ma chi mi garantisce che potrò superare l’operazione? E dopo, chi mi
dice che quando sarò un bipede potrò ancora contare qualcosa? E chi mi assicura che…”
“Oh basta - replicò secco il gufo - Credi che io abbia tempo da perdere per approfondire il
come e il dove certe faccende possono finire? Non ti basta che ti abbia enunciato il principio
della soluzione al tuo problema? Mica posso occuparmi anche delle bazzecole!”
E ridatosi una scrollatina di ali dondolò un poco per accomodarsi meglio sul ramo e si mise,
per così dire, a sedere.
Poi chiuse gli occhi alla luce, anche per rientrare più intensamente nell’estasi in cui - talora
- anche i grandi strateghi della politica amano rifugiarsi.
§§§
Ora è lecito ritenere che taluni si domandino che cosa c’entri la favoletta del millepiedi con la
riforma delle istituzioni. Giusto. Perché, allora, vuol dire che non l’ho saputa raccontare.
60
Gli "Invadenti" - Il millepiedi
Davis Bonfatti
Un computer del Medioevo
Fra i primi ricordi che ho di ragazzo fu quando sentii magnificare dalla gente di campagna
un certo Giovanni Pico della Mirandola conte della Concordia.
Morì giovanissimo - mi dicevano - avendo vissuto tra il 1463 e il 1494. Bello, ricco, filosofo,
credente in Dio, sebbene all’epoca di Papa Innocenzo VIII fosse stato accusato di essere
un eretico. Accusa lacerante anche per un mite coltissimo giovane come Pico, che poteva
facilmente portare alla condanna più atroce.
Parlava con intensa passione – quella gente - del loro Pico. Specialmente nelle sere d’estate
buie ma piene di lucciole giganti, seduti a circolo sulle aie già ripulite dalle erbacce per
accogliervi come un rito il grano da essiccare al sole.
Me ne parlavano per esaltarne la sua memoria prodigiosa che oggi si direbbe da computer,
ricordando episodi (tramandati da epoca in epoca) di rara sapienza, di amicizie con uomini
del tempo che si chiamavano Poliziano, Ficino e Lorenzo il Magnifico che poi era quello
che faceva più effetto. Cose grandi - insomma - che accendevano la fantasia e la bandiera
paesana. Era - per dirla tutta - “un cavallo di razza”, salvato per un pelo dalle scomuniche
papali (vedi caso del destino) da un Borgia che in certe faccende era indubbiamente un
esperto.
Pico della Mirandola conte di Concordia - se oggi lo potesse - così scriverebbe sul marmo
della sua tomba:
… scrisse l’orazione sulla dignità dell’Uomo, che dai contemporanei fu
considerato il “manifesto dell’umanesimo”. Filosofo, letterato, leader della
cultura tra il Medioevo e il Rinascimento, nulla o ben poco di tutto questo
lasciò nella mente del volgo popolare e d’insegnamento per i posteri.
Ma questo l’hanno detto anche altri.
§§§
La verità è che restarono - indelebili - soltanto i ricordi di certi episodi al servizio di una
memoria prodigiosa. Tutto il resto contava poco. Eccezione fatta - forse - per un’intensa
storia di un amore infelice che indubbiamente contribuì a rendergli più breve la vita.
Gli "Invadenti" - Un computer del Medioevo
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Davis Bonfatti
Piero Gobetti
Ebbi a trovarmi, ancora giovanotto, in una serata d’autunno umida e fredda del 1924 in una
via centrale della mia città quando dalle finestre di uno studio notarile venivano gettati
mobili, carte, libri in un rogo che si andava allargando rapidamente. Nello spingi spingi mi
capita tra le mani un libretto. Faccio per gettarlo alle fiamme ma d’istinto mi trattengo.
Metto il libretto in tasca e me ne vado. D’attorno a baraonda si urla e si canta “chi se ne
frega della galera… “.
A casa guardo il libretto: s’intitola “Risorgimento senza eroi”. E’ stato stampato da un certo
Cappelli di Rocca San Casciano che non ho idea dove si trovi.
Quattro capitoli compongono il testo che con crudo realismo dicono cose finora a me
sconosciute aprendomi a molteplici interrogativi.
Questo il mio primo “incontro” con Piero Gobetti.
§§§
E’ passato qualche anno e mi trovo intruppato in una fumosa vettura ferroviaria di terza
classe di un treno che “corre” verso il nord. Attorno ad un giovane pallido, magro, vestito in
modo indefinibile, un gruppetto chiacchiera. Talvolta animatamente. Fra le mani di qualcuno
circola una specie di quaderno. Allungo gli occhi e leggo: “Rivoluzione Liberale”. Domando
chi è il “lui” che tiene la discussione. Mi risponde il “lui” stesso: “sono Piero Gobetti”.
L’episodio del rogo, del libretto sottratto alle fiamme, gli interrogativi che dalla sua lettura
mi vennero, tutto in breve mi è davanti. Nel discorrere che continua, molti termini come
“socialismo liberale”, “capitalismo industriale e lavoratori”, oppure “democrazia e riforma
agraria” entrano lentamente nella mia mente, ma mi attirano. Così è stato il secondo ed
ultimo e unico mio fortuito (o fortunato) incontro con Piero Gobetti.
§§§
C’è ancora un episodio che mi porta a Gobetti. Coinvolto in certi ludi di regime chiamati
“Litorali della cultura” mi trovo ad argomentare con altri giovani su questo o quel tema,
di futuro e di “vittoriose certezze”. Si facevano anche dei nomi ed io butto il mio: “Piero
62
Gli "Invadenti" - Piero Gobetti
Davis Bonfatti
Gobetti”. Forse ho sbagliato. Un gerarca mi tocca lieve la spalla e mi dice secco di lasciar
perdere. A quel tempo andava così.
§§§
Ma la figura storica di Piero Gobetti non può essere considerata soltanto in forza di labili
valutazioni dettate da imprevedibili incontri.
Nel periodo delle vicende parlamentari “aventiniane” - per esempio - del 1923-24, che in
un certo senso favorirono il consolidamento del fascismo su una democrazia populistica allo
sbando, Piero Gobetti si dedicò ad un’intensa attività anche attraverso scritti su “il Baretti”
da lui fondato, evidenziando in tal modo il suo caratteristico impegno di organizzatore
culturale.
Mario Bernardi Guardi - storico e pubblicista - così parla di Gobetti:
“ …un laico che ammirava don Sturzo, un antisocialista convinto che avrebbe
celebrato nel deputato Giacomo Matteotti ucciso nel giugno del 1924 da
una banda di sciagurati, l’alfiere della democrazia, un fiero antifascista che
avrebbe difeso contro la normalizzazione dell’era mussoliniana”.
Sempre su Gobetti (come su Oriani) si leggano anche le acute riflessioni di Claudio Pogliano
in “Piero Gobetti e l’ideologia dell’assenza”, edito dal De Donato di Bari, nel 1976.
Da parte sua Paolo Spriano in una corrispondenza giornalistica annotava:
“ Si manifesta ormai un’altra tipica tendenza gobettiana: quella di
approfondire i termini ideali dei problemi, di andare al di là del concretismo
salveminiano nell’affrontare le grosse questioni teorico-politiche”.
Nel corso delle sue prime esperienze nel gennaio del 1919, Piero Gobetti - così almeno è
dato a noi di annotare - fa pubblicare sulla sua rivista due scritti antitecnici rispettivamente
di Balbino Giuliano dal titolo “ Perché sono un uomo d’ordine” e di Antonio Gramsci su
“Stato e Sovranità”.
Quanto a dire un episodio di autentica cultura politica che il PCI fingerà sempre di
ignorare.
Queste “ospitalità” non piacciono però a taluni delle sinistre di quei tempi, prigionieri di
limitati orizzonti. Nel maggio del 1920 Gobetti pubblica un articolo intitolato “La nostra
fede”, “ e subito troviamo che Palmiro Togliatti si dimostra il più inquieto fra gli inquieti
come Terracini e Amadeo Bordiga - gran condottiero del” Partito Comunista d’Italia” di
quell’epoca - nel criticare aspramente gli ideali di Gobetti. Egli tuttavia non demorde dalle
sue tesi e il 20 dello stesso mese così risponde seccamente alle critiche: “ Per rispondere
alle intemerate del signor Togliatti e dei suoi amici, dovrei mettermi a dimostrare che io
non sono così sciocco come lui dice e che lui non è così serio come crede”.
Battaglie d’altri tempi, si dirà. Esatto, ma il metro di misura degli ideali fra liberalismo e
socialismo reale già la dice lunga se proiettati al futuro…
Gli "Invadenti" - Piero Gobetti
63
Davis Bonfatti
Anche per il settimanale “La rivoluzione liberale” che Gobetti dirige, egli sollecita ed
ottiene scritti di Croce, Gentile, Mondolfo, Prampolini, Cosmo ed Einaudi che segue con
particolare favore “ il giovane rivoluzionario liberale senza complessi”.
Come si evince chiaramente lo scopo primario delle collaborazioni sollecitate ed ottenute
è quello di una critica della filosofia di Marx e del Partito Socialista Unitario dal punto di
vista liberale, con qualche eccezione come quelle di Mondolfo. Gobetti non è visceralmente
antisocialista: vuole soltanto capire e far capire criticamente il bolscevismo e perché i
comunisti tendano sempre a litigare con i socialisti. E, ancora, perché non si debba
liberamente non credere alla “Rivoluzione di Ottobre”. Tanto più che i principi informatori
del Soviet non sono nella realtà amati dal popolo e che - in fondo – le opere di Lenin e
di Trotskij sono (secondo Gobetti) la negazione del socialismo vero, ed in particolare del
sistema socialista rivolto al futuro, nell’ambito del libero progresso economico, nel ripudio
della repressione quale inevitabile sbocco logico dell’esperimento bolscevico.
Il “senno di poi” dirà che infatti vennero gli Stalin e gli stalinisti, vennero i brigatisti ma
anche il brigantaggio, vennero i crolli delle ideologie imperialiste non soltanto dell’Est, il
crollo di paesi retti da regimi federativi, caddero uomini ed ideali, guerre note e guerre
taciute. Siamo ancora alle incertezze che Gobetti mai esitò a denunciare.
Resta ancora oggi - nella sua ideale purezza d’intenti la gioventù di Piero Gobetti il cui
pensiero, anche se siamo al 2000, non sembra lecito dimenticare.
§§§
Piero Gobetti negli anni attorno al 1920
Un seppur sommario ricordo della vita breve ma intensa di questo giovane liberale,
di un tempo che soltanto a misura sembra lontano, sarebbe improprio senza talune più
approfondite considerazioni.
L’anno 1920 è quello della grande svolta per Piero Gobetti. Inizia la polemica con Gentile e
persino con Sorel e Salvemini. Approfondirà conoscenza e concetti con Gramsci, prenderà
qualche abbaglio sui valori idealistici e libertari del “giovane Mussolini socialista” e sulla
Russia dei Soviet attraverso il concetto di Trotskij che, marxista, “volle… una rivoluzione
anarchica, la sola che potesse non essere reazionaria… “.
Il 1920 fu anche il tempo che vide concludersi il suo rapporto con la “Lega Democratica”
che si era rivelata incapace di un’efficace azione politica di fronte al problema operaio.
Si badi: il concetto di un bolscevismo liberale, liberatore di energie, distruttore di universi
decadenti e creatore di mondi nuovi non è soltanto di Gobetti. È largamente condiviso
in vari schieramenti intellettuali animati dalla voglia di svecchiare ed è positivamente
salutato anche in alcune frange futuriste e fasciste. Ma poi Gabetti chiuderà questo capitolo
considerando l’inutilità di proporre in Italia un esperimento rivoluzionario del genere russo,
riaffermando che se rivoluzione dev’esserci dovrà avvenire soltanto nelle forme legali dello
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Gli "Invadenti" - Piero Gobetti
Davis Bonfatti
Stato liberale, garantendo il buon governo e difendendo l’iniziativa privata. Frutto di un
liberalismo nuovo come iniziativa popolare, impegno creativo delle masse, adesione alla
lotta politica contro le classi ottusamente conservatrici.
Ed è sintomatica, a questo proposito, la polemica sia pure garbata che egli conduce in questo
periodo con i nazional-liberali, una nuova formazione della Destra moderata promossa di
Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe, Widar Cesarini Sforza ed altri.
Su un punto sembra continuamente insistere il Gobetti liberale: “ …il problema non è
quello di sostituire la democrazia capitalistica e borghese con un sistema collettivistico,
ma quello di farla vivere, forte, moderna, compiuta nella nuova coscienza operaia, ansiosa
non di sovvertire ma di partecipare, di farsi nazione e Stato.”
Passano gli anni e Gobetti con il massimo della buonafede continua a muoversi entro un
gratificante schema ideologico che procede dal basso con capacità di offrire una forma di
coesistenza e di collaborazione di tutti gli elementi produttivi quale unico rimedio contro
i trust e contro i rapaci sindacati operai istituiti burocraticamente, così com’egli diceva
parlando della rivoluzione sovietica.
Oggi, alle soglie del duemila, quali risposte possono dare i partiti ed i politologi alle attese
di giustizia e verità che animano l’uomo?
Gli "Invadenti" - Piero Gobetti
65
Davis Bonfatti
Preistoria - Storia – guerra e dopoguerra
Di statura medio alta, capelli bianchissimi ancora folti e ben composti, spedito nel passo, un
bastone senza pretese più a “far da compagnia” che a reggere gli anni.
L’incontro sovente al mattino sui sentieri ombreggiati attorno alla pensione che lo ospita nel
periodo estivo dalle parti del valico dei Mandrioli.
Una pensione-soggiorno senza pretese quanto ridente di biancore e di fiori. Un poco isolata
quel tanto che basta per attenuare i rumori della vita che s’affanna talvolta per un niente.
Forse è stato un uomo d’arme, forse un nobile al tramonto, uno studioso. Forse niente,
tant’è naturale così com’è.
Dal saluto educato dei primi incontri allo scambio riservato di qualche affrettata opinione,
passa qualche tempo. Poi avviene che un giorno, grazie alla comune “testata” di un
quotidiano che entrambi teniamo in mano, si aprono le prime misurate confidenze. Ci
presentiamo (solo il cognome, che di lui non afferro neppure) semplicemente, senza titoli,
residenze od altro. Ritengo che entrambi si abbia poi avuto il buon gusto di indagare per
saperne di più.
§§§
Quel mattino il “nostro quotidiano” porta in terza pagina un titolo: “Le Tre Regine d’Italia”.
Incontrandomi mi domanda se l’ho già letto. Ipocritamente nego e lui non aggiunge altro.
Subito ho l’impressione di averlo un poco deluso, ma poi il nostro conversare approda ad
altre rive e l’interrogativo resta.
Riportare che cosa era detto nell’articolo può non essere importante anche perché dai più
già conosciuto, ma quel che ricordo è che rileggendone il testo provai un profondo senso
di meditazione per la singolarità delle conclusioni: Margherita per la sua bella cultura e
la perfetta distinzione dei modi; Elena per il grandissimo cuore perennemente rivolto alle
vicende dei più umili; Maria Josè per avere intensamente amato i princìpi della libertà
secondo i postulati crociani. “Tre Regine” tutte degne - secondo l’autore - di portare sul
capo la corona d’Italia.
Se è vero che le istituzioni passano, che i confini sono friabili, che tutto è mutevole, quello
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Gli "Invadenti" - Preistoria - Storia – guerra e dopoguerra
Davis Bonfatti
che non dovrebbe mai passare è il rispetto per chi abbia occupato il suo posto con la dignità
richiesta dal suo rango e dal proprio onore.
§§§
A distanza di molto tempo ancora m’insegue un pensiero pervaso di accorata amarezza: che
l’anziano interlocutore di quell’occasionale giorno fosse per caso l’autore di quella nota
giornalistica storica e del “commento” che qui senza merito ho cercato di riassumere? Non
mi perdonerei mai il tradimento di un fasullo diniego alla lettura, buttato là, così, come
una cattiveria.
Gli "Invadenti" - Preistoria - Storia – guerra e dopoguerra
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Lettere mai spedite
Gli "Invadenti" - Preistoria - Storia – guerra e dopoguerra
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
S .E . Mons.
Vescovo Gioacchino Muccin
32100 BELLUNO
Rev/mo Mons. Vescovo,
Mi hanno raccontato un flash - come si dice oggi da qualche parte - che mi prendo la libertà
di segnalarle senza secondo scopo alcuno. Se poi la E. V. vorrà darmi riscontro, ne sarò
particolarmente lieto.
“Signore - disse un vecchio prete che aveva perso la nozione del tempo e della memoria c’è qui un uomo e una donna che si vogliono sposare: che debbo fare?”.
“Accompagnali alla loro casa - rispose il Signore - Dona all’uomo un paio di calzari con
le suole di legno e alla donna calzari di pezza, più un tegame con pomodoro spremuto
mescolato con un po’ d’olio e di sale. Poi benedicili in mio nome affinché così restino, nel
bene e nel male, finché morte non li separi”.
“Poi cosa faccio?” - domandò ancora il vecchio prete.
“Poi ritorna alla mia Chiesa ed aspetta che io ti chiami”.
(Aprile 1979)
Gli "Invadenti" - Vescovo Gioacchino Muccin
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Davis Bonfatti
Rev. Mons. Prof.
Don Piero Altieri
47023 CESENA
Reverendo,
Mi è capitato un incontro che mi sembra giusto non tenere soltanto per me come un
segreto.
È una mattinata splendida di luglio. Cammino lentamente per un sentiero montano dalle
parti del valico dei Mandrioli, ammirando la natura tosco-romagnola laddove si “scontrano”
i calanchi romagnoli col verde toscano, quando m’imbatto in un personaggio vestito così e
così, ma di gradevole aspetto, seduto su di un masso.
Mi saluta con un “Buona giornata a lei” che mi colpisce per la tonalità della voce. Ricambio
il saluto, sento desiderio di riposarmi un poco e siedo sul terrapieno costoso quasi di fronte
a lui.
Ci scambiamo subito qualche opinione di circostanza sulla frescura dell’ombra alpina, sul
tempo che rapido passa, sul piacere della lettura nel silenzio incantato della natura, e qui…
estrae da una specie di bisaccia un fascicoletto piuttosto sgualcito dalla copertina rossiccia.
Cerco con gli occhi di carpirne il titolo ma non ci riesco e, arido come sono per natura,
penso subito per quale motivo l’individuo - come si dice - desideri attaccare bottone.
“Vede - mi dice - se lei ha un briciolo di tempo vorrei leggerle di un episodio ormai lontano
(lo chiamò proprio così: “episodio”) qui descritto e di cui, forse sbagliando, trovo una
sconcertante certezza. Vuole?”.
Dico di sì, più meccanicamente che convinto, ed ascolto. E cominciò a leggere.
Ascolti anche lei, reverendo, poi - se vorrà - un giorno mi dirà la sua.
Un giorno Gesù se ne stava seduto sulla soglia di una grotta, durante uno di quei periodi di
ritiro di cui si ha notizia anche dai Vangeli. D’un tratto venne avanti, dal fondo del deserto,
un uomo che gli si avvicinò, gli fece un saluto con la mano e dopo qualche esitazione prese
a parlargli dicendo all’incirca:
Tu sicuramente sai che mio fratello è morto: l’ho ucciso io. Mia madre è morta anche
lei, dopo un’estenuante vecchiezza di dolori. Mio padre non l’ho più visto da anni.
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Gli "Invadenti" - Don Piero Altieri
Davis Bonfatti
Forse le sue ossa giacciono in qualche grotta. Io invece non posso ancora morire. Io, la
morte, debbo solo pensarla. Se morissi potrei dimenticare ma vivendo la morte è con
me, dentro di me, sopra le mie spalle dilaniante dalle calure, dalla sabbia che punge,
dai rimorsi. Il mio nome è Caino.
Sono venuto a cercarti perché ti ho visto varie volte, ho ascoltato le tue parole, ho
amato i tuoi messaggi di libertà per chi vuole amare solo Dio.
Chi tu sia io non lo so bene, ma certamente non sei una mente chiusa. Tu certamente
sai anche cose che non dici. Per questo sono venuto.
E’ necessario che ti dica che sono pentito del delitto che ho commesso?
Eppure oltre al mio pentimento sento anche le lame fredde di certe domande che
tagliano il cuore, il cervello, la carne. Mi chiedo: quando dovrò morire che cosa potrò
dire a Colui che dispone dei nostri destini? Ho sentito dire che quando il corpo finisce
di respirare, il nostro “io” che chiamano anima, vive ancora e un giorno verrà giudicata
secondo il concetto di merito e di colpa.
Ho sentito anche altri invece, che dicono che quando il corpo non respira più, niente più
respira, niente più pensa, niente più vive.
Io non so chi dica il giusto: se i pagani delle isole oppure noi i fedeli di Abramo. Tu,
certo, lo sai. Ma io non sono venuto a chiederti chi di costoro dice il giusto. Io non
merito questi doni. Io sono venuto ad esprimerti soltanto un mio pensiero: chiedo di
non essere perdonato”.
Ti ho detto che sono pentito, ma se è destino che io possa morire, io chiedo che non mi
si usi misericordia alcuna. Proprio perché sono pentito chiedo che il castigo rimanga su
di me. Anche quando il Signore solleverà un giorno le mie ossa. Io sono pentito ma non
chiedo di essere perdonato.
Ecco: sono venuto a dirti che se un giorno tu sarai presso Dio, vorrei che tu gli dicessi
che Caino non s’è pentito per timore della pena. Se Caino è stato grande nel suo delitto,
non vuole essere minore nella violenza contro di sé. Il mio pentimento non mi deve dare
nessuna consolazione, non un diritto alla misericordia.
Chiedo a Dio di restarmi davanti nemico. Se nessuno mi perdona io sono meno abietto.
Se tu sarai presso Dio, non pronunciare una sola parola buona per me. Tu, se verrà
il momento di dire qualcosa, parla a Lui solo per chiedergli di negarmi misericordia,
qualora avessi la viltà di chiederla o di solo sperarla. E non voglio nemmeno che la
morte - come dice taluno - cancelli ogni traccia.
Gesù non rispose. Caino restò lì, muto, alcune ore poi prese ad incamminarsi nella direzione
del sole che stava calando fin quando diventò un punto nero assorbito dalle ombre della
sera.
(marzo 1989)
P.S. Si leggerebbe nelle Sacre Scritture che il Signore ebbe a dire: “Chi alzerà la mano
contro Caino subirà vendetta sette volte sette”.
Gli "Invadenti" - Don Piero Altieri
73
Davis Bonfatti
La Conferenza
Gentili signore, cari amici,
Vengo alla conclusione della mia non so quanto interessante chiacchierata.
In un prossimo futuro, sicuramente più vicino di quanto si pensi, gli americani “bianchi”
diventeranno gruppo di minoranza. Molto prima che questo avvenga, la presunzione che
il cittadino americano tipico sia qualcuno che in linea diretta discenda da una famiglia
europea, sarà un fatto trapassato.
Già oggi un americano su quattro definisce se stesso come ispanico e non bianco. Se
perdureranno le attuali tendenze nell’immigrazione e nei tassi di natalità, all’inizio del
2000 la popolazione ispanica sarà cresciuta almeno del 21%, la presenza asiatica del 22%,
i neri dell’11% ed i bianchi poco più del 2%. A circa metà del 2000 gli ispanici arriveranno
vicino ai 120 milioni mentre quella bianca non crescerà affatto.
Passato il 2050 il residente americano medio sui 70 anni di età sarà originario dell’Africa,
dell’Asia, del mondo ispanico e delle isole del Pacifico: sempre e comunque di un luogo
diverso dall’Europa.
Il problema razziale americano, sollevato da varie indagini, pone interrogativi enormi e
suggestivi per tutto il restante del mondo e per l’Europa in particolare, sia per la sua portata
politica, che commerciale ed agroindustriale, oltre a quello di una società multirazziale. Ma
a farci ben mente, questo mondo nuovo è già presente e costituisce il futuro irreversibile
dell’America.
§§§
Viene detto da più parti che oggi, quando il 1990 è già passato, l’ostacolo principale
alla modernizzazione della Cina, cioè il successo della relativa trasformazione sociale
ed economica, è costituito dalla caparbia resistenza che una cultura bimillenaria di
ininterrotta tradizione contrappone all’idea stessa del cambiamento, come minaccia alla
propria sopravvivenza. Da qui sono più i dubbi che vengono manifestati e gli interrogativi
che vengono posti che le risposte che vengono date.
Nel frangente una cosa, tuttavia, si può ipotizzare: che i cinesi vivono nell’attesa di un
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Gli "Invadenti" - La Conferenza
Davis Bonfatti
qualcosa di inevitabile. Non escluso il crollo di una dinastia - chiamiamola così - che non sa
più governare e quindi ha perso il mandato “del cielo”. Ma questa crisi può presentarsi in
molti modi, fra cui quello che l’impero si sfaldi in vari segmenti nazionalistici. Fra meno di
cento anni sarà tutto da ridisegnare non escludendo il ricorso alle armi.
Taiwan potrebbe essere stato il prologo, Tian’anmen un intermezzo, e ancora non è ben
chiaro se Hong Kong venga considerato un preludio o un’affittanza più o meno prorogabile.
Ma queste sono soltanto delle parentesi varieggiate di un impero enorme, non si sa bene
quanto forte e quanto vulnerabile insieme.
§§§
Sia per gli Usa che per la Cina le sintomatiche sono nell’aria sempre più spessa. Perciò
vengono ammesse le “svolte” sia umane che sociali per l’uno che per l’altro paese.
(Novembre 1990)
Gli "Invadenti" - La Conferenza
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Davis Bonfatti
On. Antonio Patuelli
ROMA
Caro Antonio,
Perdonami se ti faccio perdere qualche minuto per parlarti delle cooperative e dell’evoluzione
del loro sistema.
L’evoluzione, del nostro sistema agricolo, cammina da tempo verso nuove strategie
operative: non prenderne cognizione sarebbe errore. Non ridisegnarne i termini economicoproduttivi un errore ancora più grosso.
Le correlazioni, dirette ed indirette, tra l’attività produttiva ed altri fattori, sono diventate
così strette e complesse che si parla ormai (quasi esclusivamente) di agro-alimentare, agroindustria, agro-marketing e termini similari in tutta naturalezza.
Nel campo organizzativo delle cooperative già si affacciano concetti come la costituzione
di un “Consorzio Cooperativo Transnazionale” con il compito principale di favorire l’importexport dei prodotti agricoli reciproci. Poi da cosa nasce cosa…
In questa visione già s’intravede una nuova centralità dell’agricoltura non più come attività
primaria e prevalente, tipica dei paesi industrializzati, ma come attività che concorre a
disegnare nuove strategie di sviluppo.
Una questione pregiudiziale per adeguare la capacità delle imprese cooperative a muoversi
nel mercato, rimane basilare la riforma della cooperazione della quale si parla da anni senza
alcuna volontà unanime di realizzarla: quasi si temesse il crollo generale di un baraccone
ricco soltanto di vetustà.
Ricordare a te agricoltore, figlio di agricoltori di una Romagna generosa e culla di cooperative,
quali sono i problemi che domandano urgente soluzione, mi sembra un’offesa. Non mi
sembra offensivo ripetere a te, uomo politico d’onore, che non intervenendo significherebbe
soltanto il consolidamento delle molteplici debolezze in atto.
Un cordiale abbraccio.
(dicembre 1988)
76
Gli "Invadenti" - On. Antonio Patuelli
Davis Bonfatti
On. Dr. Giovanni Goria
ROMA
Il Governo, di cui lei è alla guida dalla fine di luglio ‘87, forte - si fa per dire - di trenta
ministri e sessantuno vice ministri, più una dozzina di sottosegretari ”ombra”, possiamo
convenire che ha visto giusto.
Il numero ed i ruoli di questo mezzo battaglione, se vi comprendiamo i portaborse per
l’indotto, appare sufficiente per avviare l’affossamento della nostra prima Repubblica e non
soltanto di un Governo come spesso è accaduto.
Lei è il tipico prodotto piemontese della crisi di un sistema ormai entrato nella fase finale
della sua decomposizione. Potrà al massimo, fatto salvo il solito intervento dello “stellone”
che non di rado protegge il nostro Paese, far scrivere nel libro della storia che ai giovani
tutto dev’essere perdonato.
Ma la Storia dirà pure che allo sfascio vi hanno contribuito in quarant’anni di barbare
influenze, in molti. Abbiamo avuto vecchi marpioni della politica, demagoghi incalliti,
sindacalisti irrispettosi della Costituzione, cooperativisti arraffoni, l’arroganza delle
mafie, l’indisciplina dei partiti, imprenditori disonesti, terroristi travestiti da lavoratori, la
burocrazia più stracciona e la licenza del diritto contrabbandata per libera democrazia.
Anche per lei vale il principio che tutto ha un inizio e tutto una fine. Perciò una volta
che sarà disarcionato, non si metta anche lei - se possibile - fra i tanti che pretendono la
rivincita. Si faccia prima le ossa.
Con rispettosa cordialità.
(Agosto 1987)
Gli "Invadenti" - On. Dr. Giovanni Goria
77
Davis Bonfatti
Resto del Carlino 14/08/1988
LETTERE
Costituzione manomessa
Egregio Direttore,
Dal 1° febbraio in tutte le edicole è in gratuita distribuzione un libretto con il testo ufficiale
della Costituzione Italiana. L’iniziativa, più che lodevole, è da considerarsi opportuna perché
il “Popolo Italiano” – in nome del quale la Carta Costituzionale è stata emanata – potrà così
constatare e valutare come e quanto (in quarant’anni di vita) le sue norme siano state
disattese, stravolte, ignorate, violate, “adeguate”, taglieggiate e quindi vanificate.
Davis Bonfatti, Cesena (FO)
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Gli "Invadenti" - Resto del Carlino 14/08/1988
Davis Bonfatti
Alto Giurista della Corte Costituzionale
ROMA
Una volta veniva detto che in Italia “siamo tutti dottori”. Poi si disse che a nessun pensionato
dello Stato veniva mai negata una croce di cavaliere. Ma in entrambi i casi si trattava di
battute.
Oggi invece non è una battuta se diciamo che tutti si sentono “opinionisti”.
L’argomento non importa. Non c’è trasmissione televisiva o radiofonica, della carta stampata
o congressuale, negli uffici, botteghe, salotti, autobus, treni ecc. in cui nel mucchio non uno
ma tre, dieci, cento non si sentano opinionisti, con pretesa di essere creduti.
Si dirà che questa è democrazia, libertà di opinione, intellettualità. Bene: ma proprio che
proprio non c’è chi dichiari un “Me ne frega niente perché - tanto - io rimango subordinato
esecutore?”.
Con tanti opinionisti a sballare qual è l’opinione vera? Dice: “Non c’è. Quella vera devi
fartela da te”. Ma se non ce l’ho in quale reato incorro? Lei - signor giurista dai molti gradi
- me lo vuol far sapere?
Ricordo che a noi bambini la bisnonna raccontava che per un qualcosa di simile all’opinionismo
a un certo filosofo diedero da bere la cicuta. Ma oggi - la cicuta - non mi pare sia più di
moda.
Grazie per la risposta, signor Giurista.
(Febbraio 1991)
Gli "Invadenti" - Alto Giurista della Corte Costituzionale
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Davis Bonfatti
Resto del Carlino 11/01/1988
LETTERE
I miliardi in TV
Egregio Direttore,
A parte il fatto personale che non compro prodotti troppo reclamizzati per senso di “ribellione”
al sistema, mi sembra che sia esasperante quel distribuire milioni e miliardi per giochi,
concorsi e quiz vari o per faraoniche reclamizzazioni. Ora sarebbe da ingenui pretendere
di muovere “crociate” contro queste situazioni, però lo Stato potrebbe approfittarne per
introitare i miliardi di cui tanto abbisogna. Basterebbe che chi elargisce “premi” a questo o
a quel titolo, fosse anche tenuto a versare allo Stato eguale importo.
Davis Bonfatti, Cesena (FO)
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Gli "Invadenti" - Resto del Carlino 11/01/1988
Davis Bonfatti
Quando FIAT è “voluntas dei”
Nobile signora,
Dopo l’acquisto dell’Alfa Romeo e della Galbani alimentari, l’impero economico degli Agnelli
si è ulteriormente allargato. Ma non le scrivo per questo. Il fatto è (sembra) che l’8 % circa
di questo “impero” dovrebbe approdare nell’area delle attività produttive del cesenate.
Per il “Gruppo Agnelli” (Fiat, Lancia, Autobianchi, Ferrari, Alfa e dintorni più l’indotto in
generale, che spazia dai missili alle assicurazioni, dall’editoria alle telecomunicazioni,
dalla Juventus agli Hotel, dall’agroalimentare ai tessili, alla borsa, alle acque minerali, alle
valvole cardiache fino al leasing) quest’approdo a Cesena appare del tutto fortuito e, forse,
nemmeno vero.
Ma per il cesenate potrebbe essere (senz’altro sarebbe) non dico importante ma,
economicamente parlando, determinante. Giusto?
Bacio le mani Donna Mariasole Agnelli Teodorani Fabbri, cesenate honoris causa.
(dicembre 1986)
Gli "Invadenti" - Quando FIAT è “voluntas dei”
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Davis Bonfatti
Dr. Indro Montanelli
Direttore de “Il Giornale”
MILANO
Caro direttore,
Un amico da Londra mi scrive che tempo addietro in un locale di quella capitale, tra
l’imbarazzo di quanti erano presenti, si è dato uno “spettacolo” dal titolo: “Hey Luciani”,
un quasi musical in chiave rock sulla vita, ma soprattutto sulla morte, di Papa Albino Luciani
da Canale d’Agordo nel bellunese, chiamato Giovanni Paolo Primo.
La commedia – se così si può chiamare – traeva ispirazione dal libro-scandalo di David
Yallop “In God’s name” (nel nome di Dio), centrato sull’ipotesi che Papa Luciani fosse
stato assassinato perché stava progettando una radicale riforma delle gerarchie vaticane,
maturata fin dai tempi in cui era Patriarca di Venezia.
Sulla scena – venne riferito – accadde di tutto: il cardinale Villot suona la batteria, il gran
maestro Licio Gelli è un mafioso italo-americano, Marcinkus indossa vestiti femminili sotto
la tonaca e ordisce speculazioni finanziarie. Dietro le quinte la musica si scatena mentre
una ragazza in reggicalze rosse e parrucca viola introduce i “quadri scenici” dove agiscono
guerriglieri arabi, rivoluzionari sudanesi, amazzoni armate di mitra e tanti cartelli con
svastiche, simboli massonici e comunisti ed altre insegne del genere per poi arrivare al
gran finale con Papa Luciani, poche ore prima della sua morte, intento a compilare un
lungo elenco di esponenti vaticani implicati in complicati abusi. A questo punto il Papa beve
qualche sorso da un bicchiere e lentamente si assopisce stringendo fra le mani lo scritto
appena ultimato e che qualcuno subito provvede a far sparire.
Non ricordo – caro direttore – chi fu a dire che tutto fa spettacolo, ma su questa premessa
mi pare di poter dire che sembrano essersi frantumati anche gli ultimi pallidi limiti della
decenza umana. A Londra – in nome di non so che cosa – s’è giocato a spiazzare non soltanto
un dogma religioso ma anche le regole del buon gusto.
Può anche essere stato un esperimento, ma c’è da augurarsi che abbia insegnato qualcosa,
se è vero che il pubblico, alla fine, è rimasto di gelo, indeciso se darsi alla fuga o protestare,
oppure fare qualcosa d’altro, tanto era evidente che i tentativi di spacciare strampalate
bidonerie sotto le spoglie artistico-avveniristiche-storiche-informative non trovano più
nessuno capace di dirigerle.
Con molta cordialità.
(Febbraio 1986)
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Gli "Invadenti" - Dr. Indro Montanelli
Davis Bonfatti
Rev. Mons.
Don Pietro Galavotti
Protonotario Apostolico - S. C. Cause Santi
00120 CITTÀ del VATICANO
Monsignore,
Ora che il Capo dello Stato d’Israele chiede con pertinace insistenza al “Sovrano della Città
del Vaticano” il riconoscimento diplomatico, e siccome ritengo che questo non può essere
concesso sino a quando lo Stato d’Israele non restituirà la Città Santa di Gerusalemme alle
tre Religioni monoteistiche con la sua internazionalizzazione e non rispetterà la spartizione
della Palestina deliberata dall’Onu, come si devono comportare i cattolici italiani?
I cattolici, che come tali sono membri della Chiesa, rimangono però anche membri di uno
Stato. Quindi come tutti i membri della comunità statale, i cattolici italiani sono obbligati di
cooperare ai compiti e finalità dello Stato italiano che - come arcinoto - riconosce lo Stato
d’Israele. Però come membri della Chiesa, i cattolici italiani sono obbligati a difendere i
concetti (gli interessi) cattolici dovunque, sia in Italia (sede della Chiesa universale) che
in Palestina, patria carnale di Gesù Cristo: per cui non sono tenuti a riconoscere lo Stato
d’Israele.
E allora - Monsignore - che devono fare i cattolici italiani se le cose stanno così com’io le
ho capite?
Con profonda considerazione
(Febbraio 1991)
Gli "Invadenti" - Don Pietro Galavotti
83
Davis Bonfatti
On. Egidio Sterpa
Ministro per i rapporti col Parlamento
ROMA
La Jugoslavia, artificiosa costruzione statale messa faticosamente insieme in funzione antiitaliana all’indomani della prima guerra mondiale, sta attraversando da tempo tensioni
interne fortissime. La molteplicità delle lingue, delle etnie, delle religioni e le difficoltà
economiche insanabili la stanno frantumando.
In queste condizioni ritengo che si possa ripensare sia al trattato di Osimo che regalò la zona
B del mai istituito “Territorio Libero di Trieste” alla Jugoslavia con la “benedizione” di tutti
i nostri partiti (tranne missini e liberali), sia allo stesso trattato di pace del 1947. La verità
e la storia ci ricordano la presenza millenaria della Serenissima Repubblica di Venezia in
quelle terre e la vasta cultura istriana, giuliana, fiumana, dalmata e romana: in altri termini
dell’Italia.
Parlare quindi di una nostra nuova presenza in quelle regioni, di una risistemazione dei
confini, di una revisione della cattiveria e dell’ingiustizia di Osimo, non è da ritenersi
impensabile. Nulla, in politica estera, è fermo e immutabile. Non solo (o non soltanto) per
le poche migliaia di italiani ancora in Istria e in Dalmazia, ma per le centinaia di migliaia di
profughi venuti in Italia per sfuggire alle vendette ed alle barbarie ipocritamente sobillate.
Non mi dispiacerebbe conoscere - onorevole ministro – il suo parere.
(Ottobre 1990)
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Gli "Invadenti" - On. Egidio Sterpa
Davis Bonfatti
On. Prof/ssa Franca Falcucci
ROMA
Signorina ministro,
Io sono un suo ammiratore. Non sono democristiano, m’interesso direttamente della scuola
non essendo insegnante, né genitore, né studente. Eppure lei mi piace.
Oh, non mi confonda onorevole ministro: non parlo dell’aspetto fisico.
Lei mi piace perché tutti ce l’hanno con lei. Perché è il ministro più impopolare dell’odierna
Repubblica nostrana. Perché non si trova uno straccio non dirò di parlamentare o di
politologo, ma nemmeno di docente o di studente che prenda le sue difese. Neanche un
semplice bidello, niente. Persino nel suo vasto e multiforme partito non le lesinano critiche
anche velenose. Non di rado interessate.
La stampa le dà addosso in ogni circostanza. Le opposizioni parlamentari hanno chiesto
più volte la sua testa. La maggioranza di governo le ha votato di malavoglia la fiducia solo
per salvare un Governo traballante, per motivi che gli inglesi definirebbero di “stupidity
universal bomb”.
Ma è risaputo che l’humour anglosassone è molto diverso dal nostro. Noi siamo più allegroni.
Non so se mi comprende.
Tanto è vero che gli studenti hanno trovato in lei un bersaglio facile con quel tam-tam del
“Ucci ucci diamo fuoco alla Falcucci” ed altri ancora di gusto dubbio.
Lei è così signora da evitare di chiarire che le responsabilità dello sfacelo della scuola
italiana le portano (più di lei) molti illustri - si fa per dire - predecessori e quelli, in tempi
non ancora lontani, che pretendevano il diploma facile, la laurea politica idealmente
sostenuta da sociologi bombaroli teorizzatori di una società d’egualitari. E difesa, anche,
da certi genitori per i quali è più importante il “pezzo di carta” da sbattere in cornice che
il pensoso apprendere della scienza.
Mi sovviene che se la sono presa con lei per via dell’ora di religione. Ma lei non ha fatto
che “dar seguito” a un concordato che discende niente di meno che da un evento chiamato
storicamente “Mussolini-Gasparri” che poi, attraverso tempi che inesorabili passano, è
stato - diciamo - consolidato da un altro capo di governo chiamato Craxi e ratificato dal
Gli "Invadenti" - On. Prof/ssa Franca Falcucci
85
Davis Bonfatti
Parlamento a grande maggioranza.
Lei dirà che non ho citato i liberali che pure fanno parte del governo detto del “pentapartito”.
Bene: l’ho fatto di proposito per non dare l’impressione di ricordare a lei che i liberali, visto
il pateracchio, hanno votato contro.
Lei - inoltre - viene criticata perché vorrebbe “eliminare” l’insegnamento della storia
antica.
Personalmente non sono d’accordo, ma le riconosco almeno il coraggio di avere suggerito una
(pur che sia) riforma. Si lamentano perché lei ha ridotto i giorni di lezione: ma che poteva
fare quando certe leggerezze del potere dei sindacati predicano l’avvento di settimane
lavorative ancora più corte?
Lei, signorina ministro, è lo specchio della nostra società. Anziché prendersela con lei molti
dovrebbero prendersela con se stessi. E qui può comprendere facilmente il dove, il quando
e il perché, essendo lei uno dei rari tecnici ad occupare poltrone politiche.
Certo, la scuola italiana (fatte le solite rare eccezioni) è un catafascio, ma lei, fin che può,
resista alle critiche e creda nella mia stima.
(Marzo 1987)
86
Gli "Invadenti" - On. Prof/ssa Franca Falcucci
Davis Bonfatti
On. Dr. Giovanni Goria
ROMA
Signor Ministro,
Lei non è certamente tenuto a ricordare la lettera che le mandai nell’agosto del 1987
all’epoca delle sue vicissitudini politiche ad altissimo livello istituzionale. A quei tempi
furono in molti (anche del suo partito) a muoverle critiche talora impietose. Io fui, da
semplice cittadino, a difenderla con spirito liberale e comprensivo.
Le scrissi - in altri termini – che ai giovani tutto doveva essere perdonato: a patto che una
volta disarcionato non si mettesse fra i tanti che pretendono la rivincita.
Se gli anni passano per me, passano anche per lei on. Goria. Il suo temperamento piemontese
ha molte analogie con quello delle genti di Romagna.
Questo dovrebbe ricordarle che non essendo più «un giovane a cui tanto perdonare»
l’eventuale ripetersi di passate vicende sarebbe - come si dice - diabolico. Specie in un
settore, come quello agricolo, da anni impantanato in sventurate avventure.
Come vede non domando alcunché. Non si pretende nemmeno che lei cambi le assistenze
(se ce ne sono ancora) ai produttori ed alle loro cooperative. Si vorrebbe soltanto il cambio
della mentalità assistenziale. Si vorrebbero approfondite le linee del compianto Marcora
che di lei fu maestro e che per gli agricoltori resta l’incarnazione di una rimpianta età.
Transitando dalle parti di Cesena venga al «Fruttadoro». Troverà, con la nostra accoglienza
cordiale, una targa bronzea murata da anni nel frontale dell’edificio che certamente
potrebbe ricordarle almeno un capitolo della sua vita politica.
“RUSTICUS”
Gli "Invadenti" - On. Dr. Giovanni Goria
87
Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Una Romagna chiamata “Fruttadoro”
Gli "Invadenti" - On. Dr. Giovanni Goria
89
Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Romagna è …
Dante la pose “tra il Po, il monte, la marina e il Reno”. Grosso modo vi comprese anche
Bologna che non ne fa parte poiché i confini della “Regione Romagna” vengono siti dal Sillaro
fino alla confluenza nel Reno, poi da questi alla sua foce e dallo spartiacque appenninico al
mare di Punta Focara fra Cattolica e Pesaro.
Dentro questi limiti coesistono peraltro, per molteplici motivazioni, oltre alle due province
di Ravenna e Forlì con Rimini, anche territori toscani di Arezzo, Firenze e del bolognese;
quasi tutto il Montefeltro ed altri di Pesaro e Urbino, non esclusa la Repubblica di San Marino
che – geograficamente parlando - romagnole non sono.
La Romagna appare dunque abbastanza ben delineata e, per quanto si sappia, esprime
un’identità etnica che si dice risalga al tempo dei Celti che vi s’insediarono nel V secolo
a.C.
È vero che la Costituzione repubblicana del 1948 l’ha abbinata all’Emilia, ma è parere di
molti che sia stato un “disguido”, perché la Romagna per le sue particolari caratteristiche
geografiche, etnografiche, i dialetti diversi, la storia e le tradizioni, l’economia, i secolari
concetti di libertà e di pensiero, la sua atavica indipendenza, l’hanno da sempre distinta
dalle regioni contermini.
“Nessun’altra regione - come scrive la Vianello Di Renzo - può vantare tanta varietà di
paesaggi come la Romagna: un trapezio di terra corroso nella parte montana da torrenti
che a valle diventano fiumi talvolta sregolati; lassù a volte magra e stentata fino a mostrare
l’ossatura dei suoi calanchi nei Mandrioli o dell’alto Bidente, quaggiù grassa, polposa,
incredibilmente fertile di terre arate, vigneti e di frutteti”.
“Fruttadoro di Romagna”, come s’usa dire oggi sui mercati e sulle mense europee.
Gli "Invadenti" - Romagna è …
91
Davis Bonfatti
Il “Concetto Fruttadoro” e la realtà
Si era discusso a lungo, verso la fine del ‘67, in taluni bar della periferia di Cesena e dei
comuni del comprensorio spesso in un mare di fumo - non di rado tra un marafone e l’altro di come fare un’organizzazione di buon livello cooperativo capace di interessare veramente
i produttori ortofrutticoli grandi e piccoli e, possibilmente, giovani d’età.
Nelle discussioni, talvolta anche non pacate, era nato - si fa per dire - anche il nome da dare
alla cooperativa: “FRUTTADORO di ROMAGNA”; con quel “Fruttadoro” tutto d’un pezzo in
barba ad ogni regola.
Per la verità “storica” l’insegna sortì involontariamente allorché, con l’impeto oratorio
romagnolo che a turno personalizzava i promotori, uno sbottò fuori con un “Ciou burdél,
mo la frota l’è òr” che fece colpo.
Veramente di cooperative in giro ne esistevano già molte in zona, qualcuna anche sui generis
tanto per non smentire le tradizioni ma, per un verso o per l’altro, tutte già “accasate” con
tanto di bandiera. E una Bandiera, in Romagna, è “la” Bandiera. E provatevi a sostenere il
contrario.
Quando - poi - i discorsi si facevano più analitici e buttati sui soldi, ecco qualcuno venir
fuori per dire che le cooperative erano già tante, che i grossi produttori preferivano trattare
direttamente con gli esportatori e che, volendo, fin dall’epoca del papato in Romagna,
esistevano i bagarini pronti dietro l’uscio. Un mercato fatto così - insomma - ma che grazie
a Dio tirava, e certe argomentazioni proiettate al futuro erano in pochi ad ammetterle.
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Gli "Invadenti" - Il “Concetto Fruttadoro” e la realtà
Davis Bonfatti
Questa pubblicazione (un semplice “spaccato” di vita contemporanea) viene cordialmente
offerto alla lettura dal
“GRUPPO FRUTTADORO di ROMAGNA” - CESENA
che sul mercato europeo dell’ortofrutticoltura opera da oltre vent’anni, con l’apporto di
3.500 produttori, con il marchio: PRODOTTO GARANTITO.
Questo prodotto è ottenuto con l’applicazione della tecnica biologica di lotta integrata e di
lotta guidata, costantemente seguite dallo staff dei tecnici agricoli delle Coop componenti
il Gruppo Fruttadoro. Analisi di laboratorio continue, per campione, ne garantiscono la
perfetta rispondenza alle norme di Legge. Pertanto il Gruppo Fruttadoro garantisce che il
prodotto contenuto in questa confezione è sano, garantito, e può essere consumato da tutti
per beneficiare delle qualità organolettiche e vitaminiche che questo frutto contiene.
Nel settore dei surgelati è presente con i marchi: OROGEL, MARMELLATE SOLOFRUTTA,
FRUTTADORO DI ROMAGNA.
L’avvio promozionale del “Fruttadoro” non è stato facile. Diffondere l’iniziativa, spiegarne
i concetti, convincere gli increduli, colloquiare non di rado con chi a farsi convincere ci
teneva poco, era impresa ardua.
Girare per le campagne, dal cesenate al ravennate, fino al ferrarese, era facile solo a
dirsi.
Creare d’attorno fiducia e credito, domandare una firma (talvolta qualche mille lire) sulla
parola, in ambienti che prima di darti una mano intende vedere chiaro se la mano che
chiede è pulita, è cronaca tutta da raccontare…
Una cronaca talvolta disadorna, fredda; talvolta esaltante, umana, sempre viva che ancora
continua dilatata nel tempo e sviluppata nel progresso.
Gli "Invadenti" - Il “Concetto Fruttadoro” e la realtà
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Davis Bonfatti
Tra cronaca e storia
E tutti (o quasi) dissero O.K.
Saranno I postumi dell’effetto Golfo Persico a suggerirne scioccamente l’immagine ma
in giro c’è l’impressione che il mondo cooperativo Italiano sia tutto preso - o quasi - da
grandi manovre prima di intraprendere la grande battaglia che non potrà che essere
transnazionale.
E così quando è stato detto che non era più il tempo di concorrenze all’interno della
cooperazione ma di affrontare il mercato e che bisognava aggiornarsi proprio nell’interesse
dei produttori operando secondo economie di scala e secondo analisi di mercato che
tenessero conto dei costi e dei benefici, ecco tutti a dire O.K. che così andava bene. Anche
perché, al momento, non venivano offerte idee sostitutive per la sopravvivenza economica
del sistema cooperativo. Qualcosa di simile, del resto, va accadendo anche nel mondo
sindacale.
L’idea cooperativa nata oltre cent’anni fa principalmente come Opera di Mutuo Soccorso
Nell’ambito di un principio sociologico insito nel solidarismo cattolico, è stato via via stravolto
da motivi tecnici e da opportunità di comodo, specie allorquando bandiere politiche la
fecero propria fino a depauperarne statuti e intenti. E su tante piccole debolezze si costruì
talvolta una debolezza più grande. Patrimoni ingenti economici e morali buttati nel rusco
per iniziative soltanto sulla carta o nel deserto.
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Gli "Invadenti" - Tra cronaca e storia
Davis Bonfatti
Il ridisegnamento
Di questa immagine oggi se ne tenta il ridisegnamento attraverso accorpamenti, confluenze,
fusioni anche non indolori per arrivare ad una più diffusa cultura cooperativa d’impresa, in
una nuova managerialità, secondo un processo di ristrutturazione il cui prezzo economico,
ideologico, strategico resta tutto da definire.
Il futuro dell’agricoltura è anche il futuro della cooperazione. Le incertezze ed i rischi
impliciti di una liberalizzazione dei mercati agricoli, costituiscono anche per le cooperative
agricole un problema non indifferente a causa di un mercato agroalimentare profondamente
cambiato rispetto al passato tradizionale.
In questo contesto le cooperative e le loro organizzazioni di più elevato grado vengono a
contatto con imprese di portata nazionale ma soprattutto con grandi gruppi transnazionali
che controllano quote sempre maggiori negli scambi dei prodotti e specialmente condizionano
il sistema agroalimentare nella fase decisiva della distribuzione avendo un rapporto diretto
con la domanda.
Gli "Invadenti" - Il ridisegnamento
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Davis Bonfatti
Restare alla pari
Ora, fusioni od accorpamenti più o meno all’italiana a parte, o viene costruito qualcosa
di più avanzato di quanto viene fatto in altri Paesi o si va a “confondersi” con loro. In
quest’ultima evenienza c’è chi raccomanda di “mettersi con i più forti” con la volontà di
almeno restare alla pari.
Insomma, cambiali per pagare il costo delle innovazioni le cooperative possono anche essere
indotte a rilasciarle, ma con la firma in bianco lo dubitiamo.
Se già oggi nessuno regala più niente, figuriamoci domani.
Anche la varata costituzione di società finanziarie fra enti bisognosi di risanamento e
centrali cooperative pur sempre gelose di passate autonomie, non saranno esperienze facili
da superare in presenza dei grandi processi di trasformazione dei sistemi produttivi e dei
nuovi rapporti internazionali 1993.
Ci sembra essere nel vero chi sostiene che il benessere viene giocato solo nel rapporto
tra capitalismo, democrazia e libertà e che il pericolo più grosso che corriamo è quello di
pensare che il presente possa essere gestito come il passato e il futuro come il presente.
Conclusione: strategie operative da discutere per il loro consolidamento le nostre cooperative
di base indubbiamente ne hanno a tutto campo. Ma è giusto che sia così.
Davis Bonfatti
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Gli "Invadenti" - Restare alla pari
Davis Bonfatti
La struttura “Fruttadoro”
- 18 cooperative ed enti consorziati
- 9 stabilimenti di lavorazione
- 3.000 soci produttori
- 1106 dipendenti fissi o stagionali
- 1.250.000 ql di prodotti (tra freschi, surgelati e confetture)
- 160 miliardi di fatturato (1990)
- 2 laboratori scientifici di ricerche e sperimentazioni
- ~ 7.000 ettari associati per i conferimenti di prodotti freschi al “Fruttadoro” e per i
surgelati “Orogel”
Della produzione conferita dai soci, oltre 850.000 quintali sono destinati al mercato del
prodotto fresco ed il rimanente viene assorbito dalla surgelazione per il marchio “Orogel”
ed a quello delle confetture.
Più del 60% della produzione (principalmente del prodotto fresco) viene collocato sui
mercati esteri. Nel complesso le celle-frigo presentano una capacità totale di oltre 300.000
quintali. Investimenti vari nelle strutture per circa 49 miliardi nel corso dei primi venti anni
di attività del “Gruppo”.
Ulteriori sviluppi sono in corso per le associate:
“VITRO-PLANT” per la moltiplicazione in vitro delle piante,
“SEMEDORO” per lo sviluppo dei servizi collettivi
e “CAPORALI” per la produzione delle mostarde di Romagna “ Orofrutta “
Gli "Invadenti" - La struttura “Fruttadoro”
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Documenti e Commenti
Gli "Invadenti" - La struttura “Fruttadoro”
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Il commento
E’ appurato che se una grande industria deve licenziare un migliaio di operai, tutta la
nazione viene fatta agitare di commozione e il Governo si dimostra subito disponibile per
imporre sacrifici. Ma se la progressiva desertificazione dei territori agropastorali collinari
e montani del nostro paese denuncia che 50 o 60.000 addetti hanno dovuto abbandonare
l’attività e sono rimasti senza possibilità di altri impieghi, l’avvenimento non fa neppure
notizia.
§§§
Al cameriere che a complemento del pranzo vi suggerisce ossequioso “una fresca fetta
di asahi miyako dark green per dessert”, non opponetegli la vostra faccia stupita - quel
cameriere - avendo letto quanto di recente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della nostra
repubblica - ha inteso soltanto offrirvi una fetta di anguria.
§§§
A me l’hanno raccontata così: Pinocchio non “morì” quando si trasformò in un bambino in
carne ed ossa: Pinocchio restò tale per tutta la vita come lo costruì Mastro Geppetto. Anzi:
divenne adulto, invecchiò, ebbe un figlio. Morì amareggiato - è vero – ma per via del figlio,
della vita grama vissuta, per le cose che gli avevano fatto dire e che lui (Pinocchio) mai si
era sognato di dire. E poi quel figlio tutto sbagliato, sempre in giro per le piazze a portar
bandiere e cartelli della contestazione, dove l’unica cosa da fare era di urlare invettive e
quella da non fare era di lavorare.
Ora Pinocchio è li, morente, e chi gli è accanto sente nel rantolo l’ultima preoccupazione: la
sorte di quelle sue “tre vacche nella stalla” e che qualcuno dovrà pur badarci perché non si
può aspettare a lungo che il figlio ritorni per prendersi cura di un bene messo su impiegando
- diceva - una vita.
§§§
“Intendiamo promuovere un’azione di risanamento economico finalizzato alla difesa e allo
Gli "Invadenti" - Il commento
101
Davis Bonfatti
sviluppo dell’occupazione in coerenza con l’utilizzazione delle risorse esistenti e attraverso
iniziative, che riducano l’inflazione, rilancino la produttività, introducano un rigore che,
nel rispetto dell’equità, riordinino e rendano efficiente il sistema economico nazionale”.
Il “documento” che abbiamo riportato per intero (dove c’è tutto di tutto) è lo stralcio di un
programma di governo di un partito che si dice vada per la maggiore.
Sintassi a parte, la prosa ci ricorda i requisiti prescritti nel “regolamento ferroviario” del
1938 dove (per il trasporto delle damigiane) gli involucri dovevano essere “flessibili ma
abbastanza rigidi, resistenti all’urto ma non duri”.
§§§
Ormai sembrano tutti d’accordo: la nostra Costituzione non va più bene. Ha appena
quarant’anni ma ne dimostra molti di più.
In verità nacque condizionata, e in più parti distorta, dalle ossessioni. Perciò evirò l’Esecutivo
attribuendo esagerati poteri al Legislativo.
Viziata da un certo tipo di ultraparlamentarismo e da enfasi predicatorie, oggi mostra la
corda. Una sua revisione è urgente.
§§§
In pratica - in Italia - non si è ancora fatta né una politica anticongiunturale seria né si sono
attuate le riforme di cui abbiamo bisogno. Si è discusso, si è polemizzato, ci si è talvolta
incattiviti ma l’appuntamento con la realtà è stato sempre rinviato. AI massimo si sono fatti
dei rattoppi per decreto che poi si sono regolarmente scollati.
L’agricoltura (per parlare di casa nostra) ha una struttura produttiva ancora sostanzialmente
sana. Però chiede punti fermi. Segnali precisi lungo una rotta non dichiarata. Sia sui suoi
problemi interni che con l’estero.
Dicevano i nostri padri che bisogna sapere navigare: siano le acque alte o basse. L’importante
è avere una pertica per non incagliarsi.
Ecco all’Azienda Italia serve una pertica per non naufragare. Una semplice “pertica” che si
chiama realismo.
§§§
Nell’uso che è invalso di andare a ripescare tutti gli anniversari, vorremmo che trovasse
posto il ventennale di una famosa lettera che Emilio Colombo, all’epoca ministro del Tesoro,
inviò al presidente del Consiglio Aldo Moro, alle prese con il suo primo e breve governo di
centro-sinistra. La rievocazione sarebbe giustificata da tre motivi: il primo è che quella
lettera (che pure provocò una crisi di governo) rimase sempre un segreto di stato; il secondo
è che essa prefigurò con estrema lucidità i rischi cui il sistema economico italiano andava
102
Gli "Invadenti" - Il commento
Davis Bonfatti
incontro; il terzo è che oggi, dopo vent’anni, siamo ancora a colluttare con i medesimi
problemi.
§§§
Contrabbandare le sconfitte come altrettante vittorie sembra essere la nuova «bandiera» di
questa nostra epoca. Ma i conti non tornano. Non tornano da una quarantina d’anni allorché
diedero al nostro Paese norme e «carte» di vita figliastre di quei tempi difficili.
Per mille segni (culturali, economici, sociali, politici) la necessità di profonde riforme
istituzionali non è più procrastinabile. Anche contrabbandando per libertà democratiche le
debolezze istituzionali si può morire.
§§§
Quarant’anni fa un mostruoso diktat tolse all’Italia antiche terre venete costringendo mezzo
milione di giuliani, dalmati ed istriani all’esodo più drammatico del nostro dopo guerra.
Giornate fatte di speculazioni ignobili, di silenti ufficiali ancor oggi ripetuti, di rabbia
impotente e di nostalgie amare alimentarono la diaspora di quelle genti.
Gli "Invadenti" - Il commento
103
Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Quando la storia si ripete
I ricordi lontani sono come il primo amore: difficili da dimenticare. Se il mio primo amore
aveva nome Olga, il ricordo inciampa nei Consorzi Agrari.
Attorno agli anni trenta del 1900 mi trovo anonimo accompagnatore di Carlo Pareschi che
per via di certi precedenti è un poco di casa con Mussolini dal quale un giorno si fa ricevere
per esporre con “cameratesca franchezza” uno sconsolato parere sulle disfunzioni della
Federconsorzi e di taluni Cap di quei tempi.
Il Duce ascolta e dice: “... Provvederemo!” Poi come parlando al vento conclude: “...purché
non finisca tutto con un colpo di spugna”.
La storia - come noto- ama ripetersi. Arriviamo agli anni ‘60 e per circostanze più forti
del mio scarso potere mi faccio ricevere a Roma da un certo rag. Leonida Mizzi che alla
Federconsorzi è conosciuto da una moltitudine. Espongo al ragioniere i motivi di un diffuso
malessere sulla gestione di taluni Consorzi Agrari e poi aspetto adeguate risposte. Il cav.
Mizzi resta un poco in silenzio, si passa una mano fra i capelli grigi ben curati, schiaccia
un bottone da una tastiera ed al messo che compare nella stanza dice, rivolto a me: “Si
accomodi”. E siccome indica la porta esco.
Passano ancora trent’anni e siamo ai giorni nostri. Molti personaggi sono nel frattempo
entrati ed usciti dagli accoglienti saloni federconsortili di Roma e dintorni. Diversi sono
scomparsi dalla vita terrena. Ma quello che non è mai scomparso è quello strano malessere
che praticamente da sempre ha accompagnato (e solo gli storici di queste cose troveranno
i perché) le vicende della Federconsorzi e dei suoi Consorzi periferici.
Dicono che il futuro dell’Ente sia nelle mani del Banco di Santo Spirito (e dei giapponesi).
Può darsi. Ma sarebbe più rassicurante se il tutto fosse nelle intenzioni del solo Spirito
Santo.
Ma questa è una battuta ignobile di cui mi vergogno.
RUSTlCUS
Gli "Invadenti" - Quando la storia si ripete
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Davis Bonfatti
Questa sera corsa tris
Vi partecipano:
- Cesena
- Un ippodromo
- Alcuni cavalli
- Diversi personaggi
- Una decina di miliardi di lire
- Una folla urlante per un cavallo che vince
- Altra folla urlante per un cavallo che “rompe”
Raccontano che tutto (o quasi) cominciò col cavallo. Da secoli. Non ci sono battaglie,
trasporti, collegamenti, fughe che non abbiano avuto per protagonista l’intelligenza, il
coraggio, la duttilità di questo animale. Un nobile tra nobili.
Nella Roma dei cesari avere un cavallo era titolo di merito. Arrivò perfino a “valere un
regno”. Almeno così fa dire Shakespeare a Riccardo III alla battaglia di Dsoworth nel 1485.
Ma era solo un’invocazione.
Fu familiare (il cavallo) agli indoeuropei e, assieme, ai popoli turco-arabi. A sua patria
d’origine può essere citato il territorio stepposo sito tra l’Asia e L’Europa dalle parti del Mar
Caspio. Più tardi, dopo la sua diffusione unita all’ammirazione di “animale superiore”, lo
troviamo sia presso gli Egizi ed i Sumeri che gli Assiri. Arabi ed Ebrei furono tra i primi che
usarono il cavallo per il traino del “carro di guerra”. Nei film western il cavallo fa rivivere
intense pagine da epopea.
Carne, latte, pelle per le necessità della vita dell’uomo sono il cardine di questo animale.
Anche se, da qualche parte; questo utilizzo viene definito cannibalismo.
Dal Bucefalo di Alessandro ai giorni nostri è però negli ippodromi che il cavallo meglio
esprime talune delle sue molteplici capacità. E quando si è voluto dare una misura alla
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Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
Davis Bonfatti
potenza del motore, non si è trovato di meglio che chiamarlo “cavallo vapore”.
É l’unico animale che sia riuscito (con l’elefante) ad avere un nome e un posto nella
storia.
Ci sarebbero anche le oche, ma questo non fa testo.
Per quanto possa apparire non credibile, viene detto che le prime corse al trotto
(documentabili) vennero disputate nelle Olimpiadi antiche; cosa che non sarebbe disdicevole
se ai tempi odierni venissero reinserite. Addirittura si ha notizia di una gara effettuata nel
445 a.C. vinta da Pataikos nella città di Dime.
Nell’era moderna sono parecchi i paesi che si contendono l’onore di aver dato per primi
l’avvio delle corse al trotto come, più o meno, le intendiamo oggi. Pare (il condizionale è
d’obbligo) che la prima gara sia stata disputata in Russia nel 1775 mentre le prime “piste”
ufficiali siano state costruite in America (Long Island) nel 1825 ed in Francia (Cherbour) nel
1836.
In Italia il documento più antico che si conosce sarebbe il manifesto della “Corsa per Sedioli”
organizzata a Padova il 13 agosto del 1908 in quella grande piazza che veniva chiamata (ed
ancora si chiama) Prato della Valle. Ma già dopo qualche decennio già si correva in Romagna
ed in altre regioni e fin da allora si scommetteva sui risultati.
§§§
A Cesena - per dirne una - è tradizione che ai primi di settembre si corra all’ippodromo del
Savio - in un impianto per le gare in notturna fra i più moderni esistenti - il Campionato
Europeo di trotto con la formula del vincere, nella stessa serata – due prove su tre.
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
107
Davis Bonfatti
I.
É stato detto, per antiche ragioni, che se a Cesena non ci fosse l’ippodromo
bisognerebbe inventarlo. Tanto meglio: così non c’è niente da inventare ma tutto
da vedere. E chi volesse saperne di più sul mondo del trotto, sui cavalli, sui drivers,
sugli artieri e “faccendieri” che attorno a questo mondo ruotano, non cerchi qui la
risposta. Vada di persona a coglierne l’essenza.
Il “miracolo” dello sport del trotto non è dato dalle luci o dal mondo barracandiero
che lo circonda: è dato da un qualcosa di più che sta a monte dove si creano le
premesse per l’ultimo atto che avverte “i cavalli si avviano alla partenza”.
Quello che segue poi è soltanto fantasia che la folla accompagna con l’urlo talvolta
gioioso, talvolta deluso. Come per tutte le cose.
II.
Sono tentato. Il rischio è parte integrante della mia indole. Ci provo. Nell’androne
sotto le vaste tribune mi butto nella mischia per tentare un cinquemila di fortuna.
La ressa è molta ma confido di farcela.
Errore. Dall’altoparlante una voce annuncia che” i cavalli si avviano alla partenza”
ed allora tutti scappano fuori mentre i vetri calano sulle custodie, a chiudere i residui
multicolori biglietti del gioco.
Mi ritrovo solo nell’androne che sembra ancora più grande a rigirarmi fra le mani il
cinquemila scampato. Dalla folla viene l’urlo: “Ha rotto, ha rotto”, ma non sento
alcun rumore di qualcosa che si è infranto.
Forse debbo farmi una cultura.
III.
Dice: “Beh, che ci vuole per suonare una campana?”.
E invece no. La campana, quando si tratta di corse al trotto con cavalli in pista in
disaccordo, bisogna suonarla così e cosà e non diversamente. La legge è uguale per
tutti, almeno all’ippodromo. Poi via in gruppo serrato dietro la decapottabile bianca
con le ali a rientrare. “Angelo” e lucciola insieme. Che per via dei zik zik gialli di
coda, quando le cose non vanno bene, obbliga a rifarle.
IV.
Fra i giovani, oggi - cavalcando potentissime moto dalle strutture tecniche altamente
elaborate o al volante di possenti automezzi 4x4 - impera il Cross, il Trial, il Country,
il fuoristrada e qualche altra diavoleria.
Attraverso queste speciali competizioni od anche soltanto per diletto, i piloti
prendono diretti contatti con la natura, convinti di fare dello sport nell’ecologia.
Ci sembra che se sport è, vero è anche che (ecologicamente parlando) è una forma
di abbruttimento dell’ambiente.
108
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
Davis Bonfatti
V.
Al di fuori di una prospettiva di esagerata industrializzazione sportiva o dilettevole,
condurre un mezzo meccanico “fuori strada” non vale certamente una passeggiata a
cavallo sullo stesso percorso.
E’ come vivere dal di dentro della natura.
VI.
Le discipline ippiche sembrano (a parere degli intenditori) il mezzo migliore per
rilanciare decisamente l’immagine del cavallo. I 18.000 del “parco trottistico”
italiano ed i circa ottomila di quelli “da sella” sono ancora pochi: oltretutto limitati
nell’impiego a costi spesso proibitivi.
Ben di più si potrebbe fare attuando una politica più attuale a partire dagli
allevamenti. Per portare alla possibilità di tutti il cavallo.
VII.
Dice: Parliamo del cavallo?
--
Parliamone - dico
--
Il cavallo è nobile.
--
Beh?
--
Anche quando tira un carro.
--
E allora?
--
Il cavallo, quando corre forte, sembra che le sue gambe non tocchino terra.
--
E con questo?
--
Come Mennea ai suoi tempi.
--
Chissà com’è contento.
--
Il cavallo?
--
No, Mennea.
--
Che c’entra?
--
Chi?
--
Mennea.
--
Ma non si parlava del cavallo?
--
E allora?
--
Allora niente. Ciao.
--
Ciao.
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
109
Davis Bonfatti
VIII.
All’ippodromo, se vi capita di guardare su verso l’alto della tribuna, dove regnano
sotto vetro i santoni della cronaca, non potete non notarlo.
Stakanovista preciso, con qualunque tempo, non manca mai. Il giorno dopo, sulle
cronache, racconta tutto. Anche quello che tu - distratto - non hai visto. Il suo volto
non dice niente; fa eccezione il pelo rossiccio. Ed un sorriso largo che non si sa bene
fino dov’è canzonatorio. É un tipo. Nella “galleria dei ricordi del Savio” - un giorno
– ci starà meritatamente.
IX.
Uno che conosco di vista e che di mestiere ha fatto lo scassinatore, mi ha confidato
che non è importante quello che c’è dentro la cassaforte della Società corse quanto,
piuttosto, la cassaforte stessa. Vero pezzo da museo.
X.
Il miglior punto di osservazione in un ippodromo (per un buongustaio in cerca di
emozioni “trottistiche”) è quello sulla prima curva dopo l’arrivo. E’ lì che si captano
dopo la conclusione della prova i complimenti reciproci, non sempre fraterni, che i
protagonisti si scambiano.
XI.
“007: giudice o spia” potrebbe sembrare il titolo di un film d’azione. E invece no.
Più semplicemente è l’auto blu notte che a fari spenti, guatando nel buio,
dall’interno della pista segue ogni corsa. I cavalli, muniti di paraocchi, forse la non
la vedono, ma i loro conduttori no, la vedono benissimo. E la temono. Perché da
quell’abitacolo talvolta viene trasmesso un ordine che - ingigantito dagli altoparlanti
- suona così: “numero quattro: squalificato”. E dalle tribune al parterre non di rado
un’imprecazione boia sale al cielo come un tuono estivo.
XII.
Gridare festoso della folla, luci sfolgoranti nella notte, inno nazionale, bandiera,
un mucchio di gente d’attorno a stringere come in un grande abbraccio Pershing,
cavallo vincitore dell’Europeo sulla grande pista di Cesena. Lui è abituato alle grandi
vittorie, ma un titolo è sempre un titolo.
Perciò alla premiazione abbassa un poco la sua testa superba di bellezza per ricevere
la corona di alloro. Ne addenta un rametto, così, tanto per ricordare che la vittoria
è stata - anche - sua.
XIII.
110
L’inno della sua patria lo accoglie per la premiazione. Il titolo europeo è suo.
Lindstedt, dondolandosi composto e lieve a bordo del sulki, si toglie il casco in segno
di rispetto. I biondi capelli resi più vividi dalle luci, lo fanno sembrare un vikingo da
leggenda: approdato vincente dopo aver domato la contesa.
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
Davis Bonfatti
XIV.
Lui - nella storia - è il caro grande “vecchio” della trottistica e quando corre lui c’è
di mezzo la bandiera e la gente di Romagna s’incendia e vorrebbe il miracolo. Ma
i miracoli - pur sulla pista resa magica dalla tecnica - sono duri a venire. Anche le
conquiste hanno un limite. Ti abbraccio vecchio generoso Delfo.
XV.
Tra luglio e settembre, nonostante la “stazza” che con tenacia tenta di ridurre,
è come una bandiera “sbattuta dai venti”. Però com’è capace lui di condurre le
“pubbliche relazioni” di più non è possibile. Nemmeno col turbo. Imprevedibile,
instancabile, impuntuale da sempre (qualche volta anche uomo di toga) è il “cavallo
vincente” del Savio e dell’Arcoveggio. Quando non vince, quantomeno si piazza.
XVI.
La corsa sfila via veloce sulla pista che sembra di seta grigia. Tutti la vedono, la
seguono, la commentano.
Ognuno a proprio uso e consumo. Soltanto lui - la voce - insiste potente in una specie
di radiocronaca, illudendosi di essere ascoltato. E di non sbagliare.
XVII. Improvvisamente s’è stancato del sulky, delle briglie, del driver, della capretta, delle
cure dell’artiere, delle frustate nei fianchi, del gridare della folla. Ha piantato tutto
e s’è messo in proprio. Libero. Di sorpresa è “scappato dalla cuccia” e si è buttato in
pista. Inanella giri su giri a coda dritta, ogni tanto sgroppando a balzi. Poi stramazza
esausto.
Fulminato dalla gioia di sentirsi libero.
XVIII. Ogni tanto sulla pista resa più vivida dalle luci, si rincorrono un trattore col coperchio
che trascina una grande scopa; un trattore senza coperchio che spinge un’altra
grande scopa e un’autobotte che spolvera acqua. Ma nessuno scommette un soldo
su di loro.
XIX.
Una corona di alloro al collo del cavallo vincitore, una coppa al proprietario, una
medaglia al guidatore. E tante feste d’attorno di addetti e di intrusi a sgomitarsi in
primo piano per la foto di rito dell’eterno Calbucci.
XX.
Se anche mi ha fatto fesso la colpa non è sua.
L’ho “giocato” forte e vincente perché occulte vie mi avevano mormorato il suo
nome. E sono stato al gioco. Alla sgambatura mi era sembrato un dio. Scattante,
lucido, potente. Bella la criniera alla brezza della notte. Alla partenza l’ho seguito
palpitando, l’ho visto anche in testa, poi alla seconda curvatura l’ho perso nel
mucchio. All’arrivo era in coda, buon ultimo. E volgendo un poco la testa verso il
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
111
Davis Bonfatti
pubblico ghignava anche, il bastardo.
XXI.
Lo chiamano driver ma è soltanto un modo come un’altro per dare l’impressione di
conoscere la lingua inglese. Ma il punto non è questo. L’importante sta nel capire
come faccia a tenere, in contemporanea, le redini, il cronometro, il frustino e, non
di rado, un secondo marcatempo.
XXII. Maniscalco: una professione la cui origine si perde nella notte dei tempi. E’ (quasi)
una scienza. A volte basta aumentare o spostare di mezzo millimetro il ferro nello
zoccolo del cavallo per ottenere risultati che, diversamente, non verrebbero. Una
ricerca oculata, difficile, paziente dove ogni cavallo costituisce un’esperienza.
XXIII. Nell’archivio fotografico della vecchia e gloriosa Società Cesenate Corse al Trotto la
sua immagine di “padrone di casa” è presente a migliaia. In particolare non manca
mai alle premiazioni. Puntuale, compito, sorridente, distinto nei modi e nel vestire si
porta appresso con disinvolta natura la propria stazza. Non è il “capo” della società,
ma viene subito dopo.
Lo studio privato con finestra grande a guardare una piazza importante di Cesena è
come un museo: ingombro di trofei, foto, lettere autografe incorniciate, manifesti
di ieri e dell’altro ieri. E tanti ricordi. Una stanza che vale la pena di visitare, se lui
permette.
XXIV. Lui, lei e un ragazzo. Rossiccio di pelo lui, spessi ricciolini biondi su capelli corti lei,
tarchiatello con occhiali e capelli color stoppa cotta nel vino il ragazzo. Provengono,
indubbiamente, dalla vicina spiaggia di Cesenatico ed altrettanto indubbiamente
sono del Nord Europa.
Siedono compostamente in tribuna a mezza costa, non parlano e non si agitano.
Nemmeno quando il finale della gara è incerto. Guardano la folla; l’ambiente, le
corse con distacco.
Passa il gelataio a scomodar la gente con la cassetta ingombrante ed ognuno dei tre
si serve. Il ragazzo preferisce un ghiacciolo.
Alla terza corsa passano prima il piadinaro con le fette imbottite di prosciutto e poi
il solito ragazzo dalla cassetta ingombrante con la Coca-Cola e l’acqua tonica e i tre
si servono nuovamente.
Alla quarta disputa l’uomo scende al piano e ritorna con pacchetti di noccioline e
lupini. Mangiano con metodo, lentamente. I gusci dei lupini non finiscono a terra ma
vengono riposti nel cartoccio: educatamente.
Ripassa alla quinta tornata l’addetto alle bevande e il rifornimento idrico si ripete
puntuale mentre in pista la solita disfida tra uno dei Bald e il Clementoni (con il
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Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
Davis Bonfatti
Bechicchi a fare da terzo incomodo) passa veloce.
Ancora ripassa il petulante venditore dalla cassetta ingombrante e il ragazzo frigna
a lungo un qualcosa che non capisco ma non becca niente.
Escono alla penultima gara, uno dietro l’altro in fila a passo ritmato. Anch’io - dopo
l’ultima sconfitta al totalizzatore - esco mentre le grandi luci si spengono. Fra gli
appassionati qualcuno ride e qualche altro impreca piano.
Alla pizzeria d’angolo chi c’è? Ci sono loro tre, perbacco, davanti ad una pizza grande
così e due boccali di birra scura. Al ragazzo acqua minerale (grande). All’Ippodromo
del Savio - di sera - ci si va anche per passare qualche ora così.
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Quando le lucciole sembrano lanterne
Gli "Invadenti" - Questa sera corsa tris
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
… Questa è Romagna
Sole, pinete, spiagge infuocate,
terme sorgive, donne abbronzate.
Verdi colline, calanchi argentati,
fiori da miele a cento sui prati.
Frutteti, fragole, orticoli a josa,
bietole e grano su terra buona.
Se intensa è la vita del romagnolo,
nelle campagne più forte è il lavoro.
Bello al mattino, quando all’aurora
canta col gallo la “gramadora”.
Gabbiani, rondini, lucciole a sera,
grilli in concerto per l’atmosfera.
Cavalli al trotto al “Savio” d’estate,
“rustide” di pesce col Sangiovese.
Sapore di mosto nell’aria autunnale,
neve d’inverno nelle contrade.
Un marafone giocato alla buona,
un valzer volato alla birbona,
una cantata andando in campagna,
… beh questa è Romagna
Gli "Invadenti" - … Questa è Romagna
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Davis Bonfatti
La sabbia stanca
A fine settembre
La sabbia ormai stanca
M’accoglie svogliata.
Tenue è il sole
Più tranquillo il mare
Dopo gli assalti a luglio.
Qua e là qualche luce a sera
Più a richiamar ricordi
Che a goder la vita.
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Gli "Invadenti" - La sabbia stanca
Davis Bonfatti
Pensione-Soggiorno in Riviera
Pensione-soggiorno per vecchi ed anziani
d’inverno in riviera vicino a Lavagni.
Coppie a rimorchio i passi tremanti,
un ombrello a bastone a reggere gli anni.
Diverse signore a gruppo ciarliere,
parlano fitte in cento maniere.
Tre vecchi discutono urlate opinioni,
ma sembran tre sordi di un solo copione.
Quattro alle carte fan lo scopone
tra un mare d’insulti ad ogni occasione.
Un gruppo vociante discute a più mani
(Craxi, Zanone, Andreotti, Fanfani)
e vengon risolti problemi e magagni,
di oggi, di ieri e di dopodomani.
Ma l’ora del pranzo ormai s’avvicina,
i gruppi si sciolgon e il mare respira.
Ritmico sbattere di piatti e posate,
a tavola sembrano tutti affamati.
La minestrina, la formaggina,
il riso in bianco, l’acqua salina.
La mela cotta, la pera matura,
latte al mattino e a cena il budino.
Il telefono squilla: “c’è la Cesira?”
no - prego - io sono la Elvira di Pisa.
Mimose a josa, fiori sui prati,
ardite colline d’ulivi argentati.
Gabbiani in volo, vele sul mare,
l’anziano a Lavagni ritorna a sognare.
Gli "Invadenti" - Pensione-Soggiorno in Riviera
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Davis Bonfatti
L’Onda
Burrascosa l’onda,
d’impeto sulla scogliera
urlando s’abbatte, sfinita,
come atleta sul traguardo
per la vittoria ambita.
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Gli "Invadenti" - L’Onda
Davis Bonfatti
Cecilia Carlotta
Dalla finestra di casa mia
che guarda spaziosa sulla via cittadina,
vedo passare ogni mattina
un’alta, magra svelta vecchina.
Cappellino di feltro un po’ smunto,
frappa celeste sull’abito stinto,
guanti, stola, borsetta d’argento,
un ombrellino stile ottocento.
Né da dove tu venga conosco
perciò stasera immaginare mi piace
di lietamente con te conversare
nel tuo piccolo lindo salotto.
Carta a fiorami alle pareti,
pelle di orso sul pavimento,
un grosso vaso di terracotta
un diploma intestato Cecilia Carlotta.
Dolce, vivace Cecilia Carlotta,
a più di ottant’anni ancora è uguale
nella voce, nel gesto, in quel modo di fare
di un tempo lontano che non puoi scordare.
Il tempo di quando era bello danzare
al ritmo di un valzer leggero e giocondo,
il tempo di quando, un fiore baciato,
languido il cuore faceva sognare.
Gli "Invadenti" - Cecilia Carlotta
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Davis Bonfatti
Stanotte in tre
Io,
il cielo, il mare,
stanotte in tre,
la stessa donna vorremmo amare.
In tre al buio,
in braccio all’onda calda,
quando l’estate sogna,
quando l’estate canta.
Si gonfia il vento,
il mare respira,
lenta s’adagia
l’onda alla riva.
Stanotte il cielo
io e il mare,
la stessa donna
vorremmo amare.
Vivide stelle
suoni lontani,
dimmi mare
che cosa brami.
lo,
il cielo, il mare,
stanotte in tre
la stessa donna vorremmo amare.
122
Gli "Invadenti" - Stanotte in tre
Davis Bonfatti
Senza fine
Innamorarmi di te fu facile
quel dì sulla collina,
quando del campo ti offersi un fiore
e tu - semplicemente - mi dicesti “amore”.
É vero: arrossisti un poco
ma non nascondesti il viso
e quando ti guardai negli occhi
vi ritrovai il sorriso.
In fretta poi passarono,
nello sfiorire gli anni;
tempi, stagioni, gioie
temprate dagli affanni.
Se oggi ancor tornassimo
- Lidya - su quello stesso prato,
ritroveremmo (certo) il fiore
di quel dì rigermogliato.
Che se per noi la vita,
l’amore stesso ha fine,
soltanto la natura, il cielo i prati…
il Creato tutto non avrà mai fine.
Gli "Invadenti" - Senza fine
123
Davis Bonfatti
Un giorno di piova
Un giorno di piova
un ritrovo di anziani
tre balli in famiglia
ricordi lontani.
Un disco che suona
alla vecchia maniera
al “ Bagno Mirella”
sulla Riviera.
Nel lento danzare
l’anziana tardona
si fa palpeggiare
fingendo un caschè.
Arzillo il vecchietto
s’aggrappa alle tette
tenute ben salde
dal busto di stecche.
Starnazza un moccioso
“dov’è la mia nonna”
ma quella già balla
cantando yiè yiè.
Un giorno di piova
un ritrovo di anziani
un ballo in famiglia
ricordi lontani.
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Gli "Invadenti" - Un giorno di piova
Davis Bonfatti
L’orologio
Come dono d’amicizia
mi regalò un orologio:
quadrato, dorato, da tavolo,
che da anni, ormai - batte dei giorni
le ore.
Volendo mi può far ricordare
con un trintillio l’appuntamento.
Ho riprovato - talvolta - a farlo,
ma all’appuntamento nessuno
più è venuto.
Lui continua a batter l’ore,
chiedendo solo un po’ di cura,
un ricordo, un nome, un sospiro
e della molla… un giro.
Gli "Invadenti" - L’orologio
125
Davis Bonfatti
Il mio presepe
Presepe mio di quand’ero bambino:
un angioletto dorato sul capannino,
una stellina a coda argentata
(alta e lontana) sulla montagna.
Bue, asinello, San Giuseppe, la Madonna
e - quieto - nella cesta a paglia,
bambìn Gesù che fa la nanna.
Adesso il mio presepe è fatto
di ricordi e di nostalgia
e, a guardar d’attorno vedo,
che non soltanto il tempo è volato via.
126
Gli "Invadenti" - Il mio presepe
Davis Bonfatti
...
Attraverso campi arati
sono venuto su per il fosso
senza far rumore
e all’ombra di una siepe in fiore
l’ho trovata:
ch’era lunga e stesa e addormentata.
Dormiva il suo bel sonno leggero,
come di notte distesa sul suo letto
e adagio con la calma del respiro
le si gonfiava e le si abbassava il petto.
Ha aperto un occhio appena
e poi “lasciatemi dormire” ha detto
ed io mi son messo giù,
lungo e steso accanto a lei
e per dormire ancora
nessun dei due ci ha pensato più.
Gli "Invadenti" - ...
127
Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Maschera per due
Gli "Invadenti" - ...
129
Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Maschera per due
LA SCENA
Un salotto arredato con gusto moderno. Televisione telefono, divano, poltrone.
Tavolo da gioco per quattro in un angolo. Luci indirette appropriate.
PERSONAGGI
- Anna
- Luca
Abiti appropriati. Età sulla trentina.
§§§
ANNA: … si può sapere quali pensieri vai rimuginando?
LUCA: Se sapessi che i miei capelli conoscono i miei pensieri, non esiterei a tagliarli; come
disse quel generale prussiano.
ANNA: Sei certo che si trattasse di un generale prussiano?
LUCA: No, ma rende l’idea.
ANNA: Calvo saresti decisamente orribile.
LUCA: La maggioranza delle donne non la pensano così.
ANNA: Lo ha detto il prussiano?
LUCA: No, gli amatorilizzatori.
ANNA: … gli?
Gli "Invadenti" - Maschera per due
131
Davis Bonfatti
LUCA: Amatorilizzatori.
ANNA: E che bipedi sono?
LUCA: Più semplicemente gli amatori.
ANNA: Se lo dici tu... (squilla il telefono).
LUCA: (all’apparecchio)… pronto… sì, te la passo… è qui.
ANNA: (all’apparecchio). Pronto… ah, sei tu… niente, si sta facendo una conversazione
cretina… non lo so, è per la faccenda del prussiano…
LUCA: Puoi anche tacere.
ANNA: … no, niente, è lui che mi supplica di sorvolare… sì, sempre per la faccenda del
prussiano calvo… No, non c’entra.
LUCA: Ora sì che non la fermi più.
ANNA: (sempre al telefono) ... senti, ora stacco. Ne riparleremo… no, noi non si esce
stasera, dobbiamo risolvere dei problemi…
LUCA: Uffa, basta. Non avete di meglio?
ANNA: … no, no… è sempre lui che sbuffa… sì il prussiano… mah, non so, dice che si farà
tagliare i capelli…
LUCA: Cosa?
ANNA: Dice di andare dall’Arnaldo. Fa dei tagli perfetti… Ciao, a domani, ciao.
LUCA: Ma dico, era proprio necessaria una conversazione cosi idiota? Poi si lamentano
perché il telefono è costoso.
ANNA: Almeno quella parlava.
LUCA. Io sono muto?
ANNA: Spesso, caro. Troppo spesso.
LUCA: Non capisco. Non vorrai dire…
ANNA: Si voglio, voglio… sei in casa fra sì e no due sere la settimana e quando ci sei la scena
è fiacca se non silenziosa. Oppure scrivi a macchina. Ecco. Scrivi a macchina. Così disturbi
anche. Una cosa infernale.
LUCA: E adesso?
ANNA: Adesso vuoto il sacco e poi non so cosa farò.
LUCA: Non un dramma, spero… (Suona il telefono).
ANNA: Ancora! (stacca il ricevitore) …Pronto … sì, che c’è? ... (a Luca)… prendi, è per te.
132
Gli "Invadenti" - Maschera per due
Davis Bonfatti
LUCA: Pronto… Anna? … Non lo so, scusa, aveva detto che era per me… Niente, non sta
accadendo niente. Non accade mai niente… Te la passo. (porge ad Anna il telefono) … ma
era per te, “cara”
ANNA: Pronto… ah, sei tu. Non avevo capito… ma niente, che cosa vuoi che ci sia… ma
niente ti dico. Tu piuttosto, che vuoi? … va bene, va bene, sei scusata, ma che vuoi? …
Senti Rita, ti ho già detto che ci vedremo domani… Niente, ho già detto che sei scusata…
insomma, una semplice discussione tra me e Luca.
LUCA: (rassegnato) … Addio!
ANNA: (a Luca) Dice di mandarti al bar così ti calmi; che poi tu sai che cosa vuol dire.
LUCA: Digli che è una lurida pettegola gelosa. Diglielo!
ANNA: (mostrando il telefono) Prendi, diglielo tu. (Luca prende il telefono e chiude) …
Senti, perché dovresti andare al bar?
LUCA. Fatti miei.
ANNA: Fatti miei? Mi sembra che a questo punto siano anche fatti nostri. Di noi due. Visto
che Rita ti ci manda. Al bar.
LUCA: Un accidente! (squilla di nuovo il telefono)
ANNA: (più svelta di Luca riprende il telefono)... Qui casa Rinaldi, chi parla? Sì, ma chi
parla?
LUCA: Chi è?
ANNA: Tiè, ecco chi parla.
LUCA: (al telefono) Dica… Ah, è lei… no, questa sera non è possibile. Sono occupato.
Una riunione di famiglia. Passi dal mio studio domani… Quando vuole, prendo appunto…
Arrivederla.
ANNA: Ipocrita.
LUCA: (posando l’apparecchio) Scocciatori. C’è lo studio, la segreteria telefonica, il
sostituto… Nossignori, a casa bisogna telefonare. Rompere a casa, bisogna.
ANNA: E sméttila. L’ipocrisia è degradante. Quella voce ha telefonato altre volte. L’ho
riconosciuta subito. Non ti sembrerebbe meglio dire le cose col loro nome?
LUCA: Nome un corno.
ANNA: L’hai detto!
LUCA: Non dire stupidaggini. Dimmi piuttosto cosa significa che “ha telefonato altre volte”?
Supposizioni, le tue. Ecco, supposizioni stupide. Insinuazioni. Come se il mio lavoro fosse
facile, senza tentazioni…
ANNA: Chiamale tentazioni…
Gli "Invadenti" - Maschera per due
133
Davis Bonfatti
LUCA: Ora basta!
ANNA: Però t’incavoli! Straparli e salta fuori pure il bar.
LUCA: Smettila.
ANNA: Piantala tu, piuttosto. Perché non è soltanto Rita a parlare di certe cose.
LUCA: Come, come… quali cose. Adesso non tirarti indietro come il tuo solito.
ANNA: Il tuo socio Armani, per esempio.
LUCA: E che c’entra Armani oltre a farti il cascamorto d’intorno?
ANNA: Roba fritta e rifritta e lo sai.
LUCA: Rifritta fin che vuoi ma puzza.
ANNA: Puzza sì, se non altro per le fatiche che fa per giustificare certe tue assenze… Potrei
stancarmi.
LUCA: E io della tua gelosia.
ANNA: Ma non sono cretina. E senza il… prussiano. E il maschio a mezzo servizio.
LUCA: Bene. Sai allora che faccio?
ANNA: Sì. É un’ora che vuoi farlo e ancora non sai che scusa trovare… (lieve gesto di
protesta di Luca) … Lascia andare. Vai, vai pure… (quasi come un sussurro) ipocrita.
LUCA: Non lo dire due volte.
ANNA: (forte) Ipocrita tu e il tuo biondo amico, “quello che conta” per essere chiari.
LUCA: Ne hai detta una di troppo. (esce in fretta)
ANNA: (dopo congrua pausa, si accende una sigaretta, va al telefono e con calma forma
un numero) … pronto Rita? … sì, è andato. Sbattendo la porta ma è andato. Vieni, vieni
presto… Non importa, il vestito non importa. Vieni subito… Ti amo, Rita. Ti aspetto…
(abbassa lentamente il telefono, abbassa fino alla penombra le luci della stanza, avvia il
giradischi che trasmette a volume basso una musica dolcissima, poi si stende sul divano
aspirando lentamente la sigaretta…)
Lentamente: SIPARIO
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Gli "Invadenti" - Maschera per due
Davis Bonfatti
Tre documenti da (non) buttare
Gli "Invadenti" - Maschera per due
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
Tre documenti da (non) buttare
A rileggere taluni documenti a cinquant’anni di distanza riguardanti eventi che dal 1939 al
1946 interessarono in modo determinate le sorti del nostro paese, essi ci appaiono come
ancora collocati in un’immotivata area di parcheggio.
Il lavorio politico-diplomatico di quegli anni di anteguerra, guerra e dopoguerra era stato
non breve ed intenso, sotterraneo nelle incertezze, brutale nelle premesse e per taluni
“tradimenti”, ostico e punitivo nelle sue conclusioni.
Era il 23 agosto 1939. Non più di quattro bandiere rosse con la svastica nera in campo
bianco penzolano pressoché inerti sulla facciata interna dell’aeroporto di Mosca. Molotov
per la Russia e von Ribbentrop per la Germania hitleriana dopo pochi preamboli firmano
un protocollo d’intesa per “salvaguardare la pace fra i popoli”. Così, almeno, si esprimono
le agenzie di stampa che a sorpresa annunciano l’evento. Tra le righe del comunicato da
qualche parte si arriva ad ipotizzare un quasi “sostegno esterno” del Vaticano, memori
che il 2 marzo del 1939 Pio XII si era premurato rivolgere al mondo un “appello per la pace
minacciata” e che il 24 successivo aveva ripetuto con angoscia lo storico “Nulla è perduto
con la pace. Tutto può esserlo con la guerra”. Ma nel corso della storia anche recente, più
volte i pontefici saranno chiamati a queste angosciose prove…
Nelle realtà - in quei giorni agostani - si sanciva di fatto tra due paesi dominati da regimi
a severa dittatura la spartizione dell’Europa, con le conseguenze distruttive, gli errori e le
ipocrisie ormai arcinote che largamente influenzarono anche l’Italia nonostante il famoso
proclama “O Roma o Mosca” di mussoliniana memoria. Il più spietato comunismo ed il
più spietato nazifascismo volevano far credere che per “salvaguardare la pace” si erano
amalgamati.
Era una beffa, ma qualcuno ci cascò e milioni di esseri umani ci lasciarono la vita. Ma non è
di questo che intendiamo parlare.
§§§
Il “punto” che c’interessa è il ricordo di tre documenti.
Ecco il primo. E’ di Benito Mussolini e s’intitola:
Gli "Invadenti" - Tre documenti da (non) buttare
137
Davis Bonfatti
“Il tempo del bastone e della carota”.
Viene pubblicato il 9 agosto del 1944 per far conoscere come i fatti e gli avvenimenti si
svolsero nei mesi tragici - nei mesi più tragici - della storia d’Italia: una storia che potrà
essere e sarà a suo tempo completata ma non potrà mai essere smentita e dove nella stessa
vicenda e nelle sue fatali conseguenze è contenuta la morale di una Italia “oggi crocifissa”,
ma dove - anche - (conclude l’autore) già si delinea all’orizzonte il crepuscolo mattinale
della resurrezione.
Un preciso concetto valutativo apre il documento mussoliniano. Ecco cose dice:
“Un dato di fatto della catastrofe italiana dell’estate 1943 è che l’origine
prima è dovuta alla Francia e si riconnette a una data: quella dell’8
novembre 1942, allorché aprì all’America le porte del Mediterraneo mentre
gli inglesi si tenevano prudenzialmente al largo. Così fin dal primo momento
apparve chiaro che lo sbarco di un’annata americana nel Mediterraneo (con
la “benedizione” russa e i tradimenti) costituiva un evento di grande portata
strategica destinata a modificare - se non a capovolgere - il rapporto delle
forze in quel settore che in Italia fu da sempre considerato, se non proprio
decisivo, certo della massima importanza…“.
La pubblicazione di Mussolini racconta poi per una cinquantina di pagine la “sua storia
di un anno” e di un popolo “in mille pezzi stracciato, con quell’eterna ansia e fatica del
“ricominciare” che sembra il privilegio e la condanna del popolo italiano”.
In genere - accade - che i fatti storici siano sovente se non dimenticati, almeno accantonati
o, più spesso, interpretati a seconda dei fini che si vogliono raggiungere. Ma il farlo è un
errore.
§§§
Il secondo documento - per tanti versi lasciato sbiadire - porta la data dell’agosto 1946 e
viene da Parigi. Trattasi del discorso che Alcide De Gasperi, capo del governo provvisorio
del tempo, tiene alla cosiddetta “Conferenza della Pace” davanti - come scrissero i giornali
dell’epoca - al “Tribunale dei Vincitori” forte di ben ventuno membri in rappresentanza
di altrettanti ex avversari, tutti protesi a “farci pagare misfatti e colpe” che di fatto,
nemmeno la dichiarazione di Quebec aveva convalidato nonostante le pressioni di Stalin e
dei rappresentanti di Jugoslavia e di Albania.
Alla conferenza parigina il riscatto che l’Italia aveva già in gran parte pagato non ebbe
obiettiva considerazione. Testimonianze oculari come quella dell’on. Brusasca affermano
che la nostra delegazione fu trattata “come imputati tenuti in camera di sicurezza fino
all’ingresso in aula dei giudici”. Soltanto l’americano Byrnes e un olandese ebbero per i
rappresentanti della “nouvelle Italie” qualche cenno di incoraggiamento.
In quel clima dove preminenti erano l’ostilità e la fretta di chiudere il “capitolo italiano”,
Alcide De Gasperi cominciò il suo dire…
“ Prendo la parola - disse - in questo consesso mondiale ben persuaso che
tutto è contro di me: e soprattutto lo è la mia qualifica di ex nemico, che mi
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Gli "Invadenti" - Tre documenti da (non) buttare
Davis Bonfatti
fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di
voi hanno già formulato le loro conclusioni.
Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di
responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, che questo
trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro”.
E concludeva:
“Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi domando
solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli
uomini e le donne di ogni Paese senza sostare su labili espedienti… “.
§§§
La “terza documentazione” viene il 13 agosto, sempre del 1946 e sempre da Parigi, dalla
“Conferenza della Pace”.
Trattasi del discorso che Molotov pronuncia, a nome della Russia e Paesi satelliti ad essa, in
aperta risposta alle posizioni dell’Italia.
Quello che Molotov ebbe a dire, non rifuggendo a taluni effetti retorici, lo abbiamo
integralmente desunto non dalle agenzie di stampa (spesso affrettatamente riassuntive) ma
dall’ufficiale “Supplemento n°4 del 15/8/1946 di Notizie Sovietiche”. Vediamone qualche
frammento.
“ Abbiamo ascoltato il discorso - dice il russo - del signor De Gasperi a
proposito del progetto di trattato con l’Italia. Se questo discorso rispecchia
in modo giusto la politica della nuova Italia, merita di essere considerato
con attenzione, tanto per quel che è stato detto quanto per quel che è stato
omesso. In ogni caso non si può lasciare senza risposta un discorso di rigetto
del trattato di pace e che può suscitare molti dubbi.
L’Italia fascista, che edificava il proprio benessere sulla base dell’espansione
e dell’occupazione di piccoli stati, si è screditata agli occhi dei popoli ed è
arrivata al fallimento.
Voi avete sentito che il signor De Gasperi ha concentrato la sua attenzione
sulla giustificazione delle pretese italiane che riguardano la parte occidentale
della Venezia Giulia, compresa la città di Trieste, eccitando le passioni nei
riguardi di questo problema.
… l’Unione Sovietica considera poi con estrema cautela richieste quali, ad
esempio, quella di accordare ai cittadini di qualsiasi Stato straniero, diritti
uguali a quelli dei cittadini italiani … “
§§§
A soltanto nostro personale avviso abbiamo voluto di proposito non addentrarci nei tre
Gli "Invadenti" - Tre documenti da (non) buttare
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Davis Bonfatti
documenti citati. Li abbiamo voluti soltanto ricordare perché meritevoli (secondo noi) di
essere fatti conoscere “per intero” alle giovani generazioni di questo fine secolo e di quelle
future per le considerazioni e valutazioni che l’onestà storica vorrà trarre.
(marzo 1991)
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Gli "Invadenti" - Tre documenti da (non) buttare
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Davis Bonfatti
Davis Bonfatti
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Sommario
Gli “Invadenti”
Un flash per una vita
Un flash per una vita
80: Una giornata (quasi) qualsiasi
11
41
Bipedi e Quadrupedi Documenti e Commenti inutili
Personaggi Interpretati Così
Un “Uomo Qualunque” e dintorni
Un prete
Adeodato detto “Gustavo”
Al tramonto di un secolo
Salmo per l’anno 2000
Un Maggiore T.O.
Il millepiedi
Un computer del Medioevo
Piero Gobetti
Preistoria - Storia – guerra e dopoguerra
Lettere mai spedite
Vescovo Gioacchino Muccin
Don Piero Altieri
La Conferenza
On. Antonio Patuelli
On. Dr. Giovanni Goria
Resto del Carlino 14/08/1988
Alto Giurista della Corte Costituzionale
Resto del Carlino 11/01/1988
Quando FIAT è “voluntas dei”
Dr. Indro Montanelli
Don Pietro Galavotti
On. Egidio Sterpa
On. Prof/ssa Franca Falcucci
On. Dr. Giovanni Goria
47
49
53
55
56
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61
62
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Davis Bonfatti
Una Romagna chiamata “Fruttadoro”
Romagna è … Il “Concetto Fruttadoro” e la realtà
Tra cronaca e storia
Il ridisegnamento
Restare alla pari
La struttura “Fruttadoro”
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97
Documenti e Commenti
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Il commento
Quando la storia si ripete
Questa sera corsa tris
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105
106
Quando le lucciole sembrano lanterne
… Questa è Romagna
La sabbia stanca
Pensione-Soggiorno in Riviera
L’Onda
Cecilia Carlotta
Stanotte in tre
Senza fine
Un giorno di piova
L’orologio
Il mio presepe
...
Maschera per due
Maschera per due
Tre documenti da (non) buttare
Tre documenti da (non) buttare
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Davis Bonfatti - Chiara Cantoni