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Agostino Colombo
Ci fosse un’altra vita
alla chiara fonte
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Nota dell’autore:
I fatti che queste poesie raccontano avvengono attorno all’anno 1936 quando il
protagonista era già una persona matura. I luoghi che percorre somigliano a
certa Lombardia anteriore alle fabbriche e ai fiumi incanalati; molti dei suoi
tratti li ho dedotti dai racconti che mia madre faceva di suo padre che è morto
prima che io nascessi. Ormai anche lei non c’è più per cui, come è fatale, poco
resta dell’identità di un mio avo.
Queste poesie, da leggersi una dopo l’altra come storie consecutive, sono state
scritte per non soccombere del tutto al tempo presente.
febbraio 2004
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CI FOSSE UN ‘ALTRA VITA
Appaio in manica di camicia bianca a righe fini e blu
come un fantasma su di un carro che sarebbe poi tutto
per me se ci fosse un’altra vita da vivere in un altro tempo e tu
calzoni sdruciti, maglietta bianca che sembri un pesce fuori dall’acqua
accoccolata al fianco; tu macedone o alessandrina o lombarda,
tu profumata di chicchi di riso, capezzoli ardenti e cieli tersi
e mani che se fossero state queste nostre vere non si lascerebbero più;
invece solo fumo e sillabe che fanno sognare un tempo altro
da questo estremo che ci è dato in sorte; cavallo
carro e una certa violenza del vivere che come donna non capiresti mai:
io uomo in giacca scura e spessa, in velluto direi, e bombetta;
uno spaventapasseri di mezza età in mezzo all’erba alta,
un capo, un contrabbandiere, un uomo antico e tu la donna a lui seduta accanto
su di un carro che ha un secchio in latta agganciato e dondolando batte
e fa l’eterno rumore dell’andare e un telo per fare l’ombra
quando si fa l’amore e si dorme nel viaggio che non termina mai
e del quale soltanto tu sapresti qualcosa ma non sei voluta venire.
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SE SUCCEDE CHE PAN CI GUARDA SODDISFATTO
Avrei paura a vedermelo lì pelle ossa e zampe caprine
e puzzo di becco che corre su per la china sgraziato torvo mai fermo
e poi lanciarsi dietro a una capra e con fragore ridere e far bestialità,
avrei paura a vedermelo li nudo e crudo che si sganascia improvviso
e salta grandi salti e atterra sempre in piedi: abbasserei la cresta,
il vanto, starei zitto zitto e tremante in quel suo sibilare tra canne
e soffi e urla e risa e zoccoli e capre e corna e salti e grida
improvvise come improvvisi sono i cambi d’umore.
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RADICI
Sono nato ai bordi di uno stagno tra i canneti,
ho ancora addosso il sapore del germoglio
e il freddo del vento che soffia tra le foglie;
sono nato sotto la ragnatela e il nido del passero
e ho visto luccicare il luccio quando veniva il temporale,
e certi barconi avvicinarsi alla mia casa di canne
come per prendermi con la loro civiltà e le loro regole,
mi nascondevo tra i rami più folti, ero come una lucertola
o un topo di campagna, ho sempre avuto un rifugio
dove nascondermi agli uomini, sono invecchiato
e conosco molto bene lo stagno, le canne, l’umido
ma non so quasi niente di loro, miei simili.
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SULLE SPALLE
Io sulle spalle ti porterei volentieri tanto sembri leggera
o sei come quei santoni che sono tutto pelle e ossa a guardarli
ma sono macigni perché sono saggi e praticamente
ancorati allo spirito e dunque ben saldi alle maniglie dell’eterno?
Io ti porterei sulle spalle un po’ soltanto
per farti vedere che sono ancora forte
ma anche perché è bello che il vento ti sfiori i capelli
e la faccia e i seni lassù in alto, ma ti prego di ridere
perché sei più leggera e poi apriremmo le braccia tutti e due,
uno sopra l’altro sotto; immagina che bello deve essere ballare in un prato
e girare su se stessi e sentirti ridere come una ragazza di primo pelo.
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LA GIACCA È POLVEROSA
La giacca è polverosa, la camicia ha il collo unto e mancano i bottoni;
più che i bottoni mi mancano le tue mani e di prenderle nelle mie
e tenerle con me perché sei una donna di terra e io un uomo di terra.
Ti ho mai parlato delle scarpe ? Sono stanche e con stringhe vecchie
e i calzoni molli di fustagno stanno su con la corda e sui prati
sfiorano col bordo i fiori e le erbe profumate - guardo in dietro,
resta il segno del passo ma poi l’erba si raddrizza subito
perché vado via leggero; se tu venissi a far la pellegrina con me
al santuario della terra potremmo accenderlo insieme il cero di sego
e ringraziare; là c’è un albergo per chi passa la notte e una locanda:
ci tratteremmo bene: fare l’amore a lungo e dormire il mattino.
Ma se non vieni io vado lo stesso a ringraziarla questa terra.
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VADO PER UN CAMPO
Vado per un campo infinito e tu hai la gonna a pallini blu,
vado e sono il treno di un nuovo ovest e ti prendo su con me davanti
dove sudo e trasudo tutto nero di carbone e butto nel fuoco palate
di nerofumo in chicchi scuri di grandine nera che il fuoco divora in fretta;
ma la tua gonna a pallini blu è come un’acqua gasata, una gazzosa fresca,
un giorno d’estate in un bar sulla riva del lago; sei una dolce ragazza gazzosa
che mi scoppietta intorno e mi sveglia all’azzurro latta di un treno
che tutto arruffato avanza sulle sue rotaie e va lontano.
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POMERIGGIO
Me ne sto zitto sull’aia di un vecchio maniero, un cortile, una selva di entrate,
ho appena legato il cavallo, staccato il carretto; ho abbassato la guardia
aperto le braccia, scappellato il cappello; guardo a veder se ti vedo
leggera e con quei capelli neri che non invecchiano, che fanno finta di niente
al vento della primavera e ti si snodano tutti intorno con fremiti di seta,
guardo se vedo almeno una delle sette vite che un gatto come te vivrebbe,
qui soltanto galline e qualche rumore di stalla. Ma le finestre dormono
e le tendine frusciano con l’ingenuo muoversi di un corpo senza vita;
tendine fantasmi, carezze di un altro mondo, mani morte da far raccapriccio
e io ho dato la biada al cavallo, e da bere e anch’io ho bevuto
e non ho voglia di andarmene da questo silenzio pomeridiano.
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CON LA PAZIENZA
Con la pazienza del cavallo da tiro ho voluto provare a vivere,
in una stalla ai lati della via principale, quasi sempre su strade sterrate,
ho ascoltato il sentimento molto più vecchio di me
che la vita scorre e non ne sono il padrone;
ho viaggiato su un carro faticoso, con il cavallo per amico
e certe volte una donna vicino, ma in fondo sono rimasto solo
a guardare l’infinito che va via giù per le rive lunghissime
di questo fiume a cui la bestia s’abbevera ma che a me fa paura.
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NON T’IMPORTA
Lo so che a te non importa se la cima più alta è ancora piena di neve
o che la valle è secca e non c’è erba o che più avanti un prato è pieno di fiori,
lo so che non ti importa che il biancospino è fiorito
e tutti gli alberi spingono gemme splendenti nel cielo;
lo so che non è gran che che il cavallo è ben governato
il carro curato, e che la notte è passata tranquilla
e che non t’importa di una bella donna che sto andando a trovare;
tu se ci sei sei sopra le nuvole e i tuoi umori non sono uguali ai nostri terreni.
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UNA MOLTITUDINE
Siamo una moltitudine sulla terra, un’immensa distesa di vite
vegetali animali umane; e noi umani siamo i più accaniti a farci strada,
secondi solo ai virus, eppure siamo microbi sotto il cielo.
Il cavallo è fermo coi paraocchi per le luci improvvise,
sono nuvolacce che arrivano, portano poco di buono,
l’anno è simile al ’36; segnano male le nuvole;
motociclette nere e barbare coi fanali improvvisi
passano schizzando fango e prepotenza e bagliori malvagi.
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NON GUARDO DI FINO
Sono uno che non guarda di fino, non un pignolo; non uno spaccapelo,
a me basta camminare accanto al carro, sentire lo zoccolo quieto,
un toc dopo l’altro; e andare: a briglia sciolta
mi scelgono le strade, come per la necessità del caso
e se sono tanti gli imbocchi uno solo è lo sbocco: un prato
dove ti troverò distesa e candida. Hai un vestito tutto ricamato a fiori
e sei giovanissima, come me del resto che mi stendo accanto
tra le labbra uno stelo e la camicia bianca e pulita
e guardiamo tutti e due il cielo che non ha nuvole
e posso toccarti come fossimo in vita; invece siamo eterni
e vediamo ogni specie di fiore e di pianta e di animale
e il cavallo che tanto ha faticato è lì anche lui e quieto.
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C’È UNA LIEVISSIMA BREZZA
C’è una lievissima brezza
mi specchio negli occhi dell’animale: tu cavallo, io uomo.
Ho un sigaro, una bombetta, una giacca scura;
una pancia: non somiglio a Pessoa. Sulla strada sono capace d’orgoglio,
per le mie storie le donne ridono nei fienili le notti d’inverno
quando s’infila il tabacco nei fili e si aspetta.
Ma ora non è l’inverno e la brezza leggera viene dal mare,
onde quiete sulla spiaggia, laggiù gli alberghi dei ricchi.
Su di un carro sbilenco trascorre la vita.
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CERTO DEL CAMMINO
Certo del cammino è il cavallo che si fida del padrone
che in realtà lo inganna: è lui che lo segue
come nella storia dei ciechi, ma tutti e due sanno bene
dove arriveranno alla fine. Non descriverò le fatiche
ma la compagnia che si fanno i due, alleati attempati,
come i santi russi camminano e camminano,
non vanno a Compostela, né a Gerusalemme;
vanno per le stradine sotto ai pioppi frangivento,
lungo i rigagnoli dove le erbe sono verdi e grasse e tagliano il cielo
che si specchia un po’ nei fiumicelli e le saracinesche si alzano
e si abbassano e fanno laghi e pozze anche profonde
come il pensiero che passa nella mente e non c’è più;
resta il freddo sapere intellettuale: uno strumento, una tecnica;
subito muoiono le sfumature, le sensazioni, il gusto, la passione, la vita.
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NOTTE
I campi non hanno nome, si chiamano tutti campi,
come i prati che si chiamano prati ma tutti hanno
l’impronta dell’uomo: l’aratro e la falce per la sua fatica;
i recinti, le sbarre e le reti per la sua brama,
il camposanto per la sua paura; e qui mi sono fermato,
ho staccato il cavallo, ho acceso un fuoco, ho aspettato la sera.
Scendono le ombre scure, si avvicinano le mani dei morti,
i volti di quelli conosciuti, quelli pianti, quelli dimenticati,
si avvicinano e sono come il freddo che sale dalla terra,
certe volte è terrificante la nebbia, e i rumori sembrano passi:
allora ho paura di morire, di essere così totalmente solo a morire,
ho paura delle mani dei morti che sono fredde e mi toccano la barba
per rubarmi il caldo: certo che ce n’è ancora tanto
di caldo in questo corpo ! andate via: non per voi
ma per la vita suonerò l’ocarina per tutta la notte!
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NOI NON SAPPIAMO
Noi non sappiamo cosa abbiamo nel corpo,
dicono alcuni che non c’è solo materia;
io appena posso li guardo bene i corpi nudi delle donne
e sono particolarmente luminosi, sono lisci
e dentro, sotto la pelle, sembra esserci qualcosa di nascosto,
imprendibile, inesplicabile, di più profondo che l’intelligenza
e il sapere; e di smisurato; come quando il cavallo
che ho qui, (è una cavalla), si spazientisce tutta
per via di qualcosa che la muove verso un infinito
che sembra dietro l’angolo ma che solo i cavalli vedono,
è l’infinito dei cavalli, negli uomini ce n’è uno
maggiore, più contorto e strano, straziante quasi;
e spaventoso se ci mettiamo davvero a crederci
che possiamo assassinarci tra di noi perché Dio,
che è infinito, lo vuole.
Io mi baso su quello che vedono gli occhi
e percepiscono i sensi: delle parole non mi fido troppo,
possono essere voltate e rivoltate a piacimento dai furbi:
guardo giù verso il mare e non mi pare che voglia assassinarmi;
chiede rispetto, mi dice di stare all’erta, comunica la sua grandezza,
e dicono che anche il sole va morendo:
si vive e si muore, meglio sarebbe vivere in pace.
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ALLA SCONOSCIUTA
La più misteriosa è delle Dolomiti, o di Sanremo, o di Pisa.
Ha sorriso e l’ho fatta salire, andavamo in avanti pian piano
e non sapevo ancora il nome della cavalla, ma non lo chiese
e non volle sapere neppure il mio, né io il suo.
Le pozze e le buche facevano traballare le cose:
il cervello nella scatola cranica, la penna nel taschino,
la cipolla alla sua catena e la treccia d’aglio al chiodo dov’era.
Poi è scesa d’un tratto e non l’ho vista mai più.
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HO FAME
Immagino spesso come vivono i ricchi coi camini
e l’interno tiepido e suona sempre un violino
e nelle camere si muovono senza fare rumore,
senza urtarsi, senza neppure lasciare un odore;
con tanti figli tutti bene curati e educati e sani,
ho immaginato le bellissime donne spogliarsi e curarsi,
lasciarsi amare, amare, addormentarsi. Fanno tutto
sottovoce e con calma e senza spargere sentore,
o quando vanno giù negli alberghi dei mari
che sono tutto servizi e cerimonie deve essere un piacere
esserci con l’abito scuro, il farfallino e l’anello col nome
sulla pietra nera grossa come un fagiolo
e l’inchino quando il garçon porge il vino
e salatini e pizzette e tartarughine viziate di senape nera,
foie gras di serpente in un letto di noci, nocciole
di fritto bollito e timballo di polipi in sugo di carne,
polpaccio di miele al profumo di piede di porco
mandibole secche di bufala al latte di corva,
minestra di semi spaccati e sputati da denti avariati,
ditate nell’occhio alla greca, unghiette infilate in detriti di schiuma
e per finire carciofi di campo gelati con brina di carne in lattina:
ho fame .
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PRIMI GIORNI DELL’ANNO
Entro nelle città di questo anno nuovo
e rallento con un ööh, öh, e un tchi tchi la cavalla
e tiro le redini e sul selciato bagnato sdruciolano
le parole vecchie in strisce di propaganda che si ripetono,
sento che è come un piombo la tristezza sulle persone
che camminano sotto i portici e vedo il fiato umido delle bestie ferme,
e i fattorini e gli operai incerti, anche loro fermi. Soltanto le nuvole
sono allegramente scure nel circo del cielo a cui i cavalli partecipano
con grandi piumaggi e giravolte e evoluzioni e girano e rigirano
come le parole che diventano di giorno in giorno più vecchie, purtroppo.
Il lucido dell’acciottolato riflette sempre più ombre di statue di uomini
sempre più arroganti a cui dovrei rispetto: entro in quelle città
i giorni nuovi di ogni anno nuovo, ed esco con sempre più paura addosso.
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SO LEGGERE
So leggere. Rubo libri usati a straccivendoli
o li cambio con piccoli favori: un trasporto, una mano al trasloco.
Le parole si susseguono al ritmo dello zoccolo che batte la terra;
leggo fin che non sento rumori lontani:
l’immensa Hispano-Suisse di Picasso
mi ha strombazzato in Francia una volta - il mio cavallo,
(una femmina) è docile e dolce da sempre ha paura
del caos. Oggi ho rubato il libretto di un bravo poeta :
la vita in sogno ho scòrta¹, dice in un suo verso
e la Gazzetta del Popolo, 3 marzo:
migliaia gli abissini uccisi. Le tre giornate di Tembien.
Hanno offerto oro alla patria. Sciangai di notte.
L’Italia esce dalla lega delle Nazioni. Direttive del Duce.
¹ Valerio Abbondio, La porta, in “Betulle”, 1922
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Gazzetta del Popolo, 4 marzo:
Nella notte, in un luogo non meglio precisato non lontano dalla
città, la Polizia Politica in Difesa dello Stato ha arrestato un
uomo, l’accusa è di attività sognativa, di istigazione al libero
sogno, di apologia di reato contro il sistema tecnologico,
concettuale politico e religioso, e di incitamento alla quiete.
L’anarchico è stato sorpreso sul suo carro mentre dormiva ai
bordi di un cimitero, aveva chiamato la sua cavalla “Libera”….
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“Ci fosse un’altra vita”
di Agostino Colombo
è il n. 13 della collana Quadra.
L’immagine è di un fotografo anonimo d’inizio ‘900
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